Partito Comunista Internazionale Dall’Archivio della Sinistra

Terza Internazionale (Comunista)
Settima Sessione dell’Esecutivo Allargato
Ventesima seduta – 9 dicembre 1926, sera

 

Discorso di Trotski


 
 
 

Compagni, anzitutto, vi chiedo di non limitare il tempo a mia disposizione. Le questioni dell’ordine del giorno girano attorno ad un’asse, attorno a quello che viene chiamato trotskismo. Un giovane compagno ha fatto, molto opportunamente, il totale della lista degli oratori – e questa lista è ancora incompleta – che hanno qui parlato di quello che viene chiamato il trotskismo: Bucharin, Kuusinen, Treint, Pepper, Birch, Stern, Brand, Remmele, senza parlare del rapporto di tre ore del compagno Stalin.

La discussione che si conclude qui è molto originale. A gennaio di quest’anno, il nostro Comitato Centrale si è rivolto a tutti i partiti fratelli dicendo loro: «Il Comitato Centrale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica è assolutamente unanime nel riconoscere che è indesiderabile portare la discussione della questione russa in seno all’Internazionale Comunista».

Così, questa discussione internazionale non ha avuto luogo ufficialmente, perlomeno noi non vi abbiamo partecipato. Si vuole qui concludere questa discussione, ufficialmente mai iniziata, con un atto d’accusa contro il trotskismo.

La teoria del trotskismo è fabbricata artificialmente, a dispetto delle mie intenzioni, delle mie convinzioni e delle mie vere opinioni. Per dimostrarvi che io non sono il redattore politico responsabile della dottrina del trotskismo che mi si attribuisce, io vi chiedo di darmi un tempo limitato (almeno due ore).

(Il compagno Trotski ottiene un’ora).

Compagni, ho preso la parola su questa questione della massima importanza, benché oggi, nel nostro organo centrale, la Pravda, si possa leggere un editoriale in cui il solo fatto che Zinoviev abbia pronunciato, qui, un discorso è interpretato come un tentativo di azione frazionistica. Io ritengo che ciò non sia giusto. La decisione dell’Esecutivo Allargato dell’Internazionale comunista, in merito alla proposta del compagno Riese (che chiedeva si desse la parola ai rappresentanti dell’Opposizione del Partito comunista dell’Unione Sovietica) è stata concepita e adottata con tutt’altro spirito. Anche i discorsi dei compagni Thälmann e Ercoli suonavano ben diversamente ed anche la lettera del nostro Comitato centrale, che è stata letta oggi, non dice che, col nostro intervento, noi violiamo la nostra dichiarazione del 16 ottobre. No, non è così. Se il Comitato centrale avesse fatto questa dichiarazione, io non avrei chiesto la parola. È vero che il Comitato centrale ha detto che il nostro intervento può dar luogo ad una recrudescenza del lavoro frazionistico, ma ci ha permesso di decidere noi stessi quello che dovevamo fare. La dichiarazione del Comitato centrale ricorda che al V Congresso, malgrado proposte dirette, mi rifiutai di parlare, basandomi sul fatto che il XIII Congresso del nostro partito si era già pronunciato sulle questioni controverse di allora. Compagni, devo tuttavia ricordarvi, che il V Congresso, nella sua presa di posizione, mi ha biasimato proprio perché io non ho voluto parlare. Questa dichiarazione diceva che io mi basavo su considerazioni puramente formali invece di esporre il mio punto di vista davanti alla massima assemblea dell’Internazionale.

Se Zinoviev ed io dichiariamo che il nostro intervento non è un appello, noi vogliamo con ciò esprimere un concetto ben chiaro, e cioè che, primo, noi non proponiamo alcuna risoluzione e che, secondo, per quel che dipende dalle nostre intenzioni e dalle nostre azioni, noi faremo di tutto perché i concetti che esprimiamo non spingano i compagni che simpatizzano per noi sulla via della lotta di frazione, ma, al contrario, li spingano a rinunciare al frazionismo. L’affermazione che il nostro intervento in sé stesso sia una violazione al nostro impegno del 16 ottobre è falso, perché la dichiarazione del 16 ottobre e la risposta del Comitato centrale ci lasciano ogni possibilità di difendere le nostre idee coi mezzi normali previsti dagli statuti.

Compagni, ho già detto che l’asse della discussione è quello che viene chiamato trotskismo. Il nostro eccellente presidente mi ha male interpretato quando ho detto che ho la pretesa di essere personalmente al centro della discussione. Non è affatto così. Si tratta di una questione politica e non personale. Ma questa questione politica, come ho già detto, è, contro la mia volontà e senza ragione, ricollegata alla mia persona, al mio nome, e non da me ma dai compagni che criticano le mie opinioni.

Il rapporto Stalin, almeno nella sua prima metà che è apparsa sulla Pravda d’oggi, non è che un’accusa di trotskismo rivolta alla opposizione.

