Fuori dal ghetto dello staterello palestinese la ribellione sociale proletaria araba e israeliana (il Partito Comunista n.161 -1988) A un anno dagli ultimi moti anti israeliani di nuovo si verificano scontri tra giovani proletari arabi e reparti della polizia e dell’esercito israeliano in assetto di guerra. Teatro della rivolta soni i territori occupati da Israele nel 1967, la Cisgiordania e la striscia di Gaza. Mentre scriviamo, nonostante la feroce repressione, decine di morti tra i manifestanti, continuata nelle aule dei Tribunali con centinaia di processi sommari che si risolvono sempre in dure condanne di mesi e anni di carcere, la rivolta non è spenta e di ogni giorno è la cronaca di nuovi scontri tra esercito e manifestanti. La rivolta ha avuto carattere spontaneo, ripetono tutti i commentatori e conferma lo stesso Ministro israeliano della difesa Rabin. Nulla di più facile da credere se si conoscono anche lontanamente le condizioni disumane in cui sono costretti a campare il milione e mezzo di proletari palestinesi dei territori occupati, la miseria, le angherie, lo sfruttamento a cui sono sottoposti. Non esistono oggi in Palestina organizzazioni politiche veramente interessate a risolvere il dramma del proletariato palestinese. L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, riconosciuta dalla Lega araba, dalla Comunità europea, dall’opportunismo internazionale (da Mosca al PCI) come “l’unica rappresentante del popolo palestinese”, si guarda bene dall’organizzare la rivolta sociale dei suoi “rappresentati” e, come un qualsiasi altro governo borghese (di questi giorni la notizia della prossima costituzione di un governo palestinese in esilio) ha più paura dei sussulti del “proprio” proletariato che dei carri armati dell’esercito di Israele. Riprova se ne è avuta anche durante queste tragiche giornate: i giovani rivoltosi si sono trovati soli e disarmati a scontrarsi con l’esercito. I nuclei armati dell’OLP, che pure sparano a Gaza, a Gerusalemme est e anche in Cisgiordania, come hanno dimostrato recenti attentati contro obiettivi militari israeliani, si sono ben guardati dall’intervenire a fianco dei rivoltosi, dal fornire armi e assistenza militare. Questo perché l’intervento di reparti armati e organizzati nella rivolta avrebbe immediatamente fatto crescere il livello dello scontro e minacciato di estendere le fiamme della ribellione ben oltre i territori occupati, a quella polveriera sociale che è la regione medio-orientale. Se l’OLP, o qualcuna delle sue organizzazioni, facesse una cosa simile sarebbe immediatamente messa al bando dal consesso delle nazioni democratiche e tutti gli sforzi diplomatici di questi ultimi venti anni della borghesia palestinese andrebbero in fumo. Tanto costerebbe difendere fino in fondo il proletariato palestinese; per questo l’OLP si limita, come gli altri governi arabi, a blaterare di solidarietà cercando di sfruttare al massimo sul piano delle trattative tra governi la rabbia e la disperazione dei rivoltosi. L’inviato di Repubblica scrive: «Gli imberbi lanciatori di sassi e di pietre, che hanno affrontato a petto scoperto i mitra di Tsahal (l’esercito di Israele), sorridono della “rivoluzione in Cadillac” dei dirigenti dell’OLP». L’OLP, interclassista come i vari partiti che vi aderiscono, compreso il Partito Comunista Palestinese, non solo hanno volutamente ridotto il problema sociale di milioni di proletari palestinesi a quello della creazione di uno Stato-ghetto nei territori occupati da Israele, ma si sono fatti servi dei maggiori Stati imperialisti e piegati a seguire la via dei giochi diplomatici e delle trattative tra Stati invece di quella della mobilitazione delle masse, della lotta aperta contro l’imperialismo (che non è certo solo quello israeliano!). Questa loro politica di aperto tradimento verso la stragrande maggioranza del popolo palestinese che è costituito dai diseredati che abitano nei campi profughi, proletari, semi-proletari, disoccupati, sta spingendo strati sempre più vasti verso il movimento islamico e il suo estremismo parolaio. «La moschea del Saladino qui a Gaza – continua Repubblica – è stata uno dei centri della rivolta. I religiosi incitavano con gli altoparlanti i giovani sulle barricate. Per farli tacere gli israeliani hanno tolto la corrente elettrica. Ma un tempo le autorità di Tell Aviv favorivano il risveglio musulmano che distoglieva i ragazzi dall’OLP di Arafat e dal Partito comunista, tradizionalmente