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Terza Internazionale IV Congresso, novembre 1922 |
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Parte prima
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Parte seconda - L’opera del P.C. tra il III e il IV Congresso dell’Internazionale Comunista
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Condizioni generali, economiche e politiche
Se si volesse indicare in un grafico la linea attuale di sviluppo della società italiana, bisognerebbe marcare con un tratto largo, e senza esitazione, una obliqua discendente a precipizio. L’Italia unisce in sé infatti nella sua crisi faticosa di dissoluzione gli elementi e le cause di rovina che, dal momento dell’armistizio del 1918, hanno separatamente esercitata la loro deleteria influenza nel gruppo degli Stati vincitori ed in quello degli Stati vinti.
Uscita dalla guerra sotto il peso e con l’aureola della vittoria, che la poneva d’un tratto al terzo posto nella scala delle potenze europee ed al quinto fra le potenze mondiali, essa si vide obbligata al ruolo di regolatrice degli avvenimenti internazionali coll’obbligo di crearsi e di conservarsi un’attrezzatura adatta alla grandiosa bisogna. La pace non segnò quindi per l’Italia la occasione propizia per alleggerire la sua pesante armatura bellica e d’altra parte la irresolubile questione fiumana e l’eterna guerriglia libica hanno imposta una ininterrotta parziale mobilitazione. Ma la gloria guerresca di cui la pace di Versailles donò un lembo anche all’Italia, non servì affatto a soddisfare il sentimento popolare che non aveva mai nutriti soverchi entusiasmi per l’intervento del 1915, né la sciocca incapacità dei governanti e dei diplomatici riuscì ad esaudire sia pure parzialmente le ambizioni dei gruppi nazionalisti e l’avidità dei gruppi bancari ed industriali; cosicché il malcontento e la insoddisfazione generale furono il fermento favorevole ad un sol movimento come di tutte le classi e di tutti i ceti, ad una irrequietezza ognora più grandeggiante, ad un spirito di ribellione che progressivamente andò guadagnando strati sempre più ampi, ad un senso di sfiducia e di scoramento che gettò nell’impotenza ed in una fatalistica attesa il ceto dirigente. Fu in un ambiente generale siffatto che si verificarono gli avvenimenti di carattere rivoluzionario nel periodo 1919-1921, in ordine cronologico: 1. Il movimento per il caro-viveri con la consegna alla Camera del Lavoro, da parte dei proprietari, dell’amministrazione dei negozi e dei magazzini; 2. Il Congresso di Bologna del Partito Socialista con l’adesione alla Terza Internazionale; 3. Le elezioni generali con la riuscita di 156 deputati socialisti e la loro clamorosa dimostrazione antimonarchica, in presenza del re, durante la seduta reale dell’inaugurazione della tornata parlamentare: l’invasione e la presa di possesso indebita delle terre; 4. Lo sciopero generale del Piemonte con il conseguito riconoscimento dei Consigli di fabbrica; 5. la rivolta militare di Ancona con la sospensione immediata della guerra di Albania; 6. L’occupazione delle fabbriche e il contemporaneo primo esperimento di armamento dei lavoratori.
Un’apparente prosperità economica accompagnò in un primo tempo questo succedersi di avvenimenti cui il proletariato, che aveva raggiunto una meravigliosa potenza di organizzazione, segnava il ritorno e dettava il corso; che dall’una parte lo Stato, nei suoi tentativi di arginare la montante marea rivoluzionaria, conservava artificiosamente in vita con sussidi ed inutili, ingenti ordinazioni, tutto il vasto apparato industriale sorto durante la guerra per le necessità militari; dall’altra parte i datori di lavoro, impreparati ad un resistenza e desiderosi solo di prolungare di qualche tempo la loro esistenza di classe privilegiata, cedevano rapidamente ad ogni richiesta ed imposizione delle masse. Erano i periodi nei quali i sindacati, organizzati saldamente su base nazionale, potevano con la sola tacita minaccia della sospensione del lavoro, ottenere continuamente aumenti di salari e vantaggi d’ordine morale: cosicché, per esempio, le otto ore di lavoro divennero patrimonio di tutta la classe lavoratrice senza che a tale scopo essa abbia dovuto impegnare e vincere una battaglia particolare. Tutte le lotte avvenute in quel volgere di tempo con la grande frequenza delle azioni sindacali, ebbero carattere e sapore schiettamente politico ed il proletariato raggiunse tutte le sue conquiste in dipendenza della potenza politica che egli aveva raggiunto.
In realtà, sotto l’apparente prosperità, la crisi economica maturava rapidamente: il bilancio dello Stato si stremava sotto i pesi enormi imposti dal continuato artificioso funzionamento delle industrie di guerra; dalla prima creazione e poi dal perfezionamento della guardia regia, vero esercito mercenario di circa 100.000 uomini destinato nell’intenzione dei governanti a costituire l’ultima difesa disperata contro l’attacco rivoluzionario al potere; dal raddoppiarsi degli stipendi all’enorme folla degli impiegati statali e dei pubblici funzionari; dal prezzo politico del pane che costava annualmente oltre 3 miliardi di lire per grano importato. E contemporaneamente l’organismo della produzione si spezzava scompigliando la rete dei suoi rapporti e dei suoi collegamenti per la preoccupazione degli industriali di porre in salvo all’estero la maggior parte possibile delle loro ricchezze, per sottrarle al pericolo di una rivoluzione e al sequestro del fisco che per evitare il proprio sbaraglio ed accontentare la volontà popolare, stabiliva la confisca dei profitti di guerra, la nominatività dei titoli, l’imposta sul reddito e l’imposta sul capitale. Ed è interessante notare che, mentre questi provvedimenti di carattere draconiano non riuscivano per nulla a sanare le finanze dello Stato per l’incertezza della loro applicazione e per l’abilità di elusione dei capitalisti, essi raggiungevano perfettamente lo scopo di affrettare la rovina della economia generale per il panico che diffondevano nei ceti abbienti dei contribuenti. Cosicché mentre l’apparenza pareva testimoniare, per il tenore di vita delle classi più numerose, un rigoglio ed un prosperare di tutto il tessuto economico della collettività, in realtà questo si andava sfacendo in una rapida rovina.
Il periodo di tempo che abbiamo fin qui descritto resta dunque caratterizzato da una linea discendente rappresentante lo sviluppo progressivo della crisi dell’economia, da una linea ascendente raffigurante la potenza ingrandentesi delle classi lavoratrici, e da una terza linea declinante segnante il graduale cedimento della forza politica della borghesia.
La fine dell’anno 1920 e l’inizio del 1921 segnano un rapido e quasi
inatteso mutamento nella reciproca posizione di alcune di queste forze
e precisamente della efficienza e della combattività del
proletariato
e della classe capitalistica. Ne sono note le ragioni fra cui la
incapacità
e l’inettitudine del partito socialista che non seppe portare
decisamente
allo sbocco rivoluzionario il fatto grandioso della occupazione delle
fabbriche
e delle terre, con il conseguente rilassamento della forza dei
lavoratori
e la ripresa della capacità e della volontà di lotta
della borghesia.
Solo da quel momento si è iniziato l’intervento diretto e
decisivo del
fascismo nella storia italiana come fattore primo e sostanziale della
offensiva
capitalistica, ed in quel momento si viene precisando nel centro stesso
dell’esercito proletario col Partito Socialista, quella contesa e
quell’opporsi
di frazioni e di tendenze che, sfasciandone completamente l’organismo,
mentre rendeva possibile l’opera di ricostruzione di un vero e saldo
partito rivoluzionario, gettava nel marasma e nell’impotenza
l’organizzazione
operaia per l’appunto nell’istante del maggior pericolo e della
più
grave minaccia. La linea discendente raffigurante nel nostro grafico la
progressiva decadenza politica della classe borghese volge a questo
punto,
con un rapido e decisivo mutamento, verso l’alto riportandola al di
sopra
della mediana nella posizione di maggior forza, contemporaneamente la
linea
ascendente della potenza politica dei lavoratori si flette ad un tratto
oltrepassando il più basso limite in precedenza toccato dalla
linea dell’efficienza
della classe borghese; mentre la terza linea, segnante il progressivo
sviluppo
della crisi economica non volge il suo tracciato che anzi lo inclina
più
ancora verso gli abissi dello sfacelo. Infatti il quasi miracoloso,
provvisorio
arrestarsi della rovina politica della borghesia ed il capovolgimento
dei
rapporti di forza fra le due classi contrastanti non ha affatto
influito
sul fenomeno generale dell’economia nazionale, ha proseguito il suo
corso
con un ritmo accelerato dallo squilibrio politico improvvisamente
sopraggiunto.
Ad un anno e mezzo di distanza dal riconquistato potere da parte del
capitalismo
e in regime di effettiva dittatura antiproletaria la situazione
italiana
presenta tutti i sintomi di una malattia profonda ed inguaribile che
abbia
ormai toccati gli stessi centri vitali dell’organismo.
Le finanze dello Stato e dei Comuni
Il bilancio dello Stato, dopo quattro anni quasi dalla fine della guerra, si chiude con un deficit, tuttora in aumento, di 5 miliardi di lire; non sono valse a sanarlo, e neppure a migliorarne la condizione, né l’abolizione del prezzo politico del pane che, facendo gravare sulle classi lavoratrici per oltre 3 miliardi di nuova spesa, li ha in massima parte offerti alla speculazione dei grandi produttori agrari nazionali; né l’imposizione di nuove imposte che, cadendo a preferenza sui generi di consumo e di uso non di prima necessità, hanno servito esclusivamente ad abbassare il tenore di vita delle classi medie e povere: tipiche fra le altre le imposte sui bagni, sulle lampadine elettriche, sui medicinali, sui saponi, sui biglietti tranviari, sui generi di lusso sotto il qual titolo generico sono compresi i brillanti e le spazzole, gli automobili e le calze, i dolciumi ed i vestiti. Il capitalismo, forte del riconquistato potere se ne valse immediatamente per fare sospendere ed abolire le imposte di carattere democratico che i governi nel periodo precedente avevano decretato sotto la pressione della volontà popolare: così avvenne nei riguardi dell’imposta sul reddito e sul patrimonio cui venne tolto il carattere di espropriazione di una quota parte del capitale sminuzzandola e graduandola nel tempo, snaturandone completamente lo scopo di porre rapidamente a disposizione dello Stato una somma importante e liquida; così si fece per la nominatività dei titoli mutata da obbligatoria in facoltativa e resa inadatta quindi al suo intento di impedire l’imboscamento dei quel centinaio di miliardi di lire che investite in azioni al portatore sfuggono normalmente e comodamente ad ogni ricerca del fisco.
Solo nell’anno corrente fu ripresa l’usanza, sancita dalla Costituzione, della discussione parlamentare dei singoli bilanci dello Stato; e fu in questa occasione che dalla bocca stessa del ministro delle Finanze venne resa nota la condizione spaventosa dell’azienda statale. Ai cinque miliardi di deficit occorre ancora aggiungere infatti oltre un miliardo di debiti nuovi accesi nel corso dell’esercizio con l’emissione, non più controllata e libera da ogni limite legale, di buoni del Tesoro che graveranno per il rimborso sul bilancio dei prossimi anni; le somme impiegate per la liquidazione delle pensioni di guerra e per la ricostruzione delle terre liberate che attendono un ipotetico pareggio da conseguire con l’incasso della varie indennità di guerra da versarsi dagli Stati vinti. E non bisogna dimenticare il debito pubblico ammontante ad oltre cento miliardi dei quali 1/4 costituito dai debiti all’estero, spada di Damocle sospesa perennemente su ogni speranza e su ogni tentativo di risollevare la condizione economica generale. Si aggiunge a tutto questo la necessità di un intervento finanziario continuo dello Stato per evitare il fallimento ad ogni ora incombente sulle più importanti aziende bancarie e industriali, che si appoggiano ai gruppi politici interessati a sostenere col denaro pubblico le loro pericolose speculazioni e preoccupati di evitare un urto troppo brusco all’organismo dell’economia nazionale che si sorregge per miracolo.
Questa forma di attività, assolutamente sconosciuta nel passato ed ancora ignota negli altri paesi europei ha assunto in Italia un carattere quasi di normalità; ciò è dovuto in gran parte al fatto che in questa nazione il governo è diventato veramente più uno strumento ed un servo di alcuni potentissimi trust bancari che se ne contendono il possesso allo scopo di sfruttarlo per le proprie necessità; cosicché in maniera decisa ed inequivocabile ogni uomo politico eminente ed ogni partito politico hanno dietro di sé, nei loro giuochi serrati e nemici, uno dei più importanti istituti finanziari con tutta la rete dei suoi interessi e dei suoi affari. Nitti e la fallita Banca di Sconto oggi risorta nella Banca del Credito; Giolitti e la Banca Commerciale; il Partito Popolare e il Banco di Roma non sono avvicinamenti casuali di nomi, coppie create per esercizio polemico, ma rappresentano, nel potente connubio della politica e della finanza, la forma ultima assunta in Italia dal predominio dittatoriale del capitalismo. Ne discende la conseguenza ineluttabile che lo Stato risente e subisce tutti i contraccolpi degli avvenimenti che si verificano nell’ambiente della speculazione bancaria e, naturalmente, ne deve pagare le spese. È notoria l’azione svolta dal governo italiano per evitare un crack definitivo della Banca di Sconto; è conosciuta l’opera di soccorso a favore dell’Ansaldo sull’orlo dell’abisso; nessuno ignora il salvataggio dell’Ilva e il puntellamento del Banco di Roma: episodi tutti questi che sono per la loro importanza come le pietre miliari nella lunga serie di sovvenzioni, di sussidi, di esenzioni date dallo Stato a spese del suo bilancio fallimentare per sostenere le sue clientele di borsa e di mercato. Queste operazioni camuffate nei bilanci sotto forma di partite di giro che resteranno eternamente aperte, di concessioni di mutui senza speranza di rimborso, di rilevamenti di debiti senza garanzia di rivalsa, non costituiscono altro, tolto l’artifizio contabile, che erogazioni a fondo perduto, veri saccheggi eseguiti dalla classe capitalistica sulla ricchezza dello Stato. Il quale va alla deriva, si sfianca e affonda ripercuotendo dal centro alla periferia l’ondata della rovina. Gli organismi locali pubblici riflettono infatti nel loro più ristretto ambito il quadro finanziario statale; comuni e province riescono a malapena a saldare l’un con l’altro i bilanci d’ogni mese gravandosi di debiti e mutui, e privi della possibilità di servirsi dei cento ripieghi offerti allo Stato dai suoi poteri superiori, lasciano decadere e mancare le funzioni più importanti a loro attribuite. Tutti i grandi municipi hanno un deficit di qualche centinaio di milioni e non una volta sola essi sono stati obbligati a sospendere gli stipendi dei propri funzionari. D’altra parte la guerra civile ferocissima divampante nei 3/5 del territorio fa sentire i suoi contraccolpi in modo rude sui comuni che vivono la loro attività più intimamente mescolata alla popolazione che non lo Stato, che sono quotidianamente e concretamente il palio della lotta cui ambisce il vincitore. Di circa 3000 comuni conquistati nel 1920, nelle ultime elezioni, dai partiti operai, oltre 2000 sono già stati militarmente conquistati dalle milizie fasciste; ed ognuno immagina in quali condizioni si ritrovino dopo le avventure sanguinose.
La economia pubblica è dunque in completo sfacelo ed il mondo
della
produzione da cui essa trae nutrimento e vita e cui offre protezione
è
conseguentemente in preda da un marasma che si potrebbe chiamare
mortale.
Condizioni dell’industria e dell’agricoltura
L’Italia è paese sfornito di materie prime: metalli, legnami, combustibili sono importati si può dire completamente, poiché nessuna importanza hanno, di fronte al consumo interno, i minerali di ferro dell’Isola d’Elba e di Val d’Aosta, la lignite della Toscana ed i boschi del Trentino recentemente annesso. Ogni grande industria italiana è quindi tributaria dell’estero, ed i prodotti nazionali non possono in linea generale battere la concorrenza delle altre nazioni. Ciò spiega il relativamente lento sviluppo dell’industria italiana che era nel passato riuscita ad affermarsi solo in alcune lavorazioni specializzate come, esempio, nell’industria automobilistica. La guerra provocò in Italia un improvviso e meraviglioso risveglio industriale ingigantendo senza limiti gli impianti di produzione e ogni equilibrio di prezzi era scomparso, ogni rischio superato, ogni concorrenza annullata dalla inesauribile necessità di prodotti bellici che lo Stato richiedeva, acquistava, pagava senza freno. Ma la fine della guerra spezzò d’un tratto il ritmo vorticoso del lavoro: scomparso dal mercato il cliente sicuro e docile, lo Stato, riprese in parte vigore le legge della concorrenza; riaperte sia pure parcamente le frontiere coi luoghi di produzione straniera; contratta la domanda di merci per la crisi generale iniziantesi, decuplicato il costo delle materie prime da importarsi per lo svilimento della valuta; impauriti gli imprenditori per la crescente marea rivoluzionaria, il meraviglioso apparato industriale fiorito durante la guerra per l’artificiosa atmosfera di sicurezza commerciale che si era formata intorno ad esso, vide mancarsi l’impulso ed il nutrimento. Ed incominciò, dopo un certo periodo di effimera attività suscitata dallo Stato per placare in un’ingannevole floridezza le passioni della folla tumultuante, il rapido sfacelo, il cui inizio coincise quasi con l’occupazione delle fabbriche nel 1920.
Fallimenti, serrate; chiusura definitiva delle officine, abbandono puro e semplice dei fabbricati e del macchinario all’opera logoratrice del tempo; vendita a prezzo di rottame degli impianti tecnici segnarono in un crescendo demolitore la rovina di quell’organismo che aveva per qualche anno accecato l’orgoglio egocentrico del nazionalismo italiano. Ed in lunghe teorie di miseria i lavoratori, che il vortice operoso dell’industria di guerra aveva strappati alla campagna e rinserrati, in un fenomeno d’urbanesimo esasperato, fra le mura cittadine, ripresero la via dei campi e dei villaggi. Ma la campagna, come la città, langue e non sfama. L’Italia, che non è un paese industriale per la sua conformazione geologica, non è neppure paese agricolo nonostante la sua antica tradizione di "mater frugum"; tanto dieci secoli di guerre, di rapine, di sfruttamento e di sgoverno ne hanno disertate le terre già fiorenti e ricche. La "mater frugum" è tributaria all’estero di un buon sesto del suo fabbisogno granario ed importa dall’estero il bestiame da macello. L’importazione industriale non è però controbilanciata dall’esportazione agricola, e dalla fine della guerra questo squilibrio della bilancia commerciale si è enormemente aggravato.
Non impunemente si sono sottratte dalla campagna per 4 anni milioni
di braccia.
Il precipizio della Lira
Dopo la rapida esposizione che abbiamo fatta della situazione economica italiana (finanziaria - industriale - agricola) non vi sarà più alcuno che si meravigli quando osservi il continuo e progressivo peggiorare della valuta italiana: la lira italiana scende verso gli abissi dove il marco e la corona segnano già il tramonto di due capitalismi che furono tra i più potenti del mondo. A fine settembre 1922 in una condizione di completa soggezione del proletariato (negli anni passati si dava la colpa dello svalutamento della lira, mai giunto però al limite attuale, alla agitazione operaia) e di effettiva dittatura capitalistica, 100 franchi valgono 180 lire (alla pari normalmente) una sterlina costa invece di 20 ben 100 lire, un dollaro oppone 24 lire attuali alle 5 anteguerra, e 100 franchi svizzeri devono essere pagati con 443 lire italiane, mentre nel 1914 la valuta italiana e l’elvetica si equivalevano.
