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Tesi sulla questione cinese
[ Il Programma Comunista nn. 23/1964 - 2/1965 ] |
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A. Natura e prospettive delle rivoluzioni d’Oriente |
Dopo il 1960, anno in cui gli 81 partiti sedicenti comunisti (compreso quello di Mao) manifestarono la loro unanimità sul programma dell’opportunismo kruscioviano, una rottura di fatto si è prodotta fra Pechino e Mosca. Come risulta in diversi testi da noi analizzati, la Cina presenta la propria variante nazionale dello stalinismo: ma, a differenza degli altri “socialismi nazionali” di marca araba, cubana o jugoslava, il “socialismo cinese” pretende di rivedere i conti alla Russia borghese, di ergersi a difensore del marxismo e di ricostruire sotto la propria egida i ranghi del proletariato mondiale. È questa pretesa, più che gli inevitabili antagonismi fra Stato russo e Stato cinese, che esige la nostra risposta: perché né la pratica sociale né l’ideologia politica ufficiale dei dirigenti di Pechino sono orientate al trionfo del programma comunista.
A. Natura e prospettive delle rivoluzioni d’Oriente
1)
In Cina, come negli altri paesi arretrati d’Africa e d’Asia, le due
guerre mondiali hanno spinto fino al punto di rottura le
contraddizioni fra lo sviluppo delle forze produttive e i vecchi
rapporti di produzione ereditati dal regime patriarcale. Per un lungo
periodo vi si sono susseguite insurrezioni nazionali e rivolte
agrarie, a conferma dei pronostici formulati dal marxismo sin dagli
inizi del ‘900. Così, nonostante le ripetute disfatte del
proletariato nelle metropoli europee, l’esplosione dei movimenti
nazionali in Oriente ha reso testimonianza della forza rivoluzionaria
degli antagonismi accumulati dal sistema capitalista.
Ma,
come oggi [1964, ndr] è provato dal ritardo crescente dei paesi
arretrati rispetto allo sviluppo economico delle loro ex metropoli,
queste contraddizioni non potevano essere risolte entro un quadro
nazionale e nella forma di un “progresso borghese”: esse sono il
prodotto del capitalismo mondiale, del suo sviluppo ineguale,
dell’accumulazione di tutte le ricchezze in un pugno di Stati
super-industrializzati. È appunto in questi termini che
l’Internazionale Comunista, fin dal suo Manifesto al proletariato
di tutto il mondo, del 6 marzo 1919, poneva la “questione
coloniale”: «L’ultima guerra, che è stata anche una guerra contro
le colonie, fu contemporaneamente una guerra con l’aiuto delle
colonie [...] Il programma di Wilson “libertà dei mari”,
“Società delle Nazioni”, “internazionalizzazione delle
colonie”, non mira ad altro, nell’interpretazione più favorevole,
che a cambiare l’etichetta della schiavitù coloniale. La liberazione
delle colonie è possibile solo contemporaneamente alla liberazione
della classe operaia delle metropoli». Quest’ultima è stata
battuta, poi asservita all’ideologia borghese e pacifista; ma, contro
tutti i profeti di “pace sociale” e di “coesistenza pacifica”,
deve trarre dalle rivoluzioni di Oriente questa lezione e questa
certezza: la violenza è sempre la sola levatrice della storia.
2)
Quale che possa essere stata in Cina l’oppressione dell’imperialismo
straniero, la natura degli antagonismi economici e sociali che questo
vi ha scatenati non poteva fare della sua rivoluzione, di per sé,
una rivoluzione “anti-capitalista”. Il marxismo ha sempre
denunciato quest’illusione del “socialismo” piccolo-borghese,
che fu pure quella dei populisti russi e che oggi è sfruttata
dall’“estremismo” di Mao. Diceva Lenin dei populisti russi: «Essi
sciorinano volentieri delle frasi “socialiste”, ma nessun operaio
cosciente può ingannarsi sul significato di queste frasi. In realtà
nessun “diritto alla terra”, nessuna “ripartizione egualitaria
del suolo”, nessuna “socializzazione”, contengono una goccia di
socialismo. Ciò deve essere compreso da tutti coloro che sanno che
la produzione di merci, il dominio del mercato, del denaro e del
capitale non sono infranti, al contrario più largamente sviluppati
dall’abolizione della proprietà privata e da una nuova ripartizione
del suolo, fosse anche la più “giusta”» (“I partiti politici
in Russia”, 1912).
La
liberazione del contadino dai vincoli dell’economia naturale, lo
sviluppo di un’industria “moderna”, utilizzante le risorse in
manodopera e capitali fornite da un’agricoltura “moderna”, la
creazione di un mercato nazionale e, a coronamento di tutto ciò,
l’esaltazione della “unità nazionale”, di una “cultura
nazionale” e di tutti gli attributi “moderni” della potenza
statale, non sono mai stati e non possono essere altro che il
programma dell’accumulazione del capitale.
3)
Tuttavia, lungi dal limitarsi, in un movimento rivoluzionario
borghese, alla rivendicazione formale dello Stato nazionale e della
democrazia politica, il marxismo determina nel modo più rigoroso il
ruolo delle classi sociali in ogni rivoluzione. La comparsa di un
proletariato industriale in Cina, come nella Russia zarista o
nell’Europa del 1848, significava per i comunisti la necessità di
un’organizzazione di classe che sfruttasse ai propri fini politici
la crisi del regime pre-borghese. Tale è la linea del Manifesto
del Partito Comunista (1848) e della Rivoluzione d’Ottobre, una
linea che Marx ha definito col nome di “rivoluzione in permanenza”.
Al
Secondo Congresso dell’Internazionale Comunista (1920), Roy
sottolineava l’importanza di questa prospettiva di lotta indipendente
e continua per il proletariato dei paesi coloniali: «La dominazione
straniera ostacola costantemente il libero sviluppo della vita
sociale; perciò il primo passo della rivoluzione [nelle colonie]
deve essere l’abbattimento di questa dominazione. Appoggiare la lotta
per l’abbattimento della dominazione straniera non significa
sottoscrivere le aspirazioni nazionali della borghesia indigena, ma
aprire al proletariato delle colonie la via della sua liberazione
[...] Nel suo primo stadio, la rivoluzione nelle colonie non sarà
una rivoluzione comunista, ma se fin dall’inizio un’avanguardia
comunista ne prende la testa, le masse rivoluzionarie saranno avviate
sul giusto cammino e raggiungeranno il fine ultimo attraverso una
graduale conquista di esperienze rivoluzionarie» (“Tesi
integrative sulla questione nazionale e coloniale”, 28 luglio
1920).
Imprigionando
il proletariato cinese, fin dall’inizio della rivoluzione, nel
“blocco delle quattro classi” – formula politica dell’attuale
“democrazia popolare” – il partito di Mao ha segnato la rottura
di tutto l’Oriente arretrato con la tattica gloriosamente illustrata
dal bolscevismo russo.
4)
Dal punto di vista di una vittoria definitiva del comunismo, il
carattere “permanente” del processo rivoluzionario, che doveva
consegnare il potere al proletariato dei paesi arretrati, aveva senso
soltanto se la rivoluzione proletaria riusciva a estendersi alle
metropoli del capitale. La Russia, diceva la seconda prefazione di
Marx all’edizione russa del “Manifesto del Partito Comunista”,
potrà evitare la fase dolorosa dell’accumulazione capitalistica solo
«se la rivoluzione russa diverrà il segnale di una rivoluzione
proletaria in Occidente, in modo che le due rivoluzioni si completino
a vicenda». L’Internazionale di Lenin non ha soltanto ripreso questa
prospettiva per la Russia dei Soviet, ma l’ha estesa a tutta l’Asia.
