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(Il Partito Comunista, n. 219, 1994)
Uno spettro s’aggira per l’Europa, lo spettro della crisi, della catastrofe, foriera della guerra di classe e del comunismo.
La crisi è il se preliminare che viene a distruggere tutte quelle garanzie private che «hanno ravvolto il proletariato salariato nella rete assistenziale e previdenziale con le cento forme assicurative contro malattia, invalidità e vecchiaia, e con la pestilenziale burocratica macchina che sopra vi si incrosta, penetrando di pus piccolo-borghese le file delle organizzazioni operaie, che ormai sotto tutti i cieli e su tutti i fronti non ingaggiano più lotte, anche per conquiste immediate e minime, ma pietiscono concessioni e tutele, e frammentarie elemosine» (“Struttura economica e corso storico della società capitalistica”, 1957).
I proletari occidentali ormai da decenni si illudono d’esser divenuti dei piccolo-borghesi e hanno smarrito ogni senso di solidarietà di classe. Hanno fatto proprie l’ideologia di pacificazione democratica e non concepiscono altra arma all’infuori dell’ elettoralismo. Si sono consegnati inermi al nemico nello stesso momento in cui hanno ripudiato la lotta, lo sciopero ad oltranza, la violenza di classe. La rete di «garanzie sociali» è la base materiale della collaborazione di classe e della politica degli attuali sindacati.
Il dilagare della crisi romperà quel patto contro natura tra capitale e lavoro chiamato opportunismo, facendo così riemergere lo spettro della classe operaia, di cui molti avevano annunciato la morte per estinzione.
La critica interna del capitale, cioè la crisi, oggi è sotto gli occhi di tutti: chiusura lenta ma regolare delle fabbriche, aumento della disoccupazione, lavori precari e salari sempre più bassi. Le classi dominanti, preoccupate degli effetti della crisi che si fa sempre più grave, tentano di resistere scaricandone il peso sociale sulla classe lavoratrice che, priva della sua organizzazione di battaglia, passata ormai sull’altro fronte, non è in grado di difendersi efficacemente.
Come sempre di fronte ad una debolezza oggettiva, opportunisti e falsi rivoluzionari rispondono propugnando soluzioni «tecniche», o scorciatoie trabocchetto che lungi dal rilanciare alla lotta il proletariato, lo distolgono dai suoi reali interessi per trascinarlo sul paludoso terreno della richiesta di maggior democrazia come rimedio ai suoi mali.
Il primo a porsi su questo terreno è stato il «movimento dei consigli» che ha tentato di riproporre a tavolino il mito dei vecchi Consigli nati sull’onda dell’autunno caldo 1969-70 che andavano a sostituire di fatto le vecchie e corrotte Commissioni Interne. Il movimento dei consigli dimentica che i vecchi Consigli furono presto utilizzati per porre un argine al movimento operaio rinchiudendolo nelle fabbriche e lasciando la direzione del sindacato in mani sicure per il capitale.
Il movimento dei Consigli è ora moribondo dopo aver svolto lo sporco lavoro di pompieraggio alla fine del 1992 riuscendo a deviare la contestazione dei bulIoni sul falso terreno della democrazia nel sindacato. Esso confonde opportunisticamente l’effetto con la causa, proponendo e sostenendo obbiettivi falsamente di classe, quale l’abrogazione attraverso referendum dell’articolo 19 che riguarda la rappresentanza sindacale: un suo dirigente dichiarava «Il nostro obbiettivo è una nuova legge sulla democrazia sindacale dei lavoratori»...
In seguito, su questo terreno si sono allineati pressoché quasi tutti i Cobas, chiudendo così il cerchio alla reale opposizione di classe che, se pur timidamente, andava delineandosi in conseguenza all’opposizione dei famigerati accordi del luglio ’92 e ’93.
Il proletariato con il referendum viene non solo deviato dai suoi reali interessi, ma anche inserito in un percorso incontrollabile che ha come punto terminale l’intervento legislativo dello Stato in materia di rappresentanza, contrattazione e rapporti tra i lavoratori e le loro organizzazioni. Come si dice, di male in peggio.
Ma ciò non basta, il fetido «bagno di democrazia» va avanti. I Sindacati Confederali, per svolgere la loro funzione di controllo del proletariato e di prevenzione, devono «ristrutturarsi», adeguare le loro strutture anche aziendali ai nuovi compiti che la crisi pone loro davanti in vista della futura inevitabile mobilitazione operaia. Il sindacato dà l’addio ai vecchi Consigli di fabbrica che hanno fatto il loro tempo, cedendo il passo, dopo anni di elaborazione e di aggiustamenti interni, alle «nuove» «Rappresentanze sindacali unitarie» (RSU), sancite direttamente dall’accordo interconfederale tra Padronato-Governo-Sindacati, firmato il 23 luglio 93 e riconfermato definitivamente con l’accordo del 20 dicembre.
Esse nascono all’insegna di una maggiore «partecipazione» dei lavoratori alle decisioni del sindacato. In realtà assistiamo alla creazione di un sistema ancora peggiore per controllare la lotta operaia e avallare il potere di rappresentanza della classe usurpato dalla triplice.
