Partito Comunista Internazionale Il lavoro del partito sulla marxista Teoria della Crisi

Rapporti alla riunione di Milano 17-18 ottobre 1959
Soluzioni classiche della dottrina storica marxista per le vicende della miserabile attualità borghese
Questioni fondamentali della economia marxista

(in Il Programma Comunista n. 1 e 2, 1960)



La questione dell’accumulazione - Teoria della crisi - Anarchia della produzione - La storica discussione sull’accumulazione - Relazione sulla Luxemburg - L’ambiente storico dell’accumulazione capitalistica - Relazione su Bucharin - I "punti" di Bucharin
 
 
 
 

La questione dell’accumulazione

 La storica disputa sulla accumulazione ovvero riproduzione progressiva del capitale verte sugli "schemi" che quantitativamente Marx espone nella Terza Sezione di questo secondo libro, e che in tempo prossimo esporremo nelle forme numeriche e nelle espressioni simboliche a cui le stesse conducono.

 Ma sulla classica disputa vanno fatte alcune osservazioni, e chiediamo scusa se sembreranno non solo pregiudiziali ma anche a taluni paradossali. Dei vari commentatori di Marx alcuni sostengono che la serie degli schemi è concludente, altri che è contraddittoria e non si può svilupparla indefinitamente. Ma a quale scopo e in quale campo della trattazione generale gli schemi sono istituiti? Forse per dimostrare che sui loro binari il capitalismo potrà scorrere senza intralci indefinitamente? Assolutamente no. In quanto gli schemi della accumulazione vogliono presentare il processo nella economia capitalista pura, Marx ha voluto costruirli in modo che fossero concludenti e non errati. Ma ai fini di tutta la sua costruzione – che, come sempre dimostriamo, non è descrittiva del capitalismo come forma storica obiettiva, ma è una piattaforma del programma della sua distruzione rivoluzionaria – l’obiettivo di Marx è proprio l’opposto: dimostrare che il capitalismo, puro o misto che sia a forme precapitalistiche: NON PUÓ DURARE; deve soccombere davanti alla inesorabile impossibilità di sopravvivere. Ogni gruppo di schemi potrà essere ARITMETICAMENTE concludente, ma STORICAMENTE noi dobbiamo appunto arrivare a dimostrare che non potrà reggere.

 Per giungere a questa complessa visione dialettica della cosa va tenuto conto di molte considerazioni importanti.

 Marx imposta lo studio della circolazione del capitale – di cui sono due aspetti, trattati fin dalla attuale prima sezione, sia la riproduzione semplice che quella su scala allargata – avvertendo che egli considera un movimento di produzione e riproduzione dei capitali non nel reale quadro storico ma con la ipotesi di lavoro che tutti gli scambi tra danaro e merce che racchiudono tra loro il centrale processo di produzione si facciano a prezzi pari al valore di scambio generale e senza movimento delle mercuriali e dello standard monetario. È chiaro che non si può scegliere nessun paese capitalista geografico e nessun periodo storico anche di pochissimi anni in cui tali condizioni siano verificate; mentre è appunto il mutare di tutte queste condizioni che dà luogo al procedere del capitalismo verso le sue crisi e la sua distruzione.

 Vi sono poi, alla base degli "schemi" tanto discussi e variamente accettati o interpretati, molte altre non meno esplicite supposizioni teoriche: che non muti nel breve corso considerato la composizione organica del capitale, che non muti il tasso del plusvalore, e quindi siano sempre gli stessi rapporti che legano le tre quantità degli schemi, ossia C, capitale costante, V, capitale salari, P, plusvalore. A stento Marx per rimuovere certe difficoltà ammetterà che i tassi possano mutare quando dalla sezione I che produce mezzi di produzione si passa alle II che produce beni di consumo.

 Se tutte quelle condizioni si verificassero è certo che il capitalismo potrebbe durare eterno: ma è appunto perché nella realtà sociale non si verificano mai che esso va verso la sua fine.

 Di più è supposta un’altra condizione, che tutti i residui delle forme precapitaliste siano scomparsi, e che quindi funzioni quel mercantilismo integrale poco prima trattato, in modo che non esistano lavoratori non salariati. Tale condizione non era raggiunta al tempo di Marx nemmeno in Inghilterra, ed oggi ancora non vi è paese in cui sia raggiunta. Punto centrale del marxismo è che non si dovrà affatto attendere che tutta l’economia sia capitalismo integrale per rovesciare il capitalismo nella rivoluzione comunista!

 Se dunque gli schemi concludono contabilmente o meno, e che cosa bisogna che avvenga perché tali conti tornino, non è poi l’aspetto vitale della questione, sia della presentazione della meccanica del capitalismo che del corso della sua rovina. Sono vere tutte e due le cose: gli schemi astratti di Marx camminano bene; e il capitalismo reale cammina in modo infame.

 La teoria della accumulazione progressiva non è ancora la teoria storica delle ineluttabili crisi della economia capitalistica.

 Ed ancora un rilievo del più gran peso: tra la dottrina della circolazione del capitale che ci pare a questo punto di avere assorbita, e quella della riproduzione allargata, si interpone quella del capitale fisso e del capitale circolante, che è nella seconda sezione e va sviscerata.