Come ricordavano le “Tesi del Congresso dei Popoli d’Oriente”,
tenutosi a Baku nel 1920, «solo il trionfo completo della
rivoluzione sociale e l’instaurazione di una economia comunista
mondiale possono liberare i contadini di Oriente dalla rovina, dalla
miseria e dallo sfruttamento. Perciò essi non hanno altra via per la
propria emancipazione che di allearsi agli operai rivoluzionari di
Occidente, alle loro repubbliche sovietiche, e di combattere nello
stesso tempo i capitalisti stranieri e i loro propri despoti (i
proprietari fondiari ed i borghesi) fino alla vittoria completa sulla
borghesia mondiale e all’instaurazione definitiva del regime
comunista».
È
noto come lo stalinismo abbia capovolto questa tesi, facendo dei
successi economici o diplomatici della Russia il criterio universale
dei progressi del comunismo. Pechino va fino in fondo sulla via del
rinnegamento: invece di indicare nella vittoria del proletariato
occidentale la sola prospettiva di emancipazione sociale
dell’Oriente, esso fa dipendere la causa del proletariato
internazionale dall’esito dei moti nazionali borghesi d’Africa e
d’Asia.
5)
Contro la teoria staliniana della “edificazione del socialismo
nell’URSS”, e i prolungamenti tattici che l’Internazionale
degenerata ne diede in Cina, Trotski ha avuto il merito storico di
difendere la visione integrale del processo rivoluzionario scatenato
dalla Prima Guerra mondiale e dalla Rivoluzione d’Ottobre. Così,
nelle sue Tesi del 1929 sulla rivoluzione permanente, dichiarava: «La
rivoluzione socialista non può giungere a compimento entro limiti
nazionali. Una delle cause essenziali della crisi della società
borghese deriva dal fatto che le forze produttive da essa create
tendono a uscire dal quadro dello Stato nazionale. Di qui le guerre
imperialiste da una parte e l’utopia degli Stati Uniti d’Europa
dall’altra. La rivoluzione socialista comincia sul terreno nazionale,
si sviluppa sull’arena internazionale e si compie sull’arena
mondiale».
La
teoria della rivoluzione permanente si applica quindi a ogni Stato
isolato di dittatura proletaria, tanto se le sue strutture economiche
sono mature per certe trasformazioni socialiste quanto se sono ancora
molto arretrate: la Russia staliniana non poteva attribuirsi il
privilegio nazionale di “costruire il socialismo” entro le
proprie frontiere, più di quanto potesse farlo la Germania di
Hitler. Ma, d’altra parte, insisteva Trotski, «lo schema di sviluppo
della rivoluzione mondiale elimina la questione dei paesi “maturi”
o “non maturi” per il socialismo, secondo la classificazione
rigida e pedantesca che il programma attuale [1929]
dell’Internazionale Comunista ha stabilito. Nella misura in cui il
capitalismo ha creato il mercato mondiale, la divisione mondiale del
lavoro e le forze produttive mondiali, esso ha preparato l’insieme
dell’economia mondiale alla ricostruzione socialista».
B. Democrazia e proletariato: la questione nazionale
6)
Instaurando la dittatura del proletariato in un paese
piccolo-borghese che non conosceva né il regime parlamentare né un
capitalismo sviluppato, i bolscevichi russi diedero una smentita
mortale al riformismo della Seconda Internazionale, che della
democrazia e dei suoi “progressi” faceva una condizione assoluta
del “passaggio” al socialismo. Mezzo secolo più tardi, non ci si
contenta di vedere nelle riforme costituzionali e nei metodi
democratici la via maestra verso il socialismo; lo stesso socialismo
è definito dai rinnegati in termini borghesi di “democrazia
popolare” o di “Stato di tutto il popolo”. Coloro che hanno
distrutto l’Internazionale di Lenin hanno ora una sola parola
d’ordine e una sola confessione: indipendenza dei diversi partiti
“comunisti”, non-ingerenza negli affari interni dei partiti
“nazionali”.
Spiegando
il fallimento della Seconda Internazionale, il “Manifesto” del
1919 dichiarava: «in quel periodo [fra ‘800 e ‘900] il centro di
gravità del movimento operaio poggiava interamente sul terreno
nazionale, nel quadro degli Stati nazionali, sulla base
dell’industria nazionale, nell’ambito del parlamentarismo nazionale».
Noi neghiamo che una fine simile fosse inevitabile per la Terza
Internazionale. Il capitalismo mondiale e le guerre imperialistiche
avevano precisamente spostato questo “centro di gravità”
sull’arena internazionale, non solo per i paesi di capitalismo
avanzato, ma anche per i paesi oppressi in cui la questione nazionale
e coloniale si poneva in tutta la sua ampiezza.
7)
La “questione nazionale” può porsi come questione specifica del
movimento proletario soltanto nella fase rivoluzionaria del
capitalismo, quando la borghesia si lancia all’assalto del potere per
condurre a termine la sua opera di trasformazione economica e
sociale. In una fase di capitalismo già maturo, invece, ogni
“programma nazionale” di un partito operaio che rivendichi il
perfezionamento del sistema rappresentativo dello Stato borghese o
della sua base economica costituisce un programma di
collaborazione di classe e di “difesa della patria”. Appunto
perciò il marxismo ha sempre strettamente delimitato per aree
geografiche queste due fasi successive del capitalismo. «Nell’Europa
occidentale continentale, l’epoca delle rivoluzioni democratiche
borghesi abbraccia un intervallo di tempo abbastanza preciso che va
suppergiù dal 1789 al 1871 – diceva Lenin – È questa l’epoca
dei moti nazionali e della creazione di Stati nazionali. Chiuso
questo periodo, l’Europa occidentale si era trasformata in un sistema
costituito di Stati borghesi, di Stati nazionali generalmente
omogenei. Cercare oggi il diritto di autodeterminazione nei programmi
dei socialisti di Europa occidentale, è non sapere l’abc del
marxismo». E ancora: “Nell’Europa orientale e in Asia, l’epoca
delle rivoluzioni democratiche borghesi è cominciata solo nel 1905.
Le rivoluzioni in Russia, in Persia, in Turchia, in Cina, le guerre
nei Balcani, questa la catena degli avvenimenti mondiali della nostra
epoca nel nostro Oriente» (“Sul diritto di autodecisione delle
nazioni”, 1914).
Oggi,
questa fase si è egualmente conclusa per tutta l’area afro-asiatica:
ovunque, si sono costituiti, alla fine della Seconda Guerra mondiale,
Stati nazionali più o meno “indipendenti”, più o meno
“popolari”, che promuovono in modo più o meno “radicale”
l’accumulazione del capitale. Per questo solo fatto, l’“estremismo”
cinese non può più presentarsi come la teoria di un movimento
nazionale rivoluzionario, ma come un’ideologia ufficiale di uno Stato
borghese costituito, come un programma di collaborazione di
classe, con tutto ciò che questo comporta in termini di frasi
“socialiste”.
8)
Neanche nella fase delle rivoluzioni democratiche borghesi i
comunisti possono erigere a feticcio la “questione nazionale”,
collocandone la soluzione al disopra degli interessi di classe e
della propria lotta. Il proletariato rivoluzionario non deve
dimenticare che il suo compito storico è di distruggere lo Stato
borghese e i rapporti di produzione capitalistici per instaurare una
società in cui spariranno le classi, e con esse le differenze fra
gli Stati e le stesse nazioni.
