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Peculiarità dell’evoluzione storica cinese Il Programma Comunista, nn. 23 e 24 del 1957, 7 e 8 del 1958
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Al fine di impostare le basi organiche d’uno studio del “fenomeno cinese”, crediamo sia utile fornire un insieme di dati storici fondamentali sulle particolarità dell’evoluzione cinese che hanno un peso diretto e immediato sui problemi attuali.
In Europa, lo Stato non ha mantenuto, attraverso sconvolgimenti rivoluzionari delle sue forme, che una stessa base razziale. Dalla preistoria il continente è appartenuto allo stesso ramo indo‑europeo, il cui predominio non fu mai scalfito da incursioni devastatrici di uomini appartenenti a razze extra‑europee, come i Mongoli, gli Arabi, i Turchi. Ma la continuità razziale dello Stato non si accompagna ad una continuità nazionale.
Infatti vediamo alternarsi diverse nazioni negli stessi luoghi geografici. Dei popoli nomadi cacciano le popolazioni indigene dai loro territori, o meglio ancora le assorbono; in seguito altre nazioni vincitrici invadono gli antichi invasori ed un nuovo Stato sorge sulle rovine dello Stato vinto. In altre parole lo Stato cambia al tempo stesso forma politica e contenuto etnico, quando non sono gli stessi rapporti di produzione a cambiare.
La disfatta e la distruzione fisica della nazione – che sparisce cedendo il suo territorio ai vincitori – si produce successivamente in ciascun settore geografico del continente: ma, nonostante la sovrapposizione delle differenti dominazioni, l’elemento razziale resta lo stesso. Le nazioni nascono e periscono, la razza rimane.
La storia delle Americhe è ancora più violenta. Su questo continente, la continuità razziale dello Stato fu violentemente frantumata dall’invasione dei “conquistadors” spagnoli, che abbatterono definitivamente le monarchie teocratiche pre‑colombiane. Da allora il potere politico è passato nelle mani della razza conquistatrice. La disfatta della nazione ha coinciso con la disfatta totale ed irrimediabile, della razza.
L’Africa e la stessa Asia – con l’eccezione dell’Estremo‑Oriente – rappresentano un caso intermedio. All’epoca delle invasioni barbariche e a quella più recente della colonizzazione europea, assistiamo al crollo delle basi nazionali e razziali dello Stato. Si sa che in Africa (non solamente nelle regioni affacciate sul Mediterraneo) lo Stato, in quanto frutto della divisione della società in classi, esisteva dall’antichità classica. Ma contrariamente, a quel che si è verificato per le razze indigene delle due Americhe, l’Asia e l’Africa sono in procinto d’essere riconquistate dalle razze che la dominazione coloniale cacciò dallo Stato.
La Cina è il solo caso storico dove la zona geografica, la razza, la nazione e lo Stato sono coincisi dalla preistoria ai giorni nostri, durante molti millenni. Non esiste infatti altro esempio d’un edificio statale che, malgrado profondi stravolgimenti interni ed invasioni di popoli stranieri, ha conservato la base territoriale, nazionale e razziale sulla quale s’era strutturato all’origine. La nazione cinese non ha mai cambiato dimora nel corso della sua esistenza millenaria; le dinastie straniere – mongole e manciù – non riuscirono che ad impossessarsi in modo transitorio dei vertici dello Stato. Ogni volta, l’immenso oceano fisiologico della nazione ha inghiottito i suoi ospiti fastidiosi, che sparivano senza riuscire ad alterare i tratti distintivi – fisici e culturali – del popolo invaso.
La stabilità ininterrotta della nazione cinese si spiega non con la mitologia eroica di sovrani e semidei che detterebbero a loro volta al popolo adorante. I fattori essenziali della sedentarietà straordinaria della nazione cinese sono due. Il primo è d’ordine geologico: l’estrema fertilità della pianura cinese. Come per la Mesopotamia o il bacino del Gange, la potente civiltà agraria cinese affonda le sue radici nelle formazioni geologiche del continente asiatico. I Cinesi, popolo di abili coltivatori, poterono uscire dalla barbarie e dare origine ad una civiltà millenaria grazie ai fini sedimenti dei quali lo Hoang‑Ho (Fiume Giallo) formò la “Grande Pianura” che va dal Hou‑Nan al Ho‑Pé.
Oggi che è provato, contrariamente a quanto si credeva precedentemente, che la conquista dei cinesi non penetrò dal bacino inferiore del Fiume Giallo, ma che ci abitavano dalla preistoria, si può dire che la storia nazionale dei cinesi è il prolungamento della storia geologica dell’Estremo Oriente. Si resta impressionati per la straordinaria vitalità d’una nazione che voltandosi verso il suo passato, può vedere le sue origini confondersi con quelle del territorio nel quale abita da millenni.
Ma ciò che più conta è che la storia passata dimostra che esiste un gigantesco potenziale motore all’interno della nazione cinese, che la rivoluzione industriale è chiamata a trasformare in potenti realizzazioni storiche.
Anche il secondo fattore è d’ordine materiale: la posizione geografica dell’Estremo‑Oriente. Altri popoli furono costretti ad abbandonare il loro territorio perché mancavano delle frontiere sicure a fermare gli invasori. Al contrario la grande pianura cinese aveva delle frontiere insuperabili: il semi‑deserto di sabbia del bacino di Tarim, che forma il Turkestan cinese attuale; l’immensa estensione dell’oceano Pacifico ad est. Completa la fortezza cinese l’altipiano del Tibet, delimitato a Sud dalla formidabile catena dell’Himalaia e a Nord dalle catene del Kouen‑Loun e dell’Altyn‑Tagh; in piena Asia Centrale dalle Thian‑Chan, l’Altai. Solo la frontiera settentrionale era sguarnita: ed è qui che incalzavano popolazioni nomadi che l’estrema povertà del suolo obbligava a nutrirsi di prodotti animali, ma che, quando la siccità o il gelo decimava i loro armenti, erano spinti dalla fame a tentare l’avventura della guerra di rapina contro le buone terre degli agricoltori cinesi.
In Cina il feudalesimo ha compiuto interamente il suo ciclo storico mentre lo schiavismo dominava ancora sul resto del mondo civilizzato. Con l’avvento della dinastia Tsin, nel III secolo a.C., avviene il passaggio violento dal feudalesimo aristocratico primitivo (organizzato in forme che riappariranno in Europa occidentale molti secoli più tardi) ad una forma che si può definire come “feudalesimo di Stato”, in altre parole che non s’appoggia più sul potere periferico d’una aristocrazia terriera, ma su un apparato burocratico di Stato, centralizzato.
Nell’ultimo secolo ci siamo talmente abituati in Europa a considerare la Cina come un paese arretrato – e certamente è vero se ci poniamo dal punto di vista del capitalismo – ignorando che ci fu un tempo in cui lo sviluppo storico della Cina correva ad un ritmo più rapido delle splendide civilizzazioni del Mediterraneo e dell’Asia occidentale. Il logoramento dei prìncipi feudali in guerre continue gli uni contro gli altri; il ridimensionamento dell’aristocrazia terriera al ruolo di puro strumento – se non di ornamento – della Corte Imperiale; la soppressione della frammentazione del potere politico e la formazione dello Stato unitario – insomma, le condizioni storiche che permisero la nascita degli Stati capitalisti moderni – non furono realizzati in Europa che alla fine del Medioevo. Negli altri Stati d’Asia ed Africa, soprattutto quelli che si sono formati recentemente, il processo è ancora in corso: guardate l’India che, dieci anni dopo aver ottenuto l’indipendenza, è ancora alle prese con tendenze centrifughe delle diverse nazionalità. In Cina, al contrario, quando l’ultima dinastia – quella degli Tsing – fu detronizzata dalla rivoluzione del 1911, lo Stato unitario era vecchio di parecchi secoli e non esisteva più nemmeno l’ombra d’una aristocrazia terriera indipendente.