Più che ogni descrizione queste cifre valgono ad indicare il punto rovinoso cui è giunta la progrediente crisi del capitalismo italiano. Ogni stabilità di prezzi è scomparsa dai mercati italiani e, se anche non si è giunti ancora al punto della Germania e dell’Austria nelle quali di minuto in minuto muta nei negozi il cartello delle vendite, però ogni giorno porta con sé una variazione. Le merci aumentano di prezzo per una quantità di cause: la loro scarsità, la mancanza di denaro liquido, l’alto corso della valuta, l’abolizione di ogni limitazione e di ogni controllo dello Stato, la riunione dei produttori e dei venditori in organizzazioni salde e disciplinate con la conseguente abolizione di ogni concorrenza, ecc. All’aumento continuo del prezzo delle merci si accompagna naturalmente la loro rarefazione: e già dai dirigenti stessi del Commissariato degli approvvigionamenti si predice sui giornali la prossima carestia invernale. Questo disordine dei mercati trasforma il commercio nella speculazione ed in questa si affondano e scompaiono sempre più rapidamente imprese ed aziende. Un indice se ne trae dai bollettini dei protesti cambiari e dagli elenchi dei fallimenti. Mentre negli anni passati questi si erano ridotti al minimo ancora di quello degli anni precedenti la guerra, nel 1922 essi si sono quadruplicati nei confronti del 1921 come risulta dai dati esposti, con commenti preoccupanti, dalla Camera di Commercio di Milano.
In stretta connessione con questo stato del commercio sono le
condizioni
disastrose delle ferrovie, il cui bilancio presenta un deficit di oltre
un miliardo nell’esercizio 1921-22; lo stato di inattività dei
porti
italiani in gran parte inoperosi, ed il disarmo della flotta mercantile
effettuato nella proporzione, ancora aumentante, di oltre il 50%. Si
può
qui a titolo di curiosità e di esempio, rammentare che il porto
di Trieste,
già primo emporio commerciale dell’Adriatico, e fra i primi del
Mediterraneo,
è ridotto dalla sua unione all’Italia, ad una rada semideserta
dove
rari piroscafi attraccano, carichi di merci destinate quasi solamente
ai
nuovi stati sorti dallo smembramento dell’Impero Austro-Ungarico.
II. La condizione del proletariato
Lo sviluppo dell’offensiva capitalistica
Non vi è forse in Europa presentemente una nazione nella quale le masse lavoratrici si trovano nella disperata situazione in cui giace il proletariato italiano. Colpito contemporaneamente dalle conseguenze economiche della crisi generale (disoccupazione, diminuzione dei salari, caro-viveri, mancanza di alloggi) e dalla reazione cosciente ed organizzata della classe borghese e dello Stato, egli sta attraversando il periodo più pauroso della lunga storia della sua emancipazione. E tanto più angosciosa è questa condizione di impotente soggezione in quanto che essa è succeduta immediatamente alla potenza incredibile cui il proletariato era assurto fino al 1920.
Due ordini di fatti hanno condotto a questo punto: l’offensiva capitalistica e la crisi del Partito Socialista, l’una concatenata all’altra, reciprocamente causa ed effetto, ma diversamente martellanti sulla compagine organizzativa del proletariato.
L’offensiva capitalistica trovò il suo inizio verso la fine del 1920 e si manifestò dapprima in due distinte forme a seconda del terreno su cui si mosse: e così le regioni agrarie videro sferrarsi i primi attacchi sanguinosi del fascismo (Bologna 21 novembre 1920, Ferrara dicembre 1921) mentre nei centri industriali la tattica dei licenziamenti principiò a scompaginare la forza operaia. Le due forme della offensiva furono suggerite dal modo con cui si era costituita nei due campi della produzione la potenza del proletariato, dai rapporti che si erano formati nel suo interno e fra la massa e gli altri ceti sociali, dagli aspetti della sua organizzazione, dalla psicologia diversa dei lavoratori agricoli e di quelli industriali. L’offensiva capitalistica ha veramente assunto in Italia la sua perfezione, valendosi e sfruttando ogni particolare della situazione, non già affidata allo Stato, cieco organismo pesante e macchinoso ed all’iniziativa dei singoli slegata e confusa, ma diretta e condotta con scientifici criteri dalle organizzazioni della classe borghese riunita nazionalmente in forti sindacati industriali ed agrari. La Confederazione Generale dell’Industria, cui aderisce la quasi totalità degli industriali, divenne il Comando Supremo della guerra antiproletaria, mentre la federazione dei proprietari agrari fu la sostenitrice diretta ed aperta del sorgente esercito fascista; sono noti gli episodi delle due guerre contemporanee ed intrecciantesi: i larghi licenziamenti quotidiani di migliaia di operai, privanti ad un tratto le maestranze dei loro elementi più coscienti e combattivi, indebolenti rapidamente le organizzazioni sindacali cui sfugge il controllo dei disoccupati, provocanti la formazione di eserciti di miserabili pronti a vendere per un boccone di pane la loro forza lavorativa. Contro i licenziamenti le maestranze opposero la difesa dello sciopero al quale gli industriali, decisi a giocare il tutto per tutto, risposero con le serrate degli stabilimenti. Sono noti i particolari di queste lotte condotte dalla massa sotto l’impressione radicata della delittuosa ritirata del 1920, con la sfiducia nei capi e secondo la tattica disfattista di questi miranti a sminuzzare in infiniti piccoli episodi locali l’azione unitaria e generale del proletariato; qui è sufficiente notare che l’attacco capitalistico riuscì vincitore su tutta la linea, e che l’offensiva contro i salari raggiunse ovunque la sua meta: la loro diminuzione, raggiungente in alcuni luoghi il 60 e il 70%, ha toccato per tutte le categorie di lavoratori una media del 25%. Questo risultato disastroso della lotta si è ripercosso terribilmente sull’efficienza dei sindacati i quali hanno visto più che dimezzarsi i loro effettivi; basti dire che la Confederazione Generale del Lavoro è scesa da circa due milioni e mezzo di aderenti nel 1920 a poco più di 800.000 nel corrente anno 1922.
E mentre nelle regioni industriali si svolgeva in queste forme,
nelle
regioni agricole la ripresa borghese assumeva gli aspetti ben noti
della
guerra civile aiutata, favorita, protetta dallo Stato. Il crollo delle
forze proletarie fu qui più rapido ancora che nelle regioni
industriali;
già sul finire del 1920 alcune fra le province dove i lavoratori
avevano
raggiunto più perfezionate forme di organizzazione, come
Bologna, Ferrara,
Rovigo, erano state completamente conquistate dal fascismo. E in
progressione
di tempo tutta l’Emilia, la Toscana, la Puglia, gli Abruzzi, la
Romagna,
parte del Piemonte e della Lombardia, le terre più ricche
d’Italia quelle
in cui la rete delle leghe e delle cooperative si era stesa più
salda
e più fitta, furono sommerse dal fiotto sanguinoso della
reazione: la
Federazione dei Lavoratori della Terra già forte di un milione
di aderenti
è oggi ridotta a meno di 200.000. Sconfitto il proletariato e
sconvolte
le sue file, fu così facile per la borghesia passare
direttamente all’offensiva
antisindacale: il diritto di organizzazione se non di nome, certo di
fatto,
venne tolto violentemente ai lavoratori uccidendo i dirigenti dei
Sindacati,
distruggendone le sedi, rifiutando, ove ancora esistono, di
riconoscerli
nelle controversie come rappresentanti della massa, creando, in loro
concorrenza,
altre sedicenti organizzazioni sottoposte agli ordini e alle
disposizioni
del padronato. E questa opera perseguita con particolare accanimento
dalla
borghesia è stata in ogni modo facilitata dal pauroso estendersi
della
disoccupazione, in parte provocata dalla generale rovina dell’economia,
in parte perseguita dalla tattica industriale di asservimento del
proletariato.
L’Italia nei tempi precedenti la guerra ha sempre avuto contro la disoccupazione un rimedio eccellente e sovrano: l’emigrazione. Ogni anno circa mezzo milione di proletari abbandonava il paese cercando stabilmente all’estero dimora e lavoro; circa 3/5 di questo immenso fiotto umano si dirigeva verso l’America dove formava grandiose colonie nazionali, specialmente negli Stati Uniti. La guerra arrestò il flusso emigratorio che non riebbe libertà di corso neppure con la pace sopraggiunta, e quando, dopo tre o quattro anni, le vie normali di relazione fra gli stati si riaprivano e lo sfogo tradizionale della esuberante popolazione italiana si presentò possibile, la nuova legislazione americana sull’emigrazione venne d’un tratto e definitivamente a vietarlo ed ostruirlo. Con le disposizioni entrate in vigore nel corrente anno non oltre 50.000 italiani possono ottenere annualmente l’entrata negli Stati Uniti: tali cifre, già insufficienti per gli anni normali di attività economica ordinata e di vasto assorbimento locale di manodopera, si presenta nella attuale situazione di disoccupazione dilagante come affatto risibile e senza efficacia per le necessità italiane.
All’inizio del 1922 le statistiche ufficiali davano una cifra di mezzo milione di disoccupati in tutto il paese; al 1° maggio essi erano discesi a 432.372 ed al 1° giugno 410.127 (industrie minerarie ed edilizie 190.549, agricole 95.532, metallurgica 38.277, tessili 42.379 ecc.), ma ove si tenga conto dei sistemi di registrazione in vigore, di carattere facoltativo non obbligatorio, si comprenderà come tale cifra rappresenta una parte soltanto dei senza lavoro. Le stesse comunicazioni ufficiali che fornivano i dati su riferiti avvertivano infatti prudentemente che riferendosi essi al periodo nel quale gli intensi lavori agricoli assorbono provvisoriamente grande quantità di mano d’opera non occorreva assumerli con piena credibilità, ma occorreva al contrario portare a circa un milione i disoccupati nell’inizio dell’estate. La condizione dei senza lavoro italiani è spaventosa, esistendo nel paese una forma imperfetta ed inadeguata di assistenza. Se si escludono alcune istituzioni di previdenza mutua di carattere volontario e le casse di disoccupazione organizzate internamente in certi sindacati l’unica forma di aiuto viene alla grande maggioranza offerta dall’assicurazione statale contro la disoccupazione. Hanno diritto a questa, per un periodo massimo di 90 giorni annui, quei lavoratori che hanno in regola l’apposita tessera comprovante il puntuale pagamento delle quote cui devono concorrere, operaio, industriale, Stato. Ma poiché una parte di industriali e di operai, gli uni per speculazione, gli altri per ignoranza, eludono la legge dell’obbligatorietà dell’assicurazione, molti disoccupati restano privi anche di questa limitatissima forma di assistenza. Per comprendere la insufficienza di questa, bisogna porre mente al fatto che la disoccupazione attuale non è saltuaria e contingente, ma ha un carattere di normalità e di continuità dipendente dal rimpicciolimento definitivo dell’apparato industriale e non soltanto da una transitoria contrazione dei mercati e del consumo. Non si presenta quindi come possibile la trasposizione della mano d’opera dall’una all’altra fabbrica, dall’una all’altra regione, dall’una all’altra industria, ma l’espulso dal lavoro è condannato ad un’inerzia che si prolunga per mesi e per anni.
La miseria da ciò riceve un impulso formidabile: prova ne è il continuo aumento dei depositari ai monti di pietà, il verificarsi frequente dei morti per inedia, ecc.
Mancano in Italia da qualche anno le statistiche ed i censimenti, ché l’organismo dello Stato in sfacelo non riesce più ad esercitare quest’opera elementare e necessaria di rilievo e di controllo, ma l’osservazione empirica della situazione fornisce ad ognuno queste notizie generali. Riesce impossibile esporre in modo preciso, ad esempio, il continuo alzarsi dei numeri indici dei prezzi dei generi di prima necessità, ma ciononostante, le esperienze personali di ciascuno permettono di constatare il pauroso aumento dei viveri, dei vestiari, delle abitazioni.
La vita costa in Italia oltre cinque volte più dell’anteguerra; e quando si ponga in rapporto questo fatto con la diminuzione dei salari o con la disoccupazione dilagante si comprenderà che non vi è esagerazione nell’affermare che il proletariato italiano scende in questo tempo negli abissi della disperazione.
("Rassegna Comunista" - 31 ottobre 22).
IV. Condizioni delle classi medie
La fiammata rivoluzionaria del 1919-1920 aveva gettato la piccola e media borghesia al seguito del partito socialista e nelle fila delle organizzazioni sindacali rosse: tutta la burocrazia ed i ceti dei liberi professionisti costituirono nelle elezioni di quel tempo una massa di elettori entusiasti dei candidati sovversivi, e gli scioperi degli impiegati delle pubbliche amministrazioni arrestarono più volte il funzionamento dei comuni e dello stato.
Ma i primi accenni della reazione furono sufficienti per ricacciare questi recenti militi delle organizzazioni proletarie ai piedi della borghesia ed in braccio ai partiti borghesi i quali furono bene lieti di ripagarne la viltà con una temporanea protezione. Ciò era necessario per potere operare con sicurezza contro le masse lavoratrici, sicure le spalle da improvvise rivolte; ma non appena l’offensiva capitalistica giunse a realizzare i suoi piani di schiacciamento del proletariato, la classe dominante si accinse a ridurre alla ragione anche i ceti medi e piccolo borghesi. L’episodio più saliente di questa lotta è costituito dalla riforma della burocrazia, opera il cui impegno da venti anni a questa parte ha sempre costituito un punto obbligatorio del programma di ogni nuovo ministero ma che ha atteso la sua realizzazione fino ad oggi, al momento più critico per la compagine statale italiana. Allo stesso modo che la classe industriale tenta e si illude di salvarsi dalla rovina pagando il formidabile costo della ricostruzione con la decurtazione dei salari e l’affamamento dei lavoratori, così lo stato persegue il risanamento del suo bilancio fallimentare attraverso la riduzione del suo esercito di funzionari ed alla limitazione dei loro stipendi. Il ministero Facta che ha saputo circonfondersi di benemerenze di fronte ai partiti reazionari eccitando e favorendo lo sviluppo del fascismo e la sua selvaggia attività, sta procacciandosi oggi il favore dei partiti democratici e liberali falcidiando e massacrando, in nuove tabelle ed in nuovi ruoli, le schiere dei suoi dipendenti. Né questi hanno modo di opporsi e di reagire, sciolte o disperse per inerzia e viltà le loro organizzazioni ed alienatasi la solidarietà e la simpatia delle classi lavoratrici che hanno tradito al primo accenno di pericolo: sono lontani i tempi in cui tutto l’esercito dei funzionari statali abbondava il lavoro in uno sciopero generale di dieci giorni, fra gli applausi e la solidarietà degli operai e dei contadini!
Le classi medie sono così accomunate ai proletari nella loro sofferenza; contro di esse non funziona la reazione illegale del fascismo che tenta anzi di crearsene una base ed un puntello, né si accanisce la reazione legale dello stato che non ne teme una minaccia ai suoi ordinamenti ed alle sue leggi. Ma la crisi economica picchia inesorabile alle case degli impiegati e dei professionisti e vi semina nuovamente, dopo il periodo di attesa, i semi del malcontento ed i fremiti dell’insoddisfazione. Manca ad essi la sicurezza del tetto, il vitto scarseggia, il lavoro è insidiato e conteso: il processo della loro proletarizzazione si accelera ed urge.
Lo spirito profondamente politico che pervade in Italia il movimento sindacale è causa indiretta del moltiplicarsi delle organizzazioni proletarie: ogni partito che recluti i suoi aderenti tra le masse operaie e contadine fonda il suo sindacato in contrasto e concorrenza con gli altri partiti e con gli altri sindacati. È questo inoltre un mezzo per costituirsi una massa di manovra più numerosa di quella inquadrata nel partito sempre meno disciplinata e sicura. Il solo partito comunista che non tende a costituirsi una clientela elettorale e personale ma che agisce agli scopi degl’interessi reali del proletariato, non ha seguito questa tradizione decennale ma ha preferito penetrare e lavorare nell’interno di tutti i sindacati rossi già esistenti per arrivare alla loro unificazione.
I comunisti sono dunque nei quadri della Confederazione Generale del Lavoro socialista, dell’Unione Sindacale anarchica, dell’Unione Italiana del Lavoro repubblicana-interventista, del Sindacato Ferrovieri racchiudente aderenti di tutti i partiti e delle Federazioni dei Lavoratori del Mare e dei Lavoratori dei Porti. Al contrario e naturalmente essi non si iscrivono alla Confederazione Generale dei Lavoratori popolare ed alle Corporazioni Nazionali fasciste che proclamano e seguono la direttiva della collaborazione di classe.
La Confederazione Generale del Lavoro aderente ad Amsterdam è l’organismo più importante di tutti anche se presentemente le sue forze sono state dimezzate dall’offensiva reazionaria e se numericamente essa si vede superata dalle organizzazioni popolari. Formata di Federazioni nazionali di mestiere che stanno trasformandosi in Federazioni di Industrie, essa è legata con un patto di alleanza col partito socialista. Conta 800.000 aderenti dei quali circa 1/3 raggruppati attorno al Comitato Comunista, un altro terzo circa seguente le disposizioni del Comitato massimalista, il resto subordinato ai dirigenti riformisti.
L’Unione Sindacale, formatasi per scissione dalla Confederazione Generale del Lavoro e delle cui forze non fu mai possibile avere una statistica, è organizzata in forma federativa, non possiede una organizzazione centrale, aderisce nella sua maggioranza all’Internazionale Sindacalista di Berlino, e probabilmente inquadra circa 100.000 iscritti. Si è formata nel suo seno e vi ha quasi la maggioranza una frazione “Sindacalista Rivoluzionaria” che lotta per provocarne l’adesione ai Sindacati Rossi di Mosca.
L’Unione Italiana del Lavoro si è costituita nel 1915 allo scoppiare della guerra per scissione dall’Unione Sindacale riunendo i gruppi sindacalisti e repubblicani interventisti. I suoi aderenti, poche decine di migliaia, sono localizzati in Parma ed in alcune città della Romagna. Per influenza del suo fondatore e dirigente on. De Ambris che fu segretario del governo provvisorio di Fiume, essa sta divenendo il centro del nuovo tentativo di costituzione di un sindacalismo dannunziano a tendenze nazionali.
Il Sindacato Ferrovieri separatosi nel passato dalla Confederazione per la sua dipendenza dal partito socialista conta circa 120.000 aderenti e fu per qualche tempo il sindacato più battagliero e rivoluzionario d’Italia. Caduto in uno stato di marasma dopo il Congresso dell’agosto 21 dove, per impedire la vittoria comunista avvenne la coalizione dei socialisti, anarchici e dei senza partito che presero il sopravvento dell’organizzazione, ne sta sortendo in questi tempi, dopo la crisi pericolosa succeduta all’ultimo sciopero generale. La frazione comunista vi raggruppa un terzo degli aderenti e sotto la sua pressione il Sindacato si avvia a rientrare nella Confederazione Generale del Lavoro.
La Federazione Lavoratori del Mare per quanto aderente alla Confederazione, costituisce in realtà un organismo indipendente organizzato in forma strettamente accentrato e soggetto alla direzione dittatoriale del suo segretario l’on. Giulietti. Questi non ha mai avuta una direttiva precisa ma ha ondeggiato dall’interventismo al comunismo, dal dannunzianismo al riformismo, dall’arditismo al fascismo. L’abile barcamenarsi permise fino ad ora al segretario della federazione di conservare in una condizione di isolamento dal resto della massa proletaria la categoria mannaia, ma l’ultima iniziativa del Giulietti, di sottoporre l’organizzazione al controllo ed alla tutela del partito fascista che ha provocato il sollevamento di gran parte degli iscritti, porterà probabilmente ad un radicale rinnovamento della struttura federale ed a una sua più reale adesione al movimento generale del proletariato italiano.
La Federazione Nazionale Lavoratori dei Porti è autonoma da tutti i grandi organismi nazionali; segue una asserita direttiva di apoliticità che la trasforma in una corporazione perseguente ristretti interessi di categoria. Questo suo carattere non salvandola dagli attacchi fascisti ha invece facilitato il suo parziale sfasciamento per la mancanza nei suoi quadri di una forza spirituale che ne sorreggesse la compagine.
