Collegamenti alla questione sindacale (Il Partito Comunista, n.237-238, 1996)
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Lotta di classe del Proletariato e Partito
La lotta di classe del proletariato nell’ambito della società capitalistica, giusto il Manifesto del Partito Comunista pubblicato a Londra alla fine di febbraio del 1848, è una lotta tra «oppressori e oppressi», secondo una connotazione comune a tutte le lotte di classi di qualsiasi tipo di società finora esistita; con l’ovvia esclusione della società del comunismo primitivo in cui non vi è lotta di classe per l’assenza di classi.
Così, come per dialettica storica si passa con la lotta da una società senza classi a una società divisa in classi, per la stessa dialettica nel futuro si passerà, con la lotta, da una società divisa in classi a una società senza classi.
Nella nostra specifica società capitalistica, dato che essa «si va dividendo sempre più in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente contrapposte tra loro», la lotta è tra «borghesi e proletari» (titolo del Capitolo I) e, ribadisce Engels in una nota all’edizione del 1888, tra «proprietari dei mezzi di produzione della società e datori di lavoro salariato» e «salariati i quali, non possedendo mezzi di produzione propri, si trovano costretti, per vivere, a vendere la loro forza lavorativa».
Non potendo mai venir meno l’oppressione (in assenza di oppressori non potrebbero sussistere gli oppressi), la lotta di classe è «ininterrotta», anche se e volte sembra operi in sordina; mentre cova per raccogliere le forze, per preparare nuovi piani, per meditare su momentanee vittorie (abbastanza rare) o su cocenti sconfitte (queste non si contano). Altre volte invece la lotta di classe è aperta, fiammeggia in tutta la sua virulenza senza esclusione di colpi.
Non è il caso di rimarcare che il campo dei nemici del proletariato, in tutte le sue sfaccettature e in tutte le sue triviali colorazioni, deve senza sosta argomentare e gridare sulla necessità per tutte le classi di approdare a un solo grande campo amico e sull’esigenza che tutte le classi collaborino per vitali obiettivi comuni; e di questi se ne scovano sempre di nuovi.
In questa lotta la società borghese compie il suo ciclo inesorabile passando dalla fase giovanile a quella matura per approdare infine a quella senile.
Parallelamente la lotta di classe, in presenza di uno sviluppo delle forze produttive di tale entità da essere al massimo in contraddizione con l’assetto capitalistico, perviene allo stadio finale.
Questo ha due vie di uscita, due soluzioni. Esclusa la possibilità di vittoria da parte degli oppressori, ossia da parte dei borghesi, in quanto esponenti di un modo di produzione condannato storicamente e che è sempre più improduttivo, non è da escludere, sul piano di un rigoroso ragionamento scientifico, oltre alla vittoria degli oppressi che, distruggendo la società borghese, operano la trasformazione rivoluzionaria della società, la eventualità di una «comune rovina delle classi in lotta» nel senso che gli oppressi non riescono a concludere vittoriosamente la loro lotta.
Questo noi non lo diciamo oggi. E detto proprio nel 1848 nel periodo di inizio di quel Capitolo I, a riprova della serietà del metodo di ricerca del Partito. La possibilità di una comune rovina delle classi in lotta è reale. Se la ricordiamo, non lo facciamo solo a riprova del fatto che la nostra dottrina non dà nulla di scontato a priori, ma in quanto consideriamo l’eventualità che nella fase dello scontro finale il proletariato conduca la lotta nell’assenza della guida del Partito; e il Partito rappresenta la condizio sine qua non per sconfiggere storicamente il capitalismo.
È preminente nel lavoro del Partito tener sempre presente la finalità per la quale il Partito è sorto e per cui esso si batte: in tutta la sua vita il Partito deve operare in modo da restringere al massimo la possibilità del verificarsi dello sfavorevole evento di non essere alla guida del proletariato proprio nell’unico caso, nell’unico momento in cui non se ne può fare a meno, pena la sconfitta storica.
Impostazione comunista della questione sindacale
In merito alla questione sindacale l’impostazione politica dei comunisti rivoluzionari riguarda soprattutto il fatto delle lotte rivendicative della classe operaia e l’analisi dell’evoluzione storica delle organizzazioni sindacali, nelle forme più diverse di associazioni economiche del proletariato. Questi due settori non esauriscono il tema ma ne costituiscono l’ossatura fondamentale.
Anche la nostra impostazione sindacale, nel suo aspetto teorico presenta il carattere dell’invarianza; le soluzioni tattiche, nella loro limitata varietà, non sono l’una in contrasto con l’altra in quanto derivano tutte dall’originaria dottrina.
Questo nostro rigore sia teorico sia pratico non scaturisce da un cervello pensante: è il riflesso dialettico indotto nel Partito dalle lotte di classi nemiche in un determinato settore.
Prima di entrare nel merito è bene sottolineare due aspetti di stampo economico.
