Partito Comunista Internazionale

 

In difesa della continuità del programma comunista (1970)

 

Presentazione a:

Tesi di Roma, 1922

Tesi al 4° Congresso I.C., 1922

Tesi di Lione, 1926

 

 

Presentazione delle Tesi di Roma, 1922

Costituitosi il P.C. d’Italia nel gennaio 1921 (Congresso di Livorno) sulla base dei 21 punti di Mosca e del programma che appare come introduzione alle tesi più innanzi riprodotte, la Sinistra che lo diresse fino agli inizi del 1923 procedette con vigorosa opera di inquadramento politico (e poi anche militare), di agitazione e propaganda, e soprattutto di intervento di poderose lotte economiche sostenute da un proletariato non ancora piegato né dall’azione repressiva dell’apparato statale democratico e delle squadracce fasciste prosperanti alla sua ombra, né dal sottile lavoro di disarmo politico ed organizzativo svolto nelle sue file dai riformisti. Fu il PCd’I, fra tutte le sezioni dell’Internazionale, il primo a lanciare e sostenere con energia la proposta del fronte unico sindacale, nel duplice senso di invito alle tre organizzazioni operaie esistenti (CGL, USI, Sindacato Ferrovieri) di fondersi, e di indirizzo delle lotte verso la fusione di tutte le vertenze di categoria in una piattaforma rivendicativa unica da difendersi, come “questione di principio” con un unico metodo di azione (sciopero generale) costituendo nel frattempo nella CGL una fitta ed efficientissima rete di gruppi comunisti agenti come “longa manus” del partito per conquistarla alla sua direzione politica. Fu esso, nel contempo, il solo a battersi contro il fascismo sul suo stesso terreno, quello della violenza, non ignorando e non nascondendo ai proletari d’essere disgraziatamente – non per fatto e volontà propri – sulla difensiva, ma non esitando a passare (e passando ogni volta che le circostanze lo permettessero) al necessario ed auspicato contrattacco.

Era un partito – non sembri una contraddizione – di offensiva, come non può non esserlo un partito di opposizione permanente al regime del capitale; e lo era non perché – come troppo frettolosamente si disse e come interessatamente si ripete – rifiutasse le necessarie “ritirate” o, peggio, sognasse colpi di mano di minoranze audaci (cosa che sempre apertamente respinse come metodo non  marxista e perciò non suo), ma perché sapeva d’essere  posto dalla situazione storica nella necessità non deplorata ed anzi virilmente riconosciuta di raccogliere la sfida suprema del nemico, e mai, neppure ritirandosi, avrebbe accettato di mettersi sul piano del disarmo ideologico e materiale e dell’invocazione della legge, del diritto e della…… democrazia.

L’ostacolo a questa battaglia di vero e proprio riarmo del proletariato – generosissimo nella sua lotta quotidiana e costantemente abbandonato a sé stesso o, peggio, tradito dai “suoi capi” – era rappresentato dal massiccio diaframma della destra e del centro socialdemocratici, e la lotta contro di esso faceva parte integrante indissolubile della lotta del partito contro la borghesia, il suo organo centrale, lo Stato, e le sue formazioni militari “illegali” (ma largamente foraggiate dal governo, dagli industriali e dagli agrari, sia pure sottobanco dal primo e apertamente dai secondi), così come nella sua sconfitta era previsto il risultato e insieme la premessa di una influenza grandeggiante del solo partito nel quale, non per proclamazioni verbali ma per forza di atti e costanza di posizioni pratiche oltre che dottrinarie, il proletariato avesse potuto riconoscere la sua unica guida; di un partito che, dall’isolamento impostogli dai duri fatti della storia europea e mondiale, avesse saputo trarre una ragione non di sconforto, ma di forza.

Frattanto, il corso di sviluppo dell’Internazionale Comunista presentava aspetti che è necessario tener presenti per capire bene le Tesi sulla tattica presentate al II Congresso del partito (Roma, 20-24 marzo 1922, donde il nome corrente di Tesi di Roma) come contributo – ferma restando la disciplina alle decisioni finali dell’Esecutivo del Comitern – alla definizione dei complessi e fondamentali problemi interessanti tutto il movimento comunista. E’ necessario tenerli presenti, lo sottolineiamo, non perché le tesi abbiano un valore contingentemente polemico; ma perché in esse è condensato un bilancio di scontri reali alla scala non solo italiana ma soprattutto europea ed extra europea, e da questo bilancio esse derivano non la “scoperta” ma la conferma di direttive che appunto perciò pensavamo dovessero avere validità per sempre e per tutti – e che oggi abbiamo tanto più ragione di ritenere un punto fermo e acquisito.

* * *

Riunitosi dal 22 giugno al 12 luglio 1921, il III Congresso dell’Internazionale aveva tratto dalla critica della sfortunata “azione di marzo” in Germania e della “tattica dell’offensiva” confusamente propugnata da gruppi più ai margini che all’interno del partito tedesco, due fondamentali conclusioni che la Sinistra in Italia era la prima a condividere, sia in quanto le riteneva «nel loro spirito informatore, e tradotte in una sana e felice impostazione, patrimonio comune di tutti i comunisti» (1), sia in quanto essa si muoveva appunto su questo binario nel dirigere il partito in una delle fasi più dure, ma anche vibranti, della lotta proletaria in Europa:

a) Non basta avere partiti solidamente inquadrati secondo i principi del marxismo rivoluzionario e in base alle norme ad essi conseguenti sancite nei congressi di fondazione dell’Internazionale, e perciò composti da soli elementi che posseggano una chiara e netta concezione della necessità della lotta rivoluzionaria e che non se ne lascino sviare dal conseguimento, avvenuto o sperato, di scopi parziali e temporanei. Occorre che questi partiti si adoperino per riunire attorno a sé crescenti falangi dell’esercito proletario condotto dagli stessi sviluppi della situazione ad uno scontro generale con la classe avversa e il suo apparato di governo. Formazione di partiti comunisti veramente tali, e conquista delle grandi masse proletarie, sono due combinazioni che non si escludono ma pienamente combaciano, non essendo pensabile la prima se non in funzione della seconda, e non essendo realizzabile su basi di classe la seconda, se non in dipendenza dalla prima.

b) La conquista di strati sempre più larghi del proletariato all’influenza politica e infine alla direzione anche materiale del partito non si ottiene né si otterrà mai con la sola opera di proselitismo e propaganda, ma esige la partecipazione attiva e animatrice del partito alle lotte che gruppi di proletari ingaggiano per la difesa e sotto pressione di interessi materiali contingenti; interessi e lotte che sarebbero infantile e, peggio, antimarxista negare, perché nei primi è la matrice di ogni conflitto di classe e nelle seconde si esprime l’urgere imperioso degli antagonismi sociali, ma che il partito si propone di “assistere e sviluppare nella logica del loro processo, armonizzandoli nella loro confluenza in una azione generale rivoluzionaria” (2). E’ tanto fuori dal marxismo il partito che sogna (in qualunque circostanza, nonché a prescindere dai rapporti di forza al cui spostamento neppure si adopera) di lanciare l’attacco finale al potere considerandolo l’unica azione che gli competa, quanto il partito che attenda nella passività di un’opera puramente “educativa” o amministrativamente “reclutatrice”, che scocchi una remota e sempre nebulosa “ora X”: volontarismo nel primo caso, meccanicismo nel secondo!

Per noi, l’accordo su questi punti, non sollevava obiezioni o riserve: era completo.  Ma quello che “l’azione di marzo” e i sui strascichi avrebbero realmente dovuto additare non era tanto il pericolo di colpi di mano alla blanquista (di cui, nel caso specifico, le stesse tesi del III Congresso negano che si potesse parlare) o di teorizzazioni di falsa sinistra sorte marginalmente, in particolare nel KAPD, e così infantili come rapidamente debellabili in seno ai partiti della III Internazionale, quanto l’oscillare instabile e irrequieto dei giovani partiti del Centro Europa dal passivismo, prima dello scatenarsi di moti elementari non previsti e non auspicati, all’estremismo verbale a fatti compiuti (era stato così un anno prima per il putsch di Kapp, era stato così in marzo); il pericolo di empirismo ed eclettismo situazionistico in cui si rifletteva la scarsa omogeneità ideologica soprattutto del partito tedesco, già presente ai suoi albori, ma ulteriormente aggravata dalla frettolosa fusione con gli indipendenti di sinistra. Era il pericolo, ancor più, che quell’oscillare perpetuo trovasse il suo ubi consistam in un deciso orientamento a destra, che infatti si profilerà pochi mesi dopo e di cui si pagherà duramente lo scotto nell’autunno del 1923, mentre ne era già un grave sintomo la crisi (severamente giudicata nelle riunioni dell’ internazionale prima e nel corso del III Congresso) del partito cecoslovacco, tanto pletorico nella marea dei suoi 400.00 iscritti (!) reclutati allargando le maglie del programma e degli stessi principi, quanto malato di parlamentarismo e, di fronte alle durissime lotte sociali, di vergognoso passivismo (3) . E ciò che massimamente preoccupava la Sinistra era la possibilità che tali oscillazioni intorno – diciamo così – a un baricentro di destra prendessero piede nell’Internazionale (come infatti presero) nella fase più tragica di vita della Russia bolscevica, quando il suo isolamento avrebbe reso ancor più urgente l’afflusso dall’Europa proletaria di sane linfe e di non contaminato ossigeno.

In tale quadro si comprende anche la nostra ferma e tutt’altro che “bizantina” opposizione al lancio di formule generiche e non ben definite, il cui senso per Lenin o Trotski  era a noi ben chiaro, ma che, appunto per la indeterminatezza in una fase storica in cui urgeva più che mai la precisione tagliente delle direttive, si prestavano alle interpretazioni più disparate e, purtroppo, compromissorie: tipica la parola d’ordine della “conquista della maggioranza della classe lavoratrice” quale conditio sine qua non dell’assalto e della conquista del potere. «La conquista della maggioranza – spiegherà poi efficacemente Lenin – non è certo intesa da noi in modo formale come la intendono i paladini della democrazia filistea (...) Quando nel luglio del 1921, a Roma, tutto il proletariato – il proletariato riformista e il proletariato centrista del partito di Serrati – ha seguito i comunisti contro i fascisti, è avvenuta la conquista della maggioranza della classe operaia da parte nostra (…) Si trattava soltanto di una conquista parziale, momentanea, locale. Ma era la conquista della maggioranza» (4).

Ben presto, tuttavia, non sarà un mistero che per molti partiti (e per certe correnti in seno allo stesso partito russo, e di rimbalzo nell’Internazionale) la “conquista della maggioranza” significava ben altro – significava o conquista materiale della maggioranza numerica in iscritti al partito (contraddizione in termini con le fondamentali tesi sul ruolo del partito nella rivoluzione proletaria del 1920) oppure conquista non più della maggior parte della classe lavoratrice ma delle “masse” genericamente intese, organizzate o no, proletarie o “popolari”, o infine, nella più benevola delle ipotesi, astratta fissazione di un livello statisticamente determinabile di influenza diretta (o, peggio ancora, di effettivo controllo) sulle masse operaie, livello considerato necessario per essere e sentirsi abilitati dal rapporto di forze alla battaglia finale, ignorando, così quei coefficienti, assai più importanti del bruto “numero”, per cui – com’era avvenuto nella Russia del 1917 – un partito non volontariamente piccolo, ma solidamente ancorato in una continuità di programma e di azione in seno alla classe, può trovarsi alla testa – e deve coraggiosamente prenderla – di situazioni montanti (5), e comunque ha tutto il diritto di chiedere di  non essere giudicato nell’efficienza della sua azione pratica col metro arido e accademico di labili cifre (si radicherà fin troppo presto il mal vezzo di “giudicare” i partiti in base alla loro consistenza numerica o ai più o meno grossi risultati elettorali conseguiti; e su tali basi trasformare le riunioni dell’Esecutivo Allargato in… corti giudicanti; triste preludio alla futura prassi staliniana). Tralasciamo poi di considerare le deviazioni ancor più gravi (affiorate alla luce del sole nel IV Congresso) da parte di ali o correnti che traducevano quella parola d’ordine nei termini del più schietto e tradizionale parlamentarismo, o che ne traevano l’assurda conferma della legittimità della loro aspirazione a rinnovati giri di valzer. O addirittura a riconciliazioni anche organizzative, con ali e frammenti della socialdemocrazia.

Il pericolo generale che si delineava, insomma era che ci si illudesse di rimontare la china di temporanee sconfitte, o di affrettare i tempi di maturazione dello sbocco rivoluzionario, “fabbricando” artificialmente partiti, in un presunto optimum di peso e di volume, mediante aggregazione di brandelli lasciati lungo la via della dégringolade socialdemocratica o attraverso penose trattative diplomatiche a base di do ut des, spezzando così quella serrata disciplina di programma, di azione e di organizzazione in cui si riconosce il vero segno e l’autentica discriminante del partito di classe.

Che il pericolo non fosse ipotetico, e il nostro allarme non dettato da apriorismi idealistici, lo prova il fatto che Mosca accettasse proprio allora di discutere l’eventualità e i termini di un’adesione postuma di quel PSI, che eventi storici incisi col ferro e col fuoco nelle carni proletarie dimostravano ancora una volta inguaribilmente controrivoluzionario (i primi “patti di pacificazione” coi fascisti furono firmati mentre i “pellegrini” viaggiavano verso la Mecca della loro falsa penitenza).  Accettarne il “ricorso in appello” significava introdurre nell’Internazionale la figura peggio che equivoca del “partito simpatizzante” affiancato al partito ufficiale e, sullo stesso piano di questo, collegato direttamente a Mosca (6). Chiedergli, dopo le meritatissime strigliate di Lenin, Trotski e Zinoviev in sede congressuale, di separarsi dalla destra turatiana (cosa che d’altronde esso non farà neppure al successivo congresso di Milano), significava rimettere in causa le condizioni di ammissione formulate nel 1920, giacché l’amputazione “a destra” aveva il valore di un efficace “reagente” prima del congresso costitutivo del PCd’I quale controprova della totale accettazione dei “21” punti, ma l’ aveva perduto nel momento in cui, a Livorno, serratiani e turatiani avevano fatto blocco contro le decisioni ultimative di Mosca, e soprattutto dopo che, nel sanguinoso, snodarsi dei conflitti di classe e perfino sul terreno economico, il PSI aveva dato mille prove di respingere di fatto, come aveva ripetutamente condannato in linea di principio, la piattaforma internazionale.

I partiti non sono aggregati informi di individui o gruppi; sono organismi formatisi attraverso una storia reale, e dotati di una propria logica interna che non si può invertire o distorcere senza minarne le basi e condizioni di sviluppo. Ed era vano dire che, a conti fatti, il PSI non era il peggiore dei partiti tipo II Internazionale, perché la Sinistra, sebbene toccata direttamente da queste giravolte nel suo energico lavoro di orientamento delle forze proletarie, non faceva del rigetto della fusione col PSI o con i suoi frammenti una questione nazionale o di campanile, meno ancora di stupido prestigio, ma una questione di giusto indirizzo internazionale. D’altronde, amputato dalla destra, che cosa sarebbe stato il PSI (o qualunque suo equivalente in altri paesi) se non l’edizione “italiana” del centro socialdemocratico, nemico numero uno di Lenin e dei bolscevichi proprio per la sua vocazione di mascherare dietro lo schermo di un’”intransigenza” parolaia la vera sostanza del riformismo gradualista e parlamentare? E il suo confluire come gruppo organizzato nel PC, quale effetto avrebbe avuto, se non quello di riprodurre l’infausta situazione di un partito non tanto con “due anime” (come si diceva allora), quanto con due corpi e meccanismi contrastanti, quindi paralizzato in tutti i suoi movimenti come tanto spesso era avvenuto nei cruciali svolti dell’immediato dopoguerra? Infine, la transigenza verso i pentiti della dodicesima ora non avrebbero introdotto (come oggi possiamo dire che introdusse) in seno al Comitern la prassi sciagurata del periodico ritorno sui propri passi, delle oscillazioni ora in un senso ed ora nel opposto, dell’eclettismo tattico che si lascia dominare dalle vicende alterne della “situazione” invece di dominarle in forza di una sicura visione e previsione storica?

Non passò mezz’anno che questo secondo pericolo, anticipato con tutte le cautele da una dirigenza non incline alla faciloneria dei giudizi e alla frettolosità delle condanne, ma con altrettanta franchezza, prese esplicitamente corpo, per la prima volta, nelle tesi sul fronte unico votate dall’Esecutivo dell’Internazionale Comunista il 28 dicembre 1921.

Il III Congresso aveva formulato le sue tesi per lo sviluppo e l’inquadramento dei partiti comunisti in direzione della conquista delle masse in una prospettiva che – forse con troppo ottimismo – continuava ad essere ritenuta di assalto più o meno imminente al potere. Alla fine del 1921 (in realtà, per noi la fase era già da tempo in atto), l’ottica dell’Internazionale cambia: all’offensiva è ora la classe padronale; in tutti i paesi il proletariato si batte con energia per la difesa anche solo del pane e del posto di lavoro e, in questa lotta, è portato per istinto, di là da ogni divisione in correnti politiche da un lato e in categorie professionali, dall’altro, a muoversi sul fronte più vasto e col massimo di unità possibile. Il problema, per i partiti della III Internazionale, viene allora posto, nelle tesi sul fronte unico proletario, in termini che sembrano collimare pienamente con quelli che il PC d’I aveva messo al centro della sua battaglia fin da Livorno: agitazione di un piano di tattica difensiva di tutto il proletariato che, pur facendo leva si rivendicazioni e obiettivi contingenti per estendere e generalizzare le lotte economiche secondo la stessa spinta elementare delle masse operaie, non si fermasse tuttavia a questo traguardo, ma si preparasse (e predisponesse insieme i militanti e i lavoratori cresciuti alla dura scuola della battaglia in difesa del pane) ad innestarvi prima o poi un ritorno controffensivo sull’unica via, sempre e soltanto prospettata dai comunisti, dell’azione rivoluzionaria. 

Per usare le parole dell’Appello dell’Internazionale comunista ai proletari di tutto il mondo (1° gennaio 1922): “Noi vi diciamo, proletari: se non osate tentare la lotta definitiva, se non osate tentare con le armi in pugno la lotta per la conquista del potere, la lotta per la dittatura; se non osate tentare il grande assalto contro la cittadella della reazione, almeno raccoglietevi per combattere la lotta per la vita, la lotta per il pane, la lotta per la pace. Schieratevi per questa lotta su un fronte di battaglia, unitevi come classe proletaria contro la classe degli sfruttatori e dei distruttori del modo” (7).

