Partito Comunista Internazionale

 

LENIN NEL CAMMINO DELLA RIVOLUZIONE

Conferenza tenuta il 24 febbraio 1924 alla Casa del Popolo di Roma




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La funzione del capo

Lenin è morto. Il colosso, e non da ieri, ha abbandonato l’opera sua. Che cosa significa questo per noi? Qual è il posto della funzione dei capi nell’insieme del nostro movimento e del modo con cui lo giudichiamo? Quale sarà la conseguenza della scomparsa del più grande capo sull’azione del partito comunista russo e della Internazionale Comunista, su tutta la lotta rivoluzionaria mondiale? Riandiamo un poco, prima di venire alla conclusione di questo già lungo discorso, alla valutazione nostra di questo importante problema.

Vi sono quelli che tuonano contro i capi, che vorrebbero se ne facesse a meno, che descrivono, o fantasticano una rivoluzione “senza capi”. Lenin stesso illumina colla sua limpida critica questa questione, sgombrandola dal confusionismo superficiale. Vi sono, come realtà storiche, le masse, le classi, i partiti e i capi. Le masse sono divise in classi, le classi rappresentate da partiti politici, questi diretti da capi: la cosa è ben semplice. Concretamente parlando, il problema dei capi ha preso uno speciale aspetto nella II Internazionale. I suoi dirigenti parlamentari e sindacali avevano incoraggiato gli interessi di certe particolari categorie del proletariato, a cui tendevano a costituire dei privilegi attraverso compromessi anti-rivoluzionari colla borghesia e lo Stato.

Questi capi finirono col tagliare il legame che li univa al proletariato rivoluzionario, avvincendosi sempre più al carro della borghesia: nel 1914 si rivelò apertamente che essi, da strumenti dell’azione proletaria, erano divenuti puri e semplici agenti del capitalismo. Questa critica, e la giusta indignazione contro coloro, non devono fuorviarci al punto di negare che i capi, ma capi da quelli ben diversi, esisteranno e non possono non esistere anche nei partiti e nella Internazionale rivoluzionaria. Che ogni funzione direttiva si trasformi automaticamente, qualunque sia la organizzazione e i suoi rapporti, in una forma di tirannide o di oligarchia, è argomento così trito e spropositato che perfino Machiavelli cinque secoli fa poteva, nel Principe, darne una critica di cristallina evidenza.

Certo al proletariato si pone questo problema, non sempre facile, di avere dei capi ed evitare che le loro funzioni divengano arbitrarie e infedeli all’interesse di classe: ma questo problema non si risolve certo ostinandosi a non vederlo o pretendendo di rimuoverlo colla abolizione dei capi, misura che nessuno saprebbe poi indicare in che consista.

 Dal nostro punto di vista materialistico storico, la funzione dei capi si studia uscendo decisamente fuori dai limiti angusti in cui la chiude la concezione individualista volgare. Per noi un individuo non è una entità, una unità compiuta e divisa dalle altre, una macchina per sé stante, e le cui funzioni siano alimentate da un filo diretto che la unisca alla potenza creatrice divina o a quella qualsiasi astrazione filosofica che ne tiene il posto, come la immanenza, la assolutezza dello spirito, e simili astruserie. La manifestazione e la funzione del singolo sono determinate dalle condizioni generali dell’ambiente e della società e dalla storia di questa. Quello che si elabora nel cervello di un uomo ha avuto la sua preparazione nei rapporti con altri uomini, e nel fatto, anche di natura intellettiva, di altri uomini.

 Alcuni cervelli privilegiati ed esercitati, macchine meglio costruite e perfezionate, traducono ed esprimono e rielaborano meglio un patrimonio di conoscenze e di esperienze che non esisterebbe se non si appoggiasse sulla vita della collettività.

Il capo, più che inventare, rivela la massa a se stessa e fa sì che essa si possa riconoscere sempre meglio nella sua situazione rispetto al mondo sociale e al divenire storico, e possa esprimere in formule esteriori esatte la sua tendenza ad agire in quel senso, di cui sono poste le condizioni dai fattori sociali, il cui meccanismo, in ultimo, si interpreta partendo dall’indagine degli elementi economici.

Anzi, la più grande portata del materialismo storico marxista, come soluzione geniale del problema della determinazione e della libertà umana, sta nell’averne tolta l’analisi dal circolo vizioso dell’individuo isolato dall’ambiente, e averla riportata allo studio sperimentale della vita delle collettività.

Sicché le verifiche del metodo deterministico marxista, dateci dai fatti storici, ci permettono di concludere che è giusto il nostro punto di vista oggettivistico e scientifico nella considerazione di queste questioni, anche se la scienza al suo grado attuale di sviluppo non può dirci per quale funzione le determinazioni somatiche e materiali sugli organismi degli uomini si esplichino in processi psichici collettivi e personali.