robusto a Gaza (…) Adesso gli autori di quella manovra denunciano il pericolo islamico, il fanatismo musulmano». Ma neppure i preti e il loro Corano possono dare una risposta a problemi che invece possono solo risolversi con la più moderna forma di lotta politica, la lotta rivoluzionaria che opponga il proletariato alla borghesia e ai proprietari fondiari, il lavoro salariato al capitale. Quale sia la situazione nei territori occupati bene la rappresentano quei giovani malvestiti, denutriti, con l’odio negli occhi armati di sole pietre da una parte, e dall’altra soldati super armati e super addestrati dotati di ogni più moderno marchingegno antisommossa. Il pugno duro, voluto dal Ministro della Difesa Rabin (laburista) fin dal 1984 e ribadito dall’azione di questi giorni, nonostante la condanna (naturalmente “morale”) da parte dei governi di tutto il mondo, dimostra che lo Stato di Israele non ha niente da offrire alle popolazioni dei territori occupati se non un sempre maggiore sfruttamento e sempre più precarie condizioni di vita e che l’unica risposta che può dare alla loro ribellione è la repressione più spietata. Lo Stato d’Israele vuol far credere, soprattutto all’interno, ma anche all’opinione pubblica internazionale, che l’occupazione di quei territori è necessaria per motivi di sicurezza. La loro restituzione ai paesi arabi, o peggio la creazione su di essi di una Stato palestinese indipendente, porrebbe lo Stato ebraico nell’impossibilità di difendersi da un improvviso attacco da parte del nemico arabo. In effetti tutta la storia dello Stato d’Israele, fin dalla sua costituzione, di cui tra qualche mese ricorrerà il quarantennale, il 14 maggio 1948, ha dimostrato che sono ben maggiori i contrasti che oppongono gli uni agli altri gli Stati arabi di quelli che oppongono questi ultimi ad Israele e che sono gli Stati arabi che devono temere l’aggressività israeliana ben più di quanto Israele, dotato di uno dei più efficienti, addestrati ed armati eserciti del mondo e protetto dagli Stati Uniti, debba temere quella araba. Inoltre, come dimostra la rivolta in atto, l’occupazione di Gaza e della Cisgiordania, abitate da popolazioni apertamente ostili, pone problemi di sicurezza non meno gravi, tant’è vero che l’esercito israeliano dal 1967 ha dovuto raddoppiare i suoi effettivi portandoli da 71.000 a 140.000 uomini. La giustificazione fornita
dalla classe dominante israeliana serve però moltissimo ad uso interno ove si
continua a spacciare ai proletari la duplice menzogna che: Su queste menzogne si è basato per quarant’anni l’imperare di una politica di collaborazione tra le classi, che significa in realtà il completo asservimento del proletariato ebraico al grande capitale e la sua collaborazione allo sfruttamento e all’oppressione del proletariato arabo d’Israele e dei territori occupati. In effetti lo Stato d’Israele non ha fatto in questi quaranta anni di “pace” che difendere l’ordine americano in Medio Oriente, è stato il cane da guardia di Washington e il suo servizio è stato ed è lautamente ricompensato (Israele è il primo beneficiario nel mondo degli aiuti economico-militari degli USA). Naturalmente la borghesia israeliana, legata a doppio filo al capitale americano, ha tutto da guadagnare da questa alleanza, ma non è così per il proletariato ebraico, anche se le sue condizioni sono relativamente migliori di quelle riservate al proletariato arabo. Ma ormai, col vacillare del gigante americano vacillano anche le eterne certezze di Israele, la crisi economica, le vittime della guerra che pesano sempre di più sul proletariato ebraico. La repressione antipalestinese dimostra proprio la debolezza del regime. Le classi dominanti israeliane si stanno barcamenando tra la difesa a oltranza di tutto quello su cui hanno le mani e cauti tentativi di spartizione del bottino con alcuni paesi arabi in cambio di un accordo di pace sempre più desiderato da una popolazione ormai stanca di guerre. È probabile che a decidere, più della volontà dei dirigenti di Tell Aviv sarà la crisi economica mondiale, infatti, nonostante la “nuova era di pace” che secondo i fessi del PCI sarebbe stata inaugurata dall’incontro Reagan-Gorbaciov e dall’accordo sullo smantellamento degli euromissili, non si stanno preparando tempi né tantomeno “ere” di pace, ma di scontri sempre più violenti ed estesi tra i maggiori Stati imperialistici, scontri di cui i primi a fare le spese saranno proprio i piccoli Stati satelliti.
