International Communist Party Sulla questione sindacale

Alla radice degli errati indirizzi nel sindacalismo che si dice "di base"

(Il Partito Comunista, n.209-210-211, 1993)

La crisi del capitale - Crisi dei partiti non crisi dello Stato - Crisi dell’opportunismo politico e sindacale - Nuovi organismi di difesa - La borghesia di fronte alla forma sindacato - Principali concezioni erronee - Autonomia dai partiti o autonomia dal Partito? - Le principali concezioni delle opposizioni sindacali - Proudhon-Sorel-Consiglisti - Per il sindacato di classe






La crisi del capitale

In tutto il mondo la società capitalistica dimostra di non essere in grado di controllare le proprie contraddizioni e sprofonda sempre più in una delle sue storiche crisi.

Se il Sud e l’Est del mondo sono già crollati sul piano economico, l’Ovest, epicentro reale della crisi, resiste drogando la sua economia con sciupio immenso di forze produttive. La crisi, che ha già conseguito il risultato enorme di aver spezzato gli equilibri di Yalta e smascherato il falso comunismo dell’Est, ha sprigionato energie immense che ancora agiscono incontrollate e che saranno canalizzate dalla controrivoluzione o dalla rivoluzione a seconda di quale classe prenderà l’iniziativa storica per la risoluzione violenta della crisi: il proletariato o la borghesia.

Ogni Stato tenta di uscire dal pantano emanando misure contro il proletariato: riduzione del potere di acquisto dei salari, riduzione drastica del salario differito (sanità, pensioni, scuola e servizi in genere), ristrutturazione dei processi produttivi aziendali (privati e pubblici) con espulsione di milioni di lavoratori dal processo produttivo e dai servizi, precarizzazione del rapporto di lavoro etc.

Ogni Stato si prepara a combattere per la sua sopravvivenza come entità autonoma economico-politica mandando in prima fila a combattere e morire i suoi proletari.

Non solo ma le varie borghesie nazionali per salvarsi tentano di aggregarsi in poli sovranazionali che permettano loro di uscire dalla crisi vincendo la guerra commerciale, finanziaria e produttiva, contro gli altri grandi poli dell’accumulazione.

Mentre i paesi europei marciano verso l’Europa di Maastricht a guida germanica, l’America del Nord si organizza nella Nafta che comprende Usa, Messico e Canada, e il Giappone riprende i contatti con Corea e Cina, aumenta il suo potere in tutta l’area del Sud-Pacifico, cambia la sua costituzione e manda per la prima volta nel dopoguerra i suoi soldati in un paese straniero, la Cambogia. Si stanno delineando nel mondo tre blocchi mostruosi che per il momento si combattono a colpi di tassi di interesse e tariffe commerciali, e che in un domani non tanto lontano saranno costretti a misurarsi sul piano militare. In questa battaglia tra mostri imperiali si cominciano a contare i primi morti proletari, morti reali (Yugoslavia), e morti economici (disoccupati e poveri in aumento in tutto il mondo).

La crisi del capitale su scala mondiale insieme al razzismo e altre aberrazioni porta con sé fenomeni di importanza fondamentale per il proletariato: la crisi dei partiti e la necessità di rafforzare lo Stato, e la crisi dell’opportunismo politico e sindacale.


Crisi dei partiti non crisi dello Stato

In tutti i paesi la crisi economica ha portato uno scombussolamento tra i partiti esistenti. Si è assistito alla dissoluzione di partiti considerati potentissimi (vedi PCUS), partiti che hanno ripudiato pubblicamente tutto il loro passato (PDS), nascita di partiti praticamente dal nulla (Le Pen in Francia, Lega in Italia, Repubblikaner e nazisti in Germania, lo stesso fenomeno di Perot in Usa, ecc.).

Molti proletari confondono questo indebolimento dei partiti borghesi con un indebolimento dello Stato. In realtà più la crisi avanza e più la guerra tra gli imperialismi si fa dura, più i singoli Stati borghesi si blindano, riducono di fatto e di diritto i poteri del parlamento e della magistratura, rafforzando enormemente l’esecutivo. Tutti gli Stati borghesi oggi tendono verso forme di dominio bonapartista. La crisi dei partiti tradizionali, la nascita di nuovi partiti, il dilagare del populismo plebiscitario sono momenti che confermano l’emancipazione dell’esecutivo dagli altri poteri dello Stato. D’altra parte l’economia capitalista detta legge, anche agli stessi borghesi.

In una guerra in cui è necessario prendere decisioni immediate non si possono attendere i tempi lunghi del parlamentarismo. La "fabbrica di chiacchere" ha esaurito il suo compito. Forse non è lontano il momento in cui anch’essa sarà "ristrutturata" e i suoi addetti di nuovo "prepensionati".

La borghesia è la classe politica per eccellenza, è la classe che ha elaborato un culto feticistico dello Stato e della volontà politica. Sin dal suo sorgere ha sempre pensato che le sue crisi fossero causate da deficienze accidentali o intenzionali dell’amministrazione dello Stato, e quindi ha ricercato sempre in misure amministrative il rimedio dei suoi mali. Ristrutturando il suo Stato in senso bonapartista o fascista, con o senza parlamento, pensa di poter risolvere i suoi problemi.


Crisi dell’opportunismo politico e sindacale

Nel caos attuale in cui l’economia si rivolta alla borghesia, gli opportunisti politici e sindacali, sempre pronti a precipitarsi in aiuto dell’ordine capitalistico a prezzo del tradimento degli interessi collettivi proletari, hanno subito una schiacciante sconfitta: non solo le loro prospettive di un avvenire sempre più radioso e "sociale" per le masse sono crollate, ma l’odierna sinistra realtà di miseria grava unicamente sulle masse sfruttate, di cui essi pretendono assicurare il benessere e la prosperità in piena società capitalistica di sfruttamento, e questo al suo stadio più parassitario.

La totale e clamorosa bancarotta del capitalismo ha parimenti comportato lo scacco completo di tutti i traditori che hanno legato il loro destino al capitale, con le loro sordide manovre e i loro compromessi. La crisi ci ha fatto superare questo primo passo gigantesco nell’opera di emancipazione dei lavoratori.

Mentre il capitalismo è alle prese con difficoltà inestricabili, gli opportunisti politici e sindacali propongono e impongono alle masse austerità e sacrifici (e questi in piena crisi di sovrapproduzione) per salvaguardare la produzione nazionale e lo Stato a cui collaborano. Le organizzazioni sindacali e i loro referenti politici anestetizzano le masse, già manipolate da decenni, proprio quando esse cominciano ad uscire, sotto la pressione dei fatti, dal loro lungo letargo.

La funzione dei sindacati nazionali confederali e autonomi appare con sempre maggior chiarezza come quella di organizzazioni preziose e indispensabili alla classe dominante per la conservazione della stabilità sociale e politica della società capitalistica. Ogni misura governativa o padronale, dettata dall’aggravarsi progressivo della situazione economica generale, trova in essi il veicolo migliore per essere imposta ai lavoratori al fine di impedire o comunque smorzare reazioni di classe pericolose per l’assetto generale del capitalismo.


Nuovi organismi di difesa

Il grado di degenerazione degli attuali sindacati, la natura reale della loro funzione antiproletaria, così come le sane reazioni dei lavoratori che si organizzano, possono essere comprese solo attraverso lo studio della questione sindacale nel suo complesso. Solo attraverso la storia passata del movimento operaio è possibile capire e comprendere come si sia arrivati a questo punto, in cui i sindacati si sono trasformati in poliziotti dei lavoratori, in loro nemici inesorabili. Solo attraverso lo studio scientifico della questione sindacale in tutto l’arco complessivo di vita del modo di produzione capitalistico è possibile comprendere dove mirano ineluttabilmente tutti i tentativi, in qualunque paese del mondo avvengano, di organizzazione autonome dei lavoratori, e individuare le cause della loro debolezza.

Il ritorno delle masse proletarie alla difesa intransigente delle loro condizioni di vita attraverso lo scontro di classe, contro tutte le forze che difendono gli interessi dell’economia capitalistica, ha come conseguenza la rinascita di un tessuto organizzativo classista che inquadri e diriga la parte più combattiva e risoluta del proletariato.

La fase che noi stiamo vivendo è l’atto di nascita ancora debole, ma già temibile per la borghesia e i venduti opportunisti, di queste nuove organizzazioni economiche di classe, condizione indispensabile per difendere il presente e il futuro del proletariato.

Come spesso avviene nella storia, il nuovo che emerge dal suo grembo cerca una sua legittimità, anche senza saperlo, in teorie che hanno accompagnato la genesi della classe lavoratrice in sindacato e in partito politico. Come i giacobini e i repubblicani francesi cercavano i loro modelli nei repubblicani romani, così molte organizzazioni attuali cercano i loro modelli teorici in forme di organizzazione del proletariato che già sono fallite storicamente. Nel mentre pensano di aver trovato la soluzione organizzativa ottimale per l’emancipazione del proletariato. Pensano di essere entrati nell’"era dell’informatica", mentre sul piano teorico e pratico sono ancora al tempo della distruzione dell’artigianato e della nascente manifattura.