La Confederazione Generale dei Lavoratori forte di 1.924.000 aderenti raccoglie in maggioranza nei suoi sindacati i contadini ed alcune categorie artigiane o di lavoratori semiproletari impiegati, camerieri, portinai, ecc. Essa proclama nel suo statuto il principio della collaborazione di classe ma adotta comunemente i metodi dell’azione diretta e violenta anche, dando luogo negli anni passati a movimenti ed agitazioni battezzate col titolo di “bolscevismo nero”. Si unisce alcune volte, pure senza accordi ed intese preventive, alle azioni generali dei sindacati sovversivi, come ad esempio nell’occasione dello sciopero nazionale e metallurgico del giugno ultimo scorso, e durante lo sciopero antifascista lombardo-piemontese del luglio u.s. La Confederazione Generale dei Lavoratori pure non chiedendo ai propri aderenti una esplicita dichiarazione di fede, pone la sua azione sotto la tutela ed il manto della religione cristiana. Essa aderisce all’Internazionale bianca dei sindacati cristiani per la cui costituzione ha attivamente lavorato.
Le Corporazioni Nazionali sorte nel corrente anno raggruppano i lavoratori delle terre conquistate dal fascismo; e poiché questo si è rafforzato specialmente nelle zone agrarie, così in enorme maggioranza esse sono composte di lavoratori della terra. Le Corporazioni Nazionali sono nove e comprendono (mese di agosto) 450.000 aderenti, di questi la sola Corporazione agraria oltre 290.000.
Le Corporazioni sono formate dalla unione dei sindacati dei datori di lavoro e dai sindacati dei lavoratori; in tale modo esse mirano a realizzare concretamente il principio della collaborazione di classe. Ma dato lo spirito che anima i dirigenti e la funzione di arbitro che esercita nelle contese il partito fascista, militarmente organizzato il principio della collaborazione si traduce nella realtà della soggezione di classe.
Nell’interno delle Corporazioni nelle regioni più martoriate, dove ogni resto di
organizzazione rossa è stata stroncato col ferro e col fuoco e dove
tutti i lavoratori in massa si sono vista imporre, pena la morte, la
iscrizione al sindacato fascista, si sono formati nuclei illegali di
comunisti che curano le informazioni ed il collegamento cogli
organismi centrali del partito e compiono un’opera segreta di
propaganda.
Nel mondo italiano in piena dissoluzione, nel quale i ceti sociali mutano rapidamente la loro struttura, le loro condizioni, la loro psicologia, le loro aspirazioni, riesce difficile fissare in modo preciso l’elenco dei partiti politici e le loro caratteristiche, e ciò sia per i partiti della borghesia che del proletariato.
Se noi osserviamo la composizione del parlamento notiamo dalla destra alla sinistra ordinatamente: i fascisti, i nazionalisti, gli agrari, i liberali, i quattro gruppi della democrazia (democrazia liberale, democrazia italiana, democrazia sociale, democrazia senza aggettivi), i popolari, i riformisti, i repubblicani, i socialisti, i comunisti.
Fascisti, nazionalisti ed agrarii costituiscono la destra ufficiale e sono stretti fra di loro da un’alleanza nei confronti degli atteggiamenti parlamentari; tre gruppi ferocemente conservatori che numericamente miseri dominano però le varie frazioni del centro con la loro audacia ed irruenza. Si può notare però che ad esempio nell’ultima crisi ministeriale i fascisti si separarono dagli agrarii e dai nazionalisti nella votazione; che i nazionalisti, decisamente monarchici, temano nel fascismo il periodico affacciantesi tendenzionalismo repubblicano; che gli agrarii avversano nei nazionalisti la stretta loro relazione coi trust industriali che sono in gara con i proprietari fondiarii nell’accaparramento dei favori e dei privilegi fiscali e fìnanziarii; che gli agrari ancora paventano che il fascismo non costruisca per essi una nuova minaccia con la organizzazione delle Cooperazioni Sindacali che possono domani sfuggire al suo controllo e divenire contro lui stesso un’arma della ripresa proletaria. Dietro i nazionalisti si cela il gruppo finanziario dei fratelli Perrone, dominatore dell’Ansaldo e della Commerciale. I liberali non hanno nulla a che vedere con la vecchia scuola liberale italiana pure pretendendo di continuarne le tradizioni; essi che erano nel passato un partito del centro-sinistra sono oggi in realtà una frazione non dichiarata di destra – ne è leader l’on. Salandra che alcuni giorni or sono deplorava che la tarda sua età gl’impedisca di militare attivamente nel movimento fascista. Questo gruppo privo di ogni importanza politica è sempre schierato alle frazioni prima accennate.
I gruppi della democrazia sono privi di un qualsiasi contenuto e non rappresentano tendenze precise ed identificabili; traggono la ragione della loro esistenza dalla rivalità personale dei loro leaders cui occorre crearsi il seguito apparente di un partito per dare una vernice di rispettabilità alle loro avventure politiche. I quattro gruppi democratici non hanno una stabilità di formazione ma si nota una continua trasmigrazione di uomini dall’uno all’altro, mutamento interessato di clientela e di servitù dei vari deputati che vi militano. Si ritrovano in essi tutti gli uomini più noti della vita politica italiana, veri vivai di ministri, rifugi di ex-presidenti del Consiglio: Giolitti, Orlando, Nitti, Facta, Cocco-Ortu, Soleri, Nava, Rossi, Paratore, Peano, ecc. Nonostante le sue dichiarazioni antifasciste e il suo sperticato amore delle libertà costituzionali, la democrazia multiaggettivata sostiene e favorisce, attraverso ai suoi uomini di governo, la reazione bianca: Giolitti ne fu l’allevatore, Facta ne è oggi il protettore ed il garante. Alcuni elementi isolati di questi gruppi favorirono per qualche tempo il progetto di una collaborazione coi socialisti, ma presentemente questa eventualità viene esclusa anche da quello che ne parve il più convinto assertore e che per questo si attrasse le ire feroci della destra: l’on. Nitti. Gli uomini più in vista della democrazia sono gli esponenti politici della Banca Commerciale e del Banco di Credito. Il gruppo popolare è il più forte della Camera dopo quello socialista e rappresenta una forza imponente seguito come è nel paese da un partito ben organizzato e da sindacati ricchi di centinaia di migliaia di aderenti. Esso è stato fino ai tempi recenti il dominatore di tutti i Ministeri prigionieri dei suoi voti necessari a costituire una maggioranza stabile; ma la crisi interna che sta spezzando la compagine del partito si ripercuote sinistramente sull’efficienza del suo gruppo parlamentare il quale specie dopo l’ultima crisi ministeriale da lui provocata e contro di lui risoltasi, ha perso il suo ruolo privilegiato. Il partito popolare incomincia a cedere per la irrazionale composizione dei suoi ranghi dove sono uniti e si incontrano le grandi masse dei contadini poveri e dei piccoli proprietari con i gruppi dei grandi latifondisti e con la nobiltà clericale: l’urto degli interessi contrastanti, attenuato fino ad ora per l’abilità intelligente del segretario Don Sturzo, si esaspera ormai e provoca i primi scoscendimenti e le prime scissioni. Sta riproducendosi nel partito popolare, naturalmente per altre ragioni, sotto altri impulsi, con scopi diversi, con conclusioni differenti lo stesso processo di differenziazione fra destra e sinistra che si è verificato nel partito socialista.
Il partito popolare è antifascista nelle parole ma s’acqueta e s’adatta alla violenza della reazione illegale anche quando essa colpisce e ferisce le sue istituzioni ed i suoi aderenti. Ma vi è profonda differenza nell’atteggiamento degli organi ufficiali del partito e delle sue organizzazioni locali. Mentre i ministri popolari nel gabinetto Facta sono complici coscienti dell’appoggio del governo all’azione fascista, gli organizzati popolari combattono nelle provincie annata mano contro le squadre delle camicie nere: basta ricordare gli avvenimenti di Cremona e la battaglia di Parma dove insieme ai comunisti, agli anarchici, ai socialisti i popolari furono nelle trincee improvvisate e lasciarono i loro morti nella lotta. Il partito popolare è strettamente legato al Banco di Roma.
Il gruppo riformista pugno di capitani senza soldati, trae la sua forza e la sua autorità dalla memoria di Bissolati che ne fu un tempo il leader e dalla presenza di Bonomi che oggi lo dirige; esso è destinato a fondersi con la frazione collaborazionista dell’attuale gruppo socialista. Già filofascista al tempo in cui Bonomi fu per la prima volta Presidente dei Ministri, si è orientato contro il fascismo durante l’ultima crisi quando parve che Bonomi dovesse riprendere la Presidenza del Consiglio del Ministero di collaborazione.
Il gruppo repubblicano rispecchia esclusivamente l’ala destra del partito se pure nelle votazioni si unisce da qualche tempo ai socialisti ed ai comunisti. Il partito repubblicano ha un largo seguito fra le masse di alcune località agricole della Romagna, delle Marche e del Lazio; ma poiché i suoi dirigenti sono tratti esclusivamente dalle sezioni delle grandi città costituite in maggioranza da borghesi, così la sua politica pseudo proletaria ha continuamente un non so che di incerto, di equivoco, di oscuro che ispira diffidenza e sospetto; anche esso è dilaniato da una crisi interna provocata dall’atteggiamento da assumere di fronte al fascismo: che, mentre le masse operaie chiedono di unirsi, come si uniscono in effetto, al resto del proletariato per combattere la reazione, i gruppi borghesi sono disposti alla neutralità o più ancora all’accordo esplicito col partito fascista. Un episodio clamoroso di questa lotta è stato provocato dalle dimissioni dal partito dell’on. Bergamo, leader della sinistra, come protesta contro il patto di pacificazione segnato dai dirigenti con i fascisti della provincia di Treviso; ed è probabile che questo fatto acceleri il distacco delle masse ed il loro avvicinarsi alle altre tendenze sovversive.
Il gruppo parlamentare socialista, in conseguenza della recentissima scissione del partito, si è frazionato in tre parti: gli aderenti al nuovo Partito Socialista Unitario formato dai riformisti e comprendente fino ad ora 61 membri; i rimasti nel partito ufficiale in numero di una trentina; i dispersi dall’urto e dalla divisione destinati entro breve tempo ad unirsi col primo gruppo.
Il partito socialista unitario, che non si appoggia ancora su di una organizzazione nel paese solo ora in via di inizio, ripone la sua forza sull’autorità personale degli uomini che lo dirigono i quali godono di influenza e di popolarità su parte dei lavoratori e sui ceti medi e piccolo-borghesi, ma specialmente si avvantaggia per il fatto di occupare la dirigenza della quasi totalità delle organizzazioni sindacali e cooperative. Questa situazione di privilegio è la conseguenza della tattica svolta fino ad ora nel partito socialista per la quale i massimalisti mentre vollero sempre i posti di dirigenza del movimento politico e nei fatti puramente politici assorbono tutta la loro attività, lasciarono ai riformisti libero ed incontrollato il vastissimo terreno della organizzazione economica delle masse lavoratrici.
Il partito socialista unitario è schiettamente costituzionale ed intende svolgere la sua attività nell’orbita legale, rigettando i metodi violenti e diretti e riconoscendo prima dell’internazionalismo, il principio nazionale. Esso favorisce una tattica di remissione di fronte al fascismo che esso identifica non in un fenomeno di sviluppo della crisi sociale che sarà annullato solo dal superamento dell’attuale periodo di indebolimento del proletariato ma bensì in una manifestazione delittuosa di un determinato gruppo di persone che deve perseguirsi e vincersi dallo stato con un’opera di polizia normale ed eccezionale.
Il partito socialista unitario ha deliberato l’adesione all’Internazionale 2 e 1/2, ed ove questa dovesse scomparire, alla seconda Internazionale.
Il gruppo parlamentare socialista ufficiale conta una trentina di deputati, misero residuo dei 102 deputati dell’antico gruppo. Esso resta l’esponente nella Camera della politica anticollaborazionistica prevalsa per lieve maggioranza al recente congresso di Roma. Il partito socialista esce sfasciato dalla rinnovata scissione che ha ridotto i suoi effettivi a circa 25 mila aderenti, che ha scompigliata la rete delle sue sezioni e gli ha quasi completamente sottratta l’antica influenza sul movimento sindacale. La denuncia del patto d’Alleanza che lo legava alla Confederazione Generale del Lavoro da parte di quest’ultima non è stato che un riconoscimento di uno stato di fatto conseguente alla conclusione della crisi socialista.
Il partito socialista ha tenuto fino ad oggi di fronte al fascismo un atteggiamento di passiva sopportazione facendo propria la tattica suggerita dai riformisti: a parole esso dichiara presentemente di mutare questo atteggiamento disfattista ma non vi è ancora una manifestazione ed un accenno esteriore di questo cambiamento. Il partito socialista ufficiale è ritornato infine colla Terza Internazionale dopo di esserne uscito nello scorso anno e dopo avere inutilmente tentato di dare vita ad un nuovo aggruppamento internazionale cui aveva dato la propria adesione il solo partito socialista del Messico.
Il gruppo comunista, che costituisce l’estrema sinistra del parlamento, non rispecchia evidentemente nella sua forza numerica (14 deputati) la importanza che il Partito comunista ha assunto nel movimento politico italiano in genere e proletario in particolare. Non è necessario parlare qui di esso dato che la seconda parte della presente relazione è completamente dedicata alla descrizione della sua organizzazione e della sua attività.
Restano
per ultimi gli anarchici (naturalmente non elencati nella
lista dei partiti rappresentati al parlamento), non organizzati in
partito, tenuti uniti e raggruppati fino a poco tempo fa attorno al
quotidiano L’Umanità Nuova oggi scomparso, seguiti dal
proletariato di poche città industriali come Ancona, Spezia,
Piombino e da alcune categorie ristrette di lavoratori quali i
fuochisti e macchinisti ferroviari. Decisamente antifascisti, dopo un
periodo di esitazioni dovuto alle loro fisime libertarie che li
spingevano a riconoscere al fascismo libertà di azione ed a condurre
una propaganda acerrima contro la Russia e la Terza Internazionale,
essi vanno attualmente accostandosi ai lavoratori comunisti con cui
si alleano di frequente sulla piazza e nell’interno delle
organizzazioni.
Il periodo attuale della crisi italiana è caratterizzato dal sopirsi transitorio delle lotte di carattere economico e dall’acuirsi delle lotte politiche le quali acquistano il carattere preciso di guerra civile. Si nota presentemente un arresto relativo nella offensiva dei salari: nello spazio di un anno il padronato è riuscito con una serie successiva di battaglie a portare la condizione economica dei lavoratori ad un livello oltre il quale sarebbe forse pericoloso ed inutile anche per la borghesia discendere. Inoltre il proletariato è immerso in una tale sfiducia e prostrato in tale debolezza che ogni volontà degli industriali si traduce nella realtà senza che riesca possibile nel maggior numero dei casi organizzare una qualsiasi resistenza. Lo sciopero nazionale dei metallurgici del giugno scorso è stato l’ultima occasione nella quale i lavoratori italiani abbiano difeso i loro salari ed i loro diritti sindacali contro le pretese padronali. Ma la sua conclusione infelice non ha fatto che cooperare alla formazione di questo sentimento di passiva rassegnazione del proletariato. Inoltre la massa enorme dei disoccupati che non è più inquadrata nei sindacati costituisce un esercito disperato di spezzatori di sciopero, mosso e sfruttato a proprio vantaggio dai gruppi capitalistici cui riesce facilissimo il licenziamento in massa degli operai che attentassero opporre loro una resistenza e la loro sostituzione, a qualunque condizione, dei disoccupati. Ma oggi un’altra è la meta cui tende la classe borghese che non l’ulteriore falcidia dei salari: miraggio suo è immobilizzare il proletariato nella condizione odierna impedendogli ogni possibilità di ripresa. Ed è il fascismo che compie questa bisogna colla distruzione sistematica, metodica, coordinata delle organizzazioni sindacali. Con un piano di carattere militare studiato in ogni particolare, esso a poco a poco sommerge l’Italia sotto l’onda del suo terrore sanguinario ed incendi di Camere del Lavoro, cadaveri seviziati di lavoratori e di dirigenti sindacali segnano le tappe quotidiane della sua conquista. La classe capitalistica pensa che solo se riuscirà a distruggere fino all’ultimo le organizzazioni sovversive, potrà sperare di stroncare definitivamente la forza dei lavoratori; e nulla evita e respinge per giungere a questo risultato. Così dall’una parte arde ed uccide e dall’altra parte, con tattica nuova e astuta, fonda i Sindacati Nazionali, destinati ad irregimentare in una leva forzata le masse operaie e contadine d’Italia.
Il metodo di incatenamento della classe lavoratrice si è fissato definitivamente nelle due azioni contemporanee della squadra armata, incaricata di sbandare a qualunque costo i gruppi dei lavoratori offrenti resistenza, e della Lega Nazionale ponente a disposizione dell’imprenditore il gregge inerme dei lavoratori.
La lotta da parte del proletariato contro le azioni militari fasciste si conduce in forma limitata: in un primo tempo, sotto i primi colpi inattesi e violentissimi, nessuna opposizione si manifestava agli attacchi alle sedi operaie ed ai singoli lavoratori; e da poco tempo soltanto una certa preparazione permette di potersi misurare con le forze bianche, alcune volte anche con pieno successo. La limitazione di questa attività proletaria è dovuta in gran parte all’atteggiamento negativo assunto nel problema della difesa armata dal partito socialista e dalla Confederazione Generale del Lavoro, mentre le sue manifestazioni sono quasi esclusivamente dovute all’attività del partito comunista e di qualche gruppo anarchico. In ogni modo il progressivo organizzarsi di questa difesa ha trasformata l’azione unilaterale antiproletaria della borghesia in una guerra civile che insanguina da un capo all’altro il paese e nella quale lentamente vengono attratti tutti i partiti e tutte le classi. Questa guerra, che è già costata migliaia di caduti ed ha provocato distruzioni enormi di ricchezza, costituisce oramai il sostrato di tutta la vita politica italiana; i suoi episodi si intrecciano e combinano colle lotte parlamentari, comunali, con le elezioni, con le polemiche, con le manifestazioni religiose e culturali, con le questioni interne ed internazionali, ed essa minaccia di ingoiare e distruggere nelle sue fiamme l’intero edificio sociale italiano.
Attraverso
a questo singolare aspetto della vita politica, nella quale solamente
la forza armata è divenuta elemento efficiente e decisivo, e
programmi, tradizioni, capacità hanno persa ogni importanza nella
valutazione degli uomini e dei partiti che se ne ornano, è naturale
che il fascismo abbia preso il primo posto ed abbia nelle sue mani le
sorti immediate del paese. Esso è diventato la misura delle
posizioni e delle volontà; e l’unica divisione che valga a separare
sulla scena politica i gruppi e le persone è quella che distingue i
fautori dagli avversari dei metodi fascisti. Fra i primi tutti i
partiti borghesi, senza distinzione; stanno fra i secondi i partiti
proletari con certe differenze di atteggiamenti e di azione. E poiché
la forza è quest’oggi completamente nelle mani dei primi il fascismo
come metodo è riconosciuto ed appoggiato dalle classi borghesi e
dallo Stato, come partito dirige la coalizione dei partiti borghesi e
mira direttamente alla conquista del potere ed alla effettiva
dirigenza della nazione.
Abbiamo descritto succintamente i vari aspetti della crisi che travaglia e sommuove la società italiana: è ben naturale che la forza stessa dello Stato contenente nei suoi limiti gli elementi e le forze in urto, risenta e rispecchi le sue ripercussioni. Ed infatti mai come in questi tempi di ringagliardito vigore delle correnti imperialiste e nazionali la monarchia italiana è apparsa per strano contrasto vana ed inconsistente istituzione, senza radici nella tradizione e nella vita del paese, incapace di assolvere il compito elementare dei monarchi istituzionali: unificare nel loro nome e nella loro figura le correnti disparate ed i territori rivali.
L’autonomismo, come tendenza al distacco dal corpo statale di determinate regioni, si presenta in Italia in forme precise, come ad esempio in Sardegna e Sicilia; e gli stessi partiti costituzionali discutono quotidianamente del mantenimento o meno della monarchia e della instaurazione di una forma repubblicana di Stato.
La monarchia però, per se stessa, non corre pericolo di caduta o di fine violenta che essa non oppone alcun ostacolo alle nuove direttive del governo orientandosi verso l’estrema destra. Il cosidetto Re democratico degli anni passati avalla normalmente colla sua firma i decreti reazionari destinati a gettare il proletariato nella schiavitù più miseranda ed alterna volentieri il colloquio di Turati con quello di Mussolini. Talché può tenersi per sicuro che la minacciata rivoluzione fascista, se pure si realizzerà, lascerà intatto l’istituto coreografico e senza contenuto della borghesia italiana.