Nel
suo sviluppo, il capitalismo abbatte le frontiere nazionali, superate
dalle sue merci e dai suoi eserciti: distruttore di rapporti di
proprietà, esso infrange le entità nazionali e impone le sue forme
di dominazione mondiale ai paesi più avanzati come ai popoli
oppressi. I comunisti non possono quindi attendere dal capitale che
esso crei un’armoniosa “società delle nazioni” in cui i rapporti
fra Stati siano regolati conformemente al “diritto delle genti”.
Era
invece loro permesso di sperare che l’abbattimento del capitalismo
mondiale evitasse all’Oriente la fase dell’accumulazione
capitalistica e della costituzione in Stati nazionali borghesi. «Noi
ignoriamo – diceva ancora Lenin – se l’Asia giungerà prima della
bancarotta del capitalismo a costituirsi in un sistema di Stati
nazionali indipendenti sul modello dell’Europa. Ma una cosa è
incontestabile, cioè che, risvegliando l’Asia, il capitalismo ha
suscitato anche laggiù dei moti nazionali; che questi tendono a
costituire degli Stati nazionali; che questi Stati assicurano appunto
al capitalismo le condizioni migliori di sviluppo».
9)
La Terza Internazionale aveva prospettato le diverse possibilità di
sviluppo della rivoluzione mondiale:
–
vittoria
simultanea del proletariato in Occidente e in Oriente;
–
vittoria
del proletariato nelle metropoli e indipendenza delle colonie sotto
un governo della borghesia nazionale;
–
vittoria
del proletariato nelle colonie e ritardo della rivoluzione comunista
in Europa.
Ma
non considerò la vittoria di un blocco di classi come una
prospettiva rivoluzionaria duratura, alla quale il proletariato dei
paesi arretrati potesse legare il proprio destino. In tutti i casi,
le Tesi del Secondo Congresso dell’Internazionale Comunista, che
Roy aveva particolarmente dedicato alla Cina e all’India, insistevano
sulla necessità per il proletariato di separarsi dalla borghesia
“nazionale”: «Esistono [nei paesi oppressi] due movimenti che
ogni giorno più divergono. Il primo è il movimento nazionalista
democratico-borghese, il cui programma è l’indipendenza politica nel
quadro dell’ordine borghese; il secondo è quello dei contadini
poveri e arretrati e degli operai che lottano per la propria
liberazione da ogni specie di sfruttamento. Il primo movimento cerca,
spesso con successo, di controllare il secondo; ma l’Internazionale
Comunista deve combattere un tale controllo e promuovere lo sviluppo
della coscienza di classe fra le masse operaie delle colonie» (“Tesi
integrative sulla questione nazionale e coloniale”, 1920).
10) La storia del movimento operaio in Cina e la tradizione politica del Partito Comunista Cinese sono la negazione di questa esigenza dell’Internazionale. Entrando nel Kuomintang, fin dal 1924 il giovane Partito Comunista Cinese dava la sua adesione ai “tre princìpi del popolo”, versione asiatica delle formule di Lincoln (“un governo del popolo, mediante il popolo e per il popolo”) e della rivoluzione borghese francese (“libertà, eguaglianza, fraternità”). Come ha mostrato Trotski, la fusione del PCC e del partito nazionalista non aveva nulla a che vedere con la tattica delle alleanze temporanee che Marx giudicava accettabile in una rivoluzione democratica borghese e che i bolscevichi avevano utilizzato in Russia. Si trattò di un’adesione di principio, rinnovata da Mao Tse-tung ad ogni “tappa” della Rivoluzione cinese, anche dopo la sconfitta e l’eliminazione del Kuomintang: «Il nostro punto di vista coincide perfettamente con le tesi rivoluzionarie del dott. Sun Yat-sen [...] in Cina tutti i comunisti e i simpatizzanti del comunismo devono lottare per gli obiettivi della fase attuale; devono lottare contro l’oppressione straniera e spezzare il giogo feudale, devono liberare il nostro popolo dalla tragica sorte di paese coloniale, semicoloniale e semi-feudale, ed edificare una Cina di nuova democrazia sotto la guida del proletariato, che si proponga, come compito principale, la liberazione dei contadini, cioè una Cina dei Tre Principi popolari rivoluzionari del dott. Sun Yat-sen, una Cina indipendente, libera, democratica, unificata, ricca e potente. Noi agiamo precisamente così» (Mao Tse-tung, “Sul governo di coalizione”, 1945).
C. Dalla rivoluzione russa alla Comune di Canton: rivincita del menscevismo
11)
È nell’analisi degli avvenimenti del 1905 che il bolscevismo trovò
la conferma della sua tattica e si separò definitivamente dalla
corrente menscevica. In Russia, constatava Lenin, «la rivoluzione
borghese è impossibile come rivoluzione della borghesia». Il
proletariato non può dunque aspettare che la borghesia abbia
realizzato la sua opera politica (l’abbattimento dello zarismo) o
sociale (l’abolizione della proprietà feudale) per scendere in
lotta. Prendere la testa del movimento sociale senza rinchiuderlo in
forme giuridiche borghesi (l’Assemblea Costituente), tale fu il senso
delle parole d’ordine: “Dittatura democratica degli operai e dei
contadini!” e “Tutto il potere ai Soviet!”. Il risultato di
questa tattica non fu l’instaurazione di una democrazia borghese, ma
la dittatura aperta del proletariato.
Combattendo
la teoria delle “tappe” della rivoluzione borghese (che Stalin
sosteneva già), Lenin ricordò nel marzo 1917 il contenuto delle
divergenze fra bolscevichi e menscevichi: «La nostra rivoluzione è
borghese, ecco perché gli operai devono sostenere la borghesia –
dicono i politici incapaci del campo dei liquidatori. La nostra
rivoluzione è borghese – diciamo noi marxisti – ecco perché gli
operai devono aprire gli occhi del popolo sulle menzogne dei politici
borghesi, insegnargli a non credere alle belle frasi, ad avere
unicamente fiducia nelle proprie forze, nella propria organizzazione,
nella propria unità, nel proprio armamento» (Prima delle “Lettere
da lontano”, 1917).
12) Lo stalinismo si è sforzato di negare l’applicazione ai paesi coloniali dei princìpi e degli insegnamenti della Rivoluzione d’Ottobre e a questo scopo ha sostenuto un’interpretazione tipicamente menscevica, secondo cui il giogo imperialista rendeva la borghesia “nazionale” dei paesi arretrati più rivoluzionaria della borghesia antifeudale russa. A questa teoria di Bucharin (allora, 1927, schierato con Stalin), Trotski rispose: «Una politica che ignori la potente pressione esercitata dall’imperialismo sulla vita interna della Cina sarebbe radicalmente falsa. Ma non meno falsa sarebbe una politica che parta da un’idea astratta dell’oppressione nazionale, senza conoscere la sua rifrazione nelle classi [...] L’imperialismo è in Cina una forza di primaria importanza. La sorgente di questa forza non risiede nelle navi da guerra sullo Yang-tse, ma nel legame economico e politico del capitale straniero con la borghesia indigena» (“La rivoluzione cinese e le tesi di Stalin”, 1927). Senza fare l’analisi dei rapporti di classe in Cina, come negli altri paesi coloniali, era impossibile capire sia il contenuto della questione agraria, sia il fenomeno della borghesia compradora, sia infine il ruolo dei “signori della guerra” e altri generali nazionalisti, come Ciang Kai-shek e Uan Tin-uei, in cui l’Internazionale stalinizzata cercò alleati e trovò carnefici.
13)
«Le rivoluzioni d’Asia ci hanno mostrato la stessa mancanza di
carattere e la stessa bassezza del liberalismo, la stessa enorme
importanza della indipendenza delle masse democratiche, la stessa
delimitazione precisa fra il proletariato e ogni borghesia»,
scriveva Lenin, in “I destini storici della dottrina di Karl Marx”.