In questo senso e in questi limiti, il fronte unico proletario avrebbe potuto essere quello che la Sinistra per prima aveva vigorosamente proclamato e difeso in Italia, il fronte unico che proponevamo, attraverso la nostra rete sindacale, alle grandi confederazioni operaie, nella certezza che la situazione fosse tale che i movimenti d’insieme di tutto il proletariato, quando questo si fosse posto dei problemi interessanti non una categoria o una località ma tutte, non potevano effettuarsi che in senso comunista, cioè nel senso che noi avremmo dato loro se fosse dipeso da noi guidare l’intera classe. Nella certezza, dunque, che i proletari – scesi in lotta per obiettivi e con metodi di azione in linea di principio non incompatibili con l’affiliazione a questo o quel partito di origine operaia (quindi comuni anche al salariato socialdemocratico, anarchico, ecc.) – avrebbero tratto dall’esperienza stessa della lotta, e sotto lo stimolo della nostra propaganda e del nostro esempio, la convinzione che persino la difesa del pane quotidiano è possibile solo preparando e attuando l’offensiva in tutti i suoi sviluppi rivoluzionari, così come noi ce li prefiggiamo.

Le tesi dell’Internazionale battevano con vigore su questo punto e riaffermavano l’esclusione di qualunque ritorno alla unità organizzativa dopo le avvenute scissioni. Ma, riprendendo e avallando alcune iniziative del partito tedesco – spostatosi ora dall’uno all’altro polo secondo la tendenza all’oscillazione perpetua di cui si è già detto – proponevano tutto un ordine di iniziative che, dall’invio delle famigerate “lettere aperte” ad altri partiti, andavano fino ad accordi o alleanze sia pur temporanei e per obiettivi contingenti con essi, e di qui fino all’appoggio parlamentare a governi socialdemocratici definiti come “operai”, al modo che già era avvenuto in Turingia e in Sassonia e come si raccomandava per la Svezia dell’arciopportunista Branting (8).

E qui che cominciò il dissenso. Il nostro “fronte unico” voleva dire azione comune di tutte le categorie, di tutti i gruppi locali e regionali di lavoratori, di tutti gli organismi sindacali nazionali del proletariato in vista di un’azione che, per la sua stessa logica e per il maturare delle situazioni, sarebbe sboccata un giorno nella lotta con indirizzo comunista di tutta la classe proletaria; non significava, e non poteva per essenza significare, guazzabuglio informe di metodi politici diversi, cancellazione dei confini definitivamente tracciati verso l’opportunismo, obliterazione anche solo temporanea del nostro carattere specifico di partito di permanente opposizione rispetto allo Stato e altri altri partiti politici.

E’ vero che le tesi dell’Internazionale ribadivano come premessa irrinunciabile del fronte unico politico il mantenimento dell’assoluta indipendenza del partito: ma “l’indipendenza” non è una categoria metafisica; è un fatto reale, che si distrugge non solo nell’ipotesi estrema della costituzione di comitati misti di azione o di alleanze parlamentari (non parliamo poi, come si chiederà di seguito, governative) ma anche in quella più benevola del lancio di proposte di azione comune che si scontano già sicuramente respinte e, appunto perché respinte, utilizzabili per smascherare l’avversario. Lo si distrugge anche in questo caso, perché si ottenebra agli occhi dei proletari la chiara visione dell’abisso che esiste, che noi abbiamo sempre proclamato esistere, e la cui esistenza giustifica l’esistenza nostra come partito, tra la via delle riforme e la via della rivoluzione, fra la democrazia legalitaria e la dittatura del proletariato; insomma fra noi e tutti gli altri.

Vano e antimarxista è dire: ma a noi, proprio perché comunisti temprati da una dura lotta e in possesso di un immutabile programma, simili manovre sono consentite nella sicurezza della coscienza che ne usciremo tali e quali vi eravamo entrati. Non è necessariamente vero per noi, che siamo sì  fattore di storia ma anche prodotto della storia; che ci serviamo sì con mano sicura dello strumento tattico, ma ne siamo a nostra volta condizionati, e condizionati in senso negativo se lo utilizziamo in direzione opposta al nostro obiettivo finale. E ancor meno è vero per le masse che ci seguono, o cominciano a seguirci, proprio perché indichiamo loro una strada antitetica a quella dei falsi “fratelli” e “cugini” e che devono vederci sempre schierati su quella, non su strade anche solo apparentemente “alternative”. Non sono le intenzioni, ma gli atti, che ci conquistano le simpatie di strati proletari non ancora formalmente “nostri”; e l’atto col quale offriamo il ramoscello d’olivo a partiti che abbiamo sempre e pubblicamente messi alla gogna per invitarli ad un’azione che inevitabilmente va oltre i limiti della difesa delle condizioni di vita dei proletari per investire la questione dello Stato e della nostra posizione di fronte ad esso e agli schieramenti che gli ruotano intorno, è un atto che ci priva della vera e non illusoria autonomia alla cui creazione ci eravamo tanto faticosamente adoperati, mentre genera in seno alle nostre fila e fuori di esse smarrimenti e dislocazioni che renderanno più difficile il passaggio alla lotta antilegalitaria per la conquista del potere. Nella nostra formula tattica, fronte sindacale del proletariato e opposizione politica incessante al governo e a tutti i partiti legali sono due termini che non si escludono: poteva dirsi altrettanto – intenzioni a parte – del fronte unico politico?

È vero: in date condizioni, l’ascesa al potere di un partito sedicente operaio (9) può essere un utile coefficiente della nostra lotta per la conquista di strati crescenti della classe proletaria; non però nel senso (fin troppo palese come vedremo, in alcuni partiti e, a cavallo tra il principio del 1922 e la fine del 1923, anche in settori della III Internazionale) che possa offrirci e rappresenti come tale un gradino intermedio verso la presa del potere, ma solo in quello opposto che appunto l’esercizio dell’attività governativa svelerà agli occhi dei proletari ancora illusi il volto controrivoluzionario del riformismo gradualista e democratico; e sarà un utile coefficiente per noi, e di orientamento sicuro delle masse, a condizione che abbiamo non solo previsto ma denunziato in anticipo questo esito fatale e, denunziandolo, abbiamo agito senza soluzioni di continuità perché l’esperimento – se non abbiamo saputo o potuto impedirlo – almeno non si consumi, oltre che a danno della generosa classe operaia, a prezzo di nuovi sacrifici del suo sangue.

E’ qui che si innesta il problema da noi caparbiamente sollevato dei limiti necessari della tattica. Questi limiti non sono fissati da noi: li ha fissati la storia, e noi non possiamo cancellarli senza sacrificare la prima condizione soggettiva della vittoria rivoluzionaria, vicina o lontana che sia: la continuità del programma, dell’azione pratica e dell’organizzazione, che è solo l’altra faccia dell’autonomia del partito. O si ammette che, nello schieramento dei partiti – quelli “operai” compresi – ci sono delle costanti storiche che ne permettono la sicura previsione, o crolla lo stesso marxismo. O si ammette che la nostra forza di partiti comunisti è in questa previsione – non tenuta come fiaccola sotto il moggio, ma elevata pubblicamente a nostra discriminante inconfondibile, a nostra ragion d’essere – o tutto l’edificio dell’Internazionale risorta cade in frantumi.

“Quello che è indubbiamente esatto nel considerare la situazione attuale – scriveva la Sinistra, ancora alla direzione del partito, pochi giorni prima del Congresso di Roma e qualche giorno dopo la chiusura del secondo Esecutivo Allargato (che ribadì le tesi sul fronte unico proletario del dicembre 1921) – è che la grande massa è disposta a muoversi per obbiettivi immediati, e non sente quegli obbiettivi rivoluzionari più lontani di cui possiede invece la coscienza il partito comunista. Bisogna utilizzare per fini rivoluzionari quella disposizione delle masse, partecipando allo slancio che le porta verso gli obiettivi che loro pone la situazione”. Ma chiedevamo: “ E’ vero questo al di fuori di ogni limite? No. Quando noi poniamo alla nostra tattica il limite di non smarrire mai l’attitudine pratica del partito comunista di opposizione al governo borghese e ai partiti legali, facciamo noi della teoria, o lavoriamo rettamente sull’esperienza?” (10).

Un anno prima avevamo dato risposta anticipata a questa domanda traendola non già dalla nostra testa di cocciuti “teorici”, ma dal sanguinoso bilancio dell’immediato dopoguerra, a sua volta inseparabile dal bilancio dello sfacelo della II Internazionale di fronte allo scatenarsi del conflitto. Tale bilancio era internazionale, non nazionale; storico, non contingente, così come era internazionale e storico il bilancio che Marx ed Engels avevano tratto dallo snodamento delle lotte di classe in Germania e in Francia nel 1848-1849, poggiando su di esso un giudizio definitivo sull’attitudine della piccola borghesia radicale e dei suoi partiti nei grandi svolti della guerra di classe; ed esso avrebbe dovuto – grazie alla nostra infaticabile azione critica e pratica – risparmiare per sempre al proletariato occidentale “la necessità di apprendere coi propri occhi, di imparare a costo del proprio sangue, che cosa significhi il compito della socialdemocrazia nella storia”. Questo compito fatale e necessario noi lo conosciamo, e tale coscienza ci vieta non solo di gettare ponti organizzativi e politici, nemmeno transitori, verso quello in cui riconosciamo il nemico, ma tacere la severità e irrevocabilità del nostro giudizio di fronte all’eventualità di un suo ritorno al timone dello Stato sotto la pinta di masse proletarie ancora illuse o accecate dal miraggio riformista, nell’attesa che la delusione apra loro gli occhi: “tale intermezzo, ove il proletariato non avrà la forza di evitarlo” (noi dobbiamo esserne certi e dichiararlo in anticipo) “non rappresenterà una condizione necessaria per l’avvento delle forme e degli istituti rivoluzionari, non sarà un’ utile preparazione a questi ma costituirà un disperato tentativo borghese per diminuire e stornare la forza di attacco del proletariato”, in ogni caso, e “per batterlo spietatamente sotto la reazione bianca, se gli resterà tanta energia da osare la rivolta contro il legittimo, l’umanitario, il civile governo della socialdemocrazia” in tutti gli altri (11).

Eccolo, dunque, il limite! È un limite pratico, e di fronte ad esso noi non possiamo rimanere agnostici come se la storia potesse disfare ciò che ha fatto, e consentire ad una nostra misteriosa capacità di manovra, di raffinato maneggio di strumenti neutri che la nostra mano possa brandire senza esserne modificata, di ritessere la trama distrutta delle azioni comuni, dei comitati misti, della “benevola neutralità” o addirittura dell’appoggio a soluzioni governative ipotizzate come “passo avanti” verso la necessaria rivoluzione e il suo corollario, la dittatura del proletariato.

La Sinistra era ben cosciente che dietro lo scudo del “fronte unico politico”, avrebbero risollevato la testa (soprattutto in occidente, in forza del processo troppo celere e sommario di delimitazione programmatica ed organizzativa dei giovani partiti comunisti in un’area di antica e pestifera tradizione democratica) le suggestioni delle strade intermedie, dei ritorni indietro, delle unità ricucite alla meglio; insomma, la nostalgia di soluzioni meno crudamente chirurgiche di quelle che la realtà aveva imposto ai bolscevichi e che l’olocausto del 1918-19 rendeva ancor più imperative nell’Europa di capitalismo avanzato. Dietro il paravento di quella parola d’ordine, nello stesso partito che in Italia, per tutto il corso del 1921 di fiamma, si era mosso come un solo corpo in una lotta fiera ed incessante contro l’offensiva capitalista, riaffiorava qua e là il rammarico per la scissione con gli “Arditi del Popolo”, per la tenace opposizione al recupero – o meglio all’astratta speranza di recupero – del serratismo; e assai peggio avveniva in Germania.

Che, nel pensiero dei promotori del fronte unico, fosse presente l’inderogabile necessità di conservare nel mobile gioco di queste manovre tattiche l’autonomia assoluta del partito, lo sapevamo bene (di quanti richiami ai pericoli dell’elasticità sono circondate le tesi di dicembre 1921 dell’Esecutivo si Mosca!). Ma il punto era un altro, e, nell’articolo del 21 marzo 1922 (come nelle Tesi di Roma), la Sinistra lo chiariva senza possibilità di equivoci: «Per noi, l’esistenza indipendente del partito comunista è ancora una formula vaga, se non si precisa il valore di quella indipendenza in base alle ragioni che ci hanno imposto di costruirla attraverso la scissione, e che la identificano con la coscienza programmatica e la disciplina organizzativa del gruppo. Il contenuto e l’indirizzo programmatico del partito, che nella sua milizia, e in quella più vasta che inquadra sindacalmente e in altri campi, non è una macchina bruta ma appunto un prodotto e un fattore al tempo stesso del processo storico, possono essere influenzati sfavorevolmente da atteggiamenti erronei della tattica».

Conclusione pratica: «In nessun caso dovrà il partito dichiarare di aver fatto propri postulati e vie d’azione politica che avvalorino la preparazione a svolgimenti contrastanti con il suo contenuto programmatico…. Né di accettare la corresponsabilità di azioni che possano domani essere dirette da altri elementi politici prevalenti in una coalizione la cui disciplina si sia preventivamente riconosciuta; senza di che non vi sarebbe neppure coalizione.  Dinnanzi, poi, al problema del governo socialdemocratico, l’attitudine di mostrare che esso non può contenere una soluzione dei problemi proletari è necessaria anche prima che esso si costituisca, per evitare che il proletariato sia tutto aggiogato al fallimento di tale esperienza. Che tanto non ritardi il reale sviluppo che a questa esperienza conduce è detto anche nelle nostre tesi, ed è curioso come lo ammetta, nettamente contraddicendosi, uno dei suoi critici, quando afferma che questo sviluppo è accelerato dalla pressione rivoluzionaria delle masse. Il partito comunista non fa che divenire il protagonista, nelle sue attitudini e nella sua opera e nella sua lotta, di questa pressione della parte più rivoluzionaria delle masse, rifiutandosi di schierarsi tra le forze che invocano il governo socialdemocratico. Ecco come l’antitesi diviene non solo teorica ma anche pratica, contraddicendo la dialettica di alcuni compagni che corrisponderebbe alla mutevolezza di atteggiamenti. Proprio la dialettica direttamente intesa spiega come l’opposizione comunista all’esperimento socialdemocratico, prima e dopo, sia un coefficiente del precipitare degli sviluppi tra cui quell’esperienza è compresa».

E concludeva con parole che possono oggi apparire profetiche: “Sono limiti tattici che non traccia la teoria, ma la realtà, e questo è tanto vero che, senza fare gli uccelli del malaugurio, noi prevediamo che se si continuerà ad esagerare in questo metodo delle illimitate oscillazioni tattiche e delle coincidenze contingenti tra opposte parti politiche, si demolirà poco a poco il risultato di sanguinose esperienze della lotta di classe, per arrivare non a geniali successi ma allo stesso svuotamento delle energie rivoluzionarie del proletariato, correndo il rischio che ancora una volta l’opportunismo celebri i suoi saturnali sulla sconfitta della rivoluzione, le cui forze esso già dipinge come incerte ed esitanti e avviate nella via di Damasco” (“Il compito del nostro partito”, ne “Il Comunista” del 21 marzo 1922).

Proprio questo, disgraziatamente, avverrà, ad ulteriore conferma che il mezzo condiziona malamente il fine, se non è da esso e in rapporto ad esso forgiato.

Presentato le sue Tesi sulla Tattica, la Sinistra (e per essa la generalità del partito) mostrò di valutare con sicura coscienza tutti i fattori posti in luce dal vivo della storia delle lotte di classe, e di tracciare in funzione di essi una via nitida e precisa che, contro ogni sciocca e pappagallesca pretesa postuma (o, ai tempi, polemica), non ignora affatto le mutevoli prospettive della lotta rivoluzionaria, anzi la prevede e ne esamina i riflessi sull’azione di partito (preoccupandosi ancor più  di quelli inevitabili nei periodi di rinculo che di quelli scontati nei periodi di alta marea), ma li collega tutti all’obbiettivi finale non solo posto al vertice dei nostri “pensieri” o al termine della nostra lunga battaglia, ma permeante di sé anche l’oggi meno ricco di promesse, e ne fa un anello inseparabile della catena che congiunge il passato al futuro, le lotte contingenti alla battaglia conclusiva, mai prendendo il riflusso a pretesto per buttare a mare come ingombrante zavorra le condizioni di un domani migliore.

L’aver sacrificato l’àncora dell’integrità del programma, della continuità dell’azione, e della saldezza del legame organizzativo che ne è il frutto, vorrà dire precipizio dell’Internazionale negli abissi del “socialismo in un solo paese” e della controrivoluzione staliniana. L’averla tenuta ferma significherà salvaguardia di un filo sia pur esile a cui riallacciare la faticosa, snervante ma sicura risalita! (12).

 

 

 

 


(1) Dalla serie di articoli su La tattica dell’Internazionale Comunista uscita nei numeri del 12, 17, 19, 24, 31 gennaio 1922 del quotidiano del partito “L’Ordine nuovo” e particolarmente importanti per la comprensione di tutto il nostro orientamento sulle questioni tattiche.

(2)  Ivi. Per l’azione svolta dal Partito Comunista d’Italia nel 1921-1922 in campo sindacale si vedano i nr. 11, 12, 13, 14, 15, 16, 18 del 1967 del nostro organo “Il Programma Comunista”, e per la sua azione contro il fascismo i nr. 16, 17, 18, 21, 22 del 1967 e 1, 2, 3 del 1968.

(3)  Il torto di Terracini, che parlò non soltanto per il Partito Comunista d’Italia, ma anche per i Partito tedesco e austriaco, fu di non aver svolto con sicura dialettica tutti questi punti: di qui la severa reprimenda di Lenin, il quale, del resto, con l’abituale franchezza riconoscerà di essersi dovuto, per reagire ai  “sinistrismi” mal digeriti, “alleare con la destra” più di quanto, come provavano i fatti successivi al giugno-luglio 1921, i reali problemi del movimento internazionale imponessero (si vedano soprattutto le Note di un pubblicista, marzo 1922, violentissime contro i Levi).

(4)  Lenin, Lettera ai Comunisti tedeschi, 14 agosto 1921, in L’Internazionale Comunista ed. Rinascita, Roma 1960, pp. 341-342.