Non bisogna però credere che il passaggio anticipato al feudalesimo, quando il resto del mondo restava immerso nella schiavitù, sia dovuto al fatto che la civiltà cinese fosse più antica. Potenti imperi, destinati a lasciare una traccia profonda nella storia, avevano già raggiunto il loro apogeo quando i cinesi vivevano ancora lungo il corso inferiore dell’Hoang‑Ho e non avevano ancora osato intraprendere la conquista del bacino dello Yang‑Tsé. Le prime dinastie reali cinesi furono quelle degli Hia e dei Chang, o Yin, che regnarono dal XXII all’XI secolo a.C. Non si tratta, evidentemente, delle monarchie più antiche della storia. È nel 3200 a.C. che Ménos unificò l’Egitto, fino a quel momento diviso in due regni, e fondò lo Stato faraonico; ed è nel 5000 a.C. che sorse nell’isola di Creta una sorprendente civiltà che fu distrutta da un’invasione di “barbari” venuti dalla penisola ellenica.
La civiltà cinese nacque più tardi delle civiltà mediterranee, ma arrivò prima alla tappa storica del feudalesimo, quando decine di secoli furono ancora necessari per l’Occidente. L’anticipo preso dalla Cina è stato reso possibile per l’assenza della fase schiavista nel suo sviluppo storico. Non c’è traccia, in effetti, di una schiavitù cinese. È esatto affermare che esisteva in Cina una forma di schiavitù, ma era piuttosto legata al modo di vita delle famiglie ricche piuttosto che al modo di produzione sociale. È nel III secolo d.C. che gli Imperatori permisero alle famiglie povere di vendere i loro figli che, abitualmente, erano comperati da ricchi signori, da funzionari imperiali, da grossi commercianti, per i lavori domestici. Questa usanza era in armonia con la tradizione familiare che ammetteva il concubinaggio; la famiglia degli ceti superiori della società comprendeva dunque un gran numero di membri e l’amministrazione della casa ne risultava complessa.
E chiaro che questa forma di schiavitù domestica differiva completamente dalla schiavitù faraonica o dalla schiavitù degli imperatori romani. Nell’antichità greco‑romana gli schiavi erano prigionieri di guerra che i vincitori portavano nelle metropoli per cederli all’aristocrazia terriera o allo Stato che li impiegava nella sua organizzazione civile e militare. Questi schiavi costituivano dunque una classe sociale ed un settore importante delle forze produttive, sul quale s’appoggiavano la società e lo Stato. Lo schiavo cinese è un domestico a vita, un servitore che il padrone si procura comperandolo in giovane età ed elevandolo al rango della propria casa. Inoltre, il diritto di possesso dello schiavo non era illimitato, come negli Stati schiavisti d’Occidente; infatti, il padrone non poteva esercitare il diritto di vita o di morte sul proprio schiavo, e la legge e il costume intervenivano per addolcirne la condizione. Per esempio, gli schiavi domestici di sesso femminile passavano dopo il matrimonio sotto l’autorità del marito e divenivano libere se lo sposo lo era; i figli ed i nipoti di schiavi non erano liberi, ma le generazioni successive acquistavano la libertà, ecc.
La civiltà occidentale nacque e si espanse nelle forme schiaviste perché le condizioni fisiche e storiche nelle quali si sviluppò imposero la pratica organizzata della guerra di conquista e la sottomissione dei popoli vicini. In fondo l’imperialismo schiavista e l’imperialismo capitalista – che per molti aspetti si differenziano fondamentalmente – hanno in comune l’organizzazione della “razzia” della forza lavoro. Gli antichi conquistatori che annettevano terre d’oltremare prelevando un bottino di schiavi, e lo Stato imperialista moderno che si assoggetta i popoli delle “zone arretrate” e le ingloba nella propria sfera economica, perseguono un obiettivo analogo: procurare alle metropoli delle masse gigantesche di forza lavoro da sfruttare. La guerra imperialista tra gli antichi grandi Stati è una guerra tra aristocrazie terriere proprietarie di schiavi, a loro volta formate da capi militari che delle esigenze assolute spingono alla guerra di conquista e alla sottomissione di altre nazioni più ricche.
La società cinese, uscita dalla barbarie, può “saltare” lo schiavismo, perché può liberare il suo potenziale produttivo ed organizzarsi nelle forme della civiltà senza dover ricorrere alla guerra e all’imperialismo, e senza doverlo subire dalle nazioni nemiche. Dobbiamo ricorrere di nuovo, per comprendere le leggi dello sviluppo della società cinese, ai due grandi fattori della composizione geologica del suolo – eccessivamente favorevole al progresso d’una società agraria sedentaria – e della posizione geografica. Ben protetta dalle aggressioni esterne, esentata dalla crudele necessità di forgiarsi una tradizione guerriera, la nazione cinese è in grado di vivere quasi isolata dal resto del mondo – la terra, quasi senza fertilizzanti e con il prezioso ausilio di ingegnosi lavori idraulici,produce delle derrate in proporzione al numero, pertanto elevato, degli abitanti. E, malgrado il suo carattere sedentario e agrario, la civiltà cinese dà dei frutti meravigliosi.
Può darsi che in Cina, più che in altri paesi civilizzati, il feudalesimo abbia potuto realizzare tutte le sue possibilità di sviluppo. In Occidente, dopo lo sbocciare della civiltà mediterranea – e in particolare del mondo greco‑romano, dove la tecnica produttiva, la scienza e l’arte raggiungono i massimi livelli – il feudalesimo medievale rappresenta una fase di ripiego dell’attività umana. Bisognerà aspettare il Rinascimento perché le forze creative del lavoro umano s’aprano a nuova vita. Ebbene, quello che si produce in Cina sembra smentire le idee correnti sul feudalesimo, dato che, se la struttura sulla quale si modella la via sociale è interamente feudale, ciò non impedisce, al contrario favorisce il progresso intellettuale, come può testimoniarlo lo splendido periodo artistico che coincide con il regno della dinastia Ming (1368‑1643). Ciò si produce perché lo Stato raggiunge molto rapidamente un alto grado di potenza e riesce a sopprimere il potere dell’aristocrazia terriera, sostituendogli un sistema amministrativo e burocratico fortemente centralizzato nelle mani dell’Imperatore. La soppressione di numerose frontiere interne, specifiche per i paesi divisi in domini feudali, permette un commercio interno intenso, che si sviluppa soprattutto per via fluviale e dunque un intreccio fecondo di relazioni sociali.
Per contro, i secoli dell’alto Medioevo europeo sono sterili, precisamente perché gli uomini vivono chiusi nel feudo, le cui frontiere sono controllate dall’ostinata cupidigia del signore in armi, sempre pronto a prelevare diritti di pedaggio a detrimento della Corona.
PASSAGGIO DAL FEUDALESIMO ARISTOCRATICO AL FEUDALESIMO DI STATO
Quindi il bacino inferiore del Fiume Giallo fu la culla della nazione cinese. Ma questo popolo di pacifici agricoltori dovette lanciarsi, per sopravvivere, nella conquista armata. Questo accadde quando il miglioramento della tecnica agricola e l’aumento delle forze produttive che ne seguì, provocarono l’aumento della popolazione rendendo troppo stretti i limiti tradizionali.
Verso il XV secolo a.C. gruppi di coloni si misero in movimento verso occidente seguendo il corso di due affluenti del Fiume Giallo – il Wei‑Hoet e il Fen – occuparono l’attuale Chan‑si e, si spinsero oltre verso il mare, il Chan‑foung. La conquista delle nuove terre, occupate da tribù guerriere, prese necessariamente la forma d’una spedizione militare. È probabilmente in questo periodo che è sorta l’aristocrazia militare, che poi si trasformò in aristocrazia terriera.
Nell’XI secolo a.C. si afferma la dinastia Tchéou; le sue attribuzioni e prerogative ci provano che in questo periodo la monarchia esercita il potere in modo indiretto, nelle forme statali del feudalesimo aristocratico. L’imperatore concentra il potere solo in modo formale. Assume il ruolo di gran sacerdote della religione di Stato – da cui il titolo di “Figlio del Cielo”, intermediario tra l’ordine celeste e l’ordine terrestre – ma esercita il potere tramite una potente aristocrazia terriera. In tal modo la piramide sociale si divide in tre strati nettamente distinti: in basso le classi inferiori sfruttate, ovvero i servi della gleba, i piccoli coltivatori, i coloni, gli strati urbani; in cima la Corte, che dispone di un apparato burocratico essenziale e dipende dai vassalli per il rifornimento delle casse dello Stato e l’equipaggiamento delle truppe. Tra le due, la casta dei nobili, che da aristocrazia militare s’è trasformata in aristocrazia terriera, ha ricevuto il feudo dal sovrano ma, poiché riscuote direttamente i tributi dei contadini e costituisce i quadri dell’armata imperiale, detiene anche il potere politico effettivo. In pratica, l’imperatore ha sì più potere dei re che si spartiscono il governo del paese, perché la forza del suo esercito supera quella di ogni vassallo preso isolatamente, ma ogni signore feudale è il re assoluto nel suo feudo e l’imperatore non è che il re dei re.
In questa organizzazione sociale, la monarchia non governa con le proprie forze, ma grazie alle rivalità e alle lotte incessanti che scoppiano continuamente tra i vassalli della Corona. In breve, la società cinese di questo periodo, per il suo modo di produzione, per le classi sociali che la compongono e per la sua organizzazione sociale è interamente feudale; ma, per quanto riguarda l’organizzazione del potere, è ancora ad uno stadio che potremmo definire di “feudalesimo inferiore” o feudalesimo aristocratico.
L’evoluzione storica successiva renderà evidente come – la base economica e sociale restando quasi invariate – il potere politico sfuggirà poco a poco dall’aristocrazia per concentrarsi nelle mani dello Stato, che eserciterà il potere tramite una burocrazia stipendiata e un suo esercito. Si passerà così alla fase del feudalesimo superiore, che qui chiamiamo “feudalesimo di Stato”.
La crisi della dinastia Tchéou cominciò alla fine dell’XI secolo, quando fallì il grande progetto di conquista del bacino dello Yang‑Tsé‑Kiang. La spedizione militare, urtandosi contro la fiera resistenza delle tribù autoctone, subì una grave battuta d’arresto, per terminare in una sconfitta totale.
Il nemico passò alla controffensiva finché nella prima metà del VII secolo a.C. il territorio cinese fu invaso dai barbari del Sud. La stessa capitale fu invasa e l’imperatore si vide costretto a spostare la sua residenza più all’interno a Lo‑i (attualmente Honan‑fu). Una grave crisi scaturì da questa disfatta militare e dalla destituzione della dinastia che ne risultò. Il potere, sfuggito all’imperatore, si concentrò nelle mani dell’aristocrazia. I vassalli più potenti si appropriarono delle terre della Corona per incorporarle nei loro feudi. Usurpando le prerogative dell’Imperatore si attribuiscono il diritto di nominare dei vassalli scegliendoli nelle file della piccola nobiltà o tra gli avventurieri che prosperavano in quel disordine generale. E cominciarono ad attribuire delle terre per riceverne dei tributi. Molto spesso i nuovi signori, che potremmo definire con un termine tratto dalla storia del feudalesimo occidentale “valvassori”, imponevano ulteriore vassallaggio ai loro consimili, aggravando così le condizioni di vita dei contadini sui quali pesava un giogo sempre più pesante. Il numero delle corti principesche essendo aumentate, i costi di mantenimento non potevano che aumentare a loro volta.
D’altra parte i principi, in continue rivalità tra loro per le terre, imponevano un appesantimento inaudito di carichi fiscali di cui soffriva profondamente il villaggio cinese. Le classi urbane stesse – artigiani, mercanti, professionisti – non potevano sottrarsi alle estorsioni dei feudatari e dei loro luogotenenti, perché il paese era continuamente lacerato da guerre intestine; Per altro l’imperatore, non disponeva più d’alcun potere per mettere un freno all’arbitrio e al brigantaggio dei suoi ex‑vassalli trasformati in sovrani assoluti nel limite dei loro dominii.
Nei primi anni del V secolo, una decina di principi potenti emergono dalla permanente guerra tra i feudatari. La dinastia dei Tchéou non dispone più della supremazia militare. La curva del feudalesimo aristocratico raggiunge il culmine nel periodo 335‑320 a.C., quando la maggior parte dei principi assume ufficialmente il titolo di re (wang), anche se la dinastia Tchéou continua a rappresentare la monarchia legittima.
Abbiamo detto che il feudalesimo cinese si caratterizza per la sua precocità: se si considera che il feudalesimo – rigorosamente – apparve in Europa alla fine dell’Impero Carolingio (887), si deve concludere che il feudalesimo nasce in Cina con un anticipo di almeno tredici secoli. Al momento della decadenza della monarchia imperiale cinese, (e )quando l’aristocrazia fondiaria si rende padrona di tutto il paese, in Occidente Alessandro il Grande parte alla conquista dell’immenso Impero Persiano. Roma, organizzata in repubblica, è ancora impegnata nelle due guerre di conquista della penisola italiana. Se il feudalesimo è una fase della società di classe che si posiziona al di sopra dello schiavismo, ne risulta che la storia, in quel momento, si sviluppa più rapidamente nell’Estremo Oriente cinese che negli altri luoghi civilizzati del mondo. Ed il ritmo non rallenta neanche in seguito.
La ripartizione del territorio tra i principi più potenti non porta la stabilità politica, poiché ciascuno di loro è in lotta perpetua con i vicini. Si apre così un’epoca di sanguinosa tirannia, di massacri di popolazioni, di guerre devastatrici, l’oscura epoca dei Chian Kuo (Regni Combattenti). Dura più di due secoli, dal 403 al 221 a.C., durante i quali l’aristocrazia feudale si sbrana in guerre intestine, facendo colare il sangue e causando la rovina economica.
Infine da questa lotta furiosa sorse un grande principato, quello degli Ts’in – la futura dinastia che darà il nome alla Cina. Gli Ts’in avevano fondato la loro potenza a scapito della dinastia regnante degli Tchéou, impadronendosi di gran parte dei territori della Corona – il Chan‑Si attuale – quando questa li aveva abbandonati davanti alla spinta dell’invasione barbara. Con il tempo, gli Ts’in avevano continuamente allargato la sfera del loro potere, mettendo in pericolo i principi rivali. Molto presto lo Stato degli Ts’in ebbe contro tutti gli altri Stati coalizzati, e fu la guerra generale. La lotta, al termine della quale la Cina doveva uscirne profondamente trasformata durò dal 312 al 256 a.C. Quando si concluse, la Cina era nuovamente riunificata.
È la salita al trono della dinastia Ts’in che segna il passaggio dal feudalesimo aristocratico al feudalesimo di Stato. La nuova monarchia risolve radicalmente la contraddizione tra il potere centrale ed i signori feudali. L’aristocrazia che s’interponeva tra la Corona e il resto della nazione è praticamente abolita, i principi sono detronizzati o ridotti al rango di funzionari reali. Il territorio che precedentemente era diviso in feudi, è ora diviso in province e in distretti che sono sotto la giurisdizione di funzionari nominati dall’Imperatore. La nuova burocrazia imperiale si divide in due rami, civile e militare,diretti rispettivamente da un Primo Ministro e da un Maresciallo dell’Impero (comandante in capo dell’armata reale). L’imperatore è al vertice del potere, i due rami dell’amministrazione confluiscono nelle sue mani. Sopra tutto questo apparato vigila un corpo di ispettori che sono responsabili direttamente davanti all’imperatore e che sono incaricati di sorvegliare sia l’amministrazione centrale sia quella delle province. In altri termini, si assiste all’apparizione di una monarchia assoluta, ovvero di una forma di Stato caratterizzata da una rigorosa concentrazione del potere, ma che, tuttavia, resta la sovrastruttura d’una base economica feudale.
La dinastia Ts’in cadrà rapidamente, ma la struttura dello Stato che aveva fondato durerà più di 2000 anni, restando sostanzialmente invariata nel susseguirsi delle dinastie e malgrado la dominazione dei Mongoli e dei Manciù. Cesserà ufficialmente d’esistere nel 1911, a seguito della rivoluzione antimonarchica, ma è chiaro che le tradizioni di centralizzazione di questo edificio ciclopico si sono perpetuate nei regimi post-rivoluzionari venuti al potere in Cina.
Esiste, tra il Feudalesimo di Stato cinese e il feudalesimo di Stato russo – di cui avremo occasione di parlare nel dettaglio – delle sostanziali affinità che cercheremo di illustrare in seguito. Per il momento, l’importante è insistere sulla reciprocità dello sviluppo del feudalesimo e, in generale, di tutto il corso storico cinese, tanto più notevole che ad un certo punto dello sviluppo della storia mondiale – quando la rivoluzione borghese comincerà a fermentare nel seno della società feudale d’Europa – la Cina inizierà a segnare il passo, facendosi distanziare enormemente.
Un ultimo raffronto: le monarchie burocratiche che sorsero in Europa alla fine del Medioevo possono essere considerate come una fase intermedia tra il feudalesimo aristocratico e il feudalesimo di Stato. Infatti, se prendiamo come esempio la monarchia francese, che ha raggiunto l’apice dell’assolutismo sotto Luigi XIV, constatiamo che la concentrazione del potere di Stato non ha del tutto frantumato l’aristocrazia fondiaria. Inoltre, sappiamo che le monarchie assolute, controbilanciando il potere della nobiltà terriera, facilitarono lo sviluppo della borghesia e influenzarono infine la rivoluzione democratica.
Per quali cause storiche questo fenomeno è stato assente nella storia cinese? La monarchia burocratica instaurata dagli Ts’in, la cui opera d’unificazione non si limitò al solo campo politico ma si estese in tutti gli ambiti della vita sociale (unificazione della lingua, dei pesi e delle misure, degli usi e dei costumi, ecc.), favorì lo sviluppo del commercio interno e la nascita d’una classe di commercianti e di affaristi, occorre tener presente questo fenomeno se si vuole comprendere gli avvenimenti di questi ultimi quarant’anni e – ciò che ci interessa – l’atteggiamento della borghesia cinese nel corso di questo periodo, che ha permesso ai revisionisti del P.C. cinese di perpetuare, prendendo pretesto dell’anti-imperialismo dei “borghesi nazionali”, l’ennesima truffa inter-classista.
Il lettore si è potuto accorgere fin dall’inizio che non era nelle nostre intenzioni descrivere la lunghissima storia della Cina. Un tale lavoro presuppone un enorme sforzo collettivo, a meno che non ci si voglia limitare a tradurre i risultati abituali della storiografia tradizionale. Per ricostituire la storia della Cina attenendoci a dei criteri marxisti, ovvero per descrivere la storia reale della Cina, bisognerebbe dedicarsi – come, del resto per una gran parte della storia universale – ad un grande lavoro d’archeologia economica. Gli storici comuni trascurano – a causa della loro formazione intellettuale o per necessità polemica – l’esame delle strutture economiche, che subiscono delle mutazioni le quali determinano la forma politica dell’evoluzione storica. Ne consegue che i “reperti” economici, come le rovine dei monumenti del passato, sono nascosti sotto un oblio pluri-secolare. Lo storico marxista è dunque costretto a fare la strada a ritroso, partendo dal risultato finale dell’evoluzione storica per ritrovare le cause economiche che bisogna scoprire attraverso una lotta continua contro i pregiudizi idealisti.
Gli storici confuciani, che plagiano gli storici occidentali moderni, riducono tutta la storia cinese a una lotta di dinastie all’interno e alla guerra dei cinesi di nazionalità Han contro i barbari del Sud e del Nord. Sappiamo al contrario, che tutto il cambiamento dinastico era il risultato d’una guerra civile che sconvolgeva la società cinese. Fu una gigantesca guerra civile che provocò nel 209 a.C. il crollo della dinastia Ts’in, il cui avvento era stato a sua volta il punto di conclusione di un lungo e drammatico periodo di sconvolgimenti sociali che ha messo fine al feudalesimo aristocratico.
La rivoluzione degli Ts’in sfocia, quindi, sulla fondazione dello Stato nazionale cinese, assoluto ed ereditario, che – pur rimanendo l’organizzazione del potere delle classi feudali – introdusse una limitazione sostanziale del potere periferico e centrifugo dei signori feudali. L’assolutismo è una forma di Stato che appare in diverse epoche storiche. Ma l’assolutismo burocratico cinese non può essere paragonato all’assolutismo degli stati classici dell’Antichità – all’Impero romano, per esempio, che fu contemporaneo della dinastia degli Han. E ciò diventa evidente se si pensa ai fondamenti economici differenti di queste società: schiavista a Roma, feudale in Cina. Lo Stato burocratico cinese non annuncia il cesarismo romano, ma piuttosto la monarchia assoluta dei secoli XV e XVI.
La rivolta sociale è un catalizzatore del processo storico. La storia cinese, ricca di rivolte e guerre civili, progredisce per questo più rapidamente di quella di altri paesi. Fu un’altra gigantesca rivoluzione sociale che, molti secoli dopo, nel 1368, mise fine alla dominazione mongola. Ma la guerra contadina mancò ancora una volta il suo obiettivo, rappresentato dalle classi proprietarie del suolo, riuscendo soltanto a portare a termine la lotta per la liberazione nazionale, che terminò con l’ascesa al trono imperiale della dinastia nazionale dei Ming. Questa a sua volta, non sfuggì al destino delle famiglie regnanti cinesi. La grande rivolta contadina, e la guerra civile che la seguì – e che provocò il suo collasso – sono restate memorabili. Il movimento fu guidato da un eroe rivoluzionario, Li Tse Ceng. Ma, come era già accaduto nel passato, il movimento, mentre distrugge l’impero dei Ming, non ha potuto impedire che il potere restasse nelle mani delle classi dominanti. Le quali per proteggersi dalla sovversione sociale, chiederanno l’aiuto della dinastia straniera dei Manciu.
Ma, nel corso della storia millenaria della nazione cinese, rivolte e guerre contadine di minor importanza s’intercalano tra due grandi sollevazioni. Secondo Mao Tse Tung, in un periodo di oltre duemila anni, si verificano almeno 18 grandi rivolte. Nessun altro popolo può vantare una tradizione così ricca: e non si trattava di reazioni elementari di masse furiose. La lotta fisica si accompagna sovente con una critica sferzante all’ideologia della classe dominante. Ricordiamo il modo con cui si esprimeva il comunismo agrario dei Taipings: «Tutta la terra che è sotto il cielo dovrà essere coltivata da tutto il popolo che è sotto il cielo. Che la coltivino tutti assieme e, quando raccoglieranno il riso, che lo mangino assieme». Non è facile trovare nella letteratura del comunismo mondiale una formula che, come questa, dà un’interpretazione materialista alle aspirazioni rivoluzionarie, nella quale il rigore scientifico s’allea alla passione poetica.
L’insegnamento irrefutabile che si trae dalla storia cinese, qualunque cosa ne pensino gli storici idealisti, è che la leva del progresso sociale è la guerra civile, la lotta di classe. È precisamente la frequenza eccezionale degli sconvolgimenti sociali che spiega la precocità dello sviluppo storico cinese nei confronti dell’Occidente. Per poter scrivere la lotta di classe in Cina, bisognerà, come affermiamo continuamente, ricostituire prima di tutto, attraverso un metodo archeologico, gli sconvolgimenti delle vecchie forme economiche e delle organizzazioni sociali che si sono succedute in questo immenso paese. Ma, per il nostro modesto lavoro, i risultati della storiografia tradizionali, considerati da un punto di vista critico, sono fin qui sufficienti e saranno ancora utili per concludere.
Fino adesso abbiamo insistito su questa particolarità della storia cinese che costituisce la precocità dello sviluppo del feudalesimo rispetto all’Occidente. È certo che il feudalesimo cinese nasce molti secoli prima del feudalesimo occidentale. Mentre la letteratura tradizionale esalta l’Occidente capitalista come sorgente esclusiva della Storia – affermare che la predominanza dell’Europa sull’Asia è assolutamente recente può sembrare essere solamente un paradosso. È pertanto vero che a un momento cruciale della storia dei continenti l’Europa e l’Asia si sono trovati allo stesso livello dal punto di vista dello sviluppo economico e sociale.
In questa svolta drammatica della storia universale, l’Europa e l’Asia possono essere paragonate, considerando gli avvenimenti retrospettivamente, ai due piatti d’una bilancia in equilibrio. In seguito l’equilibrio si è spezzato. L’Europa comincia a progredire più rapidamente, sempre più rapidamente, mentre l’Asia resta immobile, o addirittura regredisce.
Dobbiamo cercare di spiegare le ragioni di questo fenomeno storico molto importante per completare il nostro lavoro. Infatti, è da questo momento che data la decadenza della Cina che condivide il tragico destino di tutto il continente.
L’Europa e l’Asia, partendo da epoche diverse, arrivano a uno stesso punto: la monarchia assoluta fondata sul feudalesimo. Poi le loro evoluzioni divergono e si oppongono. L’Asia rappresentata dalla Cina, esce dalla preistoria: attraversa rapidamente lo schiavismo, di cui restano rare vestigia; entra nel feudalesimo percorrendone tutto il ciclo per pervenire allo Stato burocratico, ovvero alla monarchia assoluta. L’Europa progredisce lentamente: s’attarda per molti secoli nello schiavismo, in seguito a delle condizioni naturali che favoriscono le guerre di conquista, le invasioni, l’imperialismo; poi compie la rivoluzione cristiana anti-schiavista ed entra nel feudalesimo; raggiunge infine lo stadio della monarchia assoluta nel corso dei secoli XV e XVI. È in quel periodo che si stabilisce l’equilibrio tra l’Europa e l’Asia. Ma la monarchia assoluta a base feudale è una forma di Stato che presuppone una fase di transizione nell’ambito economico. E, difatti, l’Europa realizza questo sconvolgimento: da feudale, diviene borghese. Con un balzo prodigioso, sorpassa tutti gli altri paesi del mondo e si piazza alla testa dell’umanità. Perverrà a questo scopo tramite terribili carneficine, assoggettando il mondo a delle forme di sfruttamento inaudite – ma ci perverrà. L’Asia, al contrario, resta infognata nel pre-capitalismo. Perché tutto ciò? Come si spiega che delle nazioni europee come la Spagna, la Francia, l’Inghilterra, povere e deboli, diventano ricche e potenti – mentre antiche nazioni come la Cina perdono la loro posizione dominante?
Infine vogliamo spiegare perché la rivoluzione capitalista che fermentava in molti grandi Stati d’Asia e d’Europa, esplose solo in alcuni di essi, mentre la prospettiva s’allontanava per gli altri. Vogliamo individuare, dunque, le ragioni del ritardo capitalista in Asia, e in Cina particolarmente.
L’Europa moderna è nata da poco, se si considera il lungo percorso della specie umana. Fino alla metà del XV secolo, niente lasciava presagire il vertiginoso sviluppo dei paesi che si affacciavano sull’Oceano Atlantico. I soli centri d’attività economica e intellettuale erano le gloriose repubbliche marittime e le signorie dell’Italia del Rinascimento: Venezia, Genova, Firenze. Il resto del continente era ancora immerso nel caos feudale, mentre i Turchi Ottomani demolivano il resto dell’Impero bizantino. La Spagna, la Francia, l’Inghilterra, l’Olanda che, in poco tempo avrebbero dominato il mondo, non erano ancora giunte a costituirsi in nazioni. Le loro economie erano essenzialmente medievali. E tuttavia sarà proprio là che sorgerà il capitalismo.
Cercheremo di definire, necessariamente in modo molto sintetico, le condizioni di ciascun paese.
La Spagna, la futura grande potenza coloniale, distrugge soltanto nel 1492 – l’anno della scoperta dell’America – il regno mussulmano di Granada, portando così a termine la “riconquista” cristiana della penisola iberica, che era durata più di otto secoli. La Spagna, che era stata cartaginese, romana, visigota e araba, ha poi preso solamente le caratteristiche nazionali che gli riconosciamo. La monarchia s’organizza immediatamente nelle forme dell’assolutismo. Facendo leva sulla sua forza militare e sul prestigio acquisito nella lunga lotta, si oppone efficacemente alle pretese dei signori feudali, di cui limita energicamente l’autorità. È in questi anni (1481) che viene istituita l’Inquisizione, formidabile strumento di governo che, sotto la forma d’un tribunale religioso servirà efficacemente gli interessi della monarchia, aiutando i suoi sforzi di centralizzazione.
È bene notare che la monarchia assoluta – malgrado le repulsioni che il suo apparato repressivo può ispirare a degli spiriti libertari – si presenta come un fatto rivoluzionario di fronte al disordine e all’impotenza feudale. A lei spetta il merito d’aver organizzato la spedizione di Cristoforo Colombo; il potere locale dei feudali non sarebbe stato capace di una simile iniziativa.
La monarchia francese si forma nello stesso periodo. Le dinastie capetingia e quella dei Valois, loro successori, hanno due nemici mortali da eliminare: l’Inghilterra che, in seguito a diritti feudali, occupa una parte del territorio francese, e la recalcitrante nobiltà indigena che lavora con ostinazione per diminuire l’autorità reale. Per raggiungere l’obiettivo, la monarchia deve attraversare la terribile crisi che ha preso il nome di Guerra dei Cento Anni. Come si sa, non si tratta solamente d’una guerra tra Stati, ma d’una profonda crisi sociale che sconvolge la Francia. La monarchia dovette manovrare con precauzione non solamente sul fronte delle armate, ma anche nella guerra delle classi, schierandosi a favore della borghesia nascente da cui ricevette un prezioso appoggio finanziario. È l’epoca turbolenta dell’estenuante guerra anglo-francese, della rivolta dei contadini che i signori feudali chiamano sdegnosamente Jacque Bohomme; della lotta tra le fazioni feudali dei Borboni e degli Armagnac, delle disfatte francesi di Crécy e Azincourt, delle imprese di Giovanna d’Arco. La lunga crisi, che scoppia nel 1337, e termina nel 1453. È in quest’epoca che si realizza l’unità territoriale francese, con l’eccezione di Calais che resta in mano agli inglesi.
Come aveva già fatto con successo la casa d’Aragona in Spagna, la dinastia dei Valois approfitta della potenza acquisita per regolare i conti con l’altro grande nemico della monarchia: la nobiltà feudale. La monarchia assoluta francese è fondata da Carlo VII, incoronato nel 1429 a Reims, liberato nello stesso anno dall’armata di Giovanna d’Arco. Ma l’unificazione politica del paese, ovvero la costituzione della Francia nelle forme moderne della nazione, non è acquisita che sotto il regno di Luigi XI, morto nel 1483. Dobbiamo a questo grande spirito politico il merito d’avere posto le basi dell’alleanza politica tra la monarchia assoluta e la grande borghesia contro i feudali, alleanza che doveva innestare lo sviluppo della Francia. Alla sua morte, i grandi feudatari della Borgogna, della Provenza, della Bretagna non hanno praticamente più alcun potere. E dunque solamente alla fine del XV secolo – bisogna insistere sulle date per portare avanti correttamente il confronto Europa‑Asia – che termina la grande crisi sociale francese. Il feudalesimo aristocratico è definitivamente battuto, l’assolutismo monarchico solidamente insediato. Il grande apparato statale è ormai in essere; e tra breve, la scoperta del Nuovo Mondo, aperto alle imprese e alla pirateria dei mercanti europei, gli apriranno delle possibilità insospettabili.
Sempre alla fine del XV secolo, un’altra grande monarchia europea emerge dall’inferno d’una grande crisi sociale. E in tali casi i termini non possono sembrare esagerati: la guerra civile che lacera l’Inghilterra, sconfitta nella guerra dei Cento Anni, è veramente terribile. È la guerra delle Due Rose, che durerà trent’anni, dal 1455 al 1485. Una lotta feroce infuria tra i nobili che si disputano il trono. Termina dopo innumerevoli massacri, con avvento della casa dei Tudor. La fondazione della monarchia assoluta, in Inghilterra coinciderà, ugualmente, con l’apparizione della borghesia. Il capitolo XXVIII (libro 1, Sezione VIII) del Capitale, che Marx intitola: “Legislazione sanguinaria contro gli espropriati a partire dalla fine del XV secolo”, lo conferma. Vengono descritte le punizioni crudeli che la dinastia dei Tudor, degnamente continuate dagli Stuart, infligge alle famiglie contadine che i Landlords cacciano dalle comunità agricole per impadronirsi delle terre e trasformarle in pascoli. È con la lana come principale articolo di commercio che la borghesia britannica si presenta sui mercati esterni. Ciò significa precisamente che il capitalismo britannico è nato sotto la monarchia assoluta, circa nel stesso periodo.
Ecco dunque in che situazione si trovava il continente alla vigilia della scoperta dell’America. Si può affermare che in quest’epoca l’Europa è allo stato fluido: una grande rivoluzione economica e sociale è in marcia. Delle nuove forze sociali, liberate dal crollo dei vecchi rapporti di produzione, tendono a cristallizzarsi attorno ad un centro che non può essere altro che la monarchia. Il feudalesimo entra nella crisi che lo condurrà alla morte. È chiaro che la rivoluzione anti‑feudale non può essere circoscritta agli avvenimenti, seppure determinanti, della rivoluzione di Cromwell in Inghilterra o della rivoluzione giacobina in Francia. Queste esplosioni della lotta delle classi furono il punto culminante d’un processo rivoluzionario che si sviluppava da lungo tempo nel sottosuolo sociale. In effetti, la lotta contro le forme feudali di produzione e d’organizzazione sociale comincia molto prima, ovvero alla fine del XV secolo, e precisamente all’epoca delle scoperte geografiche e della formazione del mercato mondiale. Sarà questo gigantesco sconvolgimento, questa incessante accumulazione della “quantità” capitalista nelle viscere della società feudale, che trasformerà finalmente la “qualità” del modo di produzione stesso, non interesserà solamente una parte del mondo. L’Asia, come l’Europa, partecipa a questo grande movimento di rinnovamento.
Mentre gli audaci navigatori dell’Occidente esplorano gli oceani fino ad allora sconosciuti, la Spagna e il Portogallo conquistano immensi imperi coloniali in America, in due parti vitali del continente asiatico – la Persia e l’India – sorgono potenti imperi. Assistiamo allo svolgimento d’un fenomeno di portata enorme, che si è già verificato in Cina. A fianco dell’impero dei Ming, vediamo formarsi la grande monarchia persiana dei Sofis e l’impero indo-mussulmano del Gran Mogol. Abbiamo quindi tre Stati giganti che possono contendere il primato all’Europa. La storia scritta non registra scontri tra l’Asia e l’Europa, ma se si considera che tutte le collisioni tra gli Stati si verificano sul terreno economico molto prima di trasformarsi in conflitti politici e militari, si comprenderà che una colossale partita fu giocata tra i principali Stati d’Europa e l’Asia. Gli Stati che riusciranno a monopolizzare le rotte oceaniche aperte al commercio mondiale, che saranno in grado di schierare delle potenti flotte commerciali e di guerra per eliminare i concorrenti sono gli Stati che usciranno vincitori.
Le vie marittime cominciano a prevalere sulle strade terrestri, il commercio sull’agricoltura. Ed è per questo che i grandi imperi territoriali che esistevano da secoli in Asia, come è il caso della Cina, o che sorgono al momento, come è il caso della Persia e dell’India, dovranno soccombere, nonostante possano vantare antiche e gloriose tradizioni marittime.
LA MERAVIGLIOSA RINASCITA DELL’ASIA
A partire dal 1501 un grande sconvolgimento ha inizio in Persia. L’immenso paese dall’antichità ha funzionato da ponte tra Oriente e Occidente. Non è dunque un caso se è percorso da una grande ondata di rinnovamento che sta scuotendo il mondo civilizzato.
L’indipendenza della Persia era stata distrutta, nell’VII secolo, dalla conquista araba, a cui seguirono le dominazioni turca e mongola. La grande dinastia dei Sofis sale al trono, unifica il paese e gli restituisce l’indipendenza. E non si tratta di un semplice cambiamento nella facciata politica, ma d’un profondo sconvolgimento sociale.
La dinastia dei Sofis ha svolto il suo compito con successo: limita il potere locale dell’aristocrazia terriera, controlla la classe turbolenta dei khan, i famosi Kizilbachi, i nobili col fez rosso. In una parola, il movimento compie la trasformazione della monarchia feudale in monarchia assoluta, esattamente come era avvenuto nei principali Stati europei, fondati da poco. I feudi dei khan cessano d’essere ereditari, e i nobili stessi sono ridotti al rango di funzionari del potere reale. Lo Scià sottrae territori sempre più vasti alla giurisdizione dei signori feudali, creando le città reali, organizzando una classe di funzionari di Stato, scelti non più tra gli alteri Kizilbachi, ma nelle classi inferiori della popolazione. Sempre con un obiettivo antifeudale, il nuovo regime sopprime la vecchia armata formata da uomini e armi forniti dall’aristocrazia e crea, sul modello europeo, un’armata permanente.
Alla stessa epoca grandi sconvolgimenti scuotono la penisola gangetica, la favolosa India. Quest’immenso paese, a seguito di circostanze storiche complesse – di cui la principale è l’invasione frequente di conquistatori stranieri che si sovrapponevano all’elemento indù – è un caso limite di frammentazione feudale. Quando qualche anno fa l’Impero britannico cessò di dominare l’India, il numero dei principi indù e mussulmani vassalli della Corona britannica arrivava a 562. Può sembrare enorme, ma non è stato certamente il massimo, se si pensa che nel XIV secolo l’India era divisa in 1.350 Stati. E non basta: alla fine del secolo seguente il frazionamento si accrebbe ancora, il regno braminico di Delkan s’era diviso in numerosi piccoli Stati provinciali.
L’impero mongolo, fondato da un discendente di Tamerlano, Babur, rimediò al caos feudale e realizzò l’unità politica. L’impero nacque dalla battaglia di Panipat che si svolse il 20 agosto del 1526 e fu vinta dall’armata di Babur; ma l’impero raggiunge il suo apogeo sotto Akbar, che regnò dal 1556 al 1605. L’impero si estende fino ai suoi limiti storici, comprendendo oltre all’ex sultanato di Delhi sottomesso da Babur, il Gujarat, il Bengala e una parte del Dekkan: un impero immenso che raggiunge i 4 milioni di chilometri quadrati con una popolazione di 100 milioni di abitanti. Akbar, che non fu soltanto un conquistatore ma un grande uomo di Stato, prese a modello, nella grande opera di ricostruzione intrapresa, la monarchia dei Sofis – anche se i risultati furono ben inferiori (al modello). Naturalmente, se l’India dei Gran Mogol nacque a nuova vita ciò non è dovuto alle qualità personali, anche se eccezionali, di Babur o Akbar. Al contrario, anche qui, si assiste ad uno sconvolgimento dei vecchi rapporti sociali. Akbar, come gli Scià di Persia, come i monarchi cristiani dell’Europa, è l’espressione di un movimento sociale che tende a mettere fine, o perlomeno a limitare sensibilmente, il potere della nobiltà feudale che s’era rafforzata in seguito alla conquista mussulmana e pesava pesantemente sui villaggi. Lui stesso tenta di opporre una burocrazia di Stato responsabile solamente davanti al potere reale, all’anarchia del potere feudale locale; sostituisce ugualmente la vecchia armata feudale con un’armata permanente.
La dialettica della lotta sociale gli impose, come si era già verificato per le monarchie assolute europee, d’appoggiare i contadini che soggiacevano da secoli sotto il giogo schiacciante dell’aristocrazia militare. Di conseguenza, perseguì il grande obiettivo d’una riforma agraria che reintegrava lo Stato nelle sue proprietà e i villaggi nei suoi diritti, mettendo fine alle usurpazioni tradizionali della nobiltà e dei suoi sgherri. Ma le grandi riforme d’Akbar si scontrarono con la resistenza fanatica del clero mussulmano che, come al solito, dissimulava dietro l’intransigenza dogmatica la difesa inconfessabile degli interessi dell’aristocrazia, e non esitava a predicare l’odio razziale tra mussulmani e indù. Saranno effettivamente la divisione razziale – la penisola indiana, in seguito alle invasioni successive è un vero caleidoscopio di razze e di lingue – e la vitalità delle tradizioni feudali che limiteranno i risultati della riforma.
Tuttavia quando sbarcarono i Portoghesi nei porti della penisola, l’India non è il paese povero e affamato che lascerà il passaggio dell’imperialismo. L’industria è in pieno sviluppo, il commercio più ancora. La penisola indiana è uno snodo del commercio mondiale. Delle navi di piccolo cabotaggio ci fanno scalo, venendo da tutti i punta dell’Asia; dalla penisola araba, dai porti persiani dalla Cina, dall’Indonesia. La ricchezza della marina indiana sorprende i visitatori stranieri. Si sviluppa un’importante classe di mercanti, chiamati Banias, che nel XII secolo, operano in tutte le regioni costiere dell’India, a Goa, nel Coromandel, nel Bengala. Si occupano del traffico commerciale e delle operazioni finanziarie; i loro depositi e i loro uffici di cambio operano anche fuori dell’India: nei porti persiani, in Arabia, in tutta l’Africa orientale dopo Aden fino al Capo di Buona Speranza. Esportano tessuti di cotone fabbricati in Bengala e nel Coromandel. Grazie ad essi, i prodotti dei filatori indiani arrivano fino alle isole della Sonda. La letale monocultura, tipica della dominazione coloniale, è sconosciuta: agricoltura, manifattura e commercio si equilibrano e si compensano reciprocamente. L’India non esporta solo tessuti, ma anche prodotti industriali. Insomma, è l’esatto opposto dell’India dolorosa, impantanata nel pauperismo che il feroce colonialismo occidentale ci aveva abituati a immaginare. E un paese nella sua fase d’ascensione.
Tutti questi fatti parlano chiaramente. Ci dimostrano che la rivoluzione anti‑feudale non è un fatto esclusivamente europeo: supera gli oceani e mette in moto i continenti. Anche l’Asia è in lizza, i popoli di colore ugualmente – senza neanche accorgersi della tendenza all’inerzia e alla contemplazione che vengono loro attribuite dai filosofi occidentali – si battono energicamente.
Poi, su tutto questo fermento d’attività, calerà una mortale paralisi. L’Asia, dopo che è stata per millenni l’origine inesauribile di popoli conquistatori che invadono l’Europa, diverrà a sua volta oggetto di invasione, di conquista brutale. Ma questi invasori senza pietà non arriveranno, come nell’antichità, a dorso di cavallo, ma sui ponti armati delle navi oceaniche. Gli aggrediti tenteranno invano di sfuggire a questa morsa chiudendosi in uno stretto isolazionismo, come faranno la Cina e il Giappone.
Il caso del Giappone è sufficientemente eloquente per farvi un rapido accenno. Anche l’arcipelago nipponico ha partecipato allo sconvolgimento mondiale. Attraverso dure lotte il potere imperiale, rappresentato dagli Shogun, una sorta di dinastia ereditaria di primi ministri, abbatte il potere dell’aristocrazia feudale. Il Giappone è un paese molto arretrato: è sufficiente affermare che solamente nel XVI secolo che il ferro e l’acciaio fanno la loro apparizione. L’unificazione politica del paese comporta la rinascita dell’economia agricola che la dominazione dei signori feudali, i Daimio, mantiene a un livello molto basso. Le riforme antifeudali sono effettuate dagli Shogun di Nobunaga (1534‑1582), di Hideyoschi (1536‑1598), di Yeyasu (1542‑1616). Sotto il regno di Yeyasu specialmente il potere imperiale si trasforma assumendo la struttura della monarchia assoluta, mentre i Daimio litigiosi sono declassati al rango di cortigiani.
La religione cattolica importata dai missionari si rivela come un’arma ideologica di efficacia insospettata tra le mani dei riformatori antifeudali che lottano contro il clero buddista che si accanisce a difendere l’antico regime. Arriva anche un momento in cui le numerose conversioni, favorite dagli Shogun, sembrano dover trasformare il Giappone in una nazione cristiana. Ma l’invasione dei Portoghesi, per i quali la predicazione dei missionari serve unicamente per facilitare la conquista del paese, costringe il governo nipponico a cambiare radicalmente politica. Nel 1638, i successori di Yeyasu chiudono il Giappone agli stranieri e bandiscono il cattolicesimo. Occorrerà, due secoli più tardi, il bombardamento delle navi da guerra del contrammiraglio americano Percy per distruggere la barriera elevata contro la pirateria degli imperialisti europei.
Ma non tutti gli Stati asiatici godono del privilegio che comporta la natura insulare del Giappone. Non soltanto gli Stati di recente formazione, ma anche l’impero cinese sono incapaci di opporsi all’invasione europea.
DECLINO DEL CAPITALISMO ASIATICO
Potrà sembrare che abbiamo dato un’importanza eccessiva all’esame degli avvenimenti che accadono nel mondo all’epoca che esaminiamo, mentre il presente lavoro è dedicato allo studio delle particolarità del corso storico cinese. Ma è chiaro che non possiamo assolutamente impiegare un metodo diverso. Tutti gli eventi storici importanti, anche se si svolgono lontano dai paesi dove il ritmo di sviluppo è il più rapido, condizionano lo sviluppo della storia mondiale.
Questo vale a maggior ragione per la Cina. Abbiamo visto come l’origine della nazione cinese ed il suo sviluppo furono strettamente determinati dalle caratteristiche del continente, dalla posizione geografica, dalla sua geologia. Sappiamo ugualmente che esistono delle rigorose relazioni tra l’evoluzione storica della Cina e quelle del resto del mondo civilizzato. Infatti, l’antica Cina ebbe una parte molto importante, anche se indirettamente, nelle invasioni barbariche che distrussero l’Europa romana, perché costrinse le popolazioni mongole nomadi a deviare verso l’Occidente o fecero pressione a loro volta sui barbari germanici.
Bisogna pensare alle conseguenze storiche che comportarono le invasioni degli Unni nell’antichità e quelle dei Turchi nel basso Medioevo; tutta la storia del feudalesimo europeo e dell’epoca di transizione al capitalismo è a loro legata; questi popoli nomadi erano originari della Mongolia, da cui tentarono più di una volta di uscire per avventurarsi all’interno della piazzaforte cinese, dove furono invariabilmente fermati e respinti verso Occidente. Considerando tutto ciò si comprenderà che non si può fare uno studio storico serio su questo argomento senza considerare globalmente gli avvenimenti mondiali e senza tentare di scoprirne le intime relazioni.
Così, non si può comprendere le ragioni dell’enorme ritardo della rivoluzione borghese cinese, senza rendersi conto della stagnazione e dell’involuzione che colpirono la Cina nel momento stesso in cui gli Stati atlantici dell’Europa si lanciavano sulla via del capitalismo, uscendo definitivamente dal Medioevo. Dobbiamo comprendere come mai la Cina, che aveva preceduto di parecchi secoli tutte le nazioni del mondo sulla via del feudalesimo e della monarchia assoluta, si sia lasciata in seguito sorpassare, affondando in questa irrimediabile decadenza da cui si rialza solo oggi. Non possiamo farlo senza gettare un colpo d’occhio sulle condizioni, non solo della Cina o della stessa Asia, ma di tutto il mondo conosciuto all’epoca delle scoperte geografiche. Per questo abbiamo rapidamente passato in rivista gli sconvolgimenti che succedevano in Europa in questo periodo, così come quelli – sostanzialmente identici – che la storia annota per le principali nazioni dell’Asia, come la Persia, l’India, il Giappone.
Restano da esaminare le condizioni proprie della Cina: ne abbiamo già fatto allusione evocando l’era dei Ming, che è la dinastia regnante al momento dell’arrivo degli Occidentali. Adesso ci conviene completare quello che abbiamo già detto, tenendo conto, per contro, del poco spazio di cui disponiamo.
Marco Polo fu un magnifico testimone della grandezza della Cina, che visitò dal 1275 al 1291, all’epoca in cui regnava la dinastia mongola degli Yuan. Dobbiamo ripetere quello che tutti sanno? Marco Polo trovò un paese molto avanzato nel campo dell’industria, del commercio, dell’amministrazione. Due secoli e mezzo prima dell’insediamento dei Portoghesi a Macao, graziosamente concesso ai “barbari” d’Occidente dall’Imperatore, la Cina è un paese dove esiste già una classe di industriali che impiegano manodopera salariata nelle loro manifatture – ciò dimostra che l’industria è gestita in forme capitaliste. La classe dei commercianti è ancora più importante; dispone di numerose flotte marittime e fluviali (. «Sul solo Yang Tsé Kiang – scrive Marco Polo meravigliato – navigano, in verità, più navi cariche di merci di grande valore che su tutti i fiumi e su tutti i mari del mondo cristiano». Il paese vanta una metallurgia molto avanzata e consuma una grande quantità di carbone. Il commercio esterno è sviluppato e riceve un nuovo impulso sotto i Ming. La Cina importa le spezie dalle isole della Sonda e le rivende ai Portoghesi; mantiene relazioni commerciali con la Persia, l’Arabia, l’India, il Giappone.
Sotto il terzo Imperatore Ming, Young‑Lo (1403‑1424), si intraprende l’esplorazione della Malesia e di Ceylon e si conquista l’Annam. Prima, sotto l’Imperatore Qubilai si tenta la conquista di Giava. I marinai e i commercianti cinesi s’intrattengono in tutti i porti principali dell’Oceano Indiano e si spingono fino sulle coste dell’Africa orientale. I banchieri cinesi – come aveva già constatato Marco Polo con stupore – usano ampiamente carta moneta, totalmente sconosciuta in Occidente.
Per ricapitolare, all’alba del XVI secolo, le condizioni storiche dell’Europa e dell’Asia, considerando naturalmente gli Stati principali, sono facilmente comparabili. Mettendo da parte la diversità delle vie seguite, gli incidenti che si sono verificati nello sviluppo di ciascun paese e le differenze degli organismi politici, una tendenza è comune a tutti: la propensione al rinnovamento dei mezzi di produzione, alla ricerca di nuovi modi di vita sociale. In una parola, al superamento del feudalesimo. Ma la dialettica storica permetterà solamente ad un gruppo di Stati di percorrere fino in fondo la strada intrapresa – saranno gli Stati che riusciranno ad imprimere un ritmo finora sconosciuto all’accumulazione primitiva, all’edificazione di queste grandi fortune mercantili e finanziarie che, in seguito, permetteranno la rivoluzione industriale. La grande lotta tra l’Asia e l’Europa si deciderà sui mari, sulle rotte oceaniche che apriranno la strada al mercato mondiale moderno.
I Persiani, gli Arabi, gli Indiani, i Giapponesi, i Malesi, i Cinesi, tutti questi popoli hanno alle spalle antiche e gloriose tradizioni di navigazione. Il commercio marittimo ha presso di loro delle lontane origini. Eppure i fatti dimostreranno che le loro tecniche di costruzione navale e della navigazione non sono adatte all’immenso sforzo richiesto dalla navigazione oceanica. Hanno l’audacia di spostarsi da un punto all’altro dell’Oceano Indiano, ma non perverranno a compiere la grande impresa di collegare gli oceani tra loro. Il commercio divenne così importante da superare i confini di nazioni e continenti: divenne mondiale. Le sue vie restavano tuttavia ancora terrestri. Esistevano è vero la grandi flotte di Venezia e di Genova che si occupavano del commercio Europa‑Asia, ma il loro compito si fermava nei porti di Alessandria o in quelli meno importanti della Siria. Le merci provenienti dall’Asia, quando non seguivano la strada molto lunga “della seta” per il Turkestan cinese,venivano trasportate dalle flotte arabe a Suez e di là a dorso di cammello, proseguivano verso la metropoli egiziana. In conseguenza, i costi di trasporto, sui quali pesano, tra l’altro, le forti imposte prelevate dai Turchi che controllavano le vie d’accesso all’Europa, diventavano insostenibili.
Era necessario trovare un collegamento diretto tra i due continenti, entro i due mercati. L’Asia non partecipava a questa impresa; vi presero parte solo i nuovi Stati atlantici, le nuove monarchie cristiane da poco uscite da una lotta vittoriosa che tendevano irresistibilmente ad ingrandirsi.
Se i principi feudali sparpagliati accettavano con rassegnazione il monopolio commerciale delle repubbliche marinare italiane, le superbe monarchie di Madrid, di Lisbona, di Parigi, di Londra, non erano più disposte a tollerarlo – precisamente perché possedevano i mezzi finanziari necessari alle spedizioni oceaniche. La lotta per la scoperta e il monopolio delle rotte inter‑oceaniche cominciava. La scoperta dell’America porterà alla nascita di immensi imperi coloniali di Spagna e Portogallo, ma ciò non avrà un’influenza immediata sulla storia mondiale, al contrario della circumnavigazione del l’Africa di Vasco de Gama. Il formidabile raid Lisbona-Calcutta, del 1497, scuoterà il mondo:e porterà il“depotenziamento” del Mediterraneo, la decadenza irrimediabile dell’Italia, l’esplosione della potenza coloniale portoghese. Ma segnerà soprattutto la disfatta dell’Asia. Il mondo sa adesso quali saranno i suoi padroni. E quando un’altra eroica spedizione, condotta da Ferdinando Magellano, si spinge fino all’Atlantico australe, riuscendo a trovare il passaggio a Sud‑Ovest, sfociando nel Pacifico per risalire fino alle Filippine, la vittoria dell’Europa è completa, senza appello: l’accerchiamento dell’Asia è completato.
La circumnavigazione del globo, negli anni 1519‑1522, sanziona il primato dell’Occidente – poco importa se passerà dalle mani degli iberici a quelle degli olandesi e degli Inglesi. Gli sfruttatori che lo tortureranno e lo spoglieranno senza pietà potranno cambiare, ma la sorte dell’Asia non cambierà più: le sue flotte spariranno dai mari, le sue campagne saranno divorate dalla siccità, le sue meravigliose città si spopoleranno. E i suoi popoli saranno gettati nella galera infernale del colonialismo capitalista, il più feroce e il più inumano che sia mai esistito. Le cause del declino e della decadenza dell’Asia e dunque della Cina, non si trovano altrove.
Ma, nell’ambito della storia come in quello della natura, niente succede a caso. La superiorità navale dell’Occidente non fu l’effetto d’un colpo di fortuna. La preparazione scientifica, il coraggio e la disciplina degli ammiragli e degli schiavisti ebbero, certamente, la loro parte nella riuscita delle spedizioni. Ma la verità è che la tecnica delle costruzioni navali e l’arte della navigazione dovevano avere il loro più grande sviluppo in Occidente, perché la civiltà europea sorge sulle rive del Mediterraneo, mare interno facilmente navigabile. Precisamente perché questo mare era di facile accesso per tutti i popoli che abitavano le sue coste, tutte le grandi potenze che aspiravano alla supremazia imperiale dovevano, prima di tutto imporsi come potenza navale. La circumnavigazione dell’Africa compiuta dalle navi del faraone Neco, l’imperialismo commerciale dei Fenici, il colonialismo delle repubbliche elleniche, il grande conflitto tra Roma e Cartagine, le competizioni delle repubbliche marinare italiane – tutti questi fatti dimostrano molto bene che la lotta tra le potenze mediterranee fu soprattutto una lotta tra potenze navali.
Al contrario, le nazioni asiatiche non ebbero mai una marina da guerra capace di competere con quelle dell’Occidente. La Cina stessa non riuscì mai a sbarazzarsi della pirateria giapponese. Ciò si spiega con il fatto che i grandi Stati asiatici sono stati costretti ad utilizzare gran parte delle loro energie contro le invasioni dei barbari che irrompevano nella parte settentrionale del continente, mentre non avevano da affrontare il pericolo d’invasioni provenienti dal mare. L’Oceano era stato per essi, come per gli antichi popoli d’Occidente, un bastione insormontabile. Ma quando l’Oceano fu violato, si trovarono senza difese.
Da allora, l’imperialismo bianco è riuscito a dominare l’Asia dominando gli oceani. Non è quindi un caso che appena i suoi padroni tradizionali, britannici, francesi, olandesi, furono battuti nel corso della seconda guerra mondiale, le nazioni asiatiche si sono svegliate ad una nuova vita.