Primo aspetto: sotto il capitalismo l’attacco alle condizioni di lavoro delle masse operaie è incessante, come incessante è l’attacco alle condizioni di vita del proletariato del mondo intero. Il capitalismo, come non può vivere se non incrementa continuamente la produzione di merci, la qual cosa è condizionata dallo sviluppo delle forze produttive, da cui consegue il costante contrarsi dei costi di produzione di tutte le merci, così non può vivere se la particolare merce forza-lavoro non viene costantemente limitata. La sopravvivenza del capitalismo è condizionata dell’incessante presenza di queste sue leggi di vita.
L’insorgere di una crisi è la prova che le condizioni vitali del capitalismo sono momentaneamente venute a mancare, in forma concreta, visibile, per cause oggettive che, con la migliore volontà possibile, i capitalisti non sono in grado di contrastare. Basta questo impercettibile discostarsi dal livello vitale del capitalismo perché i suoi rappresentanti ufficiali avvertano sintomi preoccupanti per la futura conservazione sociale.
È d’uopo a questo punto ricorrere all’unica medicina in grado di allontanare il male: riportare l’attacco alle condizioni di vita e di lavoro dei proletari al massimo livello.
Secondo aspetto: il capitalismo si batte costantemente per il sempre più intenso sfruttamento dei proletari.
Questo dato di fatto, vitale per una società in cui domina il capitale, viene da parte dei suoi esponenti, siano essi di stazza piccola, media o grande, tenuto sempre in seria considerazione. Se l’incremento dello sfruttamento tende a flettersi o addirittura si azzera la società capitalistica è in crisi ed è obbligata, per tornare in buona salute, a prendere tutte le misure necessarie perché lo sfruttamento assuma valori crescenti.
Quest’obbiettivo da negriero non può essere dichiarato esplicito. È ribadito sempre e comunque, ma in forma mistificata con una miriade di espressioni, coniate all’uopo, di facile impiego e intercambiabilità, in occasione di momentanei logorii; espressioni ruotanti intorno ai termini di democrazia, eguaglianza, fratellanza, libertà, progresso, paese, popolo, gente, patria, benessere e potremmo continuare parecchio ancora.
Quale che sia l’espressione o il termine su cui si punta in un dato momento storico, valga per tutti quello di «democrazia» visto che nel suo nome si sono consumate le peggiori porcherie. Esso maschera il fatto elementare che la stragrande maggioranza dei viventi in regime capitalistico sono detentori solo della loro forza-lavoro e la loro possibilità di sopravvivenza dipende da un’infima minoranza detentrice del capitale mondiale; come che dallo stato di salute del capitale mondiale dipende se una parte più o meno consistente dei proletari ha la fortuna di trovare da lavorare.
Percorso dei Sindacati
La lotta di classe del proletariato nell’ambito della società capitalistica rende necessaria la formazione di associazioni sindacali. L’organizzazione dei proletari nei sindacati sorge al fine di conseguire i migliori risultati nel rintuzzare i colpi del nemico di classe, indirizzati essenzialmente all’aumento della giornata lavorativa e alla diminuzione del salario. Questi colpi possono essere inferti anche in via indiretta conseguendo lo stesso, se non addirittura un migliore risultato.
Un aumento notevole di produttività, a parità di salario e di orario di lavoro, in realtà provoca il deteriorarsi delle precarie condizioni di vita dei proletari: producendo di più con lo stesso salario, questo percentualmente perde valore; come se con lo stesso orario di lavoro è l’intensità del tormento di lavoro ad incrementarsi.
Proprio perché all’inizio i proletari lottano, in ordine sparso, si rendono molto presto conto che ben altra cosa è lottare in modo unitario.
Diamo atto al sindacato la forza della sua centralizzazione; così come per il partito: però escludiamo nel primo caso il centralismo organico. Gli riconosciamo sì una forma di centralismo, ma meno completa. La lotta di classe del proletariato rende necessaria la formazione non di uno ma di due tipi di organizzazione: una con efficacia difensiva, il sindacato, l’altra con finalità offensive, il partito. Il centralismo del sindacato non può essere organico. La sua azione è puramente difensiva.
Il sindacato è emanazione, alla sua nascita non gradita, del sistema capitalistico. Il sindacato è il prodotto e una delle tante contraddizioni del capitalismo.
Possiamo senz’altro affermare che il capitalismo è la contraddizione incarnatasi in un modo di produzione basato su più classi sociali in lotta tra di loro. I precedenti modi di produzione erano molto meno contraddittori. Il capitalismo è la contraddizione elevata a sistema. Perciò è l’ultima società di classe: la contraddizione che esplode a livello planetario non può dar luogo a una nuova contraddizione. Il poi non potrà farci assistere che al salto di qualità in cui non persisteranno contraddizioni fra classi sociali, Stato e sindacati, ma vedremo finalmente la nascita veramente umana della animale specie umana e del suo piano di vita.