(5)  Persino Trotski, all’Esecutivo Allargato del febbraio-marzo 1922, fra tante e potenti riaffermazioni dei nostri comuni principi, si lascerà indurre a fissare in percentuali quasi obbligatorie (i ¾!) il grado di influenza necessario e sufficiente per l’ordine di attacco al potere: si sarebbe mai attardato in simili esperimenti di laboratorio nello sfolgorante Ottobre rosso suo e di Lenin, quando persino… l’aritmetica del rapporto maggioranza-minoranza in seno al Comitato Centrale era stata buttata in aria?

(6)  E’ noto che questa figura sarà, al V Congresso del 1924, tristemente istituzionalizzata: “simpatizzante” sarà pure il partito del boia Ciang Khai-shek!

(7)  Da Il C.E. dell’Internazionale Comunista per il fronte unico proletario, Libreria editrice del Partito Comunista d’Italia, Roma 1922, p.81.

(8)  Anticipando di poco sui tempi, osserviamo che nelle contemporanee Tesi sulla questione delle riparazioni si allude già anche alla possibile partecipazione comunista ad un “governo operaio”: “Il problema se i comunisti in Germania debbano o no entrare in un governo operaio, non è di principio ma d’opportunità (!!!). La decisione di esso dipende dal grado di forza che la classe operaia possiede nel momento in cui assume il governo, e rispettivamente dalle possibilità che si offrono di aumentare immediatamente questa forza” (Ivi, pag. 69). L’autunno 1923 gettava già innanzi a sé le sue ombre.

(9)  Fin da allora rilevammo l’assurdo di chiamare “operaio” un governo socialdemocratico (poco dopo lo si farà per il ministero…. Mac Donald!!!): “Un partito che si chiude volontariamente nei confini delle legalità, ossia non concepisce altra azione politica che quella che si può esplicare senza uso di violenza civile nelle istituzioni della costituzione democratica borghese, non è un partito proletario, ma un partito borghese” (La tattica dell’Internazionale, articolo già citato).

(10Il compito del nostro partito, ne “Il Comunista” del 21 marzo 1922.

(11La funzione della socialdemocrazia, ne “Il Comunista” del 6 febbraio 1921.

(12)  Abbiamo insistito sull’allacciamento delle tesi di Roma in tutti i loro aspetti alle drammatiche vicende dell’Internazionale e di tutto il movimento comunista per sottolineare come esse siano nate nel vivo di lotte reali e di scontri fisici nel proletariato, non da geniali elucubrazioni di “cervelli”. Natura organica del Partito, rapporti con la classe, rapporti con altri partiti politici: erano questi i problemi ardenti di un’epoca gloriosa pur fra le sue ombre. Tralasciamo la parte “italiana” che troverà il suo posto naturale nei prossimi volumi della Storia della Sinistra, per mettere ancor più in rilievo l’aspetto, e la finalità internazionale delle Tesi, di cui quella non era che un corollario, se si preferisce l’applicazione in riferimento all’analisi dei rapporti di forza in un paese specifico, come pure le tesi sulla questione agraria e sul movimento sindacale.

 

 

 

 

 

 


Presentazione del Progetto di Tesi presentato dal PCd’I al 4° Congresso della Internazionale Comunista, novembre 1922

Due punti vorremmo risultassero chiari dai testi finora riprodotti e dai commenti e richiami storici coi quali li abbiamo corredati. In primo luogo, quella che la Sinistra oppose fin d’allora all’Internazionale era una linea tattica tale da permettere al partito di affrontare le fasi sia di ascesa sia di declino o, comunque, di concentrazione sui compiti preparatori ad una nuova avanzata – fasi previste nell’eventualità del loro insorgere come nelle direttive da seguire per operare in esse e su di esse – senza perdere il filo che sempre deve legare teoria e prassi, e senza mai cancellare ai propri occhi e a quelli dei proletari i caratteri distintivi e i confini delimitanti la propria esistenza indipendente.

Questa linea era ed è per noi tracciata dai duri fatti della storia, non dipendeva né dipende dalla volontà o, peggio, dall’arbitrio di singoli o gruppi, fosse pure i meglio temprati dall’esperienza e i più sicuri nel possesso della dottrina. Questo non surroga l’assenza di condizioni oggettive favorevoli, né impedirà il ritorno di flussi negativi, ma non lascia il partito sprovveduto e brancolante di fronte ad essi.

L’Internazionale tendeva invece sempre più a cercare nelle situazioni – purtroppo giudicate per lo più a breve scadenza – e nel loro capriccioso alternarsi delle ricette per capovolgere volontaristicamente i rapporti di forza, e in tale ricerca da un lato perdeva il legame fra l’azione pratica e gli scopi finali, dall’altro si precludeva la possibilità, grande o piccola che fosse, di agire come volontà collettiva, come fattore di storia sulle situazioni stesse, mostrando in tal modo come il volontarismo si converta in determinismo meccanico, e infine in capitolazione larvata o esplicita di fronte a Sua Maestà il Fatto.

In secondo luogo, e per le stesse ragioni, la Sinistra ammonì che, presa questa via contorta e non fermatisi in tempo, si sarebbe necessariamente percorsa tutta la china; un espediente se ne sarebbe tirato dietro un altro magari contrario; dell’insuccesso del primo si sarebbe cercata la responsabilità e infine la “colpa” non nella sua natura divergente dal fine, ma nel suo errato maneggio da parte di singoli o gruppi, correndo affannosamente ai ripari con brusche virate di bordo e improvvise crocifissioni di capi, sottocapi e gregari.

Così si minavano le stesse basi di quella disciplina internazionale, non formale ma sostanziale, che pur si voleva, a giusta ragione, instaurare. Proprio perché il partito non è una macchina bruta, non un esercito passivo, ma un organismo che è sì fattore ma anche prodotto degli eventi storici, la tattica reagisce sul collettivo che la pratica, modificandolo – se discordante dalle basi programmatiche – nella sua struttura, nella sua capacità di agire, nei suoi modi di operare, e, alla lunga, nei suoi stessi principi, per quanto accanitamente ci si proponga di difenderli.

Un’altra lezione di primaria grandezza è che l’allarme su una possibile ricaduta nell’opportunismo, che la Sinistra lanciò con sempre maggiore insistenza a partire dal 1922, riguardava un fenomeno non soggettivo ma oggettivo, del quale a nessuno meno che ai bolscevichi si poteva dare la colpa, sia perché il suo insorgere non si spiega banalmente con gli “errori” di Tizio o di Sempronio, sia perché, nella stretta drammatica dell’isolamento mondiale della Rivoluzione russa ad essi mancò dai comunisti d’Occidente l’energica spinta ad una rettifica di tiro, o meglio, ad un ritorno alle origini, contributo che venne solo dalla nostra voce, forte ma isolata. Non chiedemmo la testa di nessuno, nemmeno quando si chiese e offrimmo la nostra: facemmo quanto era nelle nostre forze perché le teste e le braccia riprendessero a lavorare sull’unico binario che non avevamo mai creduto si potesse o dovesse rimettere in questione.

È quindi un concatenamento inesorabile di fatti, quello che rievochiamo in queste pagine, perché serva di monito alle generazioni presenti e future; non una “cronaca nera” che ci offra l’occasione di vantare titoli personali e mettere alla gogna le vittime inconsce – e indiscutibilmente in buona fede – di un metodo sbagliato, oltre che di un accumularsi di condizioni avverse. Difendiamo il marxismo, non la proprietà intellettuale di nessuno; condanniamo una deviazione con le sue conseguenze ineluttabili, non l’uomo messo in berlina per una dubbia soddisfazione del giudice e il morboso piacere della platea.

* * *

Il concatenamento può essere seguito con maggiore brevità, ora che ne abbiamo visto i primi anelli.

L’Esecutivo Allargato del 21 febbraio- 4 marzo 1922 riconferma le “tesi sul fronte unico proletario” del dicembre 1921, dando incarico al Presidium di «stabilire, in collaborazione con le delegazioni di tutte le più importanti sezioni, quali misure pratiche immediate debbano essere applicate nei rispettivi paesi per l’esecuzione della tattica decisa, che, inutile dirlo, deve essere adattata alla situazione di ciascun paese», non senza tuttavia mettere in guardia contro i pericoli di una sua applicazione troppo lata e frettolosa. Ne dà inoltre un primo esempio su scala mondiale dichiarando che «l’Internazionale Comunista mantiene nella sua interezza la propria fondamentale concezione dei compiti della classe operaia nell’attuale situazione rivoluzionaria», e proclama che «solo la dittatura del proletariato e il sistema sovietico possono liberare il mondo dall’anarchia capitalistica; ma crede egualmente che il cammino verso la battaglia finale passi per la lotta delle masse operaie unite contro gli attacchi della classe capitalistica, ed è quindi pronta a partecipare ad una conferenza internazionale che si metta al servizio delle azioni unite del proletariato»; accetta di conseguenza la proposta dell’Internazionale “due e mezzo” per una conferenza delle tre Internazionali in vista della difesa contro l’offensiva capitalistica e contro la reazione, proponendo di estendere l’invito a “tutte le confederazioni e associazioni sindacali tanto nazionali quanto internazionali” in modo da elevare la conferenza al livello di “congresso mondiale operaio” per la difesa della classe lavoratrice contro il capitale internazionale.

Le delegazione italiana difende il principio, sempre proclamato dal partito, che ogni proposta e intesa di fronte unico deve correre fra organizzazioni economiche e non raggiungere il limite di un accordo fra partiti; invoca una azione generale del proletariato e una crescente unificazione delle lotte, contrapponendole alla "unità formale” costituita da accordi politici; mette severamente in guardia contro il travisamento della natura dei partiti comunisti (1); e infine respinge la progettata adesione alla Conferenza a tre, proponendo di sostituirla con un incontro «fra le organizzazioni sindacali di ogni sfumatura», previa assicurazione che vi sarà ammessa «una rappresentanza proporzionale di tutte le loro correnti politiche». La mozione, presentata in tal senso con l’appoggio – purtroppo dubbio – delle delegazioni francese e spagnola, è respinta a larga maggioranza (sebbene con molte riserve da parte di numerose delegazioni sull’applicabilità al loro paese della tattica preconizzata dall’Esecutivo), e i suoi promotori si piegano all’imperativo della disciplina internazionale(2).

Già nel corso dell’Esecutivo Allargato del febbraio-marzo aveva fatto tuttavia capolino, sulla falsa riga di iniziative prese dal partito tedesco, una nuova parola d’ordine: quella del “governo operaio”, formula non meglio precisata in sede internazionale ma notoriamente intesa da alcune sezioni dell’I.C. (prima fra tutte quella della Germania) nel senso tutt’altro che sottaciuto di una combinazione parlamentare di “trapasso" verso l’attacco rivoluzionario al potere dopo il primo e già sperimentato gradino dell’appoggio esterno a eventuali governi socialdemocratici (3).

Il passo non avanti, ma indietro, si profila qui gravissimo: dal campo dei rapporti fra partiti il fronte unico politico rischia d’essere trasferito su quello dei rapporti con lo Stato, il terreno specifico della nostra opposizione permanente e totale. Il delegato tedesco al congresso di Roma del PCd’I parla senza veli di un “governo operaio”, cioè socialdemocratico, come eventuale “governo antiborghese” da appoggiare non solo sul terreno parlamentare, ma, occorrendo, su quello della coalizione ministeriale (ferma restando… l’indipendenza del partito). In una durissima risposta, Bordiga, per l’Esecutivo del PCd’I risponde, quanto al fronte unico, che, «se sul terreno politico ci rifiutiamo di stringere la mano ai Noske e agli Scheidemann, noi rifiutiamo di stringere queste mani non perché siano bagnate del sangue di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, ma perché sappiamo che, se queste mani non fossero già state strette dai comunisti subito dopo la guerra, assai probabilmente in Germania il movimento rivoluzionario del proletariato avrebbe già avuto il suo sbocco vittorioso».

Quanto quanto al "governo operaio" rispondemmo: «Domandiamo se si vuole l’alleanza coi socialdemocratici per fare ciò che essi sanno, possono e vogliono fare, oppure per chiedere loro ciò che non sanno, non possono e non vogliono fare (…) Vogliamo sapere se si pretende che diciamo ai socialdemocratici di essere pronti a collaborare con essi anche in parlamento ed anche al governo che è stato definito operaio; ché se questo ci si chiedesse, cioè di tracciare in nome del PC un progetto di governo operaio cui dovrebbero partecipare comunisti e socialisti, se ci si chiedesse di presentare alle masse questo governo quale “governo antiborghese”, noi risponderemmo, prendendo tutta quanta la responsabilità della nostra risposta, che tale atteggiamento si oppone a tutti quanti i principi fondamentali del comunismo. Perché, se accettassimo questa formula politica, verremmo a lacerare la nostra bandiera sul quale è scritto: “Non esiste governo proletario, che non sia costituito sulla base della vittoria rivoluzionaria del proletariato"» ("Il Comunista”, 26 marzo 1922).

Dell’allarme suscitato nel partito da questa svolta ancora indistinta, ma gravida di minacce, si fa interprete la maggioranza di sinistra della delegazione italiana al nuovo Esecutivo Allargato del 7-11 giugno 1922 (di cui non esiste nessun protocollo a stampa, ma i documenti relativi alla questione italiana si leggono nel n. 6, marzo 1924, di “Lo Stato operaio”, pubblicati insieme ad altri nella fase preparatoria alla conferenza nazionale di Como). Zinoviev, sia in sede di riunione sia nella “risoluzione confidenziale” sulla questione italiana (“Lo Stato operaio”, 13 marzo 1924), mentre insiste sulla necessità di una pronta applicazione della parola d’ordine del “governo operaio”, precisa: «Va da sé che questa idea del governo operaio non deve essere affatto considerata come una combinazione parlamentare, ma come la mobilitazione rivoluzionaria di tutti gli operai per il rovesciamento del dominio borghese»; è, si disse allora e si ripeterà poi, “un sinonimo di dittatura del proletariato”, qualcosa di simile alla parola d’ordine bolscevica tra l’aprile e il settembre 1917: “tutto il potere ai Soviet”, confondendo i Soviet con il Parlamento!

In seguito ad un’approfondita illustrazione dell’attività svolta dal Partito Comunista d’Italia, dalla sua costituzione in poi, lo stesso Esecutivo riconosce che «nessun conflitto di organizzazione e disciplina si è mai verificato fra il partito e l’Internazionale» e che «i comitati locali di operai di tutti i partiti o senza partito» esistono già, come lealmente dichiara per la minoranza Graziadei, proprio per iniziativa del partito, sotto forma di comitati di quell’Alleanza del Lavoro di cui il PCd’I è divenuta la forza propulsiva, così come era stato il primo a invocarne e promuoverne la costituzione fin dall’agosto dell’anno precedente.

Reagendo a valutazioni troppo ottimistiche e indubbiamente sfocate della situazione oggettiva, e procurando di togliere in generale alla parola d’ordine del “governo operaio” (subìta senza convinzione e con le debite riserve) ogni punta astrattamente volontaristica, evitando nel contempo una sua interpretazione in senso parlamentare, la maggioranza della delegazione (4) precisa che «il momento nel quale essa dovrà essere lanciata (l’Internazionale esigeva che si fissasse una data precisa: il 15 luglio), dal punto di vista degli effettivi obbiettivi come realizzazione completa dei movimenti d’insieme del partito, dovrà corrispondere ad una svolta concreta della situazione; questa svolta potrà consistere nella realizzazione dello sciopero generale suscitato da un episodio clamoroso dell’offensiva borghese, oppure nella convocazione di un congresso nazionale dell’Alleanza del Lavoro, come risultato della campagna condotta da lungo tempo dal partito comunista».

La stessa delegazione, a proposito delle critiche rivolte alle sue Tesi di Roma (5) ribadisce in un testo che ci sembra opportuno riprodurre di «aver tacciato in esse una concezione della tattica comunista in generale, e della sua applicazione al fronte unico in particolare, in un quadro preciso e completo, nel quale l’applicazione della tattica del fronte unico ha un valore e degli scopi nettamente politici, e mira ad intensificare l’influenza del partito nella lotta politica. Il compito che esse prevedono per il partito comunista nell’insieme del movimento è tale da evitare la coalizione con altri partiti politici come base di un organo comune di direzione della lotta proletaria, senza per nulla cancellare l’importanza di questo compito e i caratteri politici della lotta». Aggiungere: «La maggioranza del Partito Comunista d’Italia contesta di aver avuto esitazioni nella direzione della tattica del partito e di essersi tenuta a mezze misure, avendo sempre seguito un piano nettamente saldo al solo scopo di sfruttare il più possibile la situazione concreta per la lotta contro i socialisti e tutti gli altri avversari del partito e dell’Internazionale. Esso non contesta evidentemente d’aver potuto commettere degli errori, né il diritto dell’Internazionale Comunista di esigere qualsiasi modificazione della tattica del partito, secondo le risoluzioni della maggioranza di questi organi supremi e sotto la loro responsabilità».

Contro i giudizi frettolosi della “instabilità” del governo borghese in Italia, aggiunge: «Gli avvenimenti sulla scena parlamentare non devono indurci alla conclusione che la classe dominante italiana non disponga di un apparato statale ben solido e preparato ad una formidabile lotta controrivoluzionaria, con l’appoggio delle bande irregolari fasciste. Si deve pure mettere in giusto rilievo il pericolo rappresentato dalla politica combinata dei riformisti da una parte, e dei serratiani e di altri gruppi falsamente rivoluzionari dall’altra. Gli uni e gli altri, con una campagna di tolstoismo e di critica disfattista del “militarismo rosso”, impediscono la riorganizzazione rivoluzionaria dell’avanguardia proletaria, e mentre i primi mirano al compromesso con la borghesia, i secondi coprono il loro tradimento col gioco di una demagogia che distoglie il proletariato dai suoi veri compiti di lotta. Si devono prospettare gli effetti di queste influenze che potrebbero preparare all’azione proletaria che si avvicina uno sbocco non desiderato, mentre i comunisti tendono a farne una tappa verso l’innalzamento del livello di preparazione ideale e materiale della classe operaia per la lotta rivoluzionaria finale» (6).

