Partito Comunista Internazionale Indice - Numero precedente - Numero successivo
"Il Partito Comunista"   n° 303 - febbbrio-marzo 2004 [.pdf]
PAGINA 1 Europa borghese fogna di reazione e impotenza.
Perché non siamo anti-americani né anti-israeliani.
– I volantini che i nostri compagni hanno distribuito fra i lavoratori in lotta:
       28 gennaio 2004 - Gli autoferrotranvieri scioperano per tutti i lavoratori.
Importanti lezioni e riscontri.
PAGINA 2 –  Riunione di partito a Firenze - 23-25 gennaio [RG88].
   Guerra e preistoria - Violenza e lotta di classe - Storia e sviluppo del Brasile - Storia 
        dell’Iraq moderno - La storia italica nel suo specchio ideologico: il «Secondo Risorgimento» 
        - Origine dei sindacati in Italia - Antimilitarismo e movimento operaio in Italia.
PAGINA 3 Disamina e bilancio dello sciopero dei tranvieri.
Velo islamico e berretto frigio.
PAGINA 4 In sciopero i lavoratori dei supermercati in California.
Vox populi
Notiziario
AVVISO: Per far posto ai tranvieri siamo costretti a rimandare ancora al prossimo numero la prosecuzione della serie sull’Algeria.

 
 
 
 
 
 
 
 
 

PAGINA 1


Europa borghese fogna di reazione e impotenza

Qualche anno fa, sul nostro giornale, giudicammo l’Europa Unita sempre più reazionaria, sempre più impossibile, scartando come utopica la possibilità che si potesse unificare non partendo da un’imposizione di una politica comune, ma solo attraverso una moneta unica.

In un numero recente della nostra rivista individuavamo che uno dei principali scopi degli Stati Uniti con l’ultima guerra in Irak era fare saltare l’Europa a gambe all’aria, costringendola a spaccarsi sulla realtà della divergenza di interessi fra i vari Stati. In questo dicembre 2003 l’obiettivo americano è riuscito con il fallimento completo della ratifica della Costituzione Europea, come era già riuscito quello di far saltare la credibilità internazionale dell’ONU. Dell’Europa Unita ci si ricorderà, fra qualche decennio, come un semplice organo per il libero scambio delle merci fra i paesi europei e come una zona a moneta unica.

Francia e Germania sono sempre più in ginocchio per la recessione economica, per la strategia americana in Medio Oriente ed in Asia Centrale, per il problema delle esportazioni a causa di un Euro in costante rafforzamento rispetto al Dollaro, per la incapacità di espletare una politica estera degna di questo nome, per la situazione internazionale mutata bruscamente negli ultimi anni. Per tutto ciò hanno dovuto comprendere che per affrontare e difendere i propri interessi vitali dovevano liberarsi delle pastoie burocratiche dell’Unione Europea, vera e propria zavorra ad ogni indirizzo politico tendente ad una loro “proiezione di potenza”.

Nodo cruciale nel dibattito sulla Costituzione era, fra le altre cose, la possibilità che in essa venissero subordinate le politiche nazionali ad una politica unica europea. Era l’unico punto che avrebbe potuto dare speranza a Francia e Germania che questa Unione servisse veramente a qualche cosa ed in particolare modo ai propri specifici interessi (si ricordi che la sola Germania rappresenta 1/3 dell’economia dell’U.E.).

Come da copione, tre fra i paesi più filo-americani dell’Unione – Italia, Spagna e Polonia – hanno “tenuto duro”, come richiesto dalla Casa Bianca, negando ogni indebolimento delle politiche nazionali davanti alle decisioni di Strasburgo e Bruxelles. Fra l’asse franco-tedesco e gli USA, Spagna e Polonia hanno ormai da diversi mesi scelto l’appoggio agli interessi americani (ben delineatosi con la partecipazione militare alla guerra in Irak), mentre l’Italietta ha ovviamente preferito, more solito, mantenere il piede in due scarpe, ma con attuale preferenza per il colosso americano. Tutto si è così concluso con un nulla di fatto ed un’ammissione da parte di quasi tutti i partecipanti del fallimento completo. Della questione Costituzione, si è detto, non se ne parlerà più per un bel po’ di tempo.

“Il bicchiere è vuoto”, ha dichiarato Prodi alla fine del summit, mentre il degno rappresentante dell’italica borghesia, Berlusconi, esultava contento di avere offerto tutto il deretano agli interessi americani. Dopo qualche giorno il Berlusca, in televisione, proclamava che la causa dell’attuale crisi sociale ed economica in Italia è l’Euro.

I grandi progetti europei di politiche unitarie sono così naufragati prima ancora che cominciasse l’avventura in mare e le velleità di fare la storia attraverso studi scrupolosissimi sul rispetto del Patto di stabilità o sui controlli su ogni singola voce di bilancio degli Stati partecipanti si sono rivelate esercizi inutili di una borghesia ultraparassitaria.

Nelle epoche rivoluzionarie la borghesia faceva la storia con i generali. Ora la vorrebbe fare solo con la banca di emissione. Si pretende di sciogliere il classico nodo non con le spade ma con le gocce di lubrificante di estenuanti discussioni e di piccoli compromessi su deficit, Pil e tutto il resto. Difficile poter credere che un mulino parlamentare di parole come quello europeo – composto di cortigiani di seconda mano, seppure superpagati – sia in grado di affrontare la questione, inveterata nella storia e nella economia, di un continente così tormentato, in cui ogni paese, grande o piccolissimo, ha i propri particolari interessi, lingua e lobbies di ladroni. Come potersi aspettare ribaltamenti storici dall’aula di Strasburgo – che si riunisce appena 60 giorni all’anno! – ove si proclamano grandi piattaforme ideali, ma che si concretano solo in meschine infinite discussione e compromessi fra ogni Stato su ogni virgola di ogni singolo problema.

Non possiamo esimerci da constatare, inoltre, come i potenti protagonisti dell’economia mondiale siano costretti a ripetere gli errori del passato. Un tentativo di creazione di un’unione europea, infatti, si espresse, più o meno nello stesso modo, fra il 1929 e il 1931.

Il 29 settembre 1929 era stato presentato ai vari Stati europei il “progetto Briand”, che con i metodi della diplomazia si poneva il problema della costituzione di “una organizzazione di un regime di unione federale europea”. Nel 1930 fu costituita una apposita commissione di studio per l’Unione Europea. In breve tempo non se ne seppe più nulla. Rimase alla fin fine «un sistema di preferenze doganali che gli Stati d’Europa avrebbero dovuto istituire nei rapporti di scambio tra loro; un sistema, dunque, rivolto contro i paesi extraeuropei, sostanzialmente contro gli Stati Uniti d’America» (F. Guarneri, “Battaglie economiche”, 1953).

Questo tentativo fallì perché è oggettivamente impossibile aprire la via a tali salti storici senza l’uso della forza: borghesemente, senza un Napoleone, o un Hitler, per intenderci.

Infatti, appena la crisi del ’29 fece sentire i suoi effetti, il “progetto Briand” fu messo da parte e ogni Stato cominciò a giocare sul piano dei propri interessi specifici. Anche la Germania abbandonò tale politica velleitaria: «La Germania non poteva assecondare disegni intesi a consolidare una situazione europea che considerava iniqua e dalla quale tendeva a liberarsi».

Siamo ovviamente convinti che non si possano trasportare ad oggi vicende di un’altra epoca. Nondimeno la storia insegna. Allora la Germania doveva dar sfogo alla propria potenza capitalista ed imperialista con una politica estera aggressiva: arrivò il nazionalsocialismo ad esprimere quella politica. In futuro lo scenario non si presenterà molto dissimile in quanto nuovamente tutte le “Germanie” del Mondo saranno costrette a coniugare la propria forza e potenziale capitalistico con un adeguato peso politico, diplomatico e militare nel contesto internazionale.

Da quando nel 2000 gli Stati Uniti – vero centro della crisi capitalistica mondiale – sono entrati in recessione sono cambiate molte cose negli equilibri imperialistici. Nel novembre 2000 attraverso un “semi golpe”, sotto veste di sentenza giuridica, è stato proclamato presidente George W. Bush e con esso una determinata strategia in politica estera netta e decisa, che ha potuto avvantaggiarsi degli avvenimenti dell’11 settembre.

Gli interventi “antiterroristi” in Afghanistan e poi in Irak, in realtà sono aggressioni all’Europa oltre che alla Russia, al Giappone e alla Cina, dei quali vengono minacciate le sfere d’influenza economica e commerciale.

In Europa anche la Germania, in questo nuovo scenario, comincia a subire la “sindrome da accerchiamento”: la sua potenza economica, non troppo inferiore a quella americana, si trova minacciata dal ricatto delle materie prime, dalla penetrazione commerciale degli USA in vari paesi dell’Est Europa e dalla politica americana del dollaro debole, colpendo così le esportazioni anche dei paesi europei.

Si prospetta un’epoca in cui borghesie quali quella tedesca e quella giapponese dovranno smettere di fingere di credere alla utopia dell’ottenimento di risultati attraverso discussioni a vuoto e demagogia. Siamo ancora nell’epoca però in cui tutte le due “seconde potenze” sono ancora sottomesse alla politica americana impostagli dal 1945, fanno fatica a sganciarsi dallo Zio Sam, pur se ne intravedono la necessità.

La Germania attualmente pratica ancora una politica estera di basso profilo, basata prevalentemente sullo strumento economico. L’America invece sgattaiola dal suo “cortile di casa” per occupare il vuoto aperto dalla crisi russa: compra e cerca di penetrare nei paesi dell’Est Europa, immettendoci basi militari e finanziando partiti filo-americani. Fra gli Stati che l’America avrebbe scelto come principale baluardo antitedesco il più importante è la Polonia, la quale per i suoi servigi a Washington ha ricevuto in contropartita il controllo militare della zona centromeridionale dell’Irak. All’interno dello Stato polacco negli ultimi anni crescono inoltre fortemente partiti di estrema destra e nazionalisti che «si oppongono fortemente all’adesione della Polonia all’UE e all’espansione tedesca nel paese» (Guerre & Pace, n. 105/2003). Tali partiti, che hanno come base elettorale la diffusa piccola e media proprietà contadina polacca, che guarda all’America e s’inginocchia davanti alla Chiesa Cattolica, rappresentano una grave minaccia per gli interessi della borghesia tedesca.