 Nella riproduzione semplice il capitale costante e quello variabile, che formano il capitale totale anticipato, restano gli stessi in tutti i cicli, e il plusvalore viene consumato dai capitalisti mentre gli operai spendono il capitale variabile. È facile trovare la relazione che assicura che sul mercato si trovino tanti mezzi di consumo da poter spendere sia il guadagno dei capitalisti che il salario degli operai, e la vedremo più oltre quando parleremo delle due sezioni e accetteremo la ipotesi che tutti siano o capitalisti personali o salariati. Ma quando si va alla riproduzione allargata, una parte del plusvalore si sottrae al consumo del capitalista e va a comprare nuovi mezzi capitali, che si devono trovare prodotti nella società. Il più semplice, dice Marx (come sappiamo) in queste pagine, è supporre che tutto il plusvalore vada a nuovo capitale, ossia già Marx elimina le persone e le bocche dei capitalisti, e mostra che il capitale funziona (la solita Russia). Ma fatto tornare un simile schema non è spiegato nulla, perché tutti i pareggi si fanno tra i capitali circolanti, che sono il vero capitale nella nostra scienza economica, somma di tutto il valore dei prodotti sociali. Ma per far lavorare una macchina in più che vale mille sterline avremo tratto dagli schemi solo le dieci sterline di logorio annuo: il resto dove si prende? Marx avrebbe risposto immediatamente che questo resto di gran lunga maggiore non è vero capitale produttivo ma capitale fisso, come ad esempio le costruzioni. È il famoso "lavoro umano oggettivato" fornito da tutte le generazioni e detenuto dalla classe-Stato dominante. Si è formato nella accumulazione iniziale o primitiva del Primo Libro, storicamente, e Marx risponde che tutto il capitale si è formato così. Dunque è evidente il gioco dello scontro tra forma pienamente borghese e forme economiche preborghesi, che la Luxemburg introduce giustamente ma senza nulla aggiungere al marxismo; per il quale è classicamente chiaro che il contatto deve vedersi sia storicamente che geograficamente; ed ecco un altro immenso campo di lavoro della nostra organizzazione sul tremendo problema dei popoli "arretrati".
 

Teoria della crisi

 L’altra osservazione che non deve parere paradossale tanto è ovvia è che non occorre passare nel campo della accumulazione progressiva per dimostrare la inevitabilità delle crisi nella produzione capitalistica.

 La dottrina marxista delle crisi compare nella riproduzione semplice. È fondamentale che il capitalismo è condannato ad accumulare estendendo il capitale generale anche a costo di sacrificare a questo fato inesorabile tutto il privilegio e la vita stessa dei capitalisti-persone. Ciò malgrado anche nella umile ipotesi della costanza del capitale sociale e della riproduzione semplice, Marx affaccia la prova della teoria delle crisi. In altri termini questo significa che nella sua corsa turbolenta, assillato dalla esigenza di produrre più plusvalore per fare aumentare il volume del capitale totale, il mondo capitalista od un suo settore possano anche farci assistere, come alle travolgenti fasi di accumulazione progressiva, a fasi di "riproduzione regressiva". Proveremo al solito di non averlo scoperto noi.

 Anche con la infelice formula immediatista che giungerebbe a quella che Marx deride come "generalizzazione della miseria", collo spartire il plusvalore tra i salariati, la macchina economica resterebbe mercantile e capitalista e sarebbe soggetta a saltare nelle crisi del suo funzionamento, per dimesso che sia.

 Il paragrafo sulla riproduzione semplice, che precede quello sulla "accumulazione e riproduzione su una scala ingrandita" (là dove è detto che il più semplice sarà di ammettere che si accumuli tutto il plusvalore) va nella edizione francese a pag. 110 a pag. 133. La vera e propria teoria delle crisi la togliamo dalle pagg. 129-130.

 In questo passo Marx fa la ipotesi opposta a quella che sta a base della "verifica" degli schemi, ossia che non tutto si venda e non tutto si consumi. Il prodotto finale M’ va venduto perché, nella riproduzione semplice, si divida tra m consumato dal capitalista e M con cui riparte il ciclo. Ma: «poco importa per il momento che M’ sia comprato dal consumatore definitivo o dal commerciante che vuole rivenderlo». E poco dopo, previa la nota osservazione che lo stimolo è il bisogno del capitale di riprodursi e non la famosa domanda ed offerta dei signori "circolazionisti", o tampoco il bisogno degli esseri umani da soddisfare:

