Partito Comunista Internazionale
 
 
 
Dialogato con Gramsci
Difesa del comunista Antonio Gramsci contro l’opportunismo borghese del gramscismo di destra e di sinistra
Rapporto esposto alle riunioni di Firenze del gennaio e di maggio 1978
 
 
 

Presentazione
Prometeo, maggio 1937 - Martirologio proletario di Antonio Gramsci
Gramsci imbalsamato
La “Nuova Filosofia” più vecchia del cucco
Contro l’agnosticismo, contro la svendita del materialismo storico e dialettico
La cosiddetta crisi del marxismo
La bolsa economia politica degli epigoni
La nostra teoria dello Stato ha un solo sbocco: la dittatura del proletariato come unica transizione al socialismo
Il nostro parlamentarismo rivoluzionario
Il partito comunista è unico e indivisibile


 
 
 
 
PRESENTAZIONE

È in atto nella grande chiesa P.C.I. di ascendenza moscovita il processo di canonizzazione del padre fondatore Antonio Gramsci: secondo la vergognosa prassi curiale del promoveatur ut amoveatur anche il compagno Antonio sta per essere mummificato e ridotto ad una icona, come già successe con Lenin e come la Sinistra Comunista denunciò fin dal 1924 nella commemorazione a caldo del grande bolscevico.

Prima di passare all’esposizione delle nostre ragioni di ieri e di oggi, vogliamo premettere contro ogni possibile fraintendimento che né vogliamo costituirci nella “parte del diavolo”, come previsto in tutte le istruttorie canoniche, per far meglio risaltare le doti preclare del santo in pectore, né gettare addosso, secondo il classico stile terrorista degli staliniani, merda a chi non ci è gradito. Noi sosteniamo oggi, come sostenemmo faccia a faccia con Gramsci, che in virtù di un movimento di classe generoso e potente come quello degli anni ’20 e sotto la direzione rigorosa della Sinistra, poterono risaltare le doti di un appassionato militante e dirigente rivoluzionario come Antonio, nonostante la debolezza intrinseca del gruppo Ordine Nuovo sul piano dottrinario e diciamo pure “filosofico”, come furono esaltate le caratteristiche di organizzazione impersonale e collettiva del P.C.d’Italia nato dalla necessaria, seppur tardiva, scissione di Livorno 1921. Lasciamo dunque, senza rimpianti, alla storiografia piccolo-borghese ed opportunista le mai sopite e pettegole polemiche sul Gramsci che non parla al convegno di Firenze e al Congresso della scissione: non c’interessano, le lasciamo volutamente ai porci che s’introgolano con saccenteria nell’analisi psicologica e nello studio delle riserve mentali. A noi consta una sola cosa che storicamente vale, ieri ed oggi: il gruppo Ordine Nuovo riconobbe le necessità della rottura con l’imbelle dirigenza massimalistica del P.S.I. e contribuì sotto la guida della Sinistra, da tempo organizzata e provata all’agitazione rivoluzionaria, alla formazione del partito comunista rivoluzionario, giusta le direttive dell’Internazionale.

Perché nessuno abbia ad equivocare sull’immaginario dialogato che abbiamo pensato di stabilire con Antonio Gramsci, nel clima di facili epitaffi mutevoli e adattabili alle diverse stagioni della “fortuna” di un grande compagno di lotta rivoluzionaria comunista, qui premettiamo il Martirologio proletario di A.Gramsci, tratto da Prometeo del 30 maggio 1937. Non abbiamo né da togliere né da aggiungere niente. Si tratta semplicemente di leggerlo e di coglierne l’attualità sconcertante. Tenuto conto della totale e irrimediabile degenerazione degli epigoni, sarà facile riconoscere nell’attuale scenario storico non più semplicemente “errori” e “colpe”, ma il tradimento completo e la funzione nettamente anti-proletaria e anti-comunista dei convegni su Gramsci, dei processi di canonizzazione e altre macabre messe in scena.

Per quanto ci riguarda, rinnovato il nostro giudizio e il nostro legame con un compagno della sua statura, riprendiamo con lui il discorso, per noi mai interrotto, perché il Partito come ente organico e collettivo non può morire se non a finalità storiche conseguite. Pensiamo bene di riparlare con lui della questione cardine della funzione dirigente del partito rivoluzionario, anche perché il ricordo da noi ripubblicato, la nostra forma di commemorare gli scomparsi denunciando anche errori e colpe, ne siamo convinti, è il miglior modo per impedire che i monumenti ed i mausolei, grandi o piccoli, abbiano il potere di mummificare e sterilizzare una questione viva e capitale che doveva segnare e segna oggi definitivamente uno spartiacque netto tra chi sostiene e pratica la “giusta teoria rivoluzionaria” e chi al contrario la riduce a livre de chevet adatto per addormentarcisi sopra. Non fu certo il caso di Antonio Gramsci, che soffrì e affrontò la questione con passione rivoluzionaria e intellettuale, nel senso migliore della parola, trovandoci fermamente in disaccordo.
 
 
 

PROMETEO 1937
Martirologio proletario di Antonio Gramsci

«Morto, assassinato dal fascismo, a Gramsci tocca, come è stato il caso per tanti altri, di esser una seconda volta ammazzato coi commenti dei suoi apostoli. La stampa centrista e di Fronte Popolare – dal Grido del Popolo al Nuovo Avanti, e Giustizia e Libertà – si è gettata sul cadavere di Gramsci speculando, snaturando, svisando, ai fini della loro funzione controrivoluzionaria, il suo pensiero e la sua opera.

Abbiamo già espresso il nostro giudizio su Gramsci, anni or sono, quando il centrismo inscenò una campagna per la liberazione del capo” del proletariato italiano, campagna che doveva languire in seguito quando fu palese che Gramsci era stato salvato, dalla galera, dalla ignominia finale in cui era degenerata quella corrente di cui era stato l’ispiratore massimo fino a quando, caduto prigioniero del nemico di classe, doveva lentamente, dopo undici anni di torture fisiche e morali inaudite, spegnersi in una clinica dove era stato trasportato quando i suoi giorni erano oramai contati. Non abbiamo nulla da modificare. Sostenemmo allora, e lo sosteniamo oggi, che l’unica forma proletaria di commemorare gli scomparsi gli è di denunciare anche gli errori e le colpe, la parte negativa e caduca della loro opera, acciocché questa non debba offuscare la parte vivida e duratura della loro azione, che diviene parte integrante del patrimonio del proletariato per le sue lotte emancipatrici del domani. E a Gramsci colpe, incomprensioni, debolezze non sono mancate. E per la sua stessa origine sociale e per l’epoca in cui si è inscritto nel movimento operaio italiano.

Intellettuale – aveva studiato filosofia a Torino – subì l’influenza culturale di quella filosofia idealistica che doveva portar Gobetti, suo fratello spirituale e altra vittima del fascismo, verso l’utopia di un liberalismo rinnovato e rivoluzionario”.

Politicamente fu influenzato ai primordi, come tanti altri, dal revisionismo di Salvemini che vedeva il superamento della crisi socialista nella soluzione del problema meridionale”. E Gramsci, sardo di nascita, fu fautore di un federalismo che propugnò anche nelle file del partito.

Appartenente a quella generazione che venne al movimento traverso la guerra – Gramsci fu in un primo tempo interventista come lo riesuma Tasca lanciando la freccia del Parto – ma poi scosso dalla rivoluzione di Ottobre – di cui del resto all’inizio neppur lui comprese il significato – cercò legarsi più intimamente alla classe lavoratrice, ciò che gli fu facile in quella Torino che era la vera capitale proletaria” d’Italia.

Ma capo” del proletariato italiano non lo fu mai, né lo sarebbe potuto diventare. Anche per le sue condizioni fisiche che non mancavano di ripercuotersi sulla volontà e la decisione, doti indispensabili per un capo. E vediamo infatti subir dal 1921 al 1923 la influenza della personalità” di Bordiga, dal 1923 al 1926 l’influenza dei dirigenti della I.C. dopo Lenin”.

Capo” per noi è chi esprime, in una data fase storica, le aspirazioni e gli interessi della classe operaia. Bordiga fu il capo” del proletario italiano dopo la guerra unicamente perché seppe, per primo, affermare la necessità del partito di classe per condurre il proletario alla vittoria.

Capo” per i comunisti significa una funzione in una data tappa della loro lotta emancipatrice del proletariato, non un grado acquisito a vita. E il capo” della rivoluzione italiana potrà anche non esser Bordiga. Ma questi lo fu nel 1919-1923 e non Gramsci, che anche più tardi, nel 1924, doveva, al momento della crisi Matteotti, prendere di nuovo una posizione non corrispondente all’imperativo dell’ora col suo Antiparlamento”.

Così Torino, centro obiettivamente il più favorevole – e dove la maggioranza della sezione era con noi, cogli astensionisti” – non facilitò a Gramsci la concezione della necessità del partito di classe, cui non doveva pervenir che alla metà del 1920, mentre Bordiga a Napoli, centro obiettivamente il più sfavorevole, vi era arrivato dai primordi del 1919. Ritardo che fu fatale per la rivoluzione in Italia.

Una volta fondato nel 1921 il P.C., Gramsci, come abbiamo detto, fu con Bordiga né si associò alla opposizione, del resto larvata, dei Bombacci o dei Tasca.

Fu solo più tardi, alla fine 1923 e primi 1924, che a Mosca Gramsci fu l’artefice magro del centrismo italiano che facendo blocco colla destra, pure partorita a Mosca, del Tasca doveva dare al partito italiano, mentre i suoi fondatori erano in galera, quella orientazione che doveva farne una delle pedine della controrivoluzione in atto.

E Togliatti «che non si decide come è un po’ nella sua abitudine», come Gramsci stesso lo ha caratterizzato, si decideva questa volta a diventare il capo” dei nuovi traditori dopoché i Gramsci, i Terracini, gli Scoccimarro erano caduti nelle grinfie del fascismo.

E ce lo spieghiamo. Non per nulla Grieco, vice capo”, ha scritto nello Stato Operaio a proposito di Togliatti «che l’avversione a Bordiga e al bordighismo è stata sempre profonda, direi quasi fisica». L’avversione al bordighismo”, cioè alla lotta classista del proletariato.

E non esitiamo affermare che Gramsci avrebbe forse saputo, con un riconoscimento in pieno degli errori del passato, unica forma di riabilitazione proletaria, colla quale per es. Serrati seppe riscattarsi dalle colpe del 1920, ricongiungersi al proletariato rivoluzionario. La lettera del gennaio 1924, che cita Tasca, non contiene la confessione dell’errore che fece nel 1919-20 il gruppo dell’Ordine Nuovo di non propugnare quella creazione immediata del partito di classe, che noi, gli astensionisti”, prospettavamo dal 1919, quegli astensionisti” di cui si dimentica troppo spesso questa posizione fondamentale, sottolineando invece la tattica contingentale dell’astensionismo elettorale?

E nell’altra lettera che nell’ottobre 1926 Gramsci indirizza alla I.C. non si contengono critiche alla politica del centrismo che stava iniziando la campagna” antitrozkista? Critiche, le uniche, che furono a farle i centristi italiani della prima ora, i Gramsci, i Terracini, gli Scoccimarro, mentre toccava solo agli epigoni, i Togliatti, i Grieco, i Di Vittorio di prostituirsi davanti al pilota” del tradimento.

Nell’ottobre Gramsci veniva arrestato e l’anno dopo condannato a 20 anni. Il calvario si iniziava.

Per concludere, per quanto gravi siano stati gli errori del passato Gramsci li ha riscattati, e a iosa, col suo lento martirio di undici anni. E Tasca, che nelle colonne di Giustizia e Libertà e del Nuovo Avanti! ha cercato, anche lui, speculare sul morto per difendere il suo opportunismo inveterato, potrebbe, dato che ne possiede la copia, pubblicare la lettera con cui Gramsci, all’indomani di Livorno, respingeva la proposta di Mosca di tentar una subdola campagna per eliminare Bordiga dalla direzione di quel partito che esso aveva fondato, protestando che giammai si sarebbe prestato a simili manovre.

Sarebbe una degna commemorazione del grande Estinto».
 
 
 

GRAMSCI IMBALSAMATO

A ognuno il suo tradimento. Le ondate di degenerazione colpiscono le due classi fondamentali che si confrontano nella storia contemporanea: borghesia e proletariato. Proprio perché la loro non è una semplice battaglia campale di nemici l’un contro l’altro armato in cavalleresca sfida (così immaginano il confronto i fetidi opportunisti ingannatori, a base di “pacifiche” competizioni elettorali, economiche, “ideali”, di “distensione” e di “emulazione”), abbiamo dedicato, da Marx a Lenin, tanta attenzione alle forme, alle strutture, alle ragioni che permettono all’una o all’altra forza antagonista di trascinare dietro il carro delle proprie ed esclusive ragioni di classe forze sociali incerte e spurie, incapaci di muoversi autonomamente secondo una propria distinta finalità. Da questa esigenza nel marxismo nasce lo studio e la necessità di conoscenza dei mezzi e dei modi che permettano al proletariato di conquistare il potere politico come condizione di base per una definitiva riforma della società, fino alla scomparsa delle classi contrapposte.

Come sai, caro Antonio, i tuoi epigoni che sempre più fanno vergogna e infangano la tua memoria, hanno cianciato e vanno cianciando di un presunto vizio d’origine del Partito nel 1921 per colpa del dogmatismo della Sinistra, insensibile, secondo loro, alla varietà, oggi dicono al “pluralismo”, della società. Tu sai quanto aspra fu la disputa, ma né da parte nostra né tua si parlò di tradimento, anche quando lo knut pesante di Stalin si abbatté sull’intero movimento comunista internazionale. Nessuno allora mise la museruola a quelli che oggi vengono chiamati “intellettuali”, anche se mai ci permettemmo di rivolgerci ad un militante con questo appellativo sussiegoso e sterile. Avevamo detto con chiarezza cosa pensavamo della “cultura” nel 1912, nella famosa polemica che ci vedeva schierati contro il tentativo di ridurre giovani forze proletarie, entusiaste e sane, a uffici studi o a “quadri”. Né mai il tanto vituperato fratello maggiore Amadeo ebbe il coraggio di impedirti discutibili e dannose frequentazioni con un giovane sottile ed appassionato come Gobetti. Gli è che mai pensasti, come or vanno fornicando, di considerare gli “intellettuali” in quanto tali come una “forza per la rivoluzione”. Né mai considerammo inutili gli studi sulla funzione di mediatori di consenso per la borghesia che gli intellettuali di varia estrazione svolgevano con armi abili e sottili, solo che mai sognammo di “aggregarli”, come si ama dire oggi, come casta o categoria alla causa della rivoluzione.

È tanto vero che quando si parlò di dare al partito più spazio alla cosiddetta “base operaia”, ribadimmo che il Partito non si misura dalla presenza numerica di puri operai, ma dal rispetto della natura e della sua funzione dirigente, la cui unica garanzia consiste nella applicazione di una teoria e di una strategia scritta impersonalmente dall’esperienza complessiva del movimento di classe, consolidata e cristallizzata in regole di comportamento che nessun “intellettuale” e tanto meno nessun “puro operaio” può a suo genio modificare.

Da qui l’incomprensione, da parte tua, del nostro modo di intendere il concetto e la prassi del centralismo organico, che ti richiamava ora la chiesa ed il misticismo, ora l’illuminismo e il determinismo, se ancora nelle Note sul Machiavelli potevi scrivere: «Centralismo organico. Lo Schneider cita queste parole di Foch: Comander n’est rien. Ce qu’il faut, c’est bien comprendre ceux qui on a à faire et bien se faire comprendre d’eux. Le bien comprendre, c’est tout le secret de la vie...”. Tendenza a separare il comando” da ogni elemento e a farne un toccasana” di nuovo genere. E ancora occorre distinguere tra il comando” espressione di diversi gruppi sociali: da gruppo a gruppo l’arte del comando e il suo modo di esplicarsi muta di molto ecc. Il centralismo organico, col comando caporalesco e astrattamente” concepito, è legato a una concezione meccanica della storia e del movimento, ecc.».

Parole sante! E come spiegare allora i metodi staliniani, le diffide contro il presunto frazionismo della Sinistra? Forse con il centralismo organico ed i metodi caporaleschi? Il caporalismo è un risultato, che si ripercuote nel partito rivoluzionario, dell’infiacchirsi dello slancio e dell’illusione di mantenerlo desto con gli zig-zag tattici, magari sostenuti dal “consenso operaio” o dalla “base” del partito. Parole sante! se non peccassero di limitatezza nell’analisi, ridotta allo studio del metodo, e incapace di cogliere le ragioni complessive e materiali che ci trovano in dissidio. Ma tu certo non pensasti all’intellettuale libero dall’impegno di militante “organico al partito”, come dicevi.

Eppure guarda: gli epigoni l’hanno intesa come hanno voluto, ora teorizzando l’assoluta fedeltà al Principe (Stalin) e pretendendo di edificare oltre al “socialismo” (e scusa se è poco) perfino un linguaggio “socialista”, un’arte, una cultura “proletaria”; ora annaspando alla ricerca di “spazi” liberi, di partecipazione, di libertà per la poesia, per l’universale.

