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Si
è tenuta recentemente a Roma, indetta dal Governo, la
“Conferenza
nazionale dell’Emigrazione” nella quale i grandi mandarini
sindacali si sono alternati alla tribuna a preti e a ministri.
L’opportunismo ha ancora una volta confermato la sua totale sottomissione allo Stato borghese. Il grande partito “comunista e nazionale” infatti, non difende gli interessi degli emigranti in quanto proletari, potenzialmente fratelli degli sfruttati del mondo intero e per natura opposti al fronte internazionale del capitale, ma come “italiani all’estero”, cittadini italiani che si pretende lo Stato italiano protegga. Questo è pieno tradimento della impostazione comunista.
È tanto più confermato con lo sviluppo del regime capitalistico che l’attrezzaggio statale, mettendo in ombra gli altri apparati del dominio borghese, parlamento, potere giudiziario, singoli possessori di capitale, si erge sempre più ad ingombrante protagonista di tutti i momenti della vita sociale (non ti accorgi, romantico sognatore piccolo-borghese di coartare libertà, che con l’”anagrafe tributaria” lo Stato ti conta anche gli spiccioli in tasca?). L’opportunismo, pur blaterando di demagogiche e reazionarie nell’attuale regime “partecipazioni dal basso”, che ad un’analisi attenta si dimostrano di complemento e non di ostacolo allo strapotere statale, sempre si inchina davanti alla “ragion di Stato”. Per esso, esattamente come nella ideologia fascista, la ragion di Stato è la sintesi, superiore, delle varie “ragioni di classe”. Lo Stato è di tutti. I rivoluzionari marxisti non richiedono allo Stato di fare, dire o proteggere alcunché: ormai soltanto alla classe operaia spetta di “fare”.
Nel caso degli emigrati, i proletari d’Italia, come merce forza-lavoro, appartengono allo Stato della borghesia italiana: è l’Abc della nostra dottrina; lo Stato disponendo di questa merce in soprannumero, può anche esportarla, come qualunque altra; gli accordi bilaterali sul reclutamento dei lavoratori per l’estero, del resto, sono redatti sul modello di normali convenzioni commerciali. Sì, lo Stato protegge la sua merce da spedire ben stivata nei treni internazionali.
Non solo quindi si identifica per rinnegato il falso comunista che confidi nella paterna influenza statale, ma anche i proletari all’estero non possono attendersi che una conferma della loro oppressione dalle premure di consolati e associazioni assistenziali.
Anche la condizione di insicurezza, di segregazione, di lontananza forzata ed artificiale dalle famiglie, torna utile sia al capitale ospitante, sia alla borghesia esportatrice che resta così assicurata delle rimesse monetarie e della vita stessa dei propri operai: nell’Italia meridionale, nel 1968, più di un terzo delle partite attive provenne dalle rimesse degli emigranti.
Ma i rinnegati nostrani, non diversi dagli altri, parlano del “prestigio dell’Italia, dell’autorità internazionale del nostro paese della quale le comunità all’estero sono tra le più valide rappresentanti presso gli altri popoli”. Lo sappiamo, a voi interessa l’Italia, che faccia bella mostra di sé sul mercato, in concorrenza con gli altri paesi esportatori di braccia.
“Come si può negare – insinuerà lo stalinista resistenziale e patriottardo – che esistano reali differenze nazionali, di razza, di abitudini anche fra lavoratori; è necessaria una tattica differenziata, che si rispetti il patrimonio culturale degli emigrati”. Si dimentica che ormai la produzione, i commerci, la stessa vita sociale nei paesi più capitalisticamente sviluppati non è più regolata sul metro della nazione: queste, con i loro molteplici elementi prodotti dalla storia dei secoli passati, hanno costituito la base materiale su cui il capitalismo agli albori ha costruito dapprima sì i suoi mercati, ma anche i suoi Stati; oggi sono quest’ultimi che disciplinano la produzione. I confini del mercato coincidono con i confini amministrativi dello Stato e non con i limiti degli insediamenti etnici. Gli uomini sono catalogati all’anagrafe secondo cittadinanza e non per razza. Le guerre le fanno gli Stati borghesi, non più le nazioni, e per scopi statali di ripartizione delle zone di influenza, tanto che ogni guerra sono più le nazioni ed i popoli che divide e baratta al tavolo della pace di quelli che riesce a sistemare nel “legittimo” paese.
