Proletariato mediorientale fra protervia imperialista e droga razziale e nazionale (Il Partito Comunista n. 164, Aprile 1988) L’assassinio attuato dai servizi segreti israeliani di Abu Jihad, dirigente dell’OLP incaricato della direzione del movimento in Cisgiordania e a Gaza, e la strage durante la repressione delle manifestazioni che la notizia ha suscitato, dimostrano che lo Stato di Israele non è disposto a recedere di un pollice della sua occupazione militare ed economica. Lo Stato d’Israele conduce la guerra contro il popolo palestinese e i suoi dirigenti, così come per quarant’anni ha condotto la guerra contro gli Stati arabi, per imporre prima la sua esistenza, poi la sua espansione nell’area mediorientale. Ma il fatto dell’imperialismo israeliano non certo cambia e neppure deve nascondere la natura altrettanto reazionaria delle borghesie e degli Stati arabi e non cambia oggi la natura controrivoluzionaria dell’OLP. Quattordici anni fa, nel giugno del 1974, il XII Consiglio Nazionale Palestinese, organo decisionale dell’OLP, riconosceva per la prima volta la possibilità di «edificare un potere nazionale indipendente e combattente del popolo su ogni parte della terra palestinese liberata». Era l’accettazione, in modo ancora ambiguo ma poi sempre più chiaro, della possibilità di costituire uno Stato palestinese a fianco di quello israeliano, un mini Stato in Cisgiordania e a Gaza, rinunciando alla «distruzione dello Stato d’Israele» e alla costituzione di uno Stato «laico e democratico» su tutta la Palestina. Era il riconoscimento, da parte della borghesia palestinese che dirigeva il movimento indipendentista, della sua debolezza militare, dell’impossibilità di ottenere un sostegno decisivo che andasse al di là delle parole da parte degli Stati arabi, della preponderanza militare dello Stato d’Israele gendarme superarmato degli Stati Uniti. Sul piano politico era un implicito riconoscimento dell’impossibilità di una soluzione sul piano nazionale alla terribile situazione in cui si trovavano sia le centinaia di migliaia di profughi palestinesi, sia quanti vivevano sotto l’occupazione israeliana. Infatti, ammesso che lo Stato d’Israele imponeva ormai, a suon di cannonate, il suo “diritto” a esistere, il lanciare la parola d’ordine della lotta per il mini-Stato, la cui indipendenza sia politica sia economica è assolutamente impossibile in un’area di acuti scontri interimperialistici, è stata una scelta reazionaria che non aveva alcun senso, neppure sul piano della rivendicazione nazionale borghese e corrispondeva soltanto al tentativo delle classi dominanti palestinesi di poter sfruttare direttamente almeno una parte dei propri proletari, e soprattutto di stornare le masse di senza patria, dei proletari dal porsi sul terreno della lotta rivoluzionaria di classe. Né era più corretto quanto sostenuto dall’ala sinistra dell’OLP, dal cosiddetto Fronte del Rifiuto che, rifiutando appunto l’ipotesi del mini-Stato, continuava a proporre la parola d’ordine della distruzione dello Stato d’Israele, posizione che servì a recuperare a sinistra le frange più combattive tra i gruppi guerriglieri e della resistenza solo per farli confluire poi sotto la cappa di piombo dell’imperialismo russo e siriano. L’OLP non faceva che prendere atto di una sconfitta avvenuta almeno quindici anni prima, quando il moto antimperialista che avevano percorso tutto il mondo arabo, dall’Egitto al Libano all’Iraq alla Giordania alla Siria era stato schiacciato per la debolezza delle borghesie arabe. L’OLP nacque allora proprio per volontà degli Stati arabi ormai allineati all’ordine imperialista, nell’intento di stornare in uno sterile irredentismo la volontà di lotta del proletariato. Ammassato nei campi dopo la guerra del 1967 e il nuovo massiccio afflusso di profughi, aveva costituito all’interno dell’OLP settori radicali decisi a porre all’ordine del giorno la questione di classe e minaccianti la rivolta sociale. La brutale repressione da parte dello Stato giordano nel settembre nero del 1971 arresterà queste tendenze permettendo all’OLP, proprio riconoscendo la possibilità di accontentarsi del mini-Stato, di tornare nelle braccia degli Stati arabi che in cambio la riconosceranno come «sola rappresentante del popolo palestinese». Ma la lezione giordana non sarà sufficiente né lo saranno le manovre di Arafat e compagnia a reprimere l’emergere di posizioni di