Il tutto, caro Antonio, perché una volta che il partito è concepito “parte” della classe, allora sì che si giustificano tutte le divisioni, le rivendicazioni, le opinioni purché raccolte nel comitato centrale. A noi non è mai interessato tanto che i compagni dirigenti fossero conti o marchesi, di estrazione borghese o proletaria, ma che non debordassero dalla disciplina tattica o strategica imposta dalla scienza del movimento di classe, che è un patrimonio impersonale e collettivo.

Ma certamente tu, nonostante il tuo “idealismo”, non reclamasti mai la funzione di intellettuale libero, ben sapendo, proprio dallo studio della funzione dell’intellettuale in campo borghese, che la stessa classe nemica aveva perennemente oscillato nella teorizzazione ora dell’uomo “di cultura” libero e neutrale, al di sopra delle parti, dello Stato. Dal dotto, tutto dedito alla sua missione, secondo l’infiammato S.G.Fichte agli sfoghi di Schopenhauer del tipo «ringrazio Dio ogni mattina di non dovermi curare dello Impero Romano», contro «il referendario di Stato» Hegel, la borghesia, a seconda delle sue oscillanti fortune e necessità, ha partorito dal suo seno ora l’intellettuale schiavo del potere ora il dandy sussiegoso e stanco della vita, sufficiente e libertario, metafisico e fideista.

La polemica sugli intellettuali, tu ci insegni Antonio, non può risolversi come una questione di metodo tra libertà di ricerca e “impegno” politico. Lasciamo ai benpensanti rispolverare ad ogni angolo della storia il mito del tradimento dei chierici, che consisterebbe nel torto del cosiddetto uomo di cultura di porsi al servizio di interessi politici, contaminando la sua ricerca con questi interessi o teorizzando questa combinazione. Non ci lasceremo commuovere dai soprassalti piccolo-borghesi d’un poligrafo come Sartre che dopo avere inondato il mondo dei suoi sfoghi viene a scoprire dolciastramente che «la letteratura non vale niente finché c’è al mondo un solo bimbo affamato». Eppure è stato per lunghi anni compagno di strada dei Togliatti e dei Thorez che hanno potuto giustificare tali equivoci accompagnamenti attraverso la distorta e degenerata forma del partito democratico, aperto agli apporti critici e via di seguito.

Non abbiamo mai avuto la debolezza di rilasciare patenti di marxista a chiunque avesse preteso di svolgere la sua azione “intellettuale” fuori dal partito di classe, o con licenza di vendere o comprare fosse pure il più agguerrito marxologo, mangiatore di libri e sfornatore di chiose. I Kautsky ed i Plechanov sono stati tacciati di rinnegati da Lenin non perché non conoscessero i sacri testi, che anzi fecero conoscere e illustrarono splendidamente, ma perché pretesero di capovolgere le regole e le leggi comuni a tutti, facendo leva sulla propria autorità di capi e di “creatori” di ricette e di scorciatoie. Non siamo disposti a riconoscere gli apporti di intellettuali “specializzati” nell’editoria e nelle diffusioni di foss’anco concrete impostazioni di partito, perché mai abbiamo creduto alla rivoluzione preparata o fatta a colpi di “diffusione delle idee” indipendentemente dalla buona o cattiva salute del partito della classe operaia nel suo insieme organico, nella sua testa e nelle sue gambe.

Non abbiamo mai accettato di essere stati sconfitti da una presunta «superiore dialettica teorica e filosofica» di Antonio Gramsci. Lui stesso nella dichiarazione al congresso di Lione del 1926 fu condotto a dire: «Do atto alla Sinistra di aver finalmente acquisita e condivisa la sua tesi che l’aderire al comunismo marxista non importa solo aderire ad una dottrina economica e storica e ad una azione politica, ma comporta una visione ben definita, e distinta da tutte le altre, dell’intero sistema dell’universo anche materiale».

Lui sapeva dunque, e si rendeva conto come noi che la nostra e la sua non era una vile diatriba, ma una questione generale, conoscitiva e pratica, di fronte alla quale la comune passione comunista non fu sufficiente ad impedire che l’Internazionale diventasse sempre più evidentemente la ragione del partito russo, che il partito abbandonasse il terreno della giusta tattica e la strada del programma storico per la scorciatoia, manifestatasi presto illusoria, ed oggi chiaramente fallimentare, di una maggiore “flessibilità” di fronte al nemico di classe, richiamando alla collaborazione movimenti politici che avevano definitivamente tradito, e non solo a parole, le cause della rivoluzione proletaria.

Siamo convinti che la Sinistra non mancò alla sua milizia in quest’opera di meticolosa e proibitiva difesa delle posizioni rivoluzionarie, non pensiamo che avrebbe dovuto abbandonare al loro destino Gramsci e fedeli militanti rivoluzionari prendendone le distanze. È una questione di valutazione complessiva delle forze sociali e di determinazioni oggettive: non ne facemmo allora una questione di ginnastica ideologica e di saccenteria filosofica: ne facciamo anzi ancora oggi una questione di milizia che non ci permette più di parlare a compagni come Antonio, ma ci ordina di sparare le nostre batterie, purtroppo, e non per scelta nostra, verbali contro i traditori che in 50 anni di controrivoluzione hanno distrutto, in combutta con le forze nemiche, ogni possibilità di comune correzione degli errori compiuti.

«Mentre quindi Gramsci comprendeva che chi passa sotto la bandiera marxista deve vincolare i termini del suo pensiero scientifico e filosofico e fare gettito deciso di quanto risalga, sia pure attraverso serio sforzo di studio, a fonti non classiste e non marxiste, i suoi postumi epigoni ogni giorno di più (da allora) sono sdrucciolati verso la più eclettica tolleranza di infinite posizioni ideologiche, scettiche e confessionali, incredule e mistiche, individualistiche e statolatre, riflettendo nella loro inconsistenza, e nel disprezzo ostentato dei principi, le manifestazioni odierne di rilassatezza ideologica e teorica del mondo borghese, cui altro non contrappongono che una ambulante rampogna di aver violato le sue stesse sagge tradizioni e tavole istituzionali, or qua or là, or quinci or quindi» (dal nostro “Comunismo e conoscenza umana“, Prometeo, 1952).

Non ce ne vorrà quindi il compagno Antonio Gramsci se, «liberi da servo encomio e da codardo oltraggio», continuiamo la nostra battaglia di sempre che ci vide irriducibili contraddittori di una serie di scelte, di analisi e di azioni che nel 1977 vengono strumentalmente richiamate a legittimare la negazione completa dei presupposti da cui comunque muoveva la sua proposta politica.

Né, secondo un facile schema, intendiamo sostenere che, essendo gli epigoni sempre peggiori, non poteva che andare a finire così. Sarebbe una miope lettura, riduttiva e disinvolta. Gli è che, se nelle memorabili battaglie del primo dopoguerra era arduo, ma possibile, combattere anche una battaglia ideologica, sostenuta da milioni di proletari, provati ma in piedi, oggi non c’è che da “restaurare” per intero una struttura deformata e manomessa proprio da quegli epigoni che si son fatti docile strumento del nemico di classe, di cui scimmiottano versi e prosa, costume e filosofia senza ritegno.

Non ce la sentiamo dunque, magari per «servo encomio», di salvare neanche una virgola di una presunta «filosofia» Gramsciana che potremmo anche condividere, perché questo non fu vero allora e tanto meno può essere vero oggi, né per «codardo oltraggio» attribuire le malefatte e i tradimenti espliciti degli epigoni agli errori dottrinali o al cattivo comunismo di Antonio Gramsci. La verità per noi è che in presenza di un movimento proletario in piedi, nel fuoco dell’azione, si raddrizzano milioni di parole sbagliate, mentre nell’assenza pressoché di movimento di classe anche una parola sbagliata può contribuire a ritardare i conati della ripresa. Ci impegniamo dunque ad essere non solo intransigenti ma feroci con i dissipatori di un patrimonio storico accumulato in lunghi anni di esperienze e di lotte operaie.

Tornando al processo di canonizzazione ancora in corso, che non sappiamo se si concluderà con una santificazione solenne oppure con un rinvio, probabile, al limbo di Gramsci, c’è da dire che la corsa alla aperta collaborazione con la borghesia sta costringendo la grande chiesa P.C.I. a prendere le distanze dal padre fondatore, o comunque ad “aprire un dibattito”, come si dice, spregiudicato, tale comunque da autorizzare libertà di coscienza “la più aperta” sui principi base e la rivendicazione di distinte “scuole di pensiero” (si fa per dire) tra le quali spiccherebbero quella moderata, imperniata sull’asse De Sanctis-Labriola-Croce-Gramsci, e quella “avanzata”, difficilmente identificabile ma, si assicura, più “di sinistra”. Insomma, tra quelli che vorrebbero “oltrepassare” Gramsci, ci sarebbero quelli disposti a dirlo esplicitamente, altri noti per richiamarsi alla “diversità nella continuità” (famosa formula coniata da Togliatti e non da A.Moro, come si crede!), e quelli che fanno le finte di volersi tenere ancorati al Padre, con apparente intransigenza, più verbale che altro.

Il processo istruttorio non poteva che svolgersi ad un “seminario”, svoltosi alle Frattocchie dal 27 al 29 gennaio 1977, attorno al tema “Partito, Stato ed egemonia in Gramsci”. Incaricato di introdurre il seminario, il professor Gruppi ha proclamato a chiare lettere la necessità di “oltrepassare Gramsci”. Per la prima volta è stata enunciata in maniera esplicita le necessità che il P.C.I. cominci a prendere le distanze anche pubblicamente dal pensiero e dagli insegnamenti di Gramsci. Finora gli esponenti del P.C.I. avevano preferito seguire la via di elaborare continue “reintegrazioni”; perfino la strategia del “compromesso storico” era stata fatta risalire da zelanti maneggiatori alle Riflessioni Gramsciane. Ora non solo non si è negato che il P.C.I. di Togliatti-Berlinguer si sia staccato dall’insegnamento di Gramsci, ma è stato fissato agli “intellettuali” del partito il compito di cercare giustificazioni teoriche a tale distacco, a base di “differenze di situazioni”, come è normale. Non è mancato chi, come Paolo Spriano, è salito in cattedra a dare lezioni di politica a Gramsci e a stigmatizzare gli “errori estremistici e settari” (chissà, commessi sotto l’influenza della Sinistra!).

D’altronde è lecito pensarlo, se il “crociano” Amendola, imbarcatosi in questo mese di giugno nella polemica con i vari Bobbio, Montale e Sciascia, ha coerentemente sostenuto che non vede oggi altra via che la difesa, intransigente e senza «pessimismi» o «vigliaccherie», dello Stato, una volta che il P.C.I. avrebbe impiegato più di 20 anni per emendarsi dal settarismo della sua origine, quando fece l’errore di pensare e valutare il fascismo come «questione interna della borghesia». Ma lasciamo perdere questo napoletano che non ha mai capito l’interna ragione di quella frase; lasciamolo nella truce trincea della difesa dello Stato borghese!

Ancora al seminario Leonardo Paggi, un giovane dalle molte speranze, ha sostenuto con forza il «diritto al revisionismo» ossia a rivedere e a correggere le affermazioni di principio di Gramsci come del resto si «è fatto e si fa per i classici del marxismo» (te lo dicevamo Antonio, a proposito di «rivoluzione contro il Capitale», oggi a me, domani a te!). A tale proposito Paggi si è richiamato a Togliatti, che nel ’64 non solo non respinse le critiche di “revisionismo” che gli venivano dai cinesi, ma se ne fece un vanto giustificandosi naturalmente con le «condizioni radicalmente diverse dal passato».

Vogliamo per nostro conto osservare che una volta imboccata la via delle “condizioni cambiate” si sa da dove si parte, ma non dove si arriva. Sappiamo bene che il mondo cambia, come, e per fortuna, cambiano le condizioni storiche. Ci mancherebbe anche questo, sennò come potremmo parlare di società senza classi. Abbiamo considerato da sempre la filosofia già rivoluzionaria distruggitrice di miti e di dèi, la nostra stessa teoria come uno strumento ed una guida per l’azione e niente di più, ma ci siamo sempre battuti perché a decidere delle “mutate condizioni” non fosse un individuo o un capo, appunto di capa sua, ma il partito formale in totale coerenza con il partito storico, secondo le regole di decisione interne che fossero la coerente deduzione da principi generali, collaudati e impersonali. Non erano fanfaluche caro Antonio le nostre analisi sul centralismo organico, sul partito organo e non parte della classe, tutt’altro, come vedi!

Paggi ha ammesso, raccogliendo le indicazioni di Gruppi, che non si può caricare «sulle spalle di Gramsci scelte e responsabilità che non erano le sue», che non si può cioè far risalire a Gramsci la responsabilità della linea attuale del P.C.I. Oh, questo è giusto. Non siamo mai stati teneri con Gramsci, ma certamente caricare sulle già fragili spalle il peso della malafede dei suoi epigoni, non ce la sentiamo di certo!

Dalle imberbi timidezze del progetto alle sofisticate operazioni della école barisiénne (scuola di Bari, forse «la più ardua» la definisce l’Espresso) tra i cento fiori del P.C.I. il passo è breve: Biagio de Giovanni ha infatti detto che con Gramsci «Il movimento operaio italiano incomincia a liberarsi da una concezione strumentale dello Stato, dall’idea di un legame rigoroso e semplificato tra Stato e classe dominante». Gramsci avrebbe rimesso in discussione sia «il marxismo della II e della III Internazionale, sia la forma leninista della mediazione politica». La “novità strategia” dei Quaderni dal carcere consisterebbe nell’indicazione di «far entrare interamente le masse nello Stato». Così, indipendentemente dalla natura di classe di questo Stato, il “barisien” lancia nel 1977 una proposta “attuale” quanto quella dello “attualismo” gentiliano e del fascismo: superare i limiti della tradizione liberal-democratica e integrare i “produttori” in un’organica comunità. Bello, eh!

Ma, guarda caso, la teoria marxista, di recente accusata di non aver elaborato una sua concezione politica dello Stato, sta lì monumentale a ricordare che solo la presa del potere da parte del proletariato e l’esercizio della dittatura di classe potrà operare questo miracolo!

L’eurocomunismo, considerata la difficoltà dell’impresa, ha pensato bene di scegliere la scorciatoia (è questo il vero senso dell’opportunismo, al di là d’ogni facile moralismo!). Visto che uno Stato c’è (quello della borghesia) vediamo di farvi entrare finalmente e “interamente” le masse.

Il fallimento della liberal-democrazia e del fascismo hanno per noi dimostrato, seppur ce ne fosse stato bisogno, che tra Stato borghese e socialismo non ci sono fasi di transizione, ma l’alternativa secca. Prendere o lasciare.

Caro Antonio, ti ricordi le dure polemiche a proposito della conquista dello Stato e i Consigli dei produttori? Tu pensavi ingenuamente di penetrare nello Stato e di disgregarlo attraverso la “coscienza della classe operaia”: noi ti dicevamo nettamente che i consigli non erano organi di governo di uno Stato da conquistare e da distruggere, che non bisognava trascurare la funzione del partito come unico strumento dirigente della rivoluzione. Guarda a che punto siamo: ora si vuol semplicemente far entrare solennemente le masse nello Stato, con tanto di Te Deum, di ringraziamento officiato dal Sommo Pontefice.

Non diamo la colpa certa alle tue illusioni sulla presunta “coscienza” operaia, questo lo fanno i tuoi seguaci ma l’avresti pensata una “evoluzione” così totale? A sua volta Ingrao, legittimato finalmente dal ruolo di alta autorità dello Stato, sembra non voler perder tempo a tentare l’operazione, e nel volume Masse e potere afferma che «la riforma dello Stato è oggi la principale riforma economica da realizzare».

Naturalmente della “riforma politica” dello Stato, che per il marxismo rivoluzionario consiste nella distruzione violenta della macchina militare, amministrativa e burocratica borghese, neanche la puzza. Per questi rinnegati saremmo già alla “riforma economica”, per dirla con Engels «all’amministrazione delle cose», possibile solo addirittura in pieno regime sociale socialista superiore!

Ingrao combatte «la tendenza ad appiattire la capacità progettuale e finalistica dei partiti, vede il discorso economico intimamente fuso con il ragionamento dello Stato, prospetta una combinazione di iniziativa economica e di scienza sociale, indica l’esigenza per una programmazione immaginata come «una continua rivoluzione culturale» e, citando Gramsci, come una «espansione diffusa di egemonia». Te lo dicevamo, Antonio, che dittatura era un termine inequivocabile, ma egemonia no! Prova a pensare come Ingrao avrebbe potuto parlare di una «espansione diffusa di dittatura»!.