Le RSU nascono con tutte le stimmate che contraddistinguono l’aziendalismo, vedi a tal proposito la parte dell’accordo riguardante le modalità di costituzione che dicono: «Le RSU possono essere costituite nelle unità produttive nelle quali l’azienda occupi più di 15 dipendenti».
In questo modo i milioni di proletari, in modo particolare del Sud, che non rientrano in questo quadro e che sono i più colpiti dalla crisi non hanno parola e sono abbandonati a loro stessi. È l’inganno della compartecipazione e della compatibilità che fa perno sulla parte ancora per poco garantita della classe operaia delle grosse concentrazioni industriali. L’indicazione di classe è invece costituire sezioni sindacali ovunque se ne ha la forza, sia l’azienda grande o piccola, ma rispondenti ed emananti sempre da una organizzazione territoriale fuori dalle fabbriche ed abbracciante i lavoratori di tutte le categorie della zona.
Pur nascendo addomesticate le RSU potevano comunque diventare un veicolo dell’insoddisfazione operaia. Per impedire ciò i sindacati si sono assicurati per legge un terzo dei suoi componenti e ne hanno limitato i compiti e le funzioni così come recita l’accordo: «Le RSU possono stipulare il Contratto Collettivo aziendale di lavoro nella materia, con le procedure, modalità e nei limiti (e sottolineano limiti) stabiliti dal Contratto Collettivo Nazionale». Le nuove rappresentanze saranno vincolate, nella loro azione, al quadro delle compatibilità, definito a livello centrale da CGIL CISL-UIL firmatari del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro.
I rappresentanti eletti nelle RSU non hanno quindi possibilità di intervenire sulle grandi questioni interessanti la classe operaia le quali saranno di esclusiva pertinenza delle Confederazioni. La disponibilità dei Confederali a sottomettersi ai voleri della base, sussiste solo nellla misura in cui la base è disponibile a riconfermare la politica d’intesa con padronato e governo.
Altro punto non meno importante riguarda la questione della composizione delle
RSU. I Confederali, per non correre nessun rischio, (la domocrazia va bene ma
troppa fa male) hanno stabilito quanto segue nell’articolo 2 dell’accordo:
«Alla costituzione delle RSU si procede, per 213 dei seggi, mediante elezione a
suffragio universale (...) Il residuo terzo viene assegnato alle liste
presentate dalle associazioni sindacali firmatarie del Contratto collettivo
nazionale di lavoro applicato nell’unità produttiva». Per impedire la
partecipazione di liste anticonfederali si sono poste delle barriere:
1) Le associazioni sindacali diverse dalle Confederali devono essere formalmente
costituite con un proprio Statuto ed atto costitutivo e legalmente accettato dal
tribunale;
2) Esse devono accettare espressamente e formalmente la presente
regolamentazione, ovvero legge 146, Codici di autoregolamentazione e di tutte
quelle clausole reazionarie contemplate nei vari accordi di categoria;
3) Le liste di tali associazioni, per essere riconosciute devono essere corredate
dalla presentazione di almeno il 5% di firme dei lavoratori aventi diritto al
voto. Si osservi che in una fabbrica di 20.000 lavoratori (vedi FIAT Mirafiori)
sono necessarie 1.000 firme quando nelle ultime elezioni ne bastavano 2.000 per
presentare le proprie liste su un territorio di qualche milione di abitanti. Con
questa regolamentazione il lavoratore viene privato della possibilità di
eleggere chi preferisce. Se poi aggiungiamo che con la tangente di 1/3, basta
una percentuale di voti pari al 25% per avere la maggioranza assoluta nei nuovi
organismi, il gioco per i sindacati confederali è fatto. Esempi in merito non
mancano: vedi Ferrovie, Autoferrotranvieri, alcune fabbriche. Là dove le elezioni delle RSU si sono già tenute anche
quando le liste extraconfederali hanno ottenuto sul posto di lavoro la
maggioranza assoluta dei voti, hanno eletto un numero di rappresentanti
inferiore a quello dei Confederali.
In democrazia chi detta le regole è la maggioranza organizzata in Stato e la maggioranza organizzata oggi è CGIL-CISL-UII in combutta col padronato e col governo.
A ben vedere il meccanismo democratico si rivela molto utile all’opportunismo. Lungi dall’esprimere l’interesse collettivo della classe, esso esprime l’interesse diametralmente opposto, quello immediato dell’individuo e del capitale, quel che si chiama nel linguaggio ipocrita del borghese l’interesse generale.
Questa «democrazia sindacale» è l’esatto contrario della volontà della classe operaia, irretita in formalismi che tendono a ritardare, confondere e smobilitare la lotta, che mettono sullo stesso piano lavoratori combattivi e crumiri. Questa è la ragione per cui tutti i partiti e sindacati venduti ai padroni sono democratici. Per questo la «democrazia sindacale «non è di ostacolo ma di difesa delle Confederazioni di regime.