Abbiamo detto “la rivoluzione fascista” per usare un termine adoprato oramai per indicare l’avvento al governo della corrente reazionaria dichiarata; ma in realtà non vi sono prospettive nel prossimo avvenire italiano di violenti sovvertimenti del regime, tanto meno poi per opera delle frazioni politiche di destra. Queste stanno attualmente seguendo le vie normali della costituzione e delle leggi costitutive dello Stato, sia pure affiancando il loro movimento nella vita generale della nazione colla più folle violenza, raggiungendo il potere – può bene affermarsi che i gruppi dirigenti del fascismo hanno risolto oramai il problema dinanzi a cui si soffermavano ancora sei mesi or sono: “rivoluzione o legalità”; e la scelta è caduta sulla legalità. Essi hanno compreso che nulla nell’attuale assetto italiano vi è che renda impossibile la realizzazione dei loro piani, mentre un’azione generale violenta ledendo una quantità di interessi degli stessi borghesi potrebbe creare loro nuovi nemici. D’altra parte una rivoluzione deve sempre sboccare ad un mutamento sia pur parziale dell’apparato organizzativo e dell’amministrazione dello Stato. Il fascismo al contrario non comprende nel suo programma nulla di simile; esso non fa che ricalcare le orme dei partiti della destra dando un carattere più retto e più reciso ai principi reazionari che essi hanno sempre sostenuto. Il fascismo in definitiva arrivando al potere non apporterà altra innovazione che questa: che mentre gli attuali governi pseudo liberali aiutano ed appoggiano la reazione, il prossimo governo fascista eserciterà esso stesso direttamente la reazione senza l’interposizione di organizzazioni irresponsabili e mercenarie.
È sintomatico, per corroborare le nostre asserzioni, la richiesta imperiosa di nuove elezioni avanzata dal partito fascista e che costituisce il fatto politico più saliente dell’ottobre; è attraverso alla forma legalissima del concorso alle urne, sia pure preparato e curato con un sapiente dislocamento di squadre armate e di spedizioni punitive, che il fascismo intende di completare il proprio dominio. Vi sono degli episodi di carattere antistatale che paiono contrastare tali previsioni; le minacce ed i bandi contro i Ministri in carica, la deposizione del Governatore del Trentino, ecc. Essi non devono assurgere ad indice di una direttiva ma si interpretano esclusivamente come le manifestazioni esasperate di un organismo che ha toccato rapidamente il culmine della potenza ed al cui controllo centrale sfuggono le singole parti periferiche.
Il fascismo, creato per essere strumento di reazione nelle mani del capitalismo, è divenuto tanto forte da poter assumere nelle proprie mani, direttamente il compito controrivoluzionario: questo solo mutamento informerà i fatti del domani. Sia che le nuove elezioni si facciano, sia che l’attuale Camera prolunghi fino a primavera la sua vita, l’attuale Ministero Facta è destinato a cadere nel novembre. La successione è interdetta ad un ministero di collaborazione demo riformista la cui realizzazione è stata rinviata sine die dagli ultimi avvenimenti; una reincarnazione liberale minaccerebbe il prolungarsi dell’attuale situazione di squilibrio politico; solo un ministero di destra potrà afferrare le redini dello Stato.
L’epoca più tragica del proletariato italiano non tocca il suo fine, ancora un pericolo maggiore si aprirà; il P.C. si prepara a sprofondare nell’illegalità portandovi integra la rete delle proprie sezioni pronte al lavoro di sgretolamento e di ripresa.
L’opera del P.C. tra il III e il IV Congresso dell’Internazionale Comunista
I. Organizzazione interna del Partito
Il partito è organizzato:
a) politicamente: Questa organizzazione coincide con la
organizzazione legale e normale del partito. I piccoli centri
periferici di 5 a 9 comunisti (gruppi) o di almeno 10 comunisti
(sezioni) sono federati. Prima del Congresso di Roma (II) le
federazioni comuniste erano delimitate dai limiti amministrativi
delle circoscrizioni provinciali dello stato italiano. Una più
razionale suddivisione federale, tenendo presente gli importanti
coefficienti delle vie di lavoro, del percorso delle grandi vie di
comunicazione ecc. ha modificato le circoscrizioni federali
comuniste.
Nell’allegato
nr. 1 sono indicate le federazioni comuniste oggi esistenti in
Italia. Soltanto nelle provincie meridionali di Potenza, Avellino,
Benevento manca un’organizzazione comunista; ma in tali Provincie
sono debolissime altresì le forze organizzate proletarie di altri
partiti, o mancano del tutto.
b) per raggruppamenti: Nella circolare allegata nr. 2 si davano recentemente ai compagni precise disposizioni in merito all’importante tipo di inquadramento, disposizioni già date fin dalla estate dello scorso anno, e che non dappertutto avevano potuto avere applicazione. Per mezzo di questa organizzazione – che prepara la organizzazione illegale del partito – si rende possibile condurre anche l’ultimo dei compagni a compiere i suoi doveri di militante, e si garantisce il funzionamento del partito in ogni eventualità.
c) militarmente: Speciali disposizioni sono date per l’inquadramento militare del partito (vedi allegato nr. 3). Intorno ai nuclei formati dai comunisti inscritti possono raggrupparsi i simpatizzanti ed i senza partito o tutti quei lavoratori che dichiarino di accettare la disciplina del nostro inquadramento militare, non essendo legati alla disciplina di nessun altro organismo politico, né – tanto meno – di nessun altro organismo a tipo militare.
d) sindacalmente: Ogni inscritto al partito è inscritto al proprio sindacato professionale ove costituisce con i suoi compagni inscritti al partito il nucleo principale dei gruppi sindacali comunisti.
La organizzazione politica del partito parte dai gruppi e dalle sezioni locali e va alle federazioni. Le federazioni fanno capo al C.C. del partito che è composto da 15 membri, il quale delega le sue funzioni, per il lavoro continuativo, al Comitato Esecutivo, di 5 membri.
La organizzazione per raggruppamenti si adagia sulla organizzazione dei gruppi e delle sezioni. Per ora i raggruppamenti non sono federati.
La organizzazione militare vive al lato del partito. Ogni sezione ha un fiduciario militare che fa capo al fiduciario militare federale attraverso i fiduciari di zona (gruppo di sezioni). Esistono poi dei fiduciari di zone più vaste (gruppi di federazioni) i quali funzionano da ispettori sotto il diretto controllo della Centrale militare. I fiduciari federali fanno capo all’Ufficio militare del C.E. La organizzazione militare si occupa altresì dei grandi collegamenti.
La organizzazione sindacale parte dai gruppi sindacali locali e va, da una parte a far capo ai Comitati Sindacali locali (che sono al fianco delle sezioni politiche) e quindi ai Comitati Sindacali federali ed al Comitato Esecutivo Sindacale (a lato del C.E. del partito); e dall’altra parte, dai gruppi comunisti di categoria va ai Comitati Nazionali comunisti professionali, e – quindi – al Comitato Esecutivo Sindacale del partito.
La organizzazione amministrativa del partito è la seguente:
Ogni sezione invia direttamente alla Cassa centrale del partito l’importo delle tessere, e manda l’elenco nominativo degli inscritti in due copie al C.E. federale, perché una delle due sia da questo trasmessa al Comitato Esecutivo del partito. Le tessere vengono dall’Ufficio centrale di amministrazione spedite allorché sia pervenuto l’importo e l’elenco degli inscritti. La tessera è annuale ed i compagni pagano per averne diritto, un contributo di lire 5,50 (delle quali 50 centesimi rappresentano la quota per la marchetta internazionale, che quest’anno non è giunta). Le tessere vengono spedite alle sezioni per il tramite delle federazioni, le quali prendono nota nei loro registri della numerazione delle tessere. Le tessere sono di due tipi: per i soci candidati, e per i soci effettivi. Ambedue i tipi vengono consegnati dietro pagamento della medesima quota. Nessun altro contributo affluisce alla cassa del partito da parte di ciascun inscritto, oltre alla quota della tessere annuale.
Le federazioni, nel consegnare le tessere alle sezioni, si fanno pagare da queste una quota annuale per ogni inscritto, fissata nei congressi federali, e che varia da federazione a federazione. In altri casi le sezioni versano mensilmente alla cassa federale le quote fissate per la federazione. La sezione od il gruppo esigono una propria quotazione da parte degli inscritti, settimanale o mensile.
Il Comitato Centrale del partito, dall’epoca del II Congresso ad oggi si è radunato il 25 e 26 agosto 1921 in Milano per ascoltare il rapporto dei delegati al congresso mondiale, fissando la tattica da adottare verso il partito socialista e convocando il congresso del partito; il 18, 19 e 20 dicembre in Roma approvando le tesi dei relatori per il II Congresso nazionale del partito, sulle questioni di tattica, agraria e sindacale; il 5 e 6 marzo 1922 in Roma per l’approvazione della relazione del C.C. e dello Statuto al Congresso del partito; il 25 marzo 1922 per decidere sulla applicazione delle decisioni del Congresso del partito, per la compilazione di un appello del nuovo C.C., e per un abboccamento con i rappresentanti della Internazionale Comunista; il 29 e 30 giugno 1922 per ascoltare la relazione dei compagni Bordiga e Graziadei sulla conferenza con l’Esecutivo di Mosca a proposito della applicazione delle disposizioni del fronte unico in Italia; il 10 e 11 settembre 1922 per la proposta del Comitato Sindacale Comunista sulla intesa delle sinistre sindacali, sulla posizione del P.C.I. di fronte al Congresso di Roma del P.S.I.; l’11 e 12 ottobre per discutere sulla relazione al IV Congresso, sul progetto di programma per il P.C.I. compilato dalla Commissione del Programma e sulle situazioni venutesi a creare in seguito alle deliberazioni del Congresso Socialista.
Il C.E. aveva deliberato nel novembre 1921 di sussidiare con sussidi dalle 200 alle 400 lire mensili una ventina di federazioni, ma non sempre – per ragioni finanziarie – poté mantenere gli impegni, ed oggi si può considerare soppressa questa forma di aiuto.
L’opera degli ispettori fu anche dovuta sopprimere, per ragioni finanziarie, ed oggi essa è disimpegnata non continuativamente.
La cassa centrale del partito stipendia temporaneamente il segretario della federazione della Venezia Giulia ed un incaricato per la ricostruzione organizzativa in talune provincie colpite maggiormente dal fascismo. Solo due o tre federazioni sono rette da segretari retribuiti.
Dalle
circolari organizzative che si allegano si possono avere indicazioni
sugli interventi del C.E. del partito intorno a parecchie importanti
quistioni.
La I revisione degli inscritti al partito fu chiusa verso la fine dell’anno scorso, e portò all’allontanamento di 749 inscritti al partito. Molti compagni non compresero il valore di questa importante funzione, ed una prima circolare del C.E. ne esemplificò gli obbiettivi. La seconda revisione, indetta dopo il II Congresso del partito, si è chiusa nel luglio scorso. In seguito ad essa 32 inscritti furono radiati. Poiché anche dalla seconda revisione non apparve che il meccanismo della revisione fosse ben compreso dai compagni, fu inviata a tutte le sezioni una seconda circolare (vedi allegato, nr. 4).
III. Provvedimenti disciplinari
In questo agitato periodo politico la organizzazione del nostro partito, per la sua compattezza che era necessario assicurare, si è trovata spesso nella necessità di colpire con misure disciplinari, dal semplice biasimo fino alla espulsione, quei compagni che mancarono ai loro doveri di militanti. Lo statuto del partito, che contiene norme sui rapporti disciplinari e che si allega (allegato nr. 5) fu al Congresso di Roma riveduto e modificato. La gravità della reazione che in Italia colpisce il proletariato e specie quella parte di esso che milita nel partito comunista, ha molte volte spinto gli organismi periferici del partito a prendere provvedimenti di gravità con molta frequenza. A tal proposito il C.E. si è visto recentemente costretto a diramare disposizioni per fissare i rapporti tra i rigori disciplinari e la buona organizzazione interna (vedi allegato nr. 6). In ogni modo, nei casi ove il provvedimento si sia dimostrato necessario il partito ha proceduto con rapidità e severità, concedendo la più ampia libertà di difendersi al colpevole, ma facendolo giudicare dagli organi naturali del partito, senza creare apposite commissioni di inchiesta.
Si intende parlare di propaganda nel senso limitato alla attività di oratori e conferenzieri di partito in pubbliche e private riunioni, poiché in senso più lato nessuna parte della organizzazione ed azione del Partito non si scompagna da un’opera di propaganda.
Non sarebbe possibile riferire qui nei suoi dettagli di tutta l’opera svolta localmente dalle organizzazioni di partito e dai compagni tutti; è possibile asserire che non vi è stata né vi è adunata proletaria in Italia alla quale non sia recata, per iniziativa di partito o da nostri militanti che vi assistono, la parola comunista. Nei limiti dei loro mezzi ed in rapporto alle situazioni locali le sezioni del partito ed i Comitati federali si occupano permanentemente di preparare conferenze, comizi e giri di propaganda e di assicurare la presenza dei nostri oratori in tutte le circostanze in cui questo può essere utile, e parallelamente all’attività sindacale, elettorale, culturale del nostro partito.
In varie occasioni si sono organizzate giornate e periodi di propaganda su scala nazionale e per iniziativa degli organismi centrali i quali hanno con manifesti e comunicati stabilite le direttive a cui si dovevano attenere i nostri propagandisti, e provveduto direttamente a inviarli nei più importanti centri, disponendo per i centri minori che si provvedesse con propagandisti locali. A tale scopo la Centrale del partito si è avvalsa dei membri del C.E., di quelli del C.C., dei compagni deputati, di taluni dei funzionari politici del partito e di altri compagni atti al lavoro di propaganda. Nell’anniversario dell’occupazione delle fabbriche, nella manifestazione per gli affamati di Russia, per la giornata internazionale della gioventù comunista, furono dalla Centrale date disposizioni opportune per coordinare le manifestazioni, e si provvide all’invio di molti oratori nei centri importanti.
Dal primo al sette novembre 1921 ebbe luogo la settimana di propaganda per l’anniversario della rivoluzione russa. L’invio di oratori fu direttamente organizzato dalla Centrale, che utilizzando tutti quelli di cui poteva disporre preparò ed attuò un piano di 75 comizi in tutte le città italiane, mentre ovunque avevano luogo altre manifestazioni di iniziativa locale.
Alla giornata internazionale delle donne comuniste, il 12 marzo 1922 si è dato carattere interno di partito, pur incaricandosi la Centrale di inviare in taluni centri le compagne propagandiste di cui il partito dispone.
Il 9 aprile 1922 si svolse una giornata di propaganda per la sottoscrizione "pro stampa comunista"; nell’aprile e nel maggio vennero intensificati i comizi per prospettare i punti di vista comunisti nella Alleanza del Lavoro; il I maggio si tennero comizi dovunque, nei quali il partito comunista partecipò con proprii rappresentanti che ottennero ovazioni e consensi. Il C.E. del partito delegò direttamente taluni compagni oratori a partecipare a trentasei comizi, nei principali centri. Per la giornata antimilitarista del 31 luglio, e per la settimana femminile dell’agosto fu provveduto a tenere adunate di masse ove ciò era possibile.
La propaganda orale presenta oggi notevoli difficoltà in confronto di alcuni anni addietro. La crisi generale, la reazione, l’offensiva padronale, rendono assai meno frequenti le grandi adunate di lavoratori a cui è possibile intervenire per portare la parola del partito. Divengono anche sempre più costosi i mezzi di trasporto e le spese che importano giri di propaganda e viaggi di oratori. Inoltre per la composizione del nostro partito, che ha pochi intellettuali ed in genere non molti compagni atti a far propaganda, si rende ancora più difficile accontentare tutte le richieste locali. Tuttavia questo fondamentale mezzo di diffusione delle nostre idee e di organizzazione della nostra milizia deve richiamare per l’avvenire e sempre maggiormente la massima attenzione di tutto il partito, armonicamente coordinandolo a tutte le altre forme di azione e di agitazione delle masse.
Organi centrali. Organo centrale del partito è stato ed è Il Comunista. Nonostante la grande attesa dei compagni dell’Italia Centrale e Meridionale per il quotidiano a Roma, il giornale non è stato, però, abbastanza sorretto e la sua diffusione è limitata; non si tirano che 11 mila copie con lievi oscillazioni.
La Rassegna Comunista, rivista quindicinale del partito, è anche pubblicata sotto la direzione del C.E. Se ne tirano duemila copie. Per la migliore redazione e diffusione della Rassegna sono state ultimamente prese misure definitive, sopratutto allo scopo di assicurare una maggiore collaborazione dei compagni italiani in articoli originali.
Il Sindacato Rosso, organo sindacale settimanale del partito, si pubblica a Milano a cura del Comitato Sindacale Comunista dal 1° ottobre 1921. La tiratura è di circa diecimila copie.
La Compagna, giornale per le donne comuniste, si pubblica a Roma sotto la direzione del C.E. quindicinalmente dal 5 marzo 1922 con una tiratura di settemila copie.
L’Avanguardia, giornale settimanale della Federazione Giovanile Comunista, edita dal C.E. di questa. Si è pubblicata a Milano dal febbraio al settembre 1921, e quindi a Roma. Tira [ ] mila copie.
Altri quotidiani. L’Ordine Nuovo che tirava 45 mila copie quando era il solo nostro quotidiano, ne tira tuttora 30 mila.
Il Lavoratore, antico giornale dei socialisti della Venezia Giulia passò al nostro partito al quale aveva aderito la maggioranza della Federazione regionale socialista. Dopo pochi giorni dalla costituzione del partito il magnifico impianto del giornale veniva distrutto da un attacco fascista, grazie solo al criminoso intervento della forza pubblica che infranse la resistenza eroica opposta dai comunisti asserragliati nell’edificio, consegnandolo agli incendiari. Grazie a grandi sforzi dei compagni giuliani e del partito il giornale ha potuto essere riorganizzato, e il 10 settembre 1921 riprendeva le sue pubblicazioni in Trieste. Ha una tiratura di circa 16 mila copie.
Da quando il partito dispone di tre quotidiani è stata così delimitata la zona di diffusione di ciascuno: L’Ordine Nuovo ha il Piemonte, la Liguria, la Lombardia, e la provincia di Parma e Piacenza. Il Lavoratore ha la Venezia Giulia, la Venezia Tridentina e il Veneto. Il Comunista serve direttamente la restante zona, pur dovendo giungere dovunque in qualità di organo centrale. Gli altri due quotidiani hanno nel resto d’Italia la possibilità di avere abbonati e talune rivendite nei centri di prima importanza.
Il partito ha inoltre un organo in lingua slava nel settimanale Delo di Trieste, che ha ripreso a pubblicarsi dal 2 dicembre 1921 e tira quattromila copie.
A cura della Federazione Giovanile si è anche iniziata l’edizione italiana della rivista L’Internazionale della gioventù. Il fanciullo proletario, giornale per i fanciulli recentemente comparso a cura della Federazione Giovanile Comunista, è salito al 2° numero a 28.000 copie, ma certamente questa tiratura dovrà diminuire perché la federazione non ha i mezzi per coprire il deficit di simile pubblicazione.
Stampa locale. Il C.E. ha avuto cura di giungere in un primo tempo ad una razionale distribuzione della stampa nelle varie regioni, sopprimendo taluni giornali superflui e incoraggiando il sorgere di altri. Si è anche verificato che taluni giornali settimanali delle zone più colpite dalla reazione si dovessero sopprimere per forza maggiore, affidando le zone rispettive a giornali limitrofi. Si sono avute così continue variazioni, sempre seguite da comunicati del partito. Per tal modo avevamo, alla costituzione del partito o poco dopo, 14 giornali locali al 6 marzo 1921, quindici al 17 marzo, 18 al 30 marzo, 21 al 3 aprile, 24 al 26 maggio, 17 al 12 ottobre 1922 (vedi allegato nr. 7).