Ingrao immagina «un ruolo dello Stato che aiuti le grandi masse dei produttori a programmare essi stessi e a pesare sulle decisioni pubbliche»! Commenta compiaciuta la Repubblica di Scalfari «è lo sforzo più notevole per superare lo stallo in cui si è immobilizzata la discussione di due anni tra correnti liberaldemocratiche e marxiste sul nesso tra democrazia e socialismo e sui caratteri della cosiddetta “fase di transizione”. È il tentativo di delineare una teoria marxista dello Stato, in cui i conflitti di classe, le spinte della società civile, le funzioni delle assemblee elettive ai vari livelli trovino una composizione articolata e dinamica e siano la garanzia reale del pluralismo e della democrazia». In una parola, i Marx e gli Engels, incapaci di delineare una teoria dello Stato, hanno trovato un “epigono” geniale in un Ingrao che, guarda un po’, è giunto, riflettendo su Gramsci, alle conclusioni di Giovanni Gentile, pressappoco.

Non deve scandalizzare a questo punto se i “compagni” di Mondo Operaio in una tavola rotonda sul pensiero di Gramsci hanno avuto la pensata con un loro calibro come Furo Diaz di dire apertamente che parlare di “fase di transizione” non significa più nulla, dal momento che il movimento operaio non ha più davanti a sé, come si riteneva fino a qualche anno fa, una mèta che si chiamava socialismo. Se adesso l’avvenire è tutto nel “processo”, nel “divenire” di una prospettiva politica, e questo in senso ininterrotto col traguardo che si sposta sempre in avanti, allora tutto è “fase di transizione”, ed è inutile parlarne.

Ebbene, lo direste?, l’osservazione è stata decisiva: la “fase di transizione” è apparsa a tutti uno pseudo-concetto. Capito, Antonio? E pensare che tu ci hai duramente rampognato perché non accettavamo la tua teoria della transizione, non perché la consideravamo uno pseudo-concetto, al contrario una costruzione iperconcettuale, come dire idealistica; e questi ti vanno a concludere che non valeva la pena di spremersi tanto quelle meningi, che lo stesso Duce sostenne non dover più funzionare, per partorire uno pseudo-concetto! Ti faremmo un «codardo oltraggio» se ti dicessimo che chi semina vento raccoglie tempesta, perché le conclusioni degli epigoni sono nient’altro che tradimento che le carogne hanno consumato ispirandosi alle debolezze delle dottrine che ti sono state attribuite.

Per sbrogliare la matassa della controrivoluzione e del tradimento non valgono né moccoli accesi alla sua santa icona né finestrelle aperte sul tuo poderoso cranio; solo la mobilitazione di classe di potenti reparti operai ne sarà capace, sotto la spinta dello stomaco, tanto aborrito e sottovalutato dal tuo temperamento. È il partito che capì, sotto la guida della Sinistra, e continua a capire per la classe; la classe capirà dopo che avrà vinto, te lo ripetiamo!
 
 

LA “NUOVA FILOSOFIA” PIÙVECCHIA DEL CUCCO

Il partito a centralismo democratico, è inutile nasconderselo, caro Antonio, ha partorito gli Zdanov e i cento fiori, i Sartre e i tanto reclamizzati nouveaux philosophes, di moda in Francia, i vari Levj e compagnia. Non sarà per finzione letteraria se non entreremo nella “trattazione” specifica delle dottrine dei “nouveaux”, ma per il semplice fatto che di nuovo non c’è proprio niente, se non la ratifica piatta ed empirica del fallimento del socialismo, molto sportivamente identificato con lo stalinismo e l’universo Gulag.

Né, Antonio, hai bisogno di essere messo al corrente nei dettagli delle argomentazioni sia dei “nuovi” sia dei santoni dell’opportunismo classico e staliniano, convinti come siamo che i ranocchi nel pantano ad uno scopo sono certamente giunti, a quello di imitare l’olimpo dei grandi santi dove il “marxismo” delle chiese e delle icone inoffensive ha collocato, in rigoroso ordine gerarchico, con tanto di trattino di distinzione i Marx-Engels-Lenin-Stalin-Mao-Gramsci-Togliatti, ecc., e smettiamo, perché non vorremmo correre il rischio di non avere le informazioni più corrette sulle dominazioni celesti. Noi, caro Antonio, (smessa la nostra irresistibile e storica passione per lo sfottimento, e fatto ancora una volta posto a quella per la difesa della verità rivoluzionaria, che tu ben sai, e che non condividesti, certamente non per sfizio di potere o basso tradimento) già vedemmo filosofi più di questi “nuovi” che dettero la teoria ad una pratica già fatta; non la fecero, la Rivoluzione (francese), ma neanche la castrarono, come questi loro connazionali.

Già noi non vedemmo mai di buon occhio la tua definizione del marxismo come filosofia della prassi, termine equivoco se dovesti ironizzare su un articolo di G.Gentile, pubblicato nello Spectator del 3 novembre 1928 e riportato nell’Educazione fascista, proprio a proposito della banalità maliziosa d’un vocabolario filosofico tutto da respingere. Eppure, devi convenirne, era stato proprio Gentile per primo in Italia a leggere Marx in chiave idealistico-attualistica ante-litteram! Ecco, guarda, i “nouveaux”, che tra l’altro pudicamente si scherniscono e non vogliono che li si chiami così, sono a doppia ragione i figli legittimi della «Filosofia che non si pensa(!?)» ma che «si fa», e perciò si enuncia ed afferma «non con le formule, ma con l’azione». Poiché, da quando esiste l’uomo, si è sempre «fatto», è sempre esistita “l’azione”, questa filosofia è sempre esistita, è stata pertanto la filosofia di... Nitti e di Giolitti (così tu ironizzavi). Questa filosofia è sempre esistita perché, dice uno di loro, Levj, «il principe, cioè il potere, è l’altro nome del mondo; il padrone è la metafora del reale». Perché – continua – «non esiste legame sociale che non istituisca il padrone. Non c’è discorso libero che non sia contrassegnato dal sigillo della tirannia. Se vi è parola, se esiste la parola, ciò deriva dal fatto che esiste lo società; e lo società è la guerra... All’inizio era lo Stato... la Storia non esiste...» ed altri titoli di capitoli degni della più mefitica sacrestia. Ma, ci dirai, e chi ve lo fa fare di degnare d’interesse questi sacrestani?.

E infatti noi non abbiamo tempo, abbiamo delle cose più rozze da fare, come tentare la difesa elementare delle condizioni di vita della classe operaia, rintronata da filosofie e sinfonie elargite a piene mani proprio da quelli che si richiamano al tuo nome e alla tua “prassi”, e che non sono capaci di garantire non solo il pane quotidiano, ma neanche la lotta per il pane quotidiano.

Sono i tuoi “epigoni” che, anche quando giurano di condannare certe teorie, si ripromettono di dialogare con loro, perché ormai concepiscono la lotta di classe come dibattito delle idee, con chiunque, come s’usa tra mezze classi per le quali il punto di vista individualistico è il metro di misura di ogni cosa; perché, ormai entrati nella logica dello Stato, hanno più punti di contatto con i nouveaux di quanto credano, e non hanno da dialogare se non con loro, che di questo principio, “lo Stato è all’inizio”, sono trombette e banditori. Per combatterli dovrebbero dichiarare guerra non soltanto alle ideologie che rappresentano, ma ai fatti storici reali, alle classi e mezze classi che rappresentano, e dovrebbero terrorizzarle, come noi da sempre sosteniamo. Ecco la nostra “politica delle alleanze”, che ci divise, all’epoca del “fronte unico dal basso”, nel 1922, ricordi? Ma eravamo allora compagni, cercavamo con passione la giusta tattica, non il dialogo con le mezzi classi, ma la conquista della “maggioranza della classe operaia”! E tu stesso dicevi che «per la filosofia della praxis, le ideologie sono tutt’altro che arbitrarie; esse sono fatti storici reali, che occorre combattere e svelare nella loro natura di strumenti di dominio, non per ragioni di moralità, ma proprio per ragioni di lotta politica: per rendere intellettualmente indipendenti i governati dai governanti, per distruggere una egemonia e crearne un’altra, come momento necessario del rovesciamento della praxis». (Quaderni dal carcere, 1319).

E invece i nuovi filosofi e l’ideologia che rappresentano non sono altro che l’altra faccia delle mezze classi di fronte alla crisi della società capitalistica e premono sul potere statale, presidiato dal partito che fu già della classe operaia, e si agitano contro tutto e contro tutti secondo il classico cliché anarchicheggiante e ribellistico, che non ha niente a che fare con il marxismo e la rivoluzione comunista.

La diatriba tra i “nuovi” filosofi con i filosofi “marxisti liberi” e delle Botteghe Oscure, non verte sulle diverse ricette per abbattere lo Stato, ma è una concorrenza spietata per individuare i mezzi e i modi per tenerlo in piedi, gli uni proclamando alta la Idea che lo “Stato è all’inizio” e chi oggi lotta per abbatterlo è utopia, votata al campo di concentramento, gli altri blaterando di azione dall’interno, di democratizzazione, di difesa degli aspetti positivi di esso! È tanto vero che alla sagra dell’Unità di Modena, un titolato epigono, Ingrao ha proclamato alto che il suo partito ha imparato a «superare la fase mistica e uscire dalla mitologia e dal sentimentalismo»: «abbiamo imparato a diventare i laici del nostro socialismo. Abbiamo imparato che la trasformazione della società si costruisce con razionalità, scientificamente, con una strategia che non può essere custodita solo nelle menti di pochi dirigenti... A chi ci dice di tornare all’opposizione diciamo no. La borghesia si vince diventando sempre più partito di lotta, ma anche sempre più partito di governo, e soprattutto tenendo tutte e due le cose insieme».

Come vedi, classica filosofia che non si pensa, ma che si fa, e, quel che è peggio, in molti. E soprattutto socialismo laico, tanto poco mistico che nello stesso tempo è socialismo e capitalismo, capitalismo e socialismo!

Eppure tu dicevi che la filosofia della prassi «non tende a risolvere pacificamente le contraddizioni nella storia e nella società, anzi è la stessa teoria di tali contraddizioni; non è lo strumento di governo di gruppi dominanti per avere il consenso ed esercitare l’egemonia in classi subalterne che vogliono educare se stesse all’arte di governo e hanno interesse a conoscere tutte le verità, anche le sgradevoli, e ad evitare gli inganni della classe superiore, e tanto più di se stessi!».

Ma la specialità dei “nuovi” e nazional-comunisti “dal volto umano” è la riflessione sull’universo concentrazionario russo. Questi cialtroni darebbero ad intendere che per la prima volta nell’occidente “democratico” si riflette seriamente sulla natura del “Socialismo barbaro ed asiatico”. Come sai, niente di più falso. La Sinistra Comunista già nel 1924 pretese di discutere alla presenza di Baffone, che già faceva tanta paura, e dell’eterno indeciso Palmiro, che nell’occasione tentò una mediazione, “dove va il partito russo”, individuando nella politica dell’Internazionale Comunista, sostenuta dal partito italiano, proprio dai centristi alleati alla destra di Tasca (e tu Antonio eri il capo dei centristi), tutta una serie di direttive controrivoluzionarie diramate sotto la pressione degli interessi “nazionali” del partito russo. Non c’erano ancora i Gulag, e i loro cantori grandi-russi alla Solgenitzyn, e tanto meno sbarbatelli d’oltralpe a riflettere sul totalitarismo “prodotto dall’eclissi del sacro”. Molto più concretamente, sul terreno del socialismo non solo in Russia, ma in tutto il mondo stava cominciando a mancare l’ossigeno di cui l’universo “barbaro e asiatico” aveva bisogno per non ricadere nella dominazione borghese, anche se sotto le forme cattivanti del socialismo in un solo paese. Quell’ossigeno era e doveva essere la Rivoluzione in Occidente. Tu stesso nella famosa lettera a Togliatti del 1926 ti interrogavi, con un po’ di ritardo e sotto i fumi dello “ottimismo della volontà”, sull’andamento delle lotte intestine nel partito russo. Ma Palmiro “il frigido” ti rispondeva che senza vedere non si può giudicare, e tutto finì lì, mentre venivano consumate le ultime possibilità di raddrizzare la politica dell’Internazionale Comunista. Ed ora i mocciosi vengono a teorizzare che, alla luce di Kolima-Auschwitz, bisogna concludere cristianamente e agostinianamente che purtroppo il Potere è il Male, che lo Stato precede la stessa realtà nazionale, che ogni pretesa di “rivoluzionare” i rapporti sociali borghesi porta inevitabilmente alla tirannia e al campo di concentramento.

Non una parola, come vedi, sulle radici sociali del Gulag. Tutta l’attenzione di questi sociologi da strapazzo si è concentrata sugli aspetti repellenti che la “coscienza” non può accettare. Ma quando tu parlavi delle “case matte” capitalistiche e giustificavi la guerra di posizione in Occidente, non ti riferivi certo semplicemente ai manicomi, alle caserme, a quelle realtà che i tuoi epigoni chiamano molto educatamente oggi “corpi separati dello Stato”, ma, ne siamo certi, soprattutto alla produzione capitalistica, alla fabbrica, dove viene estorto ogni giorno sangue e plusvalore alla classe operaia. L’origine del campo di concentramento dove si rieducano i “diversi”, l’origine della guerra imperialistica per il marxismo rivoluzionario è il Capitale, non la natura umana perversa, e la concorrenza tra gli Stati, non il “sadico desiderio di potenza”. Ecco che cos’è il “laicismo” del socialismo, altro che l’anti-mistica degli Ingrao e soci! Al contrario, una volta che i rapporti sociali prodotti dal capitalismo sono stati interpretati e letti secondo le regole della democrazia e del gradualismo, vengono fuori le mostruosità teoriche e pratiche di un Minucci, giovane leone berlingueriano, che riflettendo sul tuo Americanismo e fordismo ti scopre come «geniale anticipatore dell’idea che il capitalismo è in grado di accogliere anche alcune esigenze della classe antagonistica».

Allora non ci sarebbe altro da fare che “sciogliere” le contraddizioni più vergognose dell’universo borghese nella società civile, che tutto rieduca e tutto trasforma in bene. Non a caso i «philosophes» esperti in Gulag e gli psichiatri democratici che si informano alle teorie ultrademocratiche dei Basaglia e dei Guattari, teorizzano la fine della casa matta per l’abbraccio dei poveretti da parte dei sani di mente, educati alla vita di fabbrica ai rapporti urbani.

Oh! Sia ben chiaro, Antonio, non è da oggi che noi sosteniamo, e non a mo’ di battuta, che i veri matti stanno fuori e le persone sensibili incapaci di subire le angherie dei rapporti sociali borghesi, dentro. Non opporremo nessuna resistenza a che i “matti” vengano lasciati liberi di vagare nella città o nella campagna. Il fatto è però che non siamo disposti a rilasciare alla “società civile” l’etichetta di “sana”: per noi è putrida e fetida e produce ogni giorno, specie nelle sue parti più asettiche e rarefatte, nell’aria condizionata dei ministeri e dei grattacieli ove i “patrons” prendono le decisioni manageriali, i mostri più brutali che nessun manicomio può accogliere, e cioè la guerra imperialista e la negazione delle più elementari condizioni di vita a due terzi dell’umanità intera. Non sappiamo come consigliare i poveri reclusi a uscire dal Gulag o dal manicomio, se poi i borghesi, anche “rossi”, non sapranno offrire loro che umiliazione, lavoro non pagato e nuovi visti d’ingresso per mancato “riadattamento”.

Ecco perché non accettammo e non accetteremo la tua tesi della case matte da far cadere una alla volta. Perché le case matte hanno la caratteristica di moltiplicarsi, e anche quando danno l’impressione di poter essere spezzate come un metamero, come gli anellidi vivono dell’humus che ha una base comune e un cervello comune: la produzione e la riproduzione capitalistica.

Mentre i philosophes ben pasciuti cercano di avvilire le timide energie proletarie minacciando le vendette del potere e la sua natura intrinsecamente perfida e maligna, mentre i tuoi seguaci non si sognano neppure l’assalto al Quirinale a base di voti per ottenere una presidenza della Repubblica democratica in rispetto del pluralismo e del compromesso storico, noi molto più modestamente incoraggiamo anche i più timidi conati della classe operaia e la rincuoriamo sostenendo che lo Stato proletario è necessario, come pure la sua violenza, essa stessa storica e transitoria, non sempre uguale a se stessa, specie quando è utile a permettere che le doglie del parto siano accelerate e aiutate.
 
 

CONTRO L’AGNOSTICISMO, CONTRO LA SVENDITA DEL MATERIALISMO STORICO E DIALETTICO

Sembrava impossibile che alle Botteghe oscure, nel clima di “compromesso storico”, non si sentisse il bisogno di chiedere istruzioni alla Santa Madre Chiesa sui grandi temi della “laicità” dello Stato, dell’ateismo e dell’antiteismo, mentre ristagna il processo di canonizzazione di Antonio Gramsci. Evidentemente non ci si fida più tanto, o soltanto, del suo Verbo, anche perché la democrazia post-fascista superconcordataria, quand’anche volesse, non può non tenere conto della “controparte” e della sua “visione e del mondo”. Ne è passata di acqua sotto i ponti!