Questa accusa poggia su citazioni – tratte da un’attività politica e giornalistica d’alcune decine d’anni – e si sforza con artifici d’ogni sorta, di estrarre, da vecchie discussioni sepolte da molto tempo dal susseguirsi degli avvenimenti, delle risposte belle e pronte alle questioni attuali, che sono sorte davanti a noi e a tutta l’Internazionale in una fase completamente nuova della nostra vita politica e sociale. E, ancora, tutta questa impalcatura artificiale poggia sul fatto che, nella mia vita politica, nella mia attività politica, per un certo numero di anni, sono stato fuori dal Partito bolscevico e che in certi momenti ho lottato violentemente contro di esso e contro le posizioni essenziali di Lenin. Ero io che sbagliavo! Il fatto che io ho aderito al Partito bolscevico – evidentemente senza "condizioni", perché il Partito bolscevico non conosce condizioni nell’ambito del programma, della tattica, dell’organizzazione e dell’adesione – questo fatto da solo dovrebbe testimoniare che ciò che mi separava dal bolscevismo è rimasto fuori della porta del Partito.

(Interruzione di Remmele: – Come si può lasciare una cosa simile fuori dalla porta del Partito!)

È evidente, compagni, che non si può intenderlo nel senso formale che gli dà il compagno Remmele. La mia opinione è che le divergenze e i contrasti furono da me superati durante e con l’esperienza della vita politica, e gli elementi non bolscevichi della mia attività furono sconfitti dai fatti e dall’esperienza ideologica che ne derivò prima che io superassi la soglia dal Partito. Naturalmente, riconosco volentieri al compagno Remmele – e a tutti gli altri – il diritto di considerarsi il miglior bolscevico, il comunista più rivoluzionario, ma non è di questo che si tratta. Io solo sono responsabile della mia vita politica. Il Partito mi riconosce solo come membro, ed è unicamente per questo motivo che difendo da questa tribuna un certo compendio di idee.

Le divergenze del periodo in cui ero fuori del Partito bolscevico furono abbastanza profonde. Essenzialmente, queste divergenze si riferivano alla valutazione concreta dei rapporti di classe in seno alla società russa e, di riflesso, alle prospettive della rivoluzione vicina e del suo trapasso dalla fase democratica alla fase socialista. È a questo che si riferisce la questione che è chiamata la rivoluzione permanente. D’altra parte, le divergenze riguardavano i metodi e le vie della costruzione del Partito e l’attitudine verso il menscevismo. In queste due questioni – l’ho dichiarato per iscritto, quando mi fu richiesto – in queste due questioni, i compagni che si trovano qui sono lontani dall’aver avuto tutti ragione nei miei confronti. Ma Lenin, la sua dottrina e il suo Partito avevano certamente ragione contro di me. Rispondendo a dei compagni che avevano dubbi in merito, scrivevo: «Partiamo dal fatto che, come ha irrefutabilmente dimostrato l’esperienza, in ogni questione che assumeva almeno in parte un carattere di principio e sulla quale uno di noi si è separato da Lenin, è incontestabile Vladimir Ilijc che aveva ragione». E ancora: «Nella questione dei apporti tra il proletariato e i contadini, noi ci poniamo ugualmente sul terreno della dottrina teorica e tattica che Lenin formulò basandosi sull’esperienza delle rivoluzioni del 1905 e del 1917 e sull’esperienza della costruzione socialista (alleanza degli operai e dei contadini)».

La teoria che s’introduce in modo completamente artificioso contro gli interessi della causa in discussione – la teoria della rivoluzione permanente – io non la concepivo, anche quando non ne vedevo tutti i difetti, come una teoria universale, valida per tutte le rivoluzioni, come una teoria sovrastorica per usare una espressione di Marx in una sua lettera. Il punto di vista della rivoluzione permanente era allora applicato da me ad una ben determinata tappa della evoluzione storica della Russia.

Conosco solo un lavoro – del quale sono venuto a conoscenza soltanto alcune settimane fa – che tenta di fare di questa teoria una dottrina universale, dandogli il carattere di una revisione della posizione teorica di Lenin. Vi leggerò questo brano. Inutile dire che non ho nulla in comune con questa interpretazione: «Il bolscevismo russo, nato nell’ambito di una rivoluzione nazionale limitata, la rivoluzione del 1905-1906, doveva attraversare un processo di epurazione degli aspetti tipici delle caratteristiche nazionali per aver diritto di cittadinanza come ideologia internazionale. Teoricamente, questo lavoro d’epurazione del bolscevismo dal suo aspetto nazionale fu fatto nel 1905 da L.D.Trotski che si sforzò di collegare la rivoluzione russa a tutto il movimento internazionale del proletariato mediante l’idea della rivoluzione permanente in Europa». Non sono io a scrivere questo. È stato scritto nel 1918, da un compagno di nome Manouilskij.

(Interruzione di Manouilskij: – Ho scritto una bestialità e voi la ripetete).

Una bestialità? Sono pienamente d’accordo con voi. (Risa). Ma voi, compagni, non dovete in ogni caso inquietarvi riguardo al compagno Manouilskij, sebbene, evidentemente, sia spiacevole essere obbligati chiamare bestialità la propria opinione. Ma Manouilskij che, senza alcuna ragione, mi attribuisce un grande merito eroico, mi attribuirà immediatamente due o tre errori altrettanto poco meritati e, in questo modo, chiuderà il suo bilancio. (Risate).