Secondo il piano generale stabilito dalla Centrale in rapporto alla suddivisione regionale delle forze del partito, questo sarà abbastanza provveduto con 21 giornali locali ben distribuiti.
Redazioni e servizi tecnici. Per quanto riguarda la direzione politica della stampa il nostro partito può a giusta ragione vantare di avere risolto perfettamente il problema di unità di indirizzo o di atteggiamento della sua stampa. Fin dall’inizio si dispose che tutti indistintamente i giornali, anche locali, portassero il sottotitolo di “Organo del Partito comunista d’Italia” e non di organizzazioni locali o regionali del partito. La stampa quotidiana è, si può dire, giorno per giorno diretta dalla Centrale, senza differenza tra Il Comunista e gli altri due quotidiani, permettendo il collegamento tecnico di raggiungere questo risultato politico.
Come si è detto, le redazioni dei giornali locali, che non competono in generale non ad una ma a più federazioni, sono sempre confermate dalla Centrale. I redattori dei quotidiani sono poi direttamente nominati dalla Centrale stessa alla quale rispondono sotto tutti gli aspetti dell’opera loro, attraverso i compagni ai quali è affidata la dirigenza giornalistica delle singole redazioni.
Circa il valore giornalistico delle nostre pubblicazioni, non intendiamo certo affermare che la perfezione sia stata raggiunta, essendo ancora molti i difetti che occorre eliminare successivamente. Va però tenuto presente che, come per quasi tutte le nostre iniziative si è verificato, si è dovuto organizzare tutta una serie di giornali con la più grande urgenza e senza poter attendere per esigenze politiche alla preparazione tecnica e amministrativa che sarebbe stata necessaria. Il partito, se ha pochi compagni che scrivono, aveva ed ha pochissimi elementi veramente adatti e maturi per il lavoro giornalistico; e questi pochi han dovuto essere utilizzati per la pubblicazione di tre quotidiani, sottoponendoli ad un lavoro intensissimo, mentre si tentava di forzare nuovi compagni al giornalismo.
Per i servizi di informazione sono stati fatti tutti gli sforzi per poter utilizzare prontamente e razionalmente la rete di servizi giornalistici che collega la stampa mondiale dell’Internazionale Comunista, e si è dato il maggior impulso che si poteva alla informazione dell’interno per la quale si hanno uffici di corrispondenza comuni ai tre quotidiani, ed un regolare scambio di comunicazioni tra essi. I principali uffici si hanno a Milano e Bologna. Si utilizza largamente la Correspondance Internationale pubblicata a Berlino dall’Internazionale Comunista per la informazione originale e internazionale della stampa di tutti i paesi.
Per sempre meglio coordinare e rendere più efficace il lavoro della stampa, il C.E. ha recentemente istituito un organo interno: il Consiglio della stampa. Questo comprende le rappresentanze delle redazioni dei quotidiani e dei periodici centrali, nonché della Libreria del partito, e si è recentemente adunato esaminando ampiamente dal punto di vista tecnico la situazione della stampa, e facendo proposte che la Centrale sta traducendo in atto.
Esaminando
infine la questione della stampa dal punto di vista amministrativo
occorre dichiarare che non si può essere ottimisti. L’attuale crisi
economica si riflette in tutti i modi più nefasti sulle aziende dei
nostri giornali. I lavoratori per le condizioni nelle quali versano,
comprano pochi giornali, gli abbonamenti e le sottoscrizioni
difettano. D’altra parte il sabotaggio e la sopraffazione
impediscono, malgrado tutti i mezzi escogitati ed applicati per
fronteggiarli, la diffusione della nostra stampa in molte regioni. La
crisi stessa aumenta le spese necessarie a pubblicare i giornali, i
quali si aggirano dal punto di vista amministrativo in un circolo
vizioso: la minore diffusione e il minore gettito della vendita
aumentano il passivo, e la mancanza di mezzi impedisce quelle
innovazioni che varrebbero ad attirare un pubblico non mosso dalla
spinta della fede politica.
Edizioni del partito. Due fondamentali rami di attività sono oggetto del lavoro della Libreria del Partito: la traduzione dei più importanti scritti di comunisti esteri da una parte e degli atti della Internazionale, da una parte, e dall’altra la pubblicazione di scritti originali italiani, sia come studi teorici che come opuscoli di propaganda, che come atti ufficiali del partito italiano.
La Centrale del partito si è sempre sforzata di richiamare le organizzazioni locali e i compagni all’attivo lavoro di propaganda per la diffusione delle edizioni del partito, che hanno già incontrato largo favore e non solo nelle nostre file. Occorrerà intensificare questa attività, se si vuole che l’onere finanziario derivante dai grandi sforzi che ha fatto la casa editrice per arricchire la nostra letteratura di numerose edizioni sia compensato da una abbondante e continua vendita, (allegato nr. 8).
Nel gennaio u.s. (1922) si è costituito un Ufficio centrale di propaganda femminile. In tale epoca, con una circolare a tutte le federazioni (vedi allegato nr. 9) il C.E. comunicava la costituzione dell’Ufficio ed invitava i C.E. delle Federazioni a nominare dei Comitati federali di propaganda femminile ove ciò fosse stato possibile, oppure una fiduciaria. In detta circolare (vedi allegato nr. 9) si impartivano anche alcune norme per lo svolgimento della propaganda fra le donne proletarie. L’inesistenza o quasi di un movimento femminile politico proletario in Italia, di cui il nostro partito risente le conseguenze; e la situazione in cui trovasi il proletariato italiano ed il nostro partito (costretto per i 3/4 della sua attività a svolgere un lavoro illegale) ha contribuito al fatto che assai poche furono le nostre federazioni le quali poterono rispondere all’invito contenuto nella circolare. Il nostro segretariato femminile ha, quindi, dovuto lavorare fra difficoltà enormi, e noi riconosciamo che gli scarsi risultati del suo lavoro sono imputabili alle scarse forze femminili affiliate nel nostro partito ed alla impossibilità di avvicinare masse di donne operaie e contadine a causa della reazione che impedisce questi contatti. Si costituirono perciò, pochi comitati: i quali – peraltro – resistono per le capacità direttive di pochissime compagne, venendo a mancare le quali i comitati non funzionano più. È bene tener presente che il nostro partito, già deficiente di elementi direttivi al momento della sua costituzione, oggi, in seguito alla morte, alla prigionia, all’esilio dei migliori ne è quasi sprovvisto. Difficilmente, perciò, i nostri Comitati federali, che hanno da occuparsi di cento importanti questioni riescono a far tutto, come sarebbe desiderabile. Aggiungiamo anche, che di vari comitati federali e sezionali fanno parte compagne le quali sono costrette ad abbandonare, per ciò, gran parte dell’attività che altrimenti potrebbero dare al movimento femminile.
Il segretariato femminile ha cercato di organizzare in tutta Italia la manifestazione internazionale dell’8 marzo. Con il pieno accordo del C.E. del partito esso dette disposizioni per indire manifestazioni nei maggiori centri proletari delegandovi appositi oratori. In tale occasione si tennero buoni comizi nei principali centri del Piemonte, della Lombardia, del Veneto, dell’Emilia.
Intanto si organizzava la conferenza nazionale femminile da tenersi in Roma subito dopo il Congresso del partito. Tutte le federazioni erano state invitate ad inviare una delegata, ma solo poche federazioni avevano potuto provvedere ad essere rappresentate per ragioni finanziarie. Il partito non aveva potuto aiutare finanziariamente le federazioni, in tale occasione, perché sprovvisto di mezzi.
Comunque, nella Conferenza nazionale furono gettate le basi di un più proficuo lavoro. Tale non fu potuto che in minima parte attuare.
Nei nove mesi di esistenza dell’Ufficio centrale di propaganda si sono organizzati tre convegni femminili: uno a Milano, uno a Cremona e uno a Biella (Novara).
Le compagne iscritte al partito non superano di molto le 400 (quattrocento). Su oltre 1.200 sezioni del partito, solo in 96 esistono gruppi femminili. Su 61 federazioni, 38 non hanno neppure una compagna iscritta.
Le donne lavoratrici italiane, anche se simpatizzano col partito comunista, ne fa fede la diffusione di Compagna, sono enormemente restie ad iscriversi in un partito politico, specie poi se questo – come il nostro – richiede da tutti i suoi membri una attività notevole ed una assoluta disciplina.
Appena l’Esecutivo del partito prese la decisione di pubblicare un quindicinale di propaganda comunista per le donne lavoratrici, il Segretariato femminile immediatamente provvide ad una larga diffusione di manifesti, inviati a tutte le sezioni d’Italia, annuncianti l’uscita del quindicinale, mandò una circolare alle federazioni del partito ed a quelle giovanili incitando i compagni ad occuparsi della sua diffusione.
Le compagne più attive e le poche intellettuali furono invitate a collaborare al giornale e a diffonderlo.
Compagna ebbe fin dal primo numero 500 abbonate e circa 5.000 copie di tiratura. Dopo cinque mesi dall’inizio della sua pubblicazione raggiunse i 1.400 abbonamenti e 5.900 copie di rivendita.
Il movimento giovanile in Italia, dopo il II congresso della Internazionale Giovanile, ha continuato a svilupparsi e ad estendere i propri campi di azione, malgrado il continuo intensificarsi della reazione.
Dopo il II Congresso la gioventù ha esplicato un lavoro speciale nel campo della lotta economica della gioventù; dovunque, in tutte le provincie sono stati costituiti dei Comitati Sindacali di studio e di propaganda, i quali hanno lavorato per proporre ai Comitati Sindacali Comunisti una serie di rivendicazioni per la gioventù lavoratrice. In alcune città industriali (Trieste, Torino) il nostro lavoro ha ottenuto qualche frutto.
Un buon lavoro è stato anche esplicato per la organizzazione infantile che prima non esisteva in Italia. Oggi invece i gruppi infantili sono forti di circa 4.000 aderenti e il giornale per i fanciulli Il fanciullo proletario tira adesso 40.000 copie.
Nel
campo dell’educazione della gioventù, della propaganda,
dell’antimilitarismo e infine dell’organizzazione della gioventù
contro il fascismo il Comitato Centrale della gioventù comunista ha
fatto quanto era possibile fare. E si può ben dire che malgrado la
reazione sempre più intensa il movimento giovanile è ancora in
piena efficienza e svolge un proficuo lavoro. Ottimi sono i rapporti
fra il partito e la gioventù.
IX. Persecuzioni ed assistenza
In generale il partito nostro non ha tenuto, nella sua propaganda e nella sua stampa, ad esagerare il tono tradizionale delle campagne di protesta contro gli eccessi e gli arbitri della reazione. Questa attitudine deriva sia da ragioni di principio, per le quali la nostra propaganda deve mostrare che questa lotta spietata contro i rivoluzionari è una necessaria caratteristica dell’azione della borghesia nel periodo attuale, ed anche la necessità di educazione, per abituare le masse a rispondere agli attacchi di cui sono oggetto non con la dimostrazione che si è trattato di sopraffazioni e di arbitrio, ma con la preparazione effettiva per pervenire a respingere e vendicare le offese patite, a colpire a fondo le organizzazioni degli avversari.
Per l’assistenza ai profughi il partito ha dovuto fare, soprattutto localmente, sacrifici finanziari veramente enormi. Sono straordinarie le tasse che si sono da se stessi imposti in molte località i compagni e i buoni simpatizzanti allo scopo di aiutare gli arrestati, gli esuli, e le famiglie delle vittime. La Centrale del partito ha fatto a tale scopo quello che ha potuto, e con ripetute istruzioni si è sforzata di far sì che gli sforzi locali avessero il maggior rendimento e fossero adoperati per sovvenire i veramente meritevoli, lottando contro la piaga delle false vittime che girano l’Italia e il mondo gabbando il sentimentalismo dei nostri compagni.
Anche
si è cercato di costituire per sottoscrizione un fondo centrale per
le vittime politiche, ma questo non ha dato i risultati che si
attendevano.
X. Lavoro culturale
Recentemente furono disciplinate nazionalmente tutte le iniziative culturali, costituendo la sezione italiana del Proletkult con sede a Torino. Esso è organizzato sulla base di un Comitato centrale e di Sezioni locali residenti possibilmente nei capoluoghi di regione. Questi Comitati locali potranno creare delle sottoscrizioni nei capoluoghi di provincia evitando però di moltiplicare i centri minori che non costituirebbero altro che delle dispersioni inutili di energie.
Il C.C. è costituito di 9 membri nominati nel Congresso del Proletkult e scelti fra i soci degli organismi aderenti esistenti nella città di residenza del C.C. stesso. Il C.C. si nomina nel suo seno un C.E. di tre membri il quale è incaricato del lavoro di segreteria.
Le sezioni locali nominano esse pure un Comitato Direttivo, composto di 5 membri nominati dall’assemblea degli organismi aderenti, e che si eleggono nel proprio seno un segretario. I Comitati Direttivi, su consiglio degli organismi aderenti, procedono alla nomina dei comitati di cultura scegliendo gli elementi fra i compagni capaci in singole arti e scienze, intenditori e dotati di particolari attitudini, forniti di un grado superiore di conoscenza delle norme e dei metodi di esse.
I membri dei Comitati di cultura hanno il compito di sorveglianza tecnica, dell’organizzazione, del controllo, della iniziativa, dell’insegnamento. Essi sono impegnati a fare periodiche relazioni del lavoro al Comitato Direttivo al quale incombe l’obbligo della coordinazione delle attività, della distribuzione dei mezzi e delle forze, della organizzazione delle manifestazioni comuni, del legame cogli organismi proletari, sindacali, politici e cooperativi.
I Comitati Direttivi sono interessati alla preparazione di manifestazioni di carattere generale e multiforme che non rientrano nelle attribuzioni specifiche dei singoli organizzati aderenti (concerti, conferenze, ecc.) e deve appoggiare e sorreggere tutte le manifestazioni di questi nell’ambito delle loro attribuzioni.
Possono aderire al Proletkult tutti gli organismi di carattere culturale agenti in seno alla classe proletaria, quali le società corali, strumentali, ecc.; le compagnie di recitazione, le bande mandolinistiche; le scuole di ricamo e di cucito; i centri idisti ed esperantisti; i gruppi di cultori di arte e scienze; le Università proletarie; ecc.
Il Proletcult pubblica un bollettino mensile curato dal Comitato Centrale, contenente le notizie e i comunicati ufficiali della organizzazione, articoli e brani di collaborazione forniti dai soci delle organizzazioni aderenti.
Il Proletcult è anche autorizzato a procedere alla pubblicazione di libri e di opuscoli che non abbiano carattere politico ma bensì letterario ed artistico ed il cui contenuto non urti colle premesse della sua costituzione.
Possono dare la propria adesione singolarmente al Proletcult anche persone isolate appartenenti alle organizzazioni classiste del proletariato, a patto che esse si dichiarino disposte a lavorare nel senso che loro verrà indicato per lo sviluppo del programma della istituzione.
Possono aderire al Proletcult le organizzazioni sindacali e politiche del proletariato dietro versamento di una quota speciale annua che verrà stabilita all’atto della loro ammissione.
La
situazione sociale italiana non ci dà soverchie illusioni sull’esito
del lavoro di cultura iniziato dal partito. Comunque è assai
importante il fatto che in questo momento il nostro partito tenti la
soluzione di un problema di sì grande mole.
Tenute presenti le direttive della Internazionale dello sport costituita a Mosca con la presenza di rappresentanti italiani, e di intesa col movimento giovanile, anche per questo problema, dopo aver completati gli studi in corso, si sono date concrete disposizioni sul contegno che i comunisti devono tenere e sulle iniziative che devono prendere.
Questa
branca di lavoro è stata affrontata dalla Centrale del partito, dopo
il congresso, in modo da stabilire un atteggiamento uniforme dei
compagni, e tentare di costituire sempre nuove zone di contatto tra
noi e le grandi masse con tutte le molteplici loro esigenze. Un
Comitato Centrale dello Sport è stato creato ad Alessandria
(Piemonte).
La Centrale ha avuto cura di mantenere stretti rapporti con la Internazionale Comunista e coi partiti confratelli, superando le varie difficoltà che si frappongono a questo contatto.
Il partito ebbe spesso occasione di inviare rappresentanti all’estero: in marzo partecipò a Berlino a una conferenza dei partiti dell’Europa centrale, e cercò di stabilire speciali legami coi partiti più vicini, specie quelli di Spagna e Jugoslavia colpiti dall’infierire della reazione, ed anche quelli di Francia, Germania, Austria e Svizzera.
Dopo i congressi internazionali la nostra stampa e le nostre edizioni informarono largamente il partito e il proletariato italiano delle deliberazioni prese e delle direttive tracciate. Quali rapporti politici e tattici queste avessero con la situazione e l’opera del nostro partito si vedrà più innanzi. Il nostro partito ebbe anche occasioni di avere intimi contatti e notizie dei partiti esteri allorché l’Internazionale volle scegliere nel suo seno i proprii delegati ai congressi esteri: Graziadei per la Spagna, Bordiga per la Francia, Gennari per la Ceco-Slovacchia e Finlandia.
Quando si ebbe a Milano il congresso socialista, la centrale ebbe contatto con i delegati dei partiti comunisti esteri intervenuti e con quelli del C.E. dell’Internazionale, che furono da noi assistiti in tutti i loro movimenti e nel loro intervento illegale al congresso socialdemocratico. Il compagno Henry Valevsky rimase più a lungo in Italia e collaborò al nostro lavoro politico e ai nostri legami con Mosca. Il partito italiano può registrare con soddisfazione come tutti i compagni esteri che hanno assistito da vicino al nostro lavoro ne abbiano scritto e riferito nei termini più lusinghieri.
Diciamo apertamente che dovrebbe essere maggiore l’attività del nostro partito per illuminare il C.E. dell’Internazionale e anche l’opinione comunista estera sul vero stato della situazione in Italia e sui problemi che ci si presentano, nonché sul nostro lavoro. Se di più non si è fatto in tal senso si deve alla materiale mancanza della possibilità di dedicare più ampiamente a tal lavoro gli uffici del partito il cui personale è sovraccarico di mansioni.
Si sono però già presi tutti i provvedimenti atti a sistemare questa materia importantissima. Si sono inviati a Berlino e a Parigi un nostro ufficiale rappresentante, si è provveduto a rafforzare la nostra rappresentanza a Mosca.
Il
nostro partito fu rappresentato al Congresso del Partito comunista
francese a Marsiglia dai compagni Tasca e Bordiga, a quello del
Partito comunista svizzero dal compagno Grieco; al recente congresso
del Partito Comunista Inglese dal compagno Togliatti; al congresso di
Parigi del Partito Comunista Francese dal compagno Mauro Scoccimarro.
Il compagno Togliatti avrebbe dovuto recarsi al Congresso bulgaro, al
quale era stato delegato, ma grandi necessità interne di partito gli
impedirono di compiere l’importante mandato.
XIII. Azione in Parlamento e nelle amministrazioni locali
Nello svolgersi delle vicende politiche di questo periodo moltissime delle amministrazioni comuniste sono state disciolte, o costrette alle dimissioni per le insidie della reazione fascista e talvolta dei socialisti. In massima la Centrale stabilì che non si dovessero dare dimissioni senza il suo consenso, consenso che fu talvolta dovuto accordare per superiori ragioni locali. Ma alla vigilia del IV Congresso Internazionale possiamo dire che esistono ormai in Italia soltanto pochissime amministrazioni locali tenute dai comunisti, le quali saranno presto anche esse disciolte dalle autorità statali.
Per tali ragioni fu dovuto rinunziare alla creazione di un ufficio centrale di consulenza per le Amministrazioni comuniste la cui esistenza sarebbe stata inutile.
L’attività parlamentare, durante lo scorcio della XXIV legislatura fu frequente e culminò in un discorso del compagno Graziadei sulla politica interna del governo Giolitti. Alla costituzione del gabinetto Bonomi il Gruppo prese posizione con i discorsi dei compagni Bombacci e Tuntar. In dicembre il Gruppo ebbe occasione di svolgere con discorsi dei compagni Graziadei e Garosi i punti di vista del partito comunista nella politica interna ed estera.
