International Communist Party Sulla questione sindacale

Punti fermi di azione sindacale

(Il Programma Comunista n. 19 del 1962)

 
 

Alle insidiate vicende delle battaglie proletarie mondiali solo la teoria offensiva marxista è direttiva inflessibile che lega le grandi tradizioni ad un domani di potente riscossa [RG33] (V)
 

Soffermandosi sull’intensa attività svolta nel primo dopoguerra dal gruppo del Soviet in seno alle organizzazioni economiche dei lavoratori e nel fuoco di ardenti battaglie di classe, il relatore sulla Storia della Sinistra (vedi il numero scorso del "Programma") ha gettato un ponte di collegamento diretto col tema dell’azione sindacale del Partito.

Nel giugno 1920, alla conferenza della Frazione Astensionista, questa era così delineata: «Il Partito esercita la sua attività di propaganda e di agitazione tra le masse proletarie, specie nelle circostanze in cui esse si mettono in moto per reagire alle condizioni create dal capitalismo, e in seno agli organismi che i proletari formano per proteggere i loro interessi immediati. I comunisti penetrano quindi nei sindacati, costituendo in essi gruppi di operai comunisti e cercando di conquistarvi la maggioranza e le cariche direttive, per ottenere che la massa di proletari inquadrata in tali associazioni subordini la propria azione alle più alte finalità politiche e rivoluzionarie della lotta per il comunismo».

Alieni da ogni improvvisazione, gelosi di una continuità di programma che è nello stesso tempo continuità di azione, noi ci muoviamo oggi – a parte i limiti di una situazione ben lontana dall’incandescente 1919-20 – sul medesimo solco, che è poi quello stesso del Manifesto dei Comunisti 1848 e degli statuti Generali della Associazione Internazionale dei Lavoratori, 1864.
 

Richiami alla teoria

Quando si trattò non certo di inaugurare un’attività "nuova", ma di conferire un primo inizio di coordinamento a un’attività che il Partito ha sempre rivendicato, anche se la situazione generale esterna la conteneva entro limiti ristretti e saltuari, furono anzitutto ricordate ai gruppi e alle sezioni le classiche formulazioni marxiste del processo attraverso il quale i proletari sono spinti dalla lotta economica e dalle sue esigenze imperiose a superare le artificiose barriere di interesse e di categoria create dal regime di produzione capitalistico, e a darsi una organizzazione generale unitaria. Questa trova storicamente la sua prima espressione nelle leghe di mestiere, forma immediata della «crescente (ma sempre minacciata di corrosione dalla concorrenza fra operai) solidarietà dei lavoratori», e il suo coronamento ultimo nel partito politico; quel «partito politico autonomo, opposto a tutti gli altri partiti costituiti dalle classi possidenti», in cui e soltanto in cui «il proletariato può agire come classe».

Questo processo non è un fatto di coscienza. È un fatto reale e fisico, che ha per teatro non il "cervello" degli uomini individualmente o collettivamente presi, ma lo scontro fra le classi, che trae origine da determinazioni economiche materiali ma continuamente le supera. Il suo contenuto storico è la fabbricazione e l’affinamento di armi di battaglia, di strumenti di lotta aperta contro la società borghese. Questo appare chiarissimo a chi guardi non le addomesticate organizzazioni di oggi, ma anche solo le lotte e gli organismi di lotta economica proletaria ai primi albori del movimento operaio, quando Marx poteva definire “scuole di guerra civile” le associazioni fra lavoratori ed Engels sorridere dello stupore degli economisti borghesi di fronte allo spettacolo di operai che sacrificavano settimane e settimane di salario per difendere nelle strade e negli scontri con la polizia e con l’esercito gli organismi creati per difendere il livello raggiunto dal salario e, se possibile, elevarlo. Allora le organizzazioni immediate avevano, anche in periodo normale, quella che oggi si direbbe una gigantesca “carica rivoluzionaria”, e questa non era – come non sarà mai neppure nelle fasi di alta tensione sociale – il prodotto dell’acquisizione di una coscienza dei fini e obiettivi ultimi del moto proletario, ma delle imperiose necessità materiali del suo svolgimento.