Compagni, ancora una volta durante questi ultimi anni, ho incontrato la teoria della rivoluzione permanente, e qui precisamente sotto la forma caricaturale che gli viene ogni tanto attribuita, retrospettivamente. Fu al III Congresso. Ricordate la discussione che si svolse riguardo al mio rapporto sulla situazione internazionale e sui compiti dell’Internazionale Comunista. Mi si accusava allora di difendere delle tendenze cosiddette liquidatrici, sebbene io le difendessi in pieno accordo con Lenin contro numerosi compagni che affermavano che la crisi del capitalismo del dopoguerra si sarebbe sviluppata e aggravata continuamente. Le affermazioni secondo le quali noi non dobbiamo perdere di vista la possibilità di tendenze di stabilizzazione delle variazioni congiunturali nel senso di miglioramenti provvisori dell’economia capitalistica e che da ciò noi dobbiamo trarre delle deduzioni tattiche, erano allora stigmatizzate da qualcuno di questi ultra-sinistri quasi come semi-mensceviche. In primo luogo, fu il compagno Pepper che lo fece e che, se ricordo bene, apparve allora per la prima volta sulla scena dell’Internazionale.

(Interruzione di Pepper: Voi foste obbligato ad accettare i miei emendamenti alla rivoluzione).

Ah bah! Dato che il compagno Pepper, a dispetto del tempo limitato che mi è stato accordato, mi interrompe, dal Presidium, devo ricordarvi che noi conosciamo tre vangeli di Pepper. Il primo vangelo, proclamato al III Congresso, diceva: la rivoluzione russa ha bisogno di un’attività rivoluzionaria permanente, cioè ininterrotta in Occidente, e questo perché Pepper difendeva la tattica errata dell’azione di marzo (nel 1921, in Germania).

In seguito, Pepper è andato in America e ci ha portato una seconda Annunciazione. L’Internazionale deve sostenere il partito borghese di La Follette, perché in America, diceva lui, la rivoluzione non sarà fatta dagli operai, ma dai farmers rovinati. Questo era il secondo vangelo.

Il terzo vangelo, noi lo sentiamo oggi. Esso afferma che la rivoluzione russa non ha più bisogno né della rivoluzione dei farmers in America, né dell’azione di marzo in Germania, perché può essa stessa, con le proprie riserve, costruire il socialismo integrale. Per farla breve, è una specie di dottrina di Monroe, adattata alla costruzione del socialismo in Russia. Ecco il terzo vangelo di Pepper. A dispetto dei miei capelli bianchi, sono pronto ad andare a scuola da Pepper, ma non sono tuttavia capace di cambiare ogni due anni così radicalmente quello che ho imparato.

Compagni, io non penso, in generale, che il metodo biografico possa condurci alla soluzione delle questioni di principio. È certamente incontestabile che io abbia fatto degli errori in molte questioni, soprattutto durante la mia lotta contro il bolscevismo. Ma è dubbio che si debba trarre da ciò la conclusione che le questioni politiche debbano essere considerate non per il loro contenuto, ma sulla base delle biografie, perché allora bisognerebbe chiedere che tutti i delegati presentino le loro biografie... Quanto a me, posso rapportarmi ad un importante precedente. In Germania viveva e combatteva un uomo che si chiamava Franz Mehring e che soltanto dopo una lotta lunga ed energica contro la socialdemocrazia (non è passato molto tempo da quando ci chiamavamo tutti socialdemocratici), in età matura, aderì al Partito socialdemocratico. Mehring scrisse prima la storia della socialdemocrazia tedesca, da nemico – non da lacchè del capitale, ma da avversario d’idee – e in seguito l’ha trasformata in una magnifica opera sulla socialdemocrazia tedesca di cui era diventato l’amico fedele. D’altra parte, Kautsky e Bernstein non hanno mai lottato apertamente contro Marx ed entrambi sono stati a lungo sotto l’influenza di Federico Engels. Bernstein è anche conosciuto come il fidecommissario letterario d’Engels. Ciononostante, Franz Mehring morì da marxista, da comunista, mentre gli altri due, Kautsky e Bernstein, vivono ancora da cani riformisti. L’elemento biografico ha ancora la sua importanza, ma non decide nulla di sé stesso.

Nessuno di noi ha una biografia impeccabile e immacolata. Lenin, nella sua vita, ha fatto meno errori di chiunque altro, ma anche lui ne ha commessi. Quanto a noi, quando lottavamo contro Lenin, avevamo sempre torto, quando si trattava di questioni importanti di principio.

Stalin, che ha qui elencato gli errori degli altri, si è dimenticato di raccontare i suoi. Se la "rivoluzione permanente" era falsa per quanto si distingueva dalle giuste opinioni di Lenin, aveva in sé qualcosa di giusto ed è quello che mi ha permesso di arrivare al bolscevismo.

La "rivoluzione permanente", in particolare, non mi ha impedito, dopo l’esperienza della lotta contro il bolscevismo – in cui, come ho già detto, io avevo torto – d’indicare nell’essenziale la stessa linea di principio che Lenin sviluppò e realizzò alla testa del Partito. Stalin, dopo la rivoluzione di febbraio, consigliava una tattica falsa (in un articolo sulla Pravda e nella risoluzione sull’appoggio incondizionato al governo provvisorio) che Lenin definì deviazione kautskista. Nella questione nazionale, nella questione sul monopolio del commercio estero, nella questione sulla dittatura del Partito, ecc., Stalin ha commesso in seguito gravi errori. Ma io penso che l’errore più grave, quello che commette ora, sia la sua teoria del socialismo in un solo paese.