Una organizzazione come il sindacato, nato per far risultare il rapporto di forza fra le classi sulla determinazione dei salari e degli orarari di lavoro non può essere considerato un organismo compiuto. Chi si propone solo mezzi difensivi esclude la finalità di una vittoria decisiva. Il sindacato cerca solo di alleviare, mitigare, attenuare: ossia, di conservare. In sè, separato dall’indirizzo rivoluzionario, fa parte del capitalismo, agisce nell’interesse del capitalismo.
È importante riconoscere che storicamente per le associazioni sindacali si è passati dalla proibizione prima, al riconoscimento poi, infine al loro assoggettamento allo Stato borghese. Ma è ancora più importante vedere questa sequenza dall’angolo visuale del soggetto, ossia dello Stato borghese (quale che sia la maschera sotto cui si camuffa o il paese di cui è emanazione) che l’ha messa in atto perché così si presta a consiserazioni illuminanti.
Il potere borghese che proibisce azioni collettive dei lavoratori e la costituzione di specifiche organizzazioni rivendicative opera apertamente in questa direzione perché è in possesso di una forza adeguata allo scopo che si prefigge.
Lo stesso potere borghese che riconosce in seguito legalmente le organizzazioni sindacali e le lotte dei lavoratori che vi sono inquadrati mostra di essere dotato rispetto al proletariato organizzato di una forza ovviamente inferiore a quella della fase precedente. Lo Stato, ossia la forza borghese organizzata, risulta praticamente non essere più in grado di proibire la nascita e lo sviluppo dei sindacati a tutela degli interessi puramente economici (questo va sottolineato) dei lavoratori, sia in essi organizzati sia, di riflesso, anche di tutti gli altri lavoratori che non ne fanno parte. È evidente che alla classe borghese converrebbe comunque la proibizione dei sindacati, nel senso di gestire in prima persona, o tramite intermediari di sua diretta emanazione, dissidi e lotte derivanti dallo specifico rapporto economico tra capitale e proletari. Inoltre lo Stato borghese sa molto bene come sia facile per un proletariato ben organizzato passare da rivendicazione economiche a lotte politiche, che in «casi eccezionali» potrebbero raccordarsi all’indirizzo del partito rivoluzionario; evento questo che comporterebbe una minaccia diretta all’esistenza del regime borghese.
Nella terza ed attuale fase dell’assoggettamento dei sindacati al potere borghese, nel senso che sotto ogni profilo sono fedeli allo Stato, e talvolta sua emanazione dichiarata al fine di meglio tutelare l’interesse generale dell’intera società borghese (e quindi non quella dei proletari), assistiamo a un’ulteriore caduta della forza del potere borghese, in quanto il padronato si sente costretto a camuffarsi da sindacato operaio. Ancora una confusione di ruoli e di parole. È legge del capitalismo che più esso invecchia più si inaspriscono le sue contraddizioni e ne scaturiscono di nuove.
Storicamente il potere borghese, la sua forza di Stato, è in una prima fase in grado di opporsi con successo alla nascita dei sindacati e alle lotte dei lavoratori; nella seconda fase ha dovuto suo malgrado accettare i sindacati e le lotte operaie, restandogli però forza sufficiente per fronteggiare senza grossi danni le azioni sindacali (s’intende quelle genuinamente considerate tali) e le masse proletarie in lotta; nella terza fase non è più in grado di fronteggiare apertamente il nemico di classe e per non palesare la sua debolezza assimila i sindacati al suo potere, riconosce ai Sindacati potere statale.
Con questa fase si passa dal riconoscimento legale da parte dello Stato borghese di organizzazioni ad esso esterne e spesso in antitesi, alla proclamazione che i sindacati operai sono parte dello Stato borghese, sono cioè organizzazioni coercitive che, nel loro ambito, si battono per il rispetto delle leggi borghesi, pronti in ogni momento ad entrare in azione contro quei proletari che per la tutela dei propri interessi scendessero in piazza contro le leggi sindacali dello Stato borghese.
Quello che, disgraziatamente per il potere borghese, in questa terza fase, decisiva per la sopravvivenza del sistema capitalistico, il potere dello Stato non può fare è di promuovere con un negozio giuridico le masse operaie, i proletari tutti, al rango di tutori dello Stato borghese, in modo che in questa veste possano battersi nell’interesse dell’ordine costituito. Questa operazione è possibile soltanto nei confronti delle dirigenze dei sindacati, tutt’al più con lo sparuto seguito di un’aristocrazia operaia che ormai la crisi galoppante del sistema ha ridotto grandemente.
Lo Stato, lo sanno bene i borghesi tutti, esiste ed opera, con la forza che si trova nelle varie fasi storiche, proprio per fronteggiare le masse operaie, il proletariato tutto che, anche se lotta a livello economico, senza esserne cosciente viene ad urtare contro lo Stato borghese, bastione a difesa dello sfruttamento, della miseria e di condizioni di vita e di lavoro sempre più esasperate.