L’esposizione storica della questione sindacale concerne l’atteggiamento tenuto dalla borghesia nei confronti della forma sindacato, e le connotazioni assunte dalla stessa forma nel corso della sua evoluzione.


La borghesia di fronte alla forma sindacato

Nell’atteggiamento della borghesia nei confronti della forma sindacato si possono distinguere tre fasi: divieto - tolleranza - assoggettamento.

La prima fase è caratterizzata dall’affermarsi sulla scena della storia dei primi confusi ma decisi moti operai contro i singoli capitalisti e di conseguenza delle prime associazioni operaie. Questi fenomeni furono le prime smentite della dottrina liberale che costituì la veste ideologica del trionfo della borghesia assurta a classe dominante contro i vecchi regimi dell’aristocrazia feudale. Per la borghesia nessuna associazione economica tra "cittadini" sarebbe stata più necessaria perché la difesa dei diritti individuali sarebbe stata garantita dallo Stato e dagli istituti rappresentativi di tutto il popolo "liberamente eletti". E in nome di questi principi che la borghesia reprime ferocemente le prime associazioni permanenti degli operai accusandole di voler riesumare le corporazioni dell’ancien regime.

In Francia in piena rivoluzione, nel 1791, la legge Le Chapelier vieta l’associazionismo operaio e lo stesso farà la contrapposta Inghilterra nel luglio del 1799. Ieri come oggi i borghesi possono combattersi ferocemente tra di loro ma legiferano nello stesso modo contro il proletariato.

Questi divieti facevano sì che queste prime associazioni operaie costituissero, per il solo fatto di manifestarsi apertamente, un potente fattore rivoluzionario. Non stupisce pertanto che nei primi movimenti proletari non fosse ben chiara la distinzione tra organismi di difesa ecomica e organizzazioni politiche.

Ma già con la fondazione della Prima Internazionale, a cui aderivano anche le organizzazioni economiche, si era chiarita la sostanziale differenza tra organizzazione economica e partito politico ed erano stati esplicitati i limiti intrinseci del movimento sindacale.

«Le Trade-Unions compiono un buon lavoro come centro di resistenza contro gli attacchi del capitale; in parte si dimostrano inefficaci in seguito a un impiego irrazionale della loro forza. Esse mancano, in generale, al loro scopo, perché si limitano ad una guerriglia contro gli effetti del sistema esistente, invece di tendere nello stesso tempo alla sua trasformazione e di servirsi della loro forza organizzata come di una leva per la liberazione definitiva della classe operaia, cioè per l’abolizione definitiva del sistema del lavoro salariato» (Salario, Prezzo e Profitto, esposizione di Marx al Consiglio Generale dell’Internazionale, 1865).

Già da allora il sindacato veniva subordinato al partito politico che costituiva il vertice nella gerarchia delle organizzazioni proletarie. «Nella lotta contro il potere collettivo delle classi possidenti, il proletariato non può agire come classe se non costituendosi esso stesso in partito politico distinto, opposto a tutti i vecchi partiti formati dalle classi possidenti. Questa costituzione del proletariato in partito politico è indispensabile per assicurare il trionfo della rivoluzione sociale e del suo fine supremo: l’abolizione delle classi. La coalizione delle forze operaie, già ottenuta attraverso la lotta economica, deve anche servire da leva in mano a questa classe, nella lotta contro il potere politico dei suoi sfruttatori» (Articolo 7a degli Statuti dell’A.I.L. approvati al Congresso dell’Aia, 1872).

Successivamente, e in particolare nel periodo della II Internazionale, la borghesia cambia atteggiamento nei confronti degli organismi economici. Dal divieto passa alla tolleranza violando con questo i suoi "sacri principi" liberali. Questo periodo, che si concluderà tragicamente nel massacro del 1914, è contraddistinto da uno sviluppo continuo e relativamente pacifico del capitalismo, dalla formazione di una larga fascia di aristocrazia operaia che fornisce i quadri dei nascenti partiti socialisti e delle sempre più forti organizzazioni economiche. Inizia in questa fase la commistione di interessi tra proletariato e borghesia, la sopravvalutazione delle conquiste sindacali, l’elogio del movimento immediato e la chiusura del movimento entro il quadro della società esistente.

Dal punto di vista dei contenuti politici, esistono analogie tra l’opportunismo sindacale della prima fase di espansione del capitalismo e quello dell’attuale fase imperialista. L’ideologia di cui sono entrambi permeati, che è poi quella della classe dominante, è la stessa e non potrebbe essere diversamente. La differenza risiede nella funzione istituzionale assunta nei confronti delle strutture statali e degli ingranaggi politici-economici della società capitalistica in generale, in rapporto alle tendenze e all’atteggiamento delle masse proletarie verso di esse. Mentre i dirigenti sindacali dei primi periodi erano indipendenti dagli organi statali e dovevano rispondere alle masse, talchè le loro organizzazioni funzionavano mediante il metodo democratico e si mantenevano con i contributi volontari dei soli iscritti, gli attuali sono legati e dipendenti anche finanziariamente dallo Stato, totalmente irresponsabili rispetto alle masse, mentre le loro organizzazioni funzionano con il metodo della cooptazione.

Ouei sindacati furono definiti da Lenin e dall’Internazionale Sindacale Rossa, sindacati operai reazionari. Anche se i loro dirigenti sono legati alla borghesia e alla polizia (se non da essa direttamente fondati, vedi caso Zubaov in Russia inizio secolo) tali sindacati conservano il loro carattere operaio e sono suscettibili di essere utilizzati per la lotta di classe.

E, in circostanze favorevoli, sono suscettibili di essere conquistati all’azione e alla direzione dei comunisti rivoluzionari. Tale fu la CGL prima del fascismo in cui la frazione sindacale rossa controllata dal Partito Comunista d’Italia comprendeva nel settembre del 1921 mezzo milione di iscritti (L’Ordine Nuovo quotidiano 10 settembre 1921, Convegno Nazionale delle Organizzazioni Sindacali comuniste).

  Nel primo dopoguerra il proletariato, sulla spinta della Rivoluzione russa e della crisi economica, tenta, ed in parte vi riesce, di riprendere il controllo dei suoi organismi economici.

Chiuso il ciclo rivoluzionario, la borghesia sull’onda della controrivoluzione passa alla terza fase, inaugurata dai regimi fascisti, e poi, specialmente dopo la seconda guerra mondiale, estesasi a tutto il mondo: quella dell’assoggettamento. La borghesia mira non più solo a tollerare i sindacati, ma ad utilizzarli come strumenti diretti della gestione dell’economia capitalistica attraverso il loro riconoscimento giuridico e istituzionale.

Il sistema imperialista si dimostra molto più rigido nelle sue articolazioni del capitalismo pre-imperialista. Questo fa sì che la lotta economica del proletariato si trasformi in lotta politica assai più rapidamente di quanto non potesse avvenire nella fase dello sviluppo relativamente pacifico del capitale. Questo rende la questione sindacale ancora più bruciante che all’inizio del secolo. La costituzione dei sindacati di classe sarà avversata in modo violento dalla borghesia, ma rappresenterà un fattore di accelerazione enorme del processo rivoluzionario.

L’imperialismo tende alla centralizzazione estrema di tutti i fattori della produzione capitalistica sotto l’egida dello Stato e dunque anche dei sindacati, divenuti ormai parte integrante del contesto sociale ed economico del capitalismo.

Assoggettando i sindacati allo Stato la borghesia mondiale ha strappato al nemico proletario l’unica sua risorsa: l’organizzazione, il superamento dell’individualismo, divisa storica e filosofica del regime borghese.

Poiché il divieto del sindacato economico sarebbe un incentivo alla lotta di classe autonoma del proletariato, in questa fase la consegna è divenuta l’opposta: il sindacato deve essere inserito giuridicamente nello Stato e divenire uno dei suoi organi. La via storica per arrivare a tale risultato presenta aspetti diversi e anche molti ritorni, ma siamo in presenza di un carattere costante e distintivo del moderno capitalismo imperialista.

Dopo la prima guerra mondiale in Italia e in Germania i regimi totalitari vi giunsero con la diretta distruzione dei sindacati rossi tradizionali e persino di quelli gialli, sostituiti dai sindacati statali neri.

Gli Stati che in guerra hanno sconfitto i regimi fascisti si muovono con altri mezzi nella stessa direzione. Permettono che agiscano sindacati formalmente liberi e non vietano lo sciopero. Ma ovunque la soluzione di tale movimento confluisce in una trattativa con gli esponenti del potere politico ufficiale che fanno da arbitri tra le parti economicamente in lotta, ed è ovviamente il padronato che fa in tal modo la parte del giudice e dell’esecutore. Ciò sicuramente prelude alla eliminazione giuridica dello sciopero e dell’autonomia dell’organizzazione sindacale che si può considerare ormai praticamente in fase di compimento in tutti i paesi.