Ciò vale per la classe come per l’individuo; il rapporto non è coscienza prima e azione poi, ma spinta economica prima, azione poi, coscienza infine, e coscienza che si realizza non già nel singolo, ma nel partito. A questo i militanti, per pochi che siano (e sempre saranno una minoranza della classe operaia), aderiscono non per aver preventivamente acquisito una coscienza completa del programma, ma per un processo di selezione avvenuto nella lotta e attraverso la lotta, e solo nel corso della loro milizia di partito potranno, ancora una volta non come singoli ma come corpo organizzato, “rovesciare la prassi” e fare della teoria rivoluzionaria la premessa sine qua non nell’azione rivoluzionaria.

Come non è un fatto di coscienza, così il processo di organizzazione del proletariato in classe non è un fatto evolutivo graduale, un lento e progressivo maturare; è una successione tumultuosa di salti qualitativi corrispondenti a scontri violenti e spesso sanguinosi fra le classi, attraverso i quali il proletariato dei senza-riserve supera d’un balzo le forme di organizzazione più rozze ed immediate, divise per località e per settore, discontinue nel tempo e nello spazio, infrange i limiti angusti del campanile e dell’azienda, subordina gli interessi personali, locali ed aziendali di singoli e gruppi a interessi e finalità sempre più vaste. Nel partito politico ogni confine di gruppo, di categoria, di nazione è obliterato e ogni atto ubbidisce agli imperativi, delle finalità ultime e generali, della classe.

Questo processo dialettico non ha nulla a che vedere con l’interpretazione idealistica della storia, per cui ogni fase è annullata dalla successiva e, raggiunto il vertice della “coscienza”, l’umanità entra una volta per tutte nel “regno dalla ragione”.

Il partito, esso stesso prodotto di determinazioni materiali, è uno schieramento di battaglia che, in possesso di armi teoriche e organizzative superiori, è chiamato a difenderle contro gli attacchi convergenti della società capitalistica e perfino contro l’assillo di quelle determinazioni materiali alle quali deve la propria vita. Ma deve anche portarle come strumenti di azione risolutiva entro le organizzazioni immediate nelle quali continuamente affluiscono, spinti dalla pressione dei fatti della società capitalistica e dal moto di incessante proletarizzazione dei ceti intermedi, nuove leve di salariati. Deve irradiarvi quella che, in periodi di riflusso della lotta di classe, può essere soltanto la “luce” dello storico programma rivoluzionario, ma che è destinata a divenire, in periodi incandescenti di conflitto sociale, il grande “campo magnetico” di polarizzazione di tutte le forze eversive sprigionate dal sottosuolo dell’ordine sociale e politico borghese.

Il partito non è né lo Spirito che guarda dell’alto il confuso muoversi ed agitarsi dell’umanità, né il Demiurgo che nell’ora X scende nell’arena e da solo cambia faccia al mondo. È una forza materiale la cui azione risolutiva nei grandi svolti della storia è possibile alla sola condizione di incontrarsi con la gigantesca spinta che viene dal basso, rude e incolta come un fenomeno naturale e fisico, non diretta e determinata da ideologie consapevoli o da concetti distinti (Engels 1890: «saranno i non-socialisti a fare la rivoluzione socialista»), ma portata irresistibilmente a muoversi sul terreno del programma che, anche nelle ore più buie, il partito avrà saputo proclamare e difendere contro tutti e malgrado tutto, nelle file e nelle organizzazioni dei salariati in lotta contro il capitale.

Non v’è contraddizione (se non per chi non ha capito nulla della dialettica materialista) fra la superba proclamazione delle tesi della III Internazionale sul ruolo del partito comunista nella rivoluzione proletaria – «Il partito comunista si distingue dall’intera massa operaia in ciò che possiede una visione generale e completa dell’intero cammino storico della classe lavoratrice, e mira, in tutte le svolte di questo cammino, a difendere gli interessi non di singoli gruppi o singoli mestieri, ma della classe lavoratrice nel suo insieme» – e il compito che le stesse tesi gli assegnano di lavorare all’interno delle organizzazioni economiche proletarie – «non per adattarsi agli strati operai più retrogradi, ma per elevare l’intera classe al livello della sua avanguardia comunista». «Ogni lotta di classe è una lotta politica, e l’obiettivo di questa lotta, che si trasforma inevitabilmente in guerra civile, è la conquista del potere politico; ma il potere politico non può essere afferrato, organizzato e diretto, se non dal partito politico». In altri termini, «la lotta di classe esige un’agitazione concentrata che illumini da un punto di vista unitario le singole tappe della lotta e, in ogni dato momento, diriga l’attenzione del proletariato verso i compiti comuni alla classe nel suo insieme cosa irrealizzabile senza un apparato politico centralizzato, il partito».