Ma se in Germania sembra che nulla si muova, in Giappone il ghiaccio comincia a scricchiolare sotto i piedi. Nel giugno 2003 il Parlamento del Sol Levante ha ratificato un pacchetto legislativo che, per la prima volta dal 1945, dà il via alla riforma dell’esercito e al suo utilizzo in campo internazionale. Tutto è svolto sotto l’egida degli USA, che abbisognano di appoggio nelle loro operazioni militari per i prossimi anni. Ma la borghesia nipponica, costretta ora, per la propria inferiorità militare, ad appoggiarsi a Washington, ha cominciato a percorrere una strada attraverso la quale potrà giungere fra qualche anno a porsi in modo autonomo in politica estera. La crisi in Giappone d’altronde permane da più di dieci anni, le condizioni del proletariato e dei ceti medi peggiorano sempre più, la disoccupazione aumenta e le esportazioni sono in difficoltà.

Insomma, come previsto dal marxismo, la guerra imperialista inesorabile preme da tutti i lati e grandi, medie e piccole potenze saranno costretti a gettavisi dentro.

L’Unione Europea è una mera alleanza fra Stati imperialisti su questioni monetarie e doganali. Ma, come dell’ONU si è stilato il certificato di morte lungo la strada per Baghdad, così, di fronte alla prossima peggiore guerra, sarà dell’idea degli Stati Uniti d’Europa.

Quando la crisi economica farà suonare le trombe di guerra allora tutte le seconde e terze potenze imperialiste, messa presto da parte ogni demagogia coesistenziale, graduale e riformista, scenderanno sul terreno del riarmo e della mobilitazione. Occasionalmente con gli USA o contro gli USA, non è questo l’importante.

L’Italia, come ha sempre fatto – ma gli altri, vedi Francia nella Seconda Guerra, non son da meno – manterrà un piede a Washington e uno a Berlino, unica politica possibile da parte di borghesie al soldo del migliore compratore.

Al proletariato, in questo scenario, non resta che allenare la propria forza e organizzazione nelle lotte di classe di carattere economico, affinché possa giungere preparato ai grandi avvenimenti storici che gli si prospettano. Non può appoggiare né confidare in alcuno dei blocchi borghesi, sia quello americano sia quello europeo, o comunque anti-americano.

La sua strada è internazionale, al di sopra delle anacronistiche e artificiali divisioni nazionali che la borghesia gli impone. L’esercito dei senza riserve abita in tutto il globo ed è l’unico che ha la potenzialità storica di scardinare il ciclo borghese fatto di pace fittizia e di guerra reale. L’unica alternativa alle necessità del Capitale, che portano inevitabilmente alla guerra, è la necessità proletaria, che porta alla Rivoluzione e ad un mondo senza profitti, senza classi, senza Stati e senza guerre. Contro la guerra fra Stati che si profila nel futuro, il proletariato potrà solo ergere l’alternativa della guerra fra le classi.
 
 
 
 



Perché non siamo né anti‑americani né anti‑israeliani

Ciò che differenzia noi comunisti da coloro che si definiscono tali, senza esserlo, è, tra le altre cose, che non siamo contro lo Stato americano o contro lo Stato israeliano, ma contro ogni Stato borghese. Ci sono invece partiti e gruppi che pur di distruggere gli Stati Uniti d’America o lo Stato di Israele sarebbero disposti ad allearsi con qualsiasi altro Stato, e quindi con la borghesia.

Costoro condividerebbero, oggi, la tragedia della 1° Guerra Mondiale e della Seconda Internazionale, i cui Partiti Socialisti, con sottili distinguo sul carattere diversamente reazionario dei due fronti, tradirono il proletariato alleandosi con le rispettive borghesie e inneggiando alla guerra patriottica.

Tra essi ci sono anche, o c’erano, le Brigate Rosse, sedicenti rivoluzionarie. Tralasciamo la loro concezione di un proletariato che si spinge, o si trascina, a fare la rivoluzione, come fosse un somaro. Costoro, nel loro odio preferenziale per l’imperialismo americano, ieri non consideravano nemici i cosiddetti paesi socialisti, oggi hanno considerato un alleato lo Stato iracheno col suo regime e con la sua borghesia, almeno finché questo diceva di “combattere” l’America.

Non c’è dubbio che gli Stati Uniti siano il cuore dell’imperialismo e la spada del Capitale mondiale. Ma per noi comunisti lo Stato americano è un nemico come lo è lo Stato iracheno o quello iraniano. È ovvio che gli Stati Uniti e l’Iran non sono la stessa cosa, ma per i comunisti oggi non esistono più Stati meno reazionari di altri, o uno Stato più nemico del proprio proletariato rispetto ad un altro.

L’ideologia di questi “ultra-rivoluzionari” ha due padri: Stalin e Mussolini. La concezione staliniana e contro-rivoluzionaria del socialismo in un solo paese e del blocco dei paesi socialisti contrapposti ai paesi capitalistici, è la stessa di quella mussoliniana di un’Italia nazione proletaria contro le nazioni plutocratiche. Le radici di entrambe le concezioni sono nel tradimento dei partiti proletari del 1914.

Allo stesso modo molti partiti e gruppi sinistrorsi si esprimono a favore della distruzione dello Stato d’Israele, mentre la borghesia destrorsa dà dell’antisemita a chiunque sia contro lo Stato di Israele. Le teorie sulla razza sappiamo bene da che parte provengono.

Noi siamo anti-sionisti poiché siamo contro tutte le patrie. Siamo per la distruzione dello Stato d’Israele nel senso che siamo per la distruzione di tutti gli Stati, e la compassione che ci muove il massacro del proletariato palestinese (ma anche di quello ebraico) non ci fa dimenticare le responsabilità della borghesia palestinese con le sue organizzazioni, Olp, Hamas, ecc. Tali organizzazioni, come abbiamo sempre detto, mirano a creare una caricatura di Stato per la propria borghesia, in maniera da avere in appalto da essa la repressione e lo sfruttamento del proletariato palestinese.

L’imperialismo è come la Bestia dell’Apocalisse: se le si taglia una delle sette teste, questa ricresce. Non basta tagliare la testa più grossa o due o tre, è necessario uccidere la Bestia. E poiché l’imperialismo non è che la fase suprema del capitalismo, è questo che è necessario uccidere.

Una cosa è però certa: gran parte di questi “ultra-rivoluzionari”, nel momento in cui si andrà verso la guerra di classe e la rivoluzione, saranno compatti nel fronte opposto, come già successo nella storia. Sappiamo come sono finiti i tentativi di fare la rivoluzione per tappe, con la tattica, ad effetto contrario, di quell’eroe romano che, fuggendo, affrontava un nemico per volta. Come sempre, di scorciatoie non ne esistono.
 
 
 
 
 
 
 



28 gennaio 2004
Gli autoferrotranvieri scioperano per tutti i lavoratori

Lavoratori tranvieri,

Il Coordinamento nazionale di lotta vi chiama ad un nuovo sciopero per venerdì 30 gennaio. È uno sciopero importante per dimostrare alle aziende, al governo, al sindacalismo concertativo che i tranvieri, nonostante i sacrifici già affrontati, sono in piedi e continuano la loro battaglia.

Nei giorni seguiti al grande sciopero nazionale del 9 gennaio e agli scioperi improvvisi dei tranvieri milanesi, governo, aziende e bonzi sindacali hanno firmato contratti locali in alcune città per spezzare il movimento di sciopero, mentre per ben tre volte hanno disertato gli incontri al Ministero del Lavoro con lo scopo di non riconoscere che il Coordinamento nazionale è l’unica struttura sindacale che in questo momento rappresenta la grande maggioranza dei tranvieri.

Aderire allo sciopero di venerdì 30 gennaio significa lottare per
- piegare l’arroganza delle Aziende di trasporto,
- respingere il progetto dei padroni e del governo che vogliono sconfiggere i tranvieri per dare un esempio a tutti i lavoratori;
- riaprire il contratto nazionale, rifiutando qualsiasi accordo locale;
- almeno 3000 euro di arretrati e 106 euro di aumento mensile uguali per tutti;
- il rifiuto di aumenti salariali legati al peggioramento delle condizioni di lavoro;
- l’opposizione ad ogni azione disciplinare contro gli organizzatori degli scioperi e gli scioperanti.

Compagni tranvieri

È importante che questa lotta serva a rafforzare l’intera categoria, e per questo è necessario che in ogni Azienda, in ogni deposito, si formi un nucleo di lavoratori disposti ad aderire ai sindacati di base, a fare attività sindacale in prima persona, senza delegarla ai sindacalisti di mestiere.
Sarà questo un passaggio decisivo verso la rinascita di una organizzazione sindacale su base nazionale, che superi le differenze tra lavoratori fissi e “atipici”, tra anziani e giovani, tra le varie categorie, tra settore pubblico e privato, rifiuti ogni tipo di collaborazione con lo Stato e il padronato e abbia nel suo programma la difesa degli interessi della classe lavoratrice, senza compromessi, con i mezzi della lotta di classe.

Lavoratori

Il problema del salario e del sopralavoro, non riguarda solo gli autoferrotranvieri ma tutti i salariati. Anche le altre categorie, se vorranno difendersi dal crescente peggioramento delle loro condizioni, dovranno riappropriarsi dell’arma classica dello sciopero senza preavviso e ad oltranza, infrangendo la legalità dei codici, preparandosi a fronteggiare la possibile repressione, attraverso la solidarietà fra i vari reparti della classe lavoratrice.
 
 



Importanti lezioni e riscontri

Nel 1978 lo sciopero nazionale degli ospedalieri, che resistettero, abbandonati da tutti, per un mese intero, "contro aziende, governo, partiti e sindacati", segnò inequivocabilmente il trapasso finale del sindacato confederale. Fu quel movimento, e l’atteggiamento di chiusura assoluta ed inesorabile della CGIL nei suoi confronti, a far riconoscere al nostro partito che si era ormai esaurita ogni possibilità di utilizzo di quel sindacato a vere azioni difensive della classe, fece prevedere che i lavoratori avrebbero dovuto organizzarsi "fuori e contro" i confederali per ricostituire un vero sindacato di classe intercategoriale e che, infine, i comunisti non potevano più militare, seppure in opposizione, all’interno della CGIL, come era stato fino ad allora per tutto il secondo dopoguerra.

Il movimento di sciopero degli autoferrotranvieri, arriva più di vent’anni dopo, si distingue da quello degli ospedalieri perché viene a cadere in una situazione di virtuale illegalità per il movimento sindacale, scioperare di fatto è oggi un reato, mentre allora non lo era ancora. Per contro attorno ai tranvieri in sciopero oggi esiste un arcipelago di piccole, ma visibili, organizzazioni sindacali con cui è possibile stabilire dei collegamenti e delle quali utilizzare le strutture.

Alla base del movimento degli autoferrotranvieri sono state messe le rivendicazioni salariali, per esse sono scesi in una serie di scioperi che per più di due mesi hanno ripetutamente bloccato le principali città d’Italia, risuscitando d’un colpo le preoccupazioni dei partiti e dei sindacati di regime circa la "questione operaia".