La differenza tra i sindacati fascisti dichiaratamente di Stato e i sindacati cosiddetti liberi non sta nelle rispettive politiche: tutti subordinano la difesa degli interessi economici immediati dei lavoratori alle esigenze della patria e dell’economia nazionale. La differenza fondamentale è nella forma organizzativa per cui in alcuni paesi capitalistici, nei più ricchi e in quelli in cui la lotta di classe non ha raggiunto limiti critici, così come è stato possibile allo Stato capitalistico mantenere le forme democratiche, è stato possibile mantenere sindacati formalmente "liberi", formalmente ad adesione volontaria dei lavoratori, anche se sostanzialmente legati alle sorti del regime capitalistico e alla sua conservazione.

Proprio per questo usiamo per tali organismi sindacali la definizione di sindacati di regime invece che di Stato anche se questo, alla lunga, sarà lo sbocco inevitabile. La differenza nelle forme organizzative tra sindacato di Stato e sindacato di regime non è indifferente ai fini dei rapporti di forza tra le classi. Il fatto che lo Stato capitalistico sia riuscito a sottomettere gli organismi operai alla difesa dei propri interessi, di fatto e tramite mille legami, e che abbia potuto, in questo dopoguerra e nei massimi paesi (escluso l’Est europeo in cui il sindacato era di Stato) ottenere questo risultato, mantenendone l’organizzazione formalmente libera e volontaria, è un fatto negativo di grandissima importanza. Indica che la borghesia è riuscita a corrompere il proletariato e che non ha avuto bisogno di distruggere i suoi organismi di classe, ma che essi si sono "volontariamente" sottomessi per il tramite dei propri capi opportunisti, per il tramite dell’influenza delle categorie operaie privilegiate, alle esigenze dello Stato e del Capitale.

Da questa dinamica sindacale dell’epoca imperialista alcuni deducono sia finito il tempo delle rivendicazioni sindacali e degli organismi di difesa economica del proletariato e nulla possa essere concepito ormai in termini di "lotta al sistema", che non sia immediatamente politico, denunciando la lotta di difesa economica come "arretrata" o al massimo subendola come prezzo necessario da pagare per imporre il passaggio al "politico". Costoro non si accorgono che ogni lotta economica che vada oltre una certa estensione concresce in lotta politica. Poichè il sistema imperialista si dimostra molto più rigido nelle sue articolazioni del capitalismo pre-imperialista la lotta economica del proletariato può trasformarsi in lotta politica assai più rapidamente di quanto non potesse avvenire nella fase dello sviluppo relativamente pacifico del capitale.

Ma nell’epoca imperialista i tempi dell’economico, del politico e del militare sono accelerati ma non annullati (vedi Polonia anni’ 80).

Questo non vuol dire che il sindacato si scioglie nel partito o viceversa. Vuol dire soltanto che non è dato un lungo ciclo in cui la lotta sindacale potrà fare a meno della direzione di partito e della lotta politica e che in breve tempo sfocerà nella lotta per il potere. Ma gli organi della lotta sono distinti: sindacati e organi dello Stato dittatoriale con diversa funzione e composizione. Possiamo solo dire che il partito sarà presente in tutte le fasi come organo dirigente del complessivo processo rivoluzionario.

Questo rende la questione sindacale ancora più bruciante che all’inizio del secolo. La costituzione dei sindacati di classe sarà avversata in modo violento dalla borghesia, ma rappresenterà un fattore di accelerazione enorme del processo rivoluzionario.

Al momento culminante della crisi che porterà al crollo dell’economia capitalistica e di tutte le conquiste e garanzie, riserve "colcosiana" del moderno proletariato, insieme a tutte le illusioni democratiche e pacifiste «non resterà alle masse sfruttate altra alternativa che la lotta per la difesa delle proprie condizioni di esistenza. Da questa lotta che si troverà contro tutte le centrali tricolore, tutti i partiti, tutto l’apparato statale, dovrà risorgere il sindacato di classe» (Comunismo, 1/1979).

La crisi in questo senso lavora per coloro che hanno a cuore gli interessi del proletariato. Distruggendo inesorabilmente le riserve economiche dell’aristocrazia operaia colpisce il pilastro portante del sindacalismo di regime. Il macello economico dell’aristocrazia operaia è la premessa indispensabile per la distruzione del sindacalismo di regime e la rinascita del sindacato di classe. La rinascita del sindacato di classe non sarà né graduale né pacifica né tantomeno prodotto della scheda referendaria, come pensa la quasi totalità dei dirigenti del sindacalismo base (Cobas, Club, SLA, etc).

* * *

Il sindacato di classe sarà il risultato di uno scontro sociale di grande ampiezza e violenza, preludio alla vera e propria guerra civile tra proletariato e borghesia. La sua nascita non potrà essere separata dall’aumento dell’influenza del Partito Comunista sulle grandi masse operaie. Nascita del Sindacato di classe e sviluppo del Partito sono fenomeni tra loro interagenti, e strettamenti connessi allo svolgersi della crisi capitalistica.

Per questi motivi tutti coloro che svalutano l’importanza delle lotte economiche e del Sindacato di classe, per partecipare magari poi alla sarabanda referendaria (vedi Cobas-Scuola e aútonomi in genere), convergono con gli opportunisti ufficiali nella svalutazione delle lotte rivendicative immediate e disarmano i proletari di un’arma potentissima per disarticolare il potere borghese.

Per quanto riguarda la traiettoria descritta dal sindacalismo italiano nel secondo dopoguerra è bene ribadire, nei confronti di chi si ostina ad affermare che la "mutazione genetica" dei sindacati confederali è cominciata nel 1977, che essa in realtà ha seguito il corso mondiale precedentemente descritto.

La CGIL unitaria partorita nel 1944 non aveva niente a che vedere, neanche nelle tradizioni, con la CGL rossa. Anziché essere una organizzazione di classe controllata dall’opportunismo è un sindacato messo in piedi da un blocco di forze politiche strette nell’unità nazionale, a cui appartengono indifferentemente partiti apertamente borghesi e partiti sedicenti "operai", il tutto sotto l’egida dell’imperialismo americano e la benedizione della Chiesa. Basta la constatazione di questo connubio e dei suoi patroni, che sarebbe risultato impossibile permanendo le caratteristiche della CGL del primo dopoguerra, per designarne il carattere apertamente borghese.

Nulla cambierà l’uscita della CGIL delle forze sindacali (CISL e UIL) ispirate dai partiti borghesi o apertamente opportunisti. A guidare queste scissioni non saranno considerazioni di classe, ma i contrasti interimperialistici delle nazioni uscite vittoriose dal macello da poco concluso.

È utile ricordare che l’affermazione della CGIL non fu pacifica e senza resistenze da parte del proletariato, specialmente nel Sud. Le tradizioni comuniste avevano portato in molte regioni dell’Italia "liberate" dagli americani alla rinascita dal basso del sindacalismo rosso, più forte della ufficiale CGIL. Contro la CGL rossa si mossero all’unisono le forze dell’occupazione militare e quelle della CGIL. Mentre questa ereditava le attrezzature e i mezzi del sindacato fascista, alla CGL rossa era vietata l’azione di propaganda e di sciopero, pena anche la morte.


Principali concezioni erronee

Molte sono le differenze costitutive ed organizzative tra i vari movimenti dei lavoratori sedicenti "autorganizzati" (Cobas-Scuola, Sla etc.) e del sindacalismo che si dice "di base" (Cub). Alcune concezioni sono però comuni.


Nessuna garanzia

Leggendo gli statuti, i preamboli, i documenti di tutte queste organizzazioni si coglie il terrore che hanno di degenerare, di diventare un qualcosa d’altro delle "masse" di cui si propongono o si autocandidano come difensori intransigenti. Incapace la maggior parte dei loro dirigenti, compresa una buona parte di quelli dei Cobas della scuola, di cogliere la reale natura dell’opportunismo, si affannano alla ricerca di garanzie di ordine costituzionale, elettorale, di forme organizzative per impedire che l’organizzazione degeneri, non rappresenti più gli interessi dei salariati ma dello Stato e del capitale.

Questa ossessione di tutte le organizzazioni è indice della loro estrema debolezza, della scarsità dei loro legami con il proletariato e riflette una concezione idealistica piccolo-borghese e non materialistica del fenomeno storico definito opportunismo. L’opportunismo non è un fatto di carenze morali degli individui, siano essi capi o elementi di base, ma un fatto sociale, un compromesso tra le classi che avviene in profondità. Il capitalismo in dati svolti della sua storia offre patti al proletariato. In cambio di garanzie sociali e di un buon salario chiede la rinuncia alla lotta di classe intransigente e in modo particolare chiede al proletariato di abdicare ad ogni pretesa al potere politico, premessa per il passaggio da una economia capitalistica a una comunista.

Lo strato del proletariato che si fa mediatore tra l’interesse del capitale e l’interesse immediato della gran massa del proletariato, che in questo modo per il classico piatto di lenticchie abdica alla sua funzione storica e si rende oggettivamente complice dell’imputridimento dell’attuale forma sociale di produzione, storicamente è stata definita con il termine di aristocrazia operaia. Questa aristocrazia domina l’apparato sindacale e impregna la sua prassi delle proprie concezioni collaborazioniste. Essa costituisce il puntello più solido della borghesia al potere nello Stato e nelle imprese.