Tali gli insegnamenti che, fin dal 1913, Lenin tirava dalla prima
ondata delle rivoluzioni nazionali borghesi in Oriente: Russia
(1905), Persia (1906), Turchia (1908), Cina (1911).
Poco
prima che la seconda ondata rivoluzionaria finisse nel massacro del
proletariato di Canton, nel 1927, Trotski riassunse l’amara lezione
della tattica seguita dall’Internazionale stalinizzata: «Dalle tesi
di Stalin discende che il proletariato potrebbe separarsi dalla
borghesia solo quando quest’ultima l’abbia già respinto, disarmato,
decapitato e calpestato. Ma è appunto così che si è svolta la
rivoluzione abortita del 1848. Si è visto il proletariato, senza
bandiera propria, seguire la democrazia piccolo-borghese, che a sua
volta si trascinava dietro la borghesia liberale e sacrificava gli
operai alle sciabole dei Cavaignac. Per grande che sia l’originalità
della situazione cinese, il carattere essenziale dell’evoluzione
subita dalla rivoluzione del 1848 si ritrova nella rivoluzione cinese
con una precisione così impressionante che si direbbero perdute le
lezioni del 1848, 1871, 1905, 1917, del partito comunista dell’URSS e
dell’Internazionale Comunista».
E
in realtà, nelle grandi battaglie della rivoluzione cinese fra il
1924 e il 1927, non fu la sorte di una Cina “indipendente, ricca e
potente” a essere compromessa per molti anni, ma la sorte di tutto
il movimento operaio nelle colonie per un periodo storico
infinitamente più lungo e più doloroso.
14)
Entrando nel Kuomintang, mandando i suoi “ministri” nel governo
nazionalista di Canton, il PCC non eseguiva un’abile manovra tattica
per aumentare la propria influenza, come gli fece credere
l’Internazionale di Mosca. Esso rinunciava ai suoi princìpi e
subordinava la sua azione alla strategia nazionale della borghesia.
Stalin spinse questa posizione fino alle ultime conseguenze e le Tesi
da lui pubblicate nell’aprile 1927, più di un anno dopo il primo
colpo di forza di Ciang Kai-shek contro i comunisti, presero una
forma “classica”. L’adesione ai “tre principi del popolo” non
implicava infatti il semplice riconoscimento di princìpi astratti,
la “fede comune degli operai e dei borghesi nel movimento
nazionale”. Secondo la dottrina di Sun Yat-sen, ai “tre principi”
corrispondevano “tre tappe” dello sviluppo della rivoluzione
borghese:
–
La
prima tappa, “militare”, doveva tradurre in pratica il principio
del nazionalismo mediante l’unificazione della Cina;
–
La
seconda, “educativa”, doveva preparare il popolo alla democrazia
politica;
–
La
terza, infine, doveva realizzare questa democrazia e introdurre il
“benessere del popolo”.
Nelle
sue Tesi Stalin riprende le stesse “tappe”, battezzandole:
antimperialista, agraria, sovietica. Solo che il massacro del
proletariato cinese segnava per lui la fine della “prima tappa”,
durante la quale i comunisti non dovevano porre né la questione
agraria né quella della loro uscita dal Kuomintang. Tutti i partiti
staliniani ripresero questa politica nei paesi coloniali. In Cina,
paese in cui fu applicata per la prima volta, essa si è rivelata
apertamente come un tradimento di classe, perché abbandonò i
proletari insorti nei maggiori centri industriali alla sanguinosa
repressione di Ciang Kai-shek.
15)
Nella sconfitta del 1927, lo stalinismo non volle mai vedere che una
“tappa” della rivoluzione borghese in Cina e un “provvisorio”
rinculo del movimento operaio. Noi respingiamo questa
interpretazione. Le lotte di classe in quel periodo furono così
poco “parziali” che si trasformarono in una lotta per la
conquista del potere fra borghesia e proletariato, e la sconfitta si
accompagnò alla eliminazione fisica duratura di tutta
l’avanguardia comunista. Ormai, come disse Trotski, la
“rivoluzione democratica” in Cina avrà il carattere non più di
una rivoluzione, ma di una controrivoluzione, borghese. Infine, il
rovescio del 1927 segna per l’Internazionale di Mosca il rinnegamento
completo della tradizione bolscevica in tutti i paesi d’Oriente. Alle
“Tesi di Aprile” (1917), con le quali Lenin annunciava
l’imminente vittoria della rivoluzione russa, si contrappongono
parola a parola le Tesi dell’aprile 1927, in cui Stalin giustifica
con la teoria delle “tappe” rivoluzionarie il colpo di stato di
Ciang Kai-shek.
Contro
la storiografia nazionale e borghese, il marxismo deve dunque
ristabilire la sua concezione proletaria e mondiale del corso storico
dei movimenti rivoluzionari borghesi:
–
1789-1871,
moti democratico-borghesi nell’Europa occidentale (come pure in
America del nord e in Giappone);
–
1905-1950
circa, moti nazional-rivoluzionari nell’Europa orientale e in tutta
l’area afro-asiatica; una sola vittoria proletaria: in Russia;
–
1917-1927,
strategia mondiale della rivoluzione permanente, con sconfitte
successive in Europa (1918-1923) e in Asia (1924-1927), quali
premesse alla controrivoluzione stalinista in Russia e nel mondo.
D. “Socialismo contadino” e democrazia “di tipo nuovo”
16)
Il marxismo non ha solo denunziato la teoria della “tappa
democratica”: ha anche respinto, nella “tappa agraria”,
l’impiego ad opera di Stalin della parola d’ordine della “dittatura
democratica degli operai e dei contadini” per coprire l’alleanza
governativa con il Kuomintang di sinistra. Nella sua forma compiuta,
questa teoria è diventata quella della democrazia “nuova”,
abbandono completo delle concezioni marxista sulla natura di
classe di ogni Stato. «Nel mondo, i vari sistemi
statali, in base al carattere di classe del potere politico, possono
essere fondamentalmente classificati in tre categorie: a) repubblica
sotto la dittatura borghese; b) repubblica sotto la dittatura del
proletariato; c) repubblica sotto la dittatura congiunta della varie
classi rivoluzionarie [...] Fino a quando si tratta di rivoluzioni
nelle colonie e semicolonie, la struttura dello Stato e del potere
politico sarà necessariamente la stessa nelle linee generali, cioè
uno Stato di nuova democrazia sotto la dittatura congiunta delle
varie classi antimperialiste» (Mao Tse-tung, “Sulla nuova
democrazia”, 1940).
Non
soltanto l’Internazionale di Lenin non ha mai chiamato i proletari
delle colonie a fondare questi Stati “intermedi” fra la dittatura
del proletariato e quella della borghesia, ma noi neghiamo altresì
che ne esista o ne sia resistito uno solo dopo 40 anni di “fronti
anti-imperialistici”. L’esperienza del dualismo del potere nella
Rivoluzione Russa ha provato che la “dittatura democratica degli
operai e dei contadini” non può non trasformarsi, a breve
scadenza, o in dittatura del proletariato o in dittatura della
borghesia. Trotski estese quest’insegnamento alla rivoluzione di
Cina, e noi ne vediamo oggi la conferma nel punto di approdo borghese
di tutti i moti anticoloniali.
«Se
i populisti russi e i menscevichi diedero apertamente alla loro
effimera “dittatura” la forma di una dualità di poteri, al
contrario la “democrazia rivoluzionaria” cinese non si era
sviluppata abbastanza per arrivare a questo. E siccome la storia non
lavora su ordinazione, non resta che rendersi conto che non c’è e
non ci sarà altra “dittatura democratica” se non quella
esercitata dal Kuomintang dal 1925» (Trotski, “L’Internazionale
comunista dopo Lenin”, 1928).