Riferiamo ampiamente del concrescere della lotta in altra pagina di questo giornale e qui accanto riproduciamo l’ultimo dei volantini diffusi dai nostri compagni.

I tranvieri si sono mossi da soli, spesso spontaneamente, essendo pochi e ristretti i nuclei di proletari già organizzati, e rapidamente hanno riscoperto un’arma classica del proletariato, lo sciopero, non preavvisato, sfidando tutto l’apparato di leggi antisciopero che la borghesia, con la piena collaborazione del sindacalismo di regime, ha costruito proprio in vista di una ripresa del movimento proletario di classe; hanno sfidato la precettazione e la campagna giornalistica con cui la stampa borghese intendeva aizzargli contro le altre categorie e il ceto medio.

Hanno dovuto percorrere la strada che il nostro partito aveva previsto, fuori e contro i sindacati confederali (CGIL, CISL, UIL) e fuori e contro i sindacati cosiddetti autonomi (FAISA, UGL). Si sono appoggiati, invece, alle strutture organizzate del sindacalismo anticoncertativo (CUB-RdB, Cobas, Unicobas, Sincobas) dove queste erano presenti.

Sotto la spinta del movimento si è venuto a formare un Coordinamento Nazionale di Sciopero costituito dai Sindacati di base ma aperto a tutti i lavoratori, di tutte le sigle sindacali e anche non iscritti, con lo scopo dichiarato di lottare contro l’accordo al ribasso siglato da Sindacati Confederali e Autonomi, e difeso ad oltranza da questi e da tutto il fronte aziendale-padronale-politico-statale-giudiziario-mediatico.

Il movimento ha dimostrato a tutti i lavoratori la forza di cui potrebbero disporre se si muovessero uniti, su rivendicazioni comuni, sotto la guida di una forte organizzazione sindacale unitaria di classe.

Ma, nonostante la forza messa in campo e i sacrifici affrontati, non hanno vinto. Il regime borghese ha fatto quadrato contro di loro: i sindacati confederali, di concerto con l’apparato dello Stato, non hanno ceduto, anche a costo della perdita degli ultimi residui della loro credibilità e di molte tessere; le aziende hanno concesso qualche accordo locale per spezzare la lotta, ma niente di più; il contratto nazionale non è stato rimesso in discussione e non un soldo in più è stato concesso rispetto a quanto concordato con le fedeli CGIL, CISL e UIL.

Questa però, per la borghesia e per il suo sindacalismo, è stata una dura sconfitta, che va tutta ad onore di questi nostri compagni proletari. Con questa lotta i lavoratori hanno riscoperto cos’è un vero sciopero e saggiato la sua potenza; forze nuove si sono impegnate nel movimento, forze che il prossimo contratto nazionale, che sta per aprirsi, troverà pronte, più organizzate, più esperte e determinate.

Per altro l’affermarsi di questi nuovi sindacati presenta – fenomeno su cui ci siamo più volte dilungati – notevoli debolezze sia sul piano quantitativo dell’esiguità delle loro forze (il che non è da imputare a loro ma ad una disabitudine della classe alla milizia sindacale in prima persona) sia debolezze politiche e di modalità organizzative.

La presenza contemporanea di almeno quattro "Confederazioni" è la prova della insufficienza ancora di un processo di selezione della giusta impostazione, che è quella tradizionale del sindacalismo di classe tendente alla formazione dell’ "esercito del lavoro", al di sopra delle categorie e di ogni divisione ideologica.

È un pericolo forse inevitabile che, dopo tanti decenni di sindacalismo di regime, e di sindacalisti di mestiere, si riduca l’indispensabile lavoro di organizzazione alla base, in vista di nuove battaglie, alla semplice "iscrizione" ad un sindacato "alternativo", che basti, per difendersi, "togliere la delega" alla Cgil e "firmare" quella dei Cobas. Non che le tessere non ci vogliano, ma per lo scontro che attende la classe non saranno certo delle firme a spaventare un padronato sempre più rapace e i suoi governi, tutti, spietati contro chi lavora.

Nel caso dei tranvieri, proprio ora che lo sciopero è momentaneamente sospeso e che si pensa ai prossimi, sarebbe necessaria una organizzazione che li prepari e che difenda dalle ritorsioni padronali. È relativamente meno difficile organizzare e guidare un movimento che monta piuttosto che mantenere l’organizzazione salda quando il movimento rifluisce. Questo è il compito che attende i lavoratori, occorre che dallo sciopero escano degli organizzatori sindacali che si dedichino disinteressatamente alla causa della difesa della loro classe.
 
 
 
 
 
 

PAGINA 2


Riunione di partito a Firenze
23-25 gennaio 2004
[RG88]



 
 
 

  • Guerra e preistoria - [Resoconto esteso]
  • Violenza e lotta di classe.
  • Storia e sviluppo del Brasile - [Resoconto esteso]
  • Storia dell’Iraq moderno - [Resoconto esteso]
  • La storia italica nel suo specchio ideologico: il «Secondo Risorgimento» - [Resoconto esteso]
  • Origine dei sindacati in Italia - [Resoconto esteso]
  • Antimilitarismo e movimento operaio in Italia - [Resoconto esteso]
  • Guerra y prehistoria
  • Violencia y lucha de clase
  • Historia y desarrollo de Brasil
  • Historia del Irak moderno
  • La historia de Italia en su espejo ideológico: el "Segundo Risorgimento"
  • Origen de los sindicatos en Italia
  • Antimilitarismo y movimiento obrero en Italia.

  •  

    È stata convocata la riunione generale e plenaria del partito nei locali della sede della redazione fiorentina nei giorni dal 23 al 25 gennaio scorsi. Abbiamo anticipato la prima seduta al pomeriggio del venerdì per affrontare fra i compagni che vi sono impegnati le problematiche relative alla propaganda in ambiente sindacale e il piano di pubblicazioni in lingue straniere e le questioni relative.

    In particolare, riguardo al lavoro sindacale era da riferire con ampiezza della significativa vertenza dei tranvieri, nei giorni della riunione all’apice dello scontro, scambiando fra i gruppi le informazioni che completassero il quadro – di per sé già sufficientemente chiaro e previsto, conforme nelle grandi linee con l’impostazione del partito, che viene da lontano – e già condiviso nelle precedenti settimane fra i compagni e i gruppi con una fitta quotidiana corrispondenza.

    Abbiamo ricordato il semisecolare coerente e appassionato lavoro del partito nella categoria, l’operarsi instancabile del nostro Enzo e la tradizione di impostazione e di propaganda del “Tranviere Rosso”, organo di intervento sindacale del partito, che bene anticipò il successivo “Spartaco” e il “Sindacato Rosso”. Veniva naturale allineare vicende di lotta operaia lontane fra loro, dal dopoguerra, al 1969, al 1978, al 1991, in un percorso che non è rettilineo ma si svolge secondo un divenire dal partito ben studiato e previsto nelle sue grandi linee. Sopra grandi vuoti, nei quali la lotta di classe ripiega costretta allo sbandamento e alla estrema difensiva, il partito deve saperne inviluppare i culmini, rilevare, apprezzare e rifarsi ai momenti rari ma più significativi anche di una spontaneità operaia, sul continuo crescendo dei quali, e sul loro estendersi e ravvicinarsi, solo potrà domani innestarsi la sua propaganda e il suo indirizzo comunista.

    Sempre nella riunione preparatoria del venerdì si metteva senza difficoltà a punto un esauriente e dettagliato resoconto sugli accenti e sui modi del nostro approccio allo sciopero nelle precedenti settimane, ampia disamina che veniva l’indomani esposta all’uditorio al completo. Si è trattato infine di stabilire i termini particolari dei nostri ulteriori interventi e di prendere gli accordi necessari.

    Circa le pubblicazioni in lingue straniere si verificava il rispetto del piano già stabilito e messo a punto nelle precedenti riunioni, in particolare volto alla lingua inglese, che può trovare oggi ordinata collocazione nel sito internet del partito e agevole diffusione. Il piano prevede di dare la precedenza alle nuove traduzioni, e alla revisione attenta delle antiche, del “Corpo delle Tesi” fondamentali e dei testi programmatici, proseguendo la redazione e l’uscita regolare delle riviste nelle tre lingue italiano, spagnolo e inglese.

    Abbiamo dedicato il sabato mattina alla verifica dei progressi degli altri gruppi di studio, nei quali riteniamo di ben impegnare le nostre non ridondanti forze.

    Al solito, con la totalità dei compagni pervenuta nel primo pomeriggio di sabato, dopo breve introduzione davamo presentazione delle qui riassunte relazioni.
     

    Guerra e preistoria

    Il primo rapporto esposto continuava a trattare del fenomeno guerra nella fase imperialistica del capitalismo.

    Viviamo ancora nella preistoria, e vi vivremo ancora finché sarà in piedi il modo di produzione capitalistico. Era chiaro a Marx, ed è tanto più chiaro a noi che viviamo nella fase putrida dell’imperialismo, allorché ci si illude di combattere per la pace con aberrazioni e giustificazioni quali la “guerra preventiva”, la “guerra umanitaria” e via di questo passo.

    Dopo l’11 settembre che cosa è cambiato nella strategia del capitale a livello generale? Senza dubbio lo strapotere e la relativa solitudine dell’impero Usa nel proporsi o nel dannarsi a svolgere la funzione di polizia internazionale contro il “terrorismo”.

    Non neghiamo che gli Usa hanno subito un vero shock con l’attacco subito in patria, mentre credevano d’essere inviolabili e al sicuro nei loro confini nazionali. Ma ciò non è sufficiente ad affermare che l’imperialismo mondiale ha cambiato segno. Il sistema sociale rimane identico a sé stesso, e la preistoria continua, prima ancora che come guerra intraspecifica, come modo di vita sociale nel quale i nullatenenti sono assoggettati alla legge del profitto.

    Non ci lasciamo dunque disarmare né dal terrorismo né dai suoi presunti nemici. Proseguiamo nella lotta contro il Capitale fino a che, nel Comunismo, le ragioni della guerra non avranno più radici sociali che la giustifichino.
     

    Violenza e lotta di classe

    Il secondo rapporto ribadiva alcuni concetti teorici del marxismo che la prospettiva storica che si va a delineare conferma nel contesto internazionale. La acutizzata crisi storica del Capitale spinge oggi a politiche apertamente basate sul terrore da parte della borghesia per tutto il pianeta. Le si oppone un proletariato sempre più diffuso e immiserito. È necessità intrinseca alla natura della lotta fra le classi – e in particolare fra la borghesia imperialista e il proletariato – l’utilizzo, anche in futuro, dell’azione violenta di classe contro la classe borghese volta alla presa del potere e al dispiegarsi rivoluzionario del terrore proletario contro quello borghese.