La storia di questa questione è stata ben esposta da Zinoviev e sono convinto che tutti i compagni che s’impegneranno a studiare la questione – non da un punto di vista formale, solo attraverso citazioni, evidentemente, ma studiando lo spirito dei testi da cui provengono le citazioni – arriveranno inevitabilmente alla conclusione che la tradizione del marxismo e del leninismo è interamente dalla nostra parte. Ma la tradizione da sola non risolve, tuttavia, la questione. Si può dire: dal punto di vista marxista, noi ci vediamo obbligati a sottomettere ad una revisione le vecchie posizioni sulla possibilità o sull’impossibilità di costruire il socialismo in un solo paese. Che lo si dica! Secondo me, non vedo alcuna ragione di farlo. La vecchia posizione conserva, a mio avviso, tutto il suo valore. Io penso che più questo soggetto viene sviluppato – ora è una questione molto importante per tutta l’Internazionale e proprio per questo penso sia mio dovere prender qui la parola – più il soggetto viene sviluppato e più i portavoce della nuova teoria si mettono in contraddizione non solo con le tesi fondamentali della nostra dottrina ma anche con gli interessi politici del nostro lavoro.

Compagni, la premessa di questa teoria è l’ineguale sviluppo imperialista. Stalin mi accusa di non riconoscere o di non riconoscere sufficientemente questa legge. È falso! La legge dello sviluppo ineguale non è una legge dell’imperialismo, è una legge di tutta la storia umana. Lo sviluppo capitalista, nel suo primo periodo, fece risultare al massimo lo scarto fra il livello economico e "culturale" raggiunto dalle varie nazioni. Lo sviluppo imperialista, cioè la nuova fase del capitalismo, non ha aumentato questo scarto, ma, al contrario, ha sensibilmente contribuito al livellamento. Questo livellamento non potrà mai essere neanche per poco completo. La differenza tra le velocità di sviluppo distruggerà ogni volta il livellamento, ed è questo che rende assolutamente impossibile un capitalismo stabilizzato ad un determinato livello.

Lenin attribuiva l’ineguaglianza, insomma, a due fattori: 1° la velocità, 2° il livello di sviluppo economico e "culturale" dei diversi paesi. Per quel che riguarda la velocità, l’imperialismo ha spinto l’ineguaglianza ad un altissimo grado. Ma è proprio nel livello dei diversi paesi capitalisti che la differenza di velocità ha portato delle tendenze al livellamento. Chi non comprende questo, non comprende il nocciolo del problema. Prendete l’Inghilterra e l’India. In alcune zone dell’India lo sviluppo capitalistico procede più velocemente di quanto non andasse lo sviluppo capitalistico inglese agli inizi. Ma la differenza, la distanza economica tra l’Inghilterra e l’India, è più grande o più piccola di cinquanta anni fa? È minore. Prendete il Canada, l’America del Sud e il Sudafrica, da una parte, e l’Inghilterra dall’altra. Lo sviluppo del Canada, dell’America del Sud e del Sudafrica, nell’ultimo periodo, si è realizzato ad una velocità vertiginosa. Mentre per lo sviluppo dell’Inghilterra, c’è stagnazione e anche declino. Da questo punto di vista, la velocità è la più ineguale di tutta la storia. Ma i livelli di sviluppo di questi paesi sono molto più vicini di trenta o cinquanta anni fa.

Che cosa dobbiamo dedurne? Dei risultati importantissimi. Proprio il fatto che in alcuni paesi arretrati la velocità di sviluppo è diventata, nell’ultimo periodo, febbrile e in alcuni paesi capitalistici, al contrario, lo sviluppo rallenta o addirittura regredisce, proprio questo fatto esclude completamente la possibilità di realizzazione dell’ipotesi di Kautsky relativa ad un super-imperialismo, organizzato secondo un piano sistematico, tra l’altro perché, per il fatto che diversi paesi tendono a livellarsi – senza tuttavia raggiungere l’uniformità – essi sviluppano bisogni uguali (riguardo agli sbocchi commerciali, alle materie prime, ecc.) e rivalità identiche. È proprio per questo che il pericolo di guerra diventa sempre più acuto e le guerre stesse devono assumere dimensioni gigantesche. Ed è proprio questo che determina e rende ancora più profondo il carattere internazionale della rivoluzione proletaria.

L’economia mondiale, compagni, non è una formula vuota, ma una realtà che, durante gli ultimi venti o trenta anni, si è gradualmente consolidata, proprio grazie alla velocità accelerata dello sviluppo dei paesi arretrati e d’interi continenti. È un fatto cardinale ed è proprio per questo che anche il tentativo di considerare la sorte politica ed economica di un paese isolato, svincolandolo dai legami e dalle interdipendenze con l’insieme economico mondiale, è completamente falso. La legge dello sviluppo ineguale confuta completamente la teoria del socialismo in un solo paese.

Cos’è stata la guerra imperialista? Una rivolta delle forze produttive non solo contro le forme borghesi di proprietà, ma anche contro i confini degli Stati capitalisti. La guerra imperialista dimostrava che le forze produttive si sono trovate intollerabilmente allo stretto nei confini degli Stati nazionali. Noi abbiamo sempre affermato che il capitalismo non è in grado di dominare le forze produttive che ha sviluppato e che soltanto il socialismo può far entrare le forze produttive, senza superare gli inquadramenti degli Stati capitalisti [sic], in un insieme economico più elevato. Le vie per tornare allo Stato isolato sono troncate.