Il problema quindi della degenerazione delle organizzazioni dei lavoratori salariati non è di ordine morale, elettorale, tecnico, ma economico e sociale. Essendo l’opportunismo un fenomeno economico-sociale che coinvolge in profondità il capitalismo e la classe operaia è risibile pensare che possano esistere garanzie di tipo giuridico, elettorale, organizzativo che preservino il movimento operaio e le sue organizzazioni della degenerazione opportunista.

L’opportunismo è il prodotto di un patto contro natura tra capitale e lavoro. Tale patto può reggere finché il capitale non ha subito la sua "critica interna": la crisi. Il cambiamento del rapporto di forze in favore dell’indirizzo radicale e classista all’interno del proletariato non può operarsi che a partire da una crisi economica generale di estrema profondità. La chiusura lenta ma regolare delle fabbriche, l’aggravamento della situazione economica nelle branche decisive dell’industria e dei servizi, il dilagare della miseria, man mano che la crisi di sovrapproduzione si trasforma in penuria, dai continenti di colore alle metropoli sviluppate, faranno sì che i lavoratori si libereranno progressivamente dell’influenza dei dirigenti sindacali, le cui parole d’ordine appariranno per quello che sono: pura demagogia dinanzi al fallimento economico che subisce il programma dei collaboratori di classe, in veste sempre più sinistra di difensori del padrone e dello Stato.

Le stesse attuali nuove organizzazioni sono il prodotto dell’inizio della crisi, e quindi riflettono lo sfilacciarsi del controllo dell’opportunismo sul movimento dei salariati. Non è lo sfrenato attivismo di un pugno di militanti che potrà rilanciare le masse operaie nella lotta frontale, né meccanismi elettorali, forme speciali organizzative, o addirittura come pretendono alcuni una legge dello Stato che permetta all’iscritto di denunciare il dirigente per tradimento che potrà impedire ad un rinato movimento di degenerare. Non a caso è stato scritto che la rivoluzione non è una questione di forma di organizzazione. La lotta di classe al pari della rivoluzione, che ne costituisce il momento più alto, è un problema di forza.

Per questo il proletariato non deve legarsi le mani con nessun limite costituzionale, elettorale, formale, ma deve essere in grado di piegare il padronato con i suoi strumenti organizzativi, Sindacato, Partito e, domani, Stato dittatoriale; e i suoi mezzi, sciopero senza limiti di categoria, di tempo e di spazio fino all’insurrezione armata e l’instaurazione del terrore rosso contro tutte le forze controrivoluzionarie.

Le leggi, le costituzioni scritte dalle classi dominanti non sono al di sopra delle parti, non sono neutrali. Esse possono garantire dei diritti al "cittadino" non al proletariato che per definizione è privo di diritti perché il suo carattere è di essere: «una classe della società civile la quale non (è) una classe della società civile (...) uno stato che (è) la dissoluzione di tutti gli stati (...) una sfera che per i suoi dolori universali possiede un carattere universale e non rivendica alcun diritto particolare, poiché contro di essa viene esercitato non una ingiustizia particolare bensì l’ingiustizia senz’altro, la quale può fare appello non più ad un titolo storico ma al titolo umano (...) di una sfera che non può emancipare se stessa senza emanciparsi da tutte le rimanenti sfere della società, la quale, in una parola, è la perdita completa dell’uomo, e può dunque guadagnare nuovamente se stessa soltanto attraverso il completo riacquisto dell’uomo. Questa dissoluzione della società in quanto stato particolare è il proletariato» (Marx: Per la Critica della Filosofia del diritto di Hegel, Introduzione).


Autonomia dai partiti o autonomia dal partito?

Ad ogni grande ondata del processo di involuzione e degenerazione del movimento dei salariati si succedono tentativi di ridare forme di organizzazione proletaria diverse da quelle definite dalla Prima Internazionale, in particolar modo dalla Conferenza di Londra del 1871 e del Congresso dell’Aia del 1872, che vedono al loro centro il partito di classe e lo Stato dittatoriale del proletariato. Fu su quella base che si attuò nella storia dell’umanità il primo serio tentativo di emancipazione dei lavoratori salariati: la rivoluzione di Ottobre.

Siamo convinti che nessuna utile costruzione teorica e pratica per una grande ripresa del movimento di classe uscirà mai da questa trepida diffidenza per le forme di organizzazione indispensabili al capovolgimento storico del rapporto di dominazione di classe: il Partito e lo Stato.

L’obiezione puerile si riduce tutta alla convinzione che vi sia nella natura dell’uomo una insuperabile condanna a volgere l’esercizio del potere, dalla difesa delle cause delle forze sociali, alla difesa dell’interesse individuale nella libidine vanesia del soggetto, rivestito, nel partito e nello Stato, da funzioni di potere.

Negli statuti o in documenti più o meno ufficiali delle strutture "autorganizzate" è ribadito che l’organizzazione è indipendente da tutti i partiti. Art. 3 comma 2, Statuto della Cub: «La Cub è un sindacato autonomo dai partiti, dai padroni, dai governi e dallo Stato»; ed ancora dall’art 10: «È incompatibile la carica di componente di organismi direttivi ed esecutivi della Cub con (...) incarichi direttivi ed esecutivi di partito». Dall’art. 3 comma 3 dello Statuto dello Sla: «Lo Sla è autonomo da Stato, governo, partiti e padroni». Dall’art. 1 dello statuto dei Cobas-scuola: «L’associazione (...) è indipendente da partiti o gruppi politici di qualsiasi natura».

Questo non impedisce a queste strutture di richiedere incontri con tutti i partiti, di mantenere rapporti cordiali con certi partiti considerati più a "sinistra" e più "vicini" ai lavoratori, di candidare propri dirigenti a cariche elettive parlamentari di determinati partiti.

In realtà questa autonomia dai partiti è la richiesta anticipata di autonomia dal partito che non c’è ma che si teme possa risorgere in futuro: il partito di classe.


Le principali concezioni delle opposizioni sindacali

Gli organismi che hanno espresso le concezioni più articolate e note all’interno del movimento sono la Cub, lo Sla, i Cobas-scuola.

Il movimento dei ferrovieri, in particolare quello dei macchinisti, pur avendo espresso il più elevato volume di lotta, è stato incapace, a causa del mediocre spirito corporativo che lo ha contraddistinto, di svolgere qualsiasi funzione di stimolo ideale e organizzativo nei confronti del movimento. I ferrovieri, nel passato sempre all’avanguardia, da anni sono totalmente al rimorchio ora della Cub ora dei Cobas, se non divisi tra di loro in partigiani dell’una o degli altri. È chiaro che finché i ferrovieri non avranno superato la fase dei sindacatini di qualifica nessun ruolo trainante potranno svolgere. È auspicabile che essi giungano al più presto alla costituzione di un sindacato unitario, che probabilmente li porterebbe a svolgere un ruolo di avanguardia, elevando di molto il livello di coscienza ed organizzativo dei movimenti di base e favorendo la rinascita del sindacato di classe.


a) La Confederazione Unitaria di Base

La Cub ha posto l’anno 1977 come inizio della «avvenuta mutazione genetica di Cgil-Cisl-Uil che si sono trasformate in strutture burocratiche lottizzate dai partiti, prive di rapporto democratico con i lavoratori, subordinate al governo e alle esigenze del grande padronato» (Documento conclusivo dell’Assemblea di fondazione della Cub, 24 gennaio 1992).

La "mutazione" si sarebbe conclusa con l’accordo del 10 dicembre del 1991 e del 3 luglio 1992.

Il lavoro del partito ha dimostrato ampiamente come la Cgil sia rinata nel 1944 "tagliata sul modello Mussolini" (non consideriamo qui Cisl ed Uil sottoprodotti della guerra fredda in campo sindacale). Nel 1977 non c’è stata alcuna mutazione genetica ma semplice adeguamento del sindacato tricolore alle esigenze del capitale italiano.

D’altra parte, non fosse che per il nome che la neo-confederazione ha deciso di assumere (Cub), essa dovrebbe avere maggiore memoria storica. Le lotte operaie degli anni 1968-70, di cui i Cub furono uno dei prodotti più alti dell’organizzazione indipendente degli operai in campo economico, furono lotte dure contro i sindacati degenerati. Allora il capitale offriva ancora margini di manovra ai sindacati, i quali d’altra parte ebbero l’intelligenza, dopo un inutile tentativo di soffocare le lotte, di lanciare la parola d’ordine del "sindacato dei consigli". Come qualche anno fa ha ricordato Del Turco il sindacato dei consigli ha avuto l’obiettivo di stroncare il movimento degli operai. Certo gli operai con il loro ultrademocraticismo, la loro incapacità di comprendere la natura reale dell’opportunismo, e quindi dei mezzi per combatterlo, facilitarono l’opera di recupero sindacale; ma è indubbio che l’esperienza di allora fu estremamente significativa nel dimostrare che la parola d’ordine di democratizzazione dei sindacati era controrivoluzionaria e che il "controllo operaio" attraverso i consigli, specialmente quando furono riconosciuti per legge con lo Statuto dei lavoratori, non poteva assolutamente contrastare l’opportunismo, ma anzi lo favoriva. Questa lezione non è stata compresa dalla Cub, e ancora di più dallo Sla che anzi del Sindacato dei Consigli fa «un embrione del potere alternativo a quello dominante» (art. 3 comma 7 dello statuto dello Sla).