Il cervello del capo è uno strumento materiale funzionante per legami con tutta la classe ed il Partito; le formulazioni che il capo detta come teorico e le norme che prescrive come dirigente pratico, non sono creazioni sue, ma precisazioni di una coscienza i cui materiali appartengono alla classe-partito e sono prodotti di una vastissima esperienza. Non sempre tutti i dati di questa appaiono presenti al capo sotto forma di erudizione meccanica, cosicché noi possiamo realisticamente spiegarci certi fenomeni di intuizione che vengono giudicati di divinazione e che, lungi dal provarci la trascendenza di alcuni individui sulla massa, ci dimostrano meglio il nostro assunto che il capo è lo strumento operatore e non il motore del pensiero e dell’azione comune.

Il problema dei capi non si può porre allo stesso modo in tutte le epoche storiche, perché i suoi dati si modificano nel corso della evoluzione. Anche qui noi usciamo dalle concezioni che pretendono che questi problemi si risolvano per dati immanenti, nella eternità dei fatti dello spirito. Come la nostra considerazione della storia del mondo assegna un posto speciale alla vittoria di classe del proletariato, prima classe che vinca possedendo una teoria esatta delle condizioni sociali e la conoscenza del suo compito, e che possa, “uscendo dalla preistoria umana”, organizzare il dominio dell’uomo sulle leggi economiche, così la funzione del capo-proletario è un fenomeno nuovo e originale della storia, e possiamo ben mandare a spasso chi ce lo vuol risollevare citando le prevaricazioni di Alessandro o di Napoleone.

E infatti per la speciale e luminosa figura di Lenin, se pure egli non ha vissuto il periodo che apparirà quello classico della rivoluzione operaia, quando questa mostrerà le sue maggiori forze a terrificazione dei filistei, la biografia incontra caratteri nuovi e i cliché storici tradizionali della cupidigia di potere, dell’ambizione, del satrapismo, impallidiscono e incretiniscono al confronto della diritta, semplice e ferrea storia della sua vita e dell’ultimo particolare del suo habitus personale. 

I capi e il capo sono quelli e colui che meglio e con maggiore efficacia pensano il pensiero e vogliono la volontà della classe, costruzioni necessarie quanto attive delle premesse che ci danno i fattori storici. Lenin fu un caso eminente, straordinario, di questa funzione, per intensità ed estensione di essa. Per quanto meraviglioso sia il seguire l’opera di quest’uomo all’effetto di intendere la nostra dinamica collettiva della storia, non noi però ammetteremo che la sua presenza condizionasse il processo rivoluzionario alla cui testa lo abbiamo veduto, e tanto meno che la sua scomparsa arresti le classi lavoratrici sul loro cammino.

Più ancora: questo processo di elaborazione di materiale appartenente a una collettività, che noi vediamo nell’individuo del dirigente, come prende dalla collettività e a essa restituisce energie potenziate e trasformate, così nulla può togliere colla sua scomparsa dal circolo di queste. La morte dell’organismo di Lenin non significa per nulla la fine di questa funzione se, come abbiamo dimostrato, in realtà il materiale come egli lo ha elaborato deve ancora essere alimento vitale della classe e del partito. In questo senso, prettamente scientifico, cercando di guardarci, per quanto è possibile, da concetti mistici e da amplificazioni letterarie, noi possiamo parlare di una immortalità, e per lo stesso motivo della particolare impostazione storica di Lenin e del compito suo mostrare quanto questa immortalità sia più ampia di quella degli eroi tradizionali di cui ci parlano la mistica e la letteratura.

La morte resta per noi non l’eclissi di una vita concettuale, ché questa non ha fondamento nella persona ma in enti collettivi, ma è un puro fatto fisico scientificamente valutabile. La nostra assoluta certezza che quella funzione intellettiva che corrispondeva all’organo cerebrale di Lenin è dalla morte fisica arrestata per sempre in quell’organo, e non si traduce in un Lenin incorporeo che noi possiamo celebrare come presente invisibile ai nostri riti, che quella macchina possente e mirabile è purtroppo distrutta per sempre, diventa la certezza che la funzione di essa si continua e si perpetua in quella degli organi di battaglia nella direzione dei quali egli primeggiò. Egli è morto, l’autopsia ha mostrato come: attraverso il progressivo indurimento dei vasi cerebrali sottoposti a una pressione eccessiva e incessante. Certi meccanismi di altissima potenza hanno una vita meccanica breve: il loro sforzo eccezionale è una condizione della loro precoce inutilizzazione.

Chi ha ucciso Lenin è questo processo fisiologico, determinato dal lavoro titanico cui negli anni supremi egli volle, e doveva, sottoporsi, perché la funzione collettiva esigeva che quell’organo girasse al più alto rendimento, e non poteva essere in altro modo. Le resistenze che si opponevano al compito rivoluzionario hanno rovinato questo magnifico u­tensile, ma dopo che esso aveva spezzato i punti vitali della materia avversa su cui operava.