La Cisgiordania, prima del ’67, era un territorio annesso alla Giordania, che lo aveva conquistato durante la guerra israelo-araba del 1948/49; la striscia di Gaza, invece, era sotto controllo egiziano e fu conquistata dall’esercito israeliano insieme a tutto il Sinai. Il deserto del Sinai è stato restituito all’Egitto nel 1982 in seguito agli accordi di Camp David, ma la striscia di Gaza, immenso serbatoio di mano d’opera a basso prezzo, è rimasta sotto il dominio di Israele. Il numero 12 della nostra rivista Comunismo (giugno ’83), dedicato alla questione medio-orientale, già dimostrava, in un capitoletto dal titolo significativo “Il dominio economico del capitale israeliano” che l’occupazione della Cisgiordania e Gaza non è motivata tanto da ragioni militari quanto di sfruttamento economico. Israele, in quanto Stato borghese, segue, come tutti gli altri Stati, una politica imperialista di rapina verso questi territori da cui cerca di trarre i massimi profitti, la prima fonte di questi deriva proprio dal supersfruttamento della manodopera araba, ed è proprio con una parte di questi profitti che può permettersi di offrire condizioni di vita leggermente migliori al proletariato ebraico in modo da tenerlo legato alla difesa della patria, della razza, della religione, dell’interesse nazionale, contrastandone la riorganizzazione su basi di classe, al fianco dei compagni di classe e di sfruttamento arabi. Nei cinque anni trascorsi da quando scrivevamo quel numero di Comunismo la situazione nei territori occupati si è ulteriormente aggravata per le classi oppresse: per quel che riguarda la Cisgiordania la confisca di terre, secondo il Ministro giordano Dudin, ha ormai raggiunto i 2.768 Kmq, cioè circa la metà dell’intero territorio, il numero dei coloni israeliani ha ormai superato le 50.000 unità senza contare gli abitanti ebrei di Gerusalemme est (circa 80.000); tra gli arabi il numero dei contadini si è ulteriormente ridotto, scendendo a circa il 25% della popolazione attiva mentre è aumentata la percentuale di proletariato industriale (pari adesso a circa il 40% della popolazione attiva) impiegato perlopiù in territorio israeliano. Ma questo peggioramento delle condizioni materiali ha aspetti progressivi: i cambiamenti nella struttura sociale hanno portato ad una trasformazione «dei modi di vita, delle mentalità e dei valori tradizionali, ancora accentuato dalla massiccia scolarizzazione della numerosa gioventù. Tali trasformazioni hanno provocato una disaggregazione delle élites feudali e della loro influenza clientelare sulle quali si era sempre appoggiato il regime giordano» (Le monde Diplomatique; gennaio 1987). C’è stata in altre parole una proletarizzazione delle masse che non vedendo altro sbocco alla loro esigenza di ribellione e di lotta si sono di nuovo avvicinate all’OLP o, come abbiamo visto, ai preti, considerati, ahimè molto a torto, come la unica possibilità di lottare contro l’oppressione capitalistica. Ancora più tragica la situazione a Gaza: «La striscia – si legge su L’Unità – controllata dagli egiziani fino al 1967, è un inferno lungo 45 km e largo in media nove, nel quale si stipano seicentoottantamila palestinesi, per due terzi profughi: una densità seconda solo a quella di Hong Kong. Qui, fino al ’70, gli occupanti hanno avuto vita difficile. Ora ci sono 20 insediamenti con 3.000 coloni che occupano un terzo della superficie e monopolizzano un terzo delle risorse idriche (…) Le punizioni collettive, gli arresti e le detenzioni senza processo, anche di ragazzi, sono prassi normale». Nonostante i problemi che comporta mantenere regioni così estese e popolose in costante stato d’assedio e le tensioni che ne derivano sia a livello interno sia internazionale, lo Stato d’Israele non è affatto disposto a rinunciare a questi territori. I partiti di destra e di centro sono apertamente contrari a ogni concessione e vogliono semplicemente mantenere lo status quo, ma anche il partito laburista non ha posizioni molto diverse e la stessa “sinistra” del partito, rappresentata da Peres, favorevole alla convocazione di una Conferenza internazionale di pace sul problema medio-orientale, non fa che riproporre il vecchio “piano Allon” del 1967: «Il piano prevede l’annessione di un terzo della Cisgiordania, compresa la fertile vallata del Giordano, la riva occidentale del Mar Morto, il deserto di Giudea e la Regione di Gerusalemme. Le Regioni centrali, a forte popolazione araba sarebbero restituite alla Giordania alla firma di un accordo di pace (…) Nella vallata del Giordano, la striscia di terra che sarà annessa ad Israele avrà una larghezza di 12 km al nord e di 24 a sud: con i suoi agglomerati “ebraici” essa avrà la funzione di cordone di sicurezza» (Baron, “Le Palestiniens un peuple”, Paris 1984). Come dire, a Israele le ricchezze, alla Giordania i problemi.