1° agosto 1922. La previsione amara trova purtroppo conferma. Al culmine di un a violenta battaglia difensiva su tutti i fronti del proletariato italiano, l’Alleanza del Lavoro decide la proclamazione di uno sciopero generale, in cui però i riformisti non vedono che un mezzo di pressione per risolvere la crisi governativa nel senso di una coalizione liberale-socialdemocratica (pochi giorni prima Turati aveva salito le scale del Quirinale), mentre i proletari in genere e i comunisti in specie ne sentono l’urgenza come vigorosa azione di contrattacco alla grandeggiante offensiva, in corso con la connivenza dei poteri pubblici. La CGL è così poco convinta della propria politica, e soprattutto delle proprie capacità di controllo delle masse, che l’ordine “segreto” dello sciopero viene reso di pubblica ragione da un organo socialdemocratico e confederale, “IL Lavoro”, mettendo così lo Stato e le squadracce nere in grado di entrare tempestivamente in azione. Lo sciopero stesso viene sospeso dopo 24 ore, mentre le masse si sono mobilitate senza la minima diserzione e continueranno a battersi con splendido coraggio contro le forze repressive, ora piegandosi solo alla strapotenza del numero (a Bari è necessario l’intervento della marina per riconquistare la città vecchia, a Parma respingendo clamorosamente, in un autentico assedio, le arroganti e molto attrezzate e numerose squadre nere) (7).

Notoriamente, è di qui che data il vero e proprio “cambio di mano” al governo dello Stato dai liberali ai fascisti: il resto sarà tutta questione di un… viaggio in vagone letto sullo sfondo puramente coreografico dell’eroicomica Marcia su Roma.

Tuttavia i riformisti traggono dall’insuccesso voluto e preparato dello sciopero d’agosto la conferma segretamente esultante: «Usciamo da questa prova clamorosamente battuti (…) è stata la nostra Caporetto»; mentre i massimalisti, chiudendo tutte e due gli occhi sul palese sabotaggio della destra socialdemocratica, non sanno invitare i proletari demoralizzati e dispersi ad altro che ad una pausa di «raccoglimento» per «correggere gli errori, rettificare il fronte, perfezionare lo strumento di lotta» in vista delle nuove battaglie che la «furia avversaria» prepara, e delle nuove «prove di abnegazione e sacrificio» che essa impone, prima fra tutte nientemeno che «la resistenza nelle posizioni conquistate nella pubblica amministrazione» !!!

Malgrado tutto ciò, per inesorabile forza di inerzia, l’Internazionale insiste (anzi con sempre maggiore insistenza) per un’azione di recupero del PSI, e prende sul serio la commedia della scissione socialista infine avvenuta al congresso di Roma del 1-4 ottobre a parità quasi completa di voti, e la ancor più indegna commedia della rinnovata richiesta di adesione a Mosca dell’ala maggioritaria del partito.

Ai proletari italiani, che avevano mostrato di stringersi sempre più intorno al Partito Comunista d’Italia nella lotta contro il fascismo e in difesa delle loro rivendicazioni di vita e di lavoro (8), subito dopo lo sciopero e i suoi strascichi sanguinosi, il 19 agosto, il partito stesso aveva rivolto un Appello non retorico ma nutrito di proposte pratiche e direttive precise per l’immediata riorganizzazione delle forze scompaginate e disperse intorno ad una rinnovata e potenziata Alleanza del Lavoro. Questa si doveva articolare in una rete efficiente di comitati locali, e centralizzare in «un organo direttivo supremo eletto da un congresso nazionale dell’Alleanza in modo rispondente alle necessità della situazione», nella prospettiva di un’ulteriore «simultanea mobilitazione di tutte le sue forze, nell’affasciamento di tutte le vertenze che l’offensiva borghese continuerà implacabile a suscitare nel campo delle lotte sindacali come nella quotidiana guerriglia contro il fascismo» (Manifesto del 19 agosto “Per il programma di lotta del proletariato). I proletari dal partito ricevevano una parola non di piagnucoloso disarmo ma di impegno non demagogico (“La lotta continua!”, su “Il Comunista” dell’8 agosto), mentre prendeva corpo l’iniziativa del convegno delle Sinistre sindacali e guadagnava consensi l’invito ai proletari ancora legati al vecchio partito bancarottiero di rompere con esso e schierarsi col partito rivoluzionario di classe.

Nel mentre questi proletari vedevano l’Internazionale muoversi sul doppio binario, di semi-equidistanza, del corteggiamento anche finanziario del PSI, neomutilatosi solo per finta, e dello scomodo e quasi riluttante riconoscimento del partito di Livorno, l’unico partito comunista; con riflessi di smarrimento, disgusto ed amarezza (9) di cui non potranno mai valutarsi gli influssi sulla débacle finale (10).

Ma v’era di peggio. Non solo in Francia si accumulavano i sintomi di una ennesima sbandata a destra del PCF (un carro tirato, in altrettante direzioni diverse, da almeno cinque cavalli) e di trasposizione delle tattiche del fronte unico e del governo operaio sul piano delle combinazioni elettorali, sia pure soltanto amministrative.

Ma in Germania il corso precipitoso verso posizioni a dir poco equivoche e intermedie aveva fatto passi da gigante: estenuanti trattative con la socialdemocrazia per una manifestazione comune, poi naufragata, ai funerali di Tathenau con finale intervento isolato del partito al grido di “Repubblica! Repubblica!”; netta prevalenza negli organi direttivi di una interpretazione del “governo operaio” che troverà la sua codificazione “di sinistra”(!!) alla conferenza del gennaio 1923 a Lipsia: «né dittatura del proletariato né pacifico modo parlamentare di arrivarci, ma tentativo della classe operaia, nel quadro e dapprincipio coi mezzi della democrazia borghese, di esercitare una politica operaia con l’appoggio di organi proletari e di movimenti di masse proletarie», ma che, nella sua formulazione di destra (come in quella di Graziadei o di Radek al IV Congresso), aveva un sapore neppure dissimulato parlamentare e ministerialista: e prescindiamo da analoghi macroscopici sbandamenti nel solito partito cecoslovacco o in altri.

Il nostro allarme trovava dunque fin troppe conferme; e la più grave era che le oscillazioni e gli sdruccioloni dei maggiori partiti dell’Europa occidentale si riflettevano nella politica della dirigenza del Comintern, e la condizionavano.

In questa atmosfera di brancolamenti e confusione, che solo l’ottimismo ufficiale velava adducendo i successi conseguiti sul piano numerico, parlamentare e statistico-organizzativo, si riunì il IV Congresso dell’Internazionale Comunista (5 novembre- 5 dicembre 1922), mentre già in Italia il fascismo completava la sua pacifica, legale e benedetta dai padri tutelari della democrazia, ascesa al potere, sulle ceneri della rabbiosa e mai placata resistenza proletaria.

Per la prima volta la rappresentanza all’assise di Mosca è veramente mondiale. Ma di là da questo aspetto, che prova la potente forza di attrazione dell’Internazionale rivoluzionaria, la discussione, che si trascina per un mese intero, rivela la fragilità intrinseca del edificio. Astrazion fatta dal breve discorso di Lenin, appena convalescente, dallo splendido bilancio di Trotski sulla NEP e le prospettive della rivoluzione mondiale, dal primo grande rapporto Bordiga sul fascismo, e dal rapporto Bucharin sul programma dell’Internazionale, che sollevano il dibattito all’altezza delle grandi sintesi e delle formulazioni di principio, il Congresso brancola faticosamente alla ricerca di una via che tracci i confini alle più recenti evoluzioni tattiche nei paesi di capitalismo avanzato (paradossalmente, il problema dei limiti della tattica è ripreso dai nostri contraddittori, senza però che si vada oltre i termini di una complicata e tutt’altro che chiarificatrice casistica).

Appare fin dalle prime battute che la parola d’ordine del fronte unico ha dato luogo non solo a diverse interpretazioni erronee, ma ad aperte deviazioni di principio: alla rappresentanza mondiale dei partiti comunisti si impone l’incredibile necessità di ricordar loro che ogni ritorno all’ ”unità” con la socialdemocrazia è per sempre escluso! Ma lo spettro appena fugato nel modo di interpretare ed attuare questa parola d’ordine, improvvisamente e incautamente lanciata nella sua forma più vaga, si rivela subito enorme: se Zinoviev prospetta il mitico “governo operaio” come un’eventualità del tutto eccezionale e quasi improbabile, v’è chi lo giudica una possibilità condizionata, e chi, agnosticamente, come un evento realizzabile anche sul piano parlamentare, a seconda della posizione che la socialdemocrazia assumerà nei prossimi mesi, e che nessuno può prevedere.Radek, che appunto sostiene senza mezzi termini questa tesi, non esita a ridimensionare il giudizio fino allora ritenuto definitivo sulla funzione storica del riformismo: la socialdemocrazia – si deve sentir dire dalla tribuna, e da un rappresentante così qualificato del presidium – ha sì massacrato gli spartachisti e strangolato la rivoluzione tedesca, ma ci ha pur fatto, volente o nolente, il piacere di “liberarci” dal Kaiser!!!

Il nocciolo della questione resta comunque (e le tesi votate con la sola astensione del partito italiano lo provano) che la parola d’ordine non è più presentata come sostitutiva – e solo in date circostanze – della classica parola della dittatura del proletariato: questa, che per la sinistra sola merita veramente il nome di “governo operaio”, diventa l’ultimo gradino, il vertice ideale – per così dire – di una scala ascendente di forme imperfette e tuttavia ipotizzabili come trampolini di lancio a quella vetta suprema: governo “operaio” con partecipazione comunista (subordinatamente all’impegno di armare i proletari, disarmare le organizzazioni controrivoluzionarie, introdurre il controllo della produzione e scaricare sulle spalle della borghesia l’onere principale delle imposte); governo “ di operai e di contadini poveri” non meglio specificato, come potrebbe formarsi nei Balcani; governi “apparentemente operai” come quello operaio… “liberale” già esistente in Australia e forse imminente in Inghilterra, o come quello “operaio”… puramente socialdemocratico già in atto o in gestazione in Germania.

Questi ultimi, si dice, pur non essendo “rivoluzionari”, possono in date circostanze «accelerare il processo di disgregazione del regime borghese» (la socialdemocrazia non più strumento di conservazione del regime borghese ma suo possibile fermento dissolutore!) e i comunisti devono essere pronti «ad appoggiarli sotto certe garanzie e, naturalmente, solo in quanto esprimano e difendano gli interessi dei lavoratori» (!!!): i due primi «non significano ancora la dittatura del proletariato, non sono neppure uno stadio di transizione storicamente inevitabile ad essa, ma rappresentano, qualora e dovunque si costituiscano, un importante punto di partenza per la conquista della dittatura attraverso la lotta».

Le tesi aggiungono: «Un governo operaio è possibile solo se nasce dalla lotta delle masse stesse, poggia su organi operai atti al combattimento e creati dagli strati più profondi delle masse proletarie oppresse. Anche un governo operaio scaturito da una costellazione parlamentare, quindi di origine puramente parlamentare, può dar modo di ravvivare il movimento rivoluzionario operaio. È però evidente che la nascita di un vero governo operaio, e l’ulteriore conservazione di un governo che conduca una politica rivoluzionaria, deve scatenare le lotte più aspre ed eventualmente (?!) la guerra civile con la borghesia. La parola d’ordine del governo operaio è quindi atta ad affasciare il proletariato e a scatenare lotte rivoluzionarie». Le garanzie? Eccole: «La partecipazione ad un governo operaio deve avvenire previo consenso del Comintern; i suoi membri comunisti devono soggiacere al più stretto controllo del partito e mantenersi nel più intimo e diretto contatto con le organizzazioni del proletariato; il partito comunista deve assolutamente mantenere il proprio volto e la completa autonomia della propria agitazione» (“Protokoll des 4 Kongress der Kommunistichen Internazionale”, Amburgo 1923, pp. 1016-1917).

In questo edificio, cesellato con la giuridica minuzia di un costituzionalismo che ricorda la classica teoria borghese dei “freni e contrappesi”, tutto va perduto: l’indipendenza reale del partito, che non gli si può chiedere di mantenere nell’atto che abbandona le sue pregiudiziali di irrevocabile scissione da partiti classificati per sempre nel novero delle forze controrivoluzionarie; l’esclusione marxista di soluzioni intermedie tra dittatura della borghesia e dittatura del proletariato; le stesse basi del “parlamentarismo rivoluzionario”, che è strumento di eversione degli istituti rappresentativi borghesi o non è nulla; infine, implicitamente, la stessa nozione di Stato.

E di riflesso salta il fondamento di una disciplina internazionale non fittizia, non meccanica, non basata sull’esegesi degli articoli di un codice civile o penale, ma organica, subentrandole la disciplina formale imposta da un organo insieme deliberante e esecutivo, la cui capacità di mantenere nel gioco complesso e imprevedibile delle manovre il filo della continuità teorica, pratica e organizzativa, è data a priori in forza di un’immunizzazione supposta permanente.

È un vecchio corollario delle “garanzie” che, quando sciaguratamente vengono messe in campo, sorga il quesito: chi custodirà i custodi? O dirigenza e “base” sono legate da un vincolo comune e superiore (e questo non può essere che il programma invariante e impegnativo per tutti) o deve risorgere l’apparato giudiziario dei tribunali del primo, secondo e terz’ordine, con tutto il gregge di avvocati, pubblici ministeri e, ovviamente, professori di diritto costituzionale, e questo apparato non è un ente metafisico, è la sovrastruttura dell’organismo che teoricamente dovrebbe controllare e giudicare: giudice e imputato in una persona sola. Non resta, allora, che sottoporlo anch’esso all’autorità suprema del poliziotto.

La disciplina è il prodotto dell’omogeneità programmatica e della continuità pratica: introducete la variabile indipendente dell’improvvisazione, e avrete un bel circondarla di clausole limitative; al termine del processo c’è solo il Knut, c’è Stalin.

Questo, in altre parole, dissero in appassionati interventi i rappresentanti della maggioranza del partito italiano (Il lettore può trovare il discorso Bordiga ne “Il Lavoratore” del 9 dicembre 1922), allora tutta di sinistra. E, poiché scripta manent, formularono le tesi che riproduciamo, nel disperato tentativo di rimettere ordine nei concetti, e quindi nell’azione pratica, e isolare il nocciolo sano delle formule via via uscite dagli alambicchi moscoviti dalle loro superfetazioni morbose. Le “Tesi sulla tattica” presentate al IV, poi al V Congresso (i due testi sostanzialmente si identificano) saranno rinviate a discussioni future: la “disciplina” provvederà ad archiviarle per sempre.

 

 

Note:

(1) Appassionatamente obietta uno dei delegati: «Ci si prepara dunque a sacrificare, in nome della conquista delle masse, i principi ai quali andiamo debitori della nostra esistenza? È possibile, noi pensiamo, che coi mezzi suggeriti dall’Esecutivo si conquistino nuove masse; ma non avremo più dei partiti comunisti; avremo dei partiti che assomiglieranno come gocce d’acqua ai vecchi partiti socialisti». Che tale sia infine divenuto il PCI, e che quello stesso delegato ne faccia ora parte, è solo una riprova della impersonalità dei processi storici.

(2) La conferenza si tenne in realtà a Berlino ai primi di aprile del 1922 e si risolse in un violento duello oratorio fra il caustico Radek e i peggiori arnesi del riformismo internazionale, di tutt’altro preoccupati che di “un’azione comune per la difesa contro il capitale”. L’accordo – “pagato troppo caro” scriverà Lenin a proposito delle concessioni fatte dalla delegazione russa in merito alla procedura del processo contro i social-rivoluzionari – che prevedeva anche la convocazione a breve scadenza di “un congresso mondiale operaio” precipitosamente annunziato dall’Internazionale Comunista in un manifesto ai proletari di tutti i paese e mai avvenuto, fu subito violato dalle due Internazionali gialle, che non parteciparono a nessuna delle previste o concertate manifestazioni “comuni” e poco dopo tornarono a fondersi: non altra era l’ ”unità” che avevamo perseguito! L’effetto fu disastroso, fra l’altro, in Italia, dove le manifestazioni di denunzia dell’Internazionale sindacale gialla di Amsterdam riunita in congresso a Roma, già progettate e organizzate dal partito, dovettero essere sospese in ubbidienza ai deliberati di Berlino.

(3) Thalheimer all’Esecutivo Allargato del febbraio-marzo: «Le condizioni in Sassonia e forse in Turingia sono tali che i maggioritari sarebbero pronti ad entrare con piacere in un governo di coalizione borghese, e la briglia che li trattiene dal farlo è proprio l’appoggio da noi dato al governo dei maggioritari e degli indipendenti». Bell’esempio di teorizzazione del “governo migliore” identificato nella coalizione ministeriale dei Noske-Scheidemann-Hasse, i carnefici dell’ ottobre-dicembre 1919 tedesco, tenuti amorosamente in sella da “noi”, e così impediti di smascherarsi di fronte alle masse!

(4) Di cui (accanto ad Amadeo Bordiga) fa incondizionatamente parte Antonio Gramsci, fin allora per nulla dissenziente dalla direzione della sinistra.

(5) L’orientamento, ormai decisamente preso, vela a tal punto gli occhi dei dirigenti del Comintern che nelle “Osservazioni del Presidium sulle Tesi di Roma sulla Tattica del PCI” rese pubbliche il 22 luglio (riprodotte nel numero 24 aprile 1924 di “Stato operaio”), a parte le solite accuse di dottrinarismo, settarismo e infantilismo, un testo come quello che abbiamo riprodotto, che indica con estrema precisione le eventualità alternative della situazione per mettere il partito in grado di non “subirle ecletticamente”, viene interpretato come una riverniciatura della “teoria offensiva”! Un testo che propugna il fronte unico sindacale ed esclude quello politico proprio per salvaguardare il carattere e la funzione del partito e, d’altra parte, indica nel fronte unico sindacale uno strumento per imbevere della propria ideologia le organizzazioni economiche e sottoporle alla propria guida politica, è respinto come a sfondo “sindacalista”! La lettera invita quindi il partito a “lottare per lo scioglimento della Camera allo scopo di instaurare un governo operaio” e a proporre a tal fine “un blocco col partito socialdemocratico” appoggiandolo nei limiti in cui esso “difende(!!!) gli interessi della classe operaia”. Ad un mese dal II Esecutivo Allargato, a questo è decaduto il “sinonimo della dittatura del proletariato”.

(6) Siamo costretti per le ragioni di cui sopra a centrare il problema sulla “questione italiana”, ma è chiaro che per noi si trattava di salire da questa ad una ben precisa (e non passibile di equivoci) interpretazione internazionale della nuova tattica.

(7) Lo snodarsi della lotta sindacale e militare contro l’offensiva fascista nella prima metà del 1922, nel cruciale agosto e nei mesi successivi, è illustrato nei nr. 43, 44, 45 e successivi della nostra rivista teorica internazionale “Programme Communiste”, insieme con l’azione disfattista svolta dai socialdemocratici dietro la solita copertura del verboso “estremismo” massimalista. Si noti che la potentissima CGL dovette affidarsi alla rete clandestina del Partito Comunista d’Italia per impartire in codice le disposizioni di sciopero del 1° agosto!