La Cub non intende porsi come struttura gerarchica interferente nelle attività delle organizzazioni aderenti. Essa è organizzata su basi federaliste, ogni organizzazione ad essa aderente mantiene totale e incodizionata autonomia. Questa giunge fino al riconoscimento che «le iniziative e le trattative di carattere generale debbono essere oggetto di preventiva approvazione da parte di tutte le organizzazioni sindacali aderenti» (art. 5 dello Statuto della Cub). Questo diritto di veto di ogni organizzazione se fosse applicato veramente, e per il momento non lo è, condannerebbe la Cub alla impotenza perpetua. La Cub si trova quindi costretta o a violare il suo Statuto o a perdere preziose energie nell’opera di mediazione tra tutte le organizzazioni componenti. Attualmente la questione non è bruciante in quanto di fatto nella Cub le decisioni sono prese dalla Flmu e dalle RdB. Ma è chiaro che nel momento in cui la Cub venisse a raccogliere decine di forti organizzazioni di categoria la mediazione sarebbe praticamente impossibile e l’impotenza certa.

La Cub nulla dice sulla riscossione delle quote per delega. Il suo Statuto, nulla dice sul modo di riscossione dei contributi sindacali da parte delle organizzazioni componenti. Di fatto la riscossione per delega al padrone è fatta propria dalle organizzazioni fondatrici della Cub. Per la Cub la questione della delega è solo di semplificazione contabile e non comprende che la sua introduzione ha costituito l’inizio della distruzione della rete sindacale sui luoghi di lavoro, costituita dai collettori che, nell’assolvere la specifica funzione di fiduciari per la riscossione dei contributi sindacali, collegavano ogni lavoratore iscritto in una rete di difesa operaia libera dalle influenze dei padroni e dei loro manutengoli. La distruzione di questa rete di collettori è servita ai sindacati per liberarsi della pressione diretta e immediata degli iscritti. Con la delega si è concluso il lungo processo che ha portato le organizzazioni sindacali di regime ad essere impermeabili alle pressioni dei lavoratori, insensibili alle loro sofferenze, schierate sempre e dovunque contro gli operai e per il padronato. Senza trascurare il fatto che la delega consegna l’organizzazione dei lavoratori e i suoi mezzi finanziari nelle mani dello Stato e dell’azienda.

La delega viene giustificata dalla Cub come mezzo per essere riconosciuta come soggetto contrattuale dal padronato e dallo Stato. La questione della rappresentanza un’organizzazione classista la risolve sul suo terreno, che è quello della lotta di classe e della forza, non su quello imposto dall’avversario.

Lo Statuto afferma all’articolo 3 che la Cub «si oppone a qualsiasi forma di regolamentazione per legge del diritto di sciopero», ma niente è detto sull’accettazione o meno dei codici di autoregolamentazione da parte di organismi di base aderenti alla Cub. I codici sono stati firmati dalla maggiore organizzazione aderente alla Cub, le RdB. L’accettazione dei codici è la fine di ogni organizzazione di classe indipendente. È debole l’obiezione che afferma che l’accettazione è puramente strumentale per aver accesso alle trattative.

Cosa si direbbe di un generale che consegna unilateralmente le armi del suo esercito per potersi sedere al tavolo delle trattative con l’avversario se non che sta tradendo? Alcuni dirigenti della Cub affermano pubblicamente che l’accettazione dei codici è solo un fatto formale. Pensano in questo modo, presuntuosamente, di ingannare un avversario con una esperienza secolare. In realtà alla borghesia interessa far vedere ai lavoratori che nella sostanza gli organismi si base non si distinguono in nulla dai sindacati di regime. Che essi non sono altro che una immagine rimpicciolita dei sindacati venduti.

La Cub ha funzionari stipendiati dal padronato e dallo Stato. Ciò è da rifiutare assolutamente in quanto il regime utilizza i distacchi come arma di corruzione, di intimidazione e di ricatto.

I principi generali su cui si fonda la Cub (art. 3 dello Statuto) non sono principi di un sindacato di classe ma versione, aggiornata con una spruzzatina di ecologismo, dei principi della Lega della Pace e della Libertà già messa alla berlina da Marx 130 anni fa.

L’ultima critica che abbiamo da rivolgere a questa organizzazione riguarda il metodo di lavoro nella fase di preparazione delle lotte. La Cub si preoccupa molto poco di raggiungere intese unitarie con le altre organizzazioni di base. Essa tende a proclamare unilateralmente delle lotte su obiettivi da essa scelti a cui poi chiede l’adesione degli organismi di base. Queste forzature sono sintomo di una sopravvalutazione delle proprie forze e di desideri di primogenitura delle lotte che contribuiscono a frammentare il fronte dei lavoratori più che ad unirlo, come sarebbe necessario.

Alla Cub comunque bisognare riconoscere l’onestà di non dichiararsi sindacato di classe come invece pretende di essere lo Sla.


b) Il Sindacato Lavoratori Autorganizzati, prima variante del “proudhonismo risorgente e tenace”

L’obiettivo dello Sla è il sindacato dei consigli. Lo Sla si pone in rapporto al sindacato dei consigli nello stesso modo in cui l’AAU (Allgemeine Arbeiter Union: Unione generale dei lavoratori) tedesca degli anni 20 si poneva in rapporto al sistema dei consigli. Così come l’AAU si considerava embrione e strumento del sistema dei consigli, lo Sla si pone come strumento ed embrione del sindacato dei consigli. Nel documento introduttivo allo Statuto Sla è affermata, da una parte, la costituzione del Sindacato Nazionale dei Lavoratori Autorganizzati e, dall’altra: «Noi non siamo "il" sindacato dei lavoratori e respingiamo ogni dannosa logica di autoproclamazione. Noi vogliamo essere uno strumento per rifondare dal basso un’organizzazione di massa di milioni di lavoratori, in cui combattere la nostra battaglia anticapitalistica per una società più giusta, diretta non dai comitati di affari delle imprese ma da coloro che producono la ricchezza del paese: i lavoratori stessi».

Alcune concezioni dello Sla (autonomia dai partiti, l’iscrizione attraverso delega, il feticcio della democrazia diretta intesa come garanzia assoluta contro la degenerazione opportunista dei vertici sindacali, etc.) sono comuni alla Cub e ai Cobas-scuola. Anche i principi generali dello Sla differiscono di poco da quelli della Cub. Contengono qualche "classe" ed "internazionalismo" in più, ma nella sostanza non vanno oltre un generico laburismo progressista.

Lo Sla è l’unica organizzazione che si pone l’obiettivo di costruire il sindacato di classe, ma il processo delineato conduce il moderno consiliarismo, forma degenere del già bastardo ordinovismo, nel grembo del fascismo. Il sindacato dei consigli, autoproclamato dallo Sla "sindacato democratico e di classe", non dovrebbe scaturire dalla lotta di classe ma grazie a due strumenti squisitamente borghesi e controrivoluzionari: il referendum contro l’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori e una legge dello Stato sulla rappresentanza e la contrattazione. La regolamentazione per legge del diritto di contrattazione è voluto anche dalla Confindustria, insieme all’applicazione dell’articolo 39 della Costituzione. Rimandando agli articoli apparsi sui numeri scorsi per un’analisi più ampia della questione: la regolamentazione per legge del diritto di contrattazione non significa altro che il fascismo in materia di relazioni industriali.