Per necessità i proletari sono spinti contro lo Stato borghese, e arrivano – senza poterlo risolvere da soli – a porre il problema della sua distruzione. Ben altro che divenirne sostegno e puntello.
La forza materiale di cui dispone il potere borghese e di cui si dota in misura crescente prova la sua paura, il suo terrore storico. Quando scoccherà l’ora non ci sarà apparato militare per quanto potente e sofisticato che potrà procrastinare la morte del capitalismo, annunciata dalla storia.
Lotta alle macchine o lotta al capitale
Quando nella società borghese comincia a prendere consistenza il numero dei proletari e il parco delle macchine utensili, i lavoratori già constatano sulla loro pelle che il sistema delle macchine li abbrutisce, li schiavizza e li immiserisce. Ingenuamente si danno a distruggere le macchine. Ma i risultati sono modesti. A parte tutto l’apparato militare e poliziesco che il capitalismo pone a difesa delle sue macchine, queste non fanno che aumentare di numero, penetrando nell’intera società. Inoltre la distruzione delle macchine priva i proletari del lavoro che rappresenta per loro l’unica possibilità che hanno per procacciarsi i mezzi per sopravvivere.
L’esperienza negativa fa capire che bisogna lottare non contro le macchine, ma contro i proprietari delle stesse. Questa consapevolezza rappresenta senz’altro un passo avanti; non sufficiente però per inquadrare nella sua essenzialità la «questione sociale» e per individuare la strada unica da imboccare per giungere alla sua soluzione, al suo superamento definitivo.
Solo il partito sarà in grado di teorizzare che, appurato che l’era delle macchine è fatto storico positivo e progressivo, la lotta va condotta non contro le macchine, e nemmeno contro i loro singoli proprietari, che la crescita del capitalismo potrebbe rendere di sempre più difficile individuazione, ma contro il sistema sociale che, a beneficio di una minoranza esigua, monopolizza tutti i mezzi di produzione, di cui fanno parte anche le macchine, contro la stragrande maggioranza che dispone solo delle proprie braccia. La lotta permanente che scaturisce da questo sistema e che vede contrapposta la classe dei detentori dei mezzi di produzione e di scambio alla classe dei possessori della forza lavoro avrà fine solo quando sfocierà in una società senza classi, nella quale le macchine saranno patrimonio, anzi ricchezza di una ritrovata Umanità.
Mentre il sindacato riesce a vedere solo con gli occhi dei lavoratori che rappresenta, e dunque con una visuale limitata alla società borghese, il partito si batte per consentire al proletariato di guardare oltre, alla società senza classi, e a lottare per questa. Qui la differenza essenziale tra sindacato e partito, tra rivendicazioni o effimeri miglioramenti nell’ambito del capitalismo e battaglia rivoluzionaria che perverrà ad eliminare il Capitalismo, le Classi e lo stesso Proletariato.
Ma nello stesso tempo è proprio questa essenziale differenza che obbliga il partito ad affiancarsi sempre e dovunque ai proletari in lotta, il che può fare solo intervenendo nei loro inquadramenti sindacali, per acuire e allargare al massimo la loro visuale fino a vedere che la lotta rivendicativa contingente ha un senso solo se è inquadrata nella lotta per il Comunismo.
Stato di classe e sottoconsumo
Il modo di produzione capitalistico è in crisi sin dalla sua nascita, le fasi critiche non sono un connotato legato alla sua maturità o alla sua vecchiaia. Alla più elevata età si possono ricondurre più ampie e gravose crisi che lo colpiscono, ma nessun periodo per quanto giovanile ne è stato esente.
Tutte le società divise in classi storicamente succedute sono contraddittorie, antagonistiche. Le classi che le costituiscono hanno interessi contrastanti che le rendono nemiche dando luogo ad una lotta permanente. È espressione del prevalere di una classe la sua costituzione in Stato al fine di disciplinare l’inevitabile scontro sociale, un apparato, soprattutto di forza, che impedisca l’esplodere degli attriti e lacerazioni della società civile. A parole super partes, nella realtà è nell’interesse della classe o classi che hanno il monopolio del potere economico, del quale lo Stato rappresenta il garante. Lo Stato, benché conteso fra settori diversi del Capitale nazionale, se non internazionale, ha sempre presente lo scopo di tutore generale del modo di produzione basato sul capitale; per cui in determinate situazioni può anche colpire e mettere in riga parte della stessa classe borghese per tutelare meglio la sopravvivenza del capitalismo.
Da queste situazioni particolari per la classe sfruttata non scaturisce alcun vantaggio in quanto è proprio quando la società borghese viene fatta funzionare al meglio che il proletariato sta peggio. Di norma lo Stato è tanto più agguerrito quanto più profonde sono le contraddizioni che oppongono le classi.