Nella situazione di tensione che si è creata a seguito della ribellione anti israeliana, si è tornati insistentemente a parlare a livello diplomatico della possibilità di convocare una Conferenza internazionale. Anche il cattolico romano Ministro Andreotti ne ha ribadita la “necessità” al suo ritorno dal recente viaggio in Israele, ottenendo il pieno appoggio del PCI. La convocazione è caldeggiata soprattutto dalla Russia e dalla Comunità europea; gli Stati Uniti negli ultimi tempi sembra siano addivenuti a riconoscerne la “necessità”. Lo Stato d’Israele, da parte sua, pone come condizioni irrinunciabili per una eventuale convocazione che l’OLP non sia presente (mentre Europa e Russia ne pretendono la partecipazione) e che la Conferenza abbia carattere consultivo e non decisionale (anche qui in contrasto con Europa e Russia). Per Mosca e per la Comunità europea la convocazione della Conferenza sarebbe molto importante perché significherebbe rendere ufficiale agli occhi del mondo intero che i rapporti di forza nell’area sono cambiati dopo dieci anni di indiscusso predominio americano. Mosca vuole che sia riconosciuta indispensabile la sua funzione politica per mantenere l’equilibrio nella regione e parimenti l’Europa vuole rinsaldare i suoi legami, già molto stretti, col mondo arabo. Per Washington si tratterebbe di riconoscere che l’alleanza privilegiata USA-Israele ha fatto fiasco e non è più in grado di assicurare il controllo dell’area. Israele teme giustamente che gli interessi delle grandi potenze possano sacrificare i suoi, finora strenuamente difesi dal padrone-alleato americano in cambio della sua funzione di cane da guardia. L’OLP ha ritrovato la sua unità, almeno di facciata, alla Conferenza di Algeri del 20-26 aprile scorso, proprio sulla questione della Conferenza internazionale di pace; lo scopo è presentarsi unita alle eventuali trattative. Dietro naturalmente ci sono state le forti pressioni della Russia che ha costretto Arafat a rinunciare ai suoi maneggi con la Giordania, condotti sotto gli auspici degli USA, e sta adesso cercando di convincere la Siria a ridurre gli attriti con la fazione di Arafat. Così l’istanza suprema dell’OLP, il Consiglio Nazionale, si è impegnato ad appoggiare «la convocazione di una Conferenza internazionale nel quadro e sotto gli auspici delle Nazioni Unite con la partecipazione dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza e le parti interessate dal conflitto, compresa l’OLP su un piede di uguaglianza con gli altri partecipanti. Il Consiglio sottolinea che la Conferenza deve avere pieni poteri». Cosa spera di ottenere l’OLP per il popolo palestinese da questa Conferenza? L’Europa si dichiara pronta a difendere l’autodeterminazione per il popolo palestinese; L’URSS difende la creazione di uno Stato palestinese indipendente in Cisgiordania e a Gaza. L’OLP secondo recentissime dichiarazioni si accontenterebbe addirittura della sovranità su una parte dei territori occupati. Al massimo dunque si tratta di ottenere uno Stato-ghetto in Cisgiordania e Gaza che non avrà nulla da invidiare alle riserve istituite dal governo americano nel secolo scorso per farvi morire di stenti e di malattie la gente indiana. Una cosa è certa, al di là della coscienza che possono averne i giovani proletari arabi che purtroppo in nome dell’indipendenza nazionale e dell’OLP si fanno bastonare, imprigionare, ammazzare: l’OLP, in quanto organizzazione nazionalista e interclassista, non difende affatto i loro interessi, ma quelli delle classi arabe privilegiate, dei ricchi fondiari, commercianti, industriali che vedono compromessi i loro affari dalla “concorrenza sleale” di Israele e che sono gli unici strati