Cosa era la Russia prima della rivoluzione, prima della guerra? Era un paese isolato? No, essa era una parte integrante dell’economia mondiale capitalista. È questo il fatto essenziale. Se si ignora questo, si ignora la base di tutti i calcoli sociali e politici. Perché la Russia, a dispetto della sua economia ritardataria, è stata trascinata nella guerra mondiale? Perché con l’intermediazione del capitale finanziario aveva legato per sempre la sua sorte a quella del capitalismo europeo. Non poteva avere altra strada.

E vi domando, compagni, chi ha permesso alla classe operaia russa di prendere il potere? Innanzi tutto, evidentemente, la rivoluzione agraria. Senza la rivoluzione agraria, senza la "guerra contadina" – è proprio questo che Lenin ha genialmente previsto in anticipo e determinato teoricamente – il proletariato sarebbe stato incapace nel nostro paese di impadronirsi del potere politico.

Ma nelle altre rivoluzioni, le guerre contadine portavano al potere il proletariato? Nel migliore dei casi vi portavano la borghesia. Perché dunque la nostra borghesia non ha saputo impadronirsi del potere? Perché era parte integrante della borghesia mondiale, perché, insieme a tutta la borghesia imperialista, è entrata nella fase discendente, prima di avere il potere, perché la Russia capitalista era parte integrante dell’imperialismo mondiale, e, inoltre, l’anello più debole della catena. Se il vecchio Stato russo fosse rimasto isolato, se la Russia fosse rimasta fuori dall’evoluzione mondiale, fuori dall’imperialismo, fuori dal movimento del proletariato mondiale, se non avesse conosciuto né la dominazione del capitale finanziario in economia, né il dominio ideologico del marxismo nell’avanguardia del proletariato, essa non avrebbe mai potuto, con le "sue proprie forze", arrivare rapidamente alla rivoluzione proletaria.

E sarebbe totalmente falso credere che, dopo che la classe operaia si è impadronita del potere, essa possa isolare il paese dall’economia mondiale con la stessa facilità con la quale girando un commutatore si toglie corrente elettrica.

La premessa del socialismo è l’industria pesante e la costruzione di macchine: sono le leve principali del socialismo. Spero che su questo si sia tutti d’accordo. A che punto siamo, domandiamoci, con l’attrezzatura tecnica delle nostre fabbriche e delle nostre officine? Dai calcoli statistici di un uomo autorevole, Wazar, l’attrezzatura della nostra industria prima della guerra era composta per il 63% da macchine importate. Solo un terzo dell’attrezzatura era di produzione nazionale e questo terzo era composto dalle macchine più semplici, perché quelle più complesse e più importanti venivano dall’estero. Ne consegue che quando voi passate in rassegna l’attrezzatura tecnica delle nostre officine potete verificare con i vostri occhi, materializzata, la dipendenza della Russia – come dell’Unione Sovietica – dall’economia mondiale. Chi non presta attenzione a queste cose, chi ragiona su questa questione lasciando da parte la base economica e tecnica e i rapporti economici mondiali, si lascerà inevitabilmente imprigionare dalla pura astrazione e dalle citazioni prese a caso.

Negli ultimi dieci anni, non abbiamo quasi rinnovato il capitale fondamentale della nostra industria. Durante la guerra civile e il comunismo di guerra, non abbiamo importato nessuna macchina dall’estero. Apparentemente questo ha portato alcuni a pensare che l’attrezzatura tecnica della nostra industria appartenga alle ricchezze naturali del nostro paese e che si possa, su questa base "naturale", costruire isolatamente il socialismo fino alla sua realizzazione completa. Ma è un’illusione. Noi siamo alla fine del periodo detto di ricostruzione. Ci stiamo avvicinando al livello di prima della guerra.

Ma la fine del periodo di ricostruzione è allo stesso tempo l’inizio della ricostruzione dei nostri legami materiali con l’economia mondiale. Noi dobbiamo rinnovare il nostro capitale di base che, ora, sta attraversando una crisi. Chi pensa che noi possiamo, nei prossimi anni, costruirci da soli tutte le nostre attrezzature, o una parte considerevole delle attrezzature, è un illuso. L’industrializzazione del nostro paese, che il XIV Congresso ha elevato a compito essenziale del Partito, significa, per il futuro immediato e abbastanza lungo, non il dominio [sic] ma al contrario l’aumento dei nostri legami con il mercato mondiale, e questo significa, conseguentemente, una dipendenza crescente (reciproca, naturalmente) dal mercato mondiale, dal capitalismo, dalla sua tecnica e dalla sua economia, e una lotta crescente contro la borghesia mondiale. Questo significa che non si può separare la questione dell’edificazione del socialismo da noi da quella di conoscere ciò che avverrà durante questi anni nell’economia capitalistica. Queste due questioni sono indissolubilmente legate.

Se qualcuno ci dice: «Ma, cari amici, potete costruire macchine voi stessi», io risponderei: «Certamente, se tutto il mondo capitalista crollasse oggi, tra dieci o venti anni noi costruiremmo molte più macchine di quelle che costruiamo attualmente». Se noi volessimo "fare astrazione dal mondo capitalista" – che tuttavia esiste – e se ci proponessimo come compito di produrre tutte le macchine, o almeno le più importanti, a breve scadenza, con le nostre proprie mani, cioè se tentassimo di ignorare la divisione del lavoro nell’economia mondiale e di sorvolare sulla storia economica precedente, che ha creato la nostra industria quale essa è; per farla breve, se noi ci impegnassimo sulla strada della dottrina "socialista" di Monroe, di cui si parlava, e facessimo tutto noi stessi, questo implicherebbe una grandissima diminuzione della velocità del nostro sviluppo economico. Poiché è naturale che il rifiuto di utilizzare il mercato mondiale per colmare le lacune delle nostre attrezzature renderebbe certamente lento il nostro sviluppo.