Nel capitalismo ormai le contraddizioni hanno raggiunto il limite del compatibile con la sua riproduzione. La società borghese va in crisi perché la produzione, nella stragrande parte industriale, accusa persistenti exploit che dovrebbero assicurare un costante illimitato benessere ai suoi componenti. Le sue crisi vengono a rivelarsi come di sovrapproduzione, si produce tanto che le classi sfruttate non riescono a sfamarsi!
Nella società borghese, proprio perché è la più evoluta, al sempre più accentuato apporto nel campo produttivo corrisponde nel campo del consumo delle classi sfruttate, che rappresentano la stragrande maggioranza della popolazione, una contrazione relativa sempre più vistosa rispetto al valore della gran massa di beni prodotti.
Sindacati, Scioperi e Democrazia
Secondo gli opportunisti, traditori della causa proletaria, gli immortali principi della democrazia escluderebbero che possano esservi attentati al diritto di organizzazione sindacale e al diritto di sciopero in quanto si configurebbero quali attentati ai principi stessi della illuminata società borghese. La democrazia borghese rappresenterebbe la conquista finalmente conseguita in via definitiva del migliore degli assetti per una società civile dopo millenni di assenza di diritti per le classi subalterne. Perché solo dei diritti di queste si tratta: per le classi dominanti il problema non si è mai posto, il monopolio del potere economico e politico inglobando tutti gli altri possibili diritti.
I borghesi si rifanno alla democrazia ateniese, tanto orgogliosa dei suoi diritti, in particolare quello di esercitare la potestà sulla maggioranza della popolazione formata di schiavi, considerati molto semplicemente e senza complicazioni di sorta una cosa, immortalata in latino nell’espressione (che poi rappresenta un millenario modo di produzione) res utendi et abutendi, una cosa di cui si può a piacimento e senza limiti usare ed abusare.
Nell’epoca moderna i proletari hanno ravvisato la necessità di organizzarsi sindacalmente e di astenersi dal lavoro interrompendo la produzione e quindi l’afflusso di pluvalore nelle tasche dei padroni. Dallo sciopero i proletari sono danneggiati in quanto si privano del salario, unica fonte per sopravvivere. Se vi ricorrono è perché ravvisano in esso l’unica arma difensiva per non essere ulteriormente esposti ai colpi del padronato. A questo punto la società borghese, che fino a quel momento aveva vietato qualsiasi associazione proletaria, non essendo più in grado di impedirne il sorgere e l’estendersi, a denti stretti riconosce il nuovo status quo e lo legalizza come condizione unversale di ogni lavoratore. Tutto ciò che fino al giorno prima era reato, attentato all’ordine dello Stato e alle sue leggi, il giorno dopo acquista il crisma di legge. Una volta concessi, gli attentati contro quei diritti sarebbero attentati alla democrazia che se ne farebbe garante.
Attualmente quella stessa democrazia cerca di dimostrare che proprio l’esercizio di quei diritti costituisce un attentato alla sua integrità.
È questo un arzigogolare intorno un apparato giuridico che dà sempre più l’impressione di un continuo rattoppo. E evidente che la sovrastruttura legale della società borghese deve svolgere la funzione di mistificare rapporti di forza, nella loro cruda realtà e in tutti i loro momenti e passaggi chiari ed evidenti di per se stessi.
Abbassandoci alla materialità dei fatti riconosciamo che sindacati e scioperi sono in realtà antagonisti al terreno della democrazia. Proprio all’apposto di quello che la democrazia vorrebbe far credere, l’attentato continuo, legale e illegale ai diritti di organizzarsi e di scioperare realizza al meglio le istanze e finalità della democrazia e della sua vera essenza che è antiproletaria.
Diritti sindacali e rapporti di forza
Qualsiasi attentato al diritto di organizzazione sindacale e al diritto di sciopero rappresenta, nell’ambito della società capitalistica, un atto di forza, un colpo sferrato alla classe proletaria da parte della nemica classe borghese nello scontro che storicamente le oppone.
Quei diritti, del sindacato e dello sciopero, furono strappati in fasi passate della lotta dai proletari ai capitalisti con atti di forza, che hanno dato effetti positivi, se anche non permamenti.
Se, in prosieguo di tempo, quei due diritti vengono disattesi e calpestati, vuoi in una singola fabbrica vuoi a scala nazionale, è la prova che localmente o nazionalmente il rapporto di forza tra sfruttatori e sfruttati si è modificato a sfavore di questi ultimi.
È certo che ai borghesi non fa piacere concedere diritti di qualsiasi natura ai proletari, per quanto innoqui essi possano essere. Se, in un certo momento o fase storica sono stati costretti a farlo, è perché gli sono stati strappati con la forza. Solo se i proletari riescono a mantenere integra la loro forza, quei diritti non saranno violati. Il diritto è sempre il diritto del più forte.