Il nostro immaginario dialogato, Antonio, non mira affatto a stiracchiare il tuo “pensiero” dalla nostra parte, ma a ribadire che le nostre dure polemiche, che culminarono nel congresso di Lione del 1926, non erano una esercitazione teorica settaria, ma la difesa intransigente d’un patrimonio storico che si stava dissolvendo e dissipando, e insieme con esso il partito storico della classe operaia, battuto non sul campo di battaglia, ma catturato dal nemico di classe.

Chi l’avrebbe detto, caro Antonio, che sarebbero stato proprio i gesuiti a porre al partito (che a te si richiama come ad un santo protettore, a te che, di fronte alla “pratica” e per noi momentanea sconfitta nel biennio rivoluzionario 1919-20 e negli anni che seguirono, pensasti bene, contro le nostre tesi che sostenevano di non aver niente da arricchire e da aggiungere alla teoria rivoluzionaria marxista classica, di dover “rafforzare” il marxismo con “nuove” elaborazioni di tipo filosofico che rendessero definitivamente “laico” e antireligioso il marxismo e il comunismo) la fatidica domanda: «abbandonate la filosofia materialistica di Marx?»

Non abbiamo bisogno di sentire la tua risposta, non ne dubitiamo. Ne siamo certi nonostante che ti abbiamo già in quei tempi rimproverato debolezze nei confronti dell’idealismo filosofico, ma mai e poi mai nei confronti della trascendenza religiosa e di pratiche bigotte! Ma, guarda caso, i gesuiti, uomini di mondo e consiglieri di potenti da sempre, chiedono ai tuoi epigoni, tutt’altro che maldisposti, non tanto, come si illudono i gonzi ed i divulgatori da gazzetta, che il P.C.I. ed i suoi dirigenti si convertano al verbo religioso, ma che rinuncino alla filosofia materialistica, con il sottinteso, appunto “gesuitico”, che sarà sufficiente non l’abiura solenne, ma l’ammissione che il marxismo non pretende più di essere una “visione del mondo”, una filosofia, ma un “metodo” tra i tanti, una forma critica della società; in una parola, nel clima di pluralismo e di democrazia, un semplice punto di vista, un’opinione! È proprio vero, caro Antonio, che i gesuiti vengono da lontano! Come ben sai chiedono la stessa cosa che chiedeva Don Benedetto, che almeno di teoria della storia laica ed umana era un sicuro cultore, stavamo per dire addirittura religioso! Avesti a scrivere un vero e proprio anti-Croce per respingere questa richiesta, ed ora, guarda, i tuoi epigoni si sono dichiarati disposti a soddisfare tali pii desideri addirittura ai gesuiti!

Ma senti la viva voce d’uno di questi, divulgatore del Verbo del Pontefice del tuo ex partito, e precisamente di Lucio Lombardo Radice, che alla insistente domanda risponde: «In quanto tale, in quanto partito, il P.C.I. non intende adottare né abbandonare la filosofia materialistica di Marx, o qualsiasi altra filosofia; intende essere portatore e assertore di valori storici, politici, sociali, anche morali, Terreni”. Si tratta dei valori del socialismo e della loro realizzazione su questo tema: da questo punto di vista il P. C.I. è non solo marxista e leninista (niente trattino), ma anche gramsciano e togliattiano. Conviene chiarire meglio la cosa con un paio di esempi. Un comunista può essere ateo o credente, materialista dialettico e neo positivista: ci fu un illustre esponente di questa filosofia nelle file del P.C.I. (si allude evidentemente a Galvano della Volpe, già docente di mistica-fascista, e non a caso! n.d.r.). L’importante è che egli sia comunista, ed essere comunista è una categoria politico-ideale, non filosofica».

Come vedi tutta la tua fatica profusa nello sconfiggere con le armi della critica il “mùtilo” storicismo crociano è stata una battaglia contro i mulini a vento! Contro l’identificazione di filosofia e di storia proponevi l’identificazione di storia e politica: «Se il politico è uno storico (non solo nel senso che fa la storia, ma nel senso che operando nel presente interpreta il passato), lo storico è un politico; in questo senso (che del resto appare anche nel Croce) la storia è sempre storia contemporanea, cioè politica» (Quaderni dal Carcere, Torino 1975, pag.1242). Ed ora ecco un Lucio Lombardo qualsiasi a riproporre la “distinzione” crociana di categoria politico-ideale da quella filosofica!

Per te Croce non giunge a giustificare la continuità del passato nel presente se non in maniera speculativa: il significato di ogni singolo momento del divenire storico viene cercato idealisticamente nella totalità dello sviluppo dell’idea, che diventa trasparente a se stessa nel presente dell’autocoscienza. La storia non è pertanto che storia delle idee, non storia reale dei concreti processi economici e sociali. La critica rivolta da te allo storicismo crociano, oltre a denunciare i residui di trascendenza, di metafisica, di teologia coglie i limiti d’ogni concezione idealistica della storia.

Così per dire: «Se è necessario, nel perenne fluire degli avvenimenti, fissare dei concetti, senza i quali la realtà non potrebbe essere compresa, occorre anche, ed è anzi imprescindibile, fissare e ricordare che realtà in movimento e concetto della realtà se logicamente possono essere distinti, storicamente devono essere concepiti come entità inseparabili. Altrimenti avviene ciò che avviene al Croce, che la storia diventa una storia formale, una storia di concetti, e in ultima analisi una storia degli intellettuali, anzi una storia autobiografica del pensiero del Croce, una storia di mosche cocchiere» (pag.1241).

Tu pensa, caro Antonio, che i gesuiti di Civiltà Cattolica, che ben conosci e ai quali dedicasti tanta e sarcastica attenzione, proprio quelli che hanno posto ai tuoi epigoni la fatidica domanda «ma voi rinunciate alla filosofia materialistica marxista?» con lo stesso tono del «rinunciate al demonio e alle sue pompe?», hanno sottilmente ricordato (Civiltà Cattolica, 3.9.77, Ideologia e partito nel pensiero politico di Gramsci) la tua polemica con Bordiga, preoccupato che il movimento comunista finisse con l’essere “contaminato” dai valori del “liberismo borghese”.

«Al congresso di Lione, la Sinistra del Partito Comunista d’Italia non esitava ad accusare esplicitamente Gramsci di essere crociano” e un proudhoniano”». Tutto vero. E allora che dire del P.C.I. di Berlinguer e di Lucio Lombardo Radice? Semplicemente questo: che eravamo dei compagni impegnati a non concedere nulla alla ideologia avversaria, idealistica e borghese, e che al contrario i tuoi eredi non sono che delle emerite carogne tutte dedite allo scardinamento della dottrina e della teoria rivoluzionaria. Prova ne è che, nella stessa risposta alle melliflue richieste di padre Sorge, il Lucio Lombardo prosegue dicendo: «...il P.C.I. non ha neppure, in quanto tale, una sua teoria della religione, e che, quando abolirà dal suo statuto (naturalmente in un congresso “democraticamente”, n.d.r) ogni formula sospetta di dogmatismo, quale è l’espressione marxismo-leninismo”, si guarderà bene dall’introdurre in esso, per esempio, che la religione è un valore permanente dello spirito umano!» (coraggioso, eh! E finisce): «Insomma, il marxismo non è un dogma, ma una guida per l’azione”, lo diceva Lenin, grande maestro di metodo – Ma sulle sue parole non giuriamo, proprio per essere suoi buoni allievi»! Come dire, la pezza di appoggio ci serve, ma facciamo i comodi nostri!

Ora ci domandiamo in che cosa consisterebbe questa fantomatica guida per l’azione se questa guida è costretta a rinunciare alla sua funzione, che deve contrastare con le “opinioni” degli altri, del neo-positivismo, della fenomenologia, dell’esistenzialismo, del cristianesimo, del buddismo e via di seguito? Quando il Partito viene identificato con le funzioni e le attitudini dello Stato (borghese) nel senso che riconosce la libertà di coscienza, la “opzione” verso le mode intellettuali e via di seguito, allora tanto vale dire che il Partito non è altro che una componente dello Stato, uno dei tanti “canali” per la formazione del consenso, come sono definiti i partiti della costituzione democratica e pluralistica! Oppure uno dei tanti “canali” per la grazia, ottavo sacramento, per salvarsi l’anima!

Ora, caro Antonio, tu che alla sociologia del mondo cattolico dedicasti attenzione oltre le necessità per noi più stringenti, quali la lotta per la difesa della giusta tattica e della tradizione teorica e pratica, sai bene che il pluralismo, la rivendicazione dei “canali” è un vecchio cavallo di battaglia del cattolicesimo non chiusamente integristico, che non ha rivendicato col termine “pluralismo” un atteggiamento concordatario, cioè l’aspirazione al congelamento (più apparente che reale) di rapporti di forza da regolarsi da potenza a potenza. Quando Lenin reclama lo Stato laico, non ha certamente in mente uno Stato laico, non ha certamente in mente uno Stato neutrale, ma addirittura, se ci è permesso il termine, uno Stato “religioso”, “ideologico”, inteso come apparato di repressione della classe proletaria vittoriosa sui suoi nemici e contro ogni possibile contrattacco. Stato laico significa nell’accezione marxista, contro l’anticlericalismo massonico e angustamente borghese, uno Stato che non si illude di eliminare lo sfruttamento e l’oppio del popolo a parole e con la predicazione del verbo rivoluzionario, ma rimuovendo le condizioni dello sfruttamento del capitale sul salario abolendo il rapporto sociale capitalistico.

Dunque Stato laico che non significa agnostico, ma Stato, etimologicamente, del “popolo” vittorioso. Lasciamo all’ideologia liberale e neo-liberale l’illusione dello Stato-neutro perfino sulla questione religiosa! I tuoi epigoni, se veramente vogliono essere “laici” come loro intendono, dicano esplicitamente che non solo si sentono una delle tante componenti dello Stato pluralista, ma che hanno rinunciato al socialismo, una delle tante “visioni del mondo” da cinematografo con le quali si dilettano a polemizzare i vari Colletti e marxologi curatori di Enciclopedie Treccani, scimmiottando i Max Weber e Dottor Sottile del capitalismo razionale!

Non è dunque indifferente all’interno del Partito, e lo condividevi, essere materialisti o neo-positivisti, esistenzialisti o fenomenologi. Ciò non contrasta affatto con la nostra tradizionale tesi che le questioni teoriche non si risolvono a tavolino, ma sul terreno della tattica, della giusta tattica. Quando la Neue Zeit, la rivista di Kautsky, esprimeva la preoccupazione che la discussione filosofica potesse diventare una ragione di divisione tra i socialdemocratici russi, il giornale dei bolscevichi Proletarj nel febbraio del 1908 rispondeva: «questa disputa filosofica non è (...) e non deve essere disputa di frazioni; qualsiasi tentativo di presentare questi dissensi come dissensi di frazione è radicalmente sbagliato». In una lettera a Gorkj (21 novembre 1908) Lenin ribadiva «ostacolare l’opera svolta ad attuare nel partito operaio la tattica della socialdemocrazia rivoluzionaria con dispute sulle superiorità del materialismo o del machismo sarebbe un’inammissibile sciocchezza».

Ma se Lenin non ritiene che il partito operaio rivoluzionario debba proporsi il compito di risolvere le controversie filosofiche, non ritiene neanche che il partito chiamato a guidare una radicale trasformazione della società possa fare a meno di una sua concezione del mondo. Certamente tale “visione del mondo” non è campata in aria, è frutto dell’esperienza della lotta di classe dell’epoca capitalistica e come tale è la “concettualizzazione”, un tipo d’ordine mentale sociale che solo il Partito detiene. Questo non vuol dire, per definizione, che è la soluzione assoluta della realtà realizzata a tavolino. Ma da questo a teorizzare una generica “libertà di pensiero” o l’agnosticismo, ce ne corre.

Nelle Due tattiche Lenin scrive: «Il modo in cui i neo-iskristi esprimono le loro idee ci fa ricordare l’apprezzamento che Marx dava nelle sue celebri tesi su Feurbach del vecchio materialismo estraneo alla dialettica. I filosofi, diceva Marx, hanno solo interpretato il mondo in modi diversi, si tratta però di cambiarlo. I neo-iskristi sanno anch’essi descrivere e spiegare il processo della lotta che si svolge davanti ai loro occhi, ma sono assolutamente incapaci di enunciare una parola d’ordine giusta. Marciando con zelo, ma dirigendo male, ignorando la funzione attiva, di dirigente e di guida che possono e debbono avere nella storia i partiti che hanno capito le condizioni materiali della rivoluzione e si sono messi alla testa delle classi progressive, essi sviliscono la concezione materialistica della storia».

La dura polemica di noi marxisti contro i rinnegatori, arricchitori, manipolatori della teoria rivoluzionaria non è e non è mai stata un’esercitazione verbale e “filosofica” sull’idealismo in astratto o sul materialismo di scuola, ma contro determinate e specifiche forze sociali che nel corso della moderna lotta di classe hanno rivestito la difesa dei loro privilegi economici e sociali con le spoglie di concezioni generali della realtà, già elaborate o comunque adatte a dare dignità teoretica ad una realtà ben più prosaica e materiale.

È così che i Materialisti di base, come Lenin e come noi ci definiamo, non sono poi tanto ciechi e sordi da non vedere e intendere che «l’idealismo filosofico è soltanto assurdità dal punto di vista del materialismo rozzo, elementare, metafisico». Essendo «viceversa, dal punto di vista del materialismo dialettico, l’idealismo filosofico lo sviluppo (...) unilaterale esagerato (...) di uno dei tratti, lati, limiti della conoscenza in assoluto, avulso dalla materia, dalla natura, divinizzato».

Così dietro la proposta dei Lombardo Radice di ammettere l’agnosticismo filosofico come atteggiamento laico-naturale nel P.C.I. non c’è una semplice enunciazione filosofica errata, ma la raccolta teorica di una pratica controrivoluzionaria di 50 anni, che per l’appunto non può rimanere puramente pratica, ed ha bisogno di essere sistemata e teorizzata. Ciò è per noi un motivo di chiarificazione che non fa che confermare la nostra definizione di controrivoluzionario che abbiamo applicato al P.C.I. non certamente da ora.

A questo proposito non valgono rivendicazioni di primogenitura nell’intuizione della dégringolade controrivoluzionaria, perché non basta chiudersi in un convegno per trovarsi d’accordo nel definire oppressivo e non socialistico il regime attuale russo. Ci vuol ben altro! È necessario accettare in un solo blocco la dottrina e la pratica rivoluzionaria, che per essere una efficiente guida per l’azione deve comportare l’enunciazione e l’attuazione di regole a tutti note, al centro e alla periferia, con la forza oggettiva ed impersonale di un programma valido per tutti e da tutti riconosciuto. Al contrario è di moda, nel clima di disgregazione e di confusione mentale imperante, ammettere a pezzi e bocconi delle mezze-verità, alibi per nuove e più deleterie proposte politiche. Basta pensare alle capriole dei nouveaux philosophes di cui sopra o al convegno variopinto dei cosidetti “eretici del dissenso” che a Venezia, sotto il patrocinio dei salottieri del Manifesto, sul tema “Potere e oppressione nelle società post-rivoluzionarie”, per bocca di un santone del calibro di Althusser hanno sostenuto che «le sinistre hanno vissuto troppo a lungo sulle idee di Marx, Lenin, Gramsci, senza voler ammettere che essi erano esposti a sbagliare, a criticare e anche a dire delle sciocchezze da noi prese per oro colato». Vediamone alcune: «la teoria del plusvalore» - «la mancanza di una teoria dello Stato e delle organizzazioni rivoluzionarie».

Noi paleomarxisti, caro Antonio, ci teniamo le sciocchezze che fanno tanto schifo alla piccola-borghesia intellettualistica e snob: non conosciamo strumenti e guide per l’azione più raffinati ed efficienti. Siamo anzi veramente soddisfatti che si riconosca pubblicamente da parte dei rinnegati di essere stufi di sciacquarsi la bocca con parole che fanno a cozzi con la loro pratica quotidiana. Diffidiamo dunque e insistiamo nel diffidare la classe operaia da chi propone da certi pulpiti, alla Trentin ad esempio, parole d’ordine del tipo: «senza l’avvio di una rivoluzione in occidente non si risolve il problema dell’Est (...) Occorre abbandonare i vecchi dogmi del sindacato e del partito unico della classe operaia nelle lotte della sinistra in occidente». Noi non crediamo che la tua “egemonia” volesse dire questo, e quand’anche la tua formulazione teorica, come noi denunciammo, possa dare spazio e legittimazione a tali proposte, non ce la sentiamo di annoverarti tra i coscienti operatori dell’affossamento definitivo della vera Rivoluzione Comunista Mondiale, che si guiderà proprio col partito unico della classe operaia, con la realizzazione nel movimento del sindacato unico della classe operaia e dei lavoratori in generale.
 