Eppure, la velocità di sviluppo è un fattore decisivo, poiché, comunque, noi non siamo soli sulla Terra: lo Stato socialista isolato, ora, esiste solo nella fantasia dei giornalisti e dei compositori di risoluzioni. In realtà, il nostro Stato socialista si trova sempre – direttamente o indirettamente – sotto il controllo relativo del mercato mondiale. È questo il nocciolo della questione. La velocità di sviluppo non è arbitraria. Essa è determinata da tutto lo sviluppo mondiale, perché, in ultima istanza, l’economia mondiale controlla ogni sua parte, anche se una di queste parti è retta dalla dittatura del proletariato, anche se essa costruisce l’economia socialista.

Per industrializzare il paese, noi abbiamo bisogno di importare macchine. Il contadino ha bisogno di esportare il grano e altri prodotti. Se noi non esportiamo, non possiamo importare. E, d’altra parte, il mercato interno non può assorbire tutti i prodotti dell’economia contadina. Siccome i bisogni dei contadini come quelli dell’industria ci hanno di nuovo fatto entrare nell’economia mondiale, i nostri legami e, quindi, la lotta con essa si rafforzano di mese in mese. Dalla situazione d’isolamento del periodo del comunismo di guerra, noi usciamo sempre più per entrare nel circuito dei legami e dei rapporti economici mondiali. E chi ragiona sulla teoria del socialismo in un solo paese ignorando completamente la "collaborazione" e la lotta della nostra economia con e contro l’economia capitalista mondiale, fa della pura metafisica.

Compagni, la discussione condotta un po’ unilateralmente sull’argomento, finora, ha ugualmente avuto il buon risultato di obbligare Stalin a formulare con un po’ più di chiarezza e precisione le proprie idee e quindi svelare tutta l’inconsistenza della sua posizione. Prendo il passo essenziale della prima metà della relazione di Stalin dove l’inconsistenza, per così dire, è messa nero su bianco. Stalin dice: «La vittoria del socialismo è possibile nell’Unione Sovietica? Ma cosa significa costruire il socialismo, se si traduce questa formula nel linguaggio concreto dei rapporti di classe? Costruire il socialismo in Unione Sovietica, significa vincere, nel progredire della lotta, con le nostre proprie forze, la nostra borghesia sovietica (notate bene questa espressione! – L.T.). Per questo quando si chiede se è possibile costruire il socialismo in Unione Sovietica, si vuol dire: il proletariato dell’Unione Sovietica è capace di vincere con le proprie forze la borghesia dell’Unione Sovietica. È così, solo così che si pone la domanda, quando si risolve il problema dell’edificazione del socialismo nel nostro paese. Il partito risponde sì a questa domanda».

Qui, in questo modo, si riduce tutta la questione se noi siamo nella situazione di vincere la nostra propria borghesia, e facendo credere che stia in ciò la soluzione della questione dell’edificazione del socialismo. No, non è vero! L’edificazione del socialismo presuppone la soppressione delle classi, la sostituzione della società di classe con un’organizzazione socialista di tutta la produzione e di tutta la distribuzione. Si tratta di vincere gli antagonismi tra città e campagna, e questo, a sua volta, richiede una industrializzazione profonda dell’agricoltura stessa. E tutto questo nelle condizioni dell’accerchiamento capitalista che continua. Non si può identificare questa questione con la sola vittoria contro la borghesia interna.

Per "vittoria del socialismo", abbiamo, a più riprese, inteso altre cose. Così, quando Lenin, parlando dell’Europa occidentale, scriveva, nel 1915, che il proletariato di un paese isolato può prendere il potere, organizzare la produzione socialista e, in seguito, accettare il combattimento contro la borghesia degli altri paesi, cosa intendeva qui per organizzazione della produzione socialista? Ciò che in questi ultimi anni da noi già esiste: le fabbriche e le officine sono state strappate alla borghesia, l’indispensabile per assicurare la produzione statale è stato fatto, così che il popolo può vivere, costruire, difendersi contro gli Stati borghesi. È una vittoria del socialismo, è anche l’organizzazione della produzione socialista, ma la più primitiva. Da qui all’edificazione della società socialista c’è una grande, grandissima distanza, perché, ripetiamolo ancora, la vera edificazione del socialismo significa la soppressione delle classi e, in seguito, la estinzione dello Stato. Ed ecco Stalin che dice che noi possiamo assicurare l’edificazione del socialismo nel nostro paese, proprio nel senso completo, vincendo soltanto la nostra borghesia interna. Ma, compagni, lo Stato e l’esercito ci sono necessari contro il nemico esterno. Quindi, questo elemento resterà in ogni caso finché esisterà la borghesia mondiale.