Un incidente che richiamò molto l’attenzione di compagni ed avversari sull’opera parlamentare del nostro partito, fu quello del compagno Misiano. All’apertura della legislatura fu possibile, per un semplice malinteso, ai deputati fascisti sorprendere la vigilanza dei compagni deputati intorno al nostro compagno ed espellerlo dall’edilìzio del Parlamento, ove Misiano ritornò e giurò prima di partire per la Russia quale delegato al Congresso di Mosca. Dopo le vacanze il gruppo fascista voleva rinnovare il colpo, ma tanto non gli fu possibile, e coli’allontanarsi dei fascisti e di altri deputati borghesi dalle sedute all’apparire di Misiano si riuscì solo ad intralciare il funzionamento della Camera in alcune sedute importanti. Di questo errore tattico degli avversari profittarono la Centrale del partito e il Gruppo per organizzare parecchie volte il ritorno del Misiano nell’aula e il conseguente impedimento che la Camera funzionasse. È noto come si venne ad una arbitraria procedura di annullamento della elezione Misiano troncando così questa situazione.
Nel nuovo anno non mancò quasi mai, anche durante la discussione dei bilanci, la parola comunista.
Dopo lo sciopero generale dei primi di agosto ed alla conseguente recrudescenza fascista, il compagno Repossi lesse una dichiarazione a nome del Gruppo parlamentare comunista, preparata dal C.E. del partito. L’incidente al quale nella Camera dette luogo l’intervento dei comunisti voi lo conoscete: esso ebbe una forte ripercussione fra le masse.
Occorre tener presente che il nostro piccolo gruppo, per la attività che i suoi membri debbono dare alle organizzazioni del partito, è ordinariamente rappresentato alla Camera da uno scarsissimo numero di compagni (quattro o cinque, generalmente). Devesi anche considerare che tra i compagni che compongono il Gruppo i competenti che possono intervenire nelle più diverse questioni sono pochissimi (due o tre), ed il C.E. per l’intensità del suo lavoro, non può seguire passo a passo il lavoro parlamentare e preparare sempre i discorsi ai compagni deputati.
Comunque, però, se pure riconosciamo che la nostra attività parlamentare deve svolgersi con maggiore intensità, riconosciamo che i compagni deputati si sono adoperati per intensificare l’azione parlamentare del partito. Oltre alla partecipazione alle sedute con discorsi e dichiarazioni, l’opera dei deputati si svolge anche in altre forme, colla presentazione di interrogazioni, e consuetudinariamente con l’intervento diretto in taluni pubblici uffici con questo o quell’intento. Di norma si è stabilito che la forma di azione dei deputati comunisti dinanzi a questioni contingenti che loro si affacciano dagli organi del partito o pel tramite di questi, è la interrogazione pubblica, abbandonando salvo casi speciali in cui si sostiene apertamente il diritto o l’interesse dei gruppi proletari a scopo di propaganda o di protesta pubblica, la pratica dell’intervento diretto presso i poteri statali, di cui così largo uso si è sempre fatto nel campo socialista. Tuttavia il partito deve ancora maggiormente abituarsi a non rivolgersi ai compagni deputati per quistioni parziali o peggio personali, e quando si debba farlo e sia utile farlo per i riflessi che questo intervento ha sulle masse o per altre effettive considerazioni di partito, a chiedere l’intervento di un compagno deputato solo attraverso gli organi del partito e non direttamente.
La posizione tattica del Partito Comunista d’Italia nell’attuale situazione del movimento sindacale italiano, si definisce in rapporto a tre principali punti: l’unità sindacale, i rapporti internazionali, l’azione di resistenza e di riscossa contro l’offensiva capitalistica e contro il fascismo.
Il 15 agosto 1921, di fronte allo sviluppo dell’offensiva capitalistica ed alla manifesta impotenza della tattica seguita dai riformisti dirigenti la C.G.L. a difendere i lavoratori dall’attacco padronale, il Comitato Sindacale Comunista, con una lettera diretta alla C.G.L., al Sindacato Ferrovieri e alla U.S.I., proponeva la costituzione del fronte unico proletario sul terreno sindacale, e lo sciopero generale nazionale in difesa della classe lavoratrice. La risposta pervenuta dalla C.G.L. riflette chiaramente fino a qual punto i riformisti italiani, come i loro compagni degli altri paesi, abbiano rinnegata la causa proletaria e si siano posti al servizio della borghesia: essi tacciarono di demagogia e di incoscienza la proposta comunista.
Il Sindacato Ferrovieri e l’U.S.I. pur dichiarandosi favorevoli al
fronte unico non hanno però neppure essi presa in seria
considerazione
il nostro invito. La questione fu portata dai comunisti direttamente
fra
la massa, nella quale trovò le maggiori simpatie.
Contemporaneamente si
chiedeva alla C.G.L. di discutere le nostre proposte in un Congresso
nazionale.
Numerose organizzazioni sindacali, pur non essendo dirette da
comunisti,
accettarono la proposta comunista.
Il Consiglio Nazionale di Verona
Frattanto, nei giorni 7 e 8 settembre si teneva a Milano un convegno nazionale delle organizzazioni su direttiva comunista. Un centinaio di delegati rappresentanti oltre 500.000 organizzati nella C.G.L. e nel Sindacato Ferrovieri, convennero da ogni parte d’Italia. Vennero ampiamente discusse questioni di organizzazione e fissate le direttive dell’azione dei comunisti in seno alle organizzazioni proletarie.
La campagna per il fronte unico proseguiva. Dietro richiesta di
numerose
organizzazioni aderenti, il Consiglio Direttivo della C.G.L. fu
costretto
a convocare il Consiglio Nazionale, che si tenne a Verona nei primi
giorni
di novembre del 1921. Questione centrale intorno alla quale si svolse
la
discussione, fu quella del fronte unico e dello sciopero generale
nazionale,
come più valida forma di lotta contro la offensiva
capitalistica. Contro
tale proposta si schierarono quasi tutti i burocrati sindacali della
C.G.L.
Il risultato delle votazioni fu il seguente:
– Camere del Lavoro: Mozione comunista: voti 246.402; Mozione
socialista:
voti 612.653;
– Frazioni di mestiere: Mozione comunista: voti 169.310; Mozione
socialista: voti 813.868.
Devesi rilevare che la votazione avvenne in base al numero degli
organizzati
esistenti alla fine del 1920. Ciò ha avuto la seguente
conseguenza: che
mentre molte organizzazioni ebbero modo di pesare nelle votazioni a
favore
della mozione confederale, votando per un numero di soci molto maggiore
del reale, numerose organizzazioni sorte nel 1921 ed aderenti alla
proposta
comunista non poterono far valere la loro forza nel voto. Tipico
l’esempio
della Federazione dei Lavoratori della terra che votò per
850.000 iscritti,
tanti quanti erano nel 1920, mentre all’epoca del Consiglio Nazionale
Confederale non ne contava che 200.000.
L’Alleanza del Lavoro
Ma nonostante tutti gli ostacoli e tutti gli impedimenti, la pressione delle masse spinge inesorabilmente verso il fronte unico. La costituzione della Alleanza del Lavoro fra le cinque maggiori organizzazioni sindacali nelle quali è diviso il proletariato italiano, fu un passo notevole verso la costituzione del fronte unico.
La posizione del nostro Partito di fronte alla Alleanza del Lavoro,
definita in pubbliche dichiarazioni, fu la seguente: denunziando
anzitutto
il pericolo che gli opportunisti se ne facessero un mezzo per coprire
con
una maschera di popolarità la politica di collaborazione
borghese, accettare
però, e riconoscere il centro direttivo della Alleanza,
impegnando l’azione
di tutte le forze sindacali comuniste alla disciplina verso le
disposizioni
che quel centro emanasse. Condurre, però, contemporaneamente,
nel seno
delle masse e servendosi della rete sindacale del Partito, ed anche
invitando
a porsi sullo stesso terreno gli elementi sindacalisti ed anarchici,
una
campagna per questi punti fondamentali:
a) - Il fronte unico deve essere organizzato su
di una vasta rappresentanza delle masse, con comitati locali eletti in
tutti i sindacati, e attraverso l’iniziativa di un grande convegno
nazionale
sindacale, eleggendo un organismo direttivo a cui partecipino tutte le
frazioni sindacali proletarie, su di una chiara piattaforma comune;
b) - Più che una semplice intesa fra gli
uffici
delle grandi centrali sindacali, il fronte unico deve essere una
alleanza
di tutte le categorie proletarie e di tutte le Camere del lavoro
locali,
che reciprocamente si impegnino alla fusione in una sola battaglia di
tutte
le vertenze parziali che l’offensiva padronale solleva;
c) - Devono essere stabiliti i postulati da
difendere
con questa azione solidale di tutto il proletariato, fra i quali deve
primeggiare
la difesa della esistenza e della funzione dei sindacati e il
mantenimento
del livello del salario e il tenore di vita proletario;
d) - I mezzi di azione da adoperarsi in comune non
devono avere come piattaforma la politica parlamentare statale, ma
restare
sul terreno della azione diretta sindacale di pressione sulla borghesia
e sullo Stato, usando come mezzo centrale e decisivo lo sciopero
generale
nazionale.
I capisaldi da stabilire a base di una dichiarazione di alleanza, dovevano dunque corrispondere a quelli avanzati più volte dai comunisti nella nota lettera aperta del Comitato sindacale e nella mozione di Verona.
Il grave problema della disoccupazione, considerato in prima linea
fra
questi postulati, fu oggetto di agitazioni di massa dirette dai
comunisti,
i quali dimostrarono di poterlo e saperlo impostare
rivoluzionariamente,
nel campo dei problemi immediati che interessano i lavoratori.
La propaganda comunista
Non è necessario soffermarci in modo particolare sull’attività svolta dai comunisti in ciascuno dei congressi nazionali professionali, per il fatto che il carattere centralizzato della lotta contro i socialdemocratici determina un unico piano d’azione per tutti i comunisti, qualunque sia l’organismo sindacale nelle cui file essi militano.
Il nostro Partito ha intrapreso dal primo momento della sua costituzione un intenso lavoro sindacale. Ma il problema di raggiungere con la nostra propaganda le masse controllate dai socialisti e dagli anarchici si presentò subito a noi e fu praticamente risolto, prima ancora di possedere i dati del III Congresso mondiale e del Congresso dei Sindacati Rossi. Lo studio della situazione italiana ci dettò il nostro piano tattico, che non seguimmo incoscientemente, ma tracciammo e lanciammo tra le masse tenendo conto, naturalmente, delle disposizioni e tendenze di queste.
La storia della accoglienza data alla nostra proposta dell’agosto 1921 si riassume in poche parole: ostruzionismo dei capi sindacali, simpatia sempre crescente delle masse. Con questa proposta noi divenivamo gli iniziatori del fronte unico proletario, e nello stesso tempo non interrompevamo ma intensificavamo il nostro lavoro per strappare posizioni ai socialisti e agli anarchici.
Lo spirito della proposta comunista fu pienamente compreso fra le masse: esse capirono che l’azione parziale di gruppi non avrebbe riportato successo contro l’offensiva borghese, che si imponeva l’affasciamento di tutte le vertenze che l’offensiva della borghesia solleva.
Fu lo sviluppo della nostra campagna che portò alla
formazione dell’Alleanza
del Lavoro. L’iniziativa ne fu presa nel febbraio dal Sindacato
Ferrovieri
che, prima di convocare i sindacati, volle convocare i partiti al solo
scopo di informazione sulla proposta di alleanza dei Sindacati. Tanto
è
vero che non furono i partiti presenti a detta adunata che ebbero
diritto
a una rappresentanza del C.C. dell’Alleanza. Noi non partecipammo alla
riunione. Il nostro intervento avrebbe portato ad un contrasto di
opinioni
insanabili, senza gravissime concessioni di principio da parte nostra,
e l’Alleanza non sarebbe sorta. Noi infatti non avremmo potuto
sottoscrivere
il comunicato equivoco e pacifista uscito dalla riunione dei partiti.
Ci
limitammo a mandare ai ferrovieri una lettera dicendo che eravamo stati
noi gli iniziatori dell’Alleanza sindacale, e che questa avrebbe potuto
contare sulla disciplina dei comunisti.
Contro il collaborazionismo
La iniziativa dei ferrovieri coincideva con la crisi ministeriale tra il Gabinetto Bonomi e quello Facta. Fu evidente che i socialisti volevano allora formare un blocco proletario per servirsene allo scopo di premere per un ministero "di sinistra". La posizione indipendente del partito come tale aveva l’obiettivo di permetterci di lottare contro questo piano attaccando anche il C.C. dell’Alleanza del Lavoro se avesse deviato dagli scopi dell’Alleanza stessa, senza per altro romperne le compagine della disciplina come coalizione di organizzazioni di masse. Il piano del "governo migliore" in Italia si esplicò con una propaganda disfattista in mezzo alle masse, poiché lo si presentò come un mezzo per eliminare il fascismo e la reazione, invitando il proletariato a desistere da ogni resistenza attiva. La tattica che ci si impose fu quella della nostra indipendenza e della nostra costante opposizione rispetto a questo piano. La costituzione dell’Alleanza era una concessione allo spirito dell’unità di azione che aveva guadagnato le grandi masse, concessione che dagli elementi di destra era stata fatta appunto per diminuire la pressione di queste e dilazionare il momento in cui l’azione si sarebbe imposta. Dovevamo lottare contro il pericolo che l’Alleanza addormentasse le masse nella inazione. Quindi nel fronte unico ci occorreva non una posizione di compromesso reciproco che vincolasse la nostra azione ad una formula comune, ma una assoluta libertà di azione e di propaganda, senza poter essere ricattati ogni giorno da una minaccia di rottura.
Condotti socialisti ed anarchici a compiere il passo irrevocabile
dell’Alleanza
sindacale, che si esplica in convocazioni di comitati e comizi di
masse,
abbiamo dettato le direttive per una propaganda sistematica, tendente
ad
agitare il contenuto effettivo d’azione che secondo i comunisti doveva
essere dato alla Alleanza. In un manifesto del marzo ne riassumemmo i
capisaldi.
Per gli scopi ponemmo avanti una serie di rivendicazioni concrete
contro
le manifestazioni sia economiche che politiche dell’offensiva, tra cui
in prima linea quello che i socialisti non accettano: rifiuto delle
riduzioni
salariali. Per i mezzi: lo sciopero generale nazionale. Per
l’organizzazione
dell’Alleanza chiedemmo che essa venisse allargata sulla base della
rappresentanza
diretta delle masse, con vasti comitati locali nei quali fossero
rappresentati
tutti i sindacati, e con la convocazione di un congresso nazionale
dell’Alleanza
del Lavoro.
Per un fronte unico dal basso
Nel comitato nazionale dell’Alleanza chiedemmo anche direttamente a mezzo del comitato sindacale comunista, che le delegazioni di ciascun organismo sindacale non fossero composte di soli funzionari della centrale, ma nominate con criterio proporzionale alle frazioni in cui ciascun sindacato è diviso. Se tale proposta fosse stata accettata, sarebbero entrati nel comitato i comunisti in rappresentanza dell’U.S.I., delle minoranze confederali e del Sindacato Ferrovieri, i sindacalisti favorevoli all’Internazionale dei Sindacati Rossi. Si sarebbe così avuta una maggioranza contro i socialisti nell’Alleanza del Lavoro, composta da comunisti, sindacalisti e anarchici. Il rifiuto di tale proposta ci ha permesso di fare una campagna contro il settarismo degli altri e la loro opera di siluramento dell’unità. Un rapporto dettagliato dell’attività sindacale del nostro Partito viene presentato dalla delegazione italiana al II Congresso del Profintern.
L’attività sindacale del Partito è di duplice aspetto:
organizzativa,
nel senso che essa ha mirato a rafforzare ed a estendere i gruppi
comunisti
nei sindacati, ed a portare il pensiero del partito attraverso questi
dinnanzi
alle masse; diretta, per quanto gli organismi sindacali nelle
mani
del Partito hanno fatto nelle varie occasioni in cui le masse
organizzate
furono in agitazione. In occasione del Congresso dell’Internazionale
di Amsterdam a Roma, il nostro Partito, attraverso di suo comitato
sindacale,
aveva preparato una serie di sessanta comizi pubblici, nei quali
oratori
comunisti avrebbero dovuto spiegare il programma della I.S.R., ed
accusare
i traditori gialli. Migliaia di manifesti, edizioni straordinarie dei
giornali,
avrebbero dovuto completare la nostra campagna. In occasione della gita
a Tivoli dei congressisti, offerta dalla C.G.L. d’Italia, migliaia e
migliaia di manifesti erano stati affissi a Tivoli (allora quel comune
era in nostre mani) nei quali erano scritte severe espressioni di
disprezzo
agli ospiti. In tale occasione era stato predisposto che il redattore
capo
de "Il Comunista" compagno Palmiro Togliatti, tenesse una conferenza a
Tivoli. Tutta questa nostra preparazione fu annullata, non appena il
compagno
Bordiga ci fece conoscere da Berlino che la riunione delle tre
Internazionali
imponeva la necessità di attutire in un primo tempo l’attacco
comunista
alle altre due Internazionali.
Lo sciopero metallurgico di giugno
Notevole la posizione predominante assunta dai comunisti nell’importante sciopero metallurgico del giugno 1922. Nel convegno metallurgico che seguì dopo 17 giorni di sciopero e che si tenne a Genova, i comunisti riportarono 39.000 voti (contro 44.000 avuti da tutte le altre frazioni socialiste – meno la terzinternazionalista – assieme a 17.000 astenuti) sulla proposta di estendere a tutte le categorie lo sciopero. Le grandi agitazioni operaie che continuamente scoppiarono nella primavera e nell’estate 1922 diffondevano nella massa il concetto dello sciopero generale. La reazione sempre maggiormente intensa, e il dissidio verificatosi in seno al Partito Socialista a proposito del collaborazionismo, indussero il Consiglio Direttivo Confederale a convocare il Consiglio Nazionale nei giorni 3-4-5-6 luglio.
La nostra posizione sindacale, in tale occasione emersa, non
può essere
considerata sulla sola base delle cifre dei voti. Questi sono i
risultati
di imbrogli abominevoli. In una nostra relazione del 23 luglio, noi
esaminavamo
la portata del voto. Nella preparazione del C.N. noi avevamo guadagnato
parecchi sindacati, e le Camere del lavoro di Trento, Roma, Ravenna,
Como,
Vercelli, Aquila, ed altre minori.
La proposta Comunista in difesa dei Sindacati
Altrove diciamo dello sciopero generale della situazione nuova venutasi a creare. Oggi il compito preciso è quello di salvare i sindacati dal pericolo di un ulteriore disgregamento, che la reazione accelera con un martellamento senza fine, e di impedire che il sindacato perda i suoi connotati classisti. A tal proposito il nostro Comitato Sindacale avanzò recentemente la seguente lettera alle frazioni di sinistra dei sindacati:
Milano, 6 settembre 1922Al Comitato Sindacale terzinternazionalistaIl giorno 8 ottobre si tenne a Milano il convegno delle sinistre sindacali. Erano presenti: i rappresentanti del Comitato Sindacale Comunista, del Comitato Sindacale Social-massimalista, del Comitato comunista Ferroviario, della Frazione Sindacalista Rivoluzionaria (Vecchi). Poiché l’U.S.I. è diretta da sindacalisti anarchici, desiderando l’intervento dei dirigenti attuali dell’U.S.I. dal convegno fu inviata una lettera al Comitato Sindacale del Partito Anarchico. L’Ufficio di corrispondenza dell’Unione Anarchica aveva risposto con una lettera nella quale, fra l’altro, era detto: «In quanto alla difesa del movimento operaio dalle perniciose infiltrazioni collaborazioniste da un lato e nazionaliste dall’altro, noi siamo in linea di massima perfettamente d’accordo, anzi pensiamo che esso debba essere mantenuto indipendentemente da qualsiasi governo e da qualsiasi partito politico».Al Comitato Sindacale massimalistaCari compagni,
Al Comitato Sindacale della frazione sindacalista dell’U.S.I.
All’Ufficio Sindacale dell’Unione Anarchica Italiana
Al Comitato Massimalista Ferroviario.