«In certi limiti, il processo di riproduzione può farsi sulla stessa scala o su una scala ingrandita, sebbene le merci che esso smaltisce non rientrino direttamente nel consumo individuale o produttivo. Il consumo dei prodotti non è necessariamente implicato nel movimento circolatorio dei capitali da cui esso sono usciti. Fino a che il prodotto si vende, tutto segue il suo corso normale nei riguardi del produttore capitalista, e il movimento circolatorio del valore capitale non è interrotto. Se questo processo è allargato e per conseguenza il consumo dei mezzi di produzione è anche allargato, questa riproduzione del capitale può accompagnarsi ad un consumo individuale più grande da parte degli operai (non si dimentichi che nella formula della riproduzione allargata quando la nuova spesa merci diventa più grande Marx ammette che, crescendo il capitale anticipato, possa crescere quello costante ma non quello salari, né relativamente né assolutamente, quando il tasso di composizione organica muti; il che non si supporrà prima di Luxemburg nel tracciare gli schemi della Terza Parte), essendo il consumo produttivo l’inizio e l’intermediario di tale processo. Può dunque avvenire che la produzione del plusvalore si accresca, che tutto il processo di riproduzione si trovi in piena fioritura, ma che tuttavia una gran parte delle merci (prodotte) non entri nel consumo che in apparenza e stazioni in realtà, senza essere venduta, tra le mani dei rivenditori (quelli all’ingrosso, che abbiano già pagato il capitalista produttore e reinvestitore) e resti insomma sul mercato. Le merci si succedono alle merci e ci si accorge finalmente che il primo lotto non era stato assorbito che in apparenza dalla circolazione. I capitali-merci si disputano il posto sul mercato. Volendo vendere ad ogni costo, gli ultimi arrivati vendono al di sotto del prezzo (qui si tratta di ciò che è nella economia marxista il prezzo di produzione, il prezzo pari al valore che contiene la esatta parte del capitale anticipato e di plusvalore al tasso medio sociale). Non ancora sono stati liquidati i primi apporti, che già i termini di pagamento sono scaduti. I venditori sono forzati a dichiararsi insolvibili o a vendere a non importa a che prezzo pur di poter pagare. Questa vendita non ha nulla a che fare collo stato reale della domanda. Essa non si rapporta che alla domanda di pagamento, alla assoluta necessità di convertire delle merci in danaro. E SCOPPIA LA CRISI. Ciò che la rivela non è tanto la diminuzione immediata della domanda che si riferisce al consumo individuale (questa sarebbe la solita ed anche modernissima spiegazione degli economisti conformisti: vedi un esempio attuale nel nostro scritto nel numero scorso sulla crisi nella agricoltura statunitense) quanto la diminuzione dello scambio di capitale contro capitale, del processo di riproduzione del capitale».
 Questa è forse una delle più eloquenti descrizioni delle crisi nell’opera di Marx. Quando il sistema capitalistico entra in crisi non avviene soltanto la contraddizione stridente e lacerante con la sua esigenza storica di allargarsi, ma avviene addirittura che viene impedita la sua circolazione in quantità costante, ossia si ha una riproduzione negativa rispetto alla riproduzione semplice, una parte di valore che già ha preso la forma di capitale produttivo, industriale, si polverizza, e la somma sociale dei mezzi di produzione circolanti come capitali discende paurosamente dal livello storico raggiunto.
 

Anarchia della produzione

 In questo quadro sta la ben nota dimostrazione degli effetti della anarchia della produzione capitalistica. Il meccanismo, i cui segreti sono nella nostra originale dottrina potentemente rivelati, riesce ad adempiere il suo compito di inglobare nel ventre del mostro che è il capitale totale gli antichi patrimoni, ossia il lavoro morto delle generazioni che furono, e il lavoro della armata proletaria in cui si irregimentano i viventi, e soddisfa, fra terribili alternative, la consegna di riprodurre sé stesso in più mostruoso dimensioni; ma quello che non risolverà mai, anzi meno di qualunque antica forma storica di economia, è il proporzionamento degli sforzi produttivi ai razionali bisogni degli uomini.

 Uno degli antichi aspetti della insanabile contraddizione è apparso limpido nello squarcio che abbiano riprodotto testé e commentato sobriamente, e in tutta questa nostra ricostruzione della circolazione dei capitali, ben altra cosa da quella delle merci e della moneta. Quando siamo in un momento, buono, per la società borghese e la forma capitalistica, quando gli ”schemi” scorrono e l’accumulazione ascende con ritmi positivi, a maggior capitale costante (e maggior capitale fisso) corrisponde (vedi Abaco) un prodotto maggiore, ma in genere un capitale variabile globale minore (parte totale della classe operaia), o quanto meno una parte individuale minore (salario) per ciascun suo componente; mentre col valore globale del prodotto aumentato e colla aumentata produttività del lavoro cresce la parte della classe capitalistica, e a noi poco importa se vada nelle fauci dei suoi singoli negrieri o in quelle, più avide di carne umana, del mostro unico che personifica la macchina sociale del capitale.

 Se invece vengono i giorni di dolore per i mostri e per il Mostro, se la Crisi degna di questo nome si affaccia (e lo mostrammo colle cifre del 1929 americano), se ricorre il venerdì nero, i magazzini rigurgitano di merci invendute, i prezzi calano sotto quello di produzione, in un primo tempo come il brano di Marx ha echeggiato si avrà una più favorevole distribuzione di consumi ai salariati e tutto il proletariato preleverà di più come classe, anche se la disoccupazione avanzerà nel campo aperto dal crollare dei profitti che il capitale depredava. Questo prelude alla generale rovina, ma allo stesso prelude la fase di schemi ruotanti al massimo di alta produzione e di conquista dei mercati. Anche dietro questo miraggio è la grande crisi; guerra, distruzione con armi sempre più spietate, carneficina e sangue, rarefazione dei consumi vitali e svilimento del denaro nelle mani dei superstiti piccoli borghesi cresciuti nelle eterne illusioni ”colcosiane” e ”distensive”.