 

LA COSIDDETTA CRISI DEL MARXISMO

Il tema preferito dai marxologi imperversanti, da quelli blasonati ai gazzettieri, è la pretesa “crisi del marxismo”.

Non ci si impressiona, poiché l’illusione di aver trovato la formula per relegare il marxismo “in soffitta”, tanto per non riandare alle “palafitte” della lotta di classe, è una trovata tipicamente italiota e, quel che è il bello, non dell’ultimo dei liberali “aperti” democratici e progressisti ante-litteram, e cioè di Giovanni Giolitti.

Non ci si impressiona, poiché il materiale sociale che ha espresso la teoria marxista, per esplicita ammissione dei sostenitori della “crisi”, non solo si è fatto più incandescente, ma minaccia di travolgere tutti i Don Ferrante della situazione che, a forza di ripetere che la lotta di classe non è né “sostanza” né “accidente”, finiranno (ce lo auguriamo vivamente) per morire proprio di questa infezione.

Naturalmente, come tutti gli insicuri, i signori della crisi sono alla ricerca dei padri fondatori della crisi stessa e, guarda caso, anche Antonio Gramsci si presta bene alla bisogna.

Noi interveniamo ancora una volta non tanto per difendere l’ortodossia o il buon nome di Gramsci, ortodossia che abbiamo sempre negato e buon nome che, come compagno di lotta, abbiamo sempre difeso, ma riaffermare che la teoria marxista non è una scienza opinabile, bensì una “guida per l’azione” nella lotta di classe che o si accetta in blocco o si respinge in blocco, tertium non datur.

Rientrando in diretta, caro Antonio, tu ricordi il vespaio suscitato dalla tua Rivoluzione contro il Capitale. Noi della Sinistra, che rivendichiamo la continuità della nostra battaglia all’interno del Partito Socialista fin dal lontano 1912, non abbiamo con questo mai preteso di tappare la bocca a nessuno passando “veline”, specie quando si trattava di questioni di “scienza” della società. Il marxismo è un blocco d’acciaio, secondo la classica definizione di Lenin, nel senso che la interna coerenza non si è costruita per apporti estrinseci o per chiose, al punto che lo stesso Marx non ebbe timore di apparire schematico nell’indicare le scoperte essenziali rilevate dallo studio della moderna lotta di classe: «l) ad un certo momento del suo sviluppo, la storia della società è storia della lotta delle classi; 2) nella moderna società capitalistica la lotta delle classi porta alla dittatura del proletariato».

Ora tutto si può dire, meno che anche il più sgangherato “marxista” di quei tempi negasse questo blocco teorico. La convivenza all’interno del Partito di classe delle diverse frazioni era giustificata dal fatto che, nonostante le pesanti ambiguità sul terreno della pratica (basti pensare all’atteggiamento nei confronti della guerra imperialistica), nessuna barba, compresa quella di Turati, aveva avuto il coraggio di teorizzare il fallimento del marxismo, che quand’anche aveva sostenuto la necessità che il Partito Socialista entrasse nella «nenniana» stanza dei bottoni (illudendosi di grosso) lo aveva fatto intendendo questa operazione come il primo passo verso la futura dittatura del proletariato.

Noi della Sinistra, ultimi della classe, non abbiamo mai giudicato i compagni dalle intenzioni, ma dal comportamento pratico, ed abbiamo intensificato la nostra lotta per la formazione del partito di classe rivoluzionario, giusta le direttive dell’Internazionale, non perché solo ad un certo momento abbiamo scoperto le aberrazioni e le fornicazioni dei Turati e dei Serrati, che ben conoscevamo e che mai avevamo mancato di bollare come riformiste, ma quando gli eventi mondiali della lotta di classe nel loro sviluppo postularono delle scelte irreversibili, pena la sconfitta contingente e futura della rivoluzione comunista.

Certamente la tua Rivoluzione contro il Capitale voleva essere una smentita dell’interpretazione meccanicistica ed economistica che del materialismo storico davano i riformisti. Voleva essere, il tuo, un richiamo alle energie della volontà rivoluzionaria, contro il fatalismo e la rinuncia all’attacco contro la putrida società borghese. Non ti disconoscemmo passione, anche se non condividemmo mai le tue interpretazioni, tanto è vero che una caterva di storiografi più o meno ufficiali del Partito che a te si richiama non sa decidersi se fummo dei “massimalisti deterministi” o degli idealisti senza rapporto con la realtà, e dunque dei “nullisti rivoluzionari”, ma una cosa è certa: a te sembrava, come a noi, che il grande elefantiaco partito socialista si dimostrava incapace di guidare la classe operaia all’attacco dello Stato, che bisognava leggere la teoria rivoluzionaria marxista contro le divulgazioni evoluzionistiche e positivistiche dei Treves e compagni.

Noi sostenemmo la necessità della restaurazione del marxismo; e con noi Lenin. Tu quella della creatività, della spinta morale, e non fummo per niente d’accordo. Ma non ci risulta che la tua valutazione della “crisi” del marxismo proponesse la sua liquidazione come concezione non scientifica e non filosofica inadeguata ai compiti che stavano davanti alla classe operaia.

Ora, al contrario, nella polifonia pluralistica sono più che rispettate voci di “stonati” che a suon di neo-positivismo logico e di empirismo (già definito merdoso dai nostri Padri Fondatori) ci vengono a dire non solo che la teoria marxista è inadeguata all’idea di rivoluzione, ma che di fatto non lo è mai stata, che è sempre stata una questione di passionale ed ottocentesco romanticismo.

Maestro sommo di queste “scoperte” è il Colletti, non a caso stilatore della rinnovata voce Marxismo nell’enciclopedia Treccani (la tradizione nazionale innanzitutto!). Per questo pomposo accademico (ma con interessanti ripercussioni sia tra i pifferi dell’ultrasinistra sia nel partitaccio) «il marxismo ha ambito” ad essere un’analisi scientifica della realtà, una rilevazione scientifica delle leggi di movimento” (dialettica) del modo di produzione capitalistico. Questo è l’oggetto de Il Capitale”. Queste leggi sono terreno d’indagine come leggi di natura”. Engels nel discorso sulla tomba di Marx sostenne che Marx ha realizzato nel campo della storia umana ciò che Darwin ha fatto nel campo della storia naturale (selezione della specie). Lenin negli Amici del popolo” dice: (stiamo ascoltando la lezione di Colletti, senza commento alcuno, per ora) “il materialismo storico è l’estensione del metodo scientifico nel campo delle discipline storico-sociali”».

Fin qui, ponza Colletti, tutto bene. Il male comincia quando Marx pretende di realizzare questo ambizioso piano attraverso lo strumento della logica Hegeliana. Ma con la dialettica non si fa scienza! Marx avrebbe usato alternativamente due concetti di scienza incompatibili tra loro. Uno quello empiristico-naturalistico di origine inglese. L’altro, quello di origine hegeliana (addirittura platonica) dove la “scienza” è il sapere vero, l’epistéme contrapposta alla doxa o sapere apparente. Così la scienza sarebbe il sapere essenziale, cioè scienza nel senso in cui Hegel ha intitolato la sua opera Scienza della Logica (o Croce la Logica come scienza del concetto puro).

Mancherebbe inoltre una “teoria marxista dello Stato”, una “scienza politica”. C’è sì il concetto di “dittatura del proletariato” (che sarebbe del proletariato e non del partito unico, e tanto meno del suo Ufficio Politico). Marx parla di dittatura del proletariato come forma politica transitoria, essendo lo strumento politico dell’espropriazione del capitale, della proprietà privata, dei mezzi di produzione. Marx e Lenin sostengono che dopo l’espropriazione inizia l’estinzione dello Stato. A questo punto l’esposizione del professore, fin qui corretta, fa un bel salto, anzi un vero e proprio volo pindarico, con una domanda retorica che dovrebbe falsificare tutto l’armamentario teorico: come si concilia tutto questo con il socialismo a Cuba, in Cina, in Unione Sovietica? Da un neo-positivista non ci saremmo aspettati tanto! Bell’esempio di metodo empiristico-naturalistico all’inglese!

In conclusione per il professore Colletti è molto comodo sostenere che dall’humus della cultura romantica tedesca discendono i manicomi ed i Gulag disinvoltamente identificati col “socialismo reale”. Rispunta, caro Antonio, la pretesa classicamente borghese ad una scienza al di sopra delle parti e delle classi, asettica, che si limita a conoscere, a contemplare, come se già il conoscere e il contemplare non fossero attività pratica e trasformazione delle realtà!

Questo “ideale” borghese, già smentito da Marx come ipostasi delle astrazioni, è congeniale ad una classe che tende a presentarsi come monopolizzatrice della verità e rispettosa di essa contro tutte le pressioni e le esigenze della «passione, dell’interesse, dell’emotività».

Noi paleomarxisti ci fregiamo a titolo di onore di praticare una scienza della società che non può esistere senza passione rivoluzionaria, anche se (e lo dimostriamo) non disdegniamo l’ausilio delle scienze naturali e del loro metodo, della logica, compresa quella formale. Neghiamo però, e pur tu Antonio eri d’accordo su questo, che possa esistere una scienza della società che non sia anche una filosofia, una concezione del mondo.

L’aspirazione ad una scienza unitaria della realtà, sia naturale sia sociale (ecco il senso del materialismo storico e dialettico) non solo non ci è estranea ma vi tendiamo con tutte le nostre forze. Neghiamo però che possa essere identificata con il sapere già accumulato, o con le metodiche presentate come l’ultimo grido della verità disvelata. In questo senso o crediamo che il materialismo dialettico e storico è la forma più alta di comprensione globale della natura e della società, o dobbiamo rigettarlo per intero.

Questo è il senso del “professare” una concezione della realtà. A chi questo criterio appare come chiesastico o religioso, o perfino mistico, dobbiamo rispondere che allora noi siamo effettivamente religiosi, chiesastici e mistici. E d’altro canto, di che cosa si lamentano i filosofi della borghesia, quando hanno proposto loro per primi la mistica dell’atto puro e la religione della libertà?

Ma i Colletti vari ci rispondono di voler liberare il genere umano dalla dialettica romantica tedesca comunque camuffata e, guarda caso, vanno a rivalutare, come succede ai revisionisti, ai neo-kantiani alla Bernstein, agli antesignani timidi della stessa dialettica romantica tedesca, Kant appunto, o i suoi scotitori dal sonno dogmatico, e cioè i vari Hume, quelli appunto del metodo empirico-naturalistico!

E come fanno appunto a convincerci dei loro “eterni valori”, dalla democrazia alla giustizia sociale, se non se la sentono nemmeno di riconoscere il nesso di casualità tra i fenomeni naturali, facendo professione di pragmatismo, di scetticismo, di “sano” illuminismo?

Siamo caro Antonio, ancora una volta, alle proiezioni della mentalità piccolo-borghese, piccolo-piccolo, che scambia le sue anguste illusioni con la Realtà, con la R maiuscola.
 
 
 

LA BOLSA ECONOMIA POLITICA DEGLI EPIGONI

Richiamandosi al tuo nome, magari per semplice fatto di essersi trovati in circostanze molto particolari al tuo fianco, a Torino magari, ai tempi dell’Ordine Nuovo, i più spudorati antimarxisti “scientifici” della nostra epoca portano l’attacco “al cuore” del marxismo stesso, alla teoria del plusvalore. Partendo dal merdosissimo fact del prodotto sociale, dai “dati” di produzione e salari (fisicamente determinati sulla base della sussistenza, evidentemente dimenticando quanto sia stato strapazzato l’incauto e duellante Lassalle e la sua “bronzea” legge dei salari, ancorché molto meno della sua faccia!), un tuo ex amico, Sraffa, oggi pontificato dalla scienza economica neo-classica, pretende di far tornare i conti che a Marx non tornavano, rinunciando abbastanza chiaramente alla “mistica” dialettica in nome della “scienza”.

Per Marx la teoria del valore è principalmente una teoria del profitto, e soprattutto dello sfruttamento nell’economia capitalistica. Ecco, questa pretesa di cogliere e capire la ragione della soggezione della classe dei salariati ai detentori degli strumenti della produzione è per i sofisticati cervelli un po’ radical e un po’ ancien régime di Cambridge un’ubbìa classicamente tedesca. Quanto è più comodo, secondo la morale del topo grassatore, partire dal prodotto sociale già scodellato, dalla decantata tecnologia “moderna” e dai salari (quelli però oggettivamente determinati sulla base della sussistenza, un vero e proprio concetto da metafisica delle caverne!). Il calcolo diventa più semplice, la trasformazione dei valori in prezzi una questione o peggio un tabù infranto, e la logica del meccanismo capitalistico finalmente trasparente proprio perché tanto logica.

Ci rendiamo conto, caro Antonio, che con l’acribìa che ci ha sempre contraddistinto e che qualche volta ti ha dato a suo tempo ai nervi, stiamo ragguagliandoti su una tematica che non ti fu mai congeniale, tutto proteso nella tua scienza politica, nella tua “filosofia della prassi”. Ma, vedi, il tentativo dei tuoi epigoni più nefasti, tra un distinguo e l’altro, secondo il metodo della più acrobatica diplomazia e del machiavellismo più antimachiavellico, in qualche modo vorrebbero dare a intendere che questo Sraffa ti ha conosciuto e in qualche modo ha avuto una qualche non facilmente documentabile ispirazione durante le sue frequentazioni col tuo poderoso cranio. E questa operazione non ci sembra veramente molto riguardosa nei tuoi confronti, se è vero che, senza essere un cultore della scienza economica in senso stretto, avevi già reso pan per focaccia ad un altro illustre e blasonato smentitore della teoria del plusvalore, come Don Benedetto Croce. Avevi chiaramente rivendicato che la teoria del plusvalore non è un teorema di astratta logica formale, ma la chiave di lettura dell’antagonismo sociale prodotto dalla società capitalistica. Avesti a smentire i vari Robbins (ancora vivi e vegeti, lo sai?) che sono stati i maestri che già ai tuoi tempi proponevano di partire dai “dati” del prodotto sociale, della tecnologia, dei salari! Ed allora lascia che ricacciamo in gola ai fetidi topi grassatori quella parte del prodotto sociale (e non è poco, dati i tempi che corrono) che la borghesia concede ai suoi teorici e puntellatori e che continua a sottrarre con le armi della scienza economica e della violenza al proletariato mondiale!

Eravamo rimasti alle Metamorfosi dei valori in prezzi, che tanto impegnarono il cranio di Marx, che sarebbe, poverino, dovuto soccombere di fronte ad un compito così arduo. Diamo una veloce presentazione della questione, non per te, ci mancherebbe, ma per chi ci ascolta, per i frastornati salariati che ormai guardano ai “professori” con tanto di soggezione e di sacro terrore per la loro ignoranza beffeggiata e compatita. (ll partitaccio che a te si richiama ha le sue scuole “separate” e i suoi ben pasciuti accademici, altro che intellettuale collettivo!).

Chi apra il libro del Capitale di Marx trova, nelle prime pagine, enunciata la teoria secondo cui il valore delle merci è determinato dalla quantità di lavoro necessario a produrle. I prezzi di mercato sono il risultato di una “trasformazione” dei valori. Ciò che disturba i presunti scopritori della falsità della teoria del plusvalore è che Marx ragiona in tutto il libro I del Capitale “come se” le merci si scambiassero secondo le quantità di lavoro incorporato. Solamente nel libro II abborderebbe la questione dei prezzi. Un’altra accusa consiste nel fatto che la differenza tra valori e prezzi non fu mai pensata da Marx come una contraddizione. Facciamo notare, a costo di apparire didattici, quali sono le parole che non digeriscono i moderni teorici della scienza economica borghese ed opportunista: Trasformazione, contraddizione. L’idea di Marx è che i prezzi si ottengono dai valori redistribuendo il plusvalore complessivo (la somma dei plusvalori estorti dai singoli capitalisti). Ad ogni capitalista non tocca esattamente il plusvalore che viene prodotto nella sua impresa, ma una quota del plusvalore complessivo proporzionale al capitale anticipato, secondo un saggio uguale per tutti. Cioè i capitalisti, malgrado la concorrenza che li fa agire uno contro l’altro, costituiscono senza saperlo una grande società per azioni, e il plusvalore complessivo è il dividendo. In questo modo la legge del valore-lavoro non viene negata ma confermata dalla teoria dei prezzi, poiché le differenze tra prezzi e valori e tra profitti e plusvalori si compensano nei totali. Emerge dall’idea di Marx molto chiaramente che i capitalisti, lungi dalle robinsonate tanto care ai teorici vecchi e nuovi dell’economia borghese, sono una classe. Ecco un’altra parola che suona antica ai “nuovi economisti”.

Anche classe, come trasformazione, come contraddizione, sarebbero termini romantici, propri della dialettica metafisica e platonica di ascendenza hegeliana. Per questi analisti dalle pie intenzioni la realtà dovrebbe essere molto più lineare, secondo la logica del A = A, del A diverso da B e finalmente del Tertium non datur. Per questi ammiratori dei cartoni animati e dei fumettoni l’economia non sarebbe (in piena crisi imperialistica) altro che la lotta (di sempre) dell’uomo (nelle vesti magari di un Superman un po’ nevrotico) contro la Natura (la solita, scarna, matrigna e cavernosa Natura!).