La situazione presente del movimento sindacale italiano ci spinge alla seguente iniziativa, per il successo della quale non dubitiamo del vostro efficace concorso.
Il pericolo che sovrasta in questo momento alle organizzazioni di classe del proletariato non è solo quello della reazione statale e fascista che i prefigge di stroncarle con la violenza. Un’altra insidia si delinea sempre più, proveniente dai capi stessi di una parte del proletariato organizzato, che vorrebbero incanalare i sindacati su vie e metodi nei quali si snaturerebbe il loro carattere di classe.
Equivoche forme collaborazioniste e borghesi vengono da più parti affacciate sotto il nome di sindacalismo nazionale, di movimento operaio entro il campo degli organismi nazionali; e questo piano non significa altro che il proposito di togliere ai sindacati ogni efficienza rivoluzionaria e perfino ogni effettiva capacità di lotta contro il padronato nelle stesse contese economiche.
Si tende per tal modo al siluramento del fronte unico e dell’Alleanza del Lavoro e a rendere impossibile ogni schieramento delle forze proletarie sul terreno della lotta diretta contro la reazione e contro il fascismo, con i quali stessi si giungerà in ultima analisi a patteggiare, prima una resa vergognosa, poi una effettiva alleanza.
Simili propositi non debbono riuscire a realizzarsi: ad essi tutte le forze sane del movimento proletario devono opporre le gloriose tradizioni rosse di questo, la insopprimibile ragione della lotta di classe, la salda speranza delle masse nell’abbattimento del regime capitalistico.
A tale scopo noi riteniamo che le varie tendenze sovversive militanti nel campo sindacale, restando nettamente distinte e serbando libertà d’azione non solo per quello che è il loro programma politico, ma anche nelle loro particolari vedute su dati problemi di tattica sindacale, possano e debbano stringere fra loro una intesa leale per la difesa delle posizioni comuni a quanti sono per la causa della lotta emancipatrice del proletariato.
Questi punti, su cui una intesa dovrebbe effettuarsi con l’impegno reciproco di coalizzarsi nelle loro affermazioni in tutte le adunate proletarie e i congressi sindacali, sono, a nostro modo di vedere, i seguenti: Le organizzazioni sindacali devono essere indipendenti da ogni influenza dello Stato borghese e dei partiti della classe padronale, e la loro bandiera deve essere la liberazione dei lavoratori dallo sfruttamento padronale. Il fronte unico proletario per la difesa contro l’offensiva padronale deve essere mantenuto e rinnovato nell’Alleanza del Lavoro, stretta fra le organizzazioni tra cui sorse e resa tale nella sua costituzione da rispecchiare le forze e la volontà delle masse.
Noi quindi vi invitiamo ad un convegno, nel quale una comune dichiarazione da lanciare al proletariato italiano suggellerebbe una simile intesa, e darebbe a tutte le forze classiste una chiara piattaforma comune di propaganda e di agitazione, suonando severa rampogna ai pochi che tentennano e defezionano nell’ora del pericolo.
Per tale modo si opererà potentemente al fine di salvare la rossa bandiera della classe proletaria da oblique insidie come dalla bufera della violenza reazionaria, e di stringere i vincoli dell’unità del fronte del proletariato contro la reazione borghese.
Siamo ben certi di ricevere la vostra adesione alla convocazione del convegno tra le delegazioni degli organismi a cui la presente lettera è indirizzata e di quelli che la sottoscrivono, riservandoci di farvi noto il luogo e la data di convocazione.
In tale fiducia vi porgiamo il nostro saluto.Il Comitato Sindacale Comunista
Il Comitato Comunista Ferroviario.
Il contenuto della lettera era dunque di adesione al convegno. Ma
saranno
fatti da parte nostra altri passi per impegnare possibilmente in
maniera
più stretta gli anarchici che dirigono organismi sindacali alla
difesa
dei "punti" approvati nel convegno dell’8 ottobre a Milano.
La mozione delle sinistre sindacali
In detto convegno fu approvata la seguente mozione:
«I rappresentanti del Comitato Sindacale Comunista, del Comitato Sindacale Socialista, del Comitato Comunista Ferroviario, della Frazione Sindacalista Rivoluzionaria dell’U.S.I., riuniti a convegno il giorno 8 ottobre 1922, esaminata la situazione del movimento sindacale italiano, convinti che nell’interesse e per la salvezza del proletariato italiano sia indispensabile difendere con una azione risoluta e concorde i punti seguenti:
1) - Le organizzazioni sindacali dei lavoratori devono rimanere indipendenti da ogni influenza e controllo dello Stato borghese e dei partiti della classe padronale, loro programma e loro bandiera deve essere la lotta per l’emancipazione dei lavoratori dallo sfruttamento capitalistico, le loro file devono essere aperte ad ogni propaganda delle idealità rivoluzionarie del proletariato.
2) - Il fronte unico proletario per la difesa e la riscossa contro le molteplici manifestazioni della offensiva borghese deve essere mantenuto nella forma dell’Alleanza del Lavoro, stretta fra tutti gli organismi classisti del proletariato, ma organizzata in modo che essa sia deliberante a voto maggioritario e assicuri la più fedele consultazione e rappresentanza proporzionale per ogni sindacato aderente delle frazioni che militano nel seno del medesimo e anche come necessaria preparazione alla auspicata definitiva fusione in un sola di tutte le organizzazioni di classe dei lavoratori italiani.
«Convinti che ogni manovra tendente sotto varie formulazioni ad intaccare questi capisaldi, con voler raffrenare l’azione sindacale entro i limiti delle istituzioni borghesi, escludere la propaganda e l’azione dei partiti estremi dai sindacati, legalizzare l’opera e l’attività di essi sullo stesso piano delle corporazioni dei ceti abbienti per una pretesa collaborazione ricostruttiva della economia, ammainare il glorioso vessillo rosso emblema delle altissime tradizioni delle organizzazioni classiste italiane, corrisponde al tentativo reazionario di stroncare la lotta di classe, rendere impossibile ogni resistenza economica dei salariati, e avvilire ad un livello schiavistico il tenore di vita delle classi lavoratrici per consentire alle classi sfruttatrici di consolidare le basi compromesse del loro dominio:
«Impegnano tutte le forze aderenti agli organismi convenuti, pur differenziandosi nel sostenere particolari punti di vista circa altri problemi di tecnica e politica sindacale, a coalizzarsi per l’affermazione e la difesa dei capisaldi suddetti, in tutte le adunate e convegni, congressi dei sindacati e convocazioni comuni a vari sindacati, contro proposte e atteggiamenti che tali capisaldi tendessero a ledere, e a provocare, con una attiva campagna, dalle adunate proletarie, voti che esigano dagli organi centrali dei sindacati nazionali la ripresa dei contatti per la riorganizzazione immediata dell’Alleanza del lavoro».
Dopo lo sciopero
dell’agosto
In seguito all’approvazione di tale mozione noi tendiamo a mettere sul tappeto della discussione la immediata intesa per la ricostruzione dell’Alleanza del Lavoro, che dopo lo sciopero dell’agosto fu dai capi riformisti ed opportunisti spezzata, ed a sostenere i concetti classisti del Sindacato che una corrente di destra tenterebbe di distruggere.
La intensa opera di propaganda e di organizzazione comunista, compiutasi nel seno dei sindacati classisti italiani, sollevò l’offensiva dei dirigenti socialisti, anarchici e sindacalisti contro di noi. Una campagna di diffamazione fu aperta contro il presunto intendimento dei comunisti di dissolvere i sindacati, che è una parola d’ordine dei mandarini di ogni paese contro l’attività comunista. La campagna dette una maggior vivacità alla lotta, ed i nostri compagni furono costretti ad una asprezza polemica vivacissima. Fu votato, in una riunione del consiglio direttivo della Confederazione, un ordine del giorno con il quale minacciavasi di espellere chi mantenesse un contegno polemico "diffamatorio" ed "organizzasse la indisciplina". Queste espressioni volevano significare che i capi comunisti dovevano essere espulsi dai sindacati. Ma noi eravamo riusciti ad essere troppo forti perché i funzionari riformisti ed opportunisti osassero liberarsi con troppa facilità dall’opposizione comunista. E provvedimenti simili non furono presi. Chi invece, seppe dare esempio del modo come si debbano trattare i comunisti nei sindacati, furono i sedicenti rivoluzionari dirigenti del Sindacato Ferrovieri Italiani, i quali nel luglio espulsero dalla loro organizzazione i compagni Isidoro Azzario e Carlo Berruti, per la loro attività comunista e per aver essi aspramente criticato taluni capi del sindacato. Il provvedimento, nuovo nella storia delle organizzazioni di classe italiane, indignò le masse sindacali e quella ferroviaria in specie. Numerose assemblee di ferrovieri votarono risoluzioni di simpatia ai nostri due compagni. Sopravvenuto lo sciopero generale, i capi ferrovieri che i nostri compagni avevano accusato dettero prova di voler portare il sindacato fuori dall’orbita classista. La critica dei nostri compagni veniva a trovare conforto nella prova dei fatti. Intanto l’amministrazione ferroviaria dimissionava il compagno Azzario perché capeggiatore dello sciopero. Il Consiglio Generale del S.F.I. (3 settembre 1922) era costretto a ritirare il precedente deliberato e a riammettere nel Sindacato i due nostri compagni. Tale avvenimento segnò la vittoria comunista nella organizzazione dei ferrovieri.
Contemporaneamente alla convocazione del Consiglio Generale del
S.F.I.
si riuniva a Roma il Convegno Nazionale dei gruppi comunisti
ferroviari,
il quale riuscì numeroso di rappresentanti, e manifestò
la preparazione
dei ferrovieri comunisti nelle questioni tecniche della vita del loro
Sindacato
ed il possesso da parte loro delle soluzioni sulla varie rivendicazioni
di categoria.
XV. Attività cooperativistica
La notevole attività sindacale del nostro partito ha condotto alla necessità di sistemare anche il lavoro nel movimento cooperativo e mutualistico secondo le direttive comuniste. Nel periodo iniziale della vita del partito e prima che si dimostrasse giunto il momento di costituire un apposito organo di partito, sia la Centrale che il Comitato Sindacale Comunista si sono occupati di tenere il contatto con i compagni che erano alla testa di organismi cooperativi o affini e avevano bisogno di indicazioni intorno alla via da seguire intorno ai problemi che si presentavano. Fu subito possibile constatare che
non poche cooperative anche importanti di consumo di produzione e di lavoro erano dirette da elementi comunisti.
Dinanzi al movimento cooperativo il nostro partito prese la posizione che fu tenuta in genere dall’Internazionale Comunista e precisata nelle tesi del convegno di Mosca: utilizzare per la propaganda e la organizzazione delle masse anche il movimento cooperativo, con la partecipazione ad esso, con la formazione di nuclei comunisti di cooperatori, colla azione per conquista delle cooperative, ma opporsi a quelle degenerazioni del metodo cooperativistico che tendono al ghildismo: in vari casi il nostro partito prese posizione contro l’assunzione da parte dei lavoratori della gestione di grandi aziende capitalistiche private o anche di Stato. Di questi problemi si occupano le tesi sindacali.
Come lavoro pratico svolto esso cominciò ad avere una impostazione nazionale con la partecipazione al congresso nazionale della Cooperazione tenutosi nel Marzo u.s. a Milano, al quale una pattuglia comunista intervenne a precisare con efficaci discorsi e col voto di una mozione nonché con la critica dell’equivoco atteggiamento politico dei dirigenti opportunisti della Lega, il nostro punto di vista in materia.
Il partito deliberò che la minoranza comunista non accettasse posti nel Consiglio direttivo della Lega. In seguito al congresso si costituì il Comitato tra i cooperatori comunisti che ha sede in Torino e che procede d’intesa con il Comitato sindacale e il partito a disciplinare e coordinare l’azione comunista nel movimento cooperativo.
Compito
di questo comitato è altresì di seguire e organizzare la
partecipazione nostra al movimento mutualistico, e altre forme
di organizzazione di assistenza proletaria, portando in questi
organismi che pure aggruppano larghe masse il soffio di una nuova
vita e di un nuovo metodo, per la sempre migliore utilizzazione e
coltivazione di tutte le forze rivoluzionarie.
Nel maggio dello scorso anno, allorché la siccità bruciò vasti raccolti nella Russia meridionale e le condizioni di alimentazione del popolo russo, già gravi per le lunghe guerre combattute prima della Rivoluzione e dopo la Rivoluzione, contro le bande controrivoluzionarie e gli eserciti mercenari della Intesa, e per il blocco mantenuto dalle potenze capitalistiche contro la Russia dei Soviet, si erano fatte gravissime, fu lanciato un appello a tutto il proletariato del mondo perché venisse in aiuto alle popolazioni affamate raccogliendo danaro, indumenti, medicinali e cereali. L’appello della Internazionale Comunista e del Governo dei Soviet ebbe immediata eco nel proletariato italiano. Poiché il Partito Socialista e la Confederazione Generale del Lavoro costituirono subito un Comitato prò Russia – con sede a Sampierdarena, noi non credemmo dividere gli sforzi generosi del proletariato costituendo un Comitato comunista, ma in un comunicato reso pubblico invitammo i compagni a sostener il concetto che l’aiuto alla Russia affamata non poteva avere fisionomia politica ma affasciare tutto il proletariato onde la sede naturale per la raccolta dei fondi non poteva che essere nelle Camere del Lavoro, le quali uniscono i lavoratori di ogni scuola. E furono date – a tal riguardo – precise disposizioni perché ai Comitati prò Russia creati presso gli organi economici del proletariato, affluissero i soccorsi tanto se le Camere del Lavoro fossero dirette da comunisti, quanto se esse fossero dirette da socialisti o da sindacalisti, e senza preoccuparsi che la Cassa centrale fosse in mano ai socialisti. Nello stesso tempo noi facevamo passi perché – attraverso la rappresentanza della Confederazione del Lavoro – fosse nominata una delegazione di lavoratori comunisti, i quali avrebbero fatto parte del Comitato unico. I socialisti si rifiutarono di accedere al nostro invito, affermando che la iniziativa dei soccorsi alla Russia, in Italia, era da essi partita ed essi si sentivano ben controllati dagli organi che formavano il Comitato stesso. Il C.E. del Partito denunziò l’atteggiamento del Comitato di Sampierdarena, ma non mutò le norme già date, perché tenne sempre presente la necessità della unità del proletariato nell’opera di soccorso allo sventurato e grande proletariato della Russia. Allorquando il Comitato internazionale dei Soccorsi di Berlino ci chiese un rapporto sulla nostra attività in merito alla azione dei soccorsi prò Russia, noi spiegammo il nostro punto d vista e la nostra tattica in tale occasione, ed un nostro compagno che si recò alla riunione del Comitato di Berlino fu nominato per l’Italia rappresentante del Comitato stesso, disse particolarmente i resultati dei nostri passi fatti verso i socialisti ed il Comitato di Sampierdarena, che non volle aderire al Comitato Centrale di Berlino. Non avendo il Comitato socialista aderito al Comitato Internazionale di Berlino, e non avendo in esso rappresentati i lavoratori comunisti che pure largamente sottoscrissero al fondo unico proletario per la Russia affamata, Il Comitato di Berlino dispose che il Partito Comunista facesse un Comitato proprio. Infatti, con un comunicato apparso nel “Comunista” del 26 ottobre 1921, dopo aver narrati i passi da noi fatti presso il Comitato di Sampierdarena, ed avere dimostrato che non era possibile accettare il principio della iniziativa nazionale in un’opera che abbracciava gli sforzi di tutto il proletariato del mondo, il C.E. del Partito creava un Comitato comunista prò Russia.
Prima di questo momento, il nostro partito aveva mantenuta viva la propaganda per sostenere fra le masse il dovere di aiutare il popolo affamato delle regioni del Volga. In un appello apparso nel “Comunista” del 14 agosto, noi ci rivolgemmo ai compagni ed al proletariato comunista perché essi intendessero il significato, oltre che umanitario, squisitamente rivoluzionario dell’opera di soccorso, con il quale i comunisti intendevano aiutare la Rivoluzione, attraverso l’aiuto alle sue sofferenti eroiche avanguardie.
In data 3 settembre l’“Ordine nuovo” pubblicava un altro appello ai lavoratori comunisti, mentre in tal giorno i comunisti indicevano comizi in tutte le città d’Italia per agitare la necessità e l’urgenza di un immediato intervento nell’opera degli aiuti.
Naturalmente il nostro Comitato, sorto allorché il maggiore sforzo era stato compiuto dal proletariato, il quale aveva versato oltre due milioni al Comitato di Sampierdarena, si trovò dinanzi a serie difficoltà. Una larghissima distribuzione di manifesti di propaganda, e di cartoline, e di speciali bolli-ricordo, fu fatta in tutta Italia. Nominatosi dei fiduciari in tutte le provincie, furono inviate molte schede di sottoscrizione che furono tosto riempite dei nomi dei sottoscrittori. La nascita del nostro Comitato coincideva con un primo invio al Comitato internazionale di Berlino della somma di lire cinquantamila. Tra gli esempi di solidarietà notevoli, va annoverato quello dato dal forte proletariato torinese, al nostro Comitato locale camerale: in pochi mesi questi raccolse la somma di circa lire trecentomila, con la quale acquistò generi medicinali e commestibili i quali, a mezzo del vapore “Amilcare Cipriani” furono avviati alla volta della Russia del Sud.
Nonostante lo sforzo già fatto, i lavoratori comunisti dettero ancora ciò che potevano al nostro Comitato, il quale raccolse ancora oltre duecentomila lire. In occasione della ricorrenza della data del 7 novembre, cara ad ogni proletario rivoluzionario, il C.E. prese la iniziativa di consacrare una settimana (la prima settimana di novembre) all’avvenimento della prima Rivoluzione proletaria ed in tale settimana si tennero ovunque comizi e conferenze indetti dai nostri organismi locali ed il C.E. provvide a dislocare in varie città italiane compagni oratori per svolgere una serie di 75 comizi nei quali fu largamente richiamata l’attenzione delle masse sulla necessità di dare ancora molto alla sottoscrizione prò Russia.
Il
Comitato prò Russia vive tuttora e si va sviluppando secondo le
direttive del Comitato Internazionale di soccorso operaio.
XVII. Rapporti con il Partito Socialista
Il Congresso Internazionale di Mosca, nel discutere l’appello presentato dal Partito Socialista contro la sua esclusione, interpretò la situazione italiana diversamente dalla nostra delegazione e dal nostro partito, e rinnovò l’ultimatum al Partito Socialista Italiano esigendo l’esclusione dei riformisti per la sua riammissione nell’Internazionale. Il congresso di Mosca si orientò verso la convinzione che il P.S.I. si sarebbe scisso. Il nostro Partito con ampie relazioni in materia precisò invece il suo diverso punto di vista presso l’Internazionale. Esso previde come sarebbero andate le cose, con l’allontanamento di ogni possibilità di contrasto pratico tra la politica del nostro Partito e quella dell’Internazionale, esponendo a Mosca che nessuna scissione sarebbe venuta a Milano e che una piccola frazione avrebbe sostenuto la esclusione dei riformisti, ma non per le ragioni collimanti con le direttive nostre e affermate da noi a Livorno, né con la decisione di uscire nel caso non si fosse effettuata la scissione nel Partito Socialista.
D’altra parte il nostro Partito osservava che nell’ipotesi di una scissione tra intransigenti e collaborazionisti, ossia sulla questione che era sul tappeto al Congresso Socialista di Milano, non si sarebbero verificate quelle condizioni che sono necessarie per l’entrata nell’Internazionale, a cui non basta che si espellano i fautori della collaborazione borghese, ma anche tutti coloro che sono contro la lotta rivoluzionaria e la preparazione della dittatura proletaria, così come lo era tutto il Partito Socialista, compresa la frazione dei dirigenti di sinistra, responsabile di vergogne come la pacificazione coi fascisti. Ripetiamo che questo contrasto fu eliminato dai fatti. Dopo il Congresso di Milano, l’Internazionale con una sua dichiarazione, il testo della quale rispondeva ai desiderata della nostra centrale, escludeva definitivamente il Partito Socialista dalle sue file.