(8) È significativo come, in un periodo di rabbiosa offensiva padronale, in tutti i convegni e conferenze della CGL e della FIOM le mozioni comuniste, malgrado i brogli elettorali in cui il bonzume era allora come oggi specialista, ottengano un numero di voti stabile o in ascesa, mentre quello alle mozioni socialiste declinano. In fatto di “conquista della maggioranza”, le carte erano dunque in perfetta regola, ma lo erano soprattutto in fatto di influenza reale, come dimostrano gli innumerevoli episodi di scioperi, agitazioni, scontri armati, svoltisi sotto la guida del partito e della sua longa manus, i gruppi comunisti di sindacato e di azienda.

(9) Se ne occorressero testimonianze non sospette si leggano il rapporto al Comitato Centrale del 10-11 settembre 1922 e le lettere all’Internazionale Comunista dell’8 marzo 1923 di U. Terracini rispettivamente a pp. 128 degli “Annali Feltrinelli”, 1966 e pp. 45-50 di La formazione del gruppo dirigente del PC di P. Togliatti. Che poi la frazione terzinternazionalista fosse già nel 1922 finanziata dal Comintern come strumento di noyautage nel PSI, o, di volta in volta, come candidata alla fusione col Partito Comunista d’Italia, è confermato dai recenti libri di Humbert Droz.

(10) Accenniamo solo di passaggio alle ulteriori, squallide vicende del tentativo di recupero del PSI dopo la scissione con la “destra” socialdemocratica (PSIU). Nuove trattative per la fusione col Partito Comunista d’Italia al IV Congresso sulla base dei 14 punti ultimativi; immediata reazione della maggioranza del PSI in Italia che, portavoce Nenni sull’ ”Avanti!”, protesta contro la “liquidazione sotto costo” del partito nei deliberati di Mosca; formazione di “comitati per la fusione” che, in tali circostanze, rimangono sulla carta; nuovo congresso del PSI a Milano dal 5 al 17 aprile 1923 e vittoria degli antifusionisti all’insegna del “Comitato di difesa socialista”; ulteriori approcci in seguito all’Esecutivo Allargato del luglio e, di fronte a un nuovo rifiuto della direzione del PSI, costituzione della frazione “terzinternazionalista” con l’appoggio del Comintern; estremo invito non solo al PSI, ma al PSIU per un blocco di “unità proletaria” nelle elezioni dell’aprile 1924, cui aderiscono soltanto i “terzinternazionalisti” o “terzini”; finale confluenza di questi ultimi (un’esilissima organizzazione, politicamente più che dubbia, tenuta in vita unicamente dall’appoggio di Mosca) nel Partito Comunista d’Italia, secondo i deliberati del V Congresso dell’Internazionale (giugno-luglio 1924), proprio mentre si apre la crisi Matteotti – un’affannosa rincorsa al fantasma socialista conclusasi con l’acquisto di pochi e opinabili “nuovi compagni” e la perdita di veri militanti, disorientati o, peggio, disgustati, della vecchia guardia; per non parlare della confusione seminata nelle file proletarie.

 

 

 


Presentazione delle Tesi di Lione

Le Tesi di Lione, che qui ripresentiamo, si situano in un momento cruciale del movimento operaio e comunista, che ci autorizza a considerarle insieme come un punto di arrivo e come un punto di partenza nella difficile e contrastata genesi del partito mondiale di classe del proletariato.

La direzione di sinistra del Partito Comunista d’Italia, uscita dai congressi di Livorno e di Roma, era stata sostituita provvisoriamente in seguito all’arresto dei principali dirigenti nel febbraio 1923, e definitivamente dopo l’assoluzione di questi ultimi al processo nello stesso anno. Dopo le prime resistenze (da parte di Terracini soprattutto, ma anche di Togliatti), la nuova direzione di “centro” si allineò gradualmente alle posizioni dell’Internazionale, ma ancora alla Conferenza nazionale di Como (maggio 1924) risultava in minoranza rispetto al grosso del partito, quasi unanimemente schierato sulle sue posizioni di origine.

Pur in tale condizione, come al successivo V Congresso dell’Internazionale Comunista, la Sinistra non solo non rivendicò il proprio ritorno alla direzione del partito, ma sostenne che una simile possibilità era condizionata ad una decisa e non equivoca svolta nella politica di Mosca: «Ove l’indirizzo dell’Internazionale e del partito – si legge nello schema di tesi presentato alla suddetta conferenza dalla sinistra – dovesse restare opposto a quello qui tracciato, o anche indeterminato e imprecisato come fino adesso, alla sinistra italiana si impone un compito di critica e di controllo, e il rifiuto fermo e sereno a soluzioni posticce raggiunte con liste di comitati dirigenti e formule svariate di concessioni e di compromessi, quali sono il più delle volte i paludamenti pedagogici della tanto esaltata ed abusata parola di unità».

Coerentemente, al V Congresso, il rappresentante della Sinistra rifiutò non soltanto l’offerta della vice-presidenza dell’Internazionale fattagli da Zinoviev, ma ogni corresponsabilità nella direzione del Partito Comunista d’Italia, mentre la Centrale italiana si orientava sempre più nel senso voluto da Mosca e patrocinato qui da noi dalla corrente di destra Tasca-Graziadei.

Le Tesi presentate dalla corrente di sinistra del Partito Comunista d’Italia, in contrapposto alle tesi della Centrale ormai semi-stalinizzata, al III Congresso del partito tenutosi a Lione nel gennaio 1926, seguono di pochi mesi quel XIV Congresso del partito russo che aveva visto la quasi totalità della vecchia guardia bolscevica, a cominciare da Kamenev e Zinoviev, insorgere in una rovente quanto improvvisa impennata sia contro “l’abbellimento della NEP” e il “contadini arricchitevi” dei “professori rossi” e di Bucharin, sia contro il soffocante regime interno di partito instaurato da Stalin; precede di appena un mese quel VI Esecutivo Allargato dell’Internazionale Comunista che, puntando tutti i cannoni di un’oratoria d’ufficio contro l’unica forza internazionale levatasi a denunziare la crisi profonda del Comintern – appunto la Sinistra italiana – e mettendola al bando, spianava la strada alla condanna anche dell’Opposizione russa nel novembre-dicembre.

Il movimento internazionale comunista era giunto al suo fatale crocevia e, come al XIV Congresso del PCR i Kamenev, gli Zinoviev, la Krupskaja avevano avuto la coscienza di esprimere nelle loro parole forze sociali e materiali in lotta nell’ambito dello Stato sovietico contro altre forze sociali e materiali obiettive mille volte più potenti degli individui alternatisi alla tribuna, così sul piano internazionale la Sinistra, nel redigere come sempre un corpo di tesi riguardanti non l’angusto confine della “questione italiana”, ma l’intero mondiale campo della tattica comunista, sapeva di dar voce a un corso storico che nel giro di pochi mesi avrebbe avuto nome Cina e, per una rara e per molti anni unica convergenza di circostanze obiettive, Inghilterra – dunque un paese semicoloniale e la metropoli imperialistica per eccellenza.

Era l’anno della prova suprema, giacché dall’esito della titanica lotta degli operai e contadini cinesi e dei proletari britannici sarebbe dipeso, in ultima istanza, il destino della Russia sovietica e dell’Internazionale. L’Opposizione russa sentirà nel corso di quell’anno la terribile urgenza dei nodi venuti al pettine della storia e, superando antichi dissapori, Trotski e Zinoviev (per citare soltanto due nomi) faranno disperatamente blocco contro le forze incalzanti della controrivoluzione; il primo in particolare muoverà, fino a tutto il 1927, una splendida battaglia, e ne uscirà battuto. Uscirà battuta, con l’Opposizione russa, la rivoluzione cinese, e sconfitto il grandioso sciopero britannico, uscirà distrutto l’intero movimento internazionale comunista.

Per l’ultima volta a Mosca, in quel biennio l’internazionalismo proletario si batterà a corpo perduto contro l’accerchiatore esercito del “socialismo in un solo paese”, e quella battaglia rimarrà iscritta a caratteri indelebili nelle pagine destinate ad ispirare le generazioni future dell’avanguardia marxista.

Ma l’Opposizione russa non potrà redigere e consegnare all’avvenire il bilancio generale di un corso storico iniziatosi molto prima del 1926, e di cui l’estrema débâcle era, in parte, il suo prodotto: potrà denunziare il male, non curarlo alla radice. Non così la Sinistra italiana, l’unica che da molti anni di gravi ammonimenti sulle conseguenze oggettive dell’eclettismo tattico del Comintern traesse la capacità di derivare la lezione globale di un quinquennio e riconoscere nel fatto compiuto quanto anticipatamente previsto.

Sola contro tutti, al VI Esecutivo Allargato rimarrà anche sola nel chiedere che la “questione russa”, cioè la questione del “socialismo in un solo paese” e del regime caporalescamente disciplinare imposto dallo stalinismo a tutti i partiti del Comintern, fosse iscritta all’ordine del giorno di un congresso internazionale da tenersi con urgenza, svincolandola dal monopolio di discussione e decisione del partito bolscevico. La richiesta fu devoluta al Presidium, che ne rimise il dibattito all’orchestratissimo Plenum del novembre-dicembre e in tal modo l’archiviò, mentre il congresso si tenne solo due anni dopo sulle macerie di qualunque opposizione rivoluzionaria, e neppure vi fece cenno.

Offrendo al movimento internazionale il suo corpo di Tesi come piattaforma su cui erigere una soluzione organica e completa dei problemi tattici inquadrata in una visione non meno organica e completa dei loro presupposti programmatici, la Sinistra inseriva già la vitale questione russa come un anello in una catena di questioni di vita o di morte per l’Internazionale, ponendo ferme basi di un suo ritorno alle origini.

Nel VII Esecutivo Allargato Trotski avrà mille ragioni di dire che, puntando tutte le sue carte sulla rivoluzione mondiale, il partito bolscevico avrebbe potuto rimanere arroccato non per uno ma per cinquant’anni. Ma non sarebbe tuttavia stato possibile senza, come disse la Sinistra, “capovolgere la piramide” di un Comintern poggiante in modo pauroso sul vertice del partito russo in crisi; senza cambiare da cima a fondo il suo regime interno e, soprattutto, senza la revisione spietata di una tattica le cui svolte imprevedute e imprevedibili avevano prodotto tanti disastri. Quella rivendicazione non aveva, beninteso, nulla di democratico, non contrapponeva al necessario accentramento l’ignobile decentramento delle “vie nazionali”. Era una trasposizione sul piano internazionale della nostra visione del centralismo organico per cui il vertice è legato alla base della piramide dal filo di una dottrina e di un programma unici e ne riceve e sintetizza gli impulsi, o la stessa piramide crolla.

È vano dire che, nella situazione di allora, l’Occidente non avrebbe potuto dare alla Russia bolscevica e allo stesso Comintern l’ossigeno che mancava sempre più, essendo esso stesso immerso in un democratismo che presto diverrà grandeggiante e onnipresente. Quello che la Sinistra rivendicò fu un principio, valido sempre e dovunque, che vede al culmine l’Internazionale, partito unico del proletariato rivoluzionario, che dirige le sue sezioni “nazionali” se ancora esistenti. Il potere coercitivo dello Stato russo, vulnerabile proprio in forza della sua vittoria isolata (specialmente in un paese economicamente arretrato) mai avrebbe dovuto essere utilizzato, come ribadì con forza la Sinistra al VI Esecutivo Allargato, per “risolvere” le questioni disciplinari dell’Internazionale o del partito al comando della dittatura di classe.

Nemmeno Trotski seppe rispondere: vi rispose ripercorrendo passo a passo, in ibrido connubio con la scintillante rivendicazione della rivoluzione permanente, l’accidentato cammino delle manovre elastiche.

Nella parte generale delle Tesi di Lione (e, a sua illustrazione, nei corollari internazionali), questa risposta generale c’è, la si accetti o la si respinga (e accettarla o respingerla si può soltanto in blocco, appunto perché rappresenta una soluzione generale). Sulla sua base la Sinistra poteva essere, e fu, schiacciata dal peso di rapporti di forza ormai pregiudicati; ma è certo che su di essa soltanto poteva risorgere; su di essa soltanto – vogliamo dire sulla base di una sistemazione non parziale ma globale delle questioni tattiche oltre che programmatiche e, per deduzione, organizzative – sarà possibile una ripresa internazionale del proletariato rivoluzionario e del suo partito.

È perciò che le Tesi di Lione, come sono un punto di arrivo nella storia degli anni ardenti 1919-1926, così sono un punto di partenza per l’oggi e il domani, in quanto rappresentano non il prodotto di secrezioni cerebrali di individui, ma il bilancio dinamico di forze reali scontratesi sull’arena delle lotte di classe nel periodo in cui tutto un secolo di battaglie rivoluzionarie si condensò, e mise alla prova del fuoco la saldezza dei partiti comunisti nel tener fede senza mai deviare ai suoi insegnamenti. Il marxismo non sarebbe nulla se non sapesse convertire (come ha saputo in Marx e in Lenin) perfino la sconfitta in premessa di vittoria. È qui il senso profondo ed attuale delle nostre tesi del 1926.

È quindi importante sottolineare come tutti i fili della lunga battaglia sostenuta dalla Sinistra in seno all’Internazionale convergano e si annodino nelle Tesi di Lione, e come da queste si possa ripercorrere a ritroso il cammino fino al 1920, per trovare la saldatura fra lo svolgersi di quella battaglia e la successione degli eventi storici di cui esse furono il bilancio dinamico – e anticipatore di corsi futuri.

Nel movimento socialista internazionale, la Sinistra – come documentano i volumi I e I bis della nostra Storia – era stata senza possibilità di contestazione l’unica a schierarsi di fronte alla guerra mondiale sulle stesse posizioni di principio ardentemente difese da Lenin e dall’esile pattuglia della “sinistra di Zimmerwald”.

Era stata quindi allo scoppio della rivoluzione di Ottobre e nel biennio successivo la sola a dare ai fini e ai mezzi della dittatura bolscevica e del suo organo dirigente, il partito russo, un’adesione sostanziale e di principio ben diversa da quella formale, generica e ispirata dall’entusiasmo del momento, che dettò le conversioni di 180 gradi della maggioranza del Partito Socialista Francese o i repentini accostamenti del massimalismo internazionale demagogico e confusionario anche nell’ipotesi migliore della sincerità dei suoi “capi”.

Era stata la sola, dalla fine del 1918 in poi, a dichiarare pregiudiziali ad uno scioglimento rivoluzionario della crisi postbellica la rottura irrevocabile non solo con la Destra, ma con l’ancora più infido Centro, e la formazione del partito comunista sulle basi che il II Congresso dell’Internazionale Comunista fisserà nel 1920.

Non stupisce perciò che a quel congresso la Sinistra, intervenuta senza mandato ufficiale come semplice corrente del PSI, non solo non opponesse alle fondamentali tesi sul ruolo del partito nella rivoluzione proletaria, sulle condizioni di costituzione dei Soviet, e sulle questioni nazionale e coloniale, sindacale e agraria, nessuna delle obiezioni che i rappresentanti delle delegazioni ufficiali invece sollevarono (o tacquero solo per ripresentarle dopo, al ritorno in patria o in sede di successivi congressi mondiali), ma desse un contributo decisivo alla formulazione delle vitali condizioni di ammissione all’Internazionale Comunista, insistendo perché fossero rese ancor più rigide e, soprattutto, non lasciassero aperti il pericoloso spiraglio degli adattamenti alle “situazioni locali”.

Ma nel quadro di questa battaglia comune e solidale per erigere “barriere insormontabili” al riformismo in seno all’Internazionale Comunista, v’era sin d’allora nelle direttive che la Sinistra invocava per tutto il movimento quell’esigenza di globalità, di carattere “chiuso”, in ogni formulazione – riguardasse il programma o il modo di organizzarsi dei partiti aderenti – di cui le Tesi di Lione saranno la rivendicazione definitiva, e quasi lapidaria.

Tale esigenza, come non nasceva dal cervello di un singolo ma dall’accumularsi di esperienze di lotta nell’Occidente in regime di democrazia piena (con gli inevitabili codazzi riformista e centrista), così si affermò con vigore polemico, non per “lusso teorico” o per scrupolo di integrità morale o di perfezione estetica, come poi si disse, ma per motivi squisitamente “pratici” (nel senso, beninteso, che per il marxismo teoria e azione sono termini dialetticamente inseparabili).

Essa era dettata da una sana preoccupazione non tanto del presente – cioè di una fase storica tuttavia lontana dall’aver esaurito le sue potenzialità rivoluzionarie – quanto del futuro, con particolare riguardo a quell’Europa occidentale e centrale che a buon diritto era considerata la chiave di volta della strategia mondiale comunista, ma in cui il processo di maturazione delle premesse soggettive della rivoluzione – prima fra tutte quella del partito – era in ritardo sul processo di sviluppo delle premesse oggettive, e si svolgeva nel quadro di contingenze storiche atte a favorire, molto più che la chiarezza, la confusione teorica e, sul piano organizzativo, la disorganicità e l’inefficienza.

Nell’oggi, urgeva dare al movimento proletario in pieno slancio una guida mondiale centralizzata e, sotto il fermo polso del partito di Lenin e Trotski, le lacune di formule relativamente “aperte” e perfino “elastiche” potevano sì rappresentare un rischio, ma calcolato, e forse inevitabile. Ma che cosa sarebbe avvenuto domani, se e quando l’ondata gigantesca fosse regredita e, nel rabbuiarsi delle prospettive di rapida marcia in avanti, il pericolo – per usare una frase di Trotski – di “recidiva socialdemocratica”, ben più grave nelle fasi di rinculo che alla vigilia della insurrezione, fosse divenuto attuale, riportando a galla e lasciando filtrare nel movimento le scorie non assimilate né espulse del riformismo?

A guerra ormai lontana, a rivoluzione forse vicina, era facile ai Cachin o ai Chrispien, con la stessa prontezza con cui sei anni prima erano passati nel campo della difesa nazionale e della guerra imperialistica, accettare le tesi dell’Internazionale Comunista, “il potere dei Soviet”, “la dittatura del proletariato”, “il terrore rosso”; ma, esauritesi le spinte oggettive di cui la loro adesione era il prodotto inconscio e involontario, la frattura non sarebbe divenuta (come divenne) voragine? Di più: la stessa Internazionale sarebbe stata al riparo, oltre che dalla pressione esterna di congiunture negative, da quella che le Tesi di Lione chiameranno “la ripercussione che sul partito hanno i mezzi stessi della sua azione, nel gioco dialettico di cause ed effetti”?