Le RSU vengono sponsorizzate dai sindacati venduti come strumenti della classe operaia per poter incidere nei rapporti di forza ma in realtà esse servono solo ad ingabbiare e sviare ancor più i proletari dai compiti della difesa economica delle loro condizioni per portarli disarmati allo scontro con il padronato.
Questa è la logica con cui si presenta la nuova struttura sindacale concepita e voluta dalla triplice e avallata sia dalla minoranza di Essere Sindacato, sia dai Consigli, sia in molti casi da una parte dell’ «autorganizzazione», che, se pur criticando i contenuti di questo accordo, in molti casi scendono su questo terreno accettando la «sfida» e ponendo al centro della loro critica non tanto un principio quanto la forma. Tutta questa area ovviamente non è omologabile poiché un rifiuto su un piano classista si è determinato, anche se per adesso in sparute minoranze. Questo la dice lunga sulla forza dell’opportunismo democratico che saldamente tiene in pugno la classe operaia.
La nostra risposta alle RSU è di rifiuto, di opposizione intransigente che non nasce certamente dal quantum di democrazia che vi è, critica invece portata avanti dalle varie organizzazioni di base, nè nasce dalla ricerca ossessiva di formule più o meno buone, più o meno democratiche, di garanzie formali costituzionali e addirittura statali contro la degenerazione opportunista del movimento operaio. Non a caso è stato scritto nei nostri testi che la rivoluzione non è una questione di forma di organizzazione: la lotta di classe al pari della rivoluzione che ne costituisce il momento più alto, è un problema di forza. Per questo il proletariato non deve legarsi le mani con nessun limite costituzionale e legale. Ma deve rompere finalmente con la mistificazione democratica e la logica della compatibilità. La crisi lavora in questo senso, essa nel suo dilagare distruttivo di garanzie e riserve spingerà il proletariato dalla sfiducia passiva verso i Confederali all’azione per la ricostruzione di una nuova struttura organizzativa indipendente dallo Stato che è il Sindacato di classe che pone al centro della sua attività la difesa instransigente delle condizioni dei lavoratori contro quella della economia del padronato e dello Stato.
Le RSU rispetto ai Consigli del 1969 presentano quindi tali fattori di incarognimento che ci portano alla conclusione della loro non utilizzabilità da parte della futura ripresa di lotte rivendicative: viene negato il principio del «tutti elettori-tutti eleggibili» un momento di resistenza dei lavoratori alle organizzazioni ufficiali passate al nemico; i Consigli nacquero per iniziativa dei lavoratori stessi, al di fuori di ogni inquadramento istituzionale, e spesso venivano eletti delegati i lavoratori più combattivi; la loro soggezione alla disciplina alle gerarchie si attua successivamente. Invece le RSU nascono per iniziativa dall’alto e già incastonate nel ferro delle leggi dello Stato dei padroni che ne regolano la formazione e il funzionamento. Sono quindi per legge emanazione dei sindacati del regime, loro rappresentanza nelle fabbriche.
Pur non ignorando la differenza fra un ufficio di bonzi stipendiati e una assise di lavoratori, il partito deve sempre far presente al proletariato che il compito centrale del momento è la ricostituzione dell’organizzazione generale dei lavoratori esterna alle fabbriche e che questa organizzazione può farsi solo fuori e contro i sindacati esistenti, passati ai padroni. Questa contrapposizione non può non apparire anche sui luoghi di lavoro con il rifiuto per principio di ogni limitazione alle capacità di movimento e di organizzazione della classe.
I nostri compagni lavoratori rifiuteranno quindi di candidarsi nè accetteranno incarichi in queste RSU, anticipando ai lavoratori che questi organismi saranno certamente incapaci di lottare contro il padrone e di collegarsi fra loro in una rinata rete di classe. Terranno uguale atteggiamento i comunisti presenti all’interno di organismi di opposizione sindacale, che inviteranno ad azione di boicottaggio delle elezioni per le RSU, tendendo invece al rafforzamento della loro unione. in fabbrica e in collegamento territoriale esterno. Qualora l’organismo decida di partecipare comunque alle elezioni per le RSU i nostri compagni nei Cobas continueranno la loro opera di convincimento per il mantenimento della indipendenza di organizzazione e di movimento, in fabbrica e fuori, del Comitato di Base e per la sua azione indipendente in prima persona.
La rinascita del Sindacato di classe non è certo facile; gli ostacoli che si frappongono sono molteplici, dalla repressione padronale e statale, all’opportunismo in tutte le sue versioni. Compito del Partito nei periodi sfavorevoli e di passività della classe operaia è di prevedere le forme e incoraggiare l’apparizione delle organizzazioni a fine economico per la lotta immediata.
Non è l’attivismo di un pugno di militanti che potrà rilanciare le masse operaie nella lotta frontale. Al contrario sarà la lotta a cui sarà costretta la classe per la sua sopravvivenza a forgiare nuove organizzazioni economiche di classe ed ad innalzare in una battaglia sempre più totale e radicale, una minoranza combattiva del proletariato alla identificazione e milizia nel Partito della Rivoluzione.