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Unità sindacale o rinascita di un sindacato di classe (Il Partito Comunista, n.241, agosto 1996) |
I diplomatici sindacali, inseguiti dai microfoni della radio e televisioni e dagli scribacchini di quotidiani e riviste e dalle preghiere di papa e preti, corrono per l’Italia a stabilire contatti e abboccamenti per concludere la ultravecchia battaglia “democratica” necessaria a portare in porto il barcone della “unità sindacale”.
Noi comunisti rivoluzionari abbiamo invece sempre affermato che una vera unità sindacale può essere solo il risultato di una combattuta lotta operaia, in cui la natura di classe di ognuno degli avversari si sia dovuta smascherare, confessare e sconfiggere.
Accantonata la lotta di classe i dirigenti delle centrali sindacali attuali l’hanno trasformata in collaborazione di classe e da decenni non si stancano di praticare all’unisono “partecipazione”, “codecisione”, “codeterminazione”, ma solo per arrivare a quel fatidico traguardo già programmato nel lontano 1944 con il “Patto di Roma”.
L’Onorevole Ministro Togliatti affermava a Modena (da L’Unità dell’8 settembre 1947): «Noi speriamo ancora che con questo partito, la D.C., sia possibile arrivare ad una permanente collaborazione su un terreno democratico per la realizzazione di profonde riforme, nell’interesse delle grandi masse lavoratrici. Cosa farebbe De Gasperi se gli operai dicessero: noi vogliamo i nostri rappresentanti al governo altrimenti abbiamo il diritto di dire no ai sacrifici che dobbiamo sopportare. Non esistono abissi di programma: possiamo andare permanente d’accordo. L’abbiamo proposto ai rappresentanti di tutti i partiti e di tutti i gruppi sociali. Noi abbiamo proposto qualcosa di profondamente nuovo che nessuno forse si aspettava, proponendo la nostra collaborazione sul terreno democratico-parlamentare alla ricostruzione politica, economica e sociale del nostro paese».
Su L’Unità del 21 giugno 1947, Togliatti, dopo aver ricordato che i comunisti «hanno teso una mano fraterna ai capitalisti onesti ed elaborato piani di ricostruzione aziendale» (tra cui lo sblocco dei licenziamenti e il blocco salariale, varato durante il governo provvisorio di cui facevano parte!), aveva già detto «ma gli operai hanno fatto di più, hanno moderato il loro movimento, l’hanno contenuto nei limiti in cui era necessario contenerlo per non turbare l’opera della ricostruzione, hanno accettato la tregua salariale e hanno compreso che l’aver salvato le fabbriche non li autorizzava a porre il problema di una trasformazione socialista della società».
L’appello del P.C.I. non stenta certo ad essere accolto, tanto più dopo le dichiarazioni di Di Vittorio Congresso Confederale di Firenze: «Grandi passi sono stati fatti sulla via dell’unità del popolo italiano. Non esiste più oggi la differenza, fino ad alcuni anni fa tradizionale, fra lavoratori e forze di polizia, perché entrambi sentono di essere forze vitali del nuovo regime democratico borghese».
Quanta strada è stata percorsa dai bonzi sindacali e dai pompieri delle organizzazioni politiche opportunistiche che, dopo aver rimesso in funzione le fabbriche distruttre dal secondo macello imperialistico e risanate le strutture del regime capitalistico, naturalmente tutto sulle spalle del proletariato, hanno proseguito la strada dell’inserimento delle organizzazioni di classe nell’apparato statale capitalistico.
Il risultato di questa collocazione dei sindacati e dei partiti politici, impegnati con senso di responsabilità per la “pace sociale”, è stato far pagare al proletariato tutto il prezzo della ricostruzione, poi della “pianificazione”, della “partecipazione” e della “costruzione, codecisione, codeterminazione...” della forza lavoro. La loro “unità sindacale” è stata raggiunta da decenni durante i quali sono riusciti a partecipare in coro, con padroni e Stato, a stabilire le condizioni del mercato della forza-lavoro e quindi al controllo della classe operaia.
Questa unificazione è stata raggiunta e funziona da mezzo secolo. Mestieranti e aspiranti burocrati sindacali, in nome di una mitizzata “unità sindacale”, hanno sempre operato in funzione antioperaia riuscendo a frantumare e dividere l’unità reale della classe operaia.