 Nell’uno o nell’altro estremo, girino o si inceppino gli schemi, il marxismo rivoluzionario avrà sempre vinto – ieri una battaglia di dottrina disperdendo la menzogna circolazionista e benesserista che nei giochi monetari individuali liberi o ruffianamente guidati presenta l’inganno di assurdi equilibri, e li pone alla fine di un lungo corso della accumulazione travolgente – domani una battaglia rivoluzionaria e una guerra sociale, quando il dominio della vulcanologia delle crisi sociali consentirà alla coscienza teorica e alla direzione strategica del risorto partito marxista di abbattere sotto i colpi della dittatura comunista la bestia immensa e disumana del capitale accumulato, nelle sue tutte infami metamorfosi di mercanzie, di finzioni finanziarie, e di galere produttive aziendali per gli schiavi salariati.
 

La storica discussione sull’accumulazione

 In quanto precede è stato dato uno sviluppo molto ampio alla presentazione fatta a Milano dell’ "Abaco economico di Carlo Marx" per l’inizio del secondo tomo del Capitale, in distribuzione come formulario tra i gruppi della organizzazione (l’Abaco, o formulario, del I Tomo sarà dai lettori trovato nel testé uscito Nr. 10 di Programme Comuniste di Gennaio-Marzo 1960, richiedibile alla nostra redazione o a ”P.C. Boîte Postale 375, Marseille-Colbert”).

 Scopo di questo ampio sviluppo è stato anche il presentare le relazioni sulla classica polemica marxista che erano state affidate per l’opera della Rosa Luxemburg ad una compagna francese, e per quella di N. Bucharin ad un compagno del centro di Milano, e a cui facciamo posto.

 Per la intelligenza della discussione tra marxisti è bene ricordare (dato che si decise di rinviare le formule quantitative alla prossima riunione e relativi resoconti) che tutto il dibattito porta sulla "realizzazione" del plusvalore, ossia di tutto il prodotto, e al quesito se essa era possibile nell’ipotesi che tutti fossero nella società o capitalisti industriali o proletari salariati. Basta ricordare che Marx divise tutta la produzione di una società in due sezioni: la prima che produce strumenti di produzione e la seconda che produce strumenti di consumo. Per ciascuna si sa che il prodotto finale portato al mercato si compone del rispettivo capitale costante, capitale variabile e plusvalore. I portatori di denaro per realizzare queste merci sono i proletari per il capitale variabile delle due sezioni, e i capitalisti per tutto il resto. Clienti della prima sezione non possono essere che i capitalisti che ne ricomprano (tra essi) tutto il prodotto – clienti della seconda per i beni di consumo sono i proletari per il capitale variabile delle due sezioni, e i capitalisti per il plusvalore delle due sezioni. Indicando le due sezioni con numeri romani a piede delle note lettere C, V e P, diremo che tutto il danaro da spendere in consumi è VI + VII + PI + PII. Ma è chiaro che tutte le merci consumabili sono il prodotto della II sezione ossia CII + VII + PII. Bucharin e Luxemburg sono di accordo che tutto cammina nella riproduzione semplice, e che la condizione evidente che nasce dal confronto delle due somme è che CII sia uguale a VI + VI. Quindi se tutto si realizza (monetariamente e mercantilmente) la legge della semplice riproduzione è che il capitale costante della seconda sezione deve equivalere al capitale variabile della prima più il plusvalore della prima.

 Colla riproduzione allargata comincia la complicazione, e per ora non daremo né gli schemi di Marx e Luxemburg in cifre, né le formole di Bucharin. In apparenza, per la prima nella riproduzione allargata non si può realizzare tutto il plusvalore, mentre per il secondo si può. Noi abbiamo mostrato come né Marx né alcun marxista vuole dimostrare che la economia capitalista può funzionare allo stato di regime, nemmeno nella riproduzione semplice. Mai il capitalismo potrà realizzare tutto quanto produce o sovraproduce. La sua condanna è la serie delle crisi che dimostrano che il sistema non sa né può consumare tutto quanto produceprodurre quello che la società ha bisogno di consumare. Per principio il capitalismo non realizza, il che determina la sovversione delle equivalenze merci-moneta, e lo sbocco di regalare o distruggere, peggio che svendere, le sue merci, ossia dilapidare la umana forza lavoro, per la impossibilità di dare al lavoro una disciplina organizzata.
 

Relazione sulla Luxemburg

 L’opera della compagna Rosa Luxemburg sulla Accumulazione del Capitale e i suoi scritti successivi in risposta alle critiche che le furono mosse si innestano di una discussione durata più di un secolo. Due erano i quesiti posti da tutti: il primo, perché la riproduzione allargata e a quale domanda essa risponda; il secondo, collegato al primo: chi realizza il plusvalore?