decisa opposizione all’oppressione e allo sfruttamento su basi non nazionali ma proletarie e classiste. La tragica regia attuatasi in Giordania dovrà ripetersi in Libano nel ’76, e poi di nuovo nell’82, quando i tentativi proletari di darsi organizzazioni indipendenti di lotta e di combattimento, superando divisioni nazionali, etniche, religiose, furono sistematicamente e spietatamente repressi dal concerto reazionario di tutti gli Stati della regione con l’appoggio dell’imperialismo russo e americano. Oggi, a sei anni dall’Operazione “Pace in Galilea”, la rivolta nei territori occupati, così unanime, così “puramente” palestinese, così strettamente controllata dall’OLP da essere mantenuta su un piano strettamente pacifico nonostante la durissima repressione, così apparentemente unita nell’obbiettivo irredentista, non è solo apparsa come la via ritrovata della resistenza palestinese, come il suo risorgere dopo il martirio libanese, ma soprattutto come la vittoria dell’interclassismo, dell’unità nazionale, al di sopra delle divisioni sociali, politiche, di classe. Un’unità ribadita proprio dal vertice di Algeri con la ritrovata collaborazione tra le diverse tendenze interne all’OLP sotto l’egida di Santa Madre Russia. Questa caratteristica della rivolta è l’aspetto più osannato da tutto l’opportunismo nostrano, dal PCI, a DP, al “Manifesto”, e quello più maledetto da noi comunisti poiché questa unità, ben lungi dal costituire la forza del proletariato ne costituisce la principale debolezza. Questa unità significa solo sottomissione di ogni pur minima esigenza e rivendicazione proletaria a quelle antistoriche della borghesia e dei proprietari fondiari palestinesi. Lo dimostra l’obiettivo massimo posto dall’OLP a fine della rivolta, la costituzione dello Stato ghetto in Cisgiordania e Gaza, che altro non potrebbe significare che la creazione di un unico, grande campo profughi, fonte di mano d’opera a basso costo, da tramutare in campo di sterminio al minimo segno di insofferenza proletaria. Ma non è solo nell’obbiettivo che la rivolta è senza sbocco: limitando la lotta al reazionario piano irredentista e stravolgendo quelle che sono esigenze comuni a tutti i proletari della regione in un “problema palestinese”, si vuole creare una artificiosa e letale divisione del fronte di classe, di cui le masse povere di Palestina rappresenterebbero certamente l’avanguardia più combattiva proprio per la loro oggettiva situazione di “senza patria”. Questo autoisolamento proletario attuato della direzione della rivolta è la carta vincente dello Stato d’Israele; se esso riuscirà, con l’attiva collaborazione di tutti gli Stati della regione, a mantenere localizzata la rivolta riuscirà anche a spezzarla, è solo questione di tempo. Cos’è che preoccupa tanto il reuccio di Giordania e il presidente egiziano, come la stessa borghesia d’Israele; cos’è che fa smuovere Schultz per una missione “senza speranza” a cui però gli Stati Uniti non hanno voluto rinunciare, se non proprio la paura che questa rivolta si estenda oltre gli attuali confini, trabocchi nella vicina Giordania, dove il timoroso sovrano ha fatto reprimere sul nascere ogni manifestazione di solidarietà, accenda i ghetti del Cairo, di Beirut, di Damasco dove milioni di proletari sono ammassati e sfruttati come o peggio che nell’inferno di Gaza! Perché questo possa accadere la rivolta deve inasprirsi e radicalizzarsi, liberandosi dal bozzolo nazionalista in cui si vuole tenerla racchiusa, assumendo sempre più le caratteristiche di scontro di classe, lanciare il suo messaggio di ribellione decisa contro lo sfruttamento, l’oppressione, la dittatura borghese a tutti i proletari, dalla Giordania al Libano, dall’Egitto alla Siria e agli stessi proletari d’Israele, pur essi colpiti dalla crisi economica e dalla guerra, imposte loro da una borghesia tanto più rapace quanto più nascosta sotto il mito dello Stato confessionale e interclassista. Non distruzione dello Stato d’Israele dunque, ma di ogni Stato borghese in nome della dittatura internazionale, interrazziale, del proletariato, del Comunismo. Rompere il fronte di classe in Israele titolava il nostro giornale, a significare che il nodo da sciogliere resta la rottura del fronte di classe in Occidente, nei centri vitali dell’imperialismo, e che la lotta in questa prospettiva è l’unica reale solidarietà con la lotta del proletariato palestinese. |