Restava il problema dell’atteggiamento da tenere verso la frazione
Lazzari, Maffi, Riboldi. Il nostro Partito precisò la sua
posizione col
manifesto ai lavoratori socialisti, che li invitava a venire nelle sue
file aprendo gli occhi sulla rovinosa politica socialista, e con la
decisione
di non accettare adesioni di gruppi, né di aver contatti
ufficiali con
la organizzazione di frazione nel seno del Partito Socialista,
poiché
i singoli elementi di tendenza affine alla nostra erano chiamati a
passare
nelle nostre file e non invitati a fare un lavoro per noi nelle file
socialiste.
Disposizioni interne chiarirono che gli elementi proletari potevano e
dovevano
essere cordialmente accolti, come in genere tutti quelli che erano
sinceramente
convinti nel venire a noi, e le ammissioni pur seguendo le norme
statutarie
dovevano essere facilitate nello sbrigarne la procedura. In tal modo
non
pochi sono stati casi di socialisti passati a noi anche con aperte
dichiarazioni
contro la politica del loro antico partito. Quanto alla frazione Maffi
essa non è stata trattata con ostilità dal nostro Partito
e dalla nostra
stampa, a parte le obiettive critiche a quanto essa ha di indeciso e di
incompleto nel suo atteggiamento. Non si sono evitati alcuni
esperimenti
di collaborazione sindacale con essa, che se non hanno avuto più
grande
ripercussione, deriva appunto dalla posizione equivoca in cui si trova
chi voglia fare opera rivoluzionaria nelle file del Partito Socialista.
XVIII. La lotta contro la reazione
Non vi è alcuna probabilità che il fenomeno fascista
abbia a cessare
per dar luogo ad un regime di liberalismo pratico e di
neutralità dello
Stato nelle lotte tra classi e partiti, nemmeno nella misura in cui si
simulava in altri periodi meno critici l’apparenza giuridica di tutto
questo. La situazione tende a due ben distinti sbocchi: o allo
schiacciamento
del proletariato e dei suoi sindacati, e ad un regime di sfruttamento
negriero;
o a una risposta rivoluzionaria delle masse che in tal caso contro di
sé
troveranno la coalizione del fascismo, dello Stato e di tutte le forze
che difendono il fondamento democratico delle presenti istituzioni.
La resistenza al fascismo
Data questa previsione, resta risolta una prima questione: quella della resistenza da opporre al fascismo. I socialdemocratici predicarono la non resistenza alle gesta fasciste perché previdero o dettero ad intendere che se il proletariato rinunciava alle "provocazioni" lo Stato avrebbe restaurato contro le violenze fasciste il "diritto comune" e, in fondo, perché contrari all’impiego della violenza di classe da parte del proletariato; il Partito Comunista deve sostenere la resistenza con tutti i mezzi possibili e dichiarare che è giusto e utile adoperare contro il fascismo gli stessi suoi mezzi offensivi, passando ad organizzare la preparazione e l’impiego di tali mezzi.
Una parola d’ordine veniva data dal Partito in occasione dei fatti
di Firenze. Un secondo problema fondamentale tattico era quello della
misura
in cui si poteva collaborare con altri partiti proletari che prendevano
atteggiamento antifascista e che dettero luogo al sorgere, in episodi
del
luglio 1921, di formazioni di lotta dette "arditi del popolo".
Gli Arditi del Popolo
La Centrale dette decisamente la disposizione che il nostro organismo di inquadramento dovesse restare affatto indipendente dagli Arditi del Popolo, pur lottando a fianco di questi come molte volte è avvenuto, quando si avessero di fronte le forze del fascismo e della reazione.
Le ragioni di questa tattica non furono di ordine teorico e pregiudiziale, ma essenzialmente pratiche e ben connesse ad un attento esame della situazione e dell’eventualità a cui nell’uno e nell’altro caso si andava incontro, soprattutto in base ad informazioni riservate, assunte con i mezzi di cui si disponeva, intorno agli Arditi del Popolo ed al loro movimento. Una relazione verbale sul nostro inquadramento potrà indicarvi la misura del lavoro fatto nel campo della organizzazione militare. Certo le difficoltà di vincere vecchi pregiudizi e le resistenze della situazione hanno contribuito a dare carattere embrionale a questo tipo di organizzazione, ma i fatti hanno dimostrato più volte che senza di essa difficile è sperare di vincere l’avversario.
La parola d’ordine gettata fra le masse dal nostro Partito fu questa: unità proletaria e lotta contro la reazione.
Il nostro Partito, accettando la costituzione della Alleanza del Lavoro, ne fissava i compiti di azione. In ogni adunata proletaria si prospettavano tali compiti, che la massa approvava per acclamazione, culminanti nello sciopero generale nazionale di tutte le categorie.
Nel giugno scorso il Partito Comunista d’Italia partecipò con una delegazione ai lavori del Comitato Esecutivo allargato dell’Internazionale. In tale occasione il C.E. del Comintern adottò la risoluzione nota alle sezioni dell’Internazionale Comunista, con la quale dichiaravasi la inesistenza di un conflitto disciplinare tra il P.C.d’I. e il C.E. del Comintern. Pure in tale occasione il Presidium affermò alla delegazione italiana la necessità di lanciare alcune parole d’ordine al proletariato italiano come quella del Governo Operaio.
Al ritorno della delegazione in Italia fu data ampia informazione ai gruppi dei lavori svoltisi a Mosca a mezzo della stampa del Partito. In data 2 luglio, mentre si apriva la serie di agitazioni locali antifasciste, noi lanciammo in un manifesto la parola d’ordine del Governo Operaio. Nei discorsi parlamentari del giugno-luglio la parola d’ordine del Governo Operaio fu lanciata dai nostri compagni e fu portata al Consiglio Nazionale di Genova della Confederazione Generale del Lavoro con la mozione comunista.
Dopo la manifestazione del 1° Maggio, i riformisti della C.G.L. rappresentati nel C.C. dell’Alleanza del Lavoro, dichiararono la inevitabilità dello sciopero generale, il quale non poteva che essere insurrezionale e tendere ad una crisi politica del regime. E perciò essi proposero di interpellare i partiti politici proletari. Noi intervenimmo e dichiarammo che potevamo arrivare alla coalizione politica, ma sotto precise condizioni. Queste condizioni erano tali che l’accettarle voleva dire per i socialisti e confederali veder fallire tutto il loro piano di deviazione del movimento mentre il respingerle ci avrebbe dato buon gioco nel dimostrare alle masse la giustezza delle condizioni da noi poste, e che equivalevano a proteggere il proletariato da tradimenti e terribili delusioni come quelle di cui è viva la memoria.
Questo nostro atteggiamento fu puramente tattico: in verità
noi eravamo
per lo sciopero sindacale da cui la lotta politica, che ne è
anzi un episodio,
si sviluppa, ma con un processo molto più lungo e in cui si doveva inserire, perché il successo fosse stato possibile, la nostra opera di sostituzione della nostra influenza a quella dei socialisti ed anarchici. Fummo contro ogni coalizione di partiti nel dirigere
l’azione
insurrezionale ed il movimento rivoluzionario delle masse, di cui altri
parlavano in mala fede o con incoscienza ed in genere con spaventosa
impreparazione.
Tuttavia la nostra tattica mise gli altri in posizione assai
imbarazzante:
non accettarono né respinsero la nostre proposte: non potevano
accettarle
e temevano di compromettersi respingendole, dal momento che si
servivano
contro l’impulso alla lotta del demagogico argomento che questa poteva
essere solo la "rivoluzione". Data la situazione, non era da pensarsi
che
una soluzione intermedia tra l’aperta collaborazione borghese che
preparavano
di riformisti, e la nostra proposta di azione diretta delle masse.
L’Alleanza del Lavoro e dei partiti proletari
I contatti dell’A.d.L. con i partiti proletari duravano. In ogni riunione si manifestò l’assenza di serietà dei presenti. I rappresentanti socialisti mutavano continuamente attitudine e dichiaravano di non potere impegnare tutti gli aderenti. Si arrivò alla costituzione di un Comitato tecnico segreto che doveva preparare l’azione generale proletaria (per noi lo sciopero generale contro l’offensiva borghese e il fascismo, per gli altri la redenzione completa), ma non si accettarono le nostre condizioni per la formazione ufficiale del fronte unico dei partiti. Questo comitato tecnico si riunì per iniziativa della Alleanza del Lavoro, senza far nulla di serio, al contrario si cercò di servirsi di esso per impedire l’azione e per cercare di coinvolgere in ciò la responsabilità del nostro partito.
Parecchie volte si è cercato, violando gli impegni al
segreto, di sfruttare
le nostre dichiarazioni per dire pubblicamente che il Partito Comunista
aveva dichiarato che lo sciopero generale era impossibile. Contro
queste
menzogne noi abbiamo preso un’attitudine assai energica, precisando i
nostri punti di vista nelle caratteristiche dell’azione generale
proletaria
che noi sostenevamo come immediata nei nostri manifesti, e la nostra
attitudine
al C.N. della C.G.L. nel luglio.
Lo sciopero dell’agosto 1922
La sera del 29 luglio il nostro delegato nel Comitato Tecnico ci informò che il rappresentante dell’Alleanza aveva annunciato lo sciopero per il mattino del 1° agosto. Non si doveva pubblicare la notizia: l’ordine era stato dato dalla Alleanza del Lavoro per vie interne. Noi osservammo il segreto. Il nostro delegato, in altra seduta, dichiarò insufficienti le misure di organizzazione dello sciopero. Poiché non si era voluto lanciare la parola dell’azione in occasione di una svolta della lotta, gli operai non potevano comprendere senza una preparazione il brusco cambiamento di attitudine di quelli organizzatori che avevano sempre imprecato contro lo sciopero generale. Noi dichiarammo di essere disciplinati, pur riservandoci di accompagnare la pubblicazione della risoluzione dell’A.d.L. con un nostro manifesto.
La riuscita dello sciopero fu da principio parziale. Le masse furono sorprese per gli ordini imprevisti, dopo essere state disarmate qualche giorno addietro. Al secondo giorno il movimento era in pieno sviluppo, le masse erano largamente entrate in azione, la lotta cominciò ovunque.
La borghesia fu sorpresa dalla situazione prodotta dallo sciopero. La notizia data la domenica 30 luglio dal Lavoro fu smentita dai giornali borghesi: a Roma l’emozione fu enorme quando il lunedì sera (31) Il Comunista uscì avanti agli altri giornali proletari e la sua vendita fu più che decuplicata.
Il venerdì precedente (28 luglio) la frazione parlamentare socialista aveva votato per la partecipazione al Gabinetto, non importa quale; il sabato Turati era stato dal Re: tutta l’attenzione era volta all’accordo dei socialisti con le istituzioni costituzionali, quando lo scioperò scoppiò.
I collaborazionisti non avrebbero potuto fare una bestialità
maggiore.
Nei circoli borghesi e parlamentari le loro azioni caddero tutte di un
colpo: in poche ore Facta compose un ministero qualunque, senza
socialisti,
con la destra, con l’antico prefetto di Torino, sen. Taddei – vale
a dire un funzionario di polizia – al Ministero degli Interni.
L’ultimatum dei fascisti
I fascisti lanciarono un ultimatum: se il governo non fosse intervenuto a soffocare il movimento entro 48 ore, lo avrebbero fatto essi stessi.
Le 48 ore passarono senza grandi conflitti. Nelle sfere ufficiali si sforzarono di dimostrare che lo sciopero era fallito. Il terzo giorno, come si prevedeva, lo sciopero sarebbe riuscito imponente, quando fu spezzato dall’Alleanza. I fascisti scatenarono allora le loro rappresaglie. Non essendo più impegnati in tutto il paese, ciò che li aveva momentaneamente immobilizzati, essi poterono fare dei concentramenti servendosi dei treni non più fermi, ed attaccarono quelle città nelle quali durante lo sciopero gli operai avevano attaccato gli elementi fascisti locali. La difesa delle masse operaie in questa seconda fase, cioè dopo la fine dello sciopero, fu meravigliosa. Milano, Bari, Ancona, Genova, Parma ecc. furono teatro di vere battaglie, nelle quali i comunisti validamente parteciparono, mettendosi in evidenza agli occhi delle masse, che ne ricevettero una entusiastica impressione. Carattere quasi generale di questa lotta: il fascismo concentrato nel centro della città andò all’attacco dei quartieri operai: furono ricevuti sparando dagli angoli delle strade, delle case, da barricate e trincee improvvisate. Le donne aiutarono gli uomini, pietre e oggetti di ogni sorta completarono l’armamento insufficiente.
I fascisti si ritirarono chiedendo aiuto, e la forza pubblica
entrò
in scena con le mitragliatrici e le autoblindo che coprirono le case
con
raffiche di proiettili: le case furono invase da centinaia di armati,
furono
arrestati tutti gli abitanti sospetti di essersi difesi. Dopo i
fascisti
ritornarono per distruggere, incendiare, predare: la polizia che
avrebbe
dovuto respingerli aveva l’ordine di tirare in aria e li lasciava
passare.
In questo modo furono prese non dai fascisti, ma dalla polizia, Ancona
e Livorno, Milano, Bari, Roma, Genova resistettero. Il Partito
Socialista
uscì da questa lotta distrutto. Il collaborazionismo in rotta, i
sindacati
socialisti impotenti a mantenersi alla testa delle masse che risposero
così bene all’appello, i massimalisti resi nulli dalla loro
insufficienza
pacifista e dalla loro debolezza. Il Partito Comunista al contrario,
che
denunziò gli errori e che evitò di impegnarsi da solo in
una lotta che
avrebbe potuto rovinarlo dopo la ritirata dei socialisti, ma che diede
arditamente la parola del combattimento, dimostrò di essere al
suo posto
fra le masse in lotta e ha guadagnato molta influenza sul proletariato.
Gli elementi estremisti e gli operai anarchici anch’essi tesero a
raggrupparsi
intorno a noi, avendo compreso che noi siamo un vero partito
rivoluzionario.
Le conseguenze dello sciopero
Noi facemmo una inchiesta sullo svolgimento dello sciopero che riuscì interessantissima. Ne risultarono in modo quasi generale le seguenti caratteristiche degli avvenimenti: cattiva organizzazione dello sciopero e ritardo nella trasmissione degli ordini da parte dell’Alleanza del Lavoro. Tradimento e sabotaggio generale da parte dei funzionari sindacalisti socialisti. Vittoria militare dei fascisti contro gli operai assicurata soltanto dopo l’intervento delle forze poliziesche a fianco dei fascisti. Lodevole attitudine dei comunisti con eccezioni di ordine puramente personale che furono risolte in linea disciplinare normale. Buona partecipazione delle masse allo sciopero, quasi ovunque. Considerevole combattività del proletariato.
Le conseguenze dello sciopero sul movimento sindacale furono gravi, bisogna riconoscerlo, per l’attitudine degli organi centrali a completare l’effetto dell’attacco fascista. Parecchie organizzazioni si sfasciarono. Il passaggio ai sindacati fascisti non ebbe una grande importanza e la stampa borghese li esagerò molto. Esso si limitò a dei piccoli gruppi di certe categorie organizzate su basi corporative (come i lavoratori dei porti) ma fu nullo nell’industria. Ma i sindacati sono in cattive condizioni a causa della reazione, della disoccupazione, delle rappresaglie, della mancanza di fiducia nell’attitudine dei capi, della crisi generale. Le forze proletarie lottarono contro i vari tentativi di tradimento riformisti, dopo lo sciopero, come quello di trasformare i sindacati in una organizzazione a carattere nazionale entro il quadro dello stato borghese ecc. I massimalisti furono in quel momento contro la politica dei riformisti e il loro punto di vista sindacale, ma nessuno più li ascolta e ogni giorno di più essi perdono influenza e importanza.
Il nostro Partito ha preso posizione sulla stampa e con un manifesto al proletariato in questo senso: per il fronte unico reale delle masse operaie e per l’Alleanza del Lavoro appoggiata sulle masse secondo le nostre antiche proposte. Per una lotta generale del proletariato libero dagli impacci riformisti e collaborazionisti e da tutte le illusioni che la politica dello Stato borghese possa volgersi contro il fascismo, basata sulla azione diretta classista delle masse. Per l’unità sindacale ma al di fuori di tutte le influenze sul movimento sindacale dello Stato borghese o dei partiti della classe padronale.
Nel programma di azione che il P.C.d’I. sottopone alla approvazione del IV Congresso del Comintern noi diciamo quale è il lavoro che il nostro Partito deve svolgere in un prossimo avvenire.
È certo che l’esperienza di questo anno di lotte sanguinose
è un
contributo prezioso allo sviluppo della nostra capacità
all’azione;
ed i rilievi che i compagni della Internazionale vorranno fare alle
nostre
deficienze noi li considereremo nel loro alto valore.
XIX. Il II Congresso del partito
Il II Congresso del partito, convocato dapprima per l’autunno del 1921 fu dovuto successivamente rinviare per cause di ordini nazionale ed internazionale, e fissato definitivamente per il 20, 21, 22, 23 e 24 marzo 1922.
Il Comitato Centrale stabilì l’o.d.g. del congresso e nominò le commissioni per la compilazione delle tesi intorno alle questioni della tattica, sindacale, agraria.
Le relazioni furono esaminate dal C.C. e pubblicate nel loro testo definitivo alla fine del dicembre 1921 e al gennaio 1922. Poiché in seno al C.C. non si erano manifestati punti di vista diversi da quelli dei relatori, fu stabilito che i congressi federali impostassero le discussioni preparatorie intorno a queste tesi.
Appena pubblicate le tesi furono dal C.E. indetti i congressi federali, secondo un piano prestabilito. Ai congressi intervenne sempre un membro del C.E. del partito e un delegato del C.E. I congressi avevano il diritto di fare la discussione senza, però, addivenire ad un voto. Fu stabilito che il congresso dovesse fissare la rosa dei candidati proposti a componenti della Delegazione federale al Congresso Nazionale, in numero di 1 a ogni 500 inscritti e frazione. Subito dopo il Congresso Federale ogni sezione doveva convocare l’assemblea con la presenza del proprio delegato al Congresso federale, il quale doveva riferire sui dibattiti avvenuti nel congresso della Federazione. Quindi le sezioni comunicavano per referendum all’Esecutivo federale le loro deliberazioni e le liste dei candidati proposti a componenti della Delegazione Federale al Congresso federale.
Delineandosi due o più correnti su questioni importanti ognuna di esse aveva il diritto di concretare del Congresso federale la rosa dei delegati da sostenere nelle sezioni. Lo spoglio del referendum fu disposto che venisse fatto dal C.E. federale, il quale ne doveva consegnare gli atti alla delegazione al Congresso. La delegazione aveva l’incarico di portare al Congresso gli emendamenti di dettaglio approvati nelle assemblee sezionali ed affermati nei referendum, a
titolo di raccomandazione consultiva. I voti, invece, per l’una e l’altra delle eventuali opposte proposte, avevano valore di mandato imperativo per la delegazione. La discussione sulla stampa, intorno alle questioni portate al Congresso, fu centralizzata dal C.E. del partito il quale dette posto a tutte le voci che fossero emanazioni di reali correnti di pensiero esistenti nel partito.
Ai funzionari ed impiegati del Partito, non elettivi, fu vietato il diritto di rappresentanza al Congresso. Al congresso furono rappresentate tutte le federazioni, in circa 100 delegati. La discussione si svolse in ambiente di serenità e di calma. Il dibattito si svolse nelle Commissioni. Tutti i delegati al Congresso furono divisi nelle quattro commissioni: Relazione del C.C., tattica, questione agraria, questione sindacale. I risultati del congresso sono a voi noti. La relazione del C.C. fu approvata alla unanimità del congresso. Le tesi sulla questione sindacale furono approvate all’unanimità.
Le tesi sulla questione agraria furono approvate a grandissima maggioranza (un centinaio di voti contro). Le tesi sulla tattica, sulle quali maggiormente si appassionò il congresso furono approvate con 31.089 contro 4.151 e 707 astenuti. Una opposizione vera e propria non si manifestò. I 4.151 voti sono la somma di adesioni a vari “punti di vista” sostenuti dal compagno Bombacci, dal Presutti, dal Tasca, dal Sanna, dal Graziadei.