 Anche Marx aveva posto questo problema tracciando uno schema della riproduzione allargata, che la Luxemburg esamina osservando che il suo presupposto è lo stesso di quello della riproduzione semplice – cioè una società composta esclusivamente di capitalisti e proletari e, d’altra parte, la produzione capitalistica che realizza essa stessa il plusvalore. Ora la Luxemburg dice: questo presupposto corrispondeva perfettamente alla riproduzione semplice, poiché in questa si può ammettere il caso dello sviluppo della riproduzione del capitale individuale come elemento interno della società capitalistica, ma non si adatta più alla riproduzione del capitale sociale che storicamente si presenta in un certo ambiente geografico nel quale esistono forme sociali non ancora capitalistiche. Dunque, secondo la Luxemburg, questo presupposto teorico impedisce di rispondere ai quesiti fondamentali della polemica storica: per chi avviene la riproduzione allargata? E chi realizza il plusvalore?

 Prendiamo ora lo schema stesso: naturalmente è escluso – e l’hanno escluso tutti – che il capitalista e il proletario possano, nella riproduzione allargata, realizzare il plusvalore, perché in questo caso torneremo al caso della riproduzione semplice. Il proletario può scambiare contro denaro la merce che corrisponde al capitale variabile della sezione I e II; il capitalista può realizzare il plusvalore consumandolo. Ma la parte di plusvalore che si capitalizza, il capitalista non può realizzarla, a meno di ammettere che il capitalista realizzi il suo plusvalore accumulandolo, e accumuli soltanto per accumulare. Ciò porterebbe a descrivere la società capitalistica in questo modo: la produzione di carbone è aumentata perché la produzione di ferro possa aumentare, a sua volta la produzione di ferro aumenta perché la produzione meccanica aumenti, e così via all’infinito.

 Ora, questo, secondo la Luxemburg, si risolverebbe in una "giostra a vuoto", né tale può essere la deduzione da trarre dall’insieme della teoria marxista. Essa quindi vorrebbe (e occorre subito precisare che la Luxemburg non nega la necessità degli schemi in genere allo scopo di eliminare gli aspetti secondari della questione e porre il problema in tutta la sua purezza) riportare il problema dell’accumulazione nel suo quadro storico reale, perché, non facendolo, non si risponde ai due quesiti già detti: per chi la domanda allargata? e chi realizza il plusvalore? né il quesito correlativo: come il plusvalore si capitalizza?

 Il capitalismo – osserva la Luxemburg – nasce alla fine del Medio Evo in un ambiente europeo intorno al quale continuano a sussistere paesi extracapitalistici. Inoltre, nello stesso seno della società capitalistica, permangono ambienti sociali che si possono considerare "esterni" nel senso che vivono in rapporti economici non ancora di carattere capitalistico: per esempio, la piccola azienda contadina. E si può anche dire che questi ambienti, sebbene si riducano sempre più, continuano a sussistere ancor oggi, poiché non in tutti i paesi la produzione contadina si svolge nel quadro di rapporti capitalistici. Nella discussione storica intorno al problema della accumulazione – nota ancora la Luxemburg – hanno giocato un ruolo enorme due risposte: il commercio internazionale e il commercio estero. Ma gli economisti non si sono accorti che fare intervenire questi fattori significa soltanto spostare il problema, giacché per noi, quando si parla di capitale sociale totale, si parla della società capitalistica in genere. Il problema del commercio internazionale dev’essere quindi inteso nel senso non della geografia politica delle diverse nazioni, ma in quello dell’economia sociale presa nel suo complesso, e dato al termine "commercio internazionale" il contenuto che gli compete, si vede che la domanda la quale provoca l’allargamento della riproduzione totale è una domanda esterna alla società capitalistica, non proveniente né da proletari né da capitalisti: chi realizza il plusvalore è dunque questa domanda esterna, qualunque essa sia.
 

L’ambiente storico dell’accumulazione capitalistica

 Naturalmente, il problema non si pone nella stessa forma in tutti gli stadi di sviluppo del capitalismo. Tre stadi possono considerarsi: 1) Intorno al capitalismo sussiste un’economia naturale che ignora del tutto la moneta; che da una parte produce per i bisogni e dall’altra non ha eccedenze non consumate: tutto ciò che è prodotto è consumato. 2) Dopo l’economia naturale, di cui, senza risalire al comunismo primitivo, abbiamo molti esempi storici, v’è l’altro modello dell’economia feudale medievale e, 3), dopo questa, l’economia mercantile semplice, la cui formula non è D-M-D, ma M-D-M. Questa forma, propria dell’artigianato del Medio Evo, sopravvive fino ad oggi sebbene su scala ristretta.