17)
Dopo aver a lungo ignorato il movimento agrario e l’armamento dei
contadini, gli staliniani se ne invaghirono al punto di vedervi il
«tratto originale della rivoluzione cinese e il fondamento della
democrazia di tipo nuovo». «La questione nazionale è,
fondamentalmente, una questione contadina», scriveva Stalin in “Il
marxismo e la questione nazionale” (1913). Di qui Mao deriverà poi
la sua concezione della rivoluzione cinese come essenzialmente
“rivoluzione contadina”, che dalle campagne accerchia le città.
Non
è questa, per noi, l’originalità delle rivoluzioni borghesi
nell’epoca imperialistica. In passato tutte hanno messo in moto il
contadiname in forme diverse, compresa l’organizzazione armata; tutte
hanno realizzato in gradi diversi profonde trasformazioni
nell’agricoltura. Ma il marxismo ha sempre sottolineato l’incapacità
della classe contadina di avere una politica propria. Esso ha
dimostrato che le insurrezioni agrarie, parti integranti delle
rivoluzioni borghesi, sono riuscite unicamente muovendosi sotto la
direzione delle città e cedendo loro il potere. Il “Manifesto”
del 1919 dell’Internazionale Comunista insisteva già sul carattere
duplice del contadiname e sulle ragioni per cui non può agire come
classe indipendente: il contadino non è che il rappresentante
sociale di rapporti borghesi; lascia sempre ad altri il compito della
sua rappresentanza politica. A tutti i campioni del “socialismo
contadino” che, in Russia come in Cina, ci rimproveravano di
“sottovalutare” il contadiname, noi abbiamo contrapposto questi
insegnamenti del marxismo, rispondendo che l’originalità delle
rivoluzioni d’Oriente non risiedeva nell’intervento armato delle
masse rurali, ma nella prospettiva di una direzione proletaria verso
scopi che non fossero inevitabilmente borghesi.
18)
La sconfitta del proletariato cinese spiega come la rivoluzione abbia
dovuto ripartire dal fondo delle campagne, ma non giustifica il fatto
che i comunisti abbiano barattato le loro concezioni classiste con le
teorie del “socialismo contadino”. Nel 1848-’49, l’insuccesso
della rivoluzione tedesca aveva lasciato il proletariato in
un’analoga disorganizzazione politica: l’aveva posto di fronte allo
stesso pericolo d’essere sommerso dalla democrazia piccolo-borghese.
È contro questo pericolo che Marx ed Engels scrissero il loro
celebre “Indirizzo alla Lega dei Comunisti” (1850). Contro i
radicali piccolo-borghesi che «tendono a coinvolgere i lavoratori in
un’organizzazione di partito in cui dominino le frasi generiche
socialdemocratiche dietro cui si nascondono gli interessi specifici
dei piccolo borghesi», l’“Indirizzo” ricordava la necessità di
un partito di classe indipendente. Contro ogni tipo di potere della
democrazia piccolo-borghese, esso lanciava in questi termini la
parola d’ordine della rivoluzione proletaria: «Accanto ai nuovi
governi ufficiali gli operai debbono in pari tempo istituire i propri
governi rivoluzionari, sia nella forma di giunte e consigli comunali,
sia mediante circoli e comitati operai, cosicché i governi
democratici borghesi non solo perdano subito l’appoggio degli operai,
ma si vedano sin da principio sorvegliati e minacciati da organismi
dietro cui si trova tutta la gran massa degli operai».
È
questa la classica risposta del marxismo alle formule reazionarie dei
“partiti operai-contadini”, dei “governi operai-contadini” e
della “democrazia nuova”. L’“Indirizzo” del 1850 è
interamente diretto contro di esse. Se Marx ed Engels non vi parlano
di “dittatura democratica”, è perché una tale parola d’ordine
non poteva essere quella del proletariato di fronte all’agitazione
dei democratici piccolo-borghesi. Stalin e Mao non possono nemmeno
appoggiarsi su un’assenza in Germania della particolarità
“originale” che si pretende invece di aver scoperta in Cina o
addirittura in Russia: la rivoluzione agraria. Al contrario, nella
Germania dell’epoca, Marx ed Engels scorsero più di una volta una
“riedizione” della guerra dei contadini del XVI secolo sotto la
direzione politica del proletariato.
19)
Non più di quanto abbia fatto la rivoluzione borghese tedesca, la
Rivoluzione Russa non rivela il segreto di un potere “popolare”
stabile, rappresentante un blocco di classi. Molto prima del 1917,
Lenin aveva spiegato la formula della “dittatura rivoluzionaria e
democratica degli operai e dei contadini” come un potere del
proletariato “che si appoggia sui contadini” o che “si trascina
dietro i contadini”, formula non frontista e neppure “democratica”.
Ecco come, nell’aprile 1917, in perfetta continuità con Marx ed
Engels, egli la interpreta: «La “dittatura rivoluzionaria e
democratica del proletariato e dei contadini” è già un
fatto nella rivoluzione russa, poiché questa “formula” prevede
soltanto un rapporto tra le classi, e non un’istituzione
politica concreta che realizzi questo rapporto e questa
collaborazione. Il “soviet dei deputati degli operai e dei soldati”
è la “dittatura democratica rivoluzionaria del proletariato e dei
contadini” già realizzata dalla vita [...] Esistono, l’uno
accanto all’altro, insieme, simultaneamente, e il dominio
della borghesia (governo Lvov-Guckov) e la dittatura
democratica rivoluzionaria del proletariato e dei contadini, che cede
volontariamente il potere alla borghesia e si trasforma
volontariamente in una sua appendice [...] Se [una forma
particolare di “dittatura democratica rivoluzionaria del
proletariato e dei contadini” distaccata dal governo
borghese può esistere in Russia,] non c’è che una via, e una
sola, per giungervi: gli elementi proletari, comunisti, devono
separarsi immediatamente, in modo risoluto e irrevocabile, dagli
elementi piccolo-borghesi» (“Lettera sulla tattica”, 1917).
Tra
il febbraio e l’ottobre, i populisti e i menscevichi furono dei
rabbiosi partigiani della “dittatura democratica”, e
rimproveravano a Lenin di “sottovalutare” i contadini o di voler
“saltare” al di là della tappa delle riforme sociali borghesi. I
bolscevichi ricordavano invece che non si trattava di “introdurre
il socialismo” in Russia, ma di impadronirsi del potere politico;
dopo di che mostrarono come la dittatura proletaria realizzi le
riforme economiche della democrazia piccolo-borghese.
20)
Dopo la capitolazione di fronte alla borghesia liberale cinese, la
“lotta contro il trotskismo” ebbe per scopo di assicurare il
trionfo in seno al proletariato sconfitto delle posizioni già difese
dal blocco dei populisti e dei menscevichi durante la Rivoluzione
Russa. E fu Mao, già membro del Comitato Centrale del Kuomintang e
nuovo agitatore del contadiname, a realizzare questo compito. Per
noi, egli non ha né “salvato” né “ricostruito” il partito
del proletariato conducendolo “nelle montagne” e spingendolo alla
guerriglia contadina; l’ha semplicemente annegato nell’enorme magma
piccolo-borghese contro la cui corrente Lenin nell’aprile 1917 e Marx
nel marzo 1850 avevano saputo preservare i comunisti. Non ha nemmeno
sbarazzato la questione del potere nella rivoluzione cinese dalle
illusioni piccolo-borghesi che nel 1927 avevano permesso la
repressione ad opera di Ciang Kai-shek.