* * *

Un filo ininterrotto lega dunque il 1920 al 1926; e questo spiega come le Tesi di Lione, riprendendo i temi di allora, ampliandoli e dando loro una sistemazione definitiva e generale, abbiano potuto e possano ancora offrirli a generazioni più tarde, carichi del bilancio reale della loro conferma pratica. Gli anelli della nostra catena dialettica sono già allora precisi: siano unici, noti a tutti e per tutti vincolanti, la dottrina, il programma, il sistema delle norme tattiche; sarà unica, quindi disciplinata ed efficiente, l’organizzazione. Sicuro nel possesso di queste che sono le condizioni della sua esistenza, il partito sarà in grado di preparare sé stesso e il proletariato alla soluzione rivoluzionaria della crisi della società capitalistica, senza pregiudicare, nelle alternative di riflusso di tale crisi, le possibilità di ripresa.

Allentate prima le maglie della catena, teorizzate poi questo allentamento e avrete perduto tutto, le potenzialità di vittoria nelle situazioni montanti e le potenzialità di risalita nelle situazioni calanti. Avrete distrutto il partito, che è l’organo della rivoluzione se e in quanto abbia previsto in una salda continuità teorica e pratica “come accadrà un certo processo quando certe condizioni si verificheranno” (Lenin nel cammino della rivoluzione, 1924) e “che cosa dovremo fare nelle varie ipotesi possibili sull’andamento delle situazioni oggettive” (Tesi di Lione, parte generale).

La storia della III Internazionale è, purtroppo, anche la storia di come si uccide il partito, pur non volendolo, pur agendo con la miglior intenzione di salvarlo. Il 1926 è l’anno del “socialismo in un solo paese” con tutto il suo necessario contorno (bolscevizzazione, schiacciamento dell’opposizione di sinistra sotto il rullo compressore della disciplina-per-la-disciplina): non altro che l’uccisione del partito mondiale, quella formula maledetta significava. È il vero anno di morte del Comintern: il resto non sarà che la macabra danza intorno alla sua bara.

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La dégringolade avvenne su tre piani che teniamo distinti solo per comodità di esposizione, ma che si intrecciarono l’uno all’altro e il cui risultato convergente fu di distruggere la vera unità del movimento internazionale comunista, sostituendola nel 1926-27 con una unità esteriore, formale e militaresca, buona soltanto a mascherare ed avallare in anticipo ogni libertà del centro dirigente di calpestare fino all’ultimo brandello del programma e, infine, cessata la compressione esterna degli “apparati” di partito e del potere statale russo, dar briglia sciolta alle mille “vie nazionali” verso un “socialismo” irriconoscibile. Riprendiamo l’evocazione delle sue dolorose tappe.

Avevamo chiesto con insistenza che a base della formazione dei partiti comunisti (meglio ancora, dell’Internazionale come partito comunista mondiale unico) fosse posta una piattaforma teorico-programmatica definita per sempre, da prendere o lasciare – qualcosa di simile alla sintetica proclamazione del primo punto delle Tesi di Lione (Questioni generali). Dovevano essere irrevocabilmente escluse, grazie a questo sbarramento teorico-programmatico, non solo le dottrine della classe dominante, fossero in filosofia spiritualistiche, religiose, idealistiche e reazionarie in politica, ovvero in filosofia positivistiche, volterriane, libero-pensatrici, e in politica massoniche, anticlericali e democratiche, ma anche le scuole godenti di un certo seguito nella classe operaia, dal riformismo socialdemocratico, pacifista e gradualista, al sindacalismo svalutatore dell’azione politica della classe operaia e della necessità del partito come supremo organo rivoluzionario; dall’anarchismo, ripudiante per principio la necessità storica dello Stato e della dittatura proletaria come mezzi di trasformazione dell’assetto sociale e di soppressione della divisione in classi, fino allo spurio ed equivoco “centrismo”, sintesi e condensato di analoghe deviazioni al coperto di una fraseologia pseudo-rivoluzionaria.

Lo sbarramento non ci fu, e dalla breccia lasciata aperta entrò il giacobinismo massonico (Frossard) e popolaresco (Cachin) del partito francese, marcio fino al midollo di tabe parlamentare e democratica – all’occasione perfino cripto-sciovinista (Algeria, Ruhr) – sordo alla necessità della lotta sindacale e insofferente di ogni direzione centralizzata (se occorre, in nome delle famose “condizioni particolari del proprio paese”); si fece strada nei partiti scandinavi la teoria della “religione come affare privato”, e tutto un Esecutivo Allargato (quello del 1923, a pochi mesi di distanza dall’ultimo sussulto rivoluzionario in Germania, quando urgeva concentrare tutte le energie nella possibile soluzione rivoluzionaria di una crisi i cui riflessi positivi o negativi dovevano farsi sentire su tutto il movimento) fu costretto ad assumersi l’inverosimile compito di “grattare anche una simile rogna”; il sindacalismo sonnecchiante nelle file del partito francese e l’operaismo sonnecchiante in quello tedesco ripresero fuoco e slancio per reazione all’imperante atmosfera gradualista e parlamentare, minimalista e democratica; più avanti ancora, ebbe briglia sciolta quel miscuglio di sorelismo e idealismo crociano che era la corrente dell’”Ordine Nuovo”, tenuta severamente “in linea” quando l’Internazionale era ancora ferma sulle sue posizioni di partenza e la Sinistra reggeva il partito italiano, ma sguinzagliatasi non appena la situazione si invertì; infine, fu possibile varare, con una campagna orchestrata al modo del lancio dei prodotti più “originali” dell’industria borghese, la teoria assassina del socialismo in un solo paese, bestemmia suprema contro Marx, Engels e Lenin, contro un secolo di internazionalismo proletario.

Tutto ormai era lecito, perché nulla era stato vietato dalla lucida e invariabile definizione della dottrina e del programma. Inquadrando nella “Parte Generale” la questione dei rapporti tra determinismo economico e volontà politica, tra teoria e azione, tra classe e partito, le Tesi di Lione gettavano le basi di una rinascita futura del movimento fuori dal doppio scoglio del passivismo inerte da un lato e del volontarismo tuttofare dall’altro, di cui l’orgia della cosiddetta “bolscevizzazione” e i tristi saturnali della “edificazione del socialismo” in vaso chiuso non erano che nuove varianti.

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La Sinistra aveva chiesto (ed eccoci al secondo piano della dégringolade) che, a costo di una certa schematizzazione, fosse definito un sistema unico e imperativo di norme tattiche, saldamente ancorato ai princìpi ed alla previsione (derivante da essi: ché se così non fosse, neppure princìpi essi sarebbero) di una “rosa” di alternative possibili nella dinamica dello scontro fra le classi. Parve una rivendicazione impeciata di astrattismo, una formula “metafisica”; i fatti, i duri fatti di un quarantennio, sono lì a provare che era una richiesta terribilmente concreta. L’abbiamo visto per la formula della “conquista della maggioranza”; poi per quella del “fronte unico politico”; infine per quella del “governo operaio”, mentre abbiamo seguito a grandi linee i riflessi organizzativi delle affannose manovre di recupero di gruppi o di intere ali riformiste e centriste.

Habent sua fata non solo i libelli, ma le parole; più ancora le parole d’ordine. Il IV Congresso chiudeva l’anno di amari insuccessi 1922 e apriva il tormentatissimo 1923, che vedrà il glorioso partito russo travagliato da una prima grave crisi interna al cui snodamento mancherà l’apporto di infrangibile acciaio di un Lenin (le Lettere al Congresso di quell’anno mostrano quale vigoroso colpo di timone avrebbe dato, senza esitazioni né rimorsi, il grande rivoluzionario, se mai avesse potuto riprendere il suo posto al timone del comitato centrale), ma assisterà pure al riaprirsi del ciclo di lotte proletarie in Germania, Bulgaria, Estonia, e al primo accendersi delle fiammate di Oriente; e in questa cornice di luci e di ombre esso vedrà perdersi sempre più il filo conduttore dei grandi princìpi, e l’eclettismo tattico rovinare irrimediabilmente le ultime grandi occasioni di quella fase storica, aggravando per riflesso il marasma in seno al partito bolscevico, quindi all’Internazionale.

Mai come negli eventi di allora si vede fino a che punto le sbandate tattiche reagiscano sui principi e provochino in tutti i campi reazioni a catena. Le Tesi di Lione lo ricordano nella seconda parte (Questioni Internazionali): è bene, tuttavia, seguire più nel dettaglio il processo purtroppo inesorabile che, appunto da allora, condurrà l’Internazionale degli anni gloriosi al completo sfacelo.

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Mentre in Italia il fascismo al potere lanciava la sua offensiva contro il movimento comunista e, arrestando i principali dirigenti di sinistra del Partito Comunista d’Italia, impediva loro di far sentire la propria voce in un anno cruciale come quello che si stava aprendo, in Germania l’occupazione francese della Ruhr, il crollo verticale del marco, il fermento diffuso in tutti i ceti e la comparsa in scena dei primi nuclei del partito nazista (NSPD), ponevano il partito comunista (KPD) – una volta fallito o rimasto inoperante il tentativo di un’azione comune dei partiti fratelli al di qua e al di là del Reno – di fronte all’ingrato compito di “scegliere”, fra le molte interpretazioni possibili del “fronte unico” e del “governo operaio”, la più conforme alle tesi del IV Congresso e alla situazione tedesca. In tale dilemma, le “due anime” che, come potremmo dimostrare in altra sede, coesistevano fin dalla nascita nel partito, rispondevano in modo discorde al duplice quesito: fronte unico al vertice – come sosteneva e predicava la Centrale – o fronte unico “dal basso” – come sosteneva e predicava una malcerta e fluttuante “sinistra”? Governo operaio nel senso di appoggio parlamentare a un governo socialdemocratico, magari di coalizione governativa socialcomunista, perfino di benevola neutralità verso il governo borghese in carica, promotore della resistenza passiva al colpo di forza alleato (come prospettava la Centrale), o in quello di una “mobilitazione generale delle masse in direzione della presa rivoluzionaria del potere” (come insisteva, non meglio specificando, la minoranza di “sinistra”)?

Né i dissensi si limitavano a questi due punti di data relativamente recente. In una situazione che, specialmente nella Renania e nella Ruhr, vedeva masse di operai agitarsi, spesso armi alla mano, sia contro gli occupanti sia contro il governo nazionale borghese, riprendevano corpo gli spettri dell’”azione di marzo” 1921: dissolidarizzare da queste generose impennate come forme di “avventurismo” infantile (come era incline a proporre la Centrale, facendo leva sull’impreparazione delle masse e del partito e sull’analisi troppo ottimistica dei rapporti di forza nella corrente di “sinistra” per rifugiarsi in un tendenziale “legalitarismo”che troverà clamorosa espressione verso la metà dell’anno), o invece sforzarsi di coordinarle, indirizzarle, disciplinarle, come andava propugnando l’ala opposta – a ragione in linea di principio, ma in modo più retorico e comiziaiolo che ponderatamente realistico?

Lo sbandamento e la confusione che questo incrociarsi di direttive contraddittorie suscitava nel partito nell’atto in cui l’atmosfera politica e sociale si arroventava erano tali che occorse una “conferenza di conciliazione” promossa dall’Esecutivo del Comintern (aprile 1923) per rimediarvi alla meglio (o alla meno peggio), da un lato condannando la tattica della direzione come un tendenziale “adattamento del partito comunista ai capi riformisti”, dall’altro mettendo le briglie alle impazienze e alle grida di “rivoluzione alle porte” della minoranza. Ma non bastavano pourparlers, specie se di “conciliazione”, per sanare ferite ormai purulente e sempre pronte a riaprirsi negli alti e bassi delle direttive emananti da Mosca. E il peggio aveva ancora da venire.

Infatti, prima timidamente, poi in forma sempre più esplicita si fece strada nelle sfere dirigenti del partito l’idea che l’occupazione della Ruhr avrebbe fornito l’occasione ideale alla “conquista della maggioranza” nella sua interpretazione più elastica – conquista non solo dei larghi strati proletari, ma del “popolo” genericamente inteso – qualora si fossero lanciati appelli e seduzioni alle tormentatissime falangi piccolo-borghesi, vittime della svalutazione del marco da un lato e succubi del rigurgito nazionalista dall’altro, cosa possibile solo cercando di dimostrar loro (proclama della Centrale del 17 maggio) che potevano «difendere se stesse e il futuro della Germania soltanto alleandosi ai comunisti per una lotta contro la vera (?) borghesia» e addossando al partito la tutela dei “valori nazionali” tedeschi.

Fieramente bollata nel 1921, quando un gruppetto operaista di Amburgo se n’era fatto portavoce, faceva il suo ingresso in scena – questa volta senza che l’Internazionale reagisse – la parola di “nazionalbolscevismo”, frutto e matrice insieme di due macroscopiche deviazioni del marxismo. La prima consisteva in una equiparazione più o meno esplicita della questione nazionale nelle colonie o semicolonie e in un paese ad altissimo sviluppo capitalistico.

L’Esecutivo Allargato del 12-23 giugno non si periterà di affermare: «L’insistere fortemente sull’elemento nazionale in Germania costituisce un fatto rivoluzionario come l’insistere sull’elemento nazionale nelle colonie»; rincarando la dose nel famigerato “discorso Schlageter”, Radek dichiarerà che «ciò che viene chiamato nazionalismo tedesco non è soltanto nazionalismo; è un largo movimento nazionale avente un ampio significato rivoluzionario»; chiudendo i lavori dell’Esecutivo, Zinoviev si rallegrerà del riconoscimento da parte di un giornale borghese del carattere “nazionalbolscevico” finalmente assunto dal KPD come di una prova che il partito aveva finalmente acquisito una “psicologia” di massa.

La Sinistra, per le ragioni già dette, non poté far sentire la propria voce in questa drammatica svolta; lo farà un anno dopo alla vigilia del V Congresso: «noi neghiamo che sia giustificabile sulle basi accennate (Le tesi del II Congresso sulle questioni nazionale e coloniale) il criterio di un avvicinamento in Germania tra il movimento comunista e il movimento nazionalista e patriottico. La pressione esercitata sulla Germania dagli Stati dell’Intesa, anche nelle forme acute e vessatorie che ha preso ultimamente, non è elemento tale che ci possa far considerare la Germania alla stregua di un piccolo paese di capitalismo arretrato. La Germania resta un grandissimo paese formidabilmente attrezzato in senso capitalistico, e in cui il proletariato socialmente e politicamente è più che avanzato (...) Ecco come il dimenticare l’origine di principio delle soluzioni politiche comuniste può portare ad applicarle laddove mancano le condizioni che le hanno suggerite, sotto il pretesto che ogni più complicato espediente sia sempre utilmente adoperabile» (Il comunismo e la questione nazionale, in “Prometeo” nr. 4 del 15 aprile 1924). Quanto alla nostra interpretazione del fascismo, si vedano i due rapporti tenuti dalla Sinistra al IV e V Congresso dell’Internazionale Comunista.

La seconda deviazione connessa fu il riconoscimento più o meno larvato delle potenzialità rivoluzionarie autonome della piccola borghesia (ancora Radek: il KPD deve mostrare di non essere soltanto (!) «il partito della lotta degli operai industriali per una pagnotta, ma il partito dei proletarizzati che si battono per la propria libertà, una libertà coincidente con la libertà di tutto il popolo, con la libertà di tutti coloro che lavorano e soffrono in Germania»), e perciò anche l’interpretazione del fascismo come automobilitazione della piccola borghesia contro il grande capitale, anziché, inversamente, come mobilitazione delle piccola borghesia ad opera del grande capitale e nel suo esclusivo interesse; dunque, in senso antiproletario.

Per qualche mese del 1923, nel disperato sforzo di accattivarsi i “vagabondi nel nulla” della piccola borghesia, il KPD agirà in veste di compagno di strada dell’NSPD, gli oratori dei due gruppi alternandosi sulle stesse tribune per tuonare contro Versaglia e Poincaré (la luna di miele durerà, è vero, lo spazio di un mattino, ma solo perché, fa vergogna il dirlo, i nazisti per primi denunzieranno l’“alleanza” di fatto) suscitando sbigottimento e indignazione perfino nel partito cecoslovacco!

Inesorabili, gli anelli della catena si snodano. L’Esecutivo Allargato del giugno non discute a fondo la sempre più rovente situazione tedesca (ben altri problemi lo assillano: il “federalismo” norvegese, il “neutralismo” di fronte alla religione nel partito svedese, l’ennesimo tentativo di mercanteggiare una fusione tra il PCD’I e il PSI, malgrado l’altissimo prezzo richiesto da quest’ultimo per... non fondersi affatto), e, senza prendere decisioni impegnative, avalla la tesi della Centrale che il KPD debba erigersi a polo di attrazione delle masse piccolo borghesi proletarizzate, cullandole nei loro sogni di riscatto nazionale. Nessuna risoluzione tradisce anche solo il sospetto che il problema tedesco nel 1923 sia squisitamente internazionale e che nulla più di un “programma nazionalista della rivoluzione proletaria” in Germania minacci per contraccolpo di accrescere il peso conservatore e controrivoluzionario della piccola borghesia in Francia e in Inghilterra, annullando gli ipotetici vantaggi di una sua conquista, su quel terreno bastardo, nella repubblica di Weimar.

Nello stesso tempo e per logico parallelismo, l’Esecutivo decide di allargare le maglie della parola d’ordine “governo operaio” e, affascinato dal proliferare di partiti contadini non solo nei Balcani ma nella stessa America del Nord (La Follette), la trasforma in “governo operaio e contadino” per tutti i paesi, Germania inclusa! È vero che le tesi (Cfr. Protokoll der Konferenz der Erweiterten ExeKutive der Kommunistischen Internazionale, Moskau, 12-23 Juni 1923) mettono in guardia contro una interpretazione parlamentare e socialrivoluzionaria della nuova ricetta tattica; ma la prima, lo si è visto, era autorizzata dalle indeterminatezze e dai possibilismi del IV Congresso, e la seconda dalla meccanica e grossolana trasposizione della parola d’ordine “dittatura degli operai e dei contadini” dai paesi alla vigilia di una doppia rivoluzione ai paesi di capitalismo ultrasviluppato. Un altro lembo di ciò che aveva sempre e inequivocabilmente contraddistinto il partito rivoluzionario marxista andava perduto.