La formale tripartizione italica del sindacato di regime è solo funzionale al peggiore disorientamento della massa operaia, oltre che, ovviamente, generare opposti interessi di corruttela. Per questo spartirsi le prebende la “trattativa” verte piuttosto sulle “regole di democrazia capaci di realizzare la gestione unitaria” e per niente è in discussione la politica sindacale di ieri e di oggi, tutti essendo daccordissimo che occorre continuare a dividere, frantumare e ammaestrare gli operai con lotte, che non sono autonome ma esprimono la politica controrivoluzionaria del carrozzone dei partiti politici parlamentari e dei sindacati.
Larizza dichiara: «L’unità non è un processo organizzativo, ma un disegno politico e sociale che ha due passaggi obbligati: la natura del sindacato che si vuole costruire; le regole di democrazia capaci di realizzare la gestione unitaria e il rispetto del pluralismo politico e culturale di tutti gli aderenti» (“Rassegna Sindacale”, 20 novembre).
Nella sostanza politica è logico che tutte le Centrali sindacali rivendichino un “posto” nella “programmazione economica”, cioè nella spartizione delle quote: essi aspirano, com’è nel loro diritto e nella loro collocazione dentro il regime capitalistico, dal Patto di Roma in poi, ad assumere delle precise “responsabilità” nella “partecipazione economica, codecisione, codeterminazione dei dipendenti al processo produttivo» (“Rassegna Sindacale”, 9 aprile).
Ancora una volta, più che dalle proclamazioni solenni sia sulla “unità sindacale” e sia sulle tignose disponibilità verso il padronato, è dalla pratica quotidiana che vengono prove concrete della unità di patto della Trimurti, nella solidarietà aperta di tutte al regime del padronato e al suo Stato. Questo aiuto fraterno al capitalismo è sbandierato ai quattro venti in questi periodi di nera controrivoluzione: assoggettamento completo allo Stato, organizzazione sindacale rappresentata da un ceto di diretta emanazione borghese, intellettuale e ruffiana.
Testimonianza di quanto andiamo sostenendo sono le ormai infinite “tappe” dell’unificazione sindacale che ci confermano l’accordo indissolubile delle centrali sindacali unitarie. Unanimità c’è stata fra questi salvatori dell’economia nazionale quando, dopo l’accordo del ’75, che stabili il punto di contingenza uguale per tutti, essi furono in prima linea nel denunciare gli “effetti perversi degli automatismi”, nel convenire con i padroni sulla necessità di abbassare il “costo del lavoro” e di eliminare la “manodopera esuberante”. Chi non ricorda le “conferenze di produzione” organizzate proprio dai consigli di fabbrica (controllati dal PCI delle grandi aziende) per il ristabilimento dello straordinario e dei cottimi voluto dai bonzi della CGIL, la cassa integrazione, la mobilità forzata, le migliaia di licenziamenti senza colpo ferire? E che dire del codice di “autoregolamentazione” che mira ad impedire gli scioperi nei servizi pubblici?
Ancora nel 1984 il decreto governativo che tagliava nuovamente la scala mobile trovò consenzienti le tre confederazioni, tappa del lento inesorabile attacco statale alle condizioni di vita proletarie. Il tantativo di rilanciare gli investimenti, quindi la macchina produttiva, quindi i guadagni delle classi privilegiate, passa per una sola strada: riduzione del costo del lavoro, cioè abbassamento del monte salari. Su questo sono d’accordo tutti: i partiti di governo e di opposizione, le associazioni padronali, le banche, CISL e UIL e, naturalmente, la CGIL.
È quindi un’illusione che l’unificazione sindacale di domani fra questi sindacati possa difendere gli operai dalla crisi.
La nostra parola d’ordine Fuori e contro i sindacati di regime viene sempre più confermata. La Triplice si dimostra completamente sorda rispetto alla massa dei salariati, se si muove è per contenere spinte che potrebbero lacerare il suo manto asfissiante che avvolge la classe intera.
Di fronte a singole lotte, di qualsiasi intensità, la nostra parola d’ordine indica la prospettiva unica e necessaria.
È evidente che una lotta in un singolo impianto, anche se durissima e determinata e su obiettivi puramente classisti, non produrrà di per sè il sindacato di classe essendo questo l’unione del più gran numero possibile di salariati a livello nazionale e non locale. Riferendosi sempre ad una singola lotta, di un singolo reparto, se non trova appoggio in altri settori o altre località è chiuso materialmente nel suo ambito e le sue energie, a parte l’influenza del partito, tenderanno a orientarsi verso l’interno dell’azienda o del reparto della classe. Potranno anche conseguire successi contigenti ma non sarà una vittoria per la classe intera, essendo il vero significato positivo delle lotte l’unione sempre crescente dei proletari.