La
teoria della “nuova democrazia” non è che lo sviluppo di queste
illusioni in un periodo e in un paese in cui la debolezza della
borghesia “nazionale” non lasciava altre prospettive di
costituzione di un potere borghese che mediante l’azione delle masse
“popolari” e contadine, così inette e lente ad organizzarsi. I
democratici piccolo-borghesi amano attribuire alla “reazione” la
loro difficoltà di unirsi “efficacemente”, la loro mancanza di
carattere e le loro fluttuazioni congenite. Il marxismo vi riconosce
al contrario il riflesso della loro situazione economica instabile.
Fare appello alla iniziativa politica di queste masse per fondare uno
Stato nazionale, combattere l’imperialismo e realizzare il programma
socialista, non è solo rinnegare Marx e Lenin, ma compromettere ogni
movimento rivoluzionario. Bastano per noi a provarlo le interminabili
peripezie della rivoluzione cinese e, ancor oggi [1964], l’anarchia
sanguinosa in cui si dibatte la maggior parte dell’Africa nera.
Ecco
perché, nel 1917, Lenin accantonò la “vecchia formula” della
“dittatura rivoluzionaria e democratica” che populisti e
menscevichi volevano “realizzare” mediante... l’Assemblea
costituente. Allo stesso modo, i socialisti seppellirono negli
archivi della Seconda Internazionale il nome di “partito
socialdemocratico”. Perché, e ciò vale anche per la “democrazia
di tipo nuovo”, la «democrazia esprime di fatto ora la dittatura
della borghesia, ora il riformismo impotente della piccola-borghesia
che si subordinata a questa dittatura» (Lenin, “La rivoluzione
proletaria e il rinnegato Kautsky”, 1918).
E. L’impotente riformismo piccolo-borghese
21)
Nel loro “Indirizzo” del 1850, Marx ed Engels avvertivano i
proletari tedeschi che la democrazia piccolo-borghese avrebbe giocato
lo stesso ruolo di tradimento che aveva giocato la borghesia liberale
nella trasformazione rivoluzionaria delle vecchie strutture sociali e
politiche. Queste previsioni si verificarono in Russia con i
socialisti rivoluzionari. L’esempio cinese ce ne dà la conferma
assoluta alla scala di tutto il periodo storico e di un intero paese.
«I
piccoli borghesi democratici, ben lungi dal voler rovesciare tutta la
società per i proletari rivoluzionari, tendono a una trasformazione
delle condizioni sociali, per cui la società attuale diventi per
loro quanto più è possibile tollerabile e comoda. Perciò essi
reclamano [...] l’eliminazione della pressione del grande capitale
sul piccolo mediante istituti pubblici di credito e leggi contro
l’usura, per modo che a loro e ai contadini sia possibile ricevere
anticipi a buone condizioni dallo Stato invece che dai capitalisti;
perciò vogliono l’applicazione nelle campagne dei rapporti borghesi
di proprietà, mediante l’eliminazione completa del feudalesimo [...]
Per quanto riguarda gli operai, rimane anzitutto stabilito che essi
debbono rimanere salariati come sinora; i piccoli borghesi
democratici desiderano soltanto che gli operai abbiano un salario
migliore e una esistenza sicura, e sperano di conseguire questo
risultato con una parziale occupazione di operai da parte dello Stato
e con misure di beneficenza [...] Queste rivendicazioni non possono
in nessun modo bastare al partito del proletariato.
«Mentre
i piccoli borghesi democratici vogliono portare al più presto
possibile la rivoluzione alla conclusione, realizzando tutt’al più
le rivendicazioni di cui sopra, è nostro interesse e nostro compito
rendere permanente la rivoluzione sino a che tutte le classi più o
meno possidenti non siano scacciate dal potere, sino a che il
proletariato non abbia conquistato il potere dello Stato, sino a che
l’associazione dei proletari, non solo in un paese ma in tutti i
paesi dominanti del mondo, si sia sviluppata al punto che venga meno
la concorrenza tra i proletari di questi paesi, e sino a che almeno
le forze produttive decisive non siano concentrate nelle mani dei
proletari. Non può trattarsi per noi di una trasformazione della
proprietà privata, ma della sua distruzione; non del miglioramento
dei contrasti di classe, ma della abolizione delle classi; non del
miglioramento della società attuale, ma della fondazione di una
nuova società» (Marx-Engels, “Indirizzo del Comitato Centrale
della Lega dei Comunisti”, 1850).
22)
Nella questione agraria, il partito di Mao non ha fatto nulla per
combattere le tendenze piccolo-borghesi ansiose di sottolineare la
rottura con i vecchi rapporti sociali con una consacrazione giuridica
dei sacri diritti della proprietà contadina. E tutte le riforme
annunziate a gran voce dopo la creazione della Repubblica popolare
cinese non hanno contemplato una maggiore concentrazione
dell’agricoltura che sulla base dello sviluppo della produzione
particellare, degli “interessi” del contadino particellare e
dell’“aiuto” statale a esso. E quando si vollero superare questi
limiti, che sono quelli dei rapporti di produzione borghesi, la
catastrofe sociale che ne derivò non fu meno grave di quella seguita
alla falsa collettivizzazione staliniana in Russia.
Riassumendo,
la famosa “rivoluzione agraria” si riduce a una difficile
accumulazione del capitale nelle campagne cinesi secondo le due
fasi classiche di sviluppo dell’agricoltura capitalista: prima
l’instaurazione della proprietà contadina, poi un lento processo di
espropriazione e concentrazione sotto la spinta delle forze
produttive borghesi e di una giganteggiante economia di mercato.
«Quando sarà attuata la riforma del sistema agrario, anche se si
tratterà di una riforma elementare come la riduzione dei canoni
d’affitto e degli interessi sui prestiti, aumenterà l’interesse
dei contadini per la produzione. Dopo di che, si aiuteranno i
contadini ad organizzarsi, gradualmente e sulla base del libero
consenso, in cooperative agricole di produzione e in altre
cooperative, e allora si avrà uno sviluppo delle forze produttive»
(Mao Tse-tung, “Sul governo di coalizione”, 1945).
È
occorso un quarto di secolo (1927-1952) perché si compisse la prima
fase: confisca e spartizione. Ma, prima che la Cina abbia
un’agricoltura “moderna”, concentrata, cioè pienamente
capitalista, possiamo sperare che il proletariato comunista mondiale
abbia avuto ragione del “socialismo nazionale” contadino e
piccolo-borghese.
23)
Dallo sviluppo storico dell’agricoltura cinese noi traiamo una
conferma di fatto: il suo carattere borghese. Ma dalla politica
agraria del PCC traiamo una critica di principio: essa non ha che
rispettato i processi molecolari di questo sviluppo senza tentare di
anticiparne le conseguenze sociali, specie per ciò che riguarda il
sovvertimento dei rapporti borghesi di proprietà. Citiamo ancora
dall’“Indirizzo” di Marx ed Engels del 1850: «Il primo punto sul
quale i democratici borghesi entreranno in conflitto con gli operai
sarà l’abolizione del feudalesimo. Come nella prima rivoluzione
francese, i piccoli borghesi vorranno dare le terre feudali ai
contadini in libera proprietà, e cioè vorranno lasciare sussistere
il proletariato agricolo, e creare una classe di contadini
piccolo-borghesi che dovrà attraversare lo stesso ciclo di
impoverimento e di indebitamento in cui ancor oggi è preso il
contadino francese. Gli operai, nell’interesse del proletariato
agricolo e del proprio, devono opporsi a questo piano. Essi debbono
esigere che la proprietà feudale confiscata resti patrimonio dello
Stato e venga trasformata in colonie di operai, coltivate dal
proletariato agricolo associato, con tutti i vantaggi della grande
agricoltura e in modo che il principio della proprietà comune riceva
subito una forte base in mezzo ai vacillanti rapporti della proprietà
borghese».