    La teoria di Marx sulla funzione della violenza nello storia esclude la possibilità dei metodi non-violenti finché esisterà una società basata sulla contrapposizione di più classi. Chi predica la non-violenza lo fa evidentemente contro la classe sottomessa ed esclusa dal monopolio della armi del quale si assicura ogni classe storica dominante.

    L’impiego del terrore rivoluzionario, come forma estrema di violenza di una classe verso un’altra, è fattore non scelto da dati personaggi o partiti, ma necessario e inevitabile in certe epoche. È necessario innanzitutto per una classe dominante che abbia difficoltà a mantenere il proprio potere, quando reazionaria deve lottare con dei rapporti di produzione che non corrispondono più al grado delle forze produttive. È altresì necessario ad una classe rivoluzionaria per scalzare il vecchio potere politico ed economico, come è dimostrato dalla stessa borghesia a seguito della Rivoluzione Inglese e Francese ed ovviamente come è dimostrato dalla dittatura proletaria in Russia partorita dal ’17.

    La lotta proletaria, per la sua stessa essenza di classe, quando divampa è per forza di cose politica, cioè sottende, sia pure inconsapevolmente, la questione del potere.

    È sempre, la lotta proletaria, potenzialmente sovversiva, ma non nel senso economico immediato, perché con lo sciopero blocca la produzione di plusvalore, né sociale, in quanto il proletariato non ha da difendere né proprietà, né garanzie, né riserve ma solo la propria sopravvivenza. La classe proletaria, come un tutto, è rivoluzionaria solo in quanto è oggettiva e incosciente portarice di un nuovo modo di produzione, che viene a negarla come produttrice di plusvalore, e soggettivamente, esprimendosi nel partito comunista, in una sua minoranza, cosciente di volerlo e di battersi per questo. La internazionale classe proletaria, quando, in dati nodi storici, potrà saldarsi alla direzione rivoluzionaria del suo partito, arriverà a vedere l’unica possibilità di difesa della propria sopravvivenza nell’attacco frontale alla borghesia.

    Uno dei principali insegnamenti della Sinistra Comunista è proprio la conclusione, tirata negli Anni ’20, che è finita la fase democratica della borghesia, pur se ne viene mantenuta una parvenza formale. La repressione violenta dello Stato di ogni moto operaio e il passaggio della borghesia sul piano illegale attendono il proletariato ogniqualvolta rialza la testa.

    Oggi quando i senza proprietà, i senza riserve, i senza garanzie si stanno sempre più diffondendo su scala planetaria, e quando, dall’altra parte, la borghesia è sempre più armata e corazzata, è inevitabile che lo scontro sia armato e cruento.
     

    Storia e sviluppo del Brasile

    La seconda parte del rapporto sul Brasile ha riguardato la storia dei movimenti sociali, politici e sindacali.

    Si è fornito il quadro storico dello sviluppo delle organizzazioni classiste a partire dal 1920 all’arrivo degli inviati del Komintern con lo scopo di diffondere le parole d’ordine rivoluzionarie comuniste e favorire l’organizzazione di sindacati e partiti di classe.

    Ampie citazioni da «Storia del pensiero socialista» hanno illustrato l’impostazione della politica dell’Internazionale nei paesi del continente sudamericano, quindi anche in Brasile, volta a contrastare le potenze coloniali ed imperialiste puntando sui movimenti sorti dal malcontento sociale che avrebbero ricevuto aiuto dall’Unione Sovietica. Furono quindi fondati sindacati operai e partiti comunisti in tutto il subcontinente, che sottoscrissero i “Ventun Punti” del Komintern.

    In Brasile, ad un’iniziale forte sviluppo di queste organizzazioni seguì, nel lungo periodo di governi dittatoriali dal 1938 al 1985, la loro messa fuori legge e il loro operare limitatamente all’illegalità.

    Il ritorno “morbido e programmato” alla democrazia determinò la formazione di una gran quantità di organizzazioni sindacali e politiche, fortemente condizionate dalla particolare conformazione geostorica del Brasile basata su Stati federali con aree produttive molto differenti e con scarso collegamento interno. Il relatore forniva significative notizie sugli attuali partiti “comunisti” brasiliani.

    Attualmente vi sono tre grandi Confederazioni Sindacali. Sono però sottoposte ad una legislazione federale che vieta gli accordi nazionali e consente solo quelli a carattere locale. La sola CUT conta 3.354 entità e sindacati di categoria con un totale di 7,5 milioni di iscritti su una base di 22,6 milioni di lavoratori con contratto, registrati, su una popolazione attiva di 73,2 milioni. Solo il 35% degli attivi è occupato regolarmente con contratto mentre il 65% è composto da precari, saltuari o in nero.

    Seguivano dati sul livello salariale dove emergeva che il 26,3% dei lavoratori percepisce fino ad un salario minimo, pari a 120 dollari mensili, ed un altro 25,6% fino a due volte il minimo. Altri dati sulla disoccupazione confermavano lo stato di grave sofferenza della classe operaia brasiliana

    Questa non sarà di certo salvata dal neo presidente “Lula”, che per il momento ammannisce ai suoi elettori promesse difficilmente realizzabili. Da documenti risulta che il “filocastrista” presidente “no-global” già prima di essere eletto aveva firmato, insieme ad altri politici brasiliani, un protocollo di intesa con gli Usa e il Fmi circa le garanzie per i prestiti necessari al Brasile, nonostante la sua roboante campagna elettorale su una “radicale rottura del vecchio sistema economico”.

    Per quanto riguarda le promesse verso il Movimento «Sem Terra» risulta, già dopo solo un anno dalla elezione del “presidente-sindacalista”, che esse non sono e non potranno essere mantenute per il grosso taglio alle spese pubbliche.

    Il quadro generale che ne deriva è di forte tensione sociale che si alimenta con il crollo delle produzioni e che non potrà essere contenuta a lungo solo con l’ubriacatura elettorale.
     

    Storia dell’Iraq moderno

    All’indomani mattina, domenica, riprendevamo i lavoro con la prosecuzione dell’approfondimento sulla storia dello Stato iracheno.

    Il primo maggio 1920 il Trattato di San Remo faceva dell’Iraq un territorio sotto mandato britannico. Pochi mesi dopo scoppiava una sollevazione generale contro le truppe inglesi d’occupazione.

    Gli inglesi ebbero ragione della rivolta solo a prezzo di duri combattimenti e di una feroce repressione durata alcuni anni. La tattica degli inglesi era quella di cercare di dividere la popolazione lungo i confini etnici e religiosi, fomentando i particolarismi, per combattere quella tendenza nazionalista che era presente nella pur debole borghesia urbana, di allearsi alla classe dei grandi proprietari fondiari contro il sorgente proletariato agricolo e i contadini poveri, e di opporsi con la repressione diretta al nascente movimento proletario.

    La differenza con la situazione attuale che risulta più evidente è che alla fine della Prima Guerra mondiale la contesa imperialistica era localmente assestata con Francia e Gran Bretagna che si erano definitivamente spartiti i territori e gli interessi nell’area medio orientale e mesopotamica, in assenza di altri pretendenti. La Gran Bretagna si trovava dunque a risolvere i problemi con i poteri locali in assenza di altri contendenti.

    La situazione attuale è diversa. L’Iraq è preda ghiotta e contesa tra molte belve imperialiste e gli USA, che ormai da mezzo secolo hanno preso il posto della Gran Bretagna in Medioriente, non si trovano davanti solo una popolazione locale insofferente all’occupazione, ma all’attività, seppure sotterranea, delle altre belve che non intendono mollare la loro parte di preda.

    La cosiddetta “resistenza irachena”, vista da molti nella sedicente “sinistra”, come avanguardia dell’antimperialismo e magari etichettata anche di “rivoluzionaria”, se trova un terreno favorevole nella disastrata situazione economica e sociale del paese, nella diffusissima disoccupazione, nelle decine di migliaia di ex militari licenziati, nell’odio verso gli occupanti, è sicuramente foraggiata da forze esterne, dall’altro fronte imperialista che intende combattere così per procura la politica imperiale statunitense. È la politica simmetrica a quella condotta, con successo, dagli Stati Uniti nei confronti dell’occupazione russa dell’Afghanistan.

    I proletari iracheni non devono cadere nella trappola della guerra imperialista, nella quale non hanno nulla da guadagnare. Né i preti islamici sciiti, protetti dal regime iraniano, rappresentano certo, nei loro confronti, un’alternativa alla spietata occupazione del ladrone americano.

    Le avanguardie proletarie irachene si dovrebbero indirizzare ad organizzare il proletariato per la difesa delle sue condizione immediate di esistenza, ad ottenere dal nuovo governo, da chiunque sia rappresentato, la possibilità di libera organizzazione politica e sindacale, di sciopero, il salario per i disoccupati. Devono rintracciare la continuità del comunismo rivoluzionario, in completa rottura con la degenerazione stalinista e nazionalista.
     

    La storia italica nel suo specchio ideologico: il «Secondo Risorgimento»

    In nome del “Secondo Risorgimento” il partito staliniano riuscì ad illudere il proletariato italiano di dover combattere per la patria, in modo da tener aperta la possibilità di “costruire il socialismo” su scala nazionale, mutuando tale teorica dal “socialismo in un solo paese” enunciata da Stalin nel 1924, inaugurando la controrivoluzione da noi strenuamente avversata.

    Se ciò fu possibile si deve alla soverchiante realtà oggettiva che finì per distruggere le possibilità rivoluzionarie della classe operaia, ma nello stesso tempo all’opera nefasta dell’opportunismo del PCI.

    Quando ormai era tempo, nella fase imperialistica, di combattere unicamente per i propri interessi di classe, il proletariato, inquadrato e sottomesso alla resistenza al nazi-fascismo, dovette risollevare lo Stato italico, che con l’8 settembre aveva conosciuto la dèbacle del suo Stato e del suo esercito. La classe operaia fu chiamata a raccolta per puntellare l’apparato statale, fino al punto di compromettersi nella formazione del nuovo assetto costituzionale borghese, al quale affidare le velleità di socialismo del proletariato e dei contadini.

    Da allora tutto si è svolto all’interno di questa cornice, al punto che ogni ideale di socialismo si è consumato sull’altare degli interessi nazionali.

    Eppure il «Risorgimento» non sarebbe ancora compiuto, e si chiamano a raccolta gli operai per contrastare il «devoluzionismo» leghista, gli attacchi alla «Stato di diritto», insomma la nuova miscela parafascista sorta dalla crisi internazionale e nazionale del capitalismo globalizzato.