Si può credere, poi, che noi possiamo, avvalendoci delle sole risorse interne, economiche e culturali, fondere il proletariato e il contadiname in una unica economia socialista, prima che il proletariato europeo prenda il potere. Per questo, com’è già stato detto, avremmo bisogno di portare ad un livello altissimo la tecnica, e ciò presuppone una crescente esportazione di grano e una crescente importazione di macchine. In quanto alle macchine, esse si trovano in mano alla borghesia mondiale, che è l’acquirente del nostro grano e delle nostre materie prime. È lei che detta per il momento i prezzi mondiali e quindi noi cadiamo sotto una certa dipendenza da essa e lottiamo contro di essa. Per vincere questa dipendenza non basta affatto vincere la nostra borghesia – politicamente, nel nostro paese, l’abbiamo rovesciata nel 1917 – ma si tratta di costruire, in mezzo all’accerchiamento capitalista, cioè nella lotta (politica, economica, militare) contro la borghesia mondiale, uno Stato socialista isolato. Questo non può verificarsi che nel seguente modo: le forze produttive di questo Stato isolato e ancora molto arretrato dovranno diventare più potenti delle forze produttive del capitalismo. Poiché, in quanto non si tratta di un anno, né di dieci anni, né di venti anni ma di parecchie decine di anni, necessarie all’edificazione integrale della società socialista, non ci si arriverà che alla condizione che le nostre forze produttive sorpassino quelle del capitalismo. Non si tratta, quindi, della lotta del proletariato nazionale contro la borghesia nazionale, ma della lotta a morte tra una società socialista isolata e il sistema capitalista mondiale. È così e solo così che bisogna porre la questione.

Ascoltiamo ora quel che segue: «Se questo fosse vero, dice Stalin, se il Partito non avesse ragione ad affermare che il proletariato dell’Unione Sovietica è capace di edificare il socialismo a dispetto della tecnica relativamente arretrata nel nostro paese, il partito non avrebbe alcuna ragione di restare al potere, esso dovrebbe abbandonare il potere, o passare, in qualche modo, ad una situazione di partito d’opposizione». E poi ripete: «Poiché di due cose l’una: o noi possiamo costruire il socialismo e in definitiva lo costruiremo, vincendo la nostra borghesia "nazionale" – e allora il partito deve restare al potere e dirigere la costruzione del socialismo nel nostro paese, in nome del socialismo mondiale; oppure non siamo in grado, con le nostre proprie forze, di vincere la nostra borghesia – e allora, vedendo l’assenza di un sostegno immediato (perché immediato? L.T.) dall’estero, da parte della rivoluzione vittoriosa negli altri paesi, noi dobbiamo senza esitazione e apertamente lasciare il potere e orientarci verso una nuova rivoluzione in Unione Sovietica. Il partito può mentire (perché mentire? L.T.) alla propria classe, in questo caso alla classe operaia? No, non può farlo. Un partito che lo facesse meriterebbe di essere distrutto. Ma proprio perché il nostro partito non ha il diritto di ingannare la classe operaia che deve dire francamente che la mancanza di convinzione (non la disfatta, ma la mancanza di convinzione L.T.) nella possibilità di edificare il socialismo nel nostro paese, porta all’abbandono del potere e al passaggio del nostro partito dalla posizione di partito dirigente a quella di partito d’opposizione».

Tutto questo è falso. Compagni, cosa diceva Lenin in merito?

(Interruzione di Kolarov, presidente, che dice all’oratore che il tempo a disposizione sta scadendo).

Ma mi è stato detto che avrei un’ora, come Zinoviev. Però l’ora di Zinoviev è durata un’ora e trentacinque minuti (Risa). Spero che me ne venga concesso altrettanto.

Non ho ancora detto la metà di quello che avevo da dire. Voi avete, evidentemente, la volontà di non lasciarmi finire, ma io mi accingo ad accennare soltanto alle questioni più scottanti.

Poiché abbiamo sempre affermato, compagni, che la nostra rivoluzione è una parte integrante della rivoluzione proletaria mondiale, che può prolungarsi nel tempo, ma la cui vittoria, che sarà la nostra vittoria, è assicurata. Abbiamo sempre stigmatizzato gli opportunisti patrioti, che si difendevano dicendo che il destino del socialismo è legato al loro paese preso isolatamente – indipendentemente dal sapere se quei patrioti civettavano con la rivoluzione o se, come la maggior parte di essi, rinunciavano completamente alla rivoluzione e si ponevano sul terreno del programma riformista.

D’altra parte abbiamo sempre affermato che il proletariato di un paese non ha il diritto di aspettare un altro paese se le circostanze gli permettono di andare avanti, di impadronirsi del potere, di sviluppare l’edificazione socialista, o di lanciarsi in un attacco militare o, più esattamente, l’uno e l’altro, perché è solo così che si sviluppa la rivoluzione mondiale. Il nostro partito, che dirige il proletariato, si è impadronito del potere, noi costruiamo il socialismo, noi diamo un esempio magnifico al proletariato mondiale, rinforziamo senza tregua economicamente e politicamente il nostro paese sulla via del socialismo. Per noi tutto questo è una cosa ovvia, è di questo che noi discutiamo?. Ma è proprio perché è così, proprio perché noi siamo una parte del proletariato mondiale, della rivoluzione mondiale, che partecipa attraverso la nostra edificazione al suo sviluppo vittorioso, è proprio per questo che noi non possiamo chiedere una specie di garanzia particolare che noi costruiamo nel nostro paese il socialismo indipendentemente dalla rivoluzione mondiale.

Ora, c’è ancora qualcuno che, avendo chiesto (a chi?) una garanzia e non avendola ricevuta, dice che dovremmo dare le dimissioni, ridurre la questione ad una crisi ministeriale e andare all’opposizione contro lo Stato sovietico. Non è un modo completamente falso di porre la questione?

