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I comunisti e le lotte rivendicative (da “Il Partito Comunista”, n.66, 1980)
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I comunisti rivoluzionari hanno sempre dato grande importanza alle lotte che gli operai sono costretti dalle condizioni economiche e sociali ad ingaggiare per difendere la loro posizione di salariati dalla pressione padronale e capitalistica. Essi vogliono essere l’avanguardia dei lavoratori in queste lotte, per conquistare la loro fiducia, per dimostrare loro che i metodi comunisti sono più efficaci nella difesa operaia di quelli proposti da altri partiti o gruppi politici.
Ma, data la naturale instabilità del terreno economico e sociale su cui si ingaggiano queste lotte e la precarietà delle “conquiste” entro il perimetro di una società che vive sullo sfruttamento del lavoro salariato, le lotte rivendicative non scalfiscono nemmeno i rapporti sociali, non mettono in discussione il potere politico delle classi proprietarie, del regime capitalistico.
I proletari, tuttavia, anche se lo volessero, non potrebbero disertare dalle lotte in difesa dei loro interessi immediati, perché la semplice rinuncia a difendersi dall’ingordigia del capitalismo li ridurrebbe in uno stato di bestialità sempre peggiore. Non servirebbe nemmeno al capitalismo una classe operaia “povera”, cioè non in grado di partecipare al consumo delle merci che vengono sfornate a un ritmo crescente dalla macchina produttiva. Il capitalismo ha interesse che i lavoratori abbiano un “reddito” il più possibile capace di essere “consumato” sul mercato capitalistico, onde tenerlo vivo ed operante per perpetuare l’infernale meccanismo dello sfruttamento dei salariati.
Da qui sorge la ragione di sindacati “capitalisti”, cioè di sindacati che il regime ha interesse a costruire, o in opposizione a quelli di classe, o totalitari in assenza di una organizzazione di classe, al suo servizio, ossequiente alle necessità dell’economia mercantile e alla stabilità sociale e politica del regime capitalistico.
Poste queste premesse, nel campo dell’“opposizione” al capitalismo sorgono due tendenze che deviano dal marxismo rivoluzionario e rappresentano un ostacolo serio che ritarda il duro e penoso processo di ricostruzione della organizzazione proletaria. La prima, che potremmo definire di “sindacalismo puro”, sostiene che gli attuali sindacati non difendono la condizione operaia perché inquinati dalla “politica”, e che, di conseguenza, i veri sindacati di classe non potranno risorgere sinché non verrà bandita al loro interno l’esistenza di gruppi organizzati di Partito. Questa posizione si rifà all’anarchismo, il quale vede nella lotta politica all’interno della classe operaia un “male” generatore di divisioni che lacerano l’unità d’azione del proletariato. È una visione che prescinde dal reale stato di aggregazione sociale e politico delle classi, per cui molto semplicisticamente gli uomini si dividerebbero in due porzioni nette e distinte, gli sfruttati e gli sfruttatori, omettendo che i termini di sfruttato e di sfruttatore sono “relativi” e non assoluti. L’unica classe sociale che abbia questa caratteristica è il proletariato, per definizione senza riserve e risorse, se non la capacità di creare altri proletari.
Cosicché, in queste due categorie-specie si possono includere, tra gli sfruttati, assieme al proletariato anche il sottoproletariato che vede nel proletario al lavoro un “privilegiato”, il piccolo-borghese che intravede nel medio borghese il suo sfruttatore, questi, a sua volta, riconosce come padrone il grande borghese. Non a caso, questa concezione si esprime in termini di “popolo” in contrapposizione al capitalismo, concezione che è comune anche all’opportunismo.
Nella realtà i confini tra le classi sociali non sono fissi e soprattutto non individuabili in ciascuna persona, per modo che, a differenza che nelle società precapitalistiche in cui le classi erano rigide, a compartimenti stagni, nella società capitalistica le classi sono “aperte”, cosicché gli individui nel corso della loro vita possono varcare i confini di classe e trasmigrare dall’una all’altra indifferentemente. Ne consegue che un operaio di fabbrica proprietario di casa non è un proletario; al contrario un intellettuale, che scrive libri per il padrone editore e nulla possiede, scampa appena la vita è un proletario. Nel sindacato operaio vengono organizzati sia gli operai non proletari sia i proletari lavoratori, i disoccupati, per lo più proletari puri, vengono inquadrati i “colletti bianchi”, in gran parte non proletari, gli strati superiori dei lavoratori, le cosiddette “aristocrazie del lavoro”, e così via.
La classe operaia, come si vede, non è omogenea. Divisa in strati, ciascuno con interessi propri, si manifesta con indirizzi politici, si organizza in partiti. Se la base di aggregazione sindacale è comune a tutti i salariati, per il fatto di essere salariati, appunto, diversi sono gli interessi che spingono i vari strati di lavoratori ad organizzarsi, e quindi ciascun gruppo politico in cui i diversi interessi si esprimono s’impegna a conquistare la direzione della organizzazione per farne una leva in difesa dei suoi interessi.