Nulla ha ormai di comune l’attuale putrido consiliarismo, che chiede l’intervento dello Stato contro la "irresponsabilità democratica" dei vertici sindacali per l’instaurazione di "Consigli veramente democratici", perfino con il consiliarista Togliatti che su L’Ordine Nuovo del 13 gennaio 1920 scriveva, in merito ad una ventilata legge sui consigli di fabbrica: «Il rivoluzionario diffida, per istinto, dei consensi troppo vasti, delle adesioni non richieste, dell’unanimità: al di sotto di ciò non può esservi altro che equivoco, confusione, inganno. Ogni volta che si venga a costituire, in un determinato momento storico, intorno ad un determinato punto programmatico, un blocco indifferente di elementi eterogenei, al rivoluzionario spetta compiere la funzione del reagente, provocare la separazione, la dissociazione, di stabilire i reciproci rapporti nella loro aspra e semplice chiarezza. A quanto pare, oggi, quando si parla di consigli e di controllo, si incontrano troppi consensi equivoci; a quanto pare questi due punti stanno per entrare a far parte del corpo di riforme che si chiedono dai più e che si accettano senza discussioni: è dunque necessario separarsi chiaramente da tutti coloro coi quali non si può e non si vuole andare d’accordo. Non si è parlato, nelle assemblee legislative, anche dai banchi del governo, di concedere ai lavoratori diritto di partecipare alla gestione e agli utili delle aziende, non si è apertamente accennato a nuove forme di rappresentanze professionali? Avremo dunque i consigli riconosciuti dallo Stato, avremo i parlamentini dei dipendenti delle aziende pubbliche, avremo anche il controllo istituito per decreto reale, esercitato col consenso e all’ombra dell’autorità dello Stato? E, quel che è peggio, quel che è soprattutto da temere, vi sarà nelle nostre file chi guarderà con occhio benevolo a queste innovazioni, e plaudirà e consiglierà al proletariato un atteggiamento di fiducia?»


c) I Cobas-Scuola, seconda variante del “proudhonismo risorgente e tenace”

Mentre la Cub, considerati geneticamente irrecuperabili dal 1977 – svolta dell’EUR – Cgil-Cisl-Uil, si pone il compito modesto di ricostituire un sindacato non di classe, e in questo c’è una certa onestà, che sia la copia più o meno conforme della Cgil ante-1977; mentre lo Sla vuole sciogliere il sindacato nei consigli dell’aristocrazia operaia, con il suggello dello Stato, pensando presuntuosamente di costituire «un embrione di potere alternativo a quello dominante» (art. 3, 7° comma dello Statuto), i Cobas-Scuola mirano ancora più in alto. Essi puntano ad una sintesi del politico, dell’economico e dell’ideologico (da essi chiamato pudicamente culturale) nella forma Cobas.

Secondo Bernocchi da cui sono tratte queste citazioni ("Socialismo o barbarie", n. 0, 1992) «Le tragiche vicende del socialismo reale ci impongono di rifiutare ogni scissione che chiuda i lavoratori in un contesto economicistico-sindacale lasciando ad altri il compito della progettualità politica e culturale. Se si vuole evitare l’autonomizzazione della "dittatura del partito" e la creazione di nuove "borghesie di Stato" bisognerebbe rifiutare fin da ora ci costruire strutture politiche come organi separati, che poi vanno ad operare e a fare proseliti tra le masse». Perchè si arrivi a questa autodeterminazione politica, culturale, sociale del lavoratore non è necessaria la vecchia e buona dittatura proletaria perché «è apparsa chiara anche l’inconsistenza della teoria della "dittatura proletaria", l’ipotesi cioè del manifestarsi, una volta abolita la proprietà privata, di comuni interessi omogenei tra lavoratori, la classe operaia, le masse popolari». Infatti l’ostacolo che impedisce "l’impegno gestionale" del lavoratore (cosa significa questo solo Dio lo sa) non è lo Stato borghese ma «l’attuale orario di lavoro della grande maggioranza degli individui. Impegnarsi per una drastica riduzione di esso (25-30 ore settimanali medie da distribuire annualmente con una certa elasticità) dovrebbe essere un caposaldo di qualsiasi progetto di trasformazione anticapitalistica».

L’articolo anonimo "Il dado è tratto" del giornale Cobas n. 10 del 1992 considera «derisoria la stessa eventualità di costruzione di nuove macchine partitiche e sindacali generatrici di nuovi ceti, magari sedicenti "rivoluzionari", di professionisti della politica. La politicizzazione di tutto il lavoro dipendente, la sua autorappresentazione politica, il suo istituirsi in nuovo potere universale: questa è la RIVOLUZIONE che oggi si presenta nuovamente possibile e che forse, tra poco, milioni di donne e di uomini sentiranno necessaria».

Tutto ciò nell’ipotesi di Statuto dei Cobas-scuola è sintetizzato dall’ultimo comma dell’art. 2. «L’associazione svolge, ad un tempo, attività politica, culturale, nonché le funzioni che di consuetudine vengono definite sindacali».

* * *


Proudhon-Sorel-Consiglisti

Tutte queste posizioni pretendono di essere ultramoderne, mentre non sono che copie sbiadite e, ci si perdoni il termine, miserabili, di tentativi grandiosi che coinvolsero milioni di lavoratori in determinate fasi della storia del movimento operaio e che fallirono miseramente.

Contro la classica impostazione di Marx, definita statutariamente dalla Conferenza di Londra del 1871 e dal Congresso dell’Aia del 1872 dell’AIL, che vedeva nel partito lo strumento costitutivo della classe per sè, nella dittatura proletaria la costituzione del proletariato in classe dominante e nel sindacato la leva formidabile per scardinare, ad un certo svolto storico critico dell’economia capitalistica, il sistema di dominio borghese, si sono opposte teorie e sistemi che tutti rigettavano partito e Stato dittatoriale privilegiando altre forme di aggregazione proletaria più atte, a loro dire, a permettere l’emancipazione del proletariato.

Il primo di questi sbilenchi sistemi è costituito dal proudhonismo. Proudhon rifugge dalla battaglia politica, il partito e lo Stato non gli interessano. Accetta come strumento transitorio il sindacato e come un mezzo-male l’arma dello sciopero. La memoria dei delegati francesi al Congresso di Ginevra dell’AIL del 1866 di ispirazione proudhoniana afferma: «Spinti dalla necessità di una remunerazione più elevata, i lavoratori sospendono il lavoro, allo scopo di ottenere per i loro servizi un salario superiore, o una diminuizione nella durata del lavoro. Allora diventa ben evidente che, dal momento che i produttori sono ad un tempo consumatori, la cessazione del lavoro, aprendo un vuoto nella borsa del lavoratore, causa immediatamente e forzatamente una restrizione del consumo e porta come conseguenza la disoccupazione nelle altre industrie (...) Vi è un circolo vizioso da cui i lavoratori devono uscire al più presto».

Per Proudhon è solo mediante la cooperazione tra produttori che il proletariato potrà emanciparsi dimostrandosi capace di poter sostituire la classe dominante. Nella Memoria del 1866 è esaltata «la cooperazione (che) raggruppa gli uomini per esaltare le forze e l’iniziativa di ognuno» ed è citato Proudhon: «L’idea madre è dunque quella di un contratto per mezzo del quale più individui convengono di organizzare tra loro in una certa misura e per un tempo determinato sia la produzione, sia la circolazione o lo scambio; di conseguenza si obbligano gli uni verso gli altri e si garantiscono mutuamente, reciprocamente una certa somma di prodotti, servizi, vantaggi, compiti, etc. che sono in grado di procurarsi e di rendersi, riconoscendosi per il resto perfettamente indipendenti, sia per la loro produzione, sia per il loro consumo. Questo contratto è quindi essenzialmente sinallagmatico: impone ai contraenti solo gli obblighi che risultano dalla loro promessa reciproca; non è sottoposta ad alcuna autorità esterna; fa solo la legge delle parti; non si realizza se non dalla loro iniziativa».

Per il proudhonismo la tendenza del principio cooperativo è l’universalità. L’"autorganizzazione universale" dei proletari era per Proudhon la cooperativa, mentre per gli attuali neo-proudhoniani sono i Cobas.

Sulla questione cooperativa l’AIL aveva già preso nettamente posizione fin dall’Indirizzo inaugurale del 1864: «L’esperienza del periodo dal 1848 al 1864 ha provato, al di sopra di ogni dubbio, che il lavoro cooperativo, per quanto eccellente sia in pratica, limitato in una ristretta cerchia di sforzi parziali di operai isolati, non è in grado di arrestare il progresso geometrico del monopolio, non è in grado di emancipare le masse e neppure è capace di alleviare in modo sensibile il fardello della loro miseria».


La prima liquidazione del proudhonismo sempre risorgente.

Sulla fine dell’800 i partiti politici del proletariato erano divenuti organizzativamente potenti e numerosi in tutta Europa. Ma essi erano dominati dal revisionismo politico. A tale degenerazione della politica e della dottrina socialista, segui in larghi strati operai un’ondata di sfiducia verso la forma-Partito.

Data la debolezza delle correnti radicali marxiste la lotta al revisionismo per oltre un decennio fu egemonizzata nelle file operaie dal sindacalismo rivoluzionario, il cui capo teorico fu Sorel. La forma primogenita dell’organizzazione proletaria era per Sorel il sindacato economico che, in prima linea, doveva non solo condurre la lotta di classe per la difesa degli immediati interessi operai, ma anche prepararsi, senza alcuna soggezione ad un partito politico, alla direzione della guerra rivoluzionaria finale per l’abbattimento del sistema capitalistico.

Sorel negava la funzione del partito politico proletario e scorgeva la rivoluzione come un urto diretto tra i sindacati di classe e lo Stato borghese. Non riusciva a comprendere il problema del potere storico, del centralismo di classe. Gli bastavano le lotte di categoria e di azienda purché ne fosse tolto il veleno della collaborazione di classe, per arrivare al rovesciamento del potere borghese e alla espropriazione dei padroni. Sorel non capiva che se la peste della collaborazione tra le classi è sempre risorta è proprio in quanto la lotta, da rapporti in limiti aziendali, categoriali, nazionali, non ha potuto assurgere alla generale unità della lotta politica del proletariato mondiale guidato dall’Internazionale.