Il partito indica, ma se manca la materia, non può crearla artificialmente.
Le prospettive che potranno delinearsi verso la nascita del sindacato di classe sono due. Una che ricalca la storia passata del movimento italiano, ossia la formazione a livello locale di leghe di mestiere e quindi delle Camere del lavoro, che a loro volta sono il tramite per la formazione a livello nazionale delle singole federazioni o unioni di mestiere in una generale confederazione. La seconda strada vede la formazione di sindacati di mestiere a livello nazionale, non locale, che tenderanno a confederarsi tra loro.
Entrambe le strade sono percorribili, dire oggi quale sarà non ha grande importanza, le spinte materiali non la volontà determineranno i fatti.
In Italia l’esperienza di formazione di sindacati di mestiere, fuori e contro la Triplice è stata fatta di recente. Ferrovieri e insegnanti hanno dato vita, non proprio contemporaneamente, ad organizzazioni ex novo di difesa delle condizioni economiche.
Collegarsi a livello nazionale per i primi non è stato arduo essendo unica l’azienda e di estrema mobilità, favorendo i contatti. La tradizione dei ferrovieri, sin dall’inizio secolo, proprio col Sindacato Ferrovieri è stata autonoma ma non corporativa. Nel desolante scenario attuale il Comu si è chiuso in se stesso, resta da vedere se tale organismo possieda ancora vitalità, nel senso di un suo raddrizzamento a fronte di un crescente movimento operaio. Le posizioni ed i proclami contano, ma è fondamentale vedere fino a che punto è arrivata la sua integrazione all’interno delle strutture statali. Comunque sembra che il Comu abbia una sua consistenza.
Anche gli insegnanti sono arrivati ad una struttura organizzativa nazionale, sebbene non centralizzata, la minore energia dello scontro e il ruolo particolare degli insegnanti non avendo sedimentato una struttura stabile. I rottami dei Cobas scuola sono sparsi un po’ ovunque, negatori della necessità sindacale, superata secondo loro da una nuova prospettiva sindacal-politica: cose vecchie... Molto difficilmente questi rimasugli daranno segni di vitalità in una nuova fase montante.
Rispetto ai due scenari, Camere del lavoro o Sindacati di mestiere, punto primo comune a tutti e due è la necessità della formazione di comitati di sciopero che non siano semplici assemblee ma organizzati punti di riferimento per tutti i lavoratori. Nel caso a livello locale ci fossero altre lotte contemporaneamente nostro compito sarà di indicare e spingere verso il fronte comune, verso il coordinamento, verso la camera del lavoro. Se la categoria si muovesse a livello non locale, esteso, saremmo fautori della organizzazione nazionale centralizzata, esterna ai sindacati ufficiali, spingeremmo verso l’unione all’interno e punteremmo i piedi contro qualsiasi ipotesi corporativa e di sottomissione ad inquadramento statale. Nel caso la lotta fosse isolata sia localmente sia a livello categoriale, al comitato di sciopero indicheremmo la strada della lotta determinta e decisa, tenendo sempre presente le forze disponibili, raggiungendo accordi e preservando la struttura creatasi. Ossia saranno presenti i presupposti per riprendere la lotta a condizioni più favorevoli, esistendo nuovi punti di riferimento per la classe.
La differenza dei comunisti rivoluzionari rispetto alle carogne dei dirigenti sindacali e politici è che, fin dal sorgere del movimento proletario mondiale. si sono sempre impegnati, sia nell’indicare alla classe operaia i metodi per la difesa di salario, posto di lavoro, orario, pensioni e condizioni particolari e specifiche, sia nel fornire il quadro generale della situazione storica.
Le grandi, potenti e “dinamiche” organizzazioni sindacali dirette dai favoreggiatori del capitale non pubblicano più, come facevano le organizzazioni operaie anche se dirette da socialdemocratici, nemmeno un giornale sindacale (a parte “Rassegna Sindacale” che è una rivista in codice dedicata agli esperti delle relazioni con Confindustria) che riferisca l’andamento generale della lotta di classe, come – fatto ancora peggiore e grave – sono completamente sparite le assemblee e quella vivace vita sindacale di un tempo, quando ogni operaio di ogni nazionalità, di qualsiasi affiliazione politica, di qualsiasi grado di maturità di coscienza di classe, di qualunque settore produttivo, era portato a sentire come propri i problemi e le battaglie di tutti i proletari.