    Come allora, non abbiamo da difendere che la solidarietà di classe, senza nessuna condiscendenza nei confronti di prassi e d’eresie estranee ed ostili al proletariato.
     

    Origine dei sindacati in Italia

    La politica oscillante della borghesia italiana riguardo al sindacato, fra repressione, tolleranza e integrazione, continua col fascismo.

    Una Commissione Presidenziale nominata nel 1925 per esprimersi sulla utilità del riconoscimento giuridico dei sindacati (che i dirigenti riformisti dei quali da lungo tempo richiedevano) conclude che tale riconoscimento di attributi di carattere amministrativo e politico ai sindacati, cui invece dovrebbero spettare solo funzioni di diritto privato e di carattere professionale, avrebbe leso l’autorità dello Stato. Si riteneva invece necessario “un nuovo ordinamento corporativo dello Stato”. Sarebbero restate ai sindacati, sotto il controllo dello Stato, funzioni di carattere tecnico-economico.

    La soluzione fu di compromesso. La direzione del sindacato da un decennio aveva ambito ad uno scambio con le strutture liberali dello Stato oppure ad uno schema di Stato-sindacale. Invece fu lo Stato ad assumersi le funzioni sindacali: il sindacato vide riconosciuto giuridicamente il suo ruolo e quello dei contratti collettivi, ma perdeva la libertà associativa e il diritto di sciopero.

    I sindacati fascisti sorgono nel 1922 col nome di Confederazione Nazionale delle Corporazioni Sindacali. Si proponevano di assorbile la CGL e la CIL, eventualmente tramite la loro soppressione. Ambivano al “sindacalismo integrale”, cioè di inserire nella Confederazione anche i datori di lavoro, tutta la “nazione che produce” avrebbe dovuto far parte di una sola organizzazione, la cui rappresentanza avrebbe dovuto in avvenire sostituire la rappresentanza politica democratica (tipo “Stato dei produttori”).

    Ma i borghesi si opposero. Del resto nemmeno cedevano alle richieste dei sindacati fascisti per cui questi furono talvolta costretti a capeggiare degli scioperi.

    Ancora nel 1922 avvengono contatti fra Mussolini e i dirigenti riformisti della CGL e si ventila la possibilità di offrire il portafoglio del Lavoro a Baldesi; nel luglio ancora si parla di “unità sindacale” fra CGL e Corporazioni fasciste e della formazione di un “partito del lavoro”.
     

    Antimilitarismo e movimento operaio in Italia

    Nei precedenti rapporti sull’antimilitarismo ed il movimento operaio in Italia le trattazioni erano cronologicamente arrivate, alla nostra riunione di Genova del maggio scorso, fino allo scoppio della guerra italo-turca del 1911/12. L’esposizione si è ulteriormente soffermata ad analizzare questa guerra sotto diversi profili.

    Innanzi tutto è stato preso in esame l’atteggiamento del partito socialista che attraverso i suoi organi dirigenti, Direzione, Gruppo parlamentare, Sindacato, si accodò con devozione alle necessità dell’imperialismo straccione italiano ed a sostegno del governo Giolitti. La tardiva proclamazione dello sciopero generale nazionale, con tutte le limitazioni di tempo e di azione, con la esplicita assicurazione al governo che si sarebbe trattato di una manifestazione intesa a frenare le masse in movimento e non ad incitarle alla lotta, raggiunse lo scopo che Partito Socialista e CGL si erano riproposti: smobilitare la classe operaia, fare in modo che il proletariato perdesse ogni fiducia nella propria forza e si rassegnasse a divenire carne da cannone per la gloria d’Italia.

    Una delle poche eccezioni a questo atteggiamento arrendevole e rinunciatario fu costituita dalla Federazione Socialista di Forlì dove il proletariato, sia sotto la guida dell’ala rivoluzionaria ed intransigente del Partito Socialista, sia di quello Repubblicano, fu tenuto in costante mobilitazione contro la guerra con comizi, scioperi, interruzione del passaggio dei treni militari, atti di sabotaggio alle linee ferroviarie, telefoniche e telegrafiche. Si verificò, localmente, un clima quasi pre-insurrezionale. Il rapporto ha però rilevato che, malgrado tutto, anche all’interno della Federazione forlivese gli argomenti con i quali il proletariato veniva incitato allo sciopero ed all’azione di classe non erano quelli propri dell’antimilitarismo rivoluzionario, bensì quelli classici del riformismo di sinistra. Lo stesso Mussolini parlava della guerra di Libia come di «un grande sperpero di capitali e di energie utilizzabili molto meglio a colonizzare i molti Tripoli dell’Italia contemporanea».

    Un apporto determinante alla sistemazione teorica della questione dell’antimilitarismo, nel quadro della teoria marxista rivoluzionaria, giunse, proprio in quegli anni, dalla infaticabile attività dei giovani socialisti che da qualche anno si erano costituiti in Federazione Nazionale.

    Certamente poterono fare ben poco, sul piano pratico, data la latitanza del Partito Socialista che ormai da anni si trovava impaniato nella rete del gioco democratico: dall’adesione ai blocchi con i partiti anticlericali fino al sostegno al governo Giolitti.

    Alcuni aspetti interessanti di questa messa a punto dottrinale si possono ravvisare nella esclusione di quelle tematiche riformiste dalle ragioni di condanna della guerra o, qualora venissero toccate, nel corso di comizi e manifestazioni, guardando bene dal non fare neanche supporre che, qualora le fandonie propagate dai nazionalisti fossero state vere, la guerra avrebbe trovato il proletariato meno avverso. Soprattutto il proletariato non avrebbe dovuto cadere nell’inganno demagogico socialdemocratico secondo cui le spese di guerra avrebbero dovuto ricadere non sulle spalle del proletariato ma su quelle dei signori.

    Da parte della gioventù socialista si metteva in guardia da simili campagne perché sarebbero state molto pericolose per il proletariato compromettendo i sani concetti di antagonismo di classe. Bisognava invece svolgere una intensa azione di propaganda impostata sul fatto che la guerra viene sopportata interamente dalla classe proletaria di modo che questa, un’altra volta, sia in grado di insorgere prima della dichiarazione della guerra.

    Proprio in quegli anni all’interno del Partito Socialista, ma soprattutto all’interno della Federazione Giovanile, si svolgeva intenso il dibattito pro o contro la “cultura”. Quelli che allora furono definiti i “culturisti”, facendo propria la concezione idealistica borghese, pretendevano che il proletariato fosse sfruttato soprattutto perché ignorante e che quindi la cultura rappresentasse un mezzo di liberazione e di avvicinamento al socialismo. Questa concezione piccolo-borghese venne aspramente criticata e ripudiata dai giovani socialisti di sinistra, ed a riprova della loro giusta valutazione è stato succintamente esposta l’atteggiamento assunta dal mondo culturale italiano nei confronti della nuova guerra coloniale. Studenti, accademici, scienziati, intellettuali delle specie più disparate si distinsero per il loro livore guerrafondaio giustificato da motivazioni diverse: dalla “missione di civiltà” al “lavacro di sangue rigeneratore”. Ma soprattutto si distinsero per le loro doti imboscatorie: non erano loro, bensì il proletariato, che sulle sabbie africane versava il proprio sangue a gloria dell’Italia borghese e democratica.
     
     
     
     
     
     
     

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    Disamina e bilancio dello sciopero dei tranvieri

    Il primo dicembre 2003 uno sciopero degli autoferrotranvieri indetto da CGIL-CISL-UIL e FAISA CISAL viene anticipato a sorpresa dai tranvieri milanesi a partire dalle 4,00 del mattino e prolungato per tutta la giornata senza rispettare le cosiddette fasce di garanzia previste dalla legge 146/90 sulla regolamentazione del diritto di sciopero nel settore dei trasporti. Lo sciopero sarà subito bollato, in negativo per i nostri nemici, in positivo per i lavoratori e per noi, come “selvaggio”.

    Non è la prima volta negli ultimi anni che i tranvieri ricorrono a questa prassi che i più definiscono estrema ma che in realtà è semplicemente il ritorno all’utilizzo dell’arma dello sciopero nella sua forma tradizionale e, diremmo, necessaria perché più efficace, in quanto più dannosa per l’azienda. Gli autoferrotranvieri triestini nel gennaio 2001 per due giorni bloccarono la città; ricevettero in cambio 55 denunce ma furono poi tutti assolti. Nel ’97 toccò a Roma, con l’allora sindaco “compagno” Rutelli, che accolse lo sciopero al grido isterico di «licenziateli tutti». E andando ancora più indietro nel tempo, al 1984, si torna ancora a Milano con un altro sciopero illegale.

    Ma questa volta la cosa prenderà una piega diversa da queste precedenti esperienze. Lo sciopero selvaggio dei tranvieri milanesi non rimarrà infatti un episodio isolato, facilmente assorbibile da sindacati di regime ed aziende e privo di effetti duraturi. L’esempio verrà seguito in molte altre città e darà luogo ad un vero e proprio movimento di sciopero, importante non solo per la categoria ma per tutta la classe lavoratrice. La scossa di questi scioperi, senza volerne forzare la portata, ha travalicato i confini della categoria e, se non ha dato origine nell’immediato ad un movimento di classe generale, ha però sicuramente agitato gli spiriti dei lavoratori più coscienti, infondendo coraggio con l’esempio.

    Lo sciopero del 1 dicembre che era ben l’ottavo indetto per il contratto nazionale, cui vanno aggiunti quelli fatti per questioni locali, come ad esempio a Genova dove, contro lo “scorporo” dell’azienda, si erano tenuti altri tre giorni di sciopero. Tutti i precedenti sette si erano svolti nel rigoroso rispetto delle regole, con grande piacere dei vari sindacalisti, come riconosce lo stesso Antonio Martone, presidente della Commissione di Garanzia: «Il nostro è organismo che vive all’interno del rispetto delle regole e i sindacati (Triplice e FAISA, ndr) lo hanno sempre fatto, si sono sempre adeguati alle indicazioni fornite dalla Commissione». I vari sindacalisti si sono sempre adeguati alle indicazioni di quella Commissione che, sempre Martone: «sta studiando indicazioni e revisioni anche in termini di sanzioni».

    I tranvieri milanesi, preso atto dell’inadeguatezza di tali scioperi, sono passati a strumenti più idonei. L’allargarsi del movimento di sciopero dimostra chiaramente che la consapevolezza dell’inutilità degli scioperi “legali” è patrimonio di tutti i tranvieri, non solo di quelli milanesi.