Nella storia del sindacato operaio si trova chiaramente espressa questa inevitabile dialettica, che va dalle prime associazioni operaie di puri salariati al sindacato unionista anglosassone, che accetta l’adesione di soli operai qualificati, dal sindacato “libero”, sino alla vittoria del fascismo, che inquadra tutti i lavoratori affiliati o meno a partiti, al sindacato fascista, coatto, totalitario. La divisione delle classi sociali in partiti politici, quindi, è insopprimibile, come è inevitabile la divisione politica della classe operaia.
Al contrario di quanto postula l’indirizzo “sindacalista puro”, la “politica” è l’unico mezzo con cui il puro proletariato può far prevalere nell’organizzazione di classe gli interessi immediati e generali dell’intera classe salariata. Non qualunque “politica”, ma una ed unica “politica”, che scaturisce dal programma marxista rivoluzionario, rappresentata dal Partito politico di classe, unico strumento per il quale i proletari si presentano come classe storica, con principi definiti, tattica preordinata, organizzazione solida e coerente.
D’altro canto, sfidiamo chicchessia a portare un solo esempio che testimoni della neutralità del sindacato di fronte ai partiti politici e allo Stato. E anche la neutralità politica del sindacato costituirebbe, in mezzo allo scontro tra partiti, una “politica” particolare, distinta. Gli attuali sindacati di regime non sono il prodotto della “politica”, ma di una politica precisa, quella espressa comunemente da tutti i partiti, basata sulla difesa del regime capitalistico.
La seconda tendenza, apparentemente opposta a quella sopra esposta, sostiene che il sindacato sia forma superata, che il proletariato deve abbandonare, che le rivendicazioni economiche sono effimere e che tutto debba risolversi in “politica”. I fautori di questa tendenza non negano la “realtà” dei bisogni economici del proletariato, ma sostengono che questi bisogni “volgari” devono essere considerati un “pretesto”, uno spiacevole e antiestetico “accidente” da sfruttarsi machiavellicamente per “innalzare” i miseri operai all’“altezza” della superiore visione politica. Una sorta di aggiornata “politique d’abord” con tinte “rivoluzionarie”, che dovrebbe far tremare la borghesia dinanzi a un proletariato tanto eroico e generoso da lottare per un astratto ideale, al quale si ridurrebbe il socialismo. Il socialismo è un bisogno sociale materiale col quale soddisfare tutti gli altri bisogni, in sintesi i bisogni spirituali, culturali, conoscitivi, non un’astruseria settaria.
L’educazione politica o è educazione rivoluzionaria o altrimenti pedestre assuefazione del proletariato alle menzogne che le classi superiori usano per tenere aggiogata la classe dei salariati. Educazione rivoluzionaria è quella che mette in luce il ricatto economico e sociale del capitalismo per indurre i salariati ai “sacrifici”, cioè a rinunciare alle lotte economiche e sociali, alla difesa del salario che si svaluta, del posto di lavoro che diventa sempre più precario, della vita sempre più in bilico tra essere consumata in fabbrica o essere violentemente recisa sui campi di una guerra imperialista già troneggiante. È educazione nihilista, cioè piccolo borghese, non emanante dalla nostra classe proletaria, quella che invita gli operai ad abbandonare le “volgari” lotte per il pane, il salario, il lavoro, la casa. È questa invece la strada per l’assuefazione del proletariato al regime, che non chiede di meglio agli operai che di “lasciare” in mano ai sindacati e ai partiti di regime l’interessamento per i loro bisogni.
L’assenza, totale sinora, del proletariato nello scontro di classe, non autorizza nessuno a postulare la sostituzione della “economia” con la “politica”, l’abbandono della organizzazione di classe preferendo altri “organi politici” magari “tipo Soviet”. Al contrario, l’attuale stato di soggezione del proletariato al regime indica che si deve lottare per strappare di mano al regime l’iniziativa economica dei suoi sindacati, iniziativa che si va sempre più affievolendo quanto più la crisi capitalistica travolge le “riserve” con cui è stata tenuta sinora legata la classe operaia al regime presente.
Ma per indirizzarsi in questa prospettiva, le due deviazioni sono fuorvianti. La prima, perché nega il significato politico delle lotte economiche, la seconda perché nega gli interessi economici immediati degli operai.
I comunisti non negano né ritengono pretestuose le lotte economiche proletarie ma, nella giusta considerazione che queste sono necessarie, utili e ineliminabili, lavorano nel proletariato per convincerlo che non vi sono “conquiste” senza lotta di classe, senza organizzazione di classe, che queste “conquiste” vengono annullate dal regime capitalistico se il proletariato non lo abbatte violentemente e su questa vittoria non fonda la sua dittatura di classe.
È questo il programma politico che i comunisti portano nella classe e nelle sue lotte rivendicative e sociali.