Stabilita l’essenziale del problema, ossia che trattasi di uno scontro sociale di una forza contro una altra, in cui ognuna delle due tenta con qualsiasi mezzo di attestarsi sulle posizioni che ritiene più adeguate per meglio contenere attacchi o per meglio lanciarsi all’assalto di posizioni nemiche, resta da sottolineare che la natura del terreno in cui avviene lo scontro, come il ruolo del complesso delle regole alle quali si è costretti ad attenersi, e la consistenza dell’armamento di cui si dispone vedono il proletariato, sotto questo triplice profilo, trovarsi particolarmente svantaggiato.
Il terreno economico sul quale il proletariato è costretto a battersi appartiene al 100% al suo nemico di classe, alla borghesia, un terreno che il capitalismo ha modellato a suo uso e interesse e sul quale perciò si muove con estrema disinvoltura, dei rapporti di produzione che per il proletariato non sono che una immonda galera planetaria. Le regole giuridiche dello scontro sono state fissate dal capitalismo e sono estremamente limitative per il proletariato, legandolo, imbavagliandolo e imbrigliandolo a tutti i livelli e sotto tutti gli aspetti. E infine per quanto riguarda l’armamento esso è appannaggio esclusivo dello Stato capitalista, con impossibilità per legge che il proletariato possa esserne dotato.
Partiti che si qualificano difensori della classe proletaria si limitano alla denuncia verbale delle azioni della classe borghese volte a limitare il diritto dei proletari ad organizzarsi nel sindacato e ad effettuare scioperi. Peggio ancora, usano avvalorare la protesta appellandosi agli «eterni principi» che contaddistinguono la società borghese e che solo suoi esponenti deteriori avrebbero violati.
Impostazioni e ragionamenti di tale natura vanno qualificati come un cumulo di sterco. C’è in essi l’abbandono dell’uso della forza contro il nemico, mentre è proprio e solo l’uso della forza che può attutire le sofferenze dei proletari; l’insinuazione che ci siano principi comuni alle classi in lotta, mentre essi non consistono in altro che nella mistificazione del pugno di ferro della borghesia contro il proletariato. Si vuol far credere che tutto il male derivi da una esigua minoranza borghese «arretrata», mentre in realtà la borghesia nel suo complesso è solidale nel comportarsi da boia del proletariato. Si invita all’uso dei metodi del dialogo e della cogestione, quando e proprio facendolo scendere su questo terreno che il capitalismo ha schiavizzato sempre di più il proletariato.
Evoluzione storica
I borghesi conquistano il mondo, realizzando per tutti la libertà, l’uguaglianza e la fratellanza, ossia la democrazia. Ed è in nome della democrazia che in un primo tempo si sancisce che sindacato e sciopero non sono diritti da riconoscere al proletariato, ma reati incorrendo nei quali i proletari vanno incontro a gravi sanzioni penali. Successivamente, sempre in nome della democrazia, quei diritti vengono riconosciuti. Una svista storica? Un ravvedimento? No! quei diritti i proletari li avevano strappati ai borghesi con la forza. Come oggi sono stati quasi del tutto nuovamente strappati con la forza ai proletari da parte dei borghesi.
Insopprimibile dura però la lotta di classe, che non viene mai meno, necessità economica nella società del capitale.
La borghesia continua oggi la sua lotta sorda, affannosa, per sopprimere quanti più diritti per la salvaguardia dell’unico diritto che le sta a cuore, quello di continuare a vivere, che vede sempre più assottigliarsi e sfuggirle di mano.
Noi, di fronte a questa azione aggressiva del capitalismo, non ci battiamo per un ritorno al passato, nel quale una miriade di falsi diritti davano l’illusione che in una società di classi antagonistiche, nemiche, fosse possibile l’abbraccio tra queste classi per una pacifica e assurda convivenza. Non ci appelliamo alla volubile e incostante democrazia acché il terreno dello scontro non venga sconvolto; non pretendiamo che le regole dello scontro non vengano violate. Sarebbero queste richieste assurde. D’altronde a chi? Al nemico di classe che le stabilisce con la sua forza a suo piacimento e nel suo interesse.
I proletari, domani come ieri, non otterranno il riconoscimento giuridico delle loro organizzazioni prima che la lotta più estesa dimostri la loro forza. Invertire i due termini è tradimento o grave ingenuità. La classe lavoratrice è esterna alla società civile dei borghesi, la vuole vincere, difendersi da essa, non diventarne parte, nemmeno «con la forza». Ma il riconoscimento legale ad opporsi collettivamente al Capitale storicamente è già stato sanguinosamente conquistato, in questo senso è fatto acquisito e vittoria irreversibile contro i principi della morale schiavistica borghese. È un traguardo già superato dal movimento dei lavoratori il quale non tornerà a rivendicarlo, come sua bandiera e punto focale, contro una borghesia e uno Stato che per primi sono costretti a decampare dalla loro legalità. Questo ribadiamo, gridandolo sul grugno dei falsi difensori della classe proletaria, nell’eventualità che fossero in grado di capire e che ne valesse la pena, cose che escludiamo entrambe.