    Lo sciopero del 1 dicembre e quelli che seguiranno sono per imporre alle aziende il rispetto del contratto nazionale firmato nel 2000 che prevedeva, per la parte normativa, un aumento di trenta minuti al giorno dell’orario di lavoro, la riduzione e lo spostamento dei turni di riposo ed altri peggioramenti, mentre per la parte salariale un aumento di 106 euro stabilito riferendosi alla famosa inflazione programmata.

    Era un contratto quindi figlio della concertazione, rispettoso dell’accordo del luglio ’93, grazie al quale, come era ovvio che fosse, sulla base di una programmazione favorevole alle aziende, i salari reali non sono rimasti invariati ma sono diminuiti.

    Ma su quel famigerato accordo va detto di più, e ci aiuta Maurizio Sacconi, sottosegretario al “Welfare”, il quale il 19 gennaio ricorderà che «in base all’accordo del luglio ’93 l’adeguamento biennale delle retribuzioni contrattuali è concesso tenendo conto dell’andamento del settore. Non c’è scritto da nessuna parte che è un diritto». Il Manifesto, quotidiano che ha il coraggio di definirsi comunista e che fa da organo di propaganda della CGIL, nel riportare questa dichiarazione, rimprovera a Sacconi di gettare benzina sul fuoco invece di sdrammatizzare: ci vogliono i pompieri non gli incendiari, consiglia il Manifesto. Infatti si guarda bene dal trarre la conseguente ovvia considerazione dalla dichiarazione di Sacconi, ossia quale incredibile porcheria siano riusciti a firmare CGIL-CISL-UIL nel luglio ’93, in quanto questi, lo sappiamo tutti, sono i migliori professionisti sul mercato in quanto a pompieraggio della lotta di classe!

    Il nostro partito denunciò ai lavoratori l’ennesima conferma della natura antioperaia della CGIL anche in occasione di quell’accordo, ed ha indicato ai proletari la necessità di uscire da questo sindacato e di ricostruirne uno nuovo che, fra le altre cose, rifiutasse la famigerata concertazione.

    Ora, da alcuni anni, anche la concertazione è entrata in crisi. E ciò è avvenuto per iniziativa padronale e non dei lavoratori. Cosicché, oggi, molti settori della classe si trovano a lottare per obiettivi che, in linea di principio e di sana prassi sindacale, sarebbero da combattere. Così è oggi per i tranvieri.

    L’inflazione programmata stabiliva dunque nel 2000 un aumento di 106 euro che, col passaggio all’euro e l’inflazione conseguente, non è adeguato al costo della vita reale e quindi è di fatto una riduzione salariale. Ma il bello è che, soddisfatti i peggioramenti normativi nel primo biennio del contratto, ancora il primo dicembre del 2003 quell’aumento non era stato dato. Cosicché, da un contratto che prevedeva più orario e lo stesso salario (a credere alle loro statistiche) si è passati ad un contratto che impone più orario per meno salario. Insomma l’esatto opposto di quella che dovrebbe essere la rivendicazione principale dei lavoratori. Da ciò si può cominciare a comprendere la rabbia dei tranvieri.

    Inoltre bisogna aggiungere che, se in passato questa categoria faceva indubbiamente parte di una aristocrazia operaia, proprio per questo negli ultimi anni è fra quelle che, relativamente alle altre, ha perso di più. Per esempio, il vicedirettore del personale dell’azienda di trasporti pubblici genovesi afferma: «Oggi con 1.000 dipendenti in meno – eravamo 3.100 dieci anni fa – garantiamo più servizi», ossia più chilometri di guida. Secondo il quotidiano locale, il Secolo XIX, «gli autisti che mancano all’organico sono 2.000. L’equivalente delle 400 mila ore di straordinario annuale che consentono di garantire il 20% dei servizi». Sicuramente la situazione è generale e non peculiare della sola Genova.

    * * *

    Procediamo con una cronaca dei fatti soffermandoci solo sulle questioni più importanti.

    Dunque, l’azione risoluta dei tranvieri milanesi il primo dicembre determina l’immediata reazione del fronte padronale. Chi fa parte di questo fronte? Come sempre è andando dritti per la propria strada che si scoprono i veri amici, i nemici e, cosa più importante, si smascherano i falsi amici.

    Innanzitutto lo Stato. Il prefetto invia subito un primo rapporto alla Commissione di Garanzia e si ripromette di riferire all’autorità giudiziaria «perché valuti eventuali profili di responsabilità penale» (afferma il portavoce della Prefettura). In questa primissima fase, secondo fonti confederali, il prefetto milanese ritiene che non ci siano le condizioni per la precettazione, misura che richiederebbe, proprio a suo dire, regole precise. Cambierà presto opinione, sia lui sia i suoi colleghi delle altre città, ricorrendo (altro che “regole precise”!) preventivamente alla precettazione, che infatti scatta per il 2 dicembre. «La decisione – afferma il prefetto – è maturata dopo un incontro in prefettura con il Sindaco Albertini, il vicesindaco De Corato, l’assessore ai Trasporti Goggi, i vertici dell’Atm, il Comandante del Presidio militare, gen. Iacomino, e i responsabili delle Forze dell’ordine. Tutti i partecipanti all’incontro hanno condiviso le preoccupazioni per l’ordine pubblico qualora anche domani dovessero ripetersi non preavvisate e illegittime astensioni dal lavoro». Prima conferma dei capisaldi marxisti: lo Stato è la massima struttura organizzata della borghesia per tenere soggiogati i lavoratori.

    Passiamo dal Prefetto al signor Albertini, sindaco di Milano. Anch’egli non si esime dal ricorrere alle minacce, preannunciando davanti alle telecamere azioni legali contro gli scioperanti e definendo lo sciopero una «azione di intollerabile violenza che sconfina palesemente nel sabotaggio». Ed in fondo ha proprio ragione! Che cos’è lo sciopero se non il sabotaggio del sacro giro d’affari di aziende e classe borghese in generale? Proprio per questo è efficace: perché va a colpire l’unico punto sensibile, i soldi, di una classe per il resto totalmente insensibile, a cominciare dalle condizioni di vita dei lavoratori.

    Dall’inveire contro i tranvieri in sciopero non si astengono nemmeno le tanto pubblicizzate, da tutti, “associazioni dei consumatori”, prime fra tutte quelle “di sinistra”. Altroconsumo e Codacons annunciano esposti alle autorità giudiziarie prefigurando il reato di interruzione di pubblico servizio.

    Ma i peggiori nemici sono i falsi amici. Perciò dei vari protagonisti del fronte antisciopero quello su cui va più battuto il chiodo sono i sindacati di regime, i confederali e quelli “autonomi” come la FAISA CISAL. È necessario dimostrare ai lavoratori come costoro facciano in pieno parte del fronte nemico e come quindi, per lottare e vincere, sia necessario liberarsi di questo “nemico interno”, uscendo da questi falsi sindacati e ricostruendo un nuovo e forte sindacato di classe.

    Venuto a conoscenza dello sciopero dei tranvieri milanesi il segretario della CGIL Epifani afferma: «Non condividiamo, condanniamo il comportamento degli scioperanti». Poi, per non sbilanciarsi troppo e compromettersi: «Bisogna rispettare le regole, ma i lavoratori sono esasperati. È vergognoso che non sia stato rinnovato il contratto». Peccato, signor Epifani, che il contratto non fosse da rinnovare, ma, semplicemente, da onorare! Poi riprende la litania: «Violare le regole non è ammissibile perché si prendono in ostaggio altri lavoratori e si toglie consenso alle proprie iniziative». Ed invece proprio la radicalità della lotta ha trovato consenso fra molti lavoratori di altri settori, cosa che spaventa moltissimo la CGIL.

    Epifani ha ben imparato alla scuola dei padroni: colpisce nei punti deboli, facendo leva sulla paura dei lavoratori più indecisi di rimanere isolati. Vedremo che però stavolta gli andrà proprio male.

    È chiaro che bloccando il traffico di una metropoli come Milano molti lavoratori perdano ore di lavoro e perciò salario. I meno consapevoli, i più isolati e influenzabili, bombardati dai mezzi di informazione, se la prenderanno coi tranvieri, senza andare oltre. I più consapevoli, invece, comprenderanno che la lotta di un settore della classe è la lotta di tutta la classe, che se i tranvieri strappano corposi aumenti salariali gli altri lavoratori potranno ambire e pretendere altrettanto. Comprendono infine che i metodi di lotta risoluti dei tranvieri indicano il da farsi a tutti gli altri lavoratori.

    È molto semplice: un sindacato di classe fa leva sui lavoratori più coscienti, più combattivi, e li incita a solidarizzare con i tranvieri. Se ha la forza indice scioperi di solidarietà. Lavora a favorire un grado di maturità dei lavoratori tale che ogni qual volta sia colpito un solo settore della classe tutti i lavoratori si sentano colpiti. Lavora insomma per l’unità dei lavoratori. Un sindacato di regime, quale è la CGIL, fa esattamente il contrario: fa leva cioè sui lavoratori più incoscienti, aizzandoli contro i fratelli di classe, isolando la categoria in lotta.

    D’altronde, se scioperasse, poniamo, la tal fabbrica che produce vetri per auto per la FIAT, e lo sciopero durasse il tempo necessario ad esaurire le scorte di magazzino delle aziende e della FIAT stessa, cosa molto facile col processo di produzione ora in utilizzo del just-in-time, questi lavoratori non prenderebbero forse “in ostaggio” gli operai della catena FIAT, bloccando la produzione anche di quella fabbrica? È chiaro che più cresce la massa del sistema produttivo capitalistico, il che avviene in continuazione, più la produzione diviene interconnessa e fragile, più è impossibile che uno sciopero in un’azienda abbia conseguenze solo per quella singola unità produttiva. E ciò è un bene! Perché favorisce l’unione dei lavoratori in quanto tali, al di sopra dei confini aziendali e settoriali, contrastando il processo che invece, in senso inverso, attraverso spacchettamenti, “esternalizzazioni”, moltiplicazione delle forme contrattuali, ostacola la ricomposizione delle forze della classe lavoratrice, la sua unità. Ciò per cui, come già detto e come ripeteremo mille volte, lavora duramente un sindacato di classe.

    Dopo Stato e sindacati di regime passiamo al terzo protagonista del fronte antisciopero, quello più ovvio, i padroni. In loro rappresentanza facciamo parlare il presidente dell’Assolombarda Perini, il quale dichiara che lo sciopero non solo danneggia il “mondo del lavoro” (notare la vicinanza di argomentazioni con Epifani), ma esso è niente meno che “un attentato alla popolazione”! Speriamo non ne venga a conoscenza la santa alleanza internazionale contro il terrorismo!