Ancora una volta, quelli che forzano la mano e abbacinano la vista di una organizzazione internazionale sempre meno ancorata alla solidità dei princìpi sono la suggestione del fatto contingente e il timore di farsi precedere dalla socialdemocrazia nella “conquista delle masse”; e il problema senza dubbio vitale di un’energica azione verso il contadiname povero è posto nei termini di una manovra che, nel giro di pochi anni, sboccherà nella teorizzazione di un ruolo mondiale autonomo della classe contadina, indifferenziata nella varietà delle sue componenti diverse e contraddittorie, e fuori da ogni precisa caratterizzazione dei suoi rapporti col proletariato industriale e agrario nei paesi ad alto sviluppo capitalistico e nell’immensa area coloniale e semicoloniale, specialmente asiatica. Questa teorizzazione sarà svolta in particolare da Bucharin a partire dal V Esecutivo Allargato del marzo 1925 (si vedano gli accenni alla questione nella II parte delle nostre Tesi di Lione).

Ma il punctum dolens del cruciale 1923 resta la Germania, ed è qui che le oscillazioni tattiche e l’eclettismo del Comintern (assai più che in Bulgaria e in Estonia, episodi sui quali non possiamo soffermarci) producono nella seconda metà dell’anno quello che, per le sue conseguenze vicine e lontane, può definirsi il grande disastro preparatorio delle sconfitte in Cina e in Inghilterra e della mortale crisi del partito russo e della stessa Internazionale negli anni successivi.

Improvvisamente in luglio si fanno strada a Mosca – rimasta a lungo passiva di fronte agli sviluppi della situazione tedesca, forse nella consapevolezza della scarsa consistenza e omogeneità del KPD – l’allarme per il pericolo fascista da un lato, la convinzione (non discutiamo se fondata) che un ciclo prerivoluzionario stia per aprirsi dall’altro. Le direttive rimangono tuttavia a lungo vaghe e prudenti.

La revoca della grande “giornata antifascista” già fissata per il 23 luglio in seguito al divieto governativo trova la sanzione di Mosca e, di rimbalzo, riaccende i contrasti tra la Centrale e la sinistra tedesca, fra l’ardente Berlino e la tiepida provincia, fra il proletariato già in azione e l’ “aristocrazia operaia” lenta a mettersi in moto.

Sui primi di agosto, di fronte ai chiari segni di agonia del governo Cuno, la Centrale del KPD giudica prossimo il momento di una mobilitazione delle masse sotto la parola d’ordine del ”governo operaio e contadino”; inversamente, dalla sua roccaforte berlinese, la sinistra del partito proclama che «la fase intermedia del governo operaio sta divenendo, in pratica, sempre più improbabile». Fra il divampare di nuovi imponenti scioperi, e nella confusione prodotta da questa altalena di parole d’ordine contrastanti, il grande capitale, fermamente deciso a liquidare l’ormai fallita campagna di “resistenza passiva” all’occupazione della Ruhr e a conciliarsi con l’Intesa, con particolare sguardo all’Inghilterra, manda al potere Stresemann.

Come ormai normale, la reazione a Mosca è una brusca sterzata dall’attendismo fondamentalmente pessimistico all’ottimismo frenetico: «La rivoluzione batte alle porte della Germania – scrive l’organo del Profintern in settembre - È solo questione di mesi». Presente a Mosca l’intero stato maggiore del KPD, si decide tra mille andirivieni che l’assalto debba essere preparato d’urgenza, e se ne fissi addirittura la data. Quale il trampolino di lancio? Non v’è dubbio: il IV Congresso l’ha chiarito; il III Esecutivo Allargato ne ha dato conferma. Il primo ottobre, al culmine della crisi economica e sociale, Zinoviev prospetta al segretario del partito tedesco Brandler l’approssimarsi del «momento decisivo fra quattro, cinque, sei settimane»; è quindi «necessario porre in forma concreta il problema del nostro ingresso nel governo sassone (dominato dai socialdemocratici) a condizione che la gente di Zeigner (il presidente del consiglio riformista) sia realmente disposta a difendere la Sassonia contro la Baviera e i fascisti» (dopo il 1918, il 1919, il 1921, si ridà fiducia alla “volontà” dei socialdemocratici di rinunziare ad essere... sé stessi!).

Nell’opuscoletto Probleme der deutschen Revolution, scritto proprio allora dal presidente dell’Internazionale, da un lato si proclama giustamente che «la prossima rivoluzione tedesca sarà una rivoluzione proletaria classica» (cioè “pura”) ma si traggono deduzioni fin troppo ottimistiche dall’alto grado e spirito di organizzazione del proletariato germanico (quel talento e fascino dell’organizzazione in cui Luxemburg nel 1918 e Trotski nel 1920 avevano individuato una delle cause del fallimento di fronte alla prova cruciale della guerra – in assenza di una ferma direzione di partito) e dalla sua “cultura” (l’altra faccia di un largo strato di aristocrazia operaia); dall’altro si attribuisce un ruolo rivoluzionario «alle masse piccolo-borghesi cittadine, i funzionari piccoli e medi, i piccoli commercianti ecc.» e si arriva a ipotizzare che «il ruolo giocato nella rivoluzione russa dal contadiname stanco della guerra sia ripreso fino a un certo punto nella rivoluzione tedesca dalla larghe masse piccolo-borghesi urbane, spinte dallo sviluppo del capitalismo all’orlo dello sfacelo e del precipizio economico»!

In questa fantastica valutazione, tuttavia c’è un’ombra: il fronte unico ha ottenuto senza dubbio in Germania l’auspicato successo di trascinare nella lotta «anche gli strati più retrogradi della classe operaia, avvicinandoli all’avanguardia rivoluzionaria (...) L’ora in cui l’enorme maggioranza dei lavoratori tedeschi, che oggi ripone ancora qualche speranza nella socialdemocrazia, si convincerà definitivamente che la lotta decisiva dev’essere condotta senza e contro le ali destra e sinistra dell’SPD, sta avvicinandosi». Ora che non è però ancora suonata, e perché suoni è necessario un nuovo “round” di esperienze non solo di fronte unico politico, ma di governo di coalizione “operaia”. Ecco perché si impone l’ingresso dei comunisti nel governo sassone, al doppio scopo «1) di aiutare l’avanguardia rivoluzionaria di Sassonia a prendere stabile piede, ad occupare un determinato territorio, e a fare del suo paese il punto di partenza di ulteriori battaglie; 2) di offrire ai socialdemocratici di sinistra la possibilità di rivelarsi coi fatti e così facilitare ai proletari socialdemocratici il compito di vincere le ultime illusioni»!

D’altra parte l’esperimento governativo, che può avvenire solo «col consenso del Comintern», ha senso «unicamente se offre la sicura garanzia che l’apparato statale cominci realmente a servire gli interessi della classe operaia, che centinaia di migliaia di lavoratori vengano armati per la lotta contro il fascismo bavarese e tedesco in genere, che non solo a parole ma nei fatti abbia inizio un’espulsione in massa dei funzionari borghesi dell’apparato statale (...) e che si introducano senza indugio misure economiche di carattere rivoluzionario, tali da colpire la borghesia in maniera decisiva». Ovvero, come nel famoso telegramma di Zinoviev a Brandler del primo ottobre, «armare subito 50-60 mila uomini in Sassonia (...) ed egualmente in Turingia».

Tutto qui è contraddittorio: si anticipa una situazione rivoluzionaria seducentemente “favorita” dall’intervento in funzione eversiva delle grandi masse piccolo borghesi, e se ne indica lo snodamento in una combinazione parlamentare-governativa; si esaltano i successi ottenuti col fronte unico nello stringere intorno al partito l’enorme maggioranza della classe operaia, e ci si sottomette alla coalizione con la più screditata delle socialdemocrazie mondiali; si predica la “conquista del potere” al modo rivoluzionario classico, e se ne addita la strada nell’armamento del proletariato, nella cacciata dei funzionari borghesi e nell’introduzione di misure dittatoriali antiborghesi, da parte di un governo in maggioranza socialdemocratico; ci si prefigge di “smascherare” in tal modo l’SPD, e si cancellano soltanto i caratteri distintivi del proprio partito; si pretende che per tale via il KPD «convincerà coi fatti la maggioranza della classe operaia tedesca di non essere più, come nel 1919-21, soltanto l’avanguardia, ma di avere dietro di sé milioni di lavoratori», e si presenta a questi ultimi il fatto umiliante e vergognoso di una combinazione di governo dove tre ministri comunisti (uno dei quali, il segretario del partito, Brandler) sono legati mani e piedi ai ministri socialdemocratici, ai massacratori di Rosa e Carlo, e mentre «hanno dietro di sé milioni e milioni di proletari», non li chiamano all’assalto al potere, bensì all’attesa paziente e fiduciosa di qualche fucile dei compari riformisti! Una coalizione alla conclamata vigilia dell’insurrezione!

Lo sdegno di Trotski ne Gli insegnamenti di Ottobre per questa ricaduta (ma in peggio) nelle esitazioni capitolarde della minoranza bolscevica di fronte alla conquista del potere nel 1917 era ben giustificato, anche se, eludendo la questione di fondo, non avvertisse che quella “recidiva socialdemocratica” era stata la conclusione necessaria delle tattiche “elastiche” del fronte unico e del governo operaio, da lui stesso appoggiate e difese prima del 1925 e dopo.

Ma una brillantissima esposizione dell’audacia con cui Trotski avrebbe voluto che si usassero, e subito si scavalcassero, le “formule algebriche” del “fronte unico” e del “governo operaio”, per porre in tutta la sua ampiezza ed urgenza il problema della conquista rivoluzionaria del potere, è ricordato nell’articolo, La politica dell’Internazionale, pubblicato nel nr. 15, ottobre 1925, dell’ “Unità” insieme con le nostre obiezioni anche a questa interpretazione non certo da dozzina.

Si fissa la data dell’insurrezione... dal trampolino di lancio di un governo socialcomunista, la si sposta in seguito ai suggerimenti della Centrale tedesca: tutto si svolge come se la rivoluzione fosse un fatto tecnico, non il prodotto di una situazione oggettiva ben precisa e di un’adeguata preparazione soggettiva ad opera del partito (che da mesi predicava ai proletari la via semilegalitaria delle manovre di accostamento a questo o quel gruppo, e delle soluzioni governative o paragovernative).

Si ammonisce il partito ad evitare che «nella Germania di oggi, ribollente e tumultuante, in cui l’avanguardia si getterà oggi o domani nella lotta decisiva trascinandosi dietro la fanteria pesante proletaria, la giusta tattica del fronte unico non si converta nel suo diretto contrario», ma tutto si fa perché appunto questo avvenga vincolando il partito, in uno o al massimo due Stati regionali isolati nel gran mare della Germania, nella morsa del potere centrale pienamente nelle mani borghesi e delle truppe più o meno regolari della Baviera, eterna riserva della controrivoluzione tedesca, al carro della socialdemocrazia e della sua provata vocazione al tradimento.

Si rincalza: «Nell’attuale Germania, giunta alla soglia della rivoluzione, la formula generale del “governo operaio e contadino” è già insufficiente... e noi dobbiamo non solo nella propaganda, ma nell’agitazione di massa mostrare e chiarire non solo all’avanguardia, ma anche alle grandi masse che non si tratta d’altro che della dittatura del proletariato, o della dittatura dei lavoratori delle città e dei campi», e si pretende di poter far ciò andando e rimanendo al governo con una socialdemocrazia che, per dichiarazioni programmatiche esplicite e per tradizione sancita dai fatti, esclude l’impiego della dittatura e del terrore...

L’epilogo seguì nel giro di pochissimi giorni. Il 20 ottobre, il governo centrale del Reich invia a quello di Sassonia un ultimatum per lo scioglimento immediato delle pur esili milizie operaie, minacciando in caso di inadempienza, di dare ordine di marcia alla Reichswehr. Il partito decide la proclamazione dello sciopero generale in tutta la Germania; ma insicuro di sé stesso e dell’appoggio dei proletari, disorientati dalla girandola di parole d’ordine e di obiettivi contraddittori, Brandler pensa di “consultare” preventivamente le masse – rappresentate da una assemblea di operai e funzionari politici e sindacali a Chemnitz – e, convintosi che il momento buono è ormai fuggito, revoca l’ordine di cessazione del lavoro. Basta un distaccamento della Reichswehr per deporre il governo sassone: un ritardo nella notizia della revoca dello sciopero impedisce ad Amburgo proletaria di non insorgere isolata – per essere domata in ventiquattr’ore con la forza. Avrebbero dovuto marciare i proletari sotto la guida del partito: marciò l’esercito sotto la guida dei generali kaiseristi lasciati ai loro posti dagli Ebert-Sheidemann. Qualche focolaio di resistenza venne rapidamente soffocato: il 1923 tedesco era finito.

Sarà facile nei mesi successivi, e segnatamente al Plenum dell’Esecutivo moscovita dell’8-12 gennaio 1924, scaricare la responsabilità del disastro sulle insufficienze, gli errori, le debolezze della Centrale tedesca: altrettanto facile, da parte di quest’ultima,rispondere che – errori di dettaglio a parte – si erano applicate punto per punto le direttive del Comintern, a loro volta conformi ai deliberati del IV Congresso. Per salvare il salvabile, cioè l’”unità” di un partito più che mai diviso, se ne rimaneggerà la direzione e se ne condanneranno i “rei”, pur conservandoli come sospetta minoranza nella nuova Centrale, di “sinistra”, salvo, un anno dopo, a riconoscerla... peggiore di quella che l’aveva preceduta (Il resoconto dell’acre dibattito e delle imbarazzate risoluzioni si leggono in Die Lehren der deutschen Ereignissen, Amburgo, 1924).

Ma il più grave è che, parallelamente, si annunzierà un’ennesima “svolta tattica” su scala mondiale: Non più fronte unico al vertice – come, per “un’errata interpretazione” dei deliberati del IV Congresso, l’hanno praticato diversi partiti, primo fra tutti quello tedesco – ma fronte unico dal basso: «È venuto il momento di proclamare apertamente che noi rinunziamo a qualunque trattativa con il Comitato Centrale della socialdemocrazia tedesca e con la direzione centrale dei sindacati germanici; non abbiamo nulla da discutere coi rappresentanti della socialdemocrazia. Unità dal basso, ecco la nostra parola d’ordine: già in parte realizzato il fronte unico dal basso è ora realizzabile anche contro i suddetti signori». Non più sottili distinzioni tra destra e sinistra socialdemocratica: «I socialdemocratici di destra sono traditori aperti: quelli di sinistra, invece, coprono soltanto con le loro frasi l’azione controrivoluzionaria degli Ebert, dei Noske, degli Sheidemann. Il KPD respinge ogni trattativa non solo contro la centrale dell’SPD, ma anche con i dirigenti di “sinistra”, almeno finché (una porticina riaperta dopo di aver chiuso il portone) questi eroi non trovino il coraggio di rompere apertamente con la banda controrivoluzionaria a capo del partito socialdemocratico».

Non più una possibile interpretazione del governo operaio e contadino come «un governo nel quadro della democrazia borghese, come un’alleanza politica con la socialdemocrazia»: «la parola d’ordine del governo operaio e contadino è, tradotta nella lingua della rivoluzione, la dittatura del proletariato (...) mai, in nessun caso, una tattica di accordo e transazione parlamentare coi socialdemocratici. Al contrario, anche l’attività parlamentare dei comunisti deve avere per oggetto lo smascheramento del ruolo controrivoluzionario della socialdemocrazia e l’illustrazione agli operai dell’inganno e dell’impostura dei governi “operai” da essa creati, che sono in realtà soltanto dei governi borghesi liberali». Non più “governo migliore” contrapposto a “governo peggiore: «fascismo e socialdemocrazia sono la mano destra e sinistra del capitalismo contemporaneo».

Al V Congresso dell’Internazionale Comunista, 17 giugno - 8 luglio 1924, che da un lato riflette il profondo smarrimento dei partiti dopo il disastroso bilancio di un biennio di brusche svolte tattiche e di ordini equivoci (lo stesso Togliatti chiede che infine si dica senza mezzi termini che cosa esattamente si deve fare!), che dall’altro riconferma la prassi della crocifissione dei dirigenti delle sezioni nazionali sull’altare dell’infallibilità dell’Esecutivo, ancora una volta la Sinistra leva l’unica voce tanto severa quanto serena e schiva da fronzoli personali e locali.

Se mai fosse stato nel suo costume il rallegrarsi delle conferme schiaccianti delle sue previsioni alla terribile prova del sangue proletario inutilmente versato, o di chiedere a sua volta che teste di “rei” e di “corrotti” rotolassero per cedere il posto a teste “innocenti” e “incorruttibili”, quello sarebbe stato il momento. Ma non questo chiede e vuole la Sinistra: chiede e vuole che si affondi coraggiosamente il bisturi nelle deviazioni di principio di cui quegli “errori” erano il prodotto inevitabile, e le “teste” soltanto l’espressione occasionale. “Fronte unico dal basso”? E sia; purché non si lasci aperta la scappatoia ad “eccezioni” in senso opposto (come si dice già nel proporlo), e si proclami senza mezzi termini che la sua base «non può mai essere quella di un blocco di partiti politici (...) bensì essere trovata soltanto in altre organizzazioni della classe operaia, non importa quali, ma tali che, per la loro costituzione, siano conquistabili alla direzione comunista».

Niente dunque inviti ad organizzazioni, come la destra o la sinistra socialdemocratica, che non possono «lottare sulla via finale della rivoluzione mondiale comunista» e nemmeno «sostenere gli interessi contingenti della classe operaia», e alle quali sarebbe, come è stato, criminoso «dare col nostro atteggiamento un certificato di capacità rivoluzionaria, sconvolgendo così tutto il nostro lavoro di principio, tutta la nostra opera di preparazione della classe lavoratrice».

Lotta contro la socialdemocrazia “terzo partito borghese”? D’accordo; ma come giustificare allora la nuovissima “bomba” della proposta di fusione dell’Internazionale Sindacale Rossa con l’odiata Internazionale Sindacale di Amsterdam? Governo operaio “sinonimo di dittatura del proletariato”? Troppo duramente abbiamo pagato l’impiego anche solo di una frase ambigua: chiediamo «un funerale di terza classe non solo per la tattica, ma per la stessa parola di “governo operaio”. Lo chiediamo perché “dittatura del proletariato, questo mi dice: il potere proletario sarà esercitato senza dare nessuna rappresentanza politica alla borghesia. Questo mi dice pure: il potere proletario può essere conquistato soltanto grazie all’azione rivoluzionaria, attraverso l’insurrezione armata delle masse. Quando invece dico governo operaio, si può, volendo, intendere pure questo; ma, se non si vuole, si può anche intendere (Germania!) un altro governo che non sia caratterizzato dal fatto di escludere la borghesia dagli organi di rappresentanza politica né, tanto meno, dal fatto che la conquista del potere si è verificata con mezzi rivoluzionari e non con mezzi legali».