Compiti pratici del movimento

La saldatura fra lotta economica e lotta politica, fra masse salariate in movimento sotto la spinta di interessi immediati e il partito in lotta per gli obiettivi finali della rivoluzione comunista, e, per logico corollario, la nostra presenza attiva nelle organizzazioni sindacali e nelle agitazioni operaie, è dunque una questione di principio. Nel riaffermarla noi non facciamo che ribadire una delle nostre “tesi caratteristiche”, enunciate alla riunione di Firenze nel dicembre 1951: «Il partito riconosce senza riserva che non solo la situazione che precede la lotta insurrezionale, ma anche ogni fase di deciso incremento della influenza del partito tra le masse non può delinearsi senza che tra il partito e la classe si stenda uno strato di organizzazioni a fine economico immediato e con alta partecipazione numerica, in seno alla quali vi sia una rete emanante dal partito (nuclei, e frazione comunista sindacale) (...) Il sindacato, sebbene non sia mai stato libero da influenze di classi nemiche e abbia funzionato da veicolo a continue e profonde deviazioni e deformazioni, sebbene non sia un specifico strumento rivoluzionario, tuttavia è oggetto di interessamento del partito, il quale non rinuncia volontariamente a lavorarvi dentro, distinguendosi nettamente da tutti gli altri raggruppamenti politici».

Se perciò, oggi, noi cerchiamo di estendere e di coordinare meglio questo lavoro, non è già perché una particolare “idea nuova e originale” sia passata per la testa di chicchessia, ma perché la situazione generale, lo sviluppo sia pur disorganico delle lotte di classe, e il processo di consolidamento della rete di partito, ci hanno imposto di tradurre in una azione il più possibile continua e sistematica, un compito riconosciuto permanente anche quando «gli eventi, non la volontà o la decisione degli uomini» lo limitavano (come in parte lo limitano tuttora) «ad un piccolo angolo dell’attività complessiva». Era la necessaria risposta ad interrogativi che giungevano a noi, alla periferia come al centro del partito, dalle agitazioni in corso; una risposta che potevamo dare su scala più larga che in passato proprio perché, nella lunga e non ancora conclusa fase di “ristabilimento della teoria del comunismo marxista”, che ha occupato l’ultimo decennio della nostra vita organizzativa, i rapporti fra la nostra rete ideologicamente rafforzata e strati sia pur esili di proletari, si sono andati allargando e rafforzando. Non svolta, dunque, ma potenziamento di un lavoro che non si è mai interrotto anche quando le circostanze esterne, fuori dalla volontà o dai desideri anche del più battagliero ed entusiasta militante, ne limitavano il raggio.

L’infame politica di polverizzazione delle lotte di categorie imponenti, come i metalmeccanici o i salariati agricoli, riproponeva e ripropone al partito rivoluzionario l’imperativo di riaffermare – prima, durante e dopo agitazioni, che non di rado raggiungono il livello di scontri aperti e diretti fra i proletari e le forze dell’ordine, spalleggiate dai bonzi sindacali – i principi fondamentali della lotta di classe. Ricordare agli operai:
– che nessuna conquista, economica è duratura e serve gli interessi generali della classe se non si traduce in una crescente solidarietà tra gli sfruttati;
– che quindi l’abbandono dello sciopero generale senza limiti di tempo e senza distinzioni di fabbrica, di settore e di categoria, mentre non serve neppure a strappare vantaggi economici immediati, sgretola e distrugge le possibilità future e generali dell’attacco proletario al regime di sfruttamento capitalistico;
– che la “tattica” delle contrattazioni articolate, della rivendicazione di ulteriori qualifiche per categoria, di premi di produttività e di incentivi aziendali, dello sciopero al cronometro e al contagocce, accresce invece di attenuare la concorrenza fra lavoratori e il loro isolamento reciproco;
– che la teoria della "apoliticità del sindacato" nasconde in realtà l’abbandono della politica di classe da parte del sindacato a favore di una politica di fiancheggiamento del potere centrale borghese;
– e che non esistono questioni “particolari” alle quali si possa trovar soluzione fuori della visione generale degli interessi storici della classe lavoratrice.