Il compito dei comunisti rivoluzionari, da sempre, è quello di mantenere vivo questo legame fra passato e presente, ed è per questo che gli “antiquati” comunisti rivoluzionari rileggono e pubblicano testi, giornali della Sinistra Comunista, che elaborò ancora prima del costituirsi in Partito Comunista nel gennaio 1921 a Livorno. Attraverso questo lavoro i proletari potranno seguire tangibilmente la continuità storica e programmatica dell’attuale formazione del partito di classe.
È appunto sulla questione dell’unità proletaria che qui ripubblichiamo da “Il Sindacato Rosso”, Organo del Partito Comunista d’Italia 1921, “L’Unità d’azione del proletariato e noi comunisti”:
«Nella situazione di crisi che oggi viviamo, la stessa organizzazione economica e professionale dei lavoratori, se non vuole scomparire colla ricaduta del proletariato in condizioni di servaggio che sembravano per sempre sorpassate, deve accettare una lotta generale, dece raccogliere la provocazione e le sfide avversarie, deve scegliere tra il lento dissolvimento e la lotta suprema in cui lanci con risolutezza tutte le sue energie. Unità è quindi la parola d’ordine del momento. Unità perché le battaglie parziali che impegnassero separatamente singole categorie di operai, o maestranze di una sola fabbrica o di una città o di una regione sono condannate all’insuccesso, dato che le forze su cui poggia l’offensiva avversaria hanno imposizione generale e movimento centralizzato. Unità in ragione del fatto che, se nel periodo di progressive conquiste di sempre maggiori vantaggi e miglioramenti è concepibile la tattica delle azioni staccate, oggi che questo periodo ha ceduto il posto a quello dell’attacco padronale contro le posizioni raggiunte, si impone il fronte unico dei lavoratori di tutte le località e di tutte le catetorie».
Dunque, unità della classe proletaria è la parola d’ordine dei comunisti, di ieri e di oggi. Ma dall’altra sponda, dai dirigenti delle grandi organizzazioni sindacali, allora come oggi, viene una voce diversa, viene un’appello ad un’altra unità, alla concordia nazionale, motivato dalla gravità della situazione. Si richiede al proletariato – assalito da schiere di nemici – di offrirsi in olocausto sull’altare della patria borghese e dello Stato borghese.
«Essi le conducono a considerare quelle che sono le condizioni attuali dell’industria; e lungi del dimostrare le necessità urgente di abbattere l’intero sistema se non si vuol precipitare tutti nel baratro della morte, dicono apertamente che bisogna in primo luogo, ricostruire l’economia borghese, anche se questa ricostruzione dovesse costare ai lavoratori inenarrabili sacrifici, anche se rappresentasse (come rappresenterebbe inevitabilmente qualora fosse possibile) la cacciata indietro di un secolo delle condizioni del proletariato. Per difendere i lavoratori dagli assalti diretti delle bande capitaliste i bonzi ed i socialdemocratici consigliano il disarmo dei cittadini ed il rafforzamento dello Stato, per difenderli dalla conseguenze della disoccupazione propugnano i lavori pubbblici, sussidi di discoccupazione (...) e la ricostruzione di tutte le forze economiche della borghesia. Noi, naturalmente, battiamo diverso cammino. Per noi l’attuale marasma in cui si dibattono le classi sociali può essere superato solo mediante la conquista violenta del potere politico da parte dei lavoratori, mediante la distruzione dello Stato borghese e mediante la dittatura del proletario (...) Ma perché il proletario riesca ad abbattere la società borghese e divenire la forza direttrice della storia occorre organizzare meglio le sue energie, occorre organizzarle e disciplinarle (...) pronte alla battaglia. Per ottenere questo, bisogna in primo luogo distruggere nel proletariato ogni illusione e ogni sentimentalismo piccolo borghese. Bisogna che esso si dissolidarizzi completamente dall’attuale forma di società e consideri come primo suo dovere di colpirla, con ogni mezzo, a morte. I sindacati di mestiere dovranno essere trasformati da organi di pura resistenza allo sfruttamento borghese e di disciplinamento dell’offerta di mano d’opera, in veri e propri reparti di lotta armata contro gli sfruttatori».