Per il proletario all’estero, l’essere cittadino italiano (e lo stesso evidentemente vale per spagnoli, irlandesi e per chiunque i capricci del capitale internazionale costringa ad espatriare), la lingua, la “cultura nazionale” che pretendono si porti dietro, non è che una doppia catena che mantiene la divisione dai compagni stranieri: i proletari non hanno scritto al proprio nome nei registri del paese in cui sono nati né terra, né cose, né interessi da difendere, non hanno né patria, né cittadinanza, né cultura. La cittadinanza per essi, non per i borghesi, è un rapporto a senso unico: obbligo al lavoro, obbligo ad andare in guerra, obbligo a votare anche (già, ora vogliono che “votino”, suprema beffa, anche gli emigranti). Per i borghesi patria significa comode e ben retribuite sinecure statali, scuole ove oziare ed imparare a fregare gli operai, eserciti di avvocati e poliziotti votati alla difesa della sacra proprietà privata; per i proletari solo piombo ogni qualvolta si azzardino ad alzare la testa.
È sacrosanta, e la facciamo nostra, la frase che circola fra gli operai in Svizzera: “ogni lavoratore è un lavoratore straniero”, in sintonia, a più di un secolo, col nostro: gli operai non hanno patria, non si può togliere loro quello che non hanno.
Ma se il proletariato è per sua essenza sempre straniero, alla terra dove abita, alla società in cui vive, al suo stesso quotidiano e spossante lavoro, individualmente in concorrenza anche con chi è nelle sue stesse condizioni, come può sperare, ultima classe della società di opporsi o almeno difendersi dall’oppressione borghese? Il nostro materialismo dialettico ha già dato la sua risposta: il proletariato o è rivoluzionario o non è nulla. Ove i borghesi vedono solo nazioni, il marxismo scopre le classi attrici di storia: la classe operaia può manifestare il suo peso e la sua forza non in quanto permei e si confonda in bastarde categorie interclassiste, ma è classe solo quando si muove come tale, cioè è organizzata in strutture solo ad essa proprie e si impegna per obiettivi suoi esclusivi. È classe rivoluzionaria e cosciente solo quando è diretta dal suo partito. Invitare i lavoratori, come fa il PCI, ad una “partecipazione degli emigrati italiani alla vita degli enti locali, a democratizzare i comitati consolari o per la gestione sociale delle scuole all’estero”, significa appunto declassare il proletariato.
Inutile è anche invocare la partecipazione ai sindacati locali se non si rileva che in Svizzera, come altrove, la centrale sindacale, oltre a farsi complice col capitale nell’opera di emarginazione dei lavoratori stranieri, ha alle sue spalle una lunga tradizione di collaborazione col padronato. Ne è una prova il recente rinnovo dell’accordo capestro detto “pace del lavoro”, in vigore in Svizzera fin dal 1937, col quale l’Unione Sindacale Svizzera si impegna preventivamente a non organizzare alcun sciopero, nemmeno in questo periodo di attacco padronale a salari e ad occupazione, ed a reprimere eventuali moti spontanei operai: “Art. 2 - le parti si impegnano a mantenere in modo assoluto la pace del lavoro e a farla rispettare dai loro membri. È esclusa ogni misura di lotta (...) Questa pace assoluta del lavoro vale anche sul piano individuale”. Questo è il linguaggio non di rappresentanti operai, è l’economia, il capitale nazionale che parla travestito da opportunista.
Il primo passo della ripresa del movimento operaio sarà segnato – con lo smascheramento di questi traditori – da un obiettivo ed inevitabile entrare in contraddizione del moto e del bisogno proletario con il “progresso”, la “pace”, il “benessere” cosiddetti generali. Allora necessiterà alla crescita del movimento anche alla dottrina autonoma del suo partito di classe.