Ecco perché per loro è più facile il modello teorico a dialettica binaria, perché semplifica le cose, l’uomo di qua e la natura di là. Appunto la vecchia metafisica, il vero vecchio platonismo, tra l’altro molto male digerito e affrettatamente riletto!

Gli Sraffa, nuovo pontefice, e i suoi più o meno rumorosi ammiratori hanno un asso nella manica. Lasciamo perdere il riferimento dei prezzi ai valori. Troppo complicato, e soprattutto troppo tedesco! Nella “Produzione di merci a mezzo di merci”, una vera partenogenesi, una ingegneristica “clonazione”, il problema consiste più linearmente nel determinare il saggio del profitto prendendo come “dati” il prodotto sociale, i metodi di produzione e i salari, come già ricordato. E questi “dati” come si sono prodotti? Non ha importanza, anzi la ricerca genetica è sempre una grande complicazione, come nel caso delle razze. Meglio prendere atto che ci sono bianchi e neri, rossi e gialli. Almeno i calcoli matematici tornano. Come poi bianchi e neri pur essendo contraddittori, possono in determinate condizioni sociali far parte d’un unica classe, capace di far tremare il mondo, questo è troppo metafisico per gli “economisti” alla Sraffa. Lo stesso sovrappiù sociale è per Sraffa un dato, come dire: ogni società produce un valore aggiunto, altrimenti sarebbe destinata alla semplice riproduzione. Qual è il segreto di questo dato? Non ci interessa. Il problema è determinare il saggio del profitto e la “equa” ripartizione del sovrappiù tra portatori dei diversi fattori della produzione, e cioè tra capitalisti, salariati, e... Natura!!!

Ragionava, e ragiona, ancora così Robbins, vero Antonio? Dunque per Sraffa e gli “sruffiani” se il prodotto sociale è preso come un dato e i salari sono determinati sulla base di considerazioni “esterne” alla teoria del valore, allora i profitti appaiono come “quel che resta” una volta detratti i salari dal prodotto sociale, un residuo privo di qualunque giustificazione, e soprattutto, immaginiamo, sempre troppo poco per i poveri Robinson. Vero?
 
 

LA NOSTRA TEORIA DELLO STATO HA UN SOLO SBOCCO:
DITTATURA DEL PROLETARIATO UNICA TRANSIZIONE AL SOCIALISMO

Dall’attacco al cuore all’attacco al cervello della teoria marxista: la giaculatoria quotidiana degli affossatori è che la nozione marxista di Stato è carente, che addirittura manca, o che è rudimentale, ed ha dunque bisogno di una “riforma”. Il partitaccio ha puntualmente assegnato l’ufficio studi per la “riforma dello Stato” ai suoi più illustri teorici che, approfittando delle tue debolezze teoriche, da noi puntualmente a suo tempo contestate, sono giunti alla conclusione che il destino della classe operaia è quello di farsi centro nazionale di direzione del comitato d’affari della borghesia.

Abbiamo parlato di tue debolezze, perché non accettammo mai come marxista la tua analisi dello Stato e le conseguenti tesi politiche sui compiti del partito di classe nei confronti della guerra allo Stato; debolezze che di fronte alla vigorosa direzione della Sinistra, ma essenzialmente di fronte al proletariato mondiale ancora in piedi e esaltato dalla grande prova rivoluzionaria in Russia, dovevano essere combattute nell’ambito della milizia comunista, e non fuori di essa.

Oggi delle tue debolezze gli epigoni si fanno forti per rivendicare una loro primogenitura nell’analisi originale e creativa della diversità delle condizioni politiche e di classe dell’occidente europeo, per battere in breccia la presuntamente “astratta e non articolata” teoria dello Stato del marxismo rivoluzionario. Tu saresti stato il maestro della nuova impostazione, l’artefice della nuova teoria dopo la lezione della mancata rivoluzione in Occidente, lo stratega della guerra di posizione, chiuso il momento della guerra di movimento, il tattico della conquista delle casematte borghesi che galleggiano nella gelatina della società borghese e che impedirebbero l’attacco frontale alla fortezza dello Stato.

Non c’è dubbio che il grande scontro che si è aprì nell’Internazionale Comunista di fronte all’ammissione della sconfitta del movimento operaio in Occidente ti trovò tra i più autorevoli sostenitori della necessità di cambiar tattica, di adeguarsi alle mutate condizioni della lotta di classe, ma la nostra generosità rivoluzionaria ci impedisce di addossarti la responsabilità delle conclusioni dei tuoi epigoni che gabellano la loro presenza nei Comuni di sinistra, nelle Province e nelle Regioni, o addirittura la loro cooptazione in qualche consiglio d’amministrazione di ospedale o di manicomio come conquista, se non altro, delle casematte, oggi più matte di quelle del ’21.

Noi fummo tra coloro che nell’Internazionale non defletterono dal considerare la teoria marxista dello Stato come riconfermata sia dalla Rivoluzione d’Ottobre, sia dalla sconfitta (momentanea, per quanto profonda) delle possibilità di attacco agli Stati borghesi, e che, lungi dal considerare quell’occasione storica come apocalittica ed escatologica, proposero con nettezza di giudizio e lucidità di mantenere saldi i nervi e non cadere nella disperazione tale da non permettere una ritirata ordinata e capace di conservare integri gli strumenti teorici e pratici per il prosieguo della guerra. Ma la riconosciuta “stabilizzazione” capitalistica produsse i suoi micidiali contraccolpi all’interno dell’Internazionale, che stava degenerando sotto la pressione delle necessità dello Stato russo e degli “edificatori del socialismo”. È in questa situazione che proliferarono le analisi “creative” della questione Stato e la ricerca di nuove soluzioni e “iniziative politiche” che potessero far fronte alla oggettiva negativa realtà.

Per la Sinistra continuava ad essere valida la tesi secondo la quale, nonostante il cambiamento delle “forme di governo”, lo Stato borghese è una macchina amministrativa e repressiva, il “comitato d’affari” della borghesia. Quando diciamo macchina amministrativa e repressiva non ci sfugge, lo sai, che lo Stato non è semplicemente violenza, ma anche consenso e governo dell’economia, salva la necessità di riconoscere che di fronte ad un proletariato combattente la violenza veniva dispiegata senza infingimenti, addirittura con l’esplicita connivenza dello Stato liberale prefascista, armando oltre lo Stato legale anche vigilantes bianchi che scorrazzavano indisturbati in funzione antiproletaria. La necessità politica, cioè la mobilitazione attiva di tutte le energie della volontà rivoluzionaria, non giustificavano, secondo le nostre tesi di ieri e di oggi, lo scardinamento della concezione marxista dello Stato; non accettammo e non accettiamo che la politica al primo posto dimentichi le sue basi, le sue condizioni genetiche, che sono i rapporti di classe determinati dallo stato delle forze produttive e dai rapporti di produzione.

Nel clima di revival idealistico del primo Novecento, non mancammo mai di denunciare che, in nome della critica alle “letture” positivistiche ed evoluzionistiche del marxismo, si stavano rivalutando le letture hegeliane, non tenendo conto che il marxismo è hegeliano solo nella fantasia accademica dei marxologi, mentre è un blocco d’acciaio teorico e pratico per i militanti rivoluzionari, Lenin in testa. Tutto ciò per noi significa, caro Antonio, non certamente la censura o l’invito a non leggere troppo (semmai questa sarà la prassi instaurata anche nel partito quando il terrorismo ideologico imperverserà al punto da cancellare dalla sua storia intere frasi scomode!), ma ad attenersi alla tradizione dell’esperienza di classe, contro tutte le suggestioni.

È vero che per Hegel «la società civile comprende non soltanto lo sfera dei rapporti economici ma anche le loro forme di organizzazione, spontanee e volontarie, cioè le corporazioni», ma appunto per questo già Marx nella sua Critica della filosofia del diritto, propone che siano il sistema dei bisogni, le forze produttive e i suoi rapporti di produzione a giustificare le istituzioni che le regolano, e non viceversa.

Nella tua analisi la struttura dei rapporti di produzione «rappresenta il primo livello della società civile, obbiettivo e indipendente dalla volontà degli uomini, che può essere misurato coi sistemi delle scienze esatte o fisiche»; esso costituirebbe un dato permanente quantitativo e passivo, il momento della necessità. Al secondo piano o livello, a quello delle forme d’organizzazione non più private ma della società politica o Stato, corrisponderebbe la funzione di egemonia che il gruppo dominante esercita in tutta la società, e a quello di dominio diretto o di comando che si esprime nello Stato e nel governo giuridico. È evidente che la sovrastruttura per te rappresenta il momento di attività della storia, la “catarsi” per cui la necessità diventa libertà.

Non ci puoi rimproverare, caro Antonio, che il partito non fosse per noi della sinistra al culmine di tutti i nostri pensieri, al punto che coniammo anche una schematica ma inequivocabile gerarchia così espressa: Partito - Stato proletario - Soviet (come sue articolazioni territoriali) - Sindacato. Ma mai e poi mai indulgemmo al sociologismo soggettivistico imperversante che ti portava a degradare i rapporti di produzione e l’articolazione delle classi ad un dato “economico-corporativo” prestatuale e prepolitico.

Soltanto un’interpretazione a-dialettica potrebbe operare delle ipotesi di questo tipo. Oggi siamo i soli a rivendicare che la lotta economica in quanto tale non può superare il tradeunionismo, ma, guarda caso, siamo anche i soli a sostenere la necessità che il proletariato abbia le sue organizzazioni di lotta economica, il suo Sindacato di classe. I tuoi epigoni, appoggiandosi alle tue debolezze idealistiche, sono giunti a conclusioni completamente opposte: il sindacato deve essere una struttura dello Stato, le sue lotte devono essere regolate dalla compatibilità con la volontà politica generale dello Stato, cioè in poche parole sono ridotte a trama privata dello Stato (Hegel docet).

Per noi, come per Marx e Lenin, il processo di estinzione dello Stato si concepisce con il superamento degli antagonismi sociali mediante la lotta di classe, per cui il riassorbimento della società politica nella società civile non costituisce una idealistica “catarsi” culminante nel comunismo integrale, ma è la decapitazione dello Stato della borghesia e della sua macchina amministrativa e militare, il passaggio obbligato ad uno Stato (d’accordo, armato esso stesso non solo di forza, ma anche di consenso) di tipo nuovo, quello proletario, capace di stroncare la controrivoluzione e di intervenire dispoticamente per stroncare tutte le bardature che costringono le forze produttive “nuove” entro la camicia di Nesso dei rapporti di produzione capitalistici. L’estinzione dello Stato non è un’opera pedagogica e “l’amministrazione delle cose” non è una società regolata dal potere politico dello Stato proletario, ma l’estinzione stessa dello Stato proletario, della sua necessità, e dunque delle condizioni economiche e sociali che determinano la sua necessità. La società “regolata” non è dunque il trionfo della politica, ma la fine della politica, non solo di quella d’abord, ma anche di quella del “dopo”.

Da dove proveniva la tua lettura neo-rovesciata della concezione dello Stato? Da presunti “vizi d’origine” che ti avrebbero dovuto impedire di essere con Ordine Nuovo parte integrante del Partito Comunista d’Italia? Certamente no! Soltanto chi post-festum va a rimproverarsi di avere operato la scissione di Livorno portandosi dietro tutte le scorie di un Marxismo mal digerito, immaginando un metafisico puro partito di marxisti senza macchia e senza paura, può pensare o insinuare tanto. Noi sappiamo che, nonostante i ritardi, le incertezze, Ordine Nuovo fu fra le correnti che dettero vita al Partito Comunista, e sapevamo anche che soltanto la lotta del proletario avrebbe permesso la depurazione nel partito di movimenti non marxisti a tutto tondo. Per questo le nostre polemiche, caro Antonio, non furono mai puramente filosofiche, ma sempre tattiche, esecutive, pratiche. La tua lettura arrovesciata dello Stato avrebbe avuto citazione solo negli annali delle diatribe accademiche se la rivoluzione non fosse fallita; e la spiegazione del suo fallimento secondo le tesi arrovesciate sullo Stato non è che la vittoria anche in seno dell’Internazionale delle correnti che di fronte alla sconfitta cercano di giustificarla, piuttosto che di opporsi ad essa preservando gli strumenti teorici e pratici indispensabili per la ripresa. Non sono le classi sociali soggetti politici ed anche istituzionali, in qualche modo Stato. L’identificazione organica tra individui di un determinato gruppo e Stato significa che «in realtà ogni elemento sociale omogeneo è Stato, in quanto aderisce al suo programma. Ogni cittadino è funzionario”, è attivo della vita sociale nella direzione tracciata dallo Stato-governo, ed è tanto più funzionario” quanto più aderisce al programma statale e lo elabora intelligentemente».

Anche quando, te lo riconosciamo, tu pensi alla classe operaia che tende a farsi Stato, noi abbiamo da obbiettare ancora una volta che quest’immagine pedagogica della lotta di classe non è che l’idealizzazione della pratica politica borghese, dalla rivoluzione francese ai nostri giorni. La classe operaia per diventare Stato proletario ha bisogno del partito come organizzazione distinta e delle forme organizzative “naturali” della classe, e il partito stesso non tanto “educa” la classe, ma la influenza e la spinge sotto la sua guida teorica facendo leva sull’oggettività dei suoi interessi, che non sono pura quantità, ma neppure pura qualità o coscienza. La concezione dei gruppi sociali, delle istituzioni e dei movimenti della società civile come articolazioni politiche interne allo Stato è di matrice hegeliana nell’enunciazione della società civile come “contenuto etico dello Stato”.

Se compito dello Stato borghese è quello di conservare, confermare il suo dominio aumentando il consenso, non solo, ma educando questo consenso, con le associazioni politiche e sindacali, la concezione marxista dello Stato che noi rivendichiamo ha il compito di dimostrare che questi tentativi messi in atto attraverso il controllo degli apparati ideologici sia di forza sia di consenso non possono e non riescono allo scopo proprio perché alla base della società borghese è irrisolto l’antagonismo per portare l’attacco risolutivo alla fortezza statale. Che tu caro Antonio sia stato affascinato dalla concezione hegeliana dello Stato, nel quale le “corporazioni” sono un esempio della politica inserita nell’economia, il principio etico-politico di una statualizzazione immanente alla società civile, è una questione suggestiva per i marxologi ed i filosofi del diritto, ma è una posizione da combattere e da rigettare dal comunismo rivoluzionario, come facemmo e come facciamo.

I partiti e i sindacati della fase imperialistica possono essere presentati dal neo-idealismo di varie tinte in diverse collocazioni nell’ambito della dottrina dello Stato: ebbene, sia l’illusione crociana di qualificare, secondo la tradizione liberale, un gioco democratico, una conflittualità non antagonista da risolvere sempre nella cornice statale, sia l’immagine gentiliana, più congeniale al nazionalismo-fascismo, di considerare queste moderne organizzazioni, o meglio di giustificarle come “trama privata” dello Stato, portano per la concezione marxista alla stessa conclusione: impedire con tutti i mezzi, compresi quelli giuridici, che l’indomabile antagonismo delle classi giunga al suo esito inevitabile e necessario per il proletariato, cioè alla sua dittatura di classe e al suo esercizio.

La nostra dinamica e dialettica dell’antagonismo di fondo tra proletariato e borghesia non è assolutamente assimilabile ai corpi intermedi medievali in rapporto allo Stato assoluto nel processo di formazione dello Stato moderno. Questo per noi non ha mai significato che il partito di classe non abbia il compito di riconoscere l’andamento fenomenico di questo conflitto insanabile, e dunque di prendere atto delle potenti forme non soltanto direttamente violente attraverso le quali il “comitato d’affari” della borghesia riesce a domare o a ricacciare indietro la spinta in certi rari risvolti storici irresistibili verso la sua esplosione verso l’attacco allo Stato. Ma questo in coerenza con l’assunto di fondo, confermato d’altronde oggi su scala mondiale, che la lotta di classe anche quando cova nelle sue ceneri è la chiave di lettura di tutti gli antagonismi più o meno mediati, camuffati, placati, repressi. La concezione etica dello Stato parte dalla convinzione che dovunque c’è e c’è stata società, lì lo Stato o è presente in modo inconscio, o si dispiega nelle sue forme più manifeste e coscienti, come nello Stato moderno della borghesia, identificato proprio nella coscienza assoluta in atto. Ma al di là delle suggestioni filosofiche questa teoria si lega inevitabilmente con la giustificazione molto più prosaica dello stato delle cose in atto, con lo status-quo, con il dominio contingente delle classi dominanti. Tale è la debolezza di base delle riletture neo-idealistiche che tu proponesti e che i tuoi epigoni stiracchiano da ogni parte o facendo dello storicismo più dozzinale, o rivendicando una lettura aggiornata e corretta.