Sorel riduceva il determinismo dialettico ad un esasperato volontarismo attivo della classe luogo per luogo, gruppo per gruppo; non poneva stadi diversi, nè nell’individuo in lotta, nè nei suoi raggruppamenti, tra l’interesse, la coscienza, la volontà. Puri proletari, operai salariati che si affiancano, altro non occorreva per Sorel per dare loro volontà di combattere e conoscenza degli scopi da raggiungere. L’errore di Sorel è ingenuo. Esso gli fu direttamente suggerito dalla situazione del suo tempo. Egli non aveva una concezione teorica della storia, le sue soluzioni erano dirette, concrete, tangibili, evidenti, ma non uscivano dal quadro immediato.

Il partito politico gli sembrava superfluo e comunque fattore di degenerazione crescente. L’apoliticità dei "sindacati rivoluzionari" significava che l’operaio come elettore sarebbe stato sempre gabbato dalla borghesia. Ma i sindacalisti rivoluzionari dimenticavano, al pari dei revisionisti, che le manifestazioni politiche supreme non sono per nulla le elezioni, ma le guerre e le rivoluzioni. La più bella "apoliticità" del mondo crolla davanti al semplice fatto che sono principalmente gli operai a fornire gli effettivi degli eserciti imperialisti e che sono essi che fanno le rivoluzioni. Nel 1914 revisionisti e sindacalisti rivoluzionari si ritrovarono abbracciati alla causa della difesa nazionale.

I limiti dell’azione sindacale si rivelarono fatali quando l’imperialismo diede uno sbocco politico e militare alla sua crisi economica. L’organizzazione economica fu travolta come un fuscello dalla tormenta del ’14 e se resistenze vi furono, che posero le basi della controffensiva proletaria culminata nell’Ottobre rosso, esse avvennero proprio nei partiti politici di classe che Sorel tanti anni prima aveva boicottato invitando i proletari ad abbandonarli per cercare rifugio nei sindacati operai.

Fallito il sindacalismo rivoluzionario, dalle fiamme della rivoluzione tedesca sorse il Comunismo dei Consigli rappresentato dal KAPD (Partito Comunista Operaio di Germania), nato nell’aprile del 1920 da una scissione del KPD, e dai Tribunisti olandesi.

Il KAPD svaluta l’azione politica e di partito in generale. Il partito è ridotto ad una associazione di propaganda mentre il compito rivoluzionario è affidato alla AAU (Allgemeine Arbeiter Union: Unione generale dei lavoratori) sorta sulla base dei B.O. (Betriebs-Organisation: Organizzazione di fabbrica). I B.O. legali esistenti in Germania nel 1920 e controllati dal USPD (Partito Socialdemocratico Indipendente di Germania) sono boicottati dal KAPD. Esso lavora, al di fuori di essi come al di fuori dei sindacati, considerati organi dello Stato, a formare delle organizzazioni di fabbrica (B.O.) distinte da quelle legali elette dagli operai. Le B.O. sono divise in distretti, i quali a loro volta eleggono la direzione generale dell’A.A.U. I membri della B.O. possono revocare in qualsiasi momento i loro uomini di fiducia, e costringerli a sostituire immediatamente le istanze più alte.

Il B.O. come la AAU (scheletro del sistema dei Consigli) sono concepiti come organismi che unificano la lotta economica e la lotta politica del proletariato. Si pongono il compito di distruggere i sindacati e i B.O. legali, di superare la scissione che si era avuta durante il periodo della II Internazionale tra politica ed economia.

Osserviamo che la lotta sindacale non è molto considerata né dal KAPD né dal AAU. Il compito fondamentale è di prendere possesso della fabbrica, procedere quando e dove è possibile a espropriazioni.

È una specie di proudhonismo violento.

Come per il proudhonismo l’emancipazione è concepita come il risultato del sorgere di aziende amministrate dagli operai che vi lavorano. I B.O. e la AAU, cioè Consiglio di fabbrica e sistema dei Consigli, sono considerati per loro essenza rivoluzionari.

Il programma del KAPD afferma:
     «I sindacati sono (...) uno dei pilastri principali dello Stato capitalistico di classe (...) Il carattere controrivoluzionario di queste organizzazioni sta nella loro struttura peculiare e nel loro stesso sistema (...) Dalla lotta di massa è sorta l’organizzazione di fabbrica (...) Essa è conforme all’idea dei Consigli, perciò non è affatto una pura forma o un nuovo gioco organizzativo, oppure un artistico prodigio, bensì è il mezzo espressivo che cresce organicamente nel futuro e che forma il futuro per la rivoluzione di una società che tende alla società senza classi. Essa è una organizzazione di lotta puramente proletaria (...) All’interno della fabbrica ognuno sta accanto all’altro come compagni di classe, qui ognuno deve stare con gli stessi diritti, qui la massa sta come motore della produzione e spinge ininterrottamente per comprendere e dirigere autonomamente, qui, la lotta ideale, il rivoluzionamento della coscienza passa da uomo a uomo, da massa a massa, in un attacco incessante (...)
     «Lo scopo dell’organizzazione di fabbrica è, in generale, doppio. Il Primo è rivolto alla distruzione dei sindacati (...) Il secondo grande scopo dell’organizzazione di fabbrica è la preparazione alla costruzione della società comunista.
     «Membro dell’organizzazione di fabbrica può diventare ogni operaio che parteggi per la dittatura del proletariato. Di ciò fa parte il rifiuto risoluto dei sindacati (...) Questo distacco dovrà essere la pietra di paragone per l’ingresso nell’organizzazione di fabbrica (...) Nell’organizzazione di fabbrica le masse rivoluzionarie si uniscono per mezzo della coscienza, della loro solidarietà di classe, della loro solidarietà proletaria: qui si prepara organicamente l’unità del proletariato, che non è mai possibile nel campo di un programma di partito
».

Considerato la funzione secondaria e veramente educativa del partito, coerentemente Otto Rühle postula il superamento della forma-Partito. Non ha senso l’esistenza simultanea del KAPD e dell’AAU. Il politico e l’economico devono fondersi in un unico organismo e questo non può essere il partito, il quale deve diluirsi nella classe, la quale deve assumersi in prima persona l’onere della propria emancipazione senza alcuna mediazione.

Il proletariato per Rühle deve «disfarsi della direzione dei capi e deve altresì compiere l’opera di liberazione attraverso le proprie forze e mezzi oltre che secondo le proprie iniziative e sotto la propria direzione».

Ciò porterà ad una scissione tra Rühle ed il KAPD alla fine del 1920. In realtà la scissione avverrà nell’AAU con la formazione dell’AAU-E fondata da Otto Rühle (Unione Generale dei Lavoratori - Organizzazione Unitaria), mentre KAPD e AAU unite formeranno la cosiddetta doppia organizzazione (KAPD-AAU).

La AAU-E nelle sue tesi di fondazione si definisce "l’organizzazione politica ed economica del proletariato rivoluzionario".  

La tesi 4 afferma: «I compiti più urgenti dell’AAU-E sono: a) la distruzione dei sindacati e dei partiti politici (...) La rivoluzione sociale (...) non sarà nè affare dei partiti nè affare dei sindacati. b) L’unione del proletariato rivoluzionario nella fabbrica, cellula di produzione, fondamento della società futura. La forma di ogni unione è l’organizzazione di fabbrica».

La tesi 6 dichiara: «La AAU-E rigetta fondamentalmente tutti i capi di professione».

Da Proudhon attraverso Sorel con il comunismo dei Consigli ritorniamo a Proudhon. Un Proudhon che non si pone però il compito di dimostrare che pacificamente le aziende condotte dagli operai funzionano meglio di quelle condotte dai capitalisti, ma di assumere, con la forza, mediante il sistema dei Consigli il controllo di tutte le imprese nazionali prima e internazionali dopo, avendo il capitalismo fatto bancarotta storica nel 1914. Il sistema dei Consigli viene concepito, come per Proudhon la cooperativa e per Sorel il sindacato, come l’organo di unificazione di tutte le attività del proletariato e quindi per sua essenza rivoluzionario. Tutti i sistemi fin qui analizzati hanno in comune il rigetto del partito e dello Stato dittatoriale.

«Il sistema dei Consigli, con il suo specifico sviluppo, è capace di sradicare e non soltanto di far sparire la burocrazia statale, ma anche la burocrazia sindacale (...) Durante le discussioni nel partito, in Germania, si è voluto prendere in giro chi affermava che una forma di organizzazione possa essere rivoluzionaria col pretesto che tutto dipendeva soltanto dalla coscienza rivoluzionaria degli uomini, degli aderenti. Ma se il contenuto essenziale della rivoluzione consiste nel fatto che le masse prendono nelle loro mani la direzione dei loro affari, la direzione della società e della produzione, occorre conseguentemente dire che qualsiasi forma organizzativa che non permette alle masse di dominare e di dirigere se stesse è controrivoluzionaria e nociva, per questa ragione deve essere sostituita con un’altra forma organizzativa che è rivoluzionaria per il fatto che questa permette agli operai stessi di decidere attivamente su tutto» (A. Pannekoek).