Si risponde che quella del “governo operaio” è una forma più comprensibile alle masse? Ribattiamo: «Che cosa può comprendere del governo operaio un semplice lavoratore o contadino, quando, dopo tre anni, noi, i capi del movimento operaio, non siamo ancora giunti a comprendere e definire in modo soddisfacente che cosa esso sia?».

Ma la questione è ancora più profonda. Che nel 1925 l’Internazionale vada “a sinistra” potrebbe essere per noi motivo di sollievo, se ponessimo il problema nei termini di una meschina rivincita. Ma non così lo poniamo: «Ciò che abbiamo criticato nel metodo di lavoro dell’Internazionale è appunto questa tendenza ad andare a destra e a sinistra seguendo le indicazioni della situazione o di come si crede di interpretarle. Finché non sarà discusso a fondo il problema dell’elasticità, dell’eclettismo (...) finché questa elasticità permane e nuove oscillazioni devono verificarsi, una forte svolta a sinistra ce ne fa temere una ancora più forte a destra». Non occorre dire che proprio questo avverrà negli anni successivi. «Non è una deviazione a sinistra nella congiuntura attuale che noi chiediamo, ma una rettifica generale delle direttive dell’Internazionale: questa rettifica non sia pur fatta nel modo che noi chiediamo (...) ma sia fatta, e in modo chiaro. Noi dobbiamo sapere dove adiamo».

E infine: siamo noi della Sinistra a volere più di chiunque la centralizzazione e la disciplina mondiale; ma una simile disciplina «non si può affidare alla buona volontà di tale o tal altro compagno che, dopo venti sedute, firmi un accordo nel quale destra e sinistra siano finalmente unite»; è una disciplina «che si deve trasportare nella realtà, nell’azione, nella direzione del movimento rivoluzionario del proletariato teso verso l’unità mondiale» e che, per essere tale, «abbisogna di una chiarezza nella direzione tattica e di una continuità nella costituzione delle nostre organizzazioni, nel porre i limiti che ci separano dagli altri partiti». Occorre dunque gettare le basi della disciplina poggiandola sul piedistallo incrollabile della chiarezza, saldezza e invarianza dei princìpi e delle direttive tattiche.

In anni il cui fulgore faceva sembrare lontani, la disciplina si creava per un fatto organico che aveva le sue radici nella granitica forza dottrinaria e pratica del partito bolscevico: oggi, o la si ricostruisce sulle fondamenta collettive del movimento mondiale, in uno spirito di serietà e di fraterno senso della gravità dell’ora, o tutto andrà perduto.

La “garanzia” che non si ricadrà nell’opportunismo – osa proclamare la Sinistra ad un congresso che appena sfiora la questione russa come un pericoloso tabù – non può più venire dal solo partito russo, perché è il partito russo che ha bisogno, urgente bisogno, di noi, e in noi cerca la “garanzia” che invano gli chiediamo. È giunta l’ora in cui «l’Internazionale del proletariato mondiale deve rendere al PC russo una parte degli innumerevoli servizi che ne ha ricevuti. La situazione più pericolosa, dal punto di vista del pericolo revisionista è la sua situazione, e contro questo pericolo gli altri partiti devono sostenerlo. È nell’Internazionale che esso deve attingere la maggior forza di cui ha bisogno per attraversare la situazione estremamente difficile in cui si dibatte» (Citiamo dal protocollo tedesco del V Congresso (pagg. 394-406): il testo italiano riprodotto nel nr. 7-8, 1924 dello “Stato Operaio” non è infatti completo, mentre il testo del protocollo francese è scandalosamente mutilo. Le Tesi sulla tattica dell’Internazionale che la Sinistra presentò allora, sostanzialmente analoghe a quelle presentate al IV furono rinviate all’esame di un... futuro congresso.

Battaglia grande, ma perduta! Dalla débâcle dell’ottobre tedesco trarrà nuovo alimento la crisi interna del partito bolscevico; dal riflusso della rivoluzione in Occidente e dalla sua teorizzazione di comodo, uscirà il mostro del “socialismo in un solo paese”; dal “fronte unico dal basso” si tornerà agli entusiasmi per il fronte unico al vertice, e addirittura ai giri di valzer col radicalismo borghese in Germania.

Alla fine del 1924, essendosi riscosso un numero di voti inferiori al previsto alle elezioni presidenziali, la Centrale di “sinistra” del KPD rimpiangerà in una risoluzione pubblica di non aver seguito il consiglio dell’Internazionale Comunista di condurre «la classe operaia tedesca, facendo blocco su un programma repubblicano minimo con i veri partigiani della repubblica, ad unirsi sul nome di un repubblicano militante nella lotta contro la reazione». Si tornava pari pari al “governo operaio”, quale combinazione parlamentare addirittura con partiti borghesi, contro il pericolo “monarchico” incarnato da... Hindenburg.

E si arriverà alla sciagurata profferta gramsciana alle “opposizioni” di un Antiparlamento durante la crisi Matteotti, basata una volta di più sull’attribuzione di un ruolo autonomo alla piccola borghesia e anticipatrice dei “fronti popolari” contro il fascismo; alla ignobile dottrina del “qualunque mezzo è buono al fine”, garante di ciò il possesso di uno scolasticizzato “marxismo-leninismo” decaduto a volgare formula machiavellica, ecc.

A ognuna di queste storture è data risposta nella parte generale delle nostre Tesi di Lione, mentre la loro “storia” è riassunta nelle parti internazionale e italiana su cui perciò non insistiamo. Quello che verrà dopo, lo sanno tutti: l’Internazionale svirilizzata, ridotta a strumento mutevole della politica estera russa; l’abbandono di ogni principio; infine lo scioglimento in funzione dell’alleanza di guerra con le “democrazie”; e la strada libera a tutte le vergogne di questo dopoguerra.

* * *

Si è visto – e siamo al terzo aspetto della débâcle – come non solo parallelamente, ma con un certo anticipo sulle manovre tattiche, e sempre nell’illusione di ottenere più in fretta un largo concentramento di forze proletarie intorno al partito, si fosse iniziato un processo di graduale abbandono di quel rigore nei criteri di organizzazione che i ventun punti avevano tuttavia rivendicato come necessaria premessa della costituzione dell’Internazionale su basi non fittizie e fluttuanti.

Contro il nostro parere, si era cominciato col tollerare nelle draconiane “condizioni di ammissione” un margine di possibile manovra in vista di riconosciute “particolarità nazionali”: in omaggio a queste, si era accettata l’adesione quasi totalitaria dell’ex Partito Socialista Francese solo per dover constatare, ad ogni nuova sessione dell’Esecutivo, di avere di fronte lo spettro malamente riverniciato della vecchia socialdemocrazia parlamentarista e magari sciovinista; prima ancora, si era avallata la fusione del KPD con la “sinistra” degli Indipendenti, solo per vederseli sfuggire di nuovo dopo di aver largamente inquinato il partito o di averne aggravato le malattie di origine.

Si era praticato al vertice, per esempio nei confronti del PSI, quel “federalismo” che nel 1923 si rinfaccerà ai partiti norvegese e danese, ogni qualvolta e in qualunque paese una vaga prospettiva di reclutare nuove forze numeriche sembrasse profilarsi. Accanto ai partiti comunisti, si erano accolti nelle file dell’Internazionale rivoluzionaria – quasi alla pari – partiti sedicentemente simpatizzanti.

Ora che il rosario delle innovazioni tattiche continuava a sgranarsi ridando fiato ogni volta alle correnti centrifughe sonnecchianti in tutti i partiti, e le svolte brusche si susseguivano ingenerando confusioni e dislocamenti anche nei militanti più saldi, la questione della “disciplina” si poneva forzatamente non come il prodotto naturale e organico di una conseguita omogeneità teorica e di una sana convergenza di azione pratica, ma al contrario come manifestazione morbosa della discontinuità nell’azione e della disarmonia nel patrimonio dottrinale. Nella stessa misura in cui si constatavano errori, deviazioni, cedimenti, e si cercava di rimediarvi rimaneggiando comitati centrali o esecutivi, si imponevano da un lato il “pugno di ferro” e dall’altro la sua idealizzazione come metodo e norma interna del Comintern e delle sue sezioni, e come antidoto di sicura efficacia contro non già gli avversari o i falsi amici, ma i compagni. L’era dei processi a rotazione contro se stessi, di quello che la Sinistra al VI Esecutivo Allargato chiamò “lo sport dell’umiliazione e del terrorismo ideologico” (spesso ad opera di “ex-oppositori umiliati”), era incominciato: e non v’è processo senza carceriere.

Si era deviato dalla disciplina verso il programma, lucido e tagliente com’era all’origine: si pretese, per impedire che da quell’indisciplina nascesse lo scompiglio, di ricreare in vitro dei “partiti veramente bolscevichi”: è noto che cosa diverranno, sotto il tallone staliniano, queste caricature del partito di Lenin. Al IV Congresso avevamo ammonito: «La garanzia della disciplina non può essere trovata che nella definizione dei limiti entro i quali i nostri metodi devono applicarsi, nella precisione dei programmi e delle risoluzioni tattiche fondamentali, e delle misure di organizzazione». Ripetemmo al V Congresso ch’era illusorio rincorrere il sogno di una disciplina di tutto riposo, se mancavano chiarezza e precisione nei campi pregiudiziali ad ogni disciplina e omogeneità organizzativa; ch’era vano cullarsi nella chimera di un partito mondiale unico, se la continuità e il prestigio dell’organo internazionale erano continuamente distrutti dalla “libertà di scelta”, concessa non solo alla periferia ma al vertice, nei princìpi determinanti l’azione pratica e in questa stessa azione; che era ipocrita invocare una “bolscevizzazione” che non significasse intransigenza nei fini, e aderenza dei mezzi ai fini.

Non bastando una disciplina applicata come la concepiscono generali e furieri, si scoprì una particolare ricetta di organizzazione: si volle ricostruire i partiti (cinque anni dopo la loro prima costituzione!) sulla base delle cellule di azienda come modello ideale derivante dal patrimonio storico del bolscevismo, e si attese da questa forma la soluzione di quel problema di forza che è la rivoluzione. Rispondemmo che la formula, ovvia per la Russia pre-1917 e non mai elevata a dogma immutabile da Lenin, non poteva essere trasferita tale e quale all’Occidente, mentre nella sua applicazione formalistica, implicava un’autentica rottura coi princìpi di formazione e con il processo reale di genesi e di sviluppo del partito rivoluzionario, una caduta nel “laburismo” (VI Esecutivo Allargato), il partito marxista non essendo definito dalla bruta composizione sociale dei suoi membri ma dalla direzione nella quale si muove, ed essendo tanto più vivo e vitale come organismo rivoluzionario, quanto meno rinchiuso nell’orizzonte angusto e corporativo della prigione aziendale.

Chiarimmo che questa “revisione”, vantata come antidoto alla burocratizzazione, avrebbe comportato, all’opposto, una ipertrofia del funzionalismo, unico legame rimasto a collegare cellula a cellula, come azienda ad azienda.

Allargammo la questione al problema ben più vasto e generale, e nel 1925-1926 coinvolgente tutte le questioni destinate a divenire brucianti nella lotta interna del partito russo: denunziammo, prima che fosse troppo tardi, la smania e la mania della “lotta al frazionismo”, di quella caccia alle streghe che celebrerà i suoi saturnali nell’ignobile campagna 1926-28 contro la sinistra russa e poi contro la destra, una caccia alle streghe che non aveva goduto diritto di cittadinanza nel partito bolscevico degli anni di splendore nemmeno contro il nemico aperto – distrutto, se necessario, mai vilmente coperto di fango – e che, varcando i confini statali russi, partorirà la sconcia figura del pubblico accusatore prima, del delatore d’ufficio poi, del carnefice infine.

La rivoluzione proletaria è generosa quanto la controrivoluzione (la frase risale a Marx) è cannibalesca. Il primo sintomo dell’ ”astro” controrivoluzionario nascente – segno, non causa – sarà il feroce, il viscido, l’ipocritamente velato di fraseologia “leninista” cannibalismo, e nessuno lo praticherà con zelo più intenso che le reclute dell’ultima ora, i menscevichi “convertiti”, i socialpatrioti copertisi il capo di cenere, gli uomini dell’immancabile “sì” nel buio che lentamente si addensava, così come erano stati gli uomini dell’immancabile “no” o, al più, dell’immancabile “ni” nella grande luce che credevamo non dovesse mai più offuscarsi.

Allargammo di qui il problema dell’ancor più scottante questione della salvezza dell’Ottobre nel cruciale 1926: lanciammo un ultimo appello perché, contro tutti i divieti e le minacce di tutt’altro che metaforiche sanzioni, la crisi del partito russo fosse portata in discussione in tutti i partiti e nelle loro assise mondiali «poiché la rivoluzione russa è la prima grande tappa della rivoluzione mondiale, essa è anche la nostra rivoluzione, i suoi problemi sono i nostri problemi, e ogni membro dell’Internazionale rivoluzionaria ha non solo il diritto ma il dovere di collaborare a risolverli» (VI Esecutivo Allargato), ben sapendo che quella crisi significava crisi dell’Internazionale Comunista.

Riprendendo un argomento che gli storici d’oggi capiscono a rovescio (è la loro vocazione!) ricordammo che la grandezza del partito russo era consistita nell’applicare a un paese arretrato la strategia e la tattica prevista per i capitalismi pienamente evoluti nel quadro di una visione mondiale dell’Ottobre, e che per costruirsi una solida barriera contro i rigurgiti dell’opportunismo, l’Internazionale doveva «trovare per le questioni strategiche» (prima fra tutte quella dei rapporti fra la dittatura del proletariato vittoriosa nell’URSS e il proletariato mondiale in lotta, fra Stato e partito e specialmente fra Stato e Internazionale Comunista, come per l’immenso arco della strategia rivoluzionaria nel mondo e della tattica ad essa collegata) «soluzioni che stanno fuori dal raggio dell’esperienza russa» (La nostra disperata battaglia, soli contro tutti, al VI Esecutivo Allargato dovrà essere e sarà oggetto di un’adeguata trattazione: si veda intanto il Protokoll Erweiterte Exekutive etc., Moskau 17 Februar bis 15 März 1926, pp. 122-144, 283-289, 517,577, 609-611 e passim.).

Invocammo non dei rabberciamenti ma un radicale cambiamento di rotta nei metodi dell’Internazionale. Non esistono partiti puri e, nel caso del partito bolscevico 1926, la garanzia “soggettiva” di non-inquinamento – sempre labile e condizionale – cessava di funzionare nell’atto in cui questioni non secondarie ma centrali e di principio dividevano lo stupendo organo di battaglia teorica e pratica ch’era stato il partito dell’Ottobre rosso. L’internazionalismo proletario doveva rinascere in tutto il suo folgore se dalla minaccia incombente di uno “sbandamento a destra” poteva essere salvato il potente baluardo della rivoluzione mondiale negli anni ardenti del primo dopoguerra. Lì era la salvaguardia del comunismo dalle aberrazioni del “socialismo in un solo paese” o, più tardi, delle “vie nazionali al socialismo”: lì ed allora o mai più!

Il movimento proletario comunista doveva essere ricostruito ab imis sulla base delle “lezioni di Ottobre” non meno che su quella di un bilancio francamente e virilmente redatto, come la Sinistra aveva chiesto in un congresso dopo l’altro che lo si redigesse. Le Tesi di Lione, e il loro commento all’Esecutivo Allargato del febbraio-marzo 1926, vollero essere un apporto fornito in questo spirito dal movimento internazionale alla Russia rivoluzionaria in pericolo. Fummo imbavagliati e dispersi: l’appello e l’apporto caddero nel vuoto per le generazioni di allora: valgano per le generazioni di oggi e di domani.

* * *

Sarebbe antimarxista cercare nelle sole deviazioni del Comintern dal 1922 al 1926 la causa di una catastrofe che oggi ci sta dinanzi in tutta la sua imponenza. Troppi fattori vi concorsero, troppe determinazioni oggettive fecero sì che il corso storico fosse, e potesse solo essere, quello. Ma delle situazioni oggettive l’azione del partito è pure un elemento e, in date circostanze, un elemento-cardine. Riconoscere le origini storiche dell’opportunismo – dicemmo al IV Esecutivo Allargato – non ha mai significato né può significare per noi subirlo come necessità storicamente ineluttabile: «anche se la congiuntura e le prospettive ci sono sfavorevoli, o relativamente sfavorevoli, non si devono accettare in uno stato d’animo di rassegnazione le deviazioni opportunistiche, o giustificarle col pretesto che le loro cause risiedono nella situazione obiettiva. E se, malgrado tutto, una crisi interna si verifica, le sue cause e i mezzi per sanarle devono essere ricercati altrove, cioè nel lavoro e nella politica del partito». Curiosa deduzione: agli occhi di un’Internazionale i cui congressi avevano finito sempre più per divenire le grigie aule di processi a partiti, gruppi o persone chiamati a rispondere di tragici rovesci in Europa e nel mondo, tutto ora diveniva il prodotto di “congiunture sfavorevoli”, di situazioni “avverse”.

La verità era che non diciamo il processo, ma la revisione critica, andava fatta alla radice e basata su coefficienti impersonali mostrando come il gioco di cause ed effetti tra fattori oggettivi e soggettivi sia infinitamente complesso e se, sui primi – considerati solo per un momento come “puri”, cioè a sé stanti, fuori dall’influenza della nostra azione collettiva – il potere d’intervento del partito è limitato, è invece in nostro potere salvaguardare, anche a prezzo di impopolarità e insuccessi momentanei, le condizioni che sole permettano ai secondi di agire sulla storia, e fecondarla.

Il partito non sarebbe nulla se non fosse, soggettivamente e oggettivamente, per i suoi militianti e per la classe operaia indifferenziata, il filo conduttore ininterrotto che il flusso e il riflusso delle situazioni non spezza, o, se anche dovesse spezzarlo, non altera. Nella lotta perché il filo non si spezzasse, allora; nella lotta per riannodarlo nei lunghi anni dello stalinismo imperante, poi; nella lotta per ricostruire su di esso e intorno ad esso il partito mondiale del proletariato, è tutto il senso della nostra battaglia.