Per
i comunisti, non si trattava di stabilire se la Cina o la Russia
piccolo-borghese fossero “mature” per questa trasformazione:
l’abbattimento della dominazione borghese era raggiungibile solo su
scala internazionale. Non si trattava nemmeno, in un dato paese, di
inventare ricette “collettivistiche” per accelerare lo sviluppo
economico. «Noi scriviamo un decreto, non un programma», diceva
Lenin commentando il “Decreto sulla terra”, al quale certuni
rimproveravano d’essere il programma dei socialisti rivoluzionari
(Lenin, “Il Secondo Congresso dei soviet di tutta la Russia.
Rapporto sulla questione della terra”, 1917). In un punto decisivo,
infatti, questo decreto si distingueva tuttavia dal loro programma:
non racchiudeva in forme giuridiche definitive (spartizione,
nazionalizzazione) le aspirazioni dei contadini. Qui sta tutta la
differenza di programma fra “socialismo” nazionale e comunismo
internazionalista.
24)
La politica piccolo-borghese del partito di Mao appare in luce ancora
più netta nella “questione operaia”. Lungi dall’inscrivere sulle
sue bandiere l’abolizione del salariato, il PCC proclama
l’associazione del capitale e del lavoro, e non tralascia nessuna
“misura di beneficenza” nella tradizione del “socialisti”
alla Louis Blanc: «Il compito della classe operaia cinese non è
solo quello di lottare per uno Stato di nuova democrazia, ma anche
quello di lottare per l’industrializzazione del paese e la
modernizzazione dell’agricoltura. Con il regime di nuova democrazia
sarà adottata una politica di riassestamento degli interessi del
lavoro e del capitale. Da un lato si difenderanno gli interessi degli
operai: sarà stabilita una giornata di lavoro di otto-dieci ore a
seconda delle circostanze, si provvederà in misura adeguata per
l’assistenza ai disoccupati e le assicurazioni sociali, e si
difenderanno i diritti sindacali. Dall’altro si garantiranno i
legittimi profitti alle imprese statali, private e cooperative
razionalmente dirette. In questo modo tanto il settore pubblico
quanto il settore privato, tanto il lavoro quanto il capitale,
contribuiranno insieme allo sviluppo della produzione industriale»
(Mao Tse-tung, “Sul governo di coalizione”, 1945).
Un
tale programma, una tale pratica, non si distinguono più in nulla
dal vecchio riformismo dei paesi capitalisti progrediti, dai discorsi
elettorali di qualunque deputato “progressista” o ministro
“reazionario” d’Occidente. Chiamandoli “socialismo” e
rivendicandone l’esclusività contro Mosca, Mao si è portato al
livello “ideologico” delle forze di conservazione borghese nel
mondo, ha perduto la sua aureola di agitazione contadina. In Cina, la
democrazia piccolo-borghese ha cessato d’essere rivoluzionaria dal
1927; fu riformista ancor prima di detenere il potere statale; oggi è
reazionaria nel presentare le sue illusioni e soprattutto la sua
prassi economico-sociale sotto l’etichetta di “costruzione
socialista”. Qui è tutto il significato politico che noi
attribuiamo al suo conflitto con Mosca.
25)
Così si compie il destino storico del “populismo” cinese. Sin
dalla prima rivoluzione borghese del 1911, Lenin sottolineava il
doppio aspetto dell’ideologia di Sun Yat-sen. Utopista era l’idea di
realizzare il “socialismo” mediante la nazionalizzazione delle
terre, la “limitazione” del grande capitale e l’applicazione
“onesta” di un piano di sviluppo industriale concertato da parte
delle grandi potenze. Ma questo programma aveva un contenuto
rivoluzionario borghese che i bolscevichi seppero riconoscere in Cina
come in Russia. Adottandolo, realizzandolo, il partito di Mao gli ha
conferito il solo “sviluppo originale” che gli fosse riservato:
l’utopia del “socialismo” contadino è divenuta l’ideologia
reazionaria della “costruzione socialista” in Cina, e il suo
contenuto rivoluzionario si è diluito nell’oceano delle riforme
piccolo-borghesi. Così è degenerata l’ideologia politica di una
classe molto tempo dopo che la storia ne avesse firmato la condanna a
morte.
All’opposto,
dal lontano 1894, Lenin poteva annunziare, con i primi passi del
proletariato russo, il fallimento ideologico degli “Amici del
Popolo”, molti decenni prima che il loro potere “popolare”
vedesse la luce: «Effettivamente la campagna si scinde. O meglio si
è già completamente scissa. E con lei si è scisso in Russia il
vecchio socialismo contadino: da una parte, esso ha ceduto il passo
al socialismo operaio; dall’altra, è degenerato in un volgare
radicalismo piccolo-borghese. Questa trasformazione non può
chiamarsi che una degenerazione. La dottrina di un regime proprio
della vita contadina, delle vie originali del nostro sviluppo, ha
dato origine a un eclettismo fumoso che non può più negare che
l’economia mercantile è divenuta la base dello sviluppo economico,
si è trasformata in economia capitalista; ma soltanto non vuol
vedere il carattere borghese di tutti i rapporti di produzione, né
la necessità della lotta di classe sotto questo regime. Da un
programma politico che si proponeva di sollevare i contadini per la
rivoluzione socialista contro i fondamenti della società attuale, è
nato un programma che si propone di rabberciare, di “migliorare”
la situazione del contadino preservando i fondamenti della società
attuale» (Lenin, “Che cosa sono gli ‘Amici del Popolo’”,
1894).
F. Antagonismi dell’Oriente borghese
26)
A differenza dell’India e di altri paesi coloniali, la Cina è
entrata nella storia moderna come la “colonia di tutti”. Ben
presto, l’esportazione di capitali prevalse su quella dei prodotti
industriali dalla vecchia metropoli inglese. Per proteggere i loro
investimenti, le grandi potenze si “accordarono” per la
spartizione del paese in sfere d’influenza. A Pechino l’insieme del
corpo diplomatico disponeva delle finanze dello Stato. Questa
situazione rifletteva, come mostrò Lenin, il passaggio del
capitalismo al suo stadio supremo: l’imperialismo. Il programma di
Wilson per la “internazionalizzazione delle colonie”, la sua
versione “ultra-imperialista” in Kautsky e il progetto di Sun
Yat-sen di creare un consorzio delle grandi potenze per lo sviluppo
di una Cina “indipendente”, non avevano altra base oggettiva.
“Ammettiamo – scriveva Lenin ne “L’Imperialismo” – che
tutte le potenze imperialiste formino un’alleanza per la “pacifica”
spartizione di questi paesi asiatici. Sarà il capitale finanziario
unito alla scala del mondo. Esistono degli esempi pratici di questa
alleanza nella storia del XX secolo: i rapporti delle grandi potenze
con la Cina. Sorge una questione: è “pensabile” che, vincendo il
capitalismo (ed è la condizione supposta da Kautsky), tali alleanze
non siano effimere ed escludano gli attriti, i conflitti e la lotta
sotto tutte le forme possibili?».
L’esempio
della Cina ha mostrato che era impensabile. Il paese che, sui primi
del secolo, offriva le maggiori promesse di sviluppo capitalista e le
più sicure garanzie di profitto, è divenuto il campo chiuso delle
guerre civili e delle rivalità imperialiste. Meglio ancora, di
fronte allo scatenarsi di questi antagonismi, l’imperialismo mondiale
ha dovuto rinunciare a tutti i suoi “piani” economici in Cina,
trasportando la sfrenata concorrenza fra capitali sulle vecchie
colonie e semicolonie: India, Africa, America del Sud. Là sorgono i
“piani di sviluppo” e il pacifico sviluppo bolso dei Wilson e dei
Kautsky russo-americani. Ma si preparano anche, su scala ancor più
vasta, le prossime esplosioni rivoluzionarie.