Non si deve pensare che queste teorizzazioni riguardassero poche migliaia di proletari. Nel suo massimo splendore la AAU giunse ad organizzare più di mezzo milione di proletari e insieme al KAPD fu alla testa di moti insurrezionali di vasta portata.

Le escursioni nel passato del movimento operaio non sono compiute per accademia. Si vuol dimostrare che le posizioni attualmente espresse non sono affatto originali, come vogliono pretendere, ma sono vecchie di 150 anni e non hanno nè la potenza teorica nè la base di massa che i sistemi, loro lontani e allora rispettabili antenati, possedevano. Oggi si esalta semplicisticamente la condizione "superiore" della forma-Cobas, contrapposta non solo al "rigor mortis" delle "forme professionali del sindacalismo della Cgil-Cisl-Uil" e dei partiti, ma alla forma-Partito, Sindacato, Stato in generale.

Nel tentativo di superare la necessità della forma Partito e della forma Sindacato non si prende in minima considerazione la questione dello Stato e della necessità della sua distruzione. La dittatura del Partito comunista, che non altro significa la dittatura del proletariato, è la condizione indispensabile per distruggere gli ostacoli all’erompere della nuova forma di produzione comunista dall’involucro capitalista. Mentre le forme Partito, Sindacato e Stato produrrebbero inevitabilmente la burocratizzazione e quindi i "mostri", la forma Cobas sarebbe per sua natura garantita da ogni degenerazione. Sembra di risentire il vecchio Pannekoek e il suo sistema dei consigli.

I Cobas-scuola pretendono di essere una forma superiore ma garantiscono che giammai sarà usata la violenza e men che mai la dittatura degli oppressi per l’emancipazione del proletariato. Al massimo si richiederà una riduzione dell’orario di lavoro e una sua maggiore flessibilità. Probabilmente per permettere ai salariati la scelta tra il doppio lavoro e il rincoglionimento davanti alla TV. La Rivoluzione e la dittatura, insegna Marx, servono non solo per schiacciare i capitalisti e i loro alleati ma anche per rivoluzionare i rivoluzionari e in particolare la classe rivoluzionaria per eccellenza: il proletariato.

L’attuale maggioranza dei Cobas-scuola è una eclettica accozzaglia di opportunisti piccolo-borghesi di varia provenienza (stalinista, operaista, autonoma, anarchica, rifondatrice e federalista) disposti ad ogni manovra per rimanere a galla. Non a caso si sono accodati ai Consigli unitari, ultima spiaggia del sindacalismo confederale, nell’opera di inganno dei lavoratori, con l’operazione referendaria contro l’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori.

Nei Cobas-scuola, a differenza delle altre organizzazioni di base, si è enucleata una opposizione di sinistra con centro Torino su chiare basi di classe, che ha prodotto un articolato documento e delle tesi caratteristiche sul sindacato di classe che si rifanno al miglior patrimonio di lotta del proletariato italiano.

Questa opposizione di classe oltre ad operare all’interno dei Cobas-scuola cerca collegamenti con tutte le organizzazioni di base e le loro eventuali opposizioni interne per giungere ad una unione intercategoriale su basi classiste.


Per il sindacato di classe

Il Sindacato di classe è contemporaneamente necessario e insufficiente per l’emancipazione dei lavoratori. Necessario perché i lavoratori hanno bisogno di uno strumento di difesa delle loro condizioni di vita e di lavoro che risponda solo al proletariato e se ne infischi delle esigenze dell’economia nazionale e aziendale. Insufficiente perché il sindacato privo di direzione comunista può difendere gli interessi dei lavoratori fino a che il capitalismo funziona "normalmente". Già quando scoppia la crisi economica il sindacato vede diminuire il suo potere di contrattazione. Se poi la crisi economica si trasforma in crisi politica e militare il sindacato diretto dal riformismo evidenzia tutta la sua impotenza.

Il sindacato svolge l’utile funzione di palestra della lotta di classe e di pedagogo presso le masse dell’aleatorietà di ogni conquista operaia finché sussiste il modo di produzione capitalistico (aleatorietà ampiamente dimostrata nella estate del ’92 in cui in due mesi sono state spazzate via conquiste di cinquant’anni). Solo se agisce in questo modo il sindacato è di classe e rivoluzionario.

Necessità e insufficienza sembrano aspetti che si autoelidono in politica. In realtà essi si completano l’un l’altro: i lavoratori, da una parte hanno bisogno di uno strumento di difesa il più vasto e largo possibile, dall’altra devono comprendere sulla loro pelle e trasmetterlo alle generazioni future che ogni conquista, finché sussiste il capitalismo, può essere loro tolta, e che quindi le stesse lotte economiche e lo stesso strumento sindacale contano non in quanto tali, ma in quanto mezzi e strumenti utili a risolvere positivamente ben altro scontro che ha in palio la distruzione dell’economia capitalistica, per il quale trapasso non basta il sindacato ma occorre la direzione del Partito di classe.

Una obiezione molto diffusa è che, se il sindacato per essere di classe e rivoluzionario, senza rinunciare ai suoi compiti specifici, deve essere strumento del partito, esso sindacato sarebbe impossibile senza di questo, per cui bisognerebbe prima concentrare gli sforzi perché il partito nasca dalle viscere della società.

Obiezione puerile e scolastica: l’umanità si pone i problemi che può risolvere. Oggi i lavoratori sentono l’esigenza di una potente organizzazione sindacale che li difenda dagli attacchi sempre più devastanti del capitale. Non sentono ancora l’esigenza del Partito rivoluzionario di classe. La formazione del partito e quella del sindacato si influenzano reciprocamente ma non hanno lo stesso ritmo nè tempi paralleli.

Il Sindacato senza la guida del Parito può svolgere solo la funzione di monopolista della forza-lavoro. Se è un onesto sindacato socialdemocratico può costringere il singolo imprenditore a rispettare i patti sottoscritti, e lo può fare solo fino a che l’imprenditore ha fiducia nella capacità del sindacato di ottenere da parte degli operai il rispetto con la forza degli obblighi contratti. Comunque il sindacato si muove sul terreno del rispetto della legge del valore e del plusvalore. Esso conferma e non nega il Capitale. Se è un sindacato giallo esso è alle dipendenze dell’azienda e ad essa subordina gli interessi degli operai; se è nero è alle dipendenze del capitalista collettivo rappresentato dallo Stato e ad esso subordina gli interessi di tutto il proletariato.

Il Partito senza il sindacato è un cervello senza corpo. Gli mancano le membra per poter operare come forza storica. Come è affermato nel nostro "Partito rivoluzionario e azione economica": «In ogni prospettiva di ogni movimento rivoluzionario generale non possono non essere presenti questi fondamentali fattori: 1) un ampio e numeroso proletariato di puri salariati; 2) un grande movimento di associazioni a contenuto economico che comprenda una imponente parte del proletariato, 3) un forte partito di classe rivoluzionario nel quale militi una minoranza di lavoratori ma al quale lo svolgimento della lotta abbia consentito di contrapporre validamente ed estesamente la propria influenza nel movimento sindacale a quella della classe e del potere borghese».

Come scritto nelle pagine precedenti la rinascita del sindacato di classe non sarà né graduale né pacifica. Esso sarà il risultato di un violento scontro sociale, al limite della guerra civile tra proletariato e borghesia. Nell’alternarsi di cicli alti e bassi della lotta di classe compaiono e spariscono forme di organizzazione indipendente degli operai.

Al Partito interessa relativamente ciò che tali forme pensano di essere. Se affronta criticamente la coscienza di sé di tali forme lo fa per martellare i principi della teoria e della tattica di partito in materia sindacale. Interessa molto invece al Partito ciò che esse sono oggettivamente. Tutte le forme di organizzazione economica indipendente del proletariato apparse in questi decenni in ogni paese del mondo rappresentano lo sfilacciarsi, sotto i colpi della crisi, del controllo dell’opportunismo sul proletariato. Non bisogna illudersi sulla distruzione a breve di tale controllo. L’opportunismo controlla non solo le organizzazioni storiche del movimento operaio ma anche i gruppi dirigenti e la stessa base organizzata dei Cobas.

Sotto i colpi della crisi e dell’offensiva capitalista si stanno cominciando ad aprire spazi per l’intervento attivo dei comunisti internazionalisti. Tali spazi sono ancora molto stretti e probabilmente effimeri. Ma é certo che procedendo l’attacco alle condizioni di vita e di lavoro del proletariato, stritolata alfine la miserabile aristocrazia operaia, non tarderà molto il crollo dei sindacati di regime e la rinascita di nuove estese organizzazioni economiche del proletariato in cui il Partito potrà liberamente operare per la loro conquista, dimostrando al proletariato, nell’azione quotidiana dei suoi militanti, che esso è l’unico organo abilitato a guidarlo sulla dura strada della sua emancipazione.