Stalin stesso, non pensava quello che ha detto nel suo rapporto. Altrimenti, avrebbe dovuto, anche lui, dare le dimissioni da molto tempo. Poiché com’era fino a ieri? Zinoviev ha fatto una citazione di Stalin del 1924. Devo, però, ripeterla. Poiché se, senza avere una garanzia data a priori della possibilità di edificare il socialismo in un paese, noi dovremmo cedere tranquillamente il potere, io vi chiedo: come la mettiamo con Stalin, prima del 1924, non prima di Cristo, né prima dell’era imperialista, quando la legge dell’ineguaglianza dello sviluppo era a quel che si dice sconosciuta, ma soltanto due anni fa? Vi ricordo, ancora una volta, che Stalin scriveva quanto segue: «Per rovesciare la borghesia, bastano gli sforzi di un paese – tutta la storia della nostra rivoluzione ce lo mostra; per la vittoria definitiva del socialismo, per l’organizzazione della produzione socialista, gli sforzi di un paese, soprattutto di un paese contadino come la Russia, non bastano già più – per questo, ci vogliono gli sforzi di alcuni paesi avanzati».

Si, ma tuttavia nel 1924 noi non ci preparavamo a lasciare il potere e a passare all’opposizione contro lo Stato operaio. Pensateci un po’! Se la tradizione del nostro partito, se il bolscevismo, se il leninismo hanno veramente sempre preteso la fede nella possibilità di costruire il socialismo in un paese isolato e arretrato, senza la rivoluzione mondiale, se tutti quelli che non lo riconoscevano sono dei "social-democratici", come ha potuto verificarsi che Stalin, che doveva pure conoscere le tradizioni ideologiche del nostro partito data la sua esperienza, abbia potuto scrivere, nel 1924, frasi come queste? Vi prego di spiegarmelo.

Ecco un altro enigma. Il libro che ho in mano contiene il programma e gli statuti della nostra Federazione Comunista Leninista della Gioventù. Se mi sarà richiesto, depositerò questo libro al tavolo del Presidium. Nel settembre 1921, il programma fu approvato dal nostro partito per dirigere ed educare tutto il nostro movimento giovanile. Ed ecco che al paragrafo 4 del programma dei giovani comunisti leggiamo quanto segue. Vi prego d’ascoltare attentamente questo passo, soprattutto i compagni dell’I.C.G. dato che la Federazione della Gioventù sovietica è una sezione dell’Internazionale Comunista Giovanile: «In U.R.S.S., il potere dello Stato si trova già nelle mani della classe operaia. Durante tre anni di lotta eroica contro il capitale mondiale, essa ha salvaguardato e conservato il suo potere dei Soviet. La Russia, benché possieda immense ricchezze naturali, tuttavia è in paese arretrato dal punto di vista industriale, un paese dove domina la popolazione piccolo-borghese. Essa non può passare al socialismo che per mezzo della rivoluzione proletaria mondiale, nella cui epoca di sviluppo siamo entrati».

Cos’è questo? Pessimismo? Mancanza di fede? È forse trotskismo? Mi e terribilmente difficile rispondere. Ora, tutto questo è contenuto nel programma della nostra organizzazione giovanile, che attualmente raggruppa più di due milioni di giovani operai e contadini.

Quando, per difendere la nuova teoria del socialismo in un paese solo si dice: «Ma noi dobbiamo comunque dare delle prospettive ai nostri giovani» – è l’argomento favorito del compagno Stalin – «altrimenti, senza queste prospettive, la gioventù potrebbe cadere nel pessimismo, nella sfiducia e anche – Dio ce ne guardi! – nel trotskismo», io mi chiedo: Com’è possibile che tutte queste calamità non si siano verificate, dato che, da ben cinque anni, i Giovani comunisti hanno un programma così "trotskista"?

(Il compagno Kolarov, presidente, suona il campanello per annunciare che il tempo dell’oratore è scaduto).

Mi s’interrompe sempre nei punti più interessanti. Prego il Presidium e l’Assemblea di darmi se non altro i trentacinque minuti di cui ho parlato.

(Kolarov, presidente: – Il vostro tempo è scaduto).

Mi spiace infinitamente e non posso far altro che rassegnarmi al fatto che voi votiate la risoluzione che vi sarà proposta senza avermi sentito. Ma gli argomenti principali che volevo soltanto cominciare ad affrontare, benché non siano stati detti, conservano tutta la loro forza oggettiva. Poiché non siamo all’ultima assemblea della nostra Internazionale. E per quanto voi adottiate la risoluzione all’unanimità – non ho alcun dubbio in proposito, soprattutto dopo il discorso del compagno Smeral che, con cognizione di causa, ci ha accusati di deviazione "socialdemocratica" – tuttavia i fatti restano, i fatti mostreranno la loro forza e la forza dei fatti darà nuova forza ai nostri argomenti. Questa questione troverà ancora posto nelle sedute della nostra Internazionale, e non dubito che qualcuno, se non io sarà un’altro, svilupperà davanti all’Internazionale Comunista gli argomenti che voi non mi avete lasciato esporre oggi e che, ciononostante, conservano tutta la loro forza in questa questione fondamentale.
 

(da: La Correspondance Internationale, n° 6 del 14 gennaio 1927).