Partito Comunista Internazionale Indice - Numero precedente - Numero successivo
"Il Partito Comunista" n° 306 - giugno 2004 - [.pdf]
PAGINA 1 – Per cosa fu davvero combattuta la Seconda Guerra Imperialista.
– Gli operai scioperano - Confindustria e Sindacati concertano.
Pericolo giallo
PAGINA 2 RIUNIONE GENERALE DEL PARTITO, Genova, 29-30 maggio [RG89]: Corso della crisi - Economia marxista - La Guerra Civile in USA - Antimilitarismo e movimento operaio in Italia.
PAGINA 3 Gran Bretagna: Imbrogli anti-operai ed esplosioni di sciopero represse dai dirigenti sindacali - Gli scioperi di autunno - La reazione dei lavoratori delle poste - Altre vertenze  (Continua dal numero scorso).
Lo sciopero nei supermercati americani (Prima parte).
PAGINA 4 Scioperi e Sindacati: Lo sciopero come azione collettiva - Gli scioperi di Cgil, Cisl e Uil..
Tranvieri.
– Un unico nemico ai lavoratori tessili del “Nord” e del “Sud”.

 
 
 
 
 

PAGINA 1


Per cosa fu davvero combattuta la Seconda Guerra Imperialista

Il presidente degli Stati Uniti, in occasione della ricorrenza dei 60 anni dalla e della occupazione dell’Europa, è venuto nel Vecchio Continente a rammentare e ribadire, agli imperialismi di secondo e terz’ordine, chi ancora è il padrone del mondo. Roma, come d’uso, non ha fiatato ma nemmeno Parigi ha osato ribellarsi al dato di fatto e Chirac non ha mancato esaltare nell’America “l’amica di sempre”. Nessuno del coro degli Stati vassalli europei ha fatto eccezione. Ma nemmeno alcun partito “di sinistra” né di “estrema sinistra”: tutti quanti, rappacificati e unanimi, hanno tenuto a precisare che l’eventuale avversione all’amministrazione Bush, a causa della attuale guerra in Iraq, non intacca affatto il sentimento di gratitudine dovuto nei confronti del capitalismo americano per il ruolo generosamente svolto nella liberazione dell’Italia, dell’Europa e del Mondo intero dall’incubo del nazifascismo.

Come potranno i velleitari imperialismi europei pretendere di limare gli artigli agli Stati Uniti e reclamare la loro parte nella spartizione del bottino iracheno quando non solo non hanno la possibilità di contrapporre forza alla forza, ma non osano – ancora – nemmeno liberarsi da una soggezione morale che da più di mezzo secolo li lega all’invasore?

La bufala della Seconda Guerra, che sarebbe scoppiata per porre freno all’espansionismo e alla sete di dominio degli Stati nazifascisti, quanto durerà? Fintanto tornerà utile. Ma non è escluso che domani una parte dei capitalismi europei, aggregati ad un opposto fronte imperialista, tornino a denunciare lo “strapotere USA”, di oggi e di ieri.

* * *

A dimostrazione di quanto sia falso lo schema che descrive Democrazia e Fascismo come nemici inconciliabili basterebbe rammentare quale fu la giustificazione teorica dalla quale scaturì il fascismo in Italia: rinnegare che il Partito Socialista dovesse opporre la guerra fra le Classi alla guerra fra gli Stati. La pretesa era che pure il proletariato avesse, nelle istituzioni e nelle libertà costituzionali elargite dalle nazioni democratiche, un patrimonio da difendere contro il pericolo di ritorno indietro del corso della storia. Il fascismo nacque come movimento di opinione filo-democratico, con i finanziamenti della democratica Francia.

Fascismo e Nazismo, rispettivamente nel 1922 e nel 1933, arrivarono al potere avvalendosi esclusivamente degli strumenti legali concessi loro dai regimi democratici. Quanto alle lunghe serie di violenze e di uccisioni che accompagnarono queste legali e perfettamente democratiche ascese al potere, esse furono perpetrate prevalentemente ai danni del proletariato e delle sue organizzazioni di classe, con il sostegno ed il plauso dei partiti e degli Stati democratici, sia a livello nazionale interno sia internazionale. E ciò per il semplicissimo motivo che Fascismo e Nazismo, davanti al Capitale internazionale, avevano il grande merito di salvare l’Europa dalla minaccia della Rivoluzione comunista.

La Sinistra comunista ha sempre negato che le guerre fra gli Stati possano scoppiare per ragioni ideologiche, religiose, né per motivi umanitari o corbellerie simili; ha invece dimostrato, in studi che abbracciano ormai l’arco di quasi un secolo, come sia il modo di produzione capitalista a determinarle e come non ci possa essere barba di prete o di pacifista che, perdurando l’attuale regime, le possa scongiurare. È solo la spudoratezza dei borghesi e dei partiti operai-borghesi che continua a sostenere le necessarie giustificazioni delle guerre, che si combatterebbero sempre a difesa della libertà dei popoli.

Coerenti con la linea di condotta di antica tradizione democratica i paesi, del Vecchio e del Nuovo Mondo, non mossero un dito per impedire che la Spagna democratica soccombesse, che vi venisse instaurato un terzo regime fascista, e che l’esercito di Franco, apertamente appoggiato da Roma e Berlino, scatenasse una guerra ed una repressione sanguinosissima nei confronti dell’indomito proletariato iberico. Le democrazie occidentali (e la Russia stalinista), coscienti del significato di classe che la vittoria di Franco avrebbe rappresentato, ancora una volta preferirono risolvere la questione sociale disinteressandosi delle forme di governo. In Spagna la Libertà e la Democrazia vennero immolate. E da quel bagno di sangue proletario il capitalismo internazionale trasse nuovo vigore e vita.

Alla Germania, nel 1938, fu concesso di invadere ed annettere l’Austria, né alcuna protesta venne da Parigi o da Londra, che adottarono quella politica che nel linguaggio diplomatico e giornalistico del tempo fu definita dell’“appeasement”, ossia di comprensione verso quelle che vennero considerate delle legittime esigenze del Terzo Reich.

Nel frattempo l’Inghilterra aveva riconosciuto l’annessione dell’Etiopia all’Impero italiano e con il cosiddetto “Gentleman’s Agreement” venivano appianate le controversie tra Roma e Londra in merito al dominio nel Mediterraneo.

Immediatamente dopo l’Anschluss dell’Austria le mire di Berlino si indirizzarono verso la repubblica Cecoslovacca. Dal punto di vista dei trattati internazionali questa nazione si sarebbe dovuta trovare in una “botte di ferro”; oltre a far parte della Piccola Intesa (Cecoslovacchia, Iugoslavia e Romania), vantava una alleanza con la Francia dal 1925 e con l’URSS dal 1934. Fu così che, a contrastare l’espansionismo tedesco, il governo inglese inviava a Praga Lord Walter Runciman per convincere quel governo ad accordare ai Sudeti la più larga autonomia. E quando Hitler fece sapere che avrebbe preteso l’annessione di quelle province, ancora una volta furono Francia ed Inghilterra a fare pressioni su Praga perché venissero accettate le richieste di Berlino. Mano a mano le pretese della Germania si facevano più consistenti e pressanti, Francia ed Inghilterra si prestavano al gioco, fino ad arrivare alla famosa Conferenza di Monaco nel corso della quale, senza che il governo del paese di cui si giocava il destino fosse minimamente interpellato, Inghilterra, Francia, Italia e Germania decretarono di fatto la fine dello Stato Cecoslovacco. Tutto quello che nei mesi successivi avvenne non fu che la conseguenza degli accordi intercorsi tra le potenze democratiche e quelle fasciste.

Fu sempre per contrastare l’espansionismo nazifascista che i paesi democratici rimasero impassibