Gli insegnamenti della polemica russo‑cinese
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La rivoluzione russa non è stata un “imprevisto” per il marxismo. La vittoria del bolscevismo non è il risultato del “genio” di Lenin, di Trotski o di altri ma rappresenta la verifica del marxismo nella realtà storica. Lenin non ha arricchito d’uno iota la teoria marxista, ma l’ha difesa con un rigore assoluto nell’arco di quasi trent’anni. Tra stalinismo e marxismo, tra Stalin e Lenin, non c’è il minimo legame: c’è al contrario un abisso incolmabile. Tutto quello che si è prodotto in Russia dopo il 1926 non rappresenta una novità per il marxismo e non lo contraddice in niente, ma costituisce al contrario la più grande vittoria del marxismo per la semplice ragione che Marx e Lenin l’avevano previsto.
Oggi, ci troviamo soli a difendere le tesi marxiste sulla rivoluzione russa, le tesi stabilite da Marx e Engels, le tesi riprese da Lenin che trionfarono nel 1917, le tesi proclamate di fronte al mondo intiero per la prima rivoluzione proletaria vittoriosa della storia.
Rinviamo i lettori ai due testi Dialogato con Stalin e Dialogato coi morti (1956), e soprattutto all’opera monumentale divisa in due sezioni “Russia e Rivoluzione nella teoria marxista” e “Struttura economica e sociale della Russia d’oggi” che è apparsa in extensio nel giornale in lingua italiana del nostro partito, Il Programma Comunista (annate dal 1954 al 1957). Una parte della seconda sezione si trova tradotta nella brochure in lingua francese "L’économie soviétique de la révolution d’octobre à nos jours".
Ribadiamo nuovamente queste tesi contro tutti i falsificatori, nel novero dei quali figurano, come dimostreremo, i sedicenti comunisti cinesi, che nel loro conflitto contro la Russia vantano una ortodossia che non hanno.
1. – A partire dal 1848, Marx ed Engels consideravano il dispotismo zarista come il bastione più solido della contro-rivoluzione in Europa. Si auguravano quindi la sua caduta, sia che fosse provocata dall’esterno (guerre della Germania e della Polonia unite contro la Russia nel 1848; guerre russo-turche) sia dall’interno (rivoluzione).
2. – Posti davanti all’ipotesi di una rivoluzione in Russia, Marx ed Engels chiarirono la loro posizione con estremo rigore. Il problema si complicava per la sopravvivenza in Russia di forme di comunismo primitivo (mir). Si poneva la questione: la rivoluzione russa poteva saltare la fase dello sviluppo capitalistico appoggiandosi sui mir? La risposta di Marx, nella famosa prefazione all’edizione russa del Manifesto del Partito Comunista, è senza equivoci: SI, se la rivoluzione russa può saldarsi alla rivoluzione proletaria in Occidente. Più tardi Engels constatò la dissoluzione del mir in seguito allo sviluppo della produzione mercantile nelle campagne.
3. – Dopo la corposa apparizione del proletariato sulla scena russa e la formazione del POSDR, Lenin constata l’inevitabilità dello sviluppo capitalistico nelle campagne e registra il passaggio dei difensori del mir all’idealizzazione reazionaria dell’arretratezza delle campagne russe (populismo).
4. – Avendo tutti i marxisti scartata l’utopia reazionaria dei populisti, il
“socialismo nazionale russo”, restava da risolvere il problema dell’azione del
partito e del ruolo del proletariato nella rivoluzione borghese antizarista (Due
tattiche, 1905). I marxisti russi si scissero in due frazioni: i menscevichi che
sostenevano che il proletariato doveva seguire la borghesia nella rivoluzione
democratica e costituire solo una opposizione parlamentare dopo la caduta dello
zarismo; il bolscevismo che negava che la borghesia russa fosse capace di impegnarsi in una
rivoluzione radicale contro lo zarismo; attribuiva quindi
il ruolo dirigente della rivoluzione borghese al proletariato, alleato ai
contadini, e propose la partecipazione del partito proletario al Governo
Provvisorio, e quindi una rivoluzione radicale contro l’assolutismo feudale.
La tattica difesa da Lenin non rappresenta alcuna novità per il marxismo: è la sola marxista e rivoluzionaria che il proletariato possa adottare nel corso di una rivoluzione borghese; era stata teorizzata da Marx e da Engels dopo il 1848. Vedi in particolare "Il partito proletario e comunista e i movimenti nazionali e democratici", in Il Programma Comunista, n.14, 1961. Questo legame rigoroso con la teoria marxista fu senza tregua proclamato da Lenin, gettato in faccia a Kautsky giusto dopo la vittoria d’Ottobre: «Kautsky si impegna a dimostrare, con citazioni d’appoggio, una nuova idea – il ritardo della Russia – e da questa idea trae la vecchia deduzione che nella rivoluzione borghese non si sarebbe potuto andare oltre la borghesia! E tutto ciò in disprezzo di tutto quello che avevano detto Marx ed Engels paragonando la rivoluzione borghese del 1789-1793 in Francia alla rivoluzione borghese del 1848 in Germania» ("La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky", Opere, 28, p.305-306).
Per tutti, la rivoluzione russa era dunque una rivoluzione borghese, con la sola
eccezione dei populisti, inventori d’un socialismo originale, nazionale e
panslavista!
5. – La storia ha dimostrato nell’ottobre del 1917 come una rivoluzione borghese poteva ben andare oltre la borghesia stessa: la rivoluzione d’Ottobre non “arricchisce” il marxismo, ma lo conferma. La rivoluzione russa trapasserà in una rivoluzione doppia, borghese e proletaria.
6. – Il contenuto essenziale del carattere borghese della rivoluzione russa
è rappresentato dall’abolizione della proprietà fondiaria e dalla nazionalizzazione
della terra: «La proprietà privata della terra è abolita in Russia fin dal 26
ottobre 1917, dal primo giorno della Rivoluzione proletaria
socialista. Così è posto il fondamento più adeguato dal punto di vista dello sviluppo del
capitalismo (ciò che Kautsky non poteva negare senza rompere con Marx), nello
stesso tempo predisponendo il regime agrario più aperto al passaggio al socialismo. Dal punto di vista democratico-borghese, i contadini rivoluzionari russi non possono andare oltre; perché da questo punto di vista, non potrebbero rivevere niente di più “ideale” e di più “radicale” (sempre dal loro punto di vista) che la nazionalizzazione ed il godimento egualitario della terra» (p.324-325).
L’abolizione della proprietà fondiaria e la nazionalizzazione della terra
abbattono gli ostacoli imposti dal feudalesimo alla formazione del mercato
interno. Dopo il 1917 tutta l’economia russa tende al capitalismo.
Lenin, dopo averlo previsto per vent’anni, lo riconosce nuovamente nel 1918 nella sua polemica con Kautsky, in un momento in cui il bolscevismo spera nella fusione della doppia rivoluzione russa con la rivoluzione proletaria in Occidente, quando Lenin conclude il testo che abbiamo citato con un saluto
alla rivoluzione proletaria tedesca.
Nel 1919, la rivoluzione tedesca è schiacciata. Ma nel 1921, quando imposta la
NEP, Lenin ripete ciò che diceva nel 1918 senza nessun “cambiamento”.
La continuità teorica del bolscevismo e la fedeltà al marxismo
sono perfette.
7. – Il contenuto socialista della doppia rivoluzione russa è essenzialmente
politico. Può essere individuato in tre fattori:
- Spezzate le catene della guerra imperialista;
- Denunciato il tradimento della Seconda Internazionale e fondazione
dell’Internazionale Comunista;
- Rivendicata la teoria marxista nelle questioni del Partito e dello
Stato in Russia e nel resto del mondo (Stato e Rivoluzione).
8. – La doppia rivoluzione russa non poteva essere premiata dalla vittoria definitiva del proletariato (ovvero dalla sua sparizione come classe) senza unirsi alla rivoluzione proletaria in Occidente. La degenerazione del potere politico proletario in Russia non era inevitabile. È tuttavia un fatto storico che questa degenerazione è avvenuta nelle condizioni previste da Marx e da Lenin: l’isolamento della rivoluzione russa dalla rivoluzione proletaria occidentale. Anche questo fatto storico ci dà il diritto di affermare che la degenerazione dello Stato proletario in Russia rappresenta una conferma e non una smentita del marxismo.
La contro-rivoluzione staliniana iniziata nel 1926 ha tolto alla rivoluzione russa i suoi caratteri socialisti che, come noi avevamo individuato, erano di natura politica e non economica. Entrando nella Società delle Nazioni, alleandosi nel corso della seconda guerra mondiale alla Germania nazista prima, alle democrazie occidentali in seguito, partecipando con queste ultime alla spartizione delle zone d’influenza a Yalta e a Potsdam e alla fondazione dell’ONU, l’URSS è diventata uno dei più solidi anelli della catena imperialista. La dissoluzione dell’Internazionale Comunista nel 1943 e l’abbandono delle posizioni marxiste sul Partito e sullo Stato accompagnarono l’entrata dell’URSS nel concerto imperialista. Nel 1945, le conquiste socialiste della rivoluzione russa erano dunque definitivamente distrutte. Lo Stato di Stalin non era più uno uno Stato proletario, nemmeno “degenerato”.
Se la contro-rivoluzione distrusse il contenuto socialista della Rivoluzione d’Ottobre, tuttavia dovette sviluppare il suo contenuto economico borghese. Questo sviluppo si effettuò attraverso un compromesso con i contadini (forma kolkhosiana) che rappresenta il vero contenuto populista di quella che abbiamo definito la teoria della “costruzione del socialismo in un solo paese”.
Occorre fare a questo punto una importante osservazione. Se nel corso della controrivoluzione il Partito bolscevico fu fisicamente distrutto da Stalin, il proletariato non si oppose a questa distruzione: la contro-rivoluzione staliniana non ha conosciuto alcuna fase di guerra civile aperta.
Questo “argomento” costituisce ancora oggi l’obiezione fondamentale dei “trotskisti” alla nostra tesi della degenerazione completa e totale della Russia sovietica. Una tale obiezione suppone un esame puramente formale ed estraneo alla dialettica del problema delle contro-rivoluzioni, di cui quella russa non è certo la prima. Lo studio delle contro-rivoluzioni del passato ci dimostra che la disfatta o la vittoria militare di una classe non ha sempre corrisposto alla sua sconfitta o alla sua vittoria sociale. Per esempio la borghesia francese fu vinta militarmente nel 1815 dall’assolutismo europeo, ma la Restaurazione non poté ristabilire l’Ancien Régime.
L’analisi di una contro-rivoluzione non va posta su una base ristretta, ma collegata al vasto insieme dei rapporti di classe e di Stati a scala mondiale. Nell’epoca imperialista in particolare. La posizione marxista riguardo alla contro-rivoluzione staliniana può quindi essere riassunta così:
– L’attuale economia russa non soltanto non è socialista, ma non lo è mai stata. La contro-rivoluzione staliniana non ha significato la regressione dell’economia russa da un socialismo, che non esisteva, al capitalismo, ma una degenerazione nella quale lo sviluppo verso il socialismo si è trasformato in un consolidamento puro e semplice del capitalismo, non solo in Russia ma in tutto il mondo. Questa degenerazione passa attraverso il compromesso con i contadini e con la piccola produzione mercantile (nella forma kolkhosiana). La contro-rivoluzione staliniana non ha dunque restaurato il capitalismo in Russia, ma ha permesso il suo sviluppo come modo di produzione dominante (1).
– Il potere socialista e proletario instaurato dalla Rivoluzione d’Ottobre si è trasformato in un potere politico pienamente borghese attraverso una degenerazione lenta e graduale che non ha dato luogo a una guerra civile aperta.
2.
LA “COSTRUZIONE DEL SOCIALISMO IN UN SOLO PAESE” ALLA LUCE DELLA POLEMICA CINO-IUGOSLAVA
Senza dubbio abbiamo dato prova in tutto quello fin qui esposto di uno schematismo ridicolo e restando deplorevolmente astratti riguardo a una questione così concreta e attuale come la polemica russo-cinese. Tuttavia, prima di proseguire all’esame dei problemi concreti, bisogna ricordare che le tesi marxiste sulla rivoluzione russa e sulla contro-rivoluzione staliniana che abbiamo qui riassunto sono state ristabilite dal nostro Partito nel 1951. Prima di dimostrare che proprio questi problemi astratti da noi studiati nel 1951 sono oggi risollevati dai dirigenti cinesi nella loro polemica anti-russa e anti-iugoslava, vogliamo dare questa breve definizione: i problemi astratti di oggi sono i problemi concreti del futuro.
Nel 1964, la polemica russo-cinese e cino-iugoslava presenta immediatamente questo macroscopico aspetto concreto: nella loro polemica i cinesi affermano perentoriamente che la Iugoslavia è un paese capitalista. Questa tesi clamorosa, concreta, attuale della polemica russo-cinese tutti gli interlocutori dei cinesi (kruscioviani, titini, pro-castristi, trotskisti, etc.) la lasciano prudentemente nell’ombra. Inutile soffermarsi sulle ragioni di questa prudenza. Quando i dirigenti cinesi sostengono brutalmente che l’economia iugoslava è capitalista, distruggono tutte le loro menzogne sulla “costruzione del socialismo in un solo paese”, del “paese del socialismo”, del “campo socialista”, ecc. Non è a caso che proprio Togliatti, segretario del P.C. italiano e vecchia volpe dello stalinismo, ha qualificato “pericolosa” la tesi cinese sull’esistenza del capitalismo in Iugoslavia. In realtà, da un punto di vista strettamente logico, se si comincia ad ammettere che la Iugoslavia è un paese capitalista, perché non riconoscere che l’URSS e la Cina, La Polonia e l’Albania, in breve, tutti i paesi dell’armonioso “campo socialista” lo sono ugualmente?
Il nostro partito non “dialoga” con nessuno e non è “in concorrenza” con nessuno, non è un “gruppo di pressione” o un “circolo di studi”: è il partito della Rivoluzione Comunista. La via che conduce dalla contro-rivoluzione alla rivoluzione il nostro Partito la percorre da trent’anni almeno e non l’ha mai abbandonata per inoltrarsi nei vicoli ciechi dove si esibiscono i prostituiti dell’attualità. La polemica russo-cinese è uno dei fatti storici che, distruggendo la la leggenda del “socialismo in un solo paese”, rimetteranno il proletariato sulla via della rivoluzione comunista e del partito di classe. Non sorprende che la storia elimini i seguaci dell’attualità concreta. Per quanto ci concerne, da molto tempo aspettiamo di vedere i “concretisti” alle prese con una realtà che li distrugge, con questa realtà concreta costituita dalle contraddizioni del capitalismo internazionale, dal proletariato rivoluzionario e dalla rivoluzione comunista.
Vediamo come i dirigenti cinesi formulano la tesi che l’economia iugoslava è capitalista. Un articolo apparso nel Remin Ribao e nello Hongqi il 26 settembre 1963 (la responsabilità della traduzione ricade sulle Editions Oriente che sono direttamente finanziate da Pechino e sono dunque degli interpreti “autorizzati” del vangelo maoista) è interessante perché espone tutti gli argomenti cinesi sul capitalismo iugoslavo.
In un primo momento i teorici del Rimin Ribao insistono sull’esistenza di imprese “artigianali” nell’industria e di una piccola produzione mercantile nelle campagne: «Sexondo il Memento de statistique de la Yugoslavia, nel 1963 si contano in Iugoslavia più di 115.000 imprese “artigianali” private”. Gli usurai sono particolarmente attivi nelle campagne iugoslave. Certi individui traggono vantaggio dalla situazione difficile dei disoccupati». «Le cooperative generali dei lavoratori agricoli e le fattorie collettive impiegano un gran numero d’operai, e in mezzo a loro dei giornalieri, che sfruttano duramente». I teorici del Rimin Ribao concludono questa prima parte delle loro argomentazioni con questa domanda: «Come si può pretendere che non ci sia più il capitalismo in Iugoslavia?».
In tutta la sua solennità questa domanda è facile ritorcerla sui cinesi. I fenomeni denunciati dai maoisti in Iugoslavia esistono nella stessa misura, se non superiore, in tutto il “campo socialista”. Nelle campagne cinesi gli “usurai” non pullulano forse? In Cina, non ci sono più “imprese artigianali”? Le “fattorie collettive” cinesi non impiegano forse “un gran numero d’operai e tra essi dei giornalieri, che sfruttano duramente”? La stessa domanda può essere posta a voi stessi, signori maoisti: «come si può pretendere che non ci sia più il capitalismo in Cina?»
Il primo argomento dei cinesi contri gli iugoslavi è dunque d’una desolante banalità: riconduce a riconoscere che dopo trent’anni di vittoriosa “costruzione del socialismo”, il socialismo... non è stato “costruito” da nessuna parte. Le classi dominanti di tutto il mondo l’hanno capito, anche se fingono il contrario davanti alle masse e all’opinione pubblica. Oggi Pechino è obbligata a sollevare il velo che dissimula la realtà capitalista di un “campo socialista” puramente fittizio: ecco indubbiamente un primo passo verso la confessione totale che la contro-rivoluzione stalinista sarà costretta a fare. Ma questo primo passo non toglie niente al ruolo contro-rivoluzionario passato e presente del maoismo, variante cinese dello stalinismo, e ugualmente non modifica in niente il suo ruolo futuro.
I teorici del Rimin Ribao preferiscono però non insistere troppo sulle “imprese artigianali” e sulla piccola produzione di merci nelle campagne iugoslave. La vera novità dell’articolo risiede nel definire l’economia iugoslava come capitalista. I dirigenti cinesi sono contrari a utilizzare la categoria alla moda nelle università: la burocrazia, sociologia volgare, un guazzabuglio ideologico che resterà negli annali della storia delle aberrazioni del pensiero umano. In primo luogo è interessante di ricordare che Djilas, l’ex- braccio destro di Tito, teorizzava a proposito della Iugoslavia proprio la formazione di una “nuova classe”: la burocrazia. Il libro di Djilas, La nuova classe, è diventato un “classico” della sociologia americana, così gli ideologi di Pechino si trovano senza saperlo in compagnia di Djilas e dei professori americani. Cosa può esserci di più comico?
Il lato comico dell’affare si accentua quando i maoisti si lanciano in espressioni di questo tipo: «Degenerazione della dittatura del del proletariato, trasformata dalla cricca di Tito in dittatura della borghesia burocratica e compradora». Che obbliga il valido traduttore delle Edizioni Oriente ad aggiungere questa nota che ha il merito dell’esattezza: «Termine qui impiegato per analogia a quella parte della borghesia nazionale che, in Cina, prima della Liberazione, aveva la funzione di comprare per conto dei capitalisti stranieri le merci destinate all’esportazione».
A quel che sembra, i soli “mercanti” borghesi che il maoismo conosce sono i borghesi “burocratici e compratori” della Cina di Tchang Kai-Check. La sola forma di capitale che i dirigenti cinesi si preoccupano di combattere, è la forma antidiluviana del capitale commerciale. Per gli ideologi di Pechino, evidentemente, il capitale industriale e la borghesia industriale sono altamente progressivi e utili all’interesse nazionale della “Grande Cina”. Tutto questo è logico e corrisponde alla funzione borghese-rivoluzionaria del maoismo, nella fase dell’industrializzazione capitalista che percorre attualmente la Cina.
Quello che non è assolutamente logico, che non è soltanto ridicolo ma aberrante, fu la pretesa del maoismo dal 1929 al 1949 di fare combattere il proletariato cinese contro la sola “borghesia burocratica e compradora”; è la pretesa del maoismo d’agitare davanti al proletariato, non solamente della Cina arretrata ma dell’Occidente super-industrializzato, lo spettacolo antidiluviano della “borghesia burocratica e compradora, e questo nel 1964!
Ricorrendo dunque a quella categoria della sociologia borghese che è la burocrazia, gli ideologi di Pechino presumono due concetti completamente differenti. Il primo, l’abbiamo visto, consiste nella “borghesia burocratica e compradora”. Nel linguaggio marxista ciò significa “capitale commerciale”. Storicamente la forma “mercantile” del capitale precede la sua forma industriale. Questo fatto si è verificato anche in Cina, nonostante le modifiche apportate dall’imperialismo. Autentici rappresentanti dello sviluppo del capitale industriale in Cina, i maoisti hanno combattuto il capitale mercantile cinese alleato all’imperialismo, la “borghesia burocratica e compradora” di Tchang Kaï-Check. Tutto questo è logico in Cina. Non in Europa. Quando i maoisti scrivono che in Iugoslavia esiste «la dittatura della borghesia burocratica e compradora», «la dominazione del capitale burocratico e compradore», cadono in un abisso ridicolo e aberrante.
Gli ideologi di Pechino sovrappongono a questa comica trasposizione in Occidente della forma mercantile del capitalismo cinese, la categoria della sociologia volgare americana, la burocrazia.
Naturalmente, procedono a questa strana operazione con la grazia classica dell’elefante nel magazzino di porcellane. La loro definizione della burocrazia è talmente grossolana che, in confronto, anche il libro di Djilas sembra levarsi alle cime di penetrazione teorica. Questo gli ideologi di Pechino sono arrivati a scrivere: «Tramite la riscossione delle imposte e degli interessi la cricca di Tito si appropria dei profitti delle imprese. Secondo i dati del Rapporto dell’attività del 1961 del Consiglio esecutivo federale iugoslavo, si impossessa così dei tre quarti circa dei guadagni netti delle imprese». «I frutti del lavoro del popolo di cui Tito s’appropria servono essenzialmente a soddisfare gli sperperi di questa cricca di burocrati».
E tutto ciò vorrebbe passare per un’analisi marxista dell’economia iugoslava! La “cricca di Tito” rappresenta nello stesso tempo lo Stato e l’economia! La “volontà” della cricca di Tito è la causa prima di ogni "sfruttamento"! Perché esiste il capitalismo in Iugoslavia? “Perché – rispondono gli ideologi di Pechino – esiste la cricca di Tito“. Perché la cricca di Tito “s’appropria dei frutti del lavoro del popolo?”. “Perché, rispondono gli ideologi di Pechino, la cricca di Tito vuole dilapidare le ricchezze prodotte dal popolo”. E così di seguito all’infinito. Secondo i maoisti questa “cricca” riesce persino a dilapidare “i tre quarti circa delle entrate nette delle imprese”. Secondo gli ideologi di Pechino la “cricca di Tito” non è costretta a obbedire a delle leggi economiche determinate, nella fattispecie quelle del modo di produzione capitalista: fa la pioggia e il bel tempo nell’ambito economico; è una “cricca”, tutto qui! La riscossione delle imposte non è fatta nell’interesse delle imprese: in altri termini, per gli ideologi cinesi la “cricca di Tito” non è uno strumento delle imprese capitaliste iugoslave. Sono al contrario le imprese che sono uno strumento della “cricca”! L’economia iugoslava esiste solamente in funzione di questa”cricca” e non il contrario. Le “dilapidazioni”, le bisbocce della “cricca di Tito” rappresentano per i maoisti la causa prima, il motore immobile della società e dell’economia iugoslave. Marx, un secolo fa, scrisse quattro tomi intitolati Il Capitale. Che ingenuità! “La baldoria” doveva intitolare la sua opera!
Con la “cattiva volontà” della “cricca di Tito”, che “dilapida” “i frutti del lavoro del popolo” iugoslavo, che fa bisboccia “con i tre quarti circa dei ricavi netti delle imprese” estorti grazie alla “riscossione delle imposte”, i maoisti spiegano la natura capitalista dell’economia iugoslava. Perché questo ragionamento non potrebbe essere applicato alla “cricca di Mao”, alla “cricca di Pechino”? E chiaro quello che sta succedendo: i dirigenti di Pechino parlano dei “cattivi” di Belgrado e di Mosca, mentre i dirigenti di Belgrado e di Mosca a loro volta parlano dei “cattivi” di Tirana e di Pechino, “assetati di sangue”, emuli di Gengis Khan”. Saremmo in presenza di una polemica “marxista” quando il dibattito non raggiunge nemmeno il livello (se così si può dire) dell’ideologia borghese e della sociologia volgare? La polemica russo-cinese e cino-iugoslava non è ne teorica ne ideologica: gli “argomenti” di questa polemica sono fabbricati negli uffici diplomatici degli Stati interessati. Ed è da questo dibattito “elevato” sulle “dilapidazioni” di queste “cricche” che dovrebbe dipendere la sorte del proletariato internazionale?!
Il terzo elemento che utilizzano i dirigenti cinesi per sostenere che l’economia iugoslava è capitalista presenta almeno un’apparenza di marxismo. Si tratta della questione della centralizzazione o decentralizzazione dell’economia. In questo ambito i maoisti pensano di avere buon gioco, ma non fanno che provare la loro malafede. Alla pagina 11 del testo che abbiamo citato, ricordano giustamente la polemica di Lenin contro “l’opposizione operaia” e accusano il sistema dell’ ”autogestione” iugoslava di non avere niente in comune con il socialismo. Da un punto di vista formale, nessun leninista può sostenere che i cinesi abbiamo torto su questo. In ogni caso, non è certo da Mao che possiamo imparare queste cose. Il Partito Comunista Internazionale è stata la sola corrente dell’opposizione anti-staliniana a denunciare fin dall’inizio la deviazione anti-marxista rappresentata dal sistema iugoslavo della “autogestione”. Nel 1952. il nostro Partito “difese” Stalin di fronte le accuse dei titini sulla questione della centralizzazione dell’economia. Nel 1957, nel testo I fondamenti del comunismo rivoluzionario apparso nel n° 1 di Programme Communiste, denunciammo nel krusciovismo la vittoria delle tesi titine in materia di decentralizzazione. Infine nel 1962, davanti al trionfo delle posizioni dell’economista Liberman e di fronte alla divisione del PCUS in due sezioni, agricola e industriale, il nostro Partito ha riconosciuto la vittoria definitiva del titoismo nella Russia di Kruscev. Se dunque la frase “storica” pronunciata da Krusciov in Slovenia, davanti al maresciallo Tito: «Le “differenze” che esistevano tra i partiti comunisti dell’Unione Sovietica e della Iugoslavia sono appianate», se dunque questa frase “storica” ha potuto sorprendere qualcuno, non certamente noi!
Ma la concordanza formale delle tesi maoiste con la teoria marxista non riesce a dissimulare l’ipocrisia e la malafede dei cinesi che ricorrono nella loro polemica anti-iugoslava a un trucco meschino: l’identificazione della centralizzazione economica con il socialismo. Non una parola sul fatto che la centralizzazione economica è innanzi tutto una conseguenza del capitalismo, conseguenza che il socialismo conserva. Per questo sono obbligati ad ammorbidire le citazioni di Marx e di Engels alle quali ricorrono. Ecco un piccolo esempio di questo modo cinese, tutto staliniano, di citare i classici del marxismo. Alla pagina 11 del testo citato troviamo: «Nell’Anti-Dühring Engels afferma: “Il proletariato s’impossessa del potere di Stato e trasforma i mezzi di produzione in proprietà di Stato”».
Per i maoisti qui tutto il pensiero dì Engels. La maniera è di interrompere le citazioni nel puto dove “serve”. Questa la citazione completa: «Ma né la trasformazione in società per azioni, né la trasformazione in proprietà dello Stato sopprime la qualità del capitale delle forze produttive. E lo Stato moderno non è a sua volta che l’organizzazione che la società borghese si dà per mantenere le condizioni esteriori generali del modo di produzione capitalista contro le intromissioni che vengono dagli operai come dai singoli capitalisti. Lo Stato moderno, qualunque sia la sua forma, è una macchina essenzialmente capitalista: lo Stato dei capitalisti, il capitalista collettivo nell’immaginario collettivo. Più fa passare le forze produttive in sua proprietà, più diventa capitalista collettivo, nei fatti, più sfrutta i cittadini. Gli operai restano dei salariati, dei proletari. Il rapporto capitalista non è soppresso, è al contrario spinto al suo culmine. Ma arrivato al suo culmine, si rovescia. La proprietà dello Stato sulle forze produttive non è la soluzione del conflitto, ma racchiude in essa il mezzo formale, il modo di afferrare la soluzione».
Engels parla qui di “rapporto capitalista”, afferma che “il rapporto capitalista non è soppresso”, infatti “gli operai restano salariati, dei proletari”, anche con “la proprietà dello Stato sulle forze produttive”. Il “conflitto” essenziale contenuto nel “rapporto capitalista”, il “conflitto” tra capitale e lavoro salariato, non si può risolvere che con la distruzione dei due termini in conflitto, con la distruzione del capitale e del lavoro salariato. Il lavoro salariato, l’antitesi, non può distruggere la tesi, il capitale, senza autodistruggersi. Engels non si balocca con delle formule hegeliane, come non mancheranno di pensare gli “estremisti di sinistra” che sorridono del nostro continuo riferimento al “dogma” marxista. La dialettica con la quale abbiamo a che fare, per quanto possa dispiacere all’ “anti-dogmatismo” oggi di moda, è il riflesso della dialettica reale del modo di produzione capitalista nel cervello impersonale del partito di classe. Ciò è così vero che questa dialettica reale ha permesso a Engels di prevedere ciò che imbarazza oggi così crudelmente gli ideologi russi, iugoslavi e cinesi, così come evidentemente, tutti gli “estremisti anti-dogmatici”: la proprietà dello Stato sulle forze produttive non sopprime il rapporto capitalista, né sopprime il conflitto tra capitale e lavoro salariato.
Dal punto di vista storico, se il capitalismo nasce, si sviluppa ed entra in decadenza prima di morire; se, come mezzo storico specifico di produzione, percorre successivamente delle fasi differenti, in quanto modo generico di produzione, riproduce un solo rapporto essenziale (il salariato) ed è riprodotto da questo stesso.
Engels definisce implicitamente, nel passaggio citato dell’Anti-Duhring, le
determinazioni essenziali del rapporto capitalista: produzioni di merci, lavoro
salariato. Vogliamo tuttavia riprodurre, per la sua chiarezza assoluta, una
pagina inedita dei manoscritti di Marx, che andreamo a pubblicare come
“Sesto capitolo del Capitale”. Marx scrive dunque (“Il processo di produzione capitalistico visto nel suo insieme”):
«Si ricava dalla produzione un valore superiore alla somma di valori anticipati per il processo di produzione e nel suo corso. La stessa produzione di merci appare come mezzo a questo fine, così come in generale il
processo di lavoro appare solo come mezzo del processo di valorizzazione. Bisogna intendere qui il processo di valorizzazione come processo di creazione
del plusvalore, e non nel senso che aveva precedentemente, come processo di
creazione del valore.
«Ma questo risultato si ottiene nella misura in cui il lavoro vivente che l’operaio deve eseguire, e che si oggettiva poi nel prodotto del suo lavoro, è più
grande del lavoro contenuto nel capitale variabile speso nel salario; in altri
termini, del lavoro necessario alla riproduzione della forza del lavoro.
«In quanto il valore anticipato diventa capitale solamente riproducendo del plusvalore, la genesi del capitale riposa anzitutto, come processo di riproduzione capitalista, su questi due elementi:
«In primo luogo, l’acquisto e la vendita della capacità di lavoro, ovvero un
atto che si svolge nella sfera della circolazione, ma che, se si considera
l’insieme del processo di produzione capitalista, non è solamente uno dei suoi elementi e la sua premessa, ma come il suo risultato costante.
«Questo acquisto e questa vendita della forza lavoro implicano la separazione delle condizioni oggettive del lavoro – ovvero dei mezzi di sussistenza e di produzione – dalla forza vivente del lavoro, essendo quest’ultima l’unica proprietà di cui
dispone l’operaio e l’unica merce che può vendere.
«Questa separazione è così avanzata che le condizioni di lavoro stanno di fronte
all’operaio come persone autonome, il capitalista, il loro possessore non
essendo che la loro personificazione in opposizione a l’operaio, semplice
possessore della capacità di lavoro. Questa separazione e questa autonomia sono
una condizione preliminare all’acquisto e alla vendita della forza lavoro e
all’incorporazione del lavoro vivente al lavoro morto per conservarlo e
accrescerlo, ovvero per la sua auto-valorizzazione.
«Senza questo scambio del capitale variabile contro la forza lavoro, non ci
sarebbe nessuna auto-valorizzazione del capitale totale, e dunque nessuna formazione di capitale, né alcuna trasformazione dei mezzi di produzione e di
sussistenza in capitale.
«In secondo luogo, c’è il vero processo di produzione, ovvero il vero processo
di consumo della forza lavoro comperata dal possessore di merci e di
denaro.
«Nel processo di produzione reale, le condizioni oggettive del lavoro – materia prima e mezzi di lavoro – non servono solamente ad oggettivare il lavoro
vivente, ma ad oggettivare più lavoro che non ne contenga il capitale
variabile. Esse servono dunque come mezzo di assorbimento e di estorsione
del pluslavoro, che si manifesta nel plusvalore (ed nel plusprodotto).
«Consideriamo ora i due elementi: 1° lo scambio della forza lavoro contro il
capitale variabile; 2° il vero e proprio processo di produzione (in cui il lavoro vivente è incorporato come agente nel capitale).
L’insieme del processo appare come un processo dove: 1° meno lavoro oggettivato è
scambiato contro maggior lavoro vivente, poiché di fatto il capitalista riceve dal lavoro vivente in cambio del salario; e 2° le forme oggettivate che il capitale riveste
immediatamente nel processo del lavoro, i mezzi di produzione (dunque ancora
del lavoro
oggettivato) come mezzo per spremere e assorbire questo lavoro vivente. Il tutto forma un processo che si svolge tra il lavoro vivente ed il lavoro oggettivato. Questo processo non trasforma solamente il lavoro vivente in lavoro oggettivato,
ma anche il lavoro oggettivato in capitale, e dunque anche il lavoro vivente in
capitale. È dunque un processo dove c’è produzione non soltanto di merci, ma di
plusvalore, e dunque di capitale.
«I mezzi di produzione rivestono qui la forma non solamente di mezzi per la realizzazione del lavoro, ma nello stesso tempo di sfruttamento del lavoro
altrui».
Carlo Marx stabilisce che «la creazione del capitale poggia essa stessa, prima di tutto, come il processo di produzione capitalista, su questi due elementi: 1° lo scambio della forza lavoro contro il capitale variabile; 2° il vero processo di lavoro (dove il lavoro vivente è incorporato come agente del capitale)». Carlo Marx dimostra che il primo elemento sul quale si fonda “il processo di produzione capitalista”, ovvero “l’acquisto e la vendita della capacità del lavoro”, non è semplicemente “un atto che si sviluppa nella sfera della circolazione”, non è, in altri termini, un atto che fa parte della circolazione e della distribuzione del profitto, ma «se si considera l’insieme del processo di produzione capitalista, non è solamente uno dei suoi elementi e la sua premessa, ma il suo risultato costante». Il processo di produzione capitalista, dunque, in ciascuna delle sue fasi storiche, è generato da questo rapporto essenziale che genera a sua volta: l’acquisto e la vendita della capacità di lavoro. Questo rapporto è dunque “non solamente uno dei suoi elementi e la premessa” del processo di produzione capitalista, “ma ancora il suo risultato costante”. Come il capitale non è né il titolo di proprietà, né la persona di Ford, ma un processo storico, economico, sociale, questo processo stesso produce le sue proprie condizioni in quanto risultati e riproduce nelle suoi risultati le sue proprie condizioni. È per questo che Carlo Marx può scrivere quel che si trova con lettere di fuoco nei suoi “Annali della preistoria umana” che sono i capitoli della ottava sezione del primo libro del Capitale: «Questo acquisto e questa vendita della forza lavoro implica la separazione delle condizioni effettive del lavoro – ossia di sussistenza e di produzione – dalla forza vivente del lavoro, essendo quest’ultima l’unica proprietà di cui dispone l’operaio e l’unica merce che può vendere».
Dall’accumulazione primitiva all’imperialismo, dalla manifattura alla “proprietà dello Stato sulle forze produttive”, il rapporto essenziale del processo di produzione capitalista è uno: “La separazione delle condizioni oggettive del lavoro dalla forza vivente del lavoro”, altrimenti detta la trasformazione in merce della forza lavoro, e la trasformazione in capitale “delle condizioni oggettive del lavoro, ovvero dei mezzi di sussistenza e di lavoro”. Siamo dunque in presenza di «un processo che si sviluppa tra il lavoro vivente e il lavoro oggettivo. Il processo non trasforma solamente il lavoro vivente in lavoro oggettivo, ma anche il lavoro oggettivo in capitale, e dunque anche il lavoro vivente in capitale».
Dopo il 1848, il nostro programma implica dunque la lotta per un processo di produzione sociale nel quale il lavoro vivente si trasforma sì in lavoro oggettivato, ma nel quale il lavoro oggettivato non si trasforma in capitale: nel quale, dunque, il lavoro oggettivato sia al servizio del lavoro vivente, e non inversamente il lavoro vivente al servizio del lavoro oggettivato, come avviene quando il lavoro vivente e il lavoro oggettivato assumono la forma capitale. E perché ciò si possa verificare lo sappiamo dal 1848: che deve essere distrutto il rapporto essenziale del capitalismo: l’acquisto e la vendita della capacità del lavoro.
Sappiamo anche da altrettanto tempo che la proprietà giuridica dei mezzi di produzione non è in alcun modo l’essenza del rapporto capitalista, e non abbiamo neanche bisogno di scoprire lo Stato capitalista collettivo di Engels o l’associazione unica dei capitalisti di Marx per non trovare alcunché di nuovo nel capitalismo di Stato: la scuola marxista ha anticipato queste forme che la realtà conferma. Con grande terrore dei nostri nemici perché dal 1848 sappiamo che «questa separazione si è così spinta avanti che le condizioni di lavoro stanno di fronte all’operaio come persone autonome, il capitalista, il loro possessore, che non è che la sua personificazione in opposizione all’operaio».
Di tutto ciò, i maoisti non sanno niente. A tal punto che se noi, che abbiamo definito dalla sua nascita il regime di Tito come capitalista, dovremmo scegliere, oggi, tra Kruscev che definisce “socialista” la Iugoslavia e Mao che l’etichetta come “capitalista”, non sapremmo a quale dei due assegnare la palma dell’antimarxismo.
* * *
La “questione iugoslava”, per nostra disgrazia e quella dei nostri lettori, non termina qui. Nella loro polemica i cinesi sollevano ancora due importanti questioni alle quali dobbiamo fare riferimento prima di trarre delle conclusioni generali.
I maoisti sostengono che nel 1945 fu instaurato non solamente un potere politico socialista in Iugoslavia, ma che vi si produsse contemporaneamente una trasformazione socialista dell’economia. Nell’articolo citato, parlano a più riprese di “leggi socialiste pianificate”, di “imprese che, all’origine, erano proprietà di tutto il popolo”, per concludere: «Il settore economico della proprietà di tutto il popolo è degenerato in economia di capitalismo di Stato» e «La degenerazione del potere di Stato in Iugoslavia è sfociata nella distruzione del sistema economico socialista». E aggiungono: «La degenerazione del potere di Stato in Iugoslavia non è stata accompagnata da un capovolgimento del vecchio potere per mezzo della violenza (...) Gli stessi individui, la cricca di Tito detengono il potere». «La restaurazione del capitalismo in Iugoslavia ci insegna che in un paese socialista la restaurazione del capitalismo non avviene necessariamente con un colpo di Stato contro-rivoluzionario, né con un’invasione armata dell’imperialismo, si può produrre anche con la degenerazione del gruppo dirigente del paese».
All’inizio di questa analisi della questione iugoslava alla luce della polemica russo-cinese, abbiamo ricordato che i problemi “astratti” sono i problemi concreti del futuro. Quando il nostro Partito affrontò nei 1951 l’analisi della controrivoluzione staliniana, dovette risolvere il problema dell’assenza “di un’invasione armata dell’imperialismo” e di una “guerra civile”. Abbiamo ricordato quale soluzione abbiamo dato a questo grave problema della contro-rivoluzione. I maoisti prima di tutto, per ragioni che non hanno niente a che vedere con il marxismo ma soltanto con gli interessi dello Stato cinese, per sostenere oggi che l’economia iugoslava è capitalista si trovano di fronte lo stesso problema. Ma il modo in cui lo risolvono non è soltanto un capolavoro d’antimarxismo: è un insulto ignobile al socialismo!
Né Lenin, né noi, né alcun marxista ha mai sostenuto che l’economia russa era diventata socialista nel 1918, o nel 1923, o nel 1926. La contro-rivoluzione staliniana ha distrutto in Russia il potere politico socialista. Questa contro-rivoluzione non è sopraggiunta, è vero, in seguito ad un’invasione condotta dall’imperialismo e non si è nemmeno scatenata all’interno di una guerra civile vera e propria. Ma è un fatto storico che si è realizzata con “un colpo di Stato contro-rivoluzionario”, per utilizzare i termini degli ideologi di Pechino; è un fatto storico che ha distrutto il partito bolscevico all’interno della Russia e dell’Internazionale Comunista nel mondo intero; è un fatto storico che ha dovuto assassinare il fior fiore del proletariato rivoluzionario russo e che dopo il suo passaggio “gli stessi individui... non detenevano più il potere”.
I maoisti sostengono che nel 1945 non solamente un potere politico socialista fu instaurato in Iugoslavia, ma anche che fu “costruita” un’economia socialista. E hanno la pretesa di convincere il proletariato mondiale che “gli stessi individui” lo stesso “gruppo dirigente”, la “cricca di Tito”, governava la Iugoslavia economicamente e politicamente socialista e governa oggi la Iugoslavia economicamente e politicamente capitalista.
Se, per ipotesi assurda, fosse vero, i maoisti sarebbero solamente riusciti a dare la prova che un’economia socialista può degenerare in economia capitalista nel modo più pacifico possibile, senza violenza; ciò ritornerebbe a provare la superiorità del modo di produzione capitalista sul modo di produzione socialista, a provare che il capitalismo può riassorbire pacificamente il socialismo. In realtà, il “socialismo” di cui parlano i maoisti è il capitalismo puro e semplice. Le “leggi dell’economia socialista pianificata” di cui si ubriacano gli ideologi di Pechino, sono le leggi staliniste della "progressione geometrica della produzione", le leggi del Capitale e dei suoi adoratori.
Se oggi mille prove reali provano la veridicità delle nostre affermazioni, i maoisti stessi ce ne forniscono la milleunesima per la bocca dei loro accoliti di Tirana. Perché, tra tutte le cose strane che si può vedere in questo mondo, c’è questa: mentre i maoisti scrivono che dal 1945 al 1948 l’economia iugoslava era socialista, gli albanesi scrivono esattamente il contrario in un articolo intitolato "La cooperazione economica dei revisionisti iugoslavi". Su "Zeriti populi" del 6 giugno 1963, in Edizioni Oriente, n.3, accusano Tito d’aver tentato di colonizzare l’Albania nel 1945: «questo atteggiamento e questa politica dei revisionisti iugoslavi era del tutto identica alla politica d’asservimento praticata dai fascisti italiani nei riguardi del nostro paese».
Poiché i cinesi hanno pubblicato quest’articolo riteniamo che lo condividano. Ciò che definiscono "economia socialista pianificata" (instaurata in Iugoslavia nel 1945) non è dunque per la loro stessa ammissione che un’economia capitalista pura e semplice e i governi che l’hanno "costruita" conducono una "politica identica alla politica fascista". Il "socialismo nazionale" conduce dunque ai medesimi risultati del "nazional-socialismo".
Grazie, noi l’abbiamo sempre saputo e sempre affermato.
3.
LA REALTÀ HA DEFINITIVAMENTE DISTRUTTO LA “TEORIA” DELLA “COSTRUZIONE” DEL SOCIALISMO IN UN SOLO PAESE
Mao non ha dichiarato guerra alla Iugoslavia per sport o per fare mostra d’una ortodossia inesistente. Nelle sue mani la Iugoslavia non è che una pedina di cui si serve contro Kruscev. Sostenendo che la Iugoslavia è un paese capitalista, Mao si riserva la possibilità di dire altrettanto domani della Russia kruscioviana. In questo gioco diplomatico-ideologico, può utilizzare la scomunica stalinista della Iugoslavia nel 1948.
Ma in questa schermaglia ideologica Krusciov potrebbe essere più stalinista di Mao e batterlo sul suo terreno, perché Stalin mai ammise che la rivoluzione maoista avesse raggiunto la "tappa" socialista e, dopo, nemmeno Krusciov l’ha fatto. A tal punto che, mentre Mao dovrà forgiare degli audaci sofismi per spiegare al proletariato cinese e internazionale "la degenerazione pacifica della Iugoslavia e dell’URSS dal socialismo al capitalismo, Krusciov, non avrà bisogno di fornire alcuna spiegazione per sostenere la recente e sorprendente “nazificazione” della Cina perché non ha mai riconosciuto che vi fosse stato “edificato il socialismo”. Per Stalin come per Krusciov la Cina ha vinto l’imperialismo e so sta impegnando a lottare contro il “feudalesimo”. Tutto qui!
Così crolla la teoria della contro-rivoluzione, la “costruzione del socialismo in un solo paese”. L’ironia della storia ha voluto che ci sia più di un paese che si vuole costruire il socialismo in casa; l’ironia della storia ha voluto che i paesi che hanno costruito il socialismo in un solo paese s’accusino reciprocamente d’aver costruito il capitalismo; l’ironia della storia vorrà forse domani che questi stessi paesi si dichiarino la guerra.
Ma il proletariato internazionale, tramite il suo partito di classe, già nel 1926 proclamò contro Stalin che il socialismo nascerà solo dopo la rivoluzione comunista mondiale, dalla distruzione del capitalismo in tutti i paesi.
Nella prima parte di questo studio per trarre gli insegnamenti della polemica russo-cinese abbiamo dimostrato che la rottura tra Mosca e Pechino distrugge definitivamente la teoria anti-marxista “della costruzione del socialismo in un solo paese”. Dopo esserci richiamati alle tesi marxiste essenziali sulla rivoluzione russa e sulla sua degenerazione, abbiamo analizzato le posizioni maoiste sulla natura capitalista della Iugoslavia mettendo in evidenza che cinesi, russi e iugoslavi sono ugualmente anti-marxisti. Prima di procedere all’esame della polemica russo-cinese a proposito delle rivoluzioni anti-coloniali, vorremmo aggiungere qualche osservazione per completare questa la parte di questo studio.
4.
LA POSITIONE DEI RUSSI SULLA NATURA DELLA RIVOLUZIONE CINESE PRIMA DEL 1956
Concludevamo la prima parte ricordando che ”Stalin non ha mai riconosciuto che la rivoluzione maoista abbia raggiunto la tappa socialista” e che “per Stalin la Cina ha vinto l’imperialismo e si sta impegnando a lottare contro il “feudalesimo”. La posizione ideologica degli stalinisti nei confronti della vittoria del maoismo in Cina, dal 1949 al 1956, meriterebbe un’analisi approfondita. Ci limiteremo a provare con l’aiuto di qualche citazione l’esattezza di quello che affermiamo.
Nel rendiconto dei festeggiamenti dati in onore del settantesimo anniversario di Stalin (dicembre 1949), a cui Mao assistette, la Pravda distingueva sottilmente tra “le democrazie popolari impegnate nella lotta per l’edificazione del socialismo” e la Cina che aveva solamente infranto “il giogo dell’oppressione coloniale”. Nel 1951, le Izvestia criticarono duramente l’opinione secondo la quale la rivoluzione cinese avrebbe superato i limiti di una rivoluzione democratica-borghese e “antifeudale” e implicherebbe degli elementi socialisti. In un dibattito organizzato dall’Accademia delle Scienze Sovietiche nel novembre del 1951, Zukov dichiarò che la Cina sarà assorbita ancora per “tanto tempo” nell’eliminazione delle “vestigia del feudalesimo”, e negò che si potesse “proporre la Cina come modello alle rivoluzioni nazionali, popolari e democratiche dell’Asia”. V. Avarnic, in un articolo del febbraio 1950 sul Voprosy Economiki, assegnava alla rivoluzione cinese il compito di “creare le condizioni preliminari che le permetteranno un giorno di impegnarsi nella costruzione delle basi dell’economia socialista”.
La teoria menscevica della “rivoluzione per tappe”, che era servita al maoismo per bandire la doppia rivoluzione in Cina, si rivelava dunque un’arma a doppio taglio. Stalin e i suoi successori l’utilizzarono in effetti per interdire alla Cina di “raggiungere la tappa socialista”, in altre parole d’industrializzare la Cina in maniera capitalista.
5.
LE COMUNI POPOLARI E IL PIANO SETTENNALE (1958-1961)
La storia riterrà probabilmente che l’umanità nel periodo 1958-61 – in Europa soprattutto – abbia raggiunto il culmine della cretinismo collettivo. Ma chi getta un occhio sul ventennio che ci separa dalla fine della seconda guerra mondiale può distinguere due altre vette di follia collettiva, che ha accompagnato la distruzione di ogni energia rivoluzionaria della classe operaia. Tra il 1944 e il 1947, il periodo della “unità antifascista”, milioni di uomini credettero che, morti i “criminali di guerra” Hitler e Mussolini, i Quattro Grandi avrebbero inaugurato l’era della “pace,della democrazia e del socialismo”. Poi tra il 1949 e il 1953 gli stessi credettero alla guerra imminente tra il “campo socialista” e il “campo imperialista”. Ma tra il 1958 e il 1961 – dalla nascita delle Comuni Popolari in Cina al lancio dei piani di 7, di 15 anni e di 20 – questi culmini della follia saranno superati. Oggi, mentre la rottura tra la Russia e la Cina suona il rintocco funebre della controrivoluzione stalinista e s’avvicina l’ora della verità e del rendiconto, mentre appaiono all’orizzonte i primi segni minacciosi della crisi economica e della guerra imperialista, da cui scaturirà la rivoluzione proletaria, solo oggi si può misurare il culmine d’impostura e d’infamia che raggiunse l’opportunismo tra il 1958 e il 1961.
Nel 1958, non solamente le cause reali e oggettive che avrebbero trascinato alla rottura russo-cinese esistevano già, ma erano perfettamente conosciute e discusse nel cerchio ristretto della diplomazia segreta degli Stati orientali e occidentali (2). Tuttavia, non filtrava nulla all’esterno nei discorsi dei primi ministri o nelle colonne dei quotidiani: apparentemente Krusciov e Mao proseguivano allora il più tenero idillio di tutta la storia dei rapporti tra la Cina e la Russia.
Si pensi alla “folle” atmosfera di quegli anni! Dall’alto della tribuna del XX Congresso Krusciov lanciava la “coesistenza pacifica” e le sue rivelazioni sul “culto della personalità” e i “crimini di Stalin”. La Cina predicava i Cinque Principi della coesistenza pacifica alle conferenze di Colombo e Bandung nel 1954 e nel 1955 e proclamava a Varsavia nel 1957, dalla bocca di Mao, la dottrina dei “Cento Fiori”, che apparve a tutti più kruscioviana di quella dello stesso Kruscev. Nel novembre del 1957, mentre si svolgeva a Mosca la Conferenza dei partiti comunisti, era stato lanciato il primo Sputnik mentre per Mao inneggiava che “Il vento dell’est è più forte del vento dell’ovest”. Nell’estate del 1958 l’incontro “storico” tra Krusciov e Mao Tse-tung terminava il 3 agosto con un comunicato nel quale, dopo aver constatato l’”atmosfera d’eccezionale cordialità” e la totale “identità di vedute”, si affermava: «La politica di pace dell’URSS e della Repubblica Popolare di Cina beneficia sempre più dell’appoggio e delle simpatie dei popoli di tutti i paesi. L’India, l’Indonesia, la RAU e gli altri Stati e popoli dell’Asia, dell’Africa, dell’America e dell’Europa assumono un ruolo nel consolidamento della pace. Le forze di pace conoscono dappertutto uno sviluppo senza precedenti». Questo dolce idillio della pace, dei sorrisi e dei “cento fiori di loto” universali, riassunto nella frase allora di moda negli ambienti opportunisti “i Cinesi sono buoni, e i russi stanno per diventarlo”, fu, coronato dal lancio delle Comuni Popolari e dal piano settennale. Dopo aver predicato la pace universale, Krusciov e Mao promisero allora ai 700 milioni di cinesi, ai 200 milioni di russi e al proletariato internazionale “il comunismo in una generazione, il comunismo a portata di mano”.
La risoluzione del 10 dicembre del 1958 del comitato centrale del PCC proclamava: «Le Comuni... accelereranno l’avvento della costruzione socialista e costituiranno la migliore forma per realizzare le due trasformazioni essenziali nel nostro paese: 1) la trasformazione della proprietà collettiva in proprietà di tutto il popolo nelle campagne; 2) la trasformazione della società socialista in società comunista». Per quanto riguarda la prima trasformazione, la risoluzione adottata dal Politburo del PCC il 29 agosto del 1958 spiegava che: «È preferibile attualmente mantenere la proprietà collettiva al fine di evitare delle complicazioni inutili nel corso della trasformazione della proprietà. Infatti la proprietà collettiva nelle comuni popolari contiene già certi elementi caratteristici della proprietà di tutto il popolo». Questi “elementi caratteristici della proprietà di tutto il popolo” erano così elencati nella risoluzione del 10 dicembre già citato: «Le comuni popolari rurali e le organizzazioni fondamentali dello Stato sono state riunite; le banche, i magazzini e le altre imprese appartenenti al popolo, che esistevano già prima nelle campagne, sono state affidate all’amministrazione delle comuni; le comuni hanno partecipato alla costruzione di certe imprese, industriali o altro, che appartengono a tutto il popolo per loro natura, etc...».
Facciamo qualche osservazioni.
Innanzi tutto, la formula “proprietà di tutto il popolo” è del tutto anti-marxista e anti-leninista, proprio come quella che l’accompagna sovente: “proprietà della nazione”. Vedere a questo proposito il "Dialogato con Stalin". Si tratta di una pretesa fondamentale del revisionismo stalinista, che l’abbiamo anche incontrata per la penna dei maoisti all’epoca della loro polemica anti-iugoslava.
Inoltre la Comune rompe con il centralismo difeso da Engels a Lenin e che i cinesi invocano falsamente contro gli iugoslavi, proponendo le stesse cose, se non peggio dei consigli di gestione delle imprese nella Iugoslavia di Tito. Secondo la lettera della risoluzione del comitato centrale del PCC, le Comuni popolari si vedono attribuire le funzioni equivalenti a quelle dei “consigli economici regionali“ (Sovnarkhoz) istituiti in Russia dalla riforma kruscioviana del 10 maggio 1957. Il ragionamento che utilizzano i maoisti per scoprire “elementi della proprietà di tutto il popolo” contenuti nelle Comuni è la quintessenza della sofistica: poiché le Comuni fanno quello che dovrebbe fare lo Stato (depositario della “proprietà di tutto il popolo”), poiché “le banche, i magazzini e altre imprese appartenenti al popolo” (ovvero allo Stato) sono affidate alle Comuni, poiché “la costruzione di certe imprese, industriali o altro, appartenenti a tutto il popolo per la loro stessa natura” è realizzata dalle Comuni e non dallo Stato, dunque, concludono i maoisti, “la proprietà collettiva” delle Comuni si innalza al livello della “proprietà di tutto il popolo” (proprietà di Stato).
I maoisti suppongono evidentemente che i lettori delle dichiarazioni del Comitato Centrale del PCC ignorino le regole della logica e s’aspettano che prendano per buona dialettica i loro miserabili sofismi. Ma non si riuscirà mai a provare che se i capitali e le officine che sono proprietà dello Stato diventano proprietà delle Comuni, sono le Comuni che si alzano al livello dello Stato, e non il contrario che lo Stato si abbassa al livello delle Comuni.
Infine, “la proprietà di tutto il popolo”, questa formula demagogica e volgare che i cinesi hanno appreso dai manuali stalinisti, non rappresenta né il socialismo, né il comunismo, ma solo il capitalismo di Stato integrale nell’industria e nell’agricoltura.
Stalin aveva distinto due forme di "proprietà socialista": la proprietà cooperativa (che i cinesi chiamano “collettiva”) e la “proprietà di tutto il popolo”. Secondo Stalin, la “proprietà cooperativa” kolchosiana conteneva un importante “elemento” di “proprietà di tutto il popolo”: le Stazioni di Macchine e Trattori, grazie alle quali lo Stato dominava (o credeva di dominare) i kolchos. Il risultato dunque di tutto ciò è che Stalin era meno sofista dei Cinesi, e che i kolchos russi erano un milione di volte più vicini alla “proprietà di tutto il popolo” (ovvero al capitalismo di Stato) che non le effimere Comuni popolari cinesi. La nostra conclusione: gli ideologi cinesi non hanno soltanto rinnegato Marx, Engels e Lenin in materia di centralizzazione dell’economia, ma hanno anche rinnegato Stalin, di cui tuttavia continuano ad adorare le icone: la loro pretesa opposizione a Tito e a Krusciov sulla questione della decentralizzazione dell’economia non è che un’altra menzogna.
Analizzare l’economia cinese, le Comuni popolari in particolare, uscirebbe dai limiti di questo studio. Abbiamo già trattato questo aspetto della nel nostro organo in lingua italiana, Il Programma Comunista n.3-4, 1964, in un articolo intitolato: “Forze produttive e rapporti di produzione nell’agricoltura cinese”. Sarà sviluppato per altro in Programme Communiste nello studio in corso di pubblicazione su “Il movimento sociale in Cina”. Ci limitiamo qui a qualche osservazione. La pretesa dei maoisti di realizzare nel 1958 per mezzo delle Comuni, il passaggio della “proprietà collettiva” alla “proprietà di tutto il popolo” appariva ancora più assurda se si tiene conto di questo fatto semplice quanto irrefutabile: la proprietà collettiva (cooperative) non si è ancora diffusa in Cina. In altri termini, la Cina non è ancora riuscita a creare i suoi kolchos. Adesso, se i maoisti avessero voluto restare fedeli all’insegnamento di Stalin, avrebbero dovuto prefiggersi come primo compito di generalizzare la forma kolchosiana nell’agricoltura cinese. In realtà l’esperienza delle Comuni è fallita nel suo tentativo di concentrare l’agricoltura cinese in cooperative, e le “squadre di mutuo soccorso” tra contadini piccoli-proprietari fanno la loro riapparizione in Cina. Ancora una volta dunque Russia e Cina hanno tradito “l’insegnamento di Stalin”. Mentre Krusciov ha venduto le SMT ai kolchos e che i kolchos russi si disintegrano, le Comuni cinesi non sono nemmeno riuscite a generalizzare la “proprietà cooperativa” nell’agricoltura. Quanto al “passaggio della proprietà cooperativa alla proprietà di tutto il popolo”, mentre i russi si disinteressano completamente ormai della questione, è evidente che è ancora più impensabile in Cina dove la terra non è stata nemmeno formalmente nazionalizzata.
È interessante ricordare inoltre che, nei "I problemi economici del socialismo in URSS", il “genio” di Stalin non era riuscito a trovare alcuna soluzione per facilitare il “passaggio alla proprietà di tutto il popolo”. Il “piccolo padre” si è dunque portato il segreto nella tomba. In ogni caso, adesso che anche la mummia del gran Capo è stata bruciata da Krusciov, non saranno certo le sue gigantesche icone sulla facciata del palazzo imperiale di Pechino che riveleranno a Mao Tsé-tung la misteriosa ricetta del “passaggio della proprietà cooperativa alla proprietà di tutto il popolo”.
Ritorniamo adesso alle due dichiarazioni del Politburo e del Comitato Centrale del PCC prima citate. È del tutto naturale che i maoisti, avendo scoperto nella Comune “l’unità fondamentale” della società comunista, non suggeriscano parole circa la sparizione della produzione mercantile, mentre Stalin ne parlava ancora, pur sostenendo contro Marx, Engels e Lenin la possibilità di una economia socialista a produzione mercantile.
Per i maoisti, le Comuni sono la sede d’una doppia trasformazione: la trasformazione della “proprietà collettiva” in “proprietà di tutto il popolo”; il passaggio dal socialismo al comunismo. Si tratta adesso di considerare il tempo necessario per queste trasformazioni. Nella risoluzione del Politburo del PCC del 29 agosto 1958 si affermava: «Il passaggio della proprietà collettiva alla proprietà di tutto il popolo costituisce un processo la cui realizzazione richiederà un limite di tempo più breve in certi luoghi – tre o quattro anni – e più lungo in altri – cinque o sei anni e anche di più». Dopo l’agosto 1958, “cinque o sei anni” sono passati, “e anche di più”. Durante questo periodo, “il passaggio della proprietà collettiva alla proprietà di tutto il popolo” non si è verificato in Cina, ma in cambio però le Comuni Popolari sono scomparse e il “Grande Balzo in Avanti” ha dato luogo al “riadattamento dell’economia” e alla “costruzione del socialismo in un solo paese contando sulle proprie forze”.
Ma qual’è dunque, secondo i cinesi, il termine necessario per passare dal socialismo al comunismo? Nella dichiarazione del Comitato Centrale del 10 dicembre 1958 si afferma: «La realizzazione del processo completo richiederà dai dieci ai vent’anni, e anche oltre, a partire da adesso». Quindici anni a partire dal 1958 ci porta al 1973, vent’anni al 1978, Mao e Krusciov hanno dunque promesso il comunismo ai russi e ai cinesi per la stessa data poiché Krusciov ha parlato di realizzare il comunismo in Russia nel 1980.
Nikita rispondeva da Mosca: «Il popolo sovietico, dopo aver costruito la società socialista, è entrato in una nuova fase di sviluppo storico, durante il quale il socialismo si trasforma in comunismo» (Rapporto al XXI Congresso del PCUS, 27 gennaio 1959).
Nell’agosto del 1958 Pechino lanciava le Comuni Popolari, mentre nel gennaio del 1959 Mosca lanciava il Piano settennale. L’opinione pubblica sbalordita apprendeva dunque che la Cina e la Russia “avrebbero costruito il comunismo entro il 1980”. La veridicità di questa “apparizione” ("l’angelo apparve a Maria…") era comprovata per il fatto che Mao riconosceva la sincerità di Krusciov: «La sessione plenaria ha espresso la sua soddisfazione per il programma settennale di sviluppo dell’economia dell’Unione Sovietica, che la considera come un piano che ha un grande significato storico per l’edificazione comunista» (Dichiarazione del Comitato Centrale del P.C.C. del 17 dicembre 1958). Da parte sua Krusciov riconosceva la sincerità di Mao: «Il PCC utilizza più forme originali per l’edificazione del socialismo, ma non c’è alcun disaccordo né potrebbe essercene».
Per l’analisi delle previsioni calcolate nei piani settennali, di quindici anni e di vent’anni e per la denegazione delle pretese kruscioviane di raggiungere o di superare la produzione per abitante degli Stati Uniti, vedere il nostro testo "L’economia sovietica dalla rivoluzione d’ottobre ai nostri giorni".
Krusciov e Mao sono dunque arrivati di comune accordo all’aberrazione anti-marxista suprema: non più soltanto la “costruzione del socialismo in un solo paese”, ma la “costruzione del comunismo in un solo paese”. Hanno annunciato il comunismo per il 1980 come Kennedy prometteva “la pace per vent’anni”, la pace fino al 1980. I sei anni ad oggi trascorsi sono stati sufficienti perché l’URSS e la Cina si accusassero reciprocamente di ”imperialismo” e di “nazismo”.
6.
LA IUGOSLAVIA DAL 1957 AL SETTEMBRE 1963
Dopo la “Dichiarazione della prima Conferenza di Mosca” del 21 novembre 1957, che, malgrado laboriosi negoziati, non fu firmato dagli iugoslavi (firmarono invece il Manifesto varato dalla stessa Conferenza), il Congresso del P.C.C. prese il 23 maggio 1958 una risoluzione nella quale il maoismo definiva la sua posizione sulla questione iugoslava. Per quanto concerne l’espulsione della Iugoslavia dal Cominform, la risoluzione così si esprimeva: «L’VIII Congresso nazionale del P.C.C. nella sua seconda sessione considera fondamentali, giuste e necessarie le critiche fatte nel 1948 dall’Ufficio d’Informazione dei Partiti Comunisti e dei Lavoratori (...) sebbene ci fossero dei difetti e degli errori nel modo in cui fu affrontato il problema (...) La seconda deliberazione concernente il partito comunista iugoslavo presa dall’Ufficio d’Informazione dei Partiti Comunisti e dei Lavoratori nel 1949, tuttavia, era erronea e fu ritirata più tardi dai partiti comunisti che presero parte alla riunione dell’Ufficio d’Informazione».
Come si sa, il Cominform fu creato nel 1947 e i partiti dei paesi che ne facevano parte erano quelli di: U.R.S.S., Polonia, Romania, Bulgaria, Ungheria, Cecoslovacchia, Francia, Italia, Iugoslavia. Il P.C.C. non fu mai ammesso al Cominform, come ugualmente la Cina non riuscì mai a far parte del Patto di Varsavia e del Comecon. Le due dichiarazioni avviate nel 1948 e nel 1949 dall’Ufficio d’Informazione per condannare la Iugoslavia che ricorda la risoluzione del P.C.C. non poteva dunque essere firmata dai cinesi all’epoca in cui furono pubblicate. Partecipare alla Conferenza di Mosca nel 1957 rappresentava dunque per il P.C.C. un buon passo in avanti in rapporto alla situazione di inferiorità nella quale la Cina si trovava all’epoca staliniana. Il desiderio di mettere in evidenza questa importanza e questo prestigio risulta accresciuto quando i maoisti parlano “delle mancanze e degli errori” commessi dal Cominform e respingono la deliberazione staliniana del 1949 (7).
In questa risoluzione, i cinesi esprimono inoltre un giudizio positivo sui tentativi di riavvicinamento con la Iugoslavia compiuti da Krusciov tra il 1954 e il 1957 e rivendicano, anche se per sottintesi, per se stessi la priorità in questa iniziativa: «Dopo il 1954, il C.C. del P.C.U.S. guidato dal compagno N.S. Krusciov, ha cominciato a migliorare i rapporti con la Iugoslavia e ha adottato a questo fine delle misure particolari. Tutto ciò era perfettamente giusto e necessario (...) Abbiamo ugualmente intrapreso dei passi identici a quelli dell’U.R.S.S. e abbiamo stabilito dei rapporti tra la Cina e la Iugoslavia e tra i partiti cinese e iugoslavo».
Nessuna “restaurazione pacifica” del capitalismo è avvenuta in Iugoslavia tra il 1949 e il 1957, secondo i cinesi stessi, gli sforzi compiuti da Krusciov tra il1954 e il 1957 per “migliorare i rapporti con la Iugoslavia” erano “completamente giusti e necessari” dal momento che la Cina intraprendeva ugualmente “dei passi identici”. Stalin da parte sua definiva la Cina nel 1953 come un paese “nazista”, si trattava evidentemente di una semplice opinione personale di Stalin, di quello Stalin il cui più grande torto era stato del resto di non ammettere la Cina nel Cominform, il Patto di Varsavia e il Comecon. E dopo tutto questo, dove trovano i cinesi l’audacia di presentarsi come degli “stalinisti” (tralasciando della loro “ortodossia marxista-leninista” che non può sedurre se non gli stupidi, o i pagati per lasciarsi sedurre); dove trovano l’audacia di criticare Krusciov quando, seguendo il consiglio dato da Mao nel maggio del1958 (”Ciò era assolutamente giusto e necessario”), continuano a “migliorare i rapporti con la Iugoslavia”? È un mistero che non può spiegarsi se non con gli intrighi della diplomazia segreta e gli interessi dello Stato russo e dello Stato cinese.
Per quanto riguarda le accuse lanciate dagli iugoslavi contro l’U.R.S.S., i cinesi si esprimevano così nella Risoluzione del 23 maggio 1958: «D’altra parte il programma della Lega dei Comunisti di Iugoslavia definisce la proprietà di tutto il popolo, vale a dire la proprietà dello Stato, come “capitalismo di Stato”; i comunisti iugoslavi ammettono che è precisamente l’istituzione di questo “capitalismo di Stato” che produce direttamente la “burocrazia” e le “deformazioni burocratiche dello Stato”». I nostri lettori hanno letto nella prima parte di questo studio la nostra analisi degli argomenti con cui i maoisti sostengono oggi l’esistenza del capitalismo in Iugoslavia. Una constatazione s’impone: gli argomenti dei maoisti sul “capitalismo di Stato” e sulla “burocrazia” nella Iugoslavia del 1963, e gli argomenti che utilizzavano i titini contro l’U.R.S.S. nel 1957 si assomigliano come due gocce d’acqua. Nella prima parte di questo studio abbiamo chiarito il significato marxista dell’espressione “capitalismo di Stato”. Questa è impropria e potenzialmente anti-marxista nella misura in cui presuppone, da una parte, l’esistenza d’una fase capitalista qualitativamente differente dalle fasi precedenti, il “capitalismo di Stato” appunto, dall’altra, l’assoggettamento del capitale (dell’economia, della società civile) allo Stato (al potere politico). Abbiamo dimostrato che, al contrario, il rapporto capitalista essenziale, il rapporto tra capitale e lavoro salariato, permane nel modello fittizio e statico del “capitalismo di Stato” (che non esiste da nessuna parte, né in Russia, né negli Stati Uniti, né a maggior ragione in Cina).
Peraltro, e questo vale contro tutte le ideologie del “totalitarismo”, abbiamo affermato questa tesi marxista ben chiara: il capitalismo di Stato rappresenta un avanzamento dell’assoggettamento dello Stato al capitale e non viceversa del capitale allo Stato. Gli innumeri ideologi del “totalitarismo” non hanno mai letto questo passo di Marx: «Si può stabilire come regola generale che meno l’autorità presiede alla divisione del lavoro all’interno della società, più la divisione del lavoro si sviluppa all’interno dell’officina, e più è sottomessa all’autorità di uno solo. Così, l’autorità nell’officina e quella nella società, rispetto alla divisione del lavoro, sono in ragione inversa l’una dell’altra” (K. Marx, Miseria della filosofia). Gli innumeri ideologi del “totalitarismo” hanno denunciato, è vero, lo stakanovismo dell’epoca staliniana, ma non hanno capito che il dispotismo di fabbrica non è che il rovescio dell’anarchia nella società: in conseguenza hanno creduto, com’era loro interesse, alla pianificazione russa, che crolla oggi come un castello di carte (8); hanno visto nel dispotismo di fabbrica la conseguenza del totalitarismo di Stato di Stalin e hanno lanciato contro di lui la rivendicazione della libertà; così hanno completamente abbandonato la teoria marxista e si sono ritrovati in compagnia degli ideologi americani, e oggi, perché no, dei kruscioviani (9).
Le pseudo-teorie del “capitalismo di Stato” e del “totalitarismo mondiale” sono scaturite tra le due guerre dal cervello dei capi degenerati della socialdemocrazia tedesca, Karl Kautsky e Rudolf Hilferding. Gli iugoslavi le hanno riprese nel secondo dopoguerra (10). Ed ecco che i cinesi riprendono nel1963 le stesse pseudo-teorie per sostenere che la Iugoslavia è un paese capitalista (11). Ciò ci permette di scrivere questa equazione:
Socialdemocrazia = Titini = Maoisti = Rinnegati del marxismo.
Infatti, se le pseudo-teorie socialdemocratiche, titine e kruscioviane sul “capitalismo di Stato” servono a difendere il “passaggio pacifico dal capitalismo al socialismo”, i maoisti si sono impossessati delle stesse teorie per difendere, a proposito della Iugoslavia e della Russia, la possibilità del “passaggio pacifico dal socialismo al capitalismo” (12). Mentre i titini, i kruscioviani e i socialdemocratici applicano le loro riforme democratico-parlamentari all’Occidente per farlo diventare socialista, i maoisti vorrebbero applicare il loro riformismo democratico-popolare all’interno del falso “campo socialista” per impedirgli pacificamente di diventare pacificamente capitalista. Per i titini, i kruscioviani e i socialdemocratici c’è dunque questa equazione che si verifica:
Capitalismo di Stato (pianificazione) + Democrazia parlamentare = Socialismo (13).
Invece, per i maoisti, è questa:
Capitalismo di Stato (pianificazione) + Democrazia popolare + Alleanza con la Cina = Socialismo (14).
La stessa pseudo teoria del “capitalismo di Stato” forma la base di una concezione politica riformista comune ai kruscioviani e ai maoisti.
Quanto all’origine della teoria cinese sulla “restaurazione pacifica del capitalismo”, ne troviamo un primo accenno precisamente nella Dichiarazione di Mosca del 21 novembre 1957, nella quale si affermava che il revisionismo “postula il mantenimento e la restaurazione del capitalismo” (15). I cinesi ripresero questa frase nella risoluzione già citata del loro VIII Congresso, nella quale sottolineavano che il revisionismo “invoca che il capitalismo sia conservato e restaurato”. Allora, anche Krusciov era d’accordo con i cinesi. In migliaia di documenti e di risoluzioni ideologiche mai i maoisti hanno sostenuto prima del 31 dicembre 1962, data in cui apparve l’articolo “Le divergenze tra noi e il compagno Togliatti”, la loro tesi sul “passaggio pacifico dal socialismo al capitalismo in Iugoslavia”. Ed è solamente nell’articolo che abbiamo commentato nella prima parte di questo studio, apparso sullo Hongqi il 26 settembre 1963, che i cinesi avanzarono l’ipotesi che quello che secondo loro era successo in Iugoslavia poteva ben ripetersi in Russia (16).
In conclusione, ecco la lista delle stupefacenti metamorfosi che avrebbe subito la Iugoslavia dopo il 1947, secondo Stalin, Krusciov e Mao:
1945-47: - secondo Mao, l’economia iugoslava è socialista;
1945-47: - secondo gli Albanesi, l’economia iugoslava è imperialista e fascista;
1949-53: - secondo Stalin la Iugoslavia è un paese nazista;
1949-57: - secondo Krusciov e Mao, sussiste il pericolo d’una restaurazione capitalista in Iugoslavia;
1963: - secondo Mao, la Iugoslavia è capitalista;
1963: - secondo Krusciov, la Iugoslavia è un paese socialista.
Queste folli metamorfosi sono sufficienti a ricoprire Mao e Krusciov di ridicolo e distruggono definitivamente la teoria della “costruzione del socialismo in un solo paese”.
Del “socialismo” “costruito dai kruscioviani e dai maoisti si può ripetere oggi quello che scriveva il poeta imperiale della Vienna del1700, l’abate Pietro Metastasio: È la fede degli amanti / come l’Araba Fenice / che vi sia ciascun lo dice / ove sia nessun lo sa.
Tutto questo sarebbe divertente, se il fuoco nel quale si consuma, per ognor rinascere, la fenice del falso socialismo iugoslavo non fosse alimentata dal massacro e dallo sfruttamento del proletariato internazionale.
7.
LE POSIZIONI RUSSE SULLA CINA DOPO IL 1963
Mentre i Cinesi fin dal dicembre 1962 proponevano le loro tesi sulla natura capitalista della Iugoslavia, in un primo tempo i Russi apparvero più circospetti rispetto alla Cina e all’Albania. La ragione di questa prudenza è evidente. L’U.R.S.S. è una grande potenza; è inoltre in casa propria che si coniano le medaglie del “socialismo” mondiale. L’U.R.S.S. può dunque tirannizzare a volontà i suoi satelliti offrendo loro in compenso un brevetto di “socialismo”, come gli U.S.A. possono distruggere uno dopo l’altro i governi fantoccio dell’America del Sud concedendo loro la “patente democratica”.
L’attitudine di Krusciov riguardo la Cina e l’Albania fu dunque questa all’inizio: voi, cinesi e albanesi seguite il vostro cammino, noi russi seguiremo il nostro (in altri termini, ci alleeremo con gli U.S.A. e faremo i nostri affari sul vostro groppone); che i due campi sospendano la “polemica pubblica” (in altri termini, tacete!) garantendo loro di rimanere tutti “socialisti!”.
Questa attitudine kruscioviana dell’inizio risulta nettamente alla lettura della risposta sovietica ai “venticinque punti” cinesi (14 luglio 1963): «Sarebbe erroneo bandire per questi motivi la Iugoslavia del socialismo, di separarla dai paesi socialisti e di spingerla nel campo dell’imperialismo come lo stanno facendo i dirigenti del P.C.C.». «Se dobbiamo seguire l’esempio dei dirigenti cinesi, allora, a causa delle nostre gravi divergenze con i dirigenti del partito del lavoro albanese, avremmo dovuto proclamare da molto tempo che l’Albania non è un paese socialista. Ma sarebbe stato un orientamento erroneo e soggettivo. Malgrado le nostre divergenze con i dirigenti albanesi, i comunisti sovietici considerano l’Albania un paese socialista».
Si noterà la vetta d’ipocrisia che raggiunge questo documento, esempio tipico della diplomazia segreta imperialista. L’U.R.S.S. non ha rotto con l’Albania i suoi legami diplomatici, l’U.R.S.S. si è limitata ad espellere l’Albania dal Comecon e dal Patto di Varsavia, l’U.R.S.S. complotta solamente per abbattere il regime albanese e uccidere Hodja e Sehu, ma nonostante ciò l’Albania è un paese “socialista”. Nello stesso modo, il governo Kennedy faceva solamente massacrare Diem e la sua famiglia, continuando sempre ad affermare che il Vietnam del Sud è un paese “democratico”. È questa la politica reale all’epoca dell’imperialismo: tutti i problemi reali non possono essere risolti che con la forza (associata all’ipocrisia).
Ma il Kremlino non aveva considerato un’altra forza reale, quella dello Stato cinese, che non si trova per il momento negli artigli dell’armata russa. Non solamente Pechino non ha sospeso la “polemica pubblica” come richiedeva Krusciov con insistenza, ma ha fatto di peggio: ha diffamato l’U.R.S.S. in Africa in lungo e in largo, in Asia e in America latina, ha escluso l’U.R.S.S. dalla Nuova Bandoung, ha predicato una crociata dei popoli asiatici, dal Giappone alla Mongolia, per cacciare l’U.R.S.S. dall’Asia. In modo tale che Krusciov decise di comperare la sua “tranquillità” e il “silenzio” dei cinesi lasciando a Tirana e a Pechino il loro brevetto al socialismo, è stato costretto di ritornare sulle sue posizioni di “considerare l’Albania e la Cina come dei paesi socialisti malgrado le gravi divergenze”.
Ed è così che nel suo intervento al Comitato Centrale del P.C.U.S. (febbraio 1964), Otto Kuusinen formulò solennemente questa domanda: «Beninteso, nessuno dubita che ci sia una dittatura nella Repubblica popolare cinese. Ma quale?»; e lui si rispose senza equivoci: «In realtà, attualmente non c’è nessuna dittatura del popolo in Cina, né una posizione dirigente del proletariato, e neanche una funzione d’avanguardia del partito. Tutta la fraseologia pseudo-marxista dei dirigenti cinesi serve soltanto a mascherare la vera dittatura in atto: la dittatura dei capi,e più esattamente, la dittatura personale».
Come abbiamo dimostrato all’inizio della seconda parte di questo studio, gli stalinisti avevano negato che la rivoluzione cinese avesse raggiunto “la tappa socialista” e l’aveva dunque confinata alla “tappa democratica”. Nel febbraio del1964 gli eredi di Stalin hanno negato, per bocca di Kuusinen, che anche questa “tappa democratica” sia stata raggiunta. In Cina non solamente “il proletariato non ha una posizione dirigente”, ma “non c’è alcuna dittatura del popolo”. Per i kruscioviani è solamente in India che “la tappa democratica” è stata raggiunta (si tratta di un esempio tipico della “competizione pacifica” nei paesi sottosviluppati, sulla quale torneremo sopra): per essi, l’India è una “democrazia nazionale” (si tratta di una nuova categoria degli ideologi russi, di cui analizzeremo più avanti il contenuto). Ma la Cina, adesso che la kremlinesca fabbrica dei brevetti in socialismo ha deciso senza appello che “non c’è alcuna dittatura del popolo in Cina”, in quale categoria rientrerebbe?
Kuusinen ha fornito la seguente risposta: “la dittatura dei capi, e più esattamente, la dittatura personale”, mentre la stampa russa proponeva i seguenti insulti destinati alla Cina: “razzismo”, “nazismo”, “emuli di Gengis Khan”, ecc. ecc. Considerando che alla data in cui scriviamo la rottura tra l’U.R.S.S. e la Cina sembra consumata, che la sua sanzione ufficiale da parte di una nuova Conferenza convocata a Mosca è imminente e che noi consideriamo peraltro che questa rottura sia irreversibile (ne forniremo le prove nel seguito di questo studio), possiamo domandarci quale formula ideologica adopereranno i kruscioviani per caratterizzare il regime di Pechino e per giustificare la loro lotta – ed eventualmente una guerra – contro tale regime. Dal canto loro, i cinesi hanno già pronta la loro formula sulla “restaurazione pacifica del capitalismo in Iugoslavia e in U.R.S.S.”, e l’abbiamo sufficientemente analizzate per dispensarci di ritornarci sopra. Ma i russi, quale formula utilizzeranno?
Secondo noi, i russi ripeteranno prima di tutto le tesi staliniste del dopo1949 che abbiamo ricordato all’inizio: la rivoluzione cinese non è mai stata socialista. In secondo luogo, utilizzeranno le accuse lanciate dai socialdemocratici contro gli stalinisti dopo il 1930. Abbiamo già visto quali erano le “teorie” di Rudolf Hilferding sul “capitalismo di Stato” e sullo “Stato Totalitario”, “teorie” alle quali i maoisti, i titini e i kruscioviani hanno largamente attinto come abbiamo dimostrato. I kruscioviani denunceranno dunque, come ha già fatto Kuusinen, il “totalitarismo” di Pechino, accuseranno i maoisti d’essere “razzisti” e la Cina di collusione con i governi “reazionari” di Parigi, Tokio e Bonn, e intraprenderanno contro questo totalitarismo una crociata per la “libertà” in compagnia degli U.S.A., centro dell’imperialismo mondiale.
Ma gli arsenali della socialdemocrazia sono ben forniti: le opere senili di Karl Kautsky, il “rinnegato”, “l’apostata”, “l’erudito” di leniniana memoria. Cosa scriveva dunque Karl Kautsky contro il regime stalinista tra il1932 e il 1937? Questo: «Il programma delle costruzioni realizzato nell’impero di Stalin non è senza precedenti. Altri governanti, prima di Stalin, comandarono a vaste masse di lavoratori docili, senza protezione, e le sacrificarono senza pietà alla realizzazione dei loro piani (...) I costruttori delle piramidi, i Cesari romani ed i Rajah indiani meravigliarono il mondo con le loro opere gigantesche, realizzate dal lavoro a buon mercato di milioni di schiavi (...) I faraoni d’Egitto e i despoti di Babilonia e dell’India non costruirono solamente dei grandi palazzi, dei templi, dei mausolei, ma anche enormi dighe, dei serbatoi e dei canali senza i quali l’agricoltura sarebbe stata impossibile. Marx caratterizza queste opere come il fondamento del dispotismo asiatico in quelle regioni. Non le considerava certamente come le basi materiali di una società socialista. Il fatto che i governanti attuali del Kremlino seguono l’esempio dei despoti asiatici significa che un cambiamento fondamentale non si è ancora verificato nel mondo» (17).
Dal momento che un rappresentante dell’Istituto Marx-Engels-Lenin di Mosca ha potuto affermare al segretario del Partito socialista belga, Luyten: «Noi non vediamo per quale ragione debbano ancora sussistere dei motivi di disaccordo profondo tra socialisti russi e socialdemocratici occidentali». Bene! da parte nostra affermiamo che non vediamo perché i kruscioviani non potrebbero utilizzare domani contro i cinesi gli “argomenti marxisti” di Kautsky contro il regime di Stalin. Perché i kruscioviani non potrebbero accusare i maoisti d’essere dei “despoti orientali” e il regime di Pechino d’essere un “dispotismo asiatico?” (18).
In questi due ultimi anni, in una maniera totalmente inattesa, i kruscioviani hanno scoperto il “modo di produzione asiatico” che Stalin aveva fatto sparire dai “manuali marxisti” per poter affermare l’esistenza d’un feudalesimo cinese che peraltro non è mai esistito (19). Il C.N.E.R.M., tra l’altro, ha anche dedicato tutto un volume al “modo di produzione asiatico”. Questa sollecitudine entusiasta delle ideologie servili e ben pagate del C.N.E.R.M. non è strano? Cosa nasconde questa misteriosa esumazione del “modo di produzione asiatico” per i kruscioviani?
L’ironia della storia farà che il “modo di produzione asiatico”, sottratto da Stalin per poter teorizzare la disfatta della rivoluzione proletaria in Cina negli anni 1924-26, sia rimesso in auge dagli eredi di Stalin per stigmatizzare il regime di Pechino come un “dispotismo asiatico” e per lanciargli contro la crociata della “libertà” in compagnia degli Stati Uniti d’America?
Il cataclisma ideologico provocato dalla rottura tra la Cina e l’U.R.S.S, non ha risparmiato i sedicenti trotskisti, che continuano a dirsi tali per la più grande disgrazia di Leone Trotski (20). Nel 1960, pieni di speranza, si rivolsero a Pechino. Ne La Verità dei lavoratori, N.107, P. Frank, dissimulando malamente l’emozione, si poneva questa domanda: «Gli avvenimenti, le loro condizioni di sviluppo, permetteranno loro di superare il pesante handicap della loro formazione stalinista e di fare anche un “gran passo in avanti” sul piano della teoria marxista per portarli alla teoria della rivoluzione permanente?» (21). Il “gran salto in avanti” compiuto dagli avvenimenti dopo il 1960 ha letteralmente mozzato il fiato ai poveri sedicenti trotskisti, a tal punto che oggi stanno soffocando.
La Iugoslavia, “l’anti-burocratica” Iugoslavia, sulla quale avevano rischiato la loro ultima fortuna, sta diventando la loro tomba. Pechino ha definito la Iugoslavia come un paese capitalista e si appresta a fare lo stesso per la Russia. Esaltando il titismo nel 1952, i falsari d’una “direzione di ricambio” si ritrovano nel 1964 all’estrema destra del krusciovismo. Nel novembre del 1963 già Livio Maitran scriveva, a proposito delle teorie cinesi sulla Iugoslavia: «È necessario sottolineare che i comunisti cinesi, se osassero effettivamente trasferire la caratteristica sociologica come nuovo capro espiatorio iugoslavo ai destinatari sovietici, commetterebbero un errore teorico e politico monumentale che, sotto il profilo tattico, li schiaccerebbe in una posizione insostenibile» (Quarta internazionale, novembre 63, p. 20).
Oseranno, oseranno, Signor Livio Maitran! Quanto alla loro “posizione insostenibile”, è tempo ormai che pensiate voi invece alla vostra “posizione insostenibile”! Mao Tse-tung “mantiene” molto bene la sua posizione nel palazzo imperiale di Pechino e non ha bisogno del vostro aiuto, né dei vostri consigli.
In caso di rottura tra l’U.R.S.S. e la Cina voi sceglierete l’U.R.S.S., lo sappiamo da molto tempo (22), dopo che «il processo di destalinizzazione, in U.R.S.S. (...) ha già gettato le basi del rinnovo rivoluzionario» e che «l’U.R.S.S. è in movimento verso un ruolo più fermo, deciso e chiaro nel sostegno della rivoluzione mondiale», e che «il krusciovismo stesso, evolve fin dalla sua apparizione sempre – in media – più a sinistra», e tenendo ben presente che «l’attitudine negativa, ostile persino, presa dalla burocrazia cinese contro il processo determinante della destalinizzazione in U.R.S.S., la sua alleanza con il regime albanese sanguinario, come pure con gli stalinisti irriducibili dell’U.R.S.S. e di altri paesi; le critiche e le calunnie, tutte staliniste, che formula contro le concezioni iugoslave arricchitrici del marxismo», ecc. ecc... (estratto dalle “Tesi sulla nuova situazione internazionale e i compiti della IV Internazionale” di M. Pablo, Quatrième Internazionale, luglio 1963).
Ma proprio perché il quadro è questo, Signori Pablo, Maitran e Frank, poiché siete diventati l’ala destra in marcia del krusciovismo che dopo, grazie ai vostri sforzi eroici, “si evolve sempre – mediamente – più a sinistra”, orbene, bisogna sciogliere la vostra organizzazione-fantasma: entrate apertamente (senza “entrismo”) nei partiti kruscioviani, fate riabilitare Trotski da Krusciov e mettete una mummia di cera del grande Trotski nel Mausoleo, al posto lasciato vuoto dalla mummia di Stalin, e infine preparatevi a marciare nella nuova guerra imperialista a fianco dell’U.R.S.S. e degli U.S.A. contro i “regimi sanguinari” albanese e cinese!
Ma non bisogna credere che il cataclisma della rottura russo-cinese abbia mozzato il fiato solamente a dei poveri miserabili sedicenti trotskisti. Ecco quel che scrive Palmiro Togliatti nel sue osservazioni a Krusciov: «Ciò che preoccupa le masse e anche (nel nostro paese almeno) una frazione non trascurabile di comunisti, è il fatto stesso d’un conflitto così acuto tra due grandi rivoluzioni. Ciò rimette in discussione gli stessi principi del socialismo e quindi noi dobbiamo fare un grande sforzo per spiegare quali sono le condizioni storiche, politiche, di partito e personali che hanno contribuito ha creare le divergenze ed il conflitto attuale» (L’Unità del 5 settembre 1964).
Questo “fatto” non ha solamente “rimesso in discussione”, ma ha distrutto i falsi principi del vostro falso “socialismo”, patriottico, nazionale, democratico, popolare e mercantile! Questo “fatto” va ad aprire la via, assieme ad altri “fatti”, come la crisi di sovrapproduzione che sconvolgerà l’economia capitalista nel mondo intero e la terza guerra imperialista, ai principi invariabili del socialismo marxista, internazionalista e proletario, e alla loro diffusione in seno al proletariato internazionale!
Fate pure un “grande sforzo” per “spiegare alle masse” che le vostre menzogne sono sacrosante verità: più grande sarà il vostro “grande sforzo” e più sarà facile per il partito rivoluzionario della classe operaia di dimostrare al proletariato internazionale che le vostre sacrosante verità non sono che delle ignobili menzogne.
(2) - Non passa giorno senza che siano mostrati al pubblico elementi noti da molto tempo alla diplomazia segreta. Nel luglio del 1963, mentre veniva firmato a Mosca l’accordo che sanzionava il monopolio atomico russo-americano, i cinesi lamentarono che Krusciov aveva promesso loro la bomba atomica nel 1957. Nel settembre del 1963 si apprese degli incidenti di frontiera avvenuti nel Sinkiang e in Estremo-Oriente. Nel febbraio del 1964 si conobbe la reale consistenza, le modalità e i prezzi praticati nel commercio cino-sovietico. La più recente rivelazione è stata fatta dalla Pravda il 2 settembre1964, concernente la questione della Mongolia esterna: «Della Mongolia Esterna – scrisse la Pravda – i cinesi vogliono fare una provincia cinese. Nel corso della visita di Krusciov a Pechino nel 1954, rifiutandosi di esaminare questo argomento, Krusciov disse ai dirigenti cinesi che il destino della Mongolia non poteva essere deciso a Mosca o a Pechino, ma a Ulan Bator». Tutto ciò non ha impedito a Mao di scrivere che «La nostra politica deve essere conosciuta non solamente dai capi e dai quadri del partito, ma dalle larghe masse popolari (...) Una volta che le masse sapranno la verità (...) potranno agire come un sol uomo» (Citato da Hsiao Shu e da Yang Fu nell’articolo “Nella rivoluzione, la politica del partito è la garanzia della vittoria”, apparso in Pekin Rewiev, 1960, n.52).
Il giorno non è lontano che “le masse sapranno la verità” che avete loro nascosto per troppo tempo e che le contraddizioni dell’imperialismo e la ragion di Stato vi obbliga oggi in parte a rivelare. Il giorno non è lontano quando il proletariato internazionale riesumerà gli archivi della diplomazia segreta a Mosca, a Pechino, a Londra, a Washington e a Parigi!
(7) - Si può trovare la prova di ciò che affermiamo nelle osservazioni seguenti. La “Dichiarazione” della prima Conferenza di Mosca fu firmata da dodici partiti “comunisti” al potere, e non dagli ottantun partiti come la Dichiarazione di Mosca del 5 dicembre 1960. Il preambolo della Dichiarazione del 21 novembre 1957 elenca i partiti che hanno preso parte ai lavori in ordine strettamente alfabetico. È stato un bel successo per la Cina dopo le durezze dell’epoca staliniana e l’esclusione dal Cominform. Bisogna ugualmente notare che una delegazione ufficiale di osservatori cinesi partecipò nei primi mesi del 1959 a una riunione del Patto di Varsavia al termine della quale, il 28 aprile 1959, fu pubblicato un comunicato comune. Lo stesso fatto si rinnovò nel 1960, e in questa occasione l’osservatore cinese Kang Sheng pronunciò il 4 febbraio 1960 un discorso pubblico.
(8) - Gli economisti russi hanno recentemente riconosciuto che la “pianificazione centralizzata” stalinista creava una “anarchia” e uno spreco sociale identico, se non superiore, a quello che comporta la “concorrenza capitalista”. Quando, sono più di dieci anni, noi sosteniamo e dimostriamo la stessa cosa, tutti hanno sghignazzato, dai barbaristi ai trotskisti passando per gli stalinisti. Da dieci anni è stato un dogma palese a tutti, amici o sedicenti avversari della Russia stalinista, che l’economia “sovietica” era superiore all’economia occidentale. Ma ecco cosa scrive oggi V. Nemchinov, membro dell’Accademia delle Scienze dell’U.R.S.S., in un saggio intitolato “Direzione economica socialista e pianificazione della produzione” apparso nel “Kommunist”, n° 5, marzo 1964: «Il sistema della pianificazione basata sul bilancio interno delle imprese opporrà un “filtro” solido alla pesantezza dell’anarchico spirito discrezionale, perché se gli si consente di svilupparsi liberamente, porterà, anche nel nostro sistema, a delle conseguenze così dannose come la concorrenza anarchica nel sistema capitalista». E dopo aver riconosciuto le “conseguenze nocive” “dell’anarchico spirito discrezionale”, i kruscioviani credono di portarci rimedio, poveri illusi, decentrando l’economia!
(9) - I barbaristi ne sono un esempio probante, loro che, ripetiamolo ancora, hanno avuto l’insigne onore di vedere uno dei loro documenti riprodotto dalla “Corrispondenza Socialista”, rivista delle destra socialdemocratica in Italia. Ma l’esempio più clamoroso dell’elucubrazione sul “capitalismo di Stato” ci è fornito certamente dalla tanto petulante quanto ignorante Signora Raya Dunayeskaya che si considera lei stessa, e noi le lasciamo volentieri un tale onore, la “teorica del capitalismo di Stato”: Questa signora ha scritto recentemente un libro dal titolo evocatore: “Marxismo e Libertà”, pubblicato in Italia dalla casa editrice pro-americana “La Nuova Italia”. Nel suo libro, “la teorica del capitalismo di Stato” parte dalla rivoluzione francese e termina con la “rivoluzione ungherese”; sorvolando così su due secoli di storia, è riuscita a non dire una parola, nonostante la sua faticaccia letteraria, né della Prima Internazionale, né dell’Internazionale Comunista. Eppure, se si fosse occupata della Prima Internazionale, forse avrebbe scoperto la rottura di Marx e Engels con i libertari e si sarebbe altresì accorta che il più grande teorico del capitalismo di Stato (dopo di lei naturalmente, fu niente meno che Michele Bakunin. E se si fosse interessata della III Internazionale, la Signora Raya Dunayeskaya avrebbe forse anche scoperto ciò che Lenin pensava degli “estremisti” della sua risma. Segnaliamo inoltre che alla fine del libro, la Signora Raya Dunayeskaya consacra agli avvenimenti ungheresi del 1956 delle pagine che potrebbero perfettamente essere lette al microfono dalla “Voce dell’America”.
(10) - Parleremo un po’ più a fondo delle teorie “senili” di Karl Kautsky sul “metodo di produzione asiatico”. Per il momento consideriamo Rudolf Hilferding. L’autore del Capitale finanziario scriveva nel maggio del 1940 nel Corriere Socialista, rivista anti-sovietica in lingua russa, un breve articolo intitolato: “Il capitalismo di Stato ovvero l’economia dello Stato totalitario” (questo articolo apparve anche in inglese nella Modern Review). Pensiamo che nonostante la sua brevità (8 pagine di piccolo formato) questo scritto di Hilferding rassomiglia e sintetizza tutti gli argomenti dell’interminabile e inutile letteratura sul “capitalismo di Stato” e la “burocrazia”, e dimostra che la conseguenza logica di queste teorie è unica: l’abbandono del marxismo. Riportiamo qualche citazione, a titolo d’esempio:
1) Concetto di capitalismo di Stato: «il concetto di “capitalismo di Stato” resiste difficilmente ad un’analisi economica seria. Quando lo Stato diventa il solo proprietario di tutti i mezzi di produzione, il funzionamento di na economia capitalista è resa impossibile dalla distruzione del meccanismo che fa circolare la linfa vitale in questo sistema». «Formalmente, i prezzi e i salari esistono ancora, ma la loro funzione non è più la stessa (...) I prezzi diventano altrettanti simboli di distribuzione e non contengono più un fattore di regolazione dell’economia. La “fiamma stimolante della concorrenza” e la corsa avida al profitto, che costituiscono gli stimoli fondamentali della produzione capitalista, sono morti».
2) Accumulazione: «In un’economia di consumatori, in un’economia organizzata dallo Stato non c’è accumulazione di valore, ma di merci consumabili: prodotti di cui il potere centrale ha bisogno per le necessità del consumo». «Il fatto che l’accumulazione la faccia lui stesso non costituisce una prova della natura capitalista dell’economia».
3) Burocrazia o Stato totalitario? Polemizzando contro R.L. Worrall che aveva sostenuto la teoria del “capitalismo di Stato” nella rivista “Left”, Hilferding scrive: «Worrall fà una meravigliosa scoperta: la burocrazia sovietica, nella sua struttura (...) differisce “fondamentalmente” da tutte le altre borghesie, ma la sua funzione rimane la stessa: l’accumulazione del capitale». «Non è la burocrazia che domina, ma quelli che comandano la burocrazia russa». «Per la sua struttura e le sue funzioni è solamente uno strumento nelle mani dei veri padroni dello Stato».
Rudolf Hilferding era stato un marxista. Ciò gli conferisce una indubbia superiorità sugli ideologi da due soldi del “capitalismo di Stato” dove regna la “burocrazia”, fondamentalmente differente da tutte le altre borghesie. L’ex-marxista Hilferding comprendeva che per ammettere una simile tesi, bisognava semplicemente mettere il marxismo sotto-sopra, se l’economia fosse modellata dallo Stato, sovrastruttura questo invece del modo produzione. Non si deve parlare di “capitalismo di Stato”, affermava Hilferding nel1940, ma di “economia dello Stato totalitario”.
Sicuramente la conseguenza politica restava la stessa: lotta per la democrazia, per la libertà, contro lo “Stato totalitario”. È il programma classico della socialdemocrazia contemporanea, ed è l’essenza del revisionismo. I kruscioviani hanno devotamente raccolto il testamento di Rudolf Hilferding, che si può così riassumere: Pianificazione + Democrazia = Socialismo. L’evoluzione graduale dell’economia verso il socialismo comincia, per i socialdemocratici e i kruscioviani, sotto lo Stato borghese. Affinché la pianificazione non si trasformi in “economia dello Stato totalitario”, perché si verifichi l’equivalenza tra pianificazione e socialismo, lo Stato deve essere penetrato e trasformato dalla democrazia. Questo il succo del testamento politico di Hilferding.
Per quanto riguarda il suo testamento economico, è facile vedere che la realtà l’aveva già smentito nel 1940 e non ha fatto che continuare. Vediamo dunque come la realtà rifiuta il testamento di Hilferding:
1) Capitalismo di Stato: Lo stato russo non è “il solo proprietario dei mezzi di produzione”. La terra fu donata in godimento perpetuo ai kolkhosiani nel 1936. Le Stazioni di Macchine e Trattori sono stati vendute ai kolkhos. Tutta l’agricoltura russa (e una parte dell’industria rappresentata dall’industrializzazione inter-kolkhosiana) sfugge anche al semplice controllo dello Stato. Non soltanto i beni di consumo, ma anche i mezzi di produzione sono delle merci in Russia. Lo Stato vende alle imprese, e le imprese si vendono tra loro i mezzi di produzione. La categoria dell’interesse (ripartizione del profitto del capitale in interesse e profitto d’impresa) regola la circolazione del capitale fisso e del capitale costante circolante. Anche la creazione del capitale fisso sfugge allo Stato imprenditore. Tutto il settore delle nuove costruzioni è dominato in Russia dalle “imprese di costruzione e di montaggio” che stabiliscono con lo Stato dei rapporti fondati sull’appalto. Lo Stato russo, come tutti gli altri Stati borghesi, non è uno Stato-imprenditore; le sue funzioni consistono, da una parte, nel controllare e ad intervenire nell’economia per mezzo delle imposte, delle sanzioni inflitte alle imprese, regolarizzando le variazioni dei prezzi, etc., dall’altra, ad accumulare del denaro che cede alle imprese perché lo trasformino in capitale.
2) Accumulazione. Se dunque in Russia lo Stato accumula del denaro, le imprese accumulano del capitale. La prova migliore che in Russia si verifica un’accumulazione capitalista, ci è elargita dal folle tentativo d’impedire l’abbassarsi del ritmo dell’aumento della produzione industriale, ovvero del tasso medio di profitto. Questa
insana pretesa, che lo Stato russo divide con tutti gli Stati borghesi contemporanei, nasce precisamente dalla divisione del profitto in interesse e profitto d’impresa. Quando il capitale si divide in capitale monetario e capitale produttivo, quando lo Stato diventa un accumulatore di denaro, la folle pretesa d’impedire la caduta del tasso medio del profitto raggiunge il suo culmine, come Marx dimostra nella Vª Sezione del Terzo Libro del Capitale. Questa folle pretesa non può che condurre a delle crisi e a delle nuove guerre imperialiste. Lo Stato accumulatore di denaro è lo Stato imperialista ideale.
3) Burocrazia o totalitarismo di Stato? Lo Stato di Stalin fu lo strumento dell’accumulazione primitiva del capitalismo russo, nato una seconda volta nel 1921, dopo essere stato annientato dalle distruzioni di guerra tra il 1915 e il 1920. «Qualcuno di questi metodi (di accumulazione primitiva, ndr) riposa sull’impiego della forza brutale, ma tutti senza eccezione sfruttano il potere dello Stato, la forza concentrata e organizzata della società, al fine di accelerare violentemente il passaggio dall’ordine economico feudale all’ordine economico capitalista e di accorciare le forme di transizione. E, in effetti, la forza è la levatrice di tutte le vecchie società. La forza è un agente economico» (Marx, Il Capitale; Sezione VIII, Cap. 31 ).
La classe è una forma economica alla quale corrisponde una forma della produzione sociale. Lo Stato di Lenin cristallizzava la forza del proletariato internazionale che tendeva allora, con la sua lotta, ad una nuova forma della produzione sociale: il comunismo: «Le forze essenziali e le forme essenziali della produzione in Russia sono come quelle di qualsiasi paese capitalista (...) Le forme essenziali dell’economia sociale sono il capitalismo, la piccola produzione mercantile, il comunismo. Le sue forze essenziali sono: la borghesia, la piccola-borghesia (i contadini soprattutto), il proletariato. (Lenin; L’imperialismo e la politica all’epoca della dittatura del proletariato).
Lo Stato di Stalin cristallizza la forza della borghesia internazionale, della piccola borghesia russa (i contadini soprattutto), e della nascente borghesia russa. Oggi la borghesia russa è nata. V. Trapeznikov la saluta così sulla Pravda del 17 agosto 1964: «Il direttore deve avere pieni poteri nell’ambito finanziario, deve essere liberato dalla tutela rigida alla quale è sottomesso; si deve esigere che assicuri un’attività efficiente dell’impresa e una qualità elevata dei prodotti. L’indice fondamentale del profitto l’indurrà a ridurre le spese superflue e a ricercare tutti i mezzi per ridurre i costi di produzione». La “fiamma stimolante” della concorrenza e la corsa avida al profitto, che costituiscono gli stimolanti fondamentali della produzione capitalista non sono morti: fomentati dallo Stato di Stalin con il ferro e il fuoco della contro-rivoluzione, abbracciano oggi l’immensa Russia.
La realtà ha dunque smentito Rudolf Hilferding. Ma in quanto ex-marxista aveva lui stesso sancito nel maggio del1940 che la pretesa dei “teorici” della “burocrazia fondamentalmente differente dalla borghesia” e del “capitalismo di Stato” non è marxista.
(11) Diamo le definizioni testuali dei cinesi a proposito della Iugoslavia invitando il lettore a riferirsi alla nostra analisi sulla questione nel N° 28 del “Programme Communiste”: “Dittatura della borghesia burocratica e compratora”; “Dominazione del capitale burocratico e compratore”; “Tramite la riscossione delle imposte e degli interessi la cricca di Tito si appropria dei profitti delle imprese”; “I frutti del lavoro del popolo di cui Tito si appropria servono essenzialmente a soddisfare le delapidazioni di questa cricca di burocrati”; “Il settore economico della proprietà di tutto il popolo è degenerato in economia di capitalismo di Stato” (da un articolo apparso sullo Hongqi il 26 settembre 1963).
(12) “La degenerazione del potere di Stato in Iugoslavia non si è accompagnata col capovolgimento dell’antico potere con i mezzi della violenza (...) Gli stessi individui, la cricca di Tito, detengono il potere”.
(13) La formula vale sempre più anche per la Russia. Già il P.C.U.S. è diviso in due sezioni, industriale e agricola, primo abbozzo di parlamentare. È opportuno riproporre a questo proposito un frammento della dichiarazione di un rappresentante dell’Istituto Marx-Engels-Lenin di Mosca al segretario del Partito Socialista Belga, nell’occasione della richiesta dei russi di partecipare ai festeggiamenti organizzati dai social-demoratici per celebrare il centenario della fondazione della Prima Internazionale (che stomaco!!): «Man mano che la Russia svilupperà la propria economia, noi sovietici, modificheremo ugualmente le nostre strutture interne (...) Non vediamo più per quale ragione devono ancora sussistere dei motivi di disaccordo profondo tra i socialisti russi e i socialdemocratici occidentali».
(14) I cinesi sostengono questa formula riformista all’interno del falso “campo socialista, in cina, e soprattutto nei paesi sotto-sviluppati, come lo dimostreremo nel seguito di questo studio.
(15) Lenin ha parlato della possibilità di “restaurazione” della borghesia, per esempio in questo passaggio de La malattia infantile del comunismo: «È mille volte più di facile vincere la grande borghesia centralizzata che “vincere” i milioni e milioni di piccoli padroni; ora questi ultimi con la loro attività quotidiana, consuetudine, invisibile, sfuggente, disgregante, realizzano gli stessi risultati che sono necessari alla borghesia, che resteranno (è Lenin che sottolinea, ndr) la borghesia». Un commento di questo passaggio, e altri, nella nostra brochure: “Sul testo di Lenin: ’La malattia infantile del comunismo’”. Ma Lenin nel 1920 non affermava assolutamente che l’economia russa fosse socialista: la restaurazione di cui parla concerne il potere politico della borghesia. E Lenin non sosteneva certo la possibilità d’una restaurazione pacifica!
(16) Ecco il passaggio testuale dell’articolo apparso sul Zerit i Pouli il 6.VI.63 nel quale gli albanesi, dopo aver sostenuto che la Iugoslavia tentò di colonizzare l’albania nel 1945, affermano: «Questo atteggiamento e questa politica dei revisionisti iugoslavi erano assolutamente identici alla politica di asservimento praticata dai fascisti italiani nei riguardi del nostro paese».
(17) Karl Kautsky, “La Russia sovietica è uno Stato socialista?”, in “Socialdemocrazia contro comunismo”, 1932-37, New York, Rand School Press, 1946.
Karl Kautsky falsifica in un modo impudente, veramente incredibile per un “erudito” della sua classe, le caratteristiche del modo di produzione asiatico descritte da Marx e da Engels a più riprese nelle loro opere. Per essere brevi ci limiteremo a rinviare il lettore al Capitale, Primo Libro, Quarta Sezione, 14° capitolo: IV. - La divisione del lavoro nella manifattura e nella società (Ed. Soc., II tomo, pp. 41-48).
Marx parla tra l’altro di piccole comunità indiane e il lettore potrà vedere non solamente quelle che sono per Marx le determinazioni essenziali del metodo di produzione asiatico, ma si renderà anche conto che per Marx tutti i modi sociali di produzione che hanno preceduto il capitalismo sono infinitivamente superiori per quanto riguarda i rapporti degli uomini tra loro e dell’uomo con la natura. Se Marx ha riconosciuto che il modo di produzione capitalista ha reso possibile un aumento vertiginoso delle forze produttive (aumento che, nella fase senile e imperialista del capitalismo, è diventato una minaccia per la stessa sopravvivenza della specie umana) e se, in conseguenza, ha accolto con favore il suo avvento come una rivoluzione necessaria sul cammino dell’umanità verso la forma superiore del comunismo, non è meno vero che per Marx il capitalismo considerato nella totalità dello sviluppo storico, ha raggiunto il limite dell’infamia per la specie umana.
Karl Kautsky aveva a tal punto rinnegato il marxismo nel 1930 da paragonare Stalin a un faraone dell’antico Egitto o a un rajah indiano. Non insisteremo sull’altra tesi essenziale del marxismo, vale a dire che il modo di produzione capitalista è una realtà irreversibile dopo il 1870, in altre parole che da allora non è più minacciato da una restaurazione; è dunque la rivoluzione proletaria e l’avvento della società comunista che sono all’ordine del giorno. Kautsky rinnegava questa tesi essenziale delirando su una fantastica resurrezione del “dispotismo asiatico”. Siamo sempre allo stesso punto: il riformismo scopre continuamente delle tappe intermedie prima dell’avvento del socialismo. Per far lottare il proletariato in favore della democrazia borghese, bisognava che Kautsky scoprisse che era minacciata dalla resurrezione del “dispotismo asiatico”!
Bisogna inoltre ricordare che i anche “barbaristi” paragonavano, da parte loro, la burocrazia stalinista agli scribi dell’antico Egitto, e Stalin a Ramses II (Cf. Programme Communiste, n° 15, Il marxismo contro l’utopia, p. 25, nota 3). Ecco dunque le fonti di questi “arricchitori” del marxismo! Hanno copiato tutto: la “razionalità capitalista” l’hanno presa in affitto da Max Weber, la “burocrazia fondamentalmente differente dalla borghesia” da Worrall, lo “Stato totalitario” da Hilferding, e infine, il “dispotismo asiatico” da Kautsky!
Ricordiamo infine ai lettori che la degenerazione del modo di produzione asiatico in Cina è stato da noi analizzata nello studio in corso di pubblicazione “Il movimento sociale in Cina”, e che le determinazioni essenziali del modo di produzione asiatico sono state analizzate nello studio “La successione delle forme di produzione nella teoria marxista” (brochure ciclostilata in lingua italiana).
(18) L’accusa avanzata contro i cinesi dalla stampa russa d’essere “degli emuli di Gengis Khan” è un’interessante anticipazione. I cinesi hanno ribaltato abilmente l’accusa nell’editoriale apparso sullo Hongqi e il Renmin Ribao il 22 ottobre 1963: “Dei difensori del neo-colonialismo”, editoriale che analizzeremo quando tratteremo le rivoluzioni anticoloniali e la questione nazionale. Inoltre, il 4 settembre 1964, il quotidiano cecoslovacco Praca ha definito Mao Tsé-tung come “un mandarino reazionario”:
«Mao Tsé-tung parla non come un comunista, ma come un samurai giapponese reazionario».
(19) Vedere lo studio in corso di pubblicazione. “Il movimento sociale in Cina”, Programme Communiste, N.° 27, in particolare il capitolo: “Sulla natura della borghesia coloniale” e “La teoria del feudalesimo cinese”, pp. 9-12.
(20) Abbiamo già definito una volta per tutte i sedicienti “trotskisti” nell’articolo “comunisti di tempi migliori” (Programme Communiste, N.° 25, ott.-dic. 1963) rispondendo alle insinuazioni del settimanale progressista France-Observateur che considerava la nostra rivista un organo trotskista. Lo stesso settimanale ha consacrato un suo articolo sulla riconoscenza della Cina per De Gaulle in una polemica contro i “puristi della nostra sinistra più estrema” (30 genn. 1964) non meglio identificati. Risponderemo punto su punto nel seguito di questo studio alle calunnie e insinuazioni diffuse da France-Observateur contro “certi puristi della nostra sinistra più estrema”.
(21) Cf. Programme Communiste, N.° 14, genn.-marzo 1961, “Disarmo dell’imperialismo o disarmo del proletariato?”, p.12.
(22) Vedere la nostra facile previsione nel Programme Communiste, N.° 18, gen.-marzo 62, “Rigeneratori e redentori ai vostri posti”, p. 54, dove affermiamo: «Con Krusciov, e con Thorez, condannerete albanesi e cinesi perché sono stalinisti mentre voi siete democratici”.
PARTE III
(Programme Communiste, n.30-1964)
La periodicità della nostra rivista e l’obiettivo stesso di questo studio – una polemica che subisce tutti i contraccolpi dell’attualità – ci hanno costretti e ci costringeranno ancora a ritornare sui nostri passi per chiarire certe questioni precedentemente affrontate.
Occorre pertanto ritornare brevemente su due punti già trattati nel numero 29 di Programme Communiste, prima di affrontare “la questione coloniale e le rivoluzioni anticoloniali”:
A) LA COSTRUZIONE DEL COMUNISMO IN CINA
In un lunghissimo testo del 14 luglio 1964 firmato dalla redazione del Renmin Ribao e dal Hongqui (Lo pseudo-comunismo di Krusciov e gli insegnamenti storici che dà al mondo; Edizioni in lingue straniere; Pechino 1964), dopo aver presentato come imminente la “restaurazione pacifica del capitalismo in U.R.S.S.” – concetto di cui noi abbiamo dimostrato il contenuto aberrante e anti marxista – i maoisti effettuano una svolta di 180° rispetto alle loro posizioni del 1958. Mentre nel 1958 promettevano il passaggio della proprietà collettiva alla proprietà di tutto il popolo in Cina nei termini di “cinque o sei anni e anche meno” (1), il 15 luglio 1964, ovvero sei anni più tardi – “e anche di più – scrivevano: «Il passaggio dalla proprietà collettiva a quella di tutto l’intero popolo, da due generi di proprietà alla proprietà unica di tutto l’intero popolo, suppone un processo di sviluppo molto lungo» (op. cit., p. 101).
Questo “processo molto lungo” non è diversamente precisato, ma le precisazioni dei maoisti sul passaggio dal socialismo al comunismo in Cina, per il quale prevedevano nel 1958 un lasso di tempo “dai dieci a vent’anni o più, a partire da adesso” proclamando solennemente che “è chiaro perciò che la realizzazione del comunismo in Cina non avverrà in un futuro lontano”, sono tanto dettagliati quanto deliziosi. È questo che si legge, alla pagina 97 del testo già citato del 14 luglio 1964: «La lotta per scoprire “chi avrà la meglio”, tra il socialismo e il capitalismo, nell’ambito politico ed ideologico, esige un periodo molto lungo di tempo prima che sia deciso il suo esito. La rivoluzione socialista nel solo ambito economico (per quel che concerne la proprietà dei mezzi di produzione) non è sufficiente, e non assicura del resto la stabilità. Qualche decina d’anni non basteranno; ovunque, cento anni o centinaia di anni sono necessari per la vittoria. Questione di tempo, meglio quindi prepararsi a un periodo piuttosto lungo anziché corto».
Dopo il “passaggio pacifico dall’economia socialista all’economia capitalista”, i maoisti fanno un’altra stupefacente scoperta anti-marxista: il socialismo trionfa prima nell’ambito economico, e in seguito nell’ambito politico!!
Nel 1958, promettevano il passaggio al comunismo in Cina nello spazio di quindici o vent’anni; nel 1964 affermano che “cento anni o addirittura centinaia di anni” saranno necessari soltanto per “sapere chi trionferà tra socialismo e capitalismo!?”. Dopo simili scoperte, niente di sorprendente se, forse presi dal timore d’essere andati un troppo avanti nella via de “l’adattamento creativo del marxismo alle particolari condizioni della Cina”, gli ideologi di Pechino scrivevano alla fine del loro lungo testo: «Non c’è niente di terrificante e non c’è alcuna ragione di allarmarsi. La terra continua a girare» (0p. cit., p. 112).
Bene! Emerge dalle aberrazioni anti-marxiste dei maoisti che ciò che “gira” con un ritmo sempre più vertiginoso nella Cina del 1964 è il capitale. Ma il capitale, contrariamente alla terra, non continuerà a “girare per centinaia d’anni!”.
B) I KRUSCIOVIANI E IL MODO DI PRODUZIONE ASIATICO
Il numero 114 (aprile 1964) de La Pensée, “rivista del razionalismo moderno” (la Ragione è una faccia del Capitale!), è interamente dedicato al “modo di produzione asiatico”. Non ci soffermeremo qui sulla confusione nella quale si dibattono i nostri kruscioviani “razionalisti” (non sono riusciti per esempio a stabilire se per Marx i modi di produzione sono in numero di cinque, o sette o otto. Fra poco scopriranno che ce ne sono un migliaio!). Vogliamo semplicemente mettere in evidenza due falsificazioni. Prima di tutto, M.C. Parain scrive alla pagina 3: «Le ricerche storiche marxiste (...) avevano già molto da fare per mettere in chiaro e spiegare la concatenazione tipica che conduce dalla società primitiva al socialismo per la grande storica strada in margine della quale si dovrebbe riconoscere – o continuare a non riconoscere un modo di produzione detto asiatico».
Gli ideologi kruscioviani (e post-kruscioviani) de La Pensée vorrebbero far credere che ritornano a Marx e avanzano come prova la loro riscoperta del “modo di produzione asiatico” che Stalin aveva radiato dalla storia. Ma continuano a falsificare, con più impudenza dello stesso Stalin, le determinazioni essenziali del modo di produzione socialista falsamente “costruito” in U.R,S.S. Signori de La pensée, è il socialismo che dovete riscoprire in Marx!
In secondo luogo, questo numero de La Pensée conferma i nostri sospetti sulla funzione anti-cinese di questa riscoperta kruscioviana e post-kruscioviana del modo di produzione asiatico. M. Chesneaux, per esempio, non esita a piombare su Wittfogel che, nel suo “Oriental society. a comparative study of total power” aveva tentato di dare un travestimento “scientifico” alle concezioni di Kautsky come ricordiamo nel precedente numero (2).
In realtà, ciò che provoca l’indignazione di Chesneaux è l’orientamento anti-russo dell’opera di Wittfogel. Ma è una indignazione molto tardiva! Oggi i socialdemocratici non utilizzano più contro l’U.R.S.S. l’argomentazione di Kautsky o di Wittfogel; oggi non accusano più l’U.R.S.S. d’essere una variante del “dispotismo asiatico”; oggi l’U.R.S.S. è diventata una nazione civilizzata, evoluta e democratica! M. Chesneaux scrive alla pagina 35 che “si tratta di riprendere dalle mani dei rinnegati questo concetto così ricco”. Oggi che i socialdemocratici non sono più dei “rinnegati” e che non utilizzano più “questo concetto così ricco” contro l’U.R.S.S. per quale ragione, M. Chesneaux, volete “riprendere dalle loro mani il modo di produzione asiatico?” M. Chesneaux stesso ci dà la risposta: «(Il modo di produzione asiatico) non appartiene che al passato. Ha lasciato senza dubbio delle impronte profonde. La tradizione dell’ “unità superiore”, per esempio, non ha forse contribuito fortemente all’instaurazione in numerosi paesi afro-asiatici, recentemente indipendenti, di un sistema di direzione con un capo di Stato molto potente, ma che ha indiscutibilmente la fiducia delle masse, ecc. ecc.»
Segue una interessante allusione a Soekarno, alleato di Mao per richiedere l’esclusione dell’U.R.S.S. dalla nuova Bandoung. I paragoni della stampa russa tra Mao e Gengis Khan, tra Mao e i mandarini dell’antica Cina, l’affermazione d’Otto Kuusinen secondo la quale esiste in Cina “la dittatura dei capi, la dittatura personale” sono riprese da M. Chesneaux ad un livello “ideologico” quando parla “di un sistema di direzione con un capo di Stato molto potente”.
Gli ideologi kruscioviani e post-kruscioviani hanno dunque ripreso il modo di produzione asiatico “dalle mani dei rinnegati” per ripetere contro la Cina quello che i socialdemocratici dicevano contro l’U.R.S.S. tra il 1939 e il 1940.
* * *
Dopo aver chiarito queste due questioni, non ci resterebbe che continuare il nostro studio, ma la recentissima caduta di Krusciov ci obbliga ad aggiungere qualche precisazione.
Se ci occupiamo della polemica russo-cinese non è certamente per correre dietro l’attualità. Le conclusioni nel nostro studio si fondano sui principi del marxismo rivoluzionario difesi dal nostro partito da più di trent’anni: e non aspettano quindi la loro conferma dall’ascesa o dalla caduta di un Krusciov.
Per il momento, ci limitiamo a constatare che la caduta Krusciov ha accelerato il processo “kruscioviano” d’occidentalizzazione della società russa e che non ha registrato alcun riavvicinamento tra l’U.R.S.S. e la Cina, contrariamente a quel che era stato annunciato da diverse parti. Nella fase attuale della politica internazionale è giunto il momento, all’Est come all’Ovest, del disintegrarsi delle alleanze e del moltiplicarsi dei contatti diplomatici in tutte le direzioni, preludio a delle nuove alleanze, a delle nuove crisi, a delle nuove guerre.
Davanti al trambusto intrattenuto dai prostituiti dell’attualità, il partito rivoluzionario del proletariato inserisce sulla sua bandiera la frase, che Marx mise come epigrafe alla prefazione del Primo Libro del Capitale: “Segui il tuo corso, e lascia dir le genti!” (3).
9.
LA QUESTIONE NAZIONALE E LE RIVOLUZIONI ANTI-COLONIALI
La questione nazionale e le rivoluzioni anti-coloniali sono al centro della polemica russo-cinese. Trarremo dall’analisi di questa controversia la lezione che le tesi marxiste e leniniste sulla questione conservano la loro validità assoluta a quarant’anni di distanza.
A più riprese, abbiamo illustrato, analizzato e difeso le tesi di Marx ed Engels sulla rivoluzione tedesca del 1848-50, e le tesi dell’Internazionale Comunista nel 1920-26 sull’unione della rivoluzione proletaria nelle metropoli e nelle colonie (4).
Anche questa volta faremo precedere la presentazione della polemica russo-cinese sulla questione coloniale e le rivoluzioni anti-coloniali, con una sintesi completa dei seguenti testi:
1) L’articolo di Lenin Sul diritto delle nazioni all’autodeterminazione (febbraio-maggio 1914), completato da altri articoli dello stesso periodo (per esempio: “Sostanze infiammabili nella polemica mondiale”, 5 agosto 1908; “Democrazia e populismo in Cina”, 15 luglio 1912; “La Cina rinnovata”, 8 novembre 1912);
2) Le tesi generali e le tesi complementari sulle questioni nazionale e coloniale, approvate nel 1920 al Secondo Congresso dell’Internazionale Comunista (5);
3) Gli articoli di Lenin sulla questione nazionale datati 31 dicembre 1922. Questi articoli molto importanti che Stalin aveva fatto sparire sono oggi ripubblicati.
Otterremo così una sintesi del pensiero di Lenin sulla questione nazionale per un periodo di quindici anni, dal 1908 al 1912. Questa sintesi ci condurrà alla conclusione (che la nostra corrente difende da quarant’anni, e di cui troveremo una conferma clamorosa nella polemica russo-cinese) che la teoria leninista dell’imperialismo sulla quale si fondano le tesi leniniste sulla questione nazionale,è la sola spiegazione marxista dell’imperialismo, che è valida oggi come lo era ieri e che lo resterà finché l’imperialismo non sarà distrutto dalla rivoluzione proletaria internazionale.
Se c’è un punto sul quale la corrente della Sinistra comunista italiana si è sempre trovata al fianco di Lenin, è proprio questo. Se c’è una questione a proposito della quale nessuno oggi, né russi, né cinesi, né estremisti dalle multiformi etichette non possono pretendere di ricollegarsi a Lenin, bene, è questa. Hic Rhodus, hic salta!.
L’articolo di Lenin sul Diritto delle nazioni ad autodeterminarsi apparso nell’aprile-giugno 1914 nel Prosvéchtchénié (L’Istruzione). Si tratta di una polemica contro Rosa Luxembourg. In uno studio intitolato La questione nazionale e l’autonomia apparso nel 1908-09, quest’ultima aveva a sua volta polemizzato contro lo scritto di Karl Kautsky “Nazionalità e internazionalità" pubblicato nellaNeue Zeit nel 1907-1908, L’articolo di Lenin è dunque una polemica contro un’altra polemica.
La conoscenza di queste circostanze storiche è essenziale, perché questo articolo è stato sovente, anche recentemente, falsificato dallo stalinismo e dal post-stalinismo. È necessario ricordarsi inoltre che la polemica di Rosa Luxembourg non era diretta solo contro Kautsky, ma anche, indirettamente, contro Lenin e il programma dei bolscevichi sulla questione nazionale in Russia, programma che preconizzava il “diritto ad auto-determinarsi” per le nazionalità oppresse dall’autocrazia zarista grande-russa(8).
Lenin sostiene innanzitutto la validità di questa tesi espressa da Kautsky: «Lo Stato nazionale è la regola e la “norma” del capitalismo; lo Stato a composizione eterogenea non è che uno stadio arretrato o un’eccezione».
C’è qui una verità evidente, una di quelle “verità” del marxismo che, come Lenin scrive nel suo Anti-Kautsky, anche la borghesia può riconoscere e fare proprie. Ma Lenin non si ferma qui. A Rosa Luxembourg che gli aveva posto la domanda: «Se in Russia si deve lottare per l’autodeterminazione delle nazioni oppresse, non si deve fare la stessa cosa nell’impero “austro-ungarico?».
Lenin risponde: «Innanzitutto, poniamo la questione essenziale, quella del completamento della rivoluzione democratica borghese. In Austria era cominciata nel 1848 ed è terminata nel 1867 (...) Anche nelle condizioni interne dello sviluppo dell’Austria (vale a dire dal punto di vista dello sviluppo del capitalismo in Austria, in generale, ed in ciascuna delle nazioni che la compongono, in particolare), non c’è nessun fattore suscettibile di provocare dei salti che, fra gli altri, possono essere accompagnati dalla formazione di Stati nazionali indipendenti».
Il leitmotiv di Lenin in questo articolo e in tutte le sue opere può essere riassunto in questo aforisma che esprime il nodo vitale della dialettica marxista: «Quando si analizza una questione sociale, la teoria marxista esige che la si ponga in un quadro storico determinato; poi, se si tratta di un solo paese (per esempio, del programma nazionale di un dato paese), che si tenga conto delle particolarità concrete che distinguono questo paese dagli altri nei limiti di una sola e medesima epoca storica».
Si constata dunque che le particolarità concrete dei diversi paesi nelle diverse fasi del loro sviluppo storico conducono Lenin a sostenere che la formula del “libero diritto all’autodeterminazione delle nazioni” è applicabile alla Russia del 1914 perché la rivoluzione democratica borghese non è stata ancora compiuta, mentre nell’impero austro-ungarico, alla stessa epoca, la stessa formula non è applicabile e quelli che la preconizzano tradiscono il proletariato, perché in Austria la rivoluzione democratico-borghese “era cominciata nel 1848 ed era terminata nel 1867”.
I russi e i cinesi, così come il corteo dei loro miserabili discepoli, dovrebbero dunque dichiarare che Lenin ha commesso un grossolano errore nel 1914 poiché l’impero austro-ungarico si è frammentato, da allora, in diversi Stati a cui gli stalinisti e i maoisti hanno dato il benvenuto nel 1945 per la loro nascita con grandi grida di gioia. Ma non lo faranno perché hanno trasformato Lenin in un’icona inoffensiva per mistificare le masse. Per quanto ci riguarda noi affermiamo che Lenin non si è sbagliato: neghiamo che la dissoluzione dell’impero austro-ungarico abbia consentito la nascita di “Stati nazionali sovrani”, e consideriamo la formazione degli Stati dell’Europa centro-orientale (Austria, Polonia, Ungheria, Germania orientale, Iugoslavia, Romania, Bulgaria) come una balcanizzazione dell’Europa da parte dell’imperialismo.
Ecco l’essenziale dell’opera e della lotta di Lenin per quel che concerne la questione nazionale in Europa, ed è molto chiaro che gli stalinisti, come i maoisti, hanno rinnegato mille volte l’insegnamento leninista.
Passiamo adesso alla questione nazionale in Asia. Nell’articolo già citato, Lenin scrive: «Neghiamo questo fatto incontestabile che nell’Asia le condizioni di sviluppo il più completo della produzione mercantile, dell’espansione più libera, la più larga e la più rapida del capitalismo non esistono che in Giappone, ovvero in uno Stato nazionale indipendente? Questo Stato è borghese; anche lui stesso ha cominciato ad opprimere altre nazioni e ad asservire delle colonie. Ignoriamo se l’Asia perverrà, prima del fallimento del capitalismo, a costituire un “sistema di Stati nazionali indipendenti”, come l’Europa. Ma una cosa è incontestabile, svegliando l’Asia, il capitalismo ha suscitato, anche lì, dappertutto, dei movimenti nazionali; che questi movimenti tendono a costituire degli Stati nazionali in Asia; e che precisamente tali Stati assicurano al capitalismo le migliori condizioni di sviluppo».
Mezzo secolo è trascorso dal 1914. Il fatto è che oggi, nel 1965, l’Asia si è trasformata in un “sistema di Stati nazionali indipendenti, come l’Europa”; il fatto che nel 1965 numerosi Giapponi si sono sviluppati in Asia, nell’ambito dei quali si sono create “le condizioni per lo sviluppo il più libero, il più vasto e il più rapido del capitalismo”; molti Giapponi (come l’India, l’Indonesia, il Pakistan, la Cina) che “hanno cominciato anch’essi a opprimere altre nazioni” (6); questo fatto non è sufficiente a provare che non si è verificato nel mondo il “fallimento del capitalismo” al quale Lenin, quando si occupava della questione nazionale, subordinava sempre tutte le manovre tattiche, tutte le alleanze, tutti i fronti unici con la borghesia nazionale-rivoluzionaria delle colonie?
Gli articoli seguenti: “Sostanze infiammabili nella politica mondiale” (apparso ne Le Prolétaire del 5 agosto 1908), “Democrazia e populismo in Cina” (apparso nella Nievskaa Zviezdà del 15 luglio 1912) (7), “La Cina rinnovata” (apparso nel La Pravda dell’8 novembre 1912), appartengono allo stesso periodo dell’articolo di cui ci occupiamo, ovvero quello che precede immediatamente la grande crisi imperialista del 1914 e il crollo catastrofico della Seconda Internazionale. In questi testi Lenin definisce le condizioni sole che possono permettere il “fallimento del capitalismo” di cui parla nell’articolo che abbiamo citato: denuncia il carattere reazionario del populismo cinese, i “sogni socialisti” di Sun Yat-sen, “l’illusione che in Cina sia possibile “evitare” il capitalismo.
Lenin non ammetteva l’illusione reazionaria secondo la quale fosse possibile “evitare” il capitalismo in questo o in quest’altro paese; per lui, si trattava di definire i mezzi con i quali il proletariato – e lui solo – nelle colonie come nelle metropoli potesse abbattere il capitalismo internazionale. Nella lotta contro Sun Yat-sen Lenin fu trascinato a porre il problema dello sviluppo del “proletariato cinese” generato dalle “nuove Shanghai”, che i populisti cinesi chiamavano con l’organizzazione di questo proletariato in “partito operaio socialdemocratico cinese”, e il problema della delimitazione di questo partito nei confronti della borghesia nazionalista, grazie allaalla critica delle “utopie piccolo-borghesi e delle idee reazionarie del programma politico e agrario di Sun Yat-sen”. Ed è solamente in seguito che Lenin sostiene che un partito operaio cinese doveva conservare e sviluppare “il nucleo rivoluzionario democratico” del populismo.
Ma per Lenin, non era ancora sufficiente. Dopo aver osservato, nel suo articolo del 1914, che «Marx ed Engels trattavano con un severo spirito critico la questione nazionale in generale, di cui apprezzavano l’importanza in conformità con le condizioni storiche», aggiunge la condizione delle condizioni, senza la quale tutte le rivendicazioni di autodeterminazione delle nazionalità oppresse diventano un puro inganno per il proletariato, la condizione valida per tutti i paesi e tutte le fasi dello sviluppo capitalista: «l’unità della lotta del proletariato e delle organizzazioni proletarie, la loro più stretta connessione in una comunità internazionale».
È così che alla vigilia della prima guerra mondiale e del crollo della seconda Internazionale Lenin arrivò a prevedere (”I destini storici della dottrina di Karl Marx”; 1° marzo 1913) la “ripercussione in Europa” delle “tempeste” provocate dalla penetrazione in Asia del capitalismo: «Seguendo l’Asia, l’Europa comincia a muoversi ma non alla maniera asiatica».
Da allora, il maoismo e lo stalinismo hanno cercato di fermare l’Asia e di asiatizzare l’Europa; come sognava Sun Yat-sen, hanno cercato di “evitare” il capitalismo in Russia e in Cina sabotando la distruzione del capitalismo nel mondo intero.
Quarant’anni dopo la polemica russo-cinese ha dimostrato che l’Asia non può essere eternamente arrestata, come d’altronde l’Europa non può essere eternamente asiatizzata, che lo sviluppo del capitalismo non può essere evitato, né in Russia, né in Cina. La polemica russo-cinese induce oggi, cinquant’anni dopo, una manciata di marxisti internazionalisti quali noi siamo a porre gli stessi problemi di Lenin e del suo ”piccolo gruppo” bolscevico nel 1914.
Per convincersene, bisogna rileggere una volta di più le tesi che Lenin scriveva nel 1920 per il Secondo Congresso de “l’organizzazione internazionale unica del proletariato” infine ricostituita, mentre era fermamente convinto sul prossimo crollo del capitalismo: è ugualmente necessario ascoltare di nuovo le dure parole con le quali, nel suo letto d’agonia, denunciò nel 1922 il futuro tradimento degli Stalin e dei Mao.
11.
TESI SULLA QUESTIONE NAZIONALE E COLONIALE APPROVATE AL SECONDO CONGRESSO DELL’INTERNAZIONALE COMUNISTA
Le tesi sulle questioni nazionali e coloniali approvate dal Secondo Congresso dell’Internazionale Comunista comprendono 12 tesi generali e 9 complementari. Tratteremo simultaneamente sia delle tesi generali che di quelle complementari, riservando tuttavia un’analisi particolare a queste ultime che sono dedicate specialmente alla teoria dell’imperialismo.
Cominciamo dalle tesi generali. Le tesi 1 e 2 criticano la teoria borghese de “l’uguaglianza in generale e dell’uguaglianza tra le nazioni in particolare".
Si afferma che: «l’uguaglianza formale o giuridica del proletario, dello sfruttatore edello sfruttato.L’idea d’uguaglianza, che non era che il riflesso dei rapporti creati dalla produzione per il commercio, diventa, nelle mani della borghesia, un’arma contro l’abolizione delle classi combattuta oramai in nome dell’uguaglianza assoluta delle personalità umane».
La tesi 1 conclude: «Quanto al significato effettivo della rivendicazione d’uguaglianza, non risiede che nella volontà d’abolire le classi».
Nello stesso modo la circolazione delle merci all’interno del mercato nazionale è il regno della “libertà, uguaglianza e Bentham”, nel quale proletari e capitalisti si presentano come compratori e venditori, come persone giuridicamente uguali, il mercato mondiale è il regno de “l’uguaglianza tra le nazioni” e dell’equilibrio delle bilance commerciali. Dopo aver denunciato l’ineguaglianza reale tra sfruttati e sfruttatori e affermato che “il proletario non può essere uguale al capitalista”, le tesi dell’Internazionale Comunista svelano ugualmente l’ipocrisia borghese de “l’uguaglianza tra le nazioni” mettendo a nudo «l’asservimento (proprio all’epoca del capitale finanziario, dell’imperialismo”) dalla potenza finanziaria e colonizzatrice, dell’immensa maggioranza delle popolazioni del globo a una minoranza di ricchi paesi capitalisti».
La tesi 3 rivela che: «la guerra imperialista del 1914-18 ha messo in evidenza davanti a tutte le nazioni e a tutte le classi oppresse del mondo l’inganno dei parolai democratici e borghesi».
La prima guerra mondiale (e nello stesso tempo l’imperialismo) non sono dunque fenomeni nuovi, ma il punto di arrivo logico del capitalismo, previsto dalla teoria marxista. Sempre in questa tesi, la politica “di pace” delle “democrazie” dell’Intesa Cordiale è così’ definita: «il trattato di Versailles, imposto dalle famose democrazie occidentali, non faceva che sanzionare, riguardo alle nazioni deboli, le violenze più vili e più ciniche ancora di quelle degli Junkers e del Kaiser a Brest-Litowsk. La Società delle Nazioni e la politica dell’Intesa cordiale non fanno che confermare questo fatto» (9).
Oggi ciò s’applica pienamente all’O.N.U. e alla formula della “coesistenza pacifica” e condanna dunque contemporaneamente russi e cinesi.
Dopo questa introduzione, la tesi 4 enuncia che: «la pietra angolare della politica dell’Internazionale Comunista, nelle questioni coloniale e nazionale, deve essere il riavvicinamento dei proletari e dei lavoratori di tutte le nazioni e di tutti i paesi per la lotta comune contro i fondiari e la borghesia».
La tesi 5 riprende lo stesso concetto, in una forma ancora più chiara e incisiva: «Un’esperienza amara ha convinto i movimenti emancipatori nazionali delle colonie e delle nazionalità oppresse che non c’è salvezza per esse, fuori dall’alleanza con il proletariato rivoluzionario e con il potere sovietico vittorioso sull’imperialismo mondiale».
Tuttavia, questa formula dell’“alleanza” tra il proletariato delle metropoli e i “movimenti emancipatori delle colonie” è insufficiente. Tale e quale, può essere approvata dall’opportunismo socialdemocratico stalinista e maoista, e oggi la ritroviamo effettivamente sulla bocca dei socialdemocratici, dei partigiani di Mosca come di quelli di Pechino. Ma le Tesi dell’I.C. chiarificano il significato di questa formula denunciando nello stesso tempo anticipatamente il tradimento della rivoluzione proletaria nelle metropoli e nelle colonie al quale assistiamo oggi.
La prima delle nove tesi complementari termina così: «La grande guerra europea e i suoi risultati hanno dimostrato molto chiaramente che le masse dei paesi assoggettati fuori dell’Europa sono legati in modo assoluto al movimento proletario d’Europa, ed è ciò la conseguenza inevitabile del capitalismo mondiale centralizzato».
È dunque chiaro che il ruolo dirigente nell’alleanza di cui parlano le tesi, il ruolo decisivo per la sorte della rivoluzione mondiale non può essere “in modo assoluto che il movimento proletario d’Europa”, o in ogni caso il movimento proletario delle metropoli imperialiste; è questa, come le tesi ricordano, “una conseguenza inevitabile del capitalismo mondiale centralizzato”. Crediamo inutile dilungarci sul fatto che il capitalismo mondiale, essendo oggigiorno mille volte più centralizzato di quanto non lo fosse nel 1920, le sorti delle rivoluzioni nelle colonie dipende in un modo ancora più assoluto dal movimento proletario nelle metropoli imperialiste.
È precisamente su questo piano che inciampano i maoisti che pretendono, nel 1965, di subordinare il movimento proletario delle metropoli alle rivoluzioni nelle colonie. Se parlano con tanta d’enfasi e lirismo delle “tempeste” che scuotono l’Asia, l’Africa e l’America latina, è per meglio dimenticare quello che Lenin poneva al primo posto, ovvero “la ripercussione in Europa” delle “tempeste” generate dalla penetrazione del capitalismo in Asia. Come abbiamo già visto, Lenin aspettava da queste “ripercussioni” che “a seguito dell’Asia, l’Europa cominciasse a scuotersi ma non alla maniera asiatica”.
Non si tratta per i maoisti di una “dimenticanza” o di “ingenuità”, come troppi imbecilli fingono di credere e amano ripetere. Perché, per Lenin e per i marxisti (10), la ripercussione in Europa delle tempeste dell’Asia deve completarsi dialetticamente con un movimento inverso, dall’Europa verso l’Asia, per unire Europa e Asia, metropoli e colonie nella rivoluzione comunista mondiale. È questo il punto d’arrivo del pensiero e della lotta praticata da Lenin. Nel 1920, dopo aver previsto che le ripercussioni delle tempeste dell’Asia metterà l’Europa in movimento, ma “non alla maniera asiatica”, Lenin ne stabilisce il momento quando la lotta del proletariato europeo per il comunismo raggiungerà il suo culmine: «Le masse dei paesi assoggettati fuori dell’Europa sono legati in maniera assoluta al movimento proletario d’Europa».
Quindi Lenin attendeva nel 1920 che l’Asia si rimettesse in movimento ma al modo europeo: lottava perché nelle colonie la rivoluzione non s’arrestasse alla tappa borghese ma, con l’arduo salto della doppia rivoluzione, giungesse come in Russia fino alla dittatura del proletariato e al regime dei Soviet.
Il marxismo rivoluzionario non accusa dunque il maoismo soltanto di “dimenticare” o di subordinare l’Europa all’Asia, il movimento proletario delle metropoli alle rivoluzioni nelle colonie, ma soprattutto di tradire la doppia rivoluzione nelle colonie, di chiudere le rivoluzioni delle colonie nei limiti borghesi. La rottura russo-cinese è per noi, contemporaneamente, la prova di questo tradimento della rivoluzione proletaria nelle colonie e la rivincita della storia su coloro che ne sono stati gli artefici. Perché una tesi essenziale di Lenin è che la teoria menscevica della rivoluzione per tappe non permette di raggiungere né la tappa borghese né, a maggior ragione, la tappa proletaria.
Quando i maoisti accusano aspramente il “socialismo russo” di tradimento, manifestano in effetti l’impotenza rivoluzionaria, anche nel senso borghese, di coloro che governano nel palazzo imperiale di Pechino. Una rivoluzione, qualunque essa sia, non si lascia sorprendere da nessun tradimento.
* * *
La subordinazione dei movimenti di emancipazione nazionale nelle colonie derivava – e continua a derivare – dalla realtà economica del “capitalismo mondiale centralizzatore”. Ma sostenere questa tesi significava per l’I.C., e significa oggi per noi, sostenere e dimostrare: «Prima di tutto che le rivoluzioni anti-coloniali e anti-imperialiste non devono limitarsi agli obiettivi nazionali borghesi, ma pervenire fino alla dittatura del proletariato e al regime dei Soviet attraverso la doppia rivoluzione. In seguito poi, se ciò non dovesse verificarsi, le rivoluzioni anti-coloniali non raggiungerebbero nemmeno l’obiettivo borghese e nazionalista».
L’Internazionale Comunista faceva nel 1920 questa doppia previsione, come abbiamo visto nelle tesi fin qui analizzate. Il secondo polo dell’alternativa si trova chiaramente enunciato al punto 6 della tesi 11, che così conclude: «Nella congiuntura internazionale attuale (ovvero all’epoca del capitalismo finanziario, dell’imperialismo - NdR), non c’è via di scampo per i popoli deboli e asserviti al di fuori della federazione delle repubbliche sovietiche».
Si parla qui, dunque, come in tutto il corpo delle Tesi, di “federazione delle repubbliche sovietiche” e non, per esempio, di “repubblica universale dei Soviet”. In realtà coesistono le due formule nella letteratura dell’Internazionale Comunista degli anni Venti, una precede l’altra, una completa l’altra. “Le particolarità concrete che distinguono un paese dagli altri nei limiti di una sola e medesima epoca storica”, che distingueva dunque le colonie dalle metropoli imperialiste per quanto riguarda la questione nazionale, induceva Lenin a preconizzare nel 1920 il principio federativo (”federazione delle repubbliche sovietiche”) come forma transitoria verso la repubblica universale dei Soviet.
Si legge all’inizio della tesi 7: «Il principio federativo ci appare come una forma transitoria verso l’unità completa dei lavoratori di tutti i paesi».
E la tesi 8 dice tra l’altro: «Considerando la federazione come una forma transitoria verso l’unità completa, è necessario tendere ad un’unione federativa sempre più stretta».
La tesi 7 fornisce degli esempi concreti per l’applicazione del principio federativo nelle questioni nazionali dal proletariato vittorioso: «Il principio federativo ha già dimostrato praticamente la sua conformità all’obiettivo perseguito, sia durante le relazioni tra la Repubblica Socialista Federativa dei Soviet russi e le altre repubbliche dei Soviet (ungherese, finlandese, lettone, per il passato; azerbaigianese e ucraina per il presente), sia all’interno della Repubblica russa, riguardo alle nazionalità che non avevano prima né Stato, né esistenza autonoma (esempio: le repubbliche autonome dei baschiri e dei tartari, create nella Russia sovietica nel 1919 e nel 1920».
Infine la tesi 8 aggiunge che nell’applicazione del principio federativo bisogna tener presente: «A) l’impossibilità di difendersi, senza la più stretta unione tra di esse, circondate come sono da nemici imperialisti infinitamente superiori per potenza militare; B) la necessità di una stretta unione economica delle repubbliche sovietiche, senza la quale la ricostruzione delle forze produttive distrutte dall’imperialismo, la sicurezza ed il benessere dei lavoratori non possono essere assicurati; C) la tendenza alla realizzazione di un piano economico universale la cui applicazione regolare sarà controllata dal proletariato di tutti i paesi, tendenza che si è manifestata con tutta evidenza sotto il regime capitalista e deve certamente continuare il suo sviluppo e arrivare alla perfezione dal regime socialista».
Il Lenin del 1920 risponde quindi al Lenin del 1914 che, nel suo studio sul “diritto delle nazioni a disporre di se stesse” scriveva: «Noi ignoriamo se l’Asia riuscirà a costituire, prima del fallimento del capitalismo, un sistema di Stati nazionali indipendenti, come l’Europa».
Ora, Lenin afferma nel 1920 che i movimenti nazionali provocati in Asia e nelle colonie dalla penetrazione del capitalismo non hanno “alcuna salvezza fuori della federazione delle repubbliche sovietiche”; afferma che i movimenti nazionali nelle colonie non riusciranno in Asia e in Africa ad attuare la “formazione d’un sistema di Stati nazionali indipendenti, come l’Europa”, ma alla formazione di una “federazione di repubbliche sovietiche” come “forma transitoria verso l’unità completa dei lavoratori di tutti i paesi”, verso la repubblica universale dei Soviet. Questa tesi è inseparabile da quella che afferma che con la prima guerra mondiale il capitalismo ha raggiunto il suo ultimo stadio, la sua fase senile, imperialista e che dunque è cominciata l’epoca storica del “fallimento del capitalismo” dove il compito immediato del proletariato delle metropoli imperialiste è la distruzione dello Stato imperialista e l’instaurazione della dittatura del proletariato e del regime dei Soviet.
Cinquant’anni più tardi, nel 1965, i sedicenti “comunisti” di Mosca continuano ipocritamente a lodare i vantaggi che il “loro” Stato “sovietico” offrirebbe alle minoranze nazionali e le meraviglie del “principio federativo idealmente incarnato nello Stato russo”. Vedremo nella conclusione di questa terza parte del nostro studio ciò che Lenin pensava di queste vanterie ipocrite e demagogiche, vedremo che qualificava come “social-nazionalista grande-russo” l’applicazione alla Georgia del “principio federativo” da parte di Stalin, Dzerjinski e Ordjonikidzé.
Ma i sedicenti “comunisti” che si meravigliano con una tale ipocrisia del principio federativo in Russia non considerano tuttavia questo stesso principio come un monopolio assoluto dello Stato grande-russo moscovita. Secondo loro, se questo Stato ha il diritto d’applicare al suo interno il principio federativo, possiede ugualmente quello d’impedire con la forza che questo stesso principio sia applicato ad altri Stati; avrebbe il diritto di balcanizzare eternamente l’Europa in minuscole democrazie popolari vassalle; avrebbe il diritto, del resto sancito dall’altro Stato federativo suo alleato e concorrente gli U.S.A., di schiacciare nel sangue a Budapest, a Berlino, a Varsavia, tutte le ribellioni contro la sua dominazione. Lo Stato imperialista grande-russo impone ai suoi dominati con la forza delle armi e della diplomazia questo primo comandamento: “Sono il dio tuo padrone; non c’è Stato perfetto al di fuori di me”.
Quanto alla “grande” Cina di Mao, che non può nemmeno lei celebrare le meraviglie tutte formali d’un principio federativo, che sarebbe sopravvissuto a sé stesso, si presenta come il più grande Stato nazionale asiatico e si è già circondata da una prima costellazione di minuscoli Stati vassalli come il Vietnam del Nord o la Corea del Nord.
Per quanto riguarda la base economica che dovrebbe sostenere, secondo Lenin, la federazione delle repubbliche sovietiche, forma di transizione verso “l’unità completa dei lavoratori di tutti i paesi”, questa “realizzazione di un piano economico universale la cui applicazione regolare sarebbe controllato dal proletariato di tutti i paesi”, è inutile tirarla per le lunghe per dimostrare come russi e cinesi se ne sono allontanati. Mentre che i russi parlano di “divisione internazionale del lavoro” e cercano di mantenere con la forza politica, economica o militare la dipendenza nei loro confronti dell’Europa orientale, la Cina, messa provvisoriamente al bando dal commercio internazionale, lancia ai paesi afro-asiatici la parola d’ordine: “bisogna far affidamento sulle proprie forze”.
Non è dunque sorprendente che gli eredi di coloro che Lenin chiamava nel 1922 i “social-nazionalisti grandi-russi” ripropongano oggi nuovamente la questione delle sfere d’influenza in Asia provocando una serie d’incidenti militari lungo i 9.000 chilometri di frontiera russo-cinese.
* * *
La questione della subordinazione delle rivoluzioni coloniali al movimento operaio delle metropoli è oggi il cavallo di battaglia dei sedicenti “comunisti” di Mosca nella loro polemica anti-cinese. I kruscioviani ed i post-kruscioviani vantano una pretesa ortodossia marxista e accusano i maoisti di populismo, di culto della violenza, di anti-marxismo.
Le tesi del 1920 smascherano in anticipo tanto i russi quanto i cinesi.
Le tesi 9 e 10 sono interamente consacrate alla denuncia del falso internazionalismo dei partiti della Seconda Internazionale. Vedremo subito che l’internazionalismo di cui si riempiono la bocca i “comunisti” di Mosca nella loro polemica anti-cinese è fratello siamese dell’internazionalismo a parole, ma nazionalismo e imperialismo nei fatti della socialdemocrazia europea.
La tesi 9 caratterizza lo pseudo-internazionalismo della Seconda Internazionale: «L’Internazionale Comunista non può limitarsi al riconoscimento formale, puramente ufficiale e senza conseguenze pratiche, circa l’uguaglianza delle nazioni, di cui si accontentano le democrazie borghesi che si definiscono socialiste. Non è sufficiente denunciare instancabilmente in tutta la propaganda e nell’agitazione dei Partiti Comunisti – dall’alto della tribuna parlamentare come al di fuori di essa – le violazioni costanti del principio di uguaglianza delle nazionalità e dei diritti delle minoranze nazionali in tutti gli Stati capitalisti nonostante le loro costituzioni democratiche».
Tutto questo non è sufficiente, dicono le tesi del 1920! Quelli che si accontentano di ciò sono “dei democratici borghesi che si auto-definiscono socialisti”, e la tesi complementare 5 è ancora più radicale perché conclude con questa definizione lapidaria: «I membri della Seconda Internazionale sono essi stessi diventati imperialisti».
Le tesi affrontano anche una parte dei partiti comunisti di allora. La tesi 10 comincia in effetti così: «È la pratica abituale non solamente dei partiti del Centro della Seconda Inter nazionale, ma anche di quelli che hanno abbandonato questa Internazionale per riconoscere l’internazionalismo a parole». Un po’ più avanti afferma: «Ciò si vede anche tra i partiti che si chiamano adesso “comunisti”». Questi partiti “che hanno abbandonato questa Internazionale” e “si definiscono adesso comunisti” sono, nel 1920, la S.F.I.O. en Francia, l’U.S.P.D. in Germania, il P.S.I. in Italia.
La “pratica abituale” di questi partiti, socialdemocratici o sedicenti comunisti, è “il riconoscimento formale dell’uguaglianza delle nazioni”, “il nazionalismo e il pacifismo dei piccolo-borghesi”. E quelli che hanno un tale “atteggiamento” nei riguardi della questione nazionale non sono per niente comunisti, bensì “dei democratici borghesi che si auto-definiscono socialisti”, mentre invece sono degli “imperialisti”.
Che cosa bisogna dunque fare per non essere un imperialista travestito da socialista o comunista? Cosa vuole concretamente Lenin nel 1920 nei riguardi della questione nazionale? È a queste domande che risponde la tesi 9: «Bisogna anche sostenere senza tregua che solo il governo dei Soviet può realizzare l’uguaglianza delle nazionalità unendo “i proletari prima, l’insieme dei lavoratori in seguito, nella “lotta contro la borghesia... Senza questa condizione particolarmente importante della lotta contro l’oppressione dei paesi asserviti o colonizzati il riconoscimento formale del loro diritto all’autonomia non è che un’insegna ipocrita, come lo riscontriamo nella Seconda Internazionale».
Ritorniamo dunque al concetto precedentemente analizzato che costituisce il nucleo centrale del pensiero di Lenin e dell’Internazionale Comunista nel 1920 sulle questioni nazionale e coloniale. I movimenti di liberazione nazionale non hanno salvezza fuori della loro sottomissione al movimento proletario delle metropoli. Ma nelle metropoli il proletariato non ha altro obiettivo immediato che la distruzione dello Stato imperialista, l’instaurazione della dittatura del proletariato e del regime dei Soviet. Dunque, anche nelle colonie la lotta di liberazione nazionale non può concludersi che nel “governo dei Soviet”. Colui che non lotta per questo risultato, ma si limita al “riconoscimento formale dell’uguaglianza delle nazioni”, non è né un comunista né un amico delle rivoluzioni anticoloniali, ma “un democratico borghese che si autodefinisce socialista”.
Oggi nel ventesimo secolo, all’epoca del capitale finanziario, dell’imperialismo”, “l’idea di uguaglianza diventa, nelle mani della borghesia, un’arma contro l’abolizione delle classi combattuta ormai nel nome dell’uguaglianza assoluta delle personalità umane”. Di conseguenza, ogni democratico borghese, anche e soprattutto se si autodefinisce socialista o comunista, non è altro, nel ventesimo secolo, che un valletto dell’imperialismo.
La stessa definizione non si adatta perfettamente ai sedicenti “comunisti” del Cremlino? In pieno idillio con gli imperialisti nord-americani, stanno al gioco della diplomazia segreta. All’O.N.U., parlano di “riconoscimento formale dell’uguaglianza delle nazioni” all’unisono con gli imperialisti nord-americani. La Russia non vuole instaurare la dittatura del proletariato e il regime dei Soviet né in Europa, né nel Terzo Mondo. Ma i presunti “comunisti” hanno la pretesa di dimostrare che per Mosca il “riconoscimento dell’uguaglianza delle nazioni” non è puramente “formale”, che Mosca difende realmente i popoli oppressi. Oggi la rottura russo-cinese è la prova che obbligherà i sordi ed i ciechi a convincersi che lo Stato russo è uno Stato imperialista. E di fronte all’impudenza degli uomini del Cremlino che osano rivendicare una ortodossia leninista contro i maoisti, lo scontro tra lo Stato russo e lo Stato cinese insegnerà con forza dialettica anche ai servitori zelanti dello Stato grande-russo la validità delle tesi dell’Internazionale Comunista del 1920
* * *
La tesi 11 è dedicata alla definizione delle colpe dei partiti comunisti nelle colonie. E articolata in sei paragrafi di cui non ce n’è uno che non denunci spietatamente l’attuale pratica dei russi e dei cinesi riguardo alle colonie (11.
Il paragrafo 1 ricorda la necessità dell’appoggio al proletariato dei paesi oppressi. Il paragrafo 2 sostiene: «La necessità di combattere l’influenza reazionaria e medievale del clero, delle missioni cristiane e altri elementi».
Il paragrafo 3 è della più grande importanza e attualità, lo trascriviamo integralmente: «È anche necessario combattere il panislamismo, il panasiatismo e altri movimenti similari che tentano di utilizzare la lotta emancipatrice contro l’imperialismo europeo e americano per rendere più forte il potere degli imperialisti turchi e giapponesi, della nobiltà, dei grandi proprietari fondiari, del clero, ecc. ecc.».
Tutto il frastuono anti-colonialista contemporaneo dei maoisti si trova qui definito. Il “panasiatismo” della vecchia o della nuova Bandung, il “panislamismo” dei Nasser e dei Ben Bella, non sono che dei “tentativi di utilizzare la lotta emancipatrice contro l’imperialismo europeo e americano”, tentativi che servono solo, come possiamo constatare adesso, a ridare forza a degli imperialismi indeboliti (Giappone, Francia gollista) o nascenti.
Se il paragrafo 3 demolisce prima la versione cinese delle rivoluzioni anti-coloniali contemporanee, il paragrafo 6 ne demolisce la versione russa e americana, democratica in generale: «È necessario svelare instancabilmente alle masse laboriose di tutti i paesi, e soprattutto dei paesi e delle nazioni arretrate, l’imbroglio organizzato dalle potenze imperialiste, con l’aiuto delle classi privilegiate, nei paesi oppressi, le quali fanno finta di appellarsi all’esistenza di Stati politicamente indipendenti che, in realtà, sono dei vassalli dal punto di vista economico, finanziario e militare. Esempio strepitoso l’inganno di cui la classe lavoratrice dei paesi sottomessi è vittima da parte dell’imperialismo alleato alla borghesia nazionale, citeremo la Palestina dove, con il pretesto di creare uno Stato ebraico, dove gli ebrei sono un numero insignificante, il sionismo ha abbandonato la popolazione indigena dei paesi arabi allo sfruttamento inglese».
Si può qui toccare con mano il significato reale dell’assordante dogmatismo “anti-dogmatico” che la “democrazia della stupidità” fa attorno ai comunisti internazionalisti. I comunisti internazionalisti avrebbero il torto, imperdonabile agli occhi di questa “democrazia della stupidità”, di partire dalla realtà e di ritrovarne il concetto nei testi classici del comunismo rivoluzionario. Per contro la “democrazia della stupidità” fa violenza alla realtà per non entrare in contraddizione con se stessa, per non aprire gli occhi sulla realtà. Si può capire come il peggiore dogmatico è il dogmatismo di coloro che pretendono che certezza e verità siano “problematiche”.
Domandiamo all’antidogmatico che ci accusa dogmaticamente di essere dogmatici: puoi affermare, per esempio, che le decine di nuovi Stati apparsi in Africa siano realmente indipendenti? Puoi forse mettere in dubbio che l’Internazionale Comunista aveva previsto nel 1920 che le lotte di liberazione nazionale nelle colonie sarebbero state utilizzate dai vari imperialismi, in caso di sconfitta della rivoluzione proletaria nelle metropoli, e che si sarebbero concluse con la formazione di “Stati egualmente indipendenti, ma in realtà vassalli”? Ecco perché parli alle masse di fenomeni nuovi, oscuri e indecifrabili, di neo-colonialismo, di aiuti ai paesi sottosviluppati, ecc. Ecco perché combatti il comunismo con la calunnia, la diffamazione e la menzogna, perché l’accusi di dogmatismo: per il terrore della verità di quel che afferma. Se la verità con la quale siamo in rapporto – tu per dissimularla, noi per diffonderla – non fosse radicata nella realtà e nell’attività pratica degli uomini, il nostro partito sarebbe perduto e tu otterresti una vittoria duratura quanto facile. Saremmo solo dei filosofi e tu un politico e un inquisitore. Ma la verità che il comunismo afferma è l’espressione teorica dei bisogni pratici, imperiosi, insopprimibili, assoluti delle masse umane. L’attività pratica della massa deve dunque congiungersi al mio partito, la sua propria espressione teorica.
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Il punto 4 della tesi 11 tratta la questione la più delicata posta dalle rivoluzioni nelle colonie: la questione dei contadini. Dice: «Bisogna cercare di dare al movimento contadino un carattere rivoluzionario, organizzare ovunque possibile i contadini e tutti gli oppressi in Soviet e creare uno stretto legame tra il proletariato comunista d’Europa e il movimento contadino rivoluzionario d’Oriente e delle colonie e dei paesi arretrati in generale».
La tesi supplementare 6 stabilisce le basi di una analisi dettagliata della situazione sociale nelle colonie che, quarant’anni dopo, mantiene tutta la sua validità e da cui bisogna partire se si vuole arrivare a una comprensione scientifica della funzione attuale delle classi nel Terzo Mondo. Si legge tra l’altro: «Grazie alla politica imperialista che ha ostacolato lo sviluppo industriale delle colonie, una classe proletaria nel vero senso del termine non ha potuto apparire che recentemente, anche se, negli ultimi tempi, l’artigianato indigeno è stato distrutto dalla concorrenza dei prodotti di alcune industrie concentrate dei paesi imperialisti. Di conseguenza, la grande maggioranza del popolo è stato rigettata nelle campagne e costretta à dedicarsi al lavoro agricolo e alla produzione di materie prime per l’esportazione (...) Si è altresì formata una enorme massa di contadini senza terra (...) Il risultato di questa politica è che dove lo spirito rivoluzionario si manifesta, non trova espressione che nella classe media acculturata, numericamente debole» (12).
La tesi supplementare 9 riconosce che: «Nel suo primo stadio la rivoluzione nelle colonie deve avere un programma che comporta delle riforme piccolo-borghesi come la spartizione della terra».
Ma ciò non significa minimamente l’accettazione della teoria menscevica della rivoluzione per tappe che i maoisti adesso fanno propria. La tesi aggiunge, in effetti, immediatamente dopo: «Ma non ne consegue necessariamente che la direzione della rivoluzione deve essere abbandonata alla democrazia borghese. Il partito proletario deve al contrario sviluppare una propaganda vigorosa e sistematica in favore dei Soviet, e organizzare i Soviet dei contadini e degli operai. Questi dovranno lavorare in stretta collaborazione con le repubbliche sovietiche costituite nei paesi capitalisti avanzati per ottenere la vittoria finale sul capitalismo nel mondo intero. Così condotta dal proletariato cosciente dei paesi capitalisti avanzati, le masse dei paesi arretrati arriveranno al comunismo senza passare attraverso le diverse tappe dell’evoluzione capitalista».
Come Lenin e l’Internazionale Comunista riportano tutte le concessioni nella questione nazionale al principio di una federazione sovietica, rportano tutte le concessioni ai contadini e ai “riformisti piccolo-borghesi come la spartizione della terra” nei limiti dell’organizzazione dei “Soviet dei contadini e degli operai”. In questo modo Lenin e l’Internazionale Comunista potevano tener conto del gradualismo economico inevitabile della rivoluzione nelle colonie, sempre combattendo la versione menscevica della rivoluzione per tappe e la versione populista della rivoluzione contadina e della “ripartizione ugualitaria della terra”.
Le garanzie offerte dai Soviet, organi di lotta politica per la conquista violenta del potere da parte del proletariato, non è tuttavia sufficiente agli occhi di Lenin. Questa garanzia rappresentata dalla forma sovietica acquista il suo significato storico solo grazie all’esistenza dell’Internazionale Comunista. Ecco come Lenin definisce il compito dei partiti comunisti nelle colonie nel punto 5 della tesi 11: «È necessario combattere energicamente i tentativi di inalberare la bandiera del comunismo come fanno certi movimenti di emancipazione che, in realtà, non sono né comunisti, né rivoluzionari. L’Internazionale Comunista dovrebbe sostenere i movimenti rivoluzionari nelle colonie e paesi arretrati solo alla condizione che gli elementi dei più puri partiti comunisti – e realmente comunisti – siano raggruppati e istruiti dei loro compiti particolari, ovvero della loro missione di combattere il movimento borghese e democratico. L’Internazionale Comunista deve entrare temporaneamente in rapporto e anche concludere delle alleanze con i movimenti rivoluzionari nelle colonie e i paesi arretrati, senza mai fondersi con essi e conservando sempre l’indipendenza del movimento proletario, anche nella sua forma embrionale».
Tesi supplementare 7: “Esistono nei paesi oppressi due movimenti che tendono a separarsi ogni giorno deliberatamente: 1) Il movimento borghese, nazionalista e democratico che ha un programma d’indipendenza politica d’ordine borghese; 2) Quello dei contadini senza cultura e poveri e degli operai per la loro emancipazione da ogni sorta di sfruttamento. Il primo tenta di controllare il secondo e sovente ci riesce in una certa misura. Ma l’Internazionale Comunista e i partiti che vi aderiscono devono combattere questo controllo e cercare di sviluppare nelle masse operaie delle colonie i sentimenti di classe indipendente. A questo fine uno dei più grandi compiti è la formazione di partiti comunisti capaci di organizzare gli operai e di condurli alla rivoluzione e all’instaurazione della repubblica sovietica».
Per concludere, possiamo riassumere il contenuto delle tesi sulla questione nazionale e coloniale approvate dal II Congresso dell’I.C.:
1) I movimenti borghesi nazionalisti e democratici delle colonie sono incapaci d’assumere il loro compito borghese: non hanno né la forza né la volontà di opporsi all’imperialismo e di combatterlo realmente.
2) Non c’è salvezza per i popoli oppressi al di fuori della federazione delle repubbliche sovietiche come forma di transizione verso l’unità completa dei lavoratori di tutti i paesi. In altri termini il movimento rivoluzionario delle colonie è subordinato al movimento proletario delle metropoli e il successo della rivoluzione nelle colonie dipende dal rovesciamento del capitalismo nelle metropoli.
3) Per conseguenza, solo l’aiuto del potere proletario instaurato nelle vecchie metropoli imperialiste, solo “un piano economico universale la cui applicazione sarà controllata dal proletariato vittorioso di tutti i paesi” può mettere fine alla dominazione economica dell’imperialismo nelle colonie e quindi per mettere ai paesi arretrati d’arrivare “al comunismo senza passare attraverso le diverse tappe dell’evoluzione capitalista”.
4) Se le condizioni particolari concrete nelle quali si svolgono le rivoluzioni anti-coloniali impongono ai comunisti una evoluzione tattica, tutto ciò non manterrà il suo significato rivoluzionario che nel quadro: A) dell’organizzazione di Soviet operai e contadini; B) della formazione di partiti comunisti i più puri – e realmente comunisti – nella loro indipendenza assoluta riguardo al movimento borghese e democratico e della lotta contro di esso; C) dell’unità dei lavoratori di tutti i paesi assicurata dall’Internazionale Comunista.
Russi e cinesi hanno totalmente tradito ciascuna di queste quattro condizioni. Ma non sono riusciti, ciò nonostante, a scoprire nuove vie storiche o a deviare la storia dalla sua traiettoria. Noi seguiamo la via della storia, della storia reale, fatta dagli uomini “non secondo la loro libera volontà, né nelle circostanze liberamente scelte, ma sotto l’impulso di fatti immediati anteriori e ineluttabilmente determinati dagli avvenimenti passati”. Poiché seguiamo questa via, ed essa sola, siamo oggi in grado di constatare come, a quarant’anni di distanza ed in seguito all’insuccesso della rivoluzione proletaria nelle metropoli, le rivoluzioni anti-coloniali si sono concluse con una sconfitta tanto disastrosa quanto tragica. Oggi, a quarant’anni di distanza, possiamo constatare che la questione coloniale e nazionale resta aperta e che lo sfruttamento imperialista di due terzi dell’umanità ha raggiunto altezze vertiginose.
È per questo che possiamo guardare con il più gran disprezzo gli imbecilli che credono di imbarazzarci domandandoci: che fate voi per Ben Bella o per Castro o per la Cina di Mao?
I comunisti internazionalisti da quarant’anni sono stati “istruiti” da Lenin, “della loro missione di combattere il movimento borghese e democratico”; hanno imparato che “si devono sostenere i movimenti rivoluzionari nelle colonie e nei paesi arretrati alla sola condizione che gli elementi dei partiti comunisti siano raggruppati e ragguagliati del loro compito particolare”; hanno imparato che non c’è salvezza per i popoli oppressi fuori dalla federazione delle repubbliche sovietiche e dell’unione degli operai di tutti i paesi realizzata grazie all’Internazionale Comunista.
Diversamente da quelli ai quali un viaggio a Cuba, ad Algeri o a Pechino basta a dargli un brividino rivoluzionario, le bocche affamate delle moltitudini del Terzo Mondo non possono essere fermate né dai Mao, né dai Castro, né dai Ben Bella, e neppure la prosperità delle metropoli imperialiste può essere assicurata eternamente dalla “competizione pacifica” e dal “libero commercio” dei Johnson e dei Kossighin. Il giorno non è così lontano quando gli sfruttati e gli oppressi del mondo intero risusciteranno i Soviet, ovvero i loro organi di lotta politica rivoluzionaria per il capovolgimento dell’imperialismo mondiale. In quel giorno rinascerà una nuova Internazionale Comunista. E allora, signori, non ci domanderete più: ma voi che fate?
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Le tesi supplementari 2 e 3 espongono sinteticamente questa teoria dell’imperialismo che costituisce la base sulla quale l’Internazionale Comunista s’è essa stessa costituita e che a quarant’anni di distanza mantiene una validità totale.
Tesi supplementare 2: «Le colonie costituiscono una delle principali fonti della forza del capitalismo europeo. Senza il possesso dei grandi mercati e dei grandi territori da sfruttare nelle colonie, le potenze capitaliste d’Europa non potrebbero sopravvivere per molto tempo. Fortezza dell’imperialismo, l’Inghilterra soffre di sovrapproduzione da più di un secolo. È solamente conquistando dei territori coloniali, dei mercati supplementari per vendere il suo surplus di produzione, delle fonti di materie prime per la sua industria in crescita che l’Inghilterra è riuscita, nonostante gli oneri, a mantenere il proprio regime capitalista. È grazie all’aver ridotto centinaia di migliaia di asiatici e di africani in schiavitù che l’imperialismo inglese è riuscito a mantenere fino ad oggi il proletariato britannico sotto la dominazione borghese».
Tesi supplementare 3: «Il plusvalore ottenuto mediante lo sfruttamento delle colonie è uno dei puntelli del capitalismo moderno. Finché questa sorgente di utili non sarà soppressa, sarà difficile alla classe operaia di vincere il capitalismo. Grazie alla possibilità di sfruttare intensamente la mano d’opera e le sorgenti naturali di materie prime delle colonie, le nazioni capitaliste d’Europa hanno cercato, non senza successo, di evitare con questi mezzi la bancarotta immanente. L’imperialismo europeo è riuscito nella madrepatria a fare concessioni sempre più vaste all’aristocrazia operaia. Mentre cerca di abbassare il livello minimo di esistenza del proletariato importando merci prodotte con la manodopera più a buon mercato dai paesi asserviti, esso non arretra di fronte ad alcun sacrificio e acconsente a sacrificare parte del plusvalore nella madrepatria grazie al possesso di quello nelle colonie».
Qui il filisteo è pronto a sottolineare quella che ritiene una contraddizione: Lenin sosteneva che lo sfruttamento delle colonie impedisce l’affondare del capitalismo metropolitano. Adesso non ci sono più colonie nel mondo ma il capitalismo vive i suoi giorni più belli e più floridi di tutta la sua storia. Pur credendosi superiore al filisteo volgare, l’estremista falsamente di sinistra è con lui in sintonia parlando di crisi del marxismo, di fenomeni nuovi e inesplicabili, ecc. ecc.
Abbiamo già risposto all’uno e all’altro: il mondo d’oggi non è assolutamente decolonizzato. Le tesi dell’Internazionale Comunista parlano di ”asservimento dalla potenza finanziaria o colonizzatrice” (tesi 2), di ”oppressione dei paesi asserviti o colonizzati” (tesi 9); le tesi dell’Internazionale Comunista denunciano “l’inganno organizzato dalle potenze imperialiste” che consiste nel “costituire degli Stati politicamente indipendenti, ma in realtà vassalli” (tesi 11, punto 6).
Nel seguito di questo studio mostreremo nel dettaglio che la realtà, economica, politica e sociale del Terzo Mondo è quella dell’asservimento più brutale a un pugno di potenze imperialiste “con l’aiuto delle classi privilegiate dei paesi oppressi”, tutto come da quarant’anni quando l’Internazionale Comunista lanciava agli sfruttati del mondo intero il suo grido di lotta rivoluzionaria. Dimostreremo inoltre nel dettaglio che, lungi dall’essere in grado di salvare i popoli asserviti e sfruttati del Terzo Mondo, la Cina stessa non può sottrarsi alle grinfie dell’imperialismo mondiale e al suo tenero abbraccio.
L’Internazionale Comunista è nata nel 1919 in seguito alla ripercussione delle lotte rivoluzionarie dell’Asia sull’Europa e dell’Europa sull’Asia. Come recita la tesi supplementare 4, nel 1920 “la rivoluzione proletaria e la rivoluzione delle colonie devono, in una certa misura, contribuire l’una e l’altra al risultato vittorioso della lotta”. L’Internazionale di Lenin fu espressione di questa confluenza e unità, e infine come espressione della sua coscienza.
Dal 1926 l’unità del movimento rivoluzionario delle metropoli e delle colonie fu spezzata, e per decine e decine d’anni, a seguito del sabotaggio opportunista della rivoluzione cinese e dello sciopero generale in Inghilterra. Ciò ha significato non altro che la sconfitta della rivoluzione proletaria nel mondo e il trionfo della contro-rivoluzione stalinista nella Russia dei Soviet, e, infine, una nuova guerra imperialista.
Come vedemmo tutto questo nel 1926, lo vediamo certo adesso, a quarant’anni di distanza, che l’imperialismo non è cambiato in nulla. L’asservimento dei popoli del Terzo Mondo resta l’unico pilastro sul quale l’imperialismo internazionale si appoggia; l’aristocrazia operaia e le classi medie generate dal capitalismo contemporaneo in Europa, negli U.S.A. e in U.R.S.S. s’ingrassano del plusvalore estorto ai due terzi dell’umanità che soffre ancora la fame; la crisi del capitalismo mondiale non potrà non dare un nuovo impulso alla lotta dei popoli oppressi del Terzo Mondo e del proletariato delle metropoli e questa lotta non potrà non unificarsi in un gigantesco assalto che distruggerà il capitalismo.
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Dopo aver denunciato il falso internazionalismo della Seconda Internazionale, come abbiamo appurato, la tesi 10 definisce “l’internazionalismo operaio” in questi termini: «L’internazionalismo operaio esige: 1) La subordinazione degli interessi della lotta proletaria in un paese a quelli che questa lotta combattono nel mondo intero; 2) Dalla parte delle nazioni che avranno rovesciato la borghesia, il consenso ai più grandi sacrifici nazionali in vista del rovesciamento del capitale internazionale. Nei paesi dove il capitalismo ha raggiunto il suo completo sviluppo e dove esistono dei partiti operai che formano l’avanguardia del proletariato, la lotta contro le deformazioni opportuniste e pacifiste dell’internazionalismo sotto l’influenza della piccola borghesia è un dovere immediato dei più importanti».
Per comodità di esposizione, abbiamo messo questi due punti alla fine della nostra analisi delle tesi del 1920 dell’Internazionale Comunista sulla questione nazionale e coloniale. Nel 1922, Lenin imputa in effetti a Stalin il tradimento di questi due punti che definiscono precisamente l’“l’internazionalismo operaio”.
Verso la fine del 1922, Lenin malato detta ai suoi segretari delle note sulla questione nazionale divise in tre parti. Questo testo porta la data del 30 e del 31 dicembre 1922 e fu spedito da Lenin a Trotski che ne fece una copia conservata adesso ad Harvard. Il 30 giugno 1956, quest’articolo è apparso nel n. 9 di Kommunist e il 1° luglio 1956 in una brochure che raccoglie altri testi di Lenin che Stalin aveva fatto sparire, tra cui il famoso “Testamento”. Per le citazioni utilizzeremo la traduzione apparsa nelle Opere Complete di Lenin, tomo36, Edizioni in Lingua Straniera di Mosca.
In questo testo, Lenin attacca Dzerjinski e Ordjonikidzé ma soprattutto Stalin per la politica nazionale che hanno praticato in Georgia: «Una questa campagna fondamentalmente nazionalista grande-russa».
Lenin evidenzia ancora una volta la questione nazionale come deve essere concepita dal punto di vista proletario: «Qui si pone una importante questione di principio: Come concepire l’internazionalismo?». E Lenin ricorda quel che aveva già scritto nei suoi lavori sulla questione nazionale, ovvero: «Bisogna distinguere tra il nazionalismo della nazione che opprime, e quello della nazione oppressa, tra il nazionalismo di una grande nazione e quello di una piccola nazione. Perciò l’internazionalismo da parte della nazione che opprime o della nazione detta “grande” (...) deve consistere non solamente nel rispetto dell’uguaglianza formale delle nazioni, ma ancora in una ineguaglianza compensando da parte della nazione che opprime, della grande nazione, l’ineguaglianza che si manifesta nella vita».
Questi erano i principi che avevano guidato Lenin durante tutta la sua vita e che aveva messo alla base della politica interna ed estera della Russia dei Soviet e della lotta rivoluzionaria dell’Internazionale Comunista. Lenin non aveva mai identificato la missione della dittura in Russia con quella di uno Stato qualunque, portasse anche l’etichetta sovietica. Lenin aveva consumato la sua vita difendendo disperatamente lo Stato dei Soviet, è vero, ma l’aveva difeso in quanto Stato del proletariato internazionale che lotta per la sua emancipazione rivoluzionaria. Già nel 1922 Lenin s’accorge che questo Stato di forma sovietica difende in realtà gli interessi della propria conservazione e non quelli della lotta rivoluzionaria del proletariato mondiale.
Nel testo sopra citato, Lenin afferma: «Si pretende occorresse assolutamente unificare l’apparato. Da dove emanavano queste affermazioni? Non è forse che questo stesso apparato russo, che, come avevo già detto in un numero precedente del mio giornale, l’abbiamo preso in prestito dallo zarismo limitandoci a spennellarlo leggermente d’una vernice sovietica? Senza alcun dubbio, si sarebbe dovuto rinviare questo provvedimento fino a quando avremmo potuto dire di poter garantire del nostro apparato, perché saldamente nelle nostre mani. E adesso dobbiamo in tutta coscienza dire l’inverso: chiamiamo nostro un apparato che, di fatto, ci è ancora fortemente estraneo e rappresenta un guazzabuglio di sopravvivenze borghesi e zariste, e che ci era assolutamente impossibile di trasformare in cinque anni senza l’aiuto di altri paesi (Lenin vuole dire, come lo prova tutta la sua opera, l’aiuto di rivoluzioni in altri paesi - NdR) mentre predominavano le preoccupazioni militari e la lotta contro la carestia. In queste condizioni, è del tutto naturale che la “libertà di uscire dall’unione”, che ci serve da giustificazione, appaia come una formula burocratica incapace di difendere gli allogeni di Russia contro l’invasione del Russo autentico, del Grande-Russo, dello sciovinista, di questo furfante che è in fondo il tipico burocrate russo. Non c’è alcun dubbio che gli operai sovietici e sovietizzati che sono in proporzioni infime, annegherebbero in quest’oceano digentaglia grande-russa sciovinista, come una mosca nel latte».
Lenin prevede fin dal 1922 che il risultato della politica social-nazionalista grande-russa effettuata dallo Stato leggermente spennellato da una vernice sovietica sarà la scissione tra la rivoluzione anti-coloniale e la rivoluzione proletaria nelle metropoli, la rovina dell’Internazionale Comunista e la nascita dell’imperialismo grande-russo. «Il pregiudizio che può causare al nostro Stato l’assenza di apparati nazionali unificati con l’apparato russo è infinitamente, incommensurabilmente minore di quello che ne risulta per noi, per tutta l’Internazionale, per le centinaia di milioni di uomini dei popoli d’Asia, che appariranno dopo di noi alla ribalta storica in un prossimo avvenire. Sarebbe un opportunismo imperdonabile se, alla vigilia di questo intervento dell’Oriente e all’inizio del suo risveglio, minassimo ai suoi occhi la nostra autorità per la brutalità o ingiustizia riguardo ai nostri propri allogeni. Una cosa è la necessità di fare fronte tutti assieme contro gli imperialisti d’Occidente, difensori del mondo capitalista. Allora non ci può essere alcun dubbio, ed è superfluo d’aggiungere che approvo assolutamente queste misure. Altra cosa è di intraprendere noi stessi, anche se fosse una questione di dettaglio, dei rapporti imperialisti riguardo alle nazionalità oppresse, risvegliando anche il sospetto della sincerità dei nostri principi, sulla nostra giustificazione di principio della lotta contro l’imperialismo. Ora, il domani, nella storia mondiale, sarà proprio quello del risveglio definitivo dei popoli oppressi dall’imperialismo e dell’inizio di una lunga e aspra battaglia per il loro affrancamento».
Quarantadue anni sono passati dopo che Lenin ha pronunciato queste parole. Durante questo periodo, lo Stato di Mosca si è completamente “compromesso nei rapporti imperialisti”, e non riguardano più solamente una “questione di dettaglio”. “L’apparato diplomatico” del Kremlino, di cui Lenin poteva scrivere nel 1922 che è “epurato degli elementi del vecchio apparato zarista, borghese e piccolo-borghese”, rivaleggia adesso con quello della Casa Bianca per il lusso e la corruzione, è diventato una delle colonne dell’O.N.U., questa “caverna dei briganti imperialisti” e sta al gioco della diplomazia segreta dell’imperialismo mondiale.
Questi quarant’anni passati, la stessa giustificazione stalinista secondo la quale lo Stato Grande-russo si rafforza per difendersi “contro l’imperialismo dell’Occidente” non regge più. Oggi lo Stato Grande-russo si rafforza unicamente per coesistere e commerciare, in pieno accordo con gli U.S.A. sulla schiena delle moltitudini affamate del Terzo Mondo e del proletariato internazionale.
Nel frattempo l’Internazionale Comunista è stata distrutta e “la piccola percentuale di operai sovietici e sovietizzati è annegata nell’oceano della gentaglia grande-russa sciovinista come una mosca nel latte”. Frattanto una seconda guerra imperialista ha devastato il pianeta, Nei bagliori di quell’incendio si è intravvista l’alba del risveglio dell’Oriente.
Noi, comunisti rivoluzionari, salutiamo quest’alba, questo risveglio dell’Asia con grida di gioia. Ma questa gioia non ci fa dimenticare che “la lunga ed aspra battaglia per il loro affrancamento”, per la liberazione dei popoli asserviti del Terzo Mondo è appena incominciata, che questa battaglia deve ripercuotersi in Europa per rimbalzare dall’Europa all’Asia, all’Africa, all’America latina, che da questa doppia ripercussione deve rinascere un movimento rivoluzionario mondiale, guidato da un’Internazionale Comunista resuscitata, che abbatta il capitalismo e instauri la dittatura proletaria universale.
La rottura russo-cinese risuona come un canto funebre che annuncia alla controrivoluzione la sua prossima morte. Le contestazioni di frontiera lungo i 9.000 chilometri che dal Pamir a Vladivostock smascherano Mosca e Pechino agli occhi dei popoli oppressi del Terzo Mondo e del proletariato internazionale.
È avvenuto quello che Lenin prevedeva nel 1922. La controrivoluzione stalinista è arrivata fino in fondo in Russia, in Cina e nel mondo. Ma ciò facendo, si è esaurita. Non c’è salvezza per i Kossighin, i Mao, i Castro o i Tito. L’abbraccio dell’imperialismo li aspetta, la rivolta del proletariato internazionale contro l’imperialismo li distruggerà.
E non è per noi cosa di poco conto ritrovare la piena coscienza del presente in quel che Lenin diceva quarant’anni or sono. Il tradimento del social-nazionalismo grande-russo non fu una sorpresa per il partito. La sorpresa dei maoisti prova invece che anch’essi hanno partecipato a questo tradimento.
Il movimento rivoluzionario di cui Lenin fu espressione teorica non è morto. Cova per divampare di nuovo domani.
(1) Vedere la “Risoluzione del 10 dicembre 1958 del Comitato centrale del P.C.C.” e la “Risoluzione adottata dal Politburo del P.C.C. il 29 agosto 1958”, di cui abbiamo citato e commentato i passaggi più importanti in Programme Communiste, N° 29 pp.10 a 13.
(2) Per il “modo di produzione asiatico” e l’utilizzo di questo concetto per uno scopo anticinese dai “comunisti” moscoviti vedere Programme Communiste, N° 29 pp. 23-24-25.
(3) “Non ti curar di lor ma guarda e passa”, Dante, La Divina Commedia.
(4) Vedere “Il comunismo e i partiti algerini”, Programme Communiste, N° 11 pp. 19 a 22: “Il Partito proletario e comunista e i movimenti nazionali e democratici”, P.C. N° 14, pp. 33 a 46, “Rivoluzione e controrivoluzione in Cina”, P.C. N° 20 pp.36 a 38.
(5) Queste tesi possono essere considerate come uscite, pressappoco, interamente dalle mani di Lenin.
(6) Quello che qui affermiamo, lo proveremo nel seguito di questo studio quando ci occuperemo delle contestazioni di frontiera tra l’India, il Pakistan e la Cina, e dei rapporti fortemente ambigui tra la Cina e l’Indonesia.
(7) Quest’articolo è stato da noi stato ampiamente analizzato in “Rivoluzione e controrivoluzione in Cina”, P.C. N° 21, pp. 30-32.
(8) Il significato della polemica Lenin-Luxembourg è completamente falsato tanto da parte degli stalinisti che dagli estremisti o dai socialdemocratici che si autodefinivano “luxemburghiani”. Non fu Lenin che attaccò Rosa Luxembourg ma quest’ultima che accusò Lenin e i bolscevichi d’opportunismo nella questione nazionale. La questione era inoltre complicata dal fatto che la socialdemocrazia polacca, divisa in due frazioni, di cui quella dove Rosa Luxembourg militava partecipava al congresso della socialdemocrazia russa, la Polonia essendo una delle “nazionalità oppresse” dallo zarismo.
In realtà Lenin non domandava assolutamente a Rosa Luxembourg di rinunciare al suo programma sulla questione nazionale in Polonia: si limitava a dimostrare la validità del programma bolscevico sulla questione nazionale in Russia. Lenin non criticava la polemica intrapresa da Rosa Luxembourg contro il nazionalismo del Bund o del partito nazionalsocialista di Joseph Pilsudski. Lenin rimproverava solamente a Rosa Luxembourg di dimenticare il “nazionalismo della nazione che opprime”.
Sempre nello stesso articolo, Lenin scrive per giustificare la tattica di Rosa Luxembourg in Polonia: «È facile immaginare che il riconoscimento da parte dei marxisti di tutta la Russia, e per primi dei marxisti grandi-russi, del diritto delle nazioni di separarsi, non esclude per niente per i marxisti di questa o quella nazione oppressa l’agitazione contro la separazione, così come il riconoscimento del diritto alla separazione non esclude in questo o quel caso l’agitazione contro la separazione»”.
Osserviamo di sfuggita che quest’ultima frase sul diritto alla separazione sia stata ignobilmente sfruttata da Thorez e dagli stalinisti francesi all’epoca della guerra d’Algeria. Ma il P.C.F. agiva in quella Francia che opprimeva l’Algeria: facebdo agitazione contro la separazione d’Algeria il P.C.F. ha pienamente adottato il nazionalismo della nazione che opprime.
(9) Ecco che cosa scriveva Il Soviet, organo della Frazione Comunista Astensionista in Italia, corrente di cui noi rivendichiamo integralmente la tradizione, nel suo n.19 del 27 aprile 1919, a proposito delle pretese differenze tra la “democrazia” dell’Intesa e la “barbarie” del militarismo prussiano: «La democrazia borghese è un esempio vivente d’ipocrisia. La differenza tra
l’Intesa e i suoi nemici risiede solamente nella mancanza di sincerità della
prima, che vuole fare e fa effettivamente come gli altri, ma non ha come essi il franco e brutale coraggio di dirlo» (da “L’utopia della pace borghese”).
Come questi “estremisti infantili” sono astratti! Non fanno alcuna differenza tra il Kaiser e Wilson! Lenin al contrario era ben più concreto. Nel 1920 scopriva delle grandi differenze tra la democrazia dell’Intesa e il militarismo prussiano: “le famose democrazie occidentali sono più vili e più ciniche degli Junkers e del Kaiser medesimo”.
(10) Ciò che potremmo definire come la teoria del movimento dialettico delle tempeste rivoluzionarie non è in alcun modo un “arricchimento” del marxismo per opera di Lenin. Il nostro partito afferma che “il preteso marxismo-leninismo è una formula menzioniera: non esiste che una sola teoria rivoluzionaria”. Il socialismo scientifico è precisamente nato dalla soluzione del problema della doppia rivoluzione impostato da Marx nel 1844.
(11) L’analisi della prassi del maoismo nella rivoluzione cinese, dal 1930 al 1949, o la stessa azione del P.C.C. dal 1921 al 1929, non rientrano nei limiti di questo studio. Questo aspetto essenziale della questione, la cui comprensione è indispensabile per capire l’attuale polemica russo-cinese, è analizzata nello studio “Il movimento sociale in Cina” in corso di pubblicazione in Programme Communiste.
(12) Il Terzo Mondo continua ad agitarsi nelle contraddizioni messe in evidenza dall’I.C. nelle tesi del 1920. Si prenda per esempio la questione de “industria artigianale indigena” “distrutta dalla concorrenza dei prodotti delle industrie centralizzate dei paesi imperialisti”. L’ultima parola in materia, lanciata con un perfetto sincronismo da maoisti e gollisti, consiste nell’invocare la rinascita della “industria artigianale indigena”. I maoisti si prodigano a diffondere nel Terzo Mondo la lezione che ha loro inflitto il fallimento del “salto in avanti” e il “tradimento” russo, e a presentare quello che resta delle Comuni popolari come un esempio di unione di agricoltura e piccola produzione industriale, la quale permetterebbe ai paesi afro-asiatici di “contare sulle loro proprie forze”. I gollisti che si presentano ai paesi sottosviluppati come una terza forza in concorrenza con l’U.R.S.S. e gli U.S.A., fanno l’eco ai maoisti, denunciano il “gigantismo” industriale di cui gli U.S.A. e l’U.R.S.S. si fanno difensori nel Terzo Mondo.