In parole semplici, caro Antonio, era inevitabile che anche le tue impostazioni apparissero “settarie”, poco democratiche perché, nonostante il gradualismo, l’intermedismo, l’idealismo insito nelle tue tesi, la tua passione di rivoluzionario postulava il comunismo, la liberazione dalla soggezione di classe. Ti rimproverammo aspramente, opponendo le nostre classiche tesi, che per quella via che tu indicavi si sarebbe rafforzato il dominio della borghesia, nella fattispecie del fascismo, come forma di governo più aggiornata del capitale, ma non potevamo non prendere atto che quest’illusione era il prezzo per la sconfitta subita dal proletariato occidentale, in qualche modo giustificabile, a condizione che potesse essere smentita e corretta nell’ambito del partito di classe, della sua potente memoria storica e delle intrinseche capacità di battere l’avvilimento con la lucidità mentale e la passione rivoluzionaria. Lo spartiacque che si apriva tra i sostenitori accaniti quali fummo e quali siamo della più completa e definitiva autonomia organizzativa e politica del partito di classe, anche nei confronti delle organizzazioni intermedie della classe, e i ricercatori delle ibride alleanze, anche con le forze già nettamente bocciate dallo scontro di classe, non solo non poteva appianarsi negli anni della controrivoluzione, ma si è innalzato ed è destinato a segnare l’alveo della effettiva ripresa delle possibilità rivoluzionarie del proletariato mondiale.

Sull’onda combattente del proletariato degli anni ’20 le diverse matrici “filosofiche” tue e di Ordine Nuovo potevano convivere nel partito di classe, del resto secondo l’aurea regola marxista che non sono le “idee” a muovere il mondo, ma l’azione e la lotta. Ma, per la verità, venivano tutte da lontano, da una dura lotta di intransigente difesa del marxismo rivoluzionario all’interno del movimento operaio della II Internazionale, per quel che ci riguarda contro tutte le deviazioni gradualistiche, darwinistiche, evoluzionistiche, democraticistiche, idealistiche. E la tua ricostruzione dei modi di formazione del capitalismo in Italia particolarmente dello Stato liberale, non ci hanno mai trovato concordi proprio perché esplicitamente viziati di sociologismo e di idealismo filosofico. Noi partivamo e partiamo dal Manifesto di Marx, che già nel 1848 vede aprirsi la prospettiva della rivoluzione come compito primario ed ineluttabile per il proletariato europeo, nonostante le vittorie e le sconfitte, gli alti e i bassi del secolare scontro. Tu ed i neo-idealisti, proprio per giustificare il rovesciamento della giusta tattica marxista dopo la sconfitta dell’attacco rivoluzionario nel primo dopoguerra mondiale, dovevate andare a cercare pezze d’appoggio di tipo storiografico nella “specifica formazione” del Risorgimento in Italia. Maestro, principe di questa “specifica” lettura era l’odiato-amato don Benedetto, che già nella Storia d’Italia dal 1871 al 1915 aveva ammesso, seppur in chiave apologetica ed ottimistica nel senso dell’espansione dello spirito liberale, che il sentire dello spirito liberale in Italia era stata effettivamente più duro in rapporto agli altri Stati europei. Ebbene, sotto questo alto patrocinio tu non facesti che accentuare in senso pessimistico, naturalmente l’occhio rivolto alle condizioni del proletariato, quest’ammissione, ricostruendo le tendenze autoritarie nelle prove di forza degli ambienti borghesi italiani, agrario-industriale, protetti dal pugno di ferro di Crispi fino al governo militare del generale Pelloux, fino alle scorribande delle squadre fasciste protette dallo Stato liberale.

Ma, il tutto, non per riconoscere che queste peculiari condizioni della formazione dall’alto dell’indipendenza italiana non si erano prodotte in vitro, ma nel bel mezzo dello scontro delle forze capitalistiche in Europa (che, non dimentichiamolo, nell’800 rappresenta ancora il Mondo), non si erano determinate per la sola connaturata viltà degli italiani ma per le mene del già occhiuto capitale inglese e francese. Siamo anche noi attenti alla storia, caro Antonio, e ricordiamo che Caracciolo ed Eleonora Pimentel Fonseca furono impiccati all’albero della nave degli inglesi nel lontano 1799, provocando i ripensamenti di un tuo lontano precorritore, Vincenzo Cuoco. Per questo abbiamo sempre proposto una lettura marxisticamente opposta alla tua, e non ci siamo fatti prendere dal sentimentalistico auspicio di un “nuovo Risorgimento”, di una vera e reale partecipazione delle masse proletarie alla vita dello Stato borghese. Abbiamo anzi letto all’inverso questa eventualità: mano a mano che il capitalismo entra fino al collo nella sua esperienza imperialistica, dal 1870 in poi, le masse proletarie vengono escluse, anche con le tecniche più mistificanti della democrazia e della castrazione controrivoluzionaria, dall’effettiva possibilità di essere soggetto attivo nella formazione nella volontà generale. La preoccupazione delle borghesie europee, non esclusa quella italiana, che inevitabilmente arriva tardi e con mezzi contraddittori, è quella di spuntare le velleità rivoluzionarie del movimento operaio, che, dopo il salasso della Comune di Parigi, una vera sconfitta internazionale, si sta riorganizzando e dimostrando rivolto ad un nuovo assalto nei primi del Novecento.

Da qui la nostra coerente impostazione nei confronti del Primo grande scontro mondiale imperialistico. Quante sbornie caro Antonio in quella tragedia, ricordi? E non erano solo i reazionari a volere la guerra, ma, e quanto accanitamente, le correnti risorgimentali di “sinistra” i repubblicani e i socialisti alla Bissolati e Bonomi da destra, i Mussolini da sinistra, salutarmente espulso dal PSI.

Ecco allora che la ricognizione sul terreno nazionale delle cause della mancata rivoluzione in Italia e in Occidente che tu facevi non poteva trovarci d’accordo nemmeno nel momento dell’analisi, perché le condizioni politiche, statali delle singole aree capitalistiche in Europa noi avevamo imparato a valutarle secondo il metro di misura delle contraddizioni di classe, che non erano già nel 1848 risolvibili a livello nazionale, ma già comportavano la necessità che il proletariato si unisse in organizzazione generale e mondiale. Noi avevamo già letto le caratteristiche del modo di formazione dell’unità in Italia, come del resto quelle della Germania, come l’espressione dello sviluppo ineguale del capitalismo che aveva trovato la sua culla nell’Inghilterra e poi nella Francia. Lo stabilirsi in Italia di un regime liberale “spurio” e tale da far dire a Croce che il “sentire liberale” della destra storica era più duro di quello di altri liberali europei, compreso per noi il famigerato Thiers, non era un motivo per noi di avvilimento per il proletariato in fase di organizzazione.

Abbiamo sempre sostenuto che la lotta economica e politica del proletariato è una palestra per abilitarsi alla conquista del potere e alla sua gestione. Il pugno di ferro di Crispi, le velleitarie imprese coloniali in Eritrea, segno tangibile dell’imperialismo straccione che l’Italia, come potenza ultima arrivata nel concerto europeo, non poteva evitare per stare al passo con i parenti più forti, era per noi atteso: per il raccordo dialettico (non meccanico, lo sappiamo!) con le istituzioni politiche, l’imperialismo è un’epoca che postula per la borghesia la concentrazione delle imprese e del capitale e l’accentramento dello Stato, con conseguente inevitabile militarizzazione, compresa la “democratica e pacifica” Inghilterra. Né ci lasciammo impressionare dalle “concessioni” Giolittiane, peraltro strappate sempre con la lotta, compreso il suffragio universale del 1913: non eravamo “astensionisti” in quel periodo, perché non lo siamo mai stati per un principio estetico, ma lo fummo e intransigentemente nel 1919, dopo l’esplosione della guerra mondiale, dopo la potente spinta che il proletariato mondiale aveva avuto mercé la grande vittoria della Rivoluzione d’Ottobre.

Ecco allora che il piagnisteo sul mancato Risorgimento italiano e l’aspirazione idealistica e patriottarda a farne finalmente uno completo e soddisfacente tutte le classi sociali, era per noi una lettura capovolta della storia, una deviazione ed una diserzione dai compiti storici che si ponevano prepotentemente al proletariato. Eravamo stati i primi a sostenere che i Crispi, i Pelloux, i Giolitti (si, proprio il Giolitti rivalutato dal democratico del Partito Nuovo Palmiro Togliatti) erano stati l’espressione del liberalismo duro all’italiana, l’unico compatibile con la collocazione della penisola nel concerto politico ed economico mondiale del tempo, gli anticipatori della necessità dello Stato borghese di armarsi non solo nell’ambito dello Statuto, ma anche fuori di esso, attraverso le guardie bianche del fascismo. Né fummo tra quelli che sulla base di questa analisi rigorosamente marxista aspettavano fatalisticamente il compimento del dramma: organizzandoci fin dal 1912 perché il vecchio Partito Socialista in balia delle sue correnti, dove irrisolto era lo scontro tra tendenze piccolo-borghesi con la nostra che si richiamava integralmente al marxismo, si assumesse i compiti storici che gli stavano davanti, e sulla spinta e direzione della Sinistra si realizzò la “tardiva” scissione di Livorno in risposta alle direttive di Lenin e dell’Internazionale. Fu sotto la direzione della Sinistra che, contro l’avvilimento della sconfitta sempre più evidente, il proletariato, fiaccato dalle incursioni delle guardie bianche, sempre più nere, e i tradimenti dei dirigenti politici socialdemocratici di varia tinta e dei sindacalisti riformisti, pronti al patteggiamento col nemico, alla pacificazione sociale a tutti i costi e allo spianamento della strada al potere di Mussolini, non rinunciò alle sue capacità di combattimento e di sconfitta con onore, cioè sul campo di battaglia, e non fregato dagli accordi sulla sua testa che lo avrebbero, e lo abbiamo visto, depresso non certamente per breve periodo.

Così si spiega perché i tuoi epigoni e la vergognosa storiografia di accademici della Crusca messa in piedi da quello che doveva essere l’intellettuale collettivo (nelle tue pie intenzioni!), mentre stanno consumando il più totale tradimento al servizio della borghesia vittoriosa su tutti i fronti, velatamente ti accusano oggi di aver subito la direzione della Sinistra, di aver timidamente atteso a prendere l’iniziativa contro il nullismo e la situazione di stallo in cui avrebbe cacciato tale direzione.

Si polemizza con la mancata previsione del “colpo di Stato” fascista da parte della Direzione del P.C.d’Italia, tutta presa dal suo odio nei confronti dei socialtraditori, cullandosi nella illusione che la borghesia si sarebbe liberata dai fascisti non appena raggiunto l’obbiettivo di coinvolgere nella collaborazione di governo i socialdemocratici riluttanti. Ora, il tentativo di coinvolgere i socialdemocratici nella collaborazione di governo da parte della borghesia non era un fatto nuovo e, soprattutto dopo la lezione del noskismo tedesco, un’arma possibile non proprio “democratica”. Che la borghesia italiana in certe sue correnti sognasse di utilizzare i riformisti in funzione antiproletaria, sperando di porre termine al dispiegamento della forza extralegale delle guardie bianche, non contraddice il maneggio delle due possibilità e delle due pratiche. Anzi, diciamo che, nella crisi mortale, è proprio l’attitudine e la capacità di coniugare le due armi che dà alla borghesia la vittoria, e tutto ciò ci sembra tra l’altro contemplato in tutti i manuali da Machiavelli a Clausewitz. Combattere e trattare, trattare e combattere, e non sarebbe questa la grande scoperta dei moderni marxisti creativi! (Mao in testa).

Come si vede più vecchia del cucco. La questione era un’altra. La controrivoluzione consiste nell’illudere il proletariato che si possa tornare al regime quo ante, alla “vita normale”, mentre si batte duramente in testa ad ogni forma di resistenza attiva alla violenza statale e fascista. Non ci interessava né ci interessa la lettura “sentimentale” secondo la quale forse sinceramente i Croce e i Giolitti sognavano di poter “condizionare” il fascismo, di fare rientrare in caserma l’esercito, di ripristinare la prassi costituzionale e legale. Mentre noi dicemmo e diciamo che il fascismo «non è che un altro aspetto della violenza statale borghese contrapposta alla statale violenze rivoluzionaria del proletariato» (A. Bordiga, “Come matura il Noskismo”, L’Ordine Nuovo, Torino, 20 luglio 1921).

Attendiamo ancora la spiegazione “più articolata” del fenomeno fascista. Si è finalmente scoperta la sua teoria autonoma dello Stato e della società, cioè una teoria che non rientrerebbe nei quadri del liberalismo tradizionale, o comunque nella teoria dello Stato che la borghesia si è approntata nel corso del suo sviluppo? Non ci risulta che la riflessione dei tuoi epigoni sia andata oltre alle intenzioni, o alla grande trovata degna del signor Duhring di cercare nell’accesso di violenza, nella violenza demonizzata o divinizzata, nella barbarie e via seguitando, il segreto del fascismo. Un po’ poco, per dei “razionali” e “disinteressati” giudicatori di storia, non ti sembra?

Scandalizzò e scandalizza ancora la nostra tesi che anche il fascismo è una forma di socialdemocrazia poiché mira alla Costituente del Lavoro (e la realizza!) perché teorizza la pacificazione tra le classi antagonistiche e la realizza, “relativamente”, con la forza.
 
 

IL NOSTRO PARLAMENTARISMO RIVOLUZIONARIO

Ti diamo atto, caro Antonio, che durante la formazione del “nuovo gruppo dirigente” nell’ambito del Partito Comunista d’Italia fosti restio a subire le pressioni del partito russo d’entrare nell’esecutivo per “controbilanciare” l’influenza di Amadeo e per prenderne il posto: «risposi – scrivesti da Vienna a Scoccimarro e Togliatti il 1° marzo 1924 – che non volevo prestarmi a intrighi di tal natura, che se si voleva una diversa direzione si ponesse la questione politica». Questa era la correttezza e la lealtà nella vita di partito, che rivendichiamo e ti riconosciamo, contro la prassi in seguito instaurata, fatta di metodi di delazione e di terrorismo ideologico.

La Sinistra da parte sua non rinunciò mai a misurare l’evoluzione della lotta di classe in Italia e nel Mondo secondo il metro di misura della teoria marxista. Aveva svolto la sua parte nella scissione, si era disciplinata alla dialettica di Lenin nella questione parlamentare, ma senza rinunciare a proporre sue distinte tesi. Non c’è dubbio che la correttezza e la validità di esse potevano essere misurate ancora una volta nella pratica, compresa quella dell’uso rivoluzionario della partecipazione alle elezioni, dell’uso rivoluzionario del Parlamento, contro il “cretinismo”.

Scrivemmo: «Non sarebbe nemmeno concepibile che i membri del Partito Comunista abbiano una attitudine pratica in favore dell’astensione. E non è soltanto una questione di disciplina di Partito. Basta pensare che l’opinione di diversi compagni che si pronunciarono nel 1919-20 per la tattica astensionista non aveva il senso che come proposta fatta all’Internazionale e non era applicabile che da essa, sulla base di deliberazioni precise e alla scala dei diversi paesi. Nessuno di noi mise in dubbio nel 1921 che il Partito Comunista, appoggiandosi alle decisioni del II Congresso dell’Internazionale, dovesse intervenire allora nella campagna elettorale» (Stato Operaio, 28 febbraio 1924).

Pluralisti, democratici ante litteram, come amano definirsi i tuoi epigoni oggi? Tutt’altro, comunisti che praticano e fanno sforzi a che il partito pratichi il centralismo organico ed una disciplina vera nei comportamenti. Non avevamo mai fatto professione di antielettoralismo di principio. «Non ha senso riaprire il dibattito su questa questione per sapere se le tesi astensionistiche sono ancora teoricamente presentabili. Queste tesi insistevano su due ordini di fatti: una situazione internazionale preludente ad una offensiva del proletariato, e un regime di larga democrazia in vigore in un gruppo importante di paesi. Ciascuno sa bene che sul piano internazionale, come nella politica italiana, queste condizioni si sono non diciamo arrovesciate, ma modificate in rapporto a quelle da cui partivano le nostre premesse. Certamente le nostre tesi astensioniste non avevano un puro valore contingente, ma è con ragione che il compagno Grieco ha mostrato che oggi non esistono più i pericoli che gli astensionisti vedevano nel 1919, allorché Nitti riuscì a scongiurare la tempesta rivoluzionaria grazie alla diversione elettorale offerta al partito socialista».

Dimostrando ancora una volta la nostra disciplina nei fatti piuttosto che nelle intenzioni come arma contro ogni soggettivismo anti-materialistico fummo così, caro Antonio, gli unici a tentare un uso rivoluzionario del parlamento, secondo le direttive dell’Internazionale.