Perché questa risposta fosse (e sia sempre più in avvenire) data da tutto il partito all’intero schieramento di forze dell’opportunismo, è divenuto necessario affiancare all’organo centrale del partito, il “Programma Comunista”, il bollettino, anch’esso centrale, d’impostazione programmatica e di battaglia “Spartaco”. Questo mentre in diversi gruppi e sezioni il lungo lavoro di agganciamento di proletari in lotta dava i suoi frutti positivi e rendeva urgente coordinare secondo direttive chiare ed uniformi l’attività generale di Partito.

Questo coordinamento non si poneva né si pone obiettivi che la situazione non solo italiana, ma (e soprattutto) internazionale vieta di porsi: non si prefigge rapidi e radicali spostamenti nella direzione che un quarantennio di super opportunismo ha inevitabilmente impresso alle pur vivacissime lotte di interi settori del proletariato industriale e agricolo; non vaneggia possibilità a breve scadenza di liberazione del sindacato dalla tutela di partiti controrivoluzionari, anche se, localmente e per breve ora, non esclude (come si è di fatto registrato) che la guida di agitazioni e perfino di organismi economici operai sia presa e mantenuta da nostri compagni. Esso mira a tessere e rafforzare la nostra tela di collegamento fisico col proletariato avvalendosi di una situazione in lenta ripresa, ma nella piena consapevolezza che i frutti di questo lavoro metodico e, com’è nel nostro costume, testardo potranno e dovranno essere raccolti solo in una fase avanzata e certo non vicina del movimento operaio.

Nella riunione di Roma, 1 aprile 1951, fu ribadito: «La giusta prassi marxista afferma che la coscienza del singolo e anche della massa segue l’azione, e che l’azione segue la spinta dell’interesse economico. Solo nel partito di classe la coscienza e, in date fasi, la decisione d’azione precede lo scontro di classe; ma tale possibilità è inseparabile organicamente dal gioco molecolare delle spinte iniziali fisiche ed economiche. Secondo tutte le tradizioni del marxismo e della Sinistra italiana e internazionale, il lavoro e la lotta nel seno delle associazioni economiche proletarie è una delle condizioni indispensabili per il successo della lotta rivoluzionaria, insieme alle pressione delle forze produttive contro i rapporti di produzione e alla giusta continuità teorica organizzativa e tattica del partito politico».

Scindere questi tre termini inseparabili, isolare le possibilità di successo – che il rafforzamento teorico e organizzativo del partito da un lato, il lavoro e la lotta nelle associazioni economiche dall’altro, ci offrono – dalla realtà oggettiva del processo di maturazione dei contrasti interni della società capitalistica, significherebbe pregiudicare proprio quella continuità teorica, organizzativa e tattica che faticosamente il partito ha ricostruito in questi anni. Va combattuto con la massima energia ogni atteggiamento di aristocratico disinteresse per le lotte rivendicative, ogni pretesa – anche se ispirata da un sano timore d’imboccare sentieri opportunisti – che il partito si limiti a proclamare e difendere postulati “generali” rifiutandosi di scendere all’esame di questioni “particolari”. Non esistono questioni particolari isolabili dalle questioni generali del movimento proletario: la separazione delle sue "aree" è la caratteristica dominante dell’opportunismo. Ugualmente va energicamente combattuta l’opposta pretesa, quand’anche ispirata da un generoso entusiasmo, di assegnare al partito compiti che lo sviluppo reale delle lotte di classe gli impedisce di assolvere, o di prefiggersi obiettivi che solo grazie ad eventi di portata internazionale (da cui lo stesso sviluppo del partito internazionale rivoluzionario è condizionato) potranno prendere corpo e sostanza.

Badiamo quindi a svolgere serenamente, metodicamente, continuativamente il nostro lavoro di penetrazione e di proselitismo fra le masse proletarie, senza lasciarci prendere né dallo scoramento per insuccessi che dobbiamo prevedere e scontare in anticipo, né dagli isterismi del “fare per il fare”, e soprattutto senza indulgere all’illusione che i tempi della ripresa rivoluzionaria possano essere accelerati mediante ricette tattiche o espedienti organizzativi che isolino il lavoro convenzionalmente chiamato sindacale da quello generale e politico del movimento.

È una responsabilità che siamo fieri d’esserci finalmente potuti addossare, e che dobbiamo portare innanzi nella consapevolezza di assolvere un compito non nazionale ma internazionale, e di lavorare per l’avvenire di un movimento proletario e di un partito di classe che non hanno e non riconoscono limiti di tempo né confini di Stato.