che effettivamente avrebbero qualcosa da guadagnare dalla creazione di uno Stato-ghetto, cosiddetto indipendente, in realtà sotto il doppio controllo Israelo-Giordano o Israelo-Egiziano, nei territori di Cisgiordania e Gaza. Per i proletari continuerebbe la stessa vita di miseria e di stenti, la stessa peregrinazione per trovare un lavoro sottopagato in Israele, o, ancora peggio, in Egitto o in qualche altro Stato arabo. Ma un abisso c’è anche tra quanto chiede l’OLP e il compromesso che si potrà tirar fuori da una eventuale Conferenza internazionale che, lo ripetiamo, ha per scopo una nuova ripartizione del potere tra i maggiori gruppi imperialistici e non certo il benessere delle popolazioni medio-orientali come viene sbandierato ad uso dei fessi. La soluzione dei problemi del proletariato palestinese, come del proletariato di qualsiasi regione del mondo, non passerà mai dai lucidi salotti delle Ambasciate, né uscirà fuori da giochi diplomatici. Non è un caso che nonostante l’estensione della rivolta nei territori occupati non si abbiano notizie di iniziative di solidarietà da parte dei proletari palestinesi dei campi profughi del Libano. Essi sono anni che subiscono direttamente l’occupazione israeliana eppure le loro condizioni non sono certo migliori dei loro connazionali che non la subiscono, anzi lo Stato siriano e quello libanese si sono rivelati spesso nemici peggiori dello stesso Stato d’Israele. E d’altronde cosa verrebbe loro dall’eventuale creazione di uno staterello nominalmente indipendente? Come potrebbero sperare di farvi ritorno se neppure quelli che ci abitano attualmente ci possono campare? La rivendicazione nazionalistica di una “patria” per il popolo palestinese è antistorica e reazionaria e serve solo a distogliere il proletariato palestinese dall’imboccare la strada opposta, quella del superamento delle artificiose barriere di nazionalità e di religione, per ricreare una nuova unità su basi di classe. Sfruttati, arabi ed ebrei, contro sfruttatori, arabi ed ebrei, questo è il nuovo confine che dovrà tracciare nettamente. Su questa strada il primo ostacolo è rappresentato proprio dall’OLP e da tutti i partiti che ne condividono il programma interclassista, compreso il Partito comunista palestinese. Vogliamo riportare, in chiusura, alcuni dei “punti fermi” sulla questione medio-orientale pubblicati sul numero di Comunismo già citato: «5) L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina non
rappresenta gli interessi delle masse diseredate ma quelli della borghesia
palestinese. Essa ha una propria organizzazione di tipo statale, ambasciatori
accreditati nei principali Paesi, il proprio rappresentante all’ONU, intrattiene
regolari rapporti con i regimi arabi più reazionari, come un qualsiasi Stato
borghese si muove sul terreno della diplomazia internazionale dove i grandi
ladroni decidono freddamente il destino di milioni di uomini. «6) La rivendicazione di una patria per i palestinesi corrisponde da una parte al desiderio della borghesia di crearsi un proprio Stato e sfruttare direttamente i propri proletari, dall’altra alla necessità di distogliere le masse dal terreno della lotta contro l’ordine sociale mantenendole separate dal proletariato autoctono con artificiose barriere nazionali. Questa rivendicazione è antistorica e reazionaria: il ciclo nazionale ha avuto il suo svolgimento e i fatti pongono all’ordine del giorno la guerra di tutti gli oppressi contro le classi possidenti (…) «8) il
proletariato palestinese per difendere le proprie condizioni di esistenza, la
propria sopravvivenza fisica deve porsi, in ogni Stato, contro l’ordine delle
classi possidenti e dell’Imperialismo internazionale. |