    Il 4 dicembre l’agenzia Adn-kronos riporta la seguente notizia: «”Sarebbe una buona iniziativa se potesse essere praticabile”. Con queste parole il sindaco di Milano Gabriele Albertini commenta la proposta arrivata ieri sera da rappresentanti Ds del Comune di Milano, di impiegare i militari in caso di un nuovo sciopero dei dipendenti Atm».

    Chiudiamo la rassegna dei protagonisti del fronte antisciopero coi mezzi di informazione che in questa occasione hanno ben mostrato di essere un prezioso strumento nelle mani dei padroni. Solo due esempi, fra i tanti, più eclatanti. Il Corriere della Sera del 2 dicembre si sente portavoce di “tutta Milano” e adempie al suo compito di tenere informati i cittadini titolando: «L’urlo della città: licenziateli». Il vignettista Forattini sulla Stampa non vuole sfigurare in quanto a trivialità contro i tranvieri e presenta gli scioperanti come stupratori.

    Nonostante il dispiegarsi di tutto questo arsenale contro di loro, fatto che rappresenta la regola e non l’eccezione, i tranvieri non si sono fatti intimidire ma anzi hanno rincarato la dose.

    Allo sciopero del primo dicembre seguono 15 giorni senza che nulla apparentemente accada. Si potrebbe pensare che lo sciopero selvaggio di Milano resti, come tante altre volte è successo, un episodio isolato. Ma il 15 dicembre per padroni, Stato e sindacati di regime crolla questa speranza. Per non perdere ulteriormente credibilità, quindi influenza, quindi possibilità di far digerire le cure dimagranti aziendali e di fare il solito pompieraggio nelle lotte, CGIL, CISL, UIL e FAISA proclamano per questo giorno un nuovo sciopero. Ma il risultato è opposto a quello sperato dai confederali.

    A Milano sabato 13 il Prefetto aveva precettato preventivamente per lunedì 15 i tranvieri, solo nelle fasce di garanzia, onde evitare un nuovo collasso della circolazione. L’obiettivo è raggiunto e i tranvieri possono ricevere le lodi del vicesindaco De Corato: «Ringraziamo il Prefetto e il senso di responsabilità dei tranvieri per aver sconfitto quel partito della Milano a piedi che contava oggi di regalare a Milano un nuovo lunedì nero». Ma De Corato si sbaglia. Non solo le fasce sono rispettate ma lo stesso sciopero ha un’adesione inferiore alle altre città. Nella mattinata al deposito Sarca, uno dei più combattivi dei nove di Milano, il segretario della FILT CISL Ballotta tiene un’assemblea. Dopo il suo intervento oltre il 40% dei lavoratori presenti riprende il lavoro rimarcando così la propria valutazione sulle proposte dei confederali. Che sia questo il motivo dell’adesione fiacca dei tranvieri milanesi e non “il senso di responsabilità dei tranvieri” risulterà lapalissiano dall’evolversi della lotta.

    Nelle altre città i lavoratori esprimono la stessa posizione ma in modo opposto, estendendo cioè lo sciopero, seguendo l’esempio dato dagli stessi milanesi il 1 dicembre.

    A Brescia il blocco parte all’alba ad inizio turno. Il Prefetto precetta tempestivamente ma i lavoratori continuano lo sciopero ritenendo la precettazione non valida in quanto non nominativa. Poco prima di mezzogiorno giungono al deposito polizia e carabinieri. Il deposito ha due uscite, in via Obera ed in via Danino. Entrambe sono picchettate dai tranvieri che, all’arrivo delle forze dell’ordine, si siedono in terra. Per l’occasione si sono presentati i vertici della questura bresciana e 6-7 camionette della polizia coi rispettivi poliziotti in assetto antisommossa. In prima fila il vicequestore Dominaci, uno degli indagati per le false molotov di Genova con cui si voleva giustificare il pestaggio dei no-global alla scuola Diaz. Si svolge un corpo a corpo in cui i poliziotti cercano di trascinare via i lavoratori. Il tentativo fallisce e a questo punto anche i pochi tranvieri che erano sui mezzi, pronti ad uscire, scendono a terra. In breve arrivano anche alcuni lavoratori dei vigili del fuoco, del settore pubblico, della scuola, in segno di solidarietà. Lo sciopero totale riesce nonostante precettazione e polizia.

    A Torino domenica 14 si era svolto un incontro in Prefettura per scongiurare lo sciopero selvaggio. Dall’incontro i compari ne concludevano la non necessità della precettazione. Evidentemente i confederali erano convinti di poter ancora controllare la situazione. Ma avevano sbagliato i calcoli. Come a Brescia il blocco scatta all’alba. Intorno alle sette intervengono anche a Torino, in alcuni depositi, polizia e carabinieri ma solo un centinaio di mezzi, su circa ottocento in servizio nella fascia oraria, escono. A questo punto il Prefetto precetta i lavoratori; una decisione presa, afferma, «dopo che nelle fasce orarie tra le 5 e le 8 e tra le 6 e le 9 ha circolato solo una minima parte dei veicoli previsti per l’astensione dei conducenti dal servizio o a causa di blocchi ai depositi da parte dei manifestanti, che hanno reso necessario l’intervento della forza pubblica», confermando il successo dello sciopero.

    Il Ministro del “Welfare” Maroni commenta: «Meglio tardi che mai». Il Manifesto del 16 scrive: «C’è voluta una lunga trattativa condotta direttamente dalle forze dell’ordine per convincere un centinaio di autisti – su 800 – a uscire per un paio d’ore. La precettazione disposta per il pomeriggio ha incontrato comunque il netto rifiuto di almeno 200 autisti o, come riferiva la Cgil, l’impossibilità di uscire a causa di “un blocco effettuato da un gruppo di manifestanti”. Una situazione che ha mandato in bestia il sindaco (Ds) di Torino, Sergio Chiamparino, che ha accusato i sindacati “o non hanno più la percezione adeguata di ciò che avviene nella loro base, oppure ieri al tavolo del prefetto qualcuno ha barato” (era stato assicurato, come dovunque, il rispetto delle fasce orarie)».

    A Firenze riesce il blocco totale nella prima fascia e di due depositi su tre nella seconda.

    In molte altre città i lavoratori fanno ampio ricorso alla malattia, gravando così pesantemente sul servizio nelle fasce protette. È il caso in particolare di Bari, Taranto, Foggia, Cosenza, Napoli, Genova e Torino stessa. È un’arma anch’essa efficace, ma che, senza voler prendere alcuna distanza moralistica, evidenzia una forza notevolmente inferiore rispetto allo sciopero ed ai picchetti.

    (Continua al prossimo numero)

     
     
     
     
     



    Velo islamico e berretto frigio

    La statolatria borghese attribuisce al gran Leviatano attributi più che divini, secondo l’usata formula “tutto nello Stato, niente fuori dallo Stato”. Anche la “laicità”, che, per definizione, è ciò che ne sta all’esterno, diventa così mostruosamente una prerogativa, e monopolio, del cosiddetto “Stato laico”. Le difficoltà interpretative che ne derivano e le contraddizioni “etiche” sono ovviamente inestricabili.

    Come tutte le divinità anche quella super degli Stati è gelosa degli dei delle altre religioni, che dichiara a sé sottomessi. Non a caso tutti gli Stati finanziano apertamente e surrettiziamente le Chiese – Stato borghese modello francese compreso – se le sono comprate o ne dispongono in leasing.

    Ma ogni loro atteggiamento, bacchettone o “laico” che sia, è ai soli scopi opportunistici attinenti la loro funzione controrivoluzionaria e di divisione del fronte internazionale della classe operaia.

    Ne è un esempio la proibizione di portare il velo imposto alle studentesse di fede islamica in Francia, la kippà agli ebrei osservanti, il turbante ai sikh, eccetera. Siamo certi che lo scopo è – esattamente il contrario di quanto dichiarato, di imporre con la forza della legge la “uguaglianza” fra cittadini-studenti e la loro “integrazione” – quello di rimarcare e sancire la divisione religiosa fra le comunità.

    E risparmiare sul bilancio della scuola pubblica: infatti chi non vorrà che i suoi figli rinuncino al foular o allo zuccotto li iscriverà ad una scuola confessionale, chiudendoli così ben bene nel loro ghetto.

    Nemmeno noi comunisti autoritari, nel periodo di transizione dal capitalismo e di dittatura sui borghesi, prevediamo, per decreto, di proibire le pratiche religiose e che ci si spogli dei loro segni. Tanto più quelli individuali. Non si cambia il mondo moralisticamente, partendo dalle teste (appunto!) con disposizioni sui copricapi. Il partito comunista – materialista marxista ed unico ambiente veramente anti-religioso e libero dai feticci antichi e moderni – si metterà alla direzione delle insorte masse proletarie e le condurrà alla vittoria molto prima che queste si liberino, nella loro grande maggioranza, di riti antichi, di abitudini e gestualità familiari, delle superstizioni del passato e, pessime, contemporanee.

    Quanto a certe dissonanti e provocatorie mode giovanili, quando potranno non essere indotte dalla senilità di un mercato e di uno Stato, saranno sempre un necessario, e quindi utile per la sua parte e simpatico, frutto acerbo della vita.
     
     
     
     
     
     
     
     

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    In sciopero i lavoratori dei supermercati in California

    Nell’ottobre scorso tre grandi catene di supermercati statunitensi, Safeway, Albertson’s e Kroger, avevano minacciato i loro lavoratori della California del Sud della decurtazione dei contributi sanitari. Infatti negli Stati Uniti l’assistenza sanitaria non è garantita dallo Stato ma materia contrattuale, addirittura a livello aziendale.

    70.000 lavoratori delle tre catene commerciali sono allora scesi in uno sciopero risultato il più grande nella storia della categoria. I picchettaggi furono estesi dai negozi di vendita ai magazzini di distribuzione, ottenendo così di estendere lo sciopero e bloccando il flusso dei rifornimenti.

    Ben presto tuttavia i negoziatori del sindacato di categoria, la United Food and Commercial Workers (UFCW), aderente alla centrale AFL-CIO, iniziarono a cedere, con indebite concessioni ai padroni delle tre catene.

    A novembre revocarono lo sciopero dei 18.000 lavoratori dei supermercati Ralph’s, facenti parte della catena Kroger: la giustificazione era di porre così maggiormente sotto pressione le altre due Compagnie, con il ricatto della concorrenza, quando invece risultava ben chiaro che le tre agivano come un blocco unico di fronte ai lavoratori.

    Nel frattempo la direzione del sindacato dei camionisti, i quali avevano iniziato un robusto sciopero di solidarietà, ha deciso che la solidarietà avrebbe dovuto essere soltanto simbolica, e ha interrotto lo sciopero.