27)
Il partito di Mao ha fatto di tutto perché la sua vittoria non
prendesse il carattere di una violenta rottura della catena
imperialista in Asia. Aderendo ancor più completamente che Sun
Yat-sen alla guerra mondiale, il PCC fece proprie le illusioni della
borghesia liberale cinese su una “società delle nazioni” e una
“cooperazione internazionale” di cui la Cina fosse beneficiaria.
«Il Partito comunista cinese approva la Carta Atlantica e le
risoluzioni delle conferenze internazionali di Mosca, del Cairo, di
Teheran e di Crimea [...] Il principio fondamentale del Partito
Comunista Cinese in fatto di politica estera è il seguente: sulla
base della lotta per sconfiggere definitivamente l’aggressore
giapponese, della difesa della pace mondiale, del rispetto reciproco
dell’indipendenza e dell’uguaglianza dei diritti, come anche
della promozione del reciproco interesse e dell’amicizia fra gli
Stati e i popoli, la Cina allaccerà relazioni diplomatiche con tutti
i paesi e le rafforzerà per risolvere tutti i problemi di interesse
comune, come quello del coordinamento delle operazioni militari,
delle conferenze della pace, degli scambi commerciali e degli
investimenti» (Mao Tse-tung, “Sul governo di coalizione”, 1945).
Fin
dal 1924 Sun Yat-sen aveva constatato il fallimento di questo
programma! Mao non solo gli è rimasto fedele, ma lo predica a guisa
di “socialismo”: «I paesi socialisti, grandi o piccoli,
economicamente sviluppati o no, devono stabilire i loro rapporti
sulla base dei princìpi dell’uguaglianza completa, del rispetto
dell’integrità territoriale, della sovranità e della indipendenza,
della non ingerenza negli affari interni, come pure dell’appoggio e
dell’aiuto reciproco» (Mao Tse-tung, “Proposte riguardanti la
linea generale del movimento comunista internazionale”, 17 giugno
1963).
Contro
l’utopia piccolo-borghese di un “socialismo delle patrie”,
realizzante uno sviluppo “armonico” attraverso un commercio
“uguale”, noi rivendichiamo la distruzione delle patrie
borghesi e lo stabilimento di rapporti non mercantili, che
appunto non saranno “uguali”, fra i paesi in cui domani si
instaurerà la dittatura proletaria!
28)
Lungi dal riflettere “divergenze ideologiche”, il conflitto
cino-russo si colloca sullo stesso terreno degli interessi nazionali
borghesi. È incontestabile che i compromessi dell’URSS con la
borghesia autoctona o con l’imperialismo straniero ritardarono fino
alla fine della Seconda Guerra mondiale la costituzione di Stati
nazionali borghesi in tutto l’Oriente. Esattamente come la
Rivoluzione Russa aveva ridestato i moti anticoloniali d’Asia, la
controrivoluzione staliniana ne ha frenato gli sviluppi. Ma il
partito di Mao che oggi si leva contro Mosca non ha mai denunciato
questo tradimento: né nel 1937, quando il PCC seguì docilmente la
svolta dei “fronti popolari” riannodando l’alleanza con Ciang
Kai-shek, né nel 1945, quando Stalin firmò con lo stesso Ciang un
trattato di pace e di amicizia che doveva durare... 30 anni.
All’origine
del conflitto cino-sovietico, non stanno dunque né la coscienza
degli interessi del movimento anticoloniale, né ancor meno la
critica del “socialismo” russo, ma le contraddizioni tra lo
sviluppo del capitalismo cinese e gli interessi dell’imperialismo
russo: «È ancor più assurdo trasporre nei rapporti fra paesi
socialisti la prassi consistente nel realizzare profitti a spese
altrui – prassi che caratterizza i rapporti fra paesi capitalisti –
e giungere sino a ritenere che la “integrazione economica” e il
“mercato comune” introdotti dai gruppi imperialisti per
accaparrarsi degli sbocchi e spartirsi i profitti possano servire di
esempio ai paesi socialisti nella loro mutua assistenza e nella loro
collaborazione economica» (Mao Tse-tung, “Proposte riguardanti la
linea generale del movimento comunista internazionale”, 17 giugno
1963).
29)
Il “Programma” che Stalin fece adottare al Sesto Congresso
dell’Internazionale escludeva per la Cina e gli altri paesi arretrati
quello che la Russia si era da poco attribuito: il privilegio della
“costruzione del socialismo” nelle sue frontiere nazionali. Nel
momento in cui gli interessi del capitalismo russo si sono integrati
in quelli del mercato mondiale, la Cina riprende per conto suo questo
vecchio slogan staliniano. E noi ripeteremo per essa ciò che Trotski
diceva del “socialismo russo”: «La divisione mondiale del
lavoro, la dipendenza dell’industria sovietica rispetto alla tecnica
straniera, la dipendenza delle forze produttive dei paesi avanzati
rispetto alle materie prime asiatiche, ecc., rendono impossibile la
costruzione di una società socialista autonoma e isolata in un
qualsiasi paese del mondo» (“Che cos’è la rivoluzione
permanente? Tesi”, 1930).
La
“costruzione del socialismo” in Cina non può significare che
l’accumulazione del capitale e l’estensione di un’economia di
mercato. Ma questa teoria non riesce a mascherare antagonismi
molto più acuti. Il conflitto cino-sovietico, tutta la storia dei
movimenti nazionali borghesi d’Asia e di Africa, tutte le conferenze
sul commercio mondiale hanno sottolineato con inquietudine il ritardo
crescente della maggioranza dei paesi arretrati, “indipendenti” o
no, “socialisti” o no, rispetto al pugno di grandi potenze
imperialistiche che detengono tutti i poteri politici, economici e
militari nel mondo attuale.
30)
Per scongiurare la sorte che l’attende, la borghesia dei paesi
arretrati si sforza con tutti mezzi di far passare la sua
emancipazione politica e nazionale come pegno dell’emancipazione
sociale e umana delle masse sfruttate. Doppiamente vittime della loro
borghesia e delle contraddizioni accumulate dall’imperialismo
mondiale, i proletari delle ex colonie troveranno sempre più ragioni
per rompere con l’ideologia democratica e riformista. Essi allora si
ricorderanno che il marxismo e l’Internazionale di Lenin non si erano
mai aspettati dalla democrazia politica e dall’indipendenza nazionale
la liberazione dei popoli coloniali da ogni sfruttamento: «Il
capitale finanziario nelle sue tendenze all’espansione compera e
stringe a sé “liberamente” il più libero dei governi
democratici e repubblicani, e i funzionari di qualsivoglia paese,
anche “indipendente”. La dominazione del capitale finanziario,
come del capitale in generale, non può essere soppressa da alcuna
riforma nel campo della democrazia politica; e l’autodeterminazione
si collega interamente ed esclusivamente a tale campo. Ma questo
dominio del capitale finanziario non toglie affatto l’importanza
della democrazia politica come forma più libera, vasta e chiara,
della oppressione di classe e della lotta di classe” (Lenin, “Tesi
sulla rivoluzione socialista e il diritto dei popoli a disporre di se
stessi”, 1916).
E’
contro questa forma più libera, vasta e chiara dell’oppressione di
classe che il proletariato della Cina “popolare”, come dell’India
russo-americana, dovrà riprendere la sua battaglia.