Lenin stesso ha scritto che, anche dopo la vittoria politica del proletariato, la lotta non è terminata; che noi non possiamo, uccisa la borghesia, sgombrare senz’altro il suo mostruoso cadavere: questo rimane e si decompone in mezzo a noi e i suoi miasmi pestilenziali ci ammorbano l’aria che respiriamo. Questi prodotti venefici, nelle loro molteplici forme, hanno avuto ragione del migliore tra gli artefici rivoluzionari. Essi ci appaiono come il lavoro immane, necessario ad affrontare le gesta militari e politiche della reazione mondiale e le trame delle sette controrivoluzionarie, come lo sforzo spasmodico per uscire dalle strettezze atroci della fame prodotta dal blocco capitalista, cui Lenin doveva sottoporre il suo organismo senza potersi risparmiare. Ci appaiono, tra l’altro, come i colpi di rivoltella della socialrivoluzionaria Dora Kaplan, che restano collocati nelle carni di Lenin e contribuiscono all’opera dissolvitrice.

Sforzandoci di essere pari all’obiettività del nostro metodo, noi possiamo solo trovare in questa valutazione di fenomeni patologici nella vita sociale il modo di esprimere un giudizio su certe attitudini che altrimenti non sarebbero, nella loro insultante insensatezza, suscettibili di essere giudicate, come quella degli anarchici nostrani che hanno commentato la scomparsa del più grande lottatore della classe rivoluzionaria sotto il titolo: “Lutto o festa?”.

Anche questi sono fermenti di un passato che deve scomparire: l’avvenirismo paranoico è sempre stata una delle manifestazioni delle grandi crisi. Lenin ha sacrificato sé stesso nella lotta contro queste sopravvivenze che lo circondavano anche nella triplice fortezza della prima rivoluzione; la lotta sarà ancora lunga, ma finalmente il proletariato vincerà levandosi fuori dalle molteplici pietose esalazioni di uno stato sociale di disordine e di servitù, e del loro disgustoso ricordo.

“La nostra prospettiva dell’avvenire”

Al momento in cui Lenin muore, un interrogativo si presenta dinanzi a noi, e noi certo non lo sfuggiremo. La grande previsione di Lenin è forse fallita? La crisi rivoluzionaria, che con lui noi attendevamo, è rinviata, e per quanto?

La organizzazione in partito, che permette alla classe di essere veramente tale e vivere come tale, si presenta come un meccanismo unitario in cui i vari "cervelli" (non solo certamente i cervelli, ma anche altri organi individuali) assolvono compiti diversi a seconda delle attitudini e potenzialità, tutti al servizio di uno scopo e di un interesse che progressivamente si unifica sempre più intimamente "nel tempo e nello spazio" (questa comoda espressione ha un significato empirico e non trascendente).

Non tutti gli individui hanno dunque lo stesso posto e lo stesso peso nella organizzazione: man mano che questa divisione dei compiti si attua secondo un piano più razionale (e quello che è oggi per il partito-classe sarà domani per la società) è perfettamente escluso che chi si trova più in alto gravi come privilegiato sugli altri. La evoluzione rivoluzionaria nostra non va verso la disintegrazione, ma verso la connessione sempre più scientifica degli individui tra loro.

Essa è antindividualista in quanto materialista; non crede all’anima o a un contenuto metafisico e trascendente dell’individuo, ma inserisce le funzioni di questo in un quadro collettivo, creando una gerarchia che si svolge nel senso di eliminare sempre più la coercizione e sostituirvi la razionalità tecnica. Il partito è già un esempio di una collettività senza coercizione.

Questi elementi generali della questione mostrano come nessuno meglio di noi è al di là del significato banale dell’egualitarismo e della democrazia "numerica". Se noi non crediamo all’individuo come base sufficiente di attività, che valore può avere per noi una funzione del numero bruto degli individui? Che può significare per noi democrazia o autocrazia? Ieri avevamo una macchina di primissimo ordine (un "campione di eccezionale classe", direbbero gli sportivi) e potevamo metterlo all’apice supremo della piramide gerarchica; oggi questi non v’è, ma il meccanismo può seguitare a funzionare con una gerarchia un poco diversa in cui alla sommità vi sarà un organo collettivo costituito, si intende, da elementi scelti. La questione non si pone a noi con un contenuto giuridico, ma come un problema tecnico non pregiudicato da filosofemi di diritto costituzionale o, peggio, naturale. Non vi è una ragione di principio che nei nostri statuti si scriva "capo" o "comitato di capi"; e da queste premesse parte una soluzione marxista della questione della scelta; scelta che fa, più che tutto, la storia dinamica del movimento e non la banalità di consultazioni elettive. Preferiamo non scrivere nella regola organizzativa la parola "capo", perché non sempre avremo tra le nostre file una individualità della forza di un Marx o di un Lenin.

In conclusione, se l’uomo, lo "strumento", di eccezione esiste, il movimento lo utilizza: ma il movimento vive lo stesso quando tale personalità eminente non si trova. La nostra teoria del capo è molto lungi dalle cretinerie con cui le teologie e le politiche ufficiali dimostrano la necessità dei pontefici, dei re, dei "primi cittadini", dei dittatori e dei Duci, povere marionette che si illudono di fare la storia.
 
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In "Prometeo", n. 3, 15 marzo 1924.