I proletari continueranno a battersi qualunque sia il campo minato su cui dovranno muoversi e passare. La guerra fra le classi finirà solo quando non ci saranno più diritti. In questo il capitalismo, senza volerlo, per sue ragioni di classe, ci dà una mano.
Ma questo è il punto d’arrivo della guerra rivoluzionaria vinta dalla classe operaia. Nella sua azione, determinata dalle sue precarie condizioni di vita e di lavoro, il proletariato, mosso dal suo odio di classe e illuminato dalla coscienza e dalla prospettiva del partito comunista, si lancia alla distruzione della società del lavoro salariato e del Capitale, senza esclusione di colpi leciti o illeciti, senza attimi di debolezza, senza pietismi, senza patteggiamenti e compromessi, che nel momento supremo e decisivo della lotta fanno sempre il gioco del nemico.
Movimento sindacale
fra Stato borghese e Partito di classe
Lo Stato borghese, ad una certa fase di sviluppo del capitalismo, prende atto del fatto che l’organizzazione dei proletari per la difesa dei loro interessi economici, con la nascita e la crescita dei sindacati operai è un derivato insopprimibile del modo di produzione capitalistico.
Nelle vesti del buon comitato che cura gli interessi dei capitalisti, lo Stato tenta dapprima con la forza di impedire la nascita dei sindacati, cercando di prolungare quella prima fase «idilliaca» del capitalismo.
Fallito in questo tentativo lo Stato borghese prende atto dell’evento increscioso e adotta le misure per fronteggiare la situazione che ne scaturisce. Lo Stato sa di avere nelle mani strumenti di forza idonei (esercito, polizia, magistratura, clero, ecc.) per impedire che la fase impetuosa di sviluppo giovanile dei sindacati possa sfociare in una turbativa dello status quo.
Lo Stato è finanziato dai capitalisti (i proletari non avranno mai la possibilità di pagarsi lo Stato; l’unica cosa che possono e devono fare è quello di distruggere lo Stato di altre classi, ma questo è un discorso che investe in prima persona il partito), i quali si trovano in una posizione di forza in quanto hanno i loro sindacati padronali collaudati da tempo, come hanno i loro partiti che, se lo richiede l’interesse comune, si fondono all’istante in un partito unico, se occorre anche alla scala mondiale (vedi ONU, Banda o Banca mondiale ed altri similari che svolgono egregiamente il loro mandato nell’interesse del capitale mondiale).
Lo Stato confida che i proletari con i loro sindacati si batteranno per meno bestiali condizioni di vista e di lavoro senza avanzare pretese di sovvertimento dell’ordine costituito, e considera che la fase di crescita giovanile dei sindacati è corrisposta spesso con la fase giovanile di crescita del capitalismo, che provocò un accumulo sbalorditivo di ricchezza con il quale si poté venire incontro a richieste che tendevano a mitigare un poco la pressione sui proletari e il loro sfruttamento. Fu necessario far intendere ai singoli padroni che era nel loro interesse attenuare un poco lo sfruttamento, concedendo ai proletari qualche briciola caduta a terra durante i loro lauti pasti.
Ma soprattutto lo Stato sa, e questa è la cosa più importante, che fintanto i proletari non dispongano dell’arma partito, né nazionale né, tanto meno, internazionale, non hanno da preoccuparsi per il monopolio del potere.
La rinascita del partito provocherà la reazione dello Stato nel suo atteggiamento nei confronti dei sindacati operai, nel senso che non potrà permettere che questi subiscano l’influsso del partito rivoluzionario, che si liberino dei capi traditori accettando gli ordini del partito, come logica storica impone.
Il declino del capitalismo, l’insorgere della fase di vecchiaia del capitalismo, restringe i margini di manovra. Non ci sono più briciole da distribuire, perché ormai è il capitalismo che è ridotto a vivere di briciole. I passati splendori, sempre sulla pelle dei proletari, sono tramontati per sempre. Solo l’abbraccio innaturale sindacati operai-Stato borghese dà ancora a quest’ultimo la sempre più fioca illusione di essere in grado di padroneggiare una situazione sempre più squilibrata e dissestata in tutti i Paesi del mondo.
Non per altro questa ultima strada obbligata, inizialmente imboccata da URSS, Italia e Germania per le difficoltà e le ristrettezze in cui la fase suprema dell’imperialismo costringeva questi paesi a muoversi inizialmente peggio di altri, è successivamente stata fatta propria da tutti i Paesi, grandi e piccoli, a riprova di un processo storico irreversibile.
Dalle lotte operaie al Partito comunista
Il modo di produzione capitalistico ha permeato di sé l’intero pianeta. Il dominio mondiale del capitale ha raggiunto una tale potenza da generare anche nella classe oppressa il convicimento che nulla e mai potrà intaccare o anche solo scalfire l’attuale organizzazione produttiva e distributiva.