 Se l’accumulazione del capitale avviene mediante la lotta contro l’economia naturale, questa dev’essere sostituita con un’economia mercantile per il capitalismo. Perché? Ebbene, perché l’economia naturale – come pure quella semi-naturale del Medio Evo nelle campagne – non chiede al capitalismo nulla e non gli offre nulla: è rinchiusa completamente in se stessa. Essa non può dargli né mezzi di sussistenza che sarebbero necessari alla capitalizzazione del plusvalore realizzato, né la forza-lavoro, tenuta prigioniera come essa è da rapporti di produzione percapitalistici. Esempio la servitù della gleba durante il Medio Evo, che stabilisce un rapporto di dominio personale tra il contadino-servo e il signore e che impedisce ai contadini di recarsi in città a lavorare per il capitale, in quanto li lega stabilmente alla gleba. Tale rapporto dev’essere spezzato, e ciò è avvenuto in tutta la storia del capitale durante il Medioevo e, a maggior ragione, in quella della lotta dell’imperialismo nelle Colonie, dove è necessario distruggere gli istituiti sociali ancora riposanti su rapporti di produzione precapitalistici per poter utilizzare non solo le materie prime prodotte da quella società, ma anche la forza di lavoro "di colore" senza la quale il capitalismo non potrebbe sfruttare le risorse di zone climatiche in cui i bianchi non possono lavorare. Ma, una volta distrutti rapporti sociali basati sull’economia naturale, il capitale non ha ancora raggiunto il suo scopo – l’instaurazione di un rapporto in cui possono trarre dall’ambiente sociale ed economico storico ricchezze nuove per proseguire la sua accumulazione anche dal punto di vista fisico: nuove materie prime, nuove forze di lavoro. In altri termini, il capitalismo deve sostituire all’economia naturale una economia mercantile.

 Come realizza questo obiettivo? Apparentemente (e, com’è ovvio, gli apologeti del capitalismo dicono che si tratta di un processo pacifico) sembra che la superiorità del modello capitalistico del tenore di vita e di tecnica produttiva imponga da sé questa trasformazione: in realtà, essa è possibile solo distruggendo e rovinando intere società secolari. La Luxemburg, che dà una vasta illustrazione di questi paesi nella fase precedente l’accumulazione capitalistica, ricorda la rovina del comunismo primitivo in India o presso le tribù berbere dell’Africa del Nord, o, più semplicemente, quella del farmer americano che, fino alla metà del secolo, era nello stesso tempo agricoltore e produttore di tutto ciò (utensili, vestiario ecc.) di cui aveva bisogno. La sostituzione di questa economia quasi-naturale è avvenuta mediante l’introduzione di manufatti inglesi (materiale ferroviario, attrezzature industriali); e, più tardi, mediante la formazione di un’industria manifatturiera nella stessa America del Nord. Tutto questo processo determina la separazione fra agricoltura e mestieri rurali; a poco a poco la classe contadina è costretta a limitarsi all’unica forma di attività che il capitalismo non le possa subito strappare, la coltivazione del suolo (specie tenuto conto dei rapporti di proprietà vigenti nel Nuovo Mondo), e a comperare le merci prodotte nella grande manifattura capitalistica – tutto ciò attraverso una violenza che può essere aperta o soltanto economica (aumento delle tasse, ecc.). Introdotta l’economia mercantile semplice, quando il contadino è obbligato a limitarsi all’attività agricola perché i mestieri rurali sono spariti, comincia una terza fase della lotta, quella concorrenziale, che ha per traguardo la rovina dell’economia semplice attraverso la concorrenza dei prezzi, giacché la merce prodotta dalla manifattura capitalistica costa meno e rimpiazza agevolmente quella di origine artigiana, non più comprata perché troppo cara. Anche qui l’esempio è dato dagli Stati Uniti, e la Luxemburg dimostra come, dopo la guerra di secessione, lo sviluppo speculativo delle costruzioni ferroviarie e l’emigrazione crescente abbiano portato alla costituzione di un’agricoltura sviluppantesi in forme prettamente capitalistiche: proprietà molto estese, metodi di gestione del tutto industriali, produzione enorme con cui la piccola farm del coltivatore diretto, del contadino individuale, non è più in grado di competere. Risultato: completa rovina del farmer.

 Ma l’esempio potrebbe essere ripetuto per molti altri paesi e ceti sociali, perché oltre alla rovina del contadino v’è stata quella dell’artigiano: la generalizzazione dei rapporti di produzione capitalistici è seminata di macerie.

 Concludendo, la Luxemburg mostra come, da un secolo, il problema dell’accumulazione abbia visto diviso gli economisti in due campi: da un lato, gli scettici che negavano la possibilità dell’accumulazione allargata (per es. Sismondi), forse perché sentivano a quali risultati rivoluzionari essa avrebbe condotto; dall’altro, i cosiddetti ottimisti grossolani per i quali il capitalismo era capace di autofecondarsi all’infinito e, quindi, era la forma sociale eterna.

 Tali le concezioni che la Luxemburg, come marxista militante intende combattere. È una stoltezza, dice, prendere alla lettera uno schema che è soltanto un metodo di esame di un problema a volerne concludere l’eternità della forma sociale che noi combattiamo. La soluzione marxista del problema dell’accumulazione si colloca fra i due estremi dello scetticismo e dell’ottimismo, e risiede – secondo lo spirito (se così si può dire) di tutta la dottrina marxista – in una contraddizione dialettica: da un lato, la accumulazione capitalistica ha bisogno, per potersi realizzare, di un ambiente sociale non-capitalistico; dall’altro, non può andare innanzi senza scambi con questo ambiente (scambi, naturalmente, tutt’altro che pacifici) e senza la sua erosione e, in definitiva, la sua rovina.