    A dicembre i capi sindacali, come segno di disponibilità verso la controparte, rimuovevano i picchetti dai centri di distribuzione, con il risultato di interrompere le azioni di solidarietà. Intanto offrivano notevoli concessioni al tavolo delle trattative. Contemporaneamente venivano ridotti alla metà i fondi di sostegno per gli scioperanti (mentre i caporioni sindacali continuano a godere dei loro strabilianti stipendi da funzionari).

    Nonostante questa politica disfattista e sabotatrice, lo sciopero proseguiva ancora a gennaio quando, sotto la pressione degli scioperanti, i capi sindacali erano costretti a autorizzare la ripresa dei picchetti ai supermercati Ralph’s.

    Verso la fine del mese, essendo ormai chiaro che le Compagnie si apprestavano alle stesse decurtazioni contro i lavoratori in tutti gli Stati Uniti, la centrale sindacale AFL-CIO annunciava che avrebbe fatto sua la vertenza e lanciata una campagna per l’estensione della lotta in tutto il paese. In realtà, invece che lotte vere, si è trattato di rumorose ma inefficaci proteste, con qualche picchetto simbolico, episodi di disobbedienza civile ed incontri di preghiera nella speranza che, se il sindacato non era riuscito a toccare il cuore dei padroni, ci riuscisse un miracolo divino.

    Ciò che sarebbe necessario non sono eventi pubblicitari, ma aumentare la pressione economica – più scioperi e picchettaggi che realmente facciano chiudere i negozi – contro le Compagnie anche nel resto del paese, dove continuano a far profitti nonostante la chiusura delle affiliate sulla costa occidentale. Tale passo non c’è nei piani di azione della AFL-CIO, che non ha nemmeno condannato la ritirata della direzione del sindacato dei camionisti. È ben improbabile quindi che il burocrati della AFL-CIO facciano meglio di quelli della UFCW.

    Questa impotenza è tipica di sindacati che in realtà sono strumenti dello Stato e dei padroni, un insulto alla volontà di lotta dei lavoratori, impegnati in una lotta fra la vita e la morte. Così il sindacato AFL-CIO acconsente che i lavoratori esprimano il loro sdegno di classe con gli scioperi, ma li sospende prima che divengano una vera minaccia agli interessi delle aziende, che sono sempre direttamente opposti a quelli dei lavoratori.

    Per questo, se vogliono vincere, i lavoratori del commercio devono:
    – Non rinunciare alla richiesta di assistenza sanitaria, sia che il sindacato continui ad appoggiarla sia che no. Rifiutarsi di interrompere sciopero e picchettaggi fintanto la richiesta non sia accolta.
    – Estendere lo sciopero a tutto il paese. La Borsa di Wall Street impone alle Compagnie di far cessare gli scioperi uscendone vincitrici; ma i lavoratori possono spezzare i piani dei padroni con uno sciopero nazionale.
    – Esigere dalla AFL-CIO un aumento del sostegno economico agli scioperanti, magari tagliando gli stipendi vergognosi dei caporioni sindacali.
    – Far azioni di pressione sui crumiri, sia che il sindacato lo approvi o no, ed ignorare le regolamentazioni legali, che esistono solo per proteggere i profitti dei padroni. Fare dei veri picchettaggi e non solo simbolici.
    – Richiedere la ripresa e l’estensione degli scioperi di solidarietà dei lavoratori della distribuzione e delle categorie collegate.
    – Organizzarsi con lavoratori delle altre catene commerciali e delle altre categorie in una rete capace di difendere gli interessi immediati dei lavoratori contro i padroni e che sia pronta a farlo quando i sindacati ufficiali dimostrino il loro vero volto disfattista. Né i dirigenti della AFL-CIO né i politicanti del Partito Democratico faranno alcunché per la classe operaia – solo i lavoratori stessi possono lottare per i loro interessi.

    L’attacco all’assistenza sanitaria e ai salari non sono solo contro i lavoratori della grande distribuzione ma sono perpetrati contro tutti gli operai in tutto il paese, nel mezzo di una crisi economica internazionale, inevitabile nella economia capitalista.

    Per battersi con successo contro l’offensiva padronale, gli operai di tutte le categorie, compresi gli immigrati, e i lavoratori degli altri paesi, devono unirsi per respingere i tentativi della classe dominante di mettere lavoratori contro lavoratori. Nello stesso tempo si deve formare un sindacato di classe, che agisca indipendentemente contro i padroni, lo Stato e i sindacati ufficiali e che difenda gli interessi della classe operaia senza compromessi.

    Le prospettive di successo pieno per i dipendenti dei supermercati americani sono oggi scarse per il tradimento e l’opera di sabotaggio perpetuata dai capi sindacali. Ma, se pur questo sciopero verrà sconfitto, è una chiara indicazione della strada da percorrere in generale e una lezione sul vero ruolo delle attuali organizzazioni sindacali di regime.
     
     
     
     
     
     
     
     



    Vox populi

    Nel numero scorso abbiamo fatto riferimento ad una notizia, non vera, apparsa su Repubblica, quella della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale dell’acquisto da parte dello Stato italiano di vari tipi delle famigerate armi di distruzione di massa. Il giornale in questione ed altri, assieme a personaggi vari della cultura e della politica di area democratica, avevano preso un abbaglio: non si trattava di elenchi di materiale da acquistare o da produrre, ma, al contrario, di armi soggette alle restrizioni della legge 185 del 1990, che recita: “Sono vietate la fabbricazione, l’importazione, l’esportazione ed il transito di armi biologiche, chimiche e nucleari, nonché la ricerca preordinata alla loro produzione o la cessione della relativa tecnologia”. La legge quindi lo esclude in modo tassativo.

    Il fatto poi se veramente l’Italia si astenga dallo studiare, comperare, fabbricare e commerciare questi tipi di armi è tutt’altra questione. Lo stesso sottosegretario di Stato per la Difesa, Filippo Berselli, rispondendo ad una interrogazione parlamentare dell’On. Deiana ed altri, non si è sbilanciato nel negare: “L’elenco in questione viene redatto con l’evidente obiettivo di esercitare un rigoroso controllo sulla delicata materia, non ultimo quello di non permettere l’incondizionata circolazione di materiali pericolosi, costringendo quindi produttori e acquirenti a richiedere una esplicita licenza di esportazione”. La risposta non è chiarissima e lascia adito al permanere di sospetti sul transito, sullo smercio ed addirittura sulla produzione.

    Ma per noi il nocciolo della questione non è questo. Abbiamo riportato la notizia per portare un esempio dell’ipocrisia dello Stato borghese, che si ammanta di pacifismo mentre sfodera la spada per i suoi interessi imperialistici nei confronti del nemico esterno, e soprattutto per la salvaguardia di quelli di classe, contro il nemico interno, il proletariato.

    Non è che venendo meno l’acquisto delle cosiddette armi di distruzione di massa la nostra argomentazione sia venuta meno; anzi potremmo dire che viene avvalorata. Si pensi, solo per un attimo, quanto afferma la “nostra” Lex Legum (ossia la Carta Costituzionale) al suo articolo 11: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Commovente. Ma ciò non impedisce allo Stato, qualunque sia il colore del governo in carica, di inviare il suo esercito in tutti gli scenari di guerra del pianeta senza tirarsi indietro nemmeno quando le “missioni di pace” comportino bombardamenti sulle città e sulle inermi popolazioni da liberare dal tiranno. E l’uso di far contaminare civili e militari con polveri di Uranio, chiediamo è chimico, biologico o nucleare...? Attendiamo la pubbicazione sulla Gazzetta Ufficiale di una Legge che lo stabilisca.

    Noi non chiediamo alla borghesia di disarmare né di fare la guerra con metodi umanitari. E quando smascheriamo le sue mistificazioni non dobbiamo neanche fare supporre a chi ci ascolta che se il regime capitalista fosse in grado di eliminare le armi chimiche, batteriologiche e nucleari o, addirittura, per assurdo impossibile, fosse in grado di mantenere uno stato di pace perpetua, noi cesseremmo per un solo istante la nostra battaglia per la sua distruzione.

    Non è un caso che le mistificazioni sulle atrocità della guerra, che sconciamente sempre rimbalzano da un fronte all’altro, accomunino tutti quanti i nostri nemici, dai socialdemocratici ai preti, dai democratici ai fascisti. Non fu Hitler ad accusare Stalin di avere commesso crimini contro l’umanità?
     
     
     
     
     
     
     
     



    NOTIZIARIO

    «Non costituisce reato»

    Riguardo alle centinaia di lavoratori del Petrolchimico di Mestre morti in pochi anni di tumore, il Tribunale ha sancito solennemente e in grado definitivo che, secondo la Legge, in questa società, in nome del Profitto, provocare direttamente scientemente e premeditatamente una strage per morte orribile degli operai “NON COSTITUISCE REATO”. Quasi contemporaneamente in Spagna la Procura Generale ha rigettato la richiesta anche ad una sola inchiesta giudiziaria sulla pericolosità del lavoro, che in Spagna è il doppio della media U.E.

    Ultimissime conferme di come l’apparato giudiziario emani da e risponda a questa società borghese. Non c’è da stupirsi, fin da Marx sappiamo che la famosa divisione dei poteri propria del capitalismo, ed insegna massima di questo putrido regime, non è che il paravento che nasconde la realtà del potere unico e dittatoriale della classe borghese e del suo Stato. Se, come dice qualcuno, la Magistratura “è piena di comunisti”, intende con la parola, ovviamente, dire “democratici”, forse a lui avversi ma certamente molto prima, “ontologicamente” e radicalmente avversi alla classe operaia e, a maggior ragione, al comunismo. E di “lui”, forse, ancor più reazionari.
     

    Chiesa cattolica e sessualità

    Circa 85 milioni di dollari dovrà sborsare la Chiesa Cattolica di Boston alle vittime degli abusi sessuali dei suoi sacerdoti. Per pagare venderanno la sede episcopale, un lussuoso edificio fatto ad imitazione di un palazzo italiano del Rinascimento, con undici ettari di giardino. Ma, se Santa Madre Chiesa, evidentemente, ne busca e perde, letteralmente, terreno negli Stati Uniti, in Europa, e in particolare in Italia, a quanto pare mantiene ancora ben salda la presa. Come spiegare altrimenti la inopinata e frettolosa approvazione della legge che gravemente limita la fecondazione assistita, se non con pressioni Vaticane. Si noti che, mentre la proibizione di contraccettivi ed aborto veniva, ipocritamente, giustificata con la difesa della procreazione della specie secondo il Comandamento “crescete e moltiplicatevi”, questa va funerea nella direzione opposta, e nel paese con la più bassa natalità del mondo!