Noi, che oggi possiamo contrapporre alla potenza del capitale solo l’arma autentica, ma non spuntata né arrugginita, della dottrina marxista, sappiamo che quel vertice massimo di potenza consiste in uno sviluppo delle forze produttive che sta rasentando il limite che il sistema capitalistico può permettersi. Nessun modo di produzione può andare al di là dei suoi limiti.
Tra le forze produttive che il capitale deve inesauribilmente sviluppare la fondamentale e determinante è la classe proletaria. Il proletariato, generato e accresciuto dal capitale, già nel nascere assapora le «delizie» del sistema capitalistico; per cui è costretto a contrapporsi ad esso con lotte prima di natura sindacale per la difesa delle sue condizioni; poi, toccata con mano l’impossibilità di una vita decente nella sua qualità di proletario nell’ambito del sistema borghese, passa a lotte politiche per sopprimere la sua natura proletaria che è inscindibile dalla soppressione del sistema basato sull’esistenza e sullo sfruttamento dei proletari.
La lotta politica proletaria presuppone inevitabilmente la formazione del partito, quale organo che tutela in forma concentrata e nella linea del futuro gli interessi della classe che rappresenta.
Il partito fisicamente inteso non si forma tutto in una volta. È un prodotto storico e vuole tempo per pervenire, lottando, alla sua effettiva fisionomia.
Ciò che si è configurata di getto è la sua dottrina invariante alla quale il partito, attraverso lotte di varia natura e nell’ambito di varie vicissitudini, cerca di adeguarsi cercando di esserne l’immagine quanto più possibile conseguente.
Stabilita l’istanza di lottare per la distruzione del capitalismo, che è un connotato base del partito proletario, si descrive la linea che storicamente il Partito ha seguito per influenzare gli avvenimenti verso lo sbocco rivoluzionario.
Il partito non può venier meno al suo specifico metodo di lavoro, fissato nella dottrina e vitale per esso. Il partito può mantenersi solo puntando su quell’originario metodo di lavoro, vuoi nella ricerca teorica vuoi nell’attività pratica esterna.
Sindacato-Partito-Dittatura
Il regime borghese rappresenta, dalla sua nascita fino alla sua morte, la dittatura della classe borghese nei confronti della classe proletaria, la quale tende storicamente alla sua rivoluzione, a distruggere la dittatura della borghesia per instaurare la dittatura del suo partito rivoluzionario.
La ferocia della dittatura borghese andrà accentuandosi con il concludersi del ciclo del modo di produzione capitalistico perché, mentre al suo inizio la borghesia ha avuto un compito relativamente facile nel combattere contro classi condannate storicamente, trovandosi per di più momentaneamente alleata sul campo di battaglia la classe proletaria, alla fine del percorso le sarà sempre più difficile sbarrare il passo al movimento proletario.
La dittatura rossa, coerente conseguenza e manifestazione della classe proletaria in lotta per la sua emancipazione, al posto di una società divisa in classi dà vita, con un salto di qualità alla società di Specie, all’Umanità, come un traguardo storico.
Dal passaggio di una società classista ad un’altra si è sempre assistito al trapasso di potere da una minoranza a un’altra minoranza. Ma è in questa successione di passaggi quantitativi che si perviene al salto di qualità, per il tramite della serie delle varie accostate, dei vari aggiustamenti di tiro. A posteriori, sembrerà facile che si sia centrato il bersaglio.
La borghesia è quindi pienamente giustificata nell’impegno che pone nel rendere sempre più blindata la sua dittatura. Accanto alla sostanza c’è la forma, o le forme, di cui riveste la sua dittatura per farla sembrare una cosa diversa da quella che realmente è, anzi opposta. Il sistema borghese non può dichiarare apertamente che esercita la dittatura contro il proletariato per difendere e tutelare i suoi interessi di classe e impedire che vengano anche solo intaccati dalla classe proletaria. Ciò nonostante la borghesia ha dovuto agire allo scoperto spesso, costretta dalla combattività proletaria è stata costretta a mostrare il suo vero volto.
Le forme, le maschere che coprono la dittatura borghese sono state di volta in volta quelle di Democrazia, di Liberalismo, di Fascismo, di Nazismo, di Stalinismo, di Fronte Popolare e via di seguito. Ebbene, tutti i traditori della causa proletaria si sono sempre battuti per una forma o per l’altra di cui si riveste la borghesia, nascondendo la sostanza della permanente dittatura borghese.
Il vero rivoluzionario è quello che contrappone sempre alla dittatura della borghesia la dittatura del proletariato.
Compito del partito comunista è consentire e accompagnare il concrescere della mobilitazione proletaria dal piano difensivo sindacale al terreno politico della contesa del potere statale. In questo non sussiste contraddizione alcuna in quanto sarà la dittatura proletaria a rendere realizzabili e sicure le stesse rivendicazioni di vita umana contenute nelle piattaforme operaie, che saranno generalizzate all’umanità e al mondo.