 Non solo tutto il plusvalore non è realizzabile nel seno della società capitalistica, ma la sua stessa capitalizzazione esige lo sfruttamento di tutte le risorse materiali e umane del globo. Con l’estensione del capitalismo su scala mondiale, la capitalizzazione del plusvalore diventa sempre più difficile, perché non si trovano più nuove fonti di materie prime e di forza lavoro; d’altro lato, la parte, del prodotto sociale che corrisponde a C e P cresce in rapporto a V per effetto dell’aumento della composizione organica del capitale. Di qui la contraddizione (secondo la Luxemburg, che scrive nel 1911-12), di qui l’universalizzazione del capitalismo e, insieme, la catastrofe verso il quale esso procede. Di qui il fatto che i paesi capitalistici dipendono sempre più gli uni dagli altri per la capitalizzazione del plusvalore, perché se C aumenta in rapporto a V ciò avviene, naturalmente, sotto forma di materie prime che possono venire dal di fuori ma anche di un macchinario che può essere prodotto solo in rapporti di produzione altamente capitalistici, mentre invece per la realizzazione del plusvalore dipendono sempre da un ambiente extracapitalistico, e quindi entrano fra loro in una concorrenza accresciuta per la sua divisione, per il dominio imperialistico del mondo. Le condizioni della realizzazione del plusvalore e le condizioni del rinnovamento del capitale cadono così in una crescente contraddizione reciproca che è solo il riflesso della legge tendenziale della caduta del tasso di profitto, essa stessa contraddittoria.

 Tutta la critica della Luxemburg potrebbe riassumersi rilevando che essa prende le mosse dallo schema di Marx soltanto per poter lottare contro le teorie apologetiche del capitalismo, che di questa forma sociale prevedono l’eternità, e combattere i revisionisti del marxismo rivoluzionario. Il suo schema è, in breve: il capitalismo si nutre di un ambiente extracapitalistico; nutrendosene lo distrugge; quando lo avrà tutto distrutto, verrà la ora storica in cui esso dovrà, a sua volta, necessariamente soccombere (il che non vuol dire: aspettiamo che il capitalismo, estendendo i suoi rapporti di produzione a tutto il mondo, distrugga sé stesso: la Luxemburg individua una tendenza storica, tanto più forte quanto più prolungata nel tempo; la lotta rivoluzionaria del proletariato può abbreviarla e, se vittoriosa, troncarla di netto alla scala mondiale).
 

Relazione di Bucharin

 Lo studio di Bucharin – L’Imperialismo e l’accumulazione del capitale – al fine di confutare la deduzione della Luxemburg circa le contraddizioni a cui condurrebbero gli schemi dati da Marx nel II tomo del Capitale non consiste nel dare nuovi specchietti numerici delle due sezioni relativi a cicli (anni) successivi della produzione capitalistica che risolvano i dubbi sollevati attraverso quadrature numeriche. Come in una conferenza che Bucharin tenne a Mosca al tempo del IV congresso della Internazionale Comunista, egli svolge invece un gruppo di formule che per ora non riporteremo. Egli divide in due parti il plusvalore della sezione prima e della seconda di cui una sia quella consumata dai capitalisti e quindi realizzata acquistando sul mercato beni della sezione II (consumo), e l’altra sia invece aggiunta al capitale anticipato nel nuovo ciclo; ed evidentemente da realizzare sul mercato nell’acquisto di un maggior capitale costante e di una maggiore somma di forza lavoro. Bukarin mostra che, come nella riproduzione semplice, la continuità del ciclo non si verifica sempre, ma è legata alla condizione che noi abbiamo riportata, ossia che "il capitale costante della seconda sezione sia eguale alla somma del capitale variabile e del plusvalore della prima".

 Nel caso della riproduzione allargata Bucharin sviluppa una analoga relazione che ci limitiamo a riportare senza dimostrazione algebrica, ed è questa: "Il capitale costante della seconda sezione, aumentato della parte di plusvalore di questa portata a capitale costante, deve essere uguale al capitale variabile della prima sezione, più il plusvalore consumato di questa, più ancora la parte del plusvalore di questa portata a capitale variabile". Infatti il plusvalore di ciascuna sezione si divide in due parti come detto, e poi quella riservata ad investimento si divide tra investimento in capitale costante ed investimento in salari.

 Il senso della ricerca di Bucharin vuole essere questo; rispettate queste relazioni, si potranno sempre costruire delle serie di schemi in cui tutto il plusvalore, consumato e non, resta tutto "realizzato" ossia messo nel circolo mercantile, senza l’obbligo che introduce la Luxemburg di far venire sulla scena un terzo tipo di compratori, che non siano né capitalisti né gli operai salariati da essi.
 

I "punti" di Bucharin

 Questa ricerca algebrico-aritmetica potrà essere svolta, ma si limita al carattere formale della questione. A noi sembra importante il richiamo al fatto che anche la riproduzione semplice non è assicurata che se si verifica una certa condizione che nella generalità dei casi manca. Quindi anche nella riproduzione semplice non è sicuro che "si realizzi tutto il plusvalore" e può sorgere l’intoppo e la rottura del ciclo e la "crisi" come Marx previde, anzi come volle dimostrare inevitabile in tutte le ipotesi.

 Per ora interessa annotare brevemente che cosa Bucharin, premesso quanto sopra, risponde a quelle che egli chiama, forse un poco troppo formalmente, le critiche della Luxemburg a Marx.