Nelle nostre tesi di Lione (III, Questioni italiane), quando facemmo un bilancio della vita del Partito in una svolta cruciale che doveva essere fatale per la possibilità stessa di continuare ad essere insieme comunisti militanti, proprio in relazione alla questione delle elezioni potevamo dire: «La partecipazione alle elezioni del 1924 fu atto politico felicissimo, ma non così può dirsi della proposta d’azione comune fatta dapprima ai partiti socialisti, e dell’etichetta di unità proletaria” che ha preso, come fu deplorevole la tolleranza eccessiva di certe manovre elettorali dei Terzini. Più gravi problemi si posero a proposito della crisi manifestatasi con l’eccidio di Matteotti. La politica della Centrale (nuovo gruppo dirigente) poggiò sull’assurda interpretazione che l’indebolimento del fascismo avrebbe messo in moto prima le classi medie, poi il proletariato. Ciò significa da una parte sfiducia nella capacità classista del proletariato, rimasta vigile anche sotto la soffocazione delle armi fasciste, e sopra valutazione dell’iniziativa delle classi medie». Come vedi, caro Antonio, niente di astioso nelle nostre tesi, ma una preveggente valutazione degli errori che si commettono quando si deborda dall’analisi di classe. Oggi a proposito di antifascismo, i tuoi epigoni, non solo sottostimano la classe proletaria, ma fanno della sopravalutazione delle classi medie il perno della loro politica e dei loro tentennamenti in modo esclusivo.

«A parte la chiarezza delle posizioni teoriche marxiste al riguardo, l’insegnamento centrale dell’esperienza italiana è quello che dimostra come i ceti intermedi si lasciano spostare e si accodano passivamente al più forte: nel 1919-20 al proletariato; nel 1921-22-23 al fascismo; dopo un periodo di emozione chiassosa el importante nel 1924-25, oggi nuovamente al fascismo».

E ancora oggi 1978 il fascismo, che doveva essere morto con la “guerra di liberazione”, è più vivo di prima!

Ma la prova che, abbandonata la chiarezza delle posizioni marxiste, anche le lezioni delle grandi battaglie combattute nella Internazionale non venivano coerentemente tratte si ebbe nella questione dell’Aventino. «La Centrale errò nell’abbandono del parlamento e nella partecipazione alle prime riunioni dell’Aventino, mentre avrebbe dovuto restare in parlamento con una dichiarazione di attacco politico al governo ed una presa di posizione immediata anche contro la pregiudiziale costituzionale e morale dell’Aventino, che rappresentò il determinante effettivo dell’esito della crisi a favore del fascismo».

L’errore fu dunque fondamentale e decisivo per apprezzare le capacità d’un gruppo dirigente. «La rientrata nel parlamento nel novembre 1924 e la dichiarazione di Repossi (della Sinistra, n.d.r.) furono benefiche, come lo dimostrò l’ondata di consenso proletario, ma troppo tardive. La Centrale oscillò lungamente e si decise solo per la pressione del partito e della Sinistra. La preparazione del partito fu fatta sulla base di istruzioni incolori e di un apprezzamento fantasticamente erroneo delle prospettive della situazione (relazione Gramsci al Comitato Centrale, Agosto 1924). La preparazione delle masse, indirizzata non alla visione del crollo dell’Aventino, ma a quella della sua vittoria, fu ad ogni effetto la peggiore attraverso la proposta del partito alle opposizioni di costituirsi in Anti-parlamento. Questa tattica anzitutto esulava dalle decisioni dell’Internazionale, che mai contemplarono proposte a partiti nettamente borghesi; di più, essa era di quelle che portano fuori dal campo dei principi e della politica comunista, come da quello della concezione storica marxista. Indipendentemente da ogni spiegazione che la Centrale poteva tentare di dare sui fini e sulle intenzioni, che avrebbe sempre avuto limitatissima ripercussione, è certo che questa presentava alle masse l’illusione di un Anti-Stato opposto e guerreggiante contro l’apparato statale tradizionale, mentre, secondo le prospettive storiche del nostro programma, sola base di un Anti-Stato potrà essere la rappresentanza della sola classe produttrice, ossia il Soviet. La parola d’ordine dell’Anti-parlamento, poggiante nel Paese sui comitati operai e contadini, significava affidare lo stato maggiore del proletariato ad esponenti di gruppi sociali capitalistici, come Amendola, Agnelli, Albertini, ecc.» (Tesi di Lione, III - Questioni Italiane).

Dunque, caro Antonio, non eravamo noi i senza disciplina, i settari. Le nostre tesi, presentate ogni volta che ci sembrò necessario fare delle proposte, ebbero sempre il senso appunto di proposte fatte all’Internazionale, e quando l’Internazionale le respinse, proprio perché non deliberate dal partito mondiale, rimasero monito e richiamo, ma mai comportamento opposto alle decisioni ufficiali. Che la nostra attitudine indiscussa alla disciplina nei fatti non fosse un alibi alle nostre intenzioni è provato dalla tenace battaglia contro la degenerazione del partito russo che tu stesso, tardivamente, coglievi, seppure senza centrarne i motivi e le cause. La tua famosa lettera del 14 luglio 1926 spedita a Togliatti, che rappresentava a Mosca il partito italiano è diventata oggetto di accademia per i tuoi epigoni che vanno a trovare pezze d’appoggio alla originaria via italiana al socialismo contro le mene nel partito russo sotto il tallone di Stalin. Riconoscendo giusta la linea politica della maggioranza del P.C.U.S., deploravi il tipo di opposizione che contro di essa veniva condotta da Zinoviev, Kamenev e Trotski, e formulavi l’augurio che la maggioranza evitasse di “stravincere” e nella lotta in corso prendesse misure eccessive contro i capi dell’opposizione. Ciò sempre allo scopo di assicurare quell’unità e disciplina al partito che governava lo “Stato operaio” ma «che non possono essere meccaniche e coatte, ma leali e di convinzione».

Anche in questa occasione non possiamo negarti la sincera passione per il partito e per la sua unità. Certamente nel partito italiano noi “oppositori” non avevamo subito pressioni e coazioni meccaniche da parte tua e del nuovo gruppo dirigente, ma questo non ci impedì né ci impedisce di denunciare che, anche se in forma tutta “italiana”, stavano saltando le regole interne di vita di partito secondo la concezione del centralismo organico, che tu considerasti degno di chiese e non di un partito “laico”.

Veniva reclamata da te la tesi del centralismo democratico, secondo un gioco, di maggioranza che governa e opposizione che critica, che nulla doveva avere a che vedere con un partito comunista aderente all’Internazionale, dopo le lezioni dei partiti di II Internazionale usciti battuti dalla superiore forma organizzativa e politica e dalla pratica del Comintern. Avesti preoccupazione di non “stravincere” anche contro noi, dando prova di quello “umanismo” implicito nella tua sincera passione rivoluzionaria, ma ti sfuggirono i termini e la portata della questione.

Saremmo giunti al Congresso di Lione in condizioni di vita di partito che, prima ancora di risentire del clima di precarietà e di difficoltà estreme determinate dalle pressioni del fascismo, risentiva della mancanza di conoscenza tra i militanti dei termini reali della battaglia che si stava concludendo. La Sinistra non rinunciò ancora alla presentazione delle sue distinte tesi, ormai isolata, sebbene non stravinta. Aveva trionfato il metodo democratico, vittorioso a Mosca e in Italia, e nonostante il riconoscimento leale da parte tua della correttezza e lealtà della Sinistra nella difesa della dottrina e del programma comunista, forze superiori alla tua volontà e alla nostra trionfarono aprendo un’era buia per il movimento operaio e d’indicibili sofferenze per la tua persona.
 
 
 

IL PARTITO COMUNISTA È UNICO E INDIVISIBILE

Non ci furono certo indifferenti i tuoi patimenti in carcere, anche quando l’ormai degenerato P.C.I., a spasso a zig-zag secondo gli ukase staliniani “frigidamente” eseguiti da Palmiro, aveva il cattivo gusto di seminare tra i proletari l’immagine di una Sinistra Comunista asservita all’OVRA fascista e il suo più illustre compagno dedito a “ingegneresche” edificazioni, buttato al macero, secondo il P.C.I., ogni sogno ed entusiasmo comunista. Non sarebbe necessario darti notizia che perfino gli istoriografi ufficiali del partito del tradimento hanno fatto giustizia della presunta attitudine naturale alla delazione dei settari della Sinistra, se non servisse a ricordare a tutti i proletari che i “machiavellismi” già da te severamente riprovati hanno avuto allora il perfido scopo di inquinare e terrorizzare, portare lo scompiglio e la diffidenza nella classe operaia, facendo leva sulla menzogna e sull’inganno.

Il nostro dolore per la tua distruzione in carcere fu tanto più vero perché la Sinistra non ebbe mai a tentare una facile strumentalizzazione della tua milizia comunista contro le manovre ignobili degli staliniani. Questi, già dalla tua famosa lettera a Mosca del 1926 contro le lotte intestine del Politburo russo, mai evasa in forma decente e utile per la causa comunista e per la corretta impostazione della vita di partito nella organizzazione mondiale e nelle sezioni nazionali, avevano dimostrato la loro attitudine a infangare e stravolgere quanto di più prezioso era stato realizzato negli anni più duri della lotta contro democrazia e fascismo in combutta.

Al congresso di Lione, durante il quale, nonostante il tuo nobile riconoscimento della difesa operata coerentemente e costantemente dalla Sinistra della dottrina comunista, si maturò l’abbandono del giusto metodo di conduzione del partito. Sotto il peso schiacciante della vittoria del fascismo e dello Stato borghese si erano consumati gli ultimi residui tentativi di resistere in forma ordinata alla pressione borghese, che ormai stava conquistando non solo vittorie sul campo della repressione, ma soprattutto strappando alla classe operaia il suo partito mondiale, penetrando nel suo interno per la via del tradimento operato dall’opportunismo staliniano.

Intuisti da par tuo il pericolo mortale, ma non avesti il tempo e la forza di leggere gli eventi con la lucidità della mente, tradito tu stesso dall’ottimismo della volontà, sacrosanto e giusto, ma insufficiente a salvare l’essenziale.

Nella tua prigione avesti a subire le incomprensioni dei tuoi stessi “devoti” compagni; fuori la manipolazione della tua volontà e del tuo insegnamento; ma non certamente della Sinistra, che stava subendo l’isolamento delle sue residue forze.

Il proletario stava ormai raccogliendo i marci frutti del “dialogo” con le frazioni borghesi inaugurato surrettiziamente e contro la nostra volontà dalla stessa I.C. per realizzare il “fronte unico politico”, quel dialogo con la socialdemocrazia che si voleva allo scopo di distruggerne l’influenza su la gran parte degli operai. Non c’è dubbio che a quel tempo i massimi dirigenti della I.C., e tu stesso, credevano possibile di smascherare le socialdemocrazie di varia gradazione attraverso il dibattito aperto, dimostrando agli operai la loro malafede e la loro attitudine a cedere al nemico di classe.

È per questo che la Sinistra combatté la dura battaglia, apparentemente filologica, per la definizione corretta della natura del partito di classe, fino alla elaborazione della nozione del centralismo organico contro ogni forma di democrazia interna ed esterna. Ti apparimmo talmudici e chiesastici, proprio a te che avevi identificato il partito con il moderno Principe capace di emancipare il proletariato materialmente e moralmente. Noi, molto più modestamente, contro ogni sovrastruttura neo-idealistica, eravamo intenti a fare del partito uno strumento di lotta efficiente ed impermeabile, acuminato come un’arma che avremmo molto volentieri gettato nei robivecchi della storia, ma solo dopo il perseguimento del nostro fine politico.

Diffidammo di ogni dialogo e di ogni frequentazione anche personale con forze politiche estranee al proletariato o falsamente vicine (ricordi i tuoi entusiasmi per Gobetti?) perché prevedevamo quello che a te sfuggiva: una volta ammessa la democrazia come metodo interno di vita di partito, sarebbe stato necessario ammettere la democrazia come valore universale, sopra le parti e le contraddizioni di classe. È quello che hanno inteso i tuoi indegni epigoni, se già il frigido Palmiro poteva suscitare l’entusiasmo delle masse, del “popolo”, per il “partito nuovo”, non più da tempo partito della classe operaia, ma partito nazionale, che avrebbe dovuto limitarsi a conquistare l’egemonia attraverso il dibattito, la cultura, il gioco schedaiolo.

E che dire degli sbracati dei nostri disgraziati anni che dal sempre più sfrontato sodalizio con lo Stato borghese hanno scoperto una verità opposta al tuo partito ideologico, la verità del partito “aperto”, possibilmente governato dalla maggioranza e pungolato nel suo interno dall’opposizione, secondo le canoniche norme della democrazia borghese. Ed allora la tua paternità comincia ad essere scomoda; da qui il processo di canonizzazione.

Non ti sia d’impaccio la tua difesa da questi masnadieri da parte di chi ebbe da te sferzanti e franche staffilate: non ambimmo a “strumentalizzarti” allora, figuriamoci oggi. Fosti un grande combattente, e questi sono dei furfanti. Lo dobbiamo fare per una ragione di generosità rivoluzionaria, indipendentemente dalla necessità di riaffermarti le nostre tesi di allora e di oggi.

Il partito della classe operaia dell’epoca imperialistica non dialoga con nessuno, né con le socialdemocrazie né con i partiti borghesi: la sua direzione è unica e chiusa, contro facili aggregazioni o sentimentalismi “familistici” tra parenti e affini. La sua sostanza è la tradizione rivoluzionaria tutta intera, nelle sconfitte, nelle vittorie, scolpite in norme di comportamento interne ed esterne che valgono pertanto per tutti, centro e periferia, scritte a caratteri cubitali, prima ancora che nelle tesi e nei bilanci di oltre 100 anni di vita rivoluzionaria, nell’urgenza della difesa della classe operaia, avvilita e vilipesa da 50 anni di controrivoluzione. Il partito unico della rivoluzione comunista non teme di rimanere solo a rivendicare tutto della tradizione, e saluterà come un momento di liberazione per il proletariato quello in cui, cadute le illusioni di socialismi nazionali, figli dell’eresia di quello “in un solo paese”, i falsi partiti comunisti e socialisti decideranno, come sembra, di tagliare ogni ponte con il marxismo e con Lenin per essere meglio accolti nel gran seno della Santa Madre Democrazia.

Ma sappiamo anche che questo cordone ombelicale fa troppo comodo per le diverse congiunture, e che dobbiamo smascherare ogni sia pur tenue tentativo di richiamarsi da parte di costoro alla teoria marxista e al grande ideale del comunismo. D’altronde, nella vergognosa cagnara ideologica tra il vecchio troncone socialdemocratico e la feccia staliniana a proposito di Marx e di Lenin, non c’è forse il gioco delle parti di sconci giullari del Capitale che civettano con la tradizione del movimento operaio e dei suoi sacrifici per illuderlo sulla possibilità, da noi ferocemente combattuta, di arricchire, superare, rivedere la dottrina e la teoria rivoluzionaria?

Se è vero, come avemmo a dire, rivelandoci facili profeti, che il socialismo russo sarebbe stato smentito dai suoi stessi “edificatori”, affermando che soltanto lo smascheramento della colossale illusione avrebbe aperto gli occhi alla classe operaia di tutti i paesi, mai pensammo di dire che questa operazione si sarebbe verificata a base di litanie e di moralismi. Sarebbero stati ancora una volta i “duri fatti” a costringere l’opportunismo stesso a mettere il silenziatore alla grancassa del mito russo, a rivedere l’immagine del bel paese da loro stessi costruita, a rimuovere le carogne dal mausoleo, a promettere una terza via, nuova, più radiosa, felice, esaltante. È per questo che mentre registriamo le incredibili acrobazie dei tuoi epigoni nel giocare di diplomazia con i padroni del Cremlino alle spalle del povero proletariato duramente provato dalla crisi economica profonda e dagli inganni, e mentre ci auguriamo che finalmente siano costretti a calare la maschera nel rifiuto completo e integrale della teoria marxista, siamo troppo esperti per illuderci che i giocolieri sull’abisso vomitino tutta in blocco una dottrina che non hanno mai digerito, piuttosto che, come sono abituati, a pezzi e bocconi, ancorché a conati sempre più violenti.

Ancora una volta, e ne siamo per fede convinti, saranno i duri fatti della crisi mondiale del capitale a far cadere la maschera appiccicata con cura. Ma, come già nell’agosto 1914, ci preoccupiamo e lavoriamo per non essere ancora una volta in ritardo, perché la tragedia non si consumi ancora sulla pelle della classe operaia e degli sfruttati di tutto il mondo. Per questo la difesa della tua sincerità di rivoluzionario contro i tuoi affossatori non avrà in alcun modo la funzione del nostro civettare con i soliti probabili tuoi estimatori residui, professori o piccolo-borghesi, ma quello di richiamare alla memoria del proletariato mondiale l’eco di lotte e di sacrifici che nella loro crudezza ci videro lucidamente compagni e tenacemente in grado di combattere per la comune causa senza mai indulgere alla confusione teorica, al “pluralismo” o alla “democrazia”. Te lo dicemmo francamente ieri: siamo i soli oggi a riconoscerti come compagno per la rivoluzione, per la tua fede sincera, non per le tue idee!