 Primo punto. Per chi ha luogo la accumulazione allargata? Secondo Bucharin questa domanda finalistica introduce nella analisi obiettiva un elemento soggettivo e volontaristico che esula dalla dialettica marxista.

 Secondo punto. Avendo la Luxemburg ammesso che cresce il consumo della società, tanto dei capitalisti che dei proletari (sebbene dei primi il numero diminuisca, dei secondo cresca), osserva Bucharin che così essa ha già risposto alla domanda: per chi si allarga la produzione. In ogni forma sociale lo stesso fatto del crescere della popolazione determina la possibilità di un maggiore consumo, senza che si possano imputare a Marx le degenerazioni di quelli (Tugan-Baranowski) che caddero nella economia volgare trattando separatamente la produzione e consumo.

 Terzo punto. Non è giusto dire che la accumulazione si spiega se i capitalisti consumano il plusvalore ma non si spiega più se in parte lo investono "astenendosi" dal consumarlo. Bucharin accusa di contraddizione la critica e la riduce all’errore di dire: dato che i capitalisti sono la classe dominante, i fenomeni della economia capitalistica avvengono secondo le brame dei capitalisti. Ha ragione Bucharin ma questo lo sapeva Luxemburg non meno di lui!

 Quarto punto. Luxemburg dice che non può essere scopo dei capitalisti il mantenimento di una sempre maggiore armata di operai. Bucharin procura di dimostrare che questa è una necessità, e quindi uno scopo, nel senso che, la classe capitalista perderebbe il suo dominio se il numero dei proletari non aumentasse di continuo. Forse non lo avrebbe neppure conquistato contro i vecchi poteri storici. La tesi di Bucharin non si traduce in una filantropia dei capitalisti verso la popolazione operaia, eppure, nel giovane capitalismo, essi lo credevano davvero.

 Quinto punto. Luxemburg trova strano che i capitalisti siano fanatici dello allargamento della produzione come fine a se stessa e senza vantaggio né per i proletari né per gli stessi borghesi, e chiama questo ragionamento una "giostra a vuoto", che non può fornire una spiegazione scientifica. La risposta di Bucharin è data dalla citazione di un passo di Marx tratto dalle "Teorie sul plusvalore", il quale corrisponde ai molti da noi dati nelle nostre ricerche.

«Il capitalista industriale... come capitale personificato, produce per amore della produzione, vuole arricchire per amore dell’arricchimento: nei limiti in cui egli è un semplice funzionario del capitale, un esponente della produzione capitalistica, quello che gli interessa è il valore di scambio ed il suo aumento, non il valore di uso e l’aumento della sua grandezza; è l’aumento della ricchezza astratta, l’appropriazione crescente del lavoro altrui. Egli è dominato dallo stesso stimolo assoluto dell’arricchimento che anima il tesaurizzatore, con la differenza che non lo soddisfa nella forma illusoria di tesori aurei ed argentei, ma in quella della formazione di capitale, ch’è vera e propria produzione... Ma il capitalista industriale diviene più o meno incapace di assolvere la sua funzione dal momento in cui vuole, invece della accumulazione di piaceri personali, il piacere della accumulazione. Anche egli è produttore di sovraproduzione, produzione per altri».
 Ciò vale, aggiunge Bucharin, soggettivamente cioè dal punto di vista del "motivo animatore" dei capitalisti, anche se non si possono negare le conseguenze oggettive di queste tendenze soggettive, conseguenze che consistono nella soddisfazione dei bisogni crescenti della società nel suo insieme.

 A questo punto si potrebbe chiedere a Bucharin se egli non vedesse un lato attivo della produzione sociale industriale solo fino ad un certo punto storico dopo il quale l’allargarsi della produzione divenga completamente antisociale in tutti i suoi effetti; e quindi imponga proprio la necessità di abbattere la forma capitalistica. Ma erano cose che Bucharin, sebbene talvolta accanito formalista nella polemica, conosceva a fondo.

 Egli viene infine a confutare la tesi che i compratori che il capitalismo non trova nel suo interno debbano essere cercati nei paesi socialmente precapitalistici ed esamina punto per punto la tesi della Luxemburg. Egli non ne contesta di certo gli aspetti storici nel quadro mondiale contemporaneo, ma vuole solo negare che senza mercati non borghesi il capitalismo non possa esistere nei paesi dove ha fatto la sua prima apparizione, e soprattutto che non si sia già posta la esigenza del suo rovesciamento.

 Lo studio ulteriore di questo dibattito non può che mostrare come i grandi rivoluzionari Luxemburg e Bucharin siano dalla stessa parte della barricata contro i nefasti dell’opportunismo revisionista, che in forma parallela entrambi li uccise.

 Tuttavia è un dovere del movimento marxista che segue loro e noi di porre ordine in queste questioni portando nella giusta luce i passaggi vitali tra la trattazione economica e quella storica e politica, e, per dirla nel solito modo abbreviato, filosofica.

 A questo lavoro furono dati nella riunione dai varii compagni che vi lavoravano i contributi che abbiamo riportati, e che sono di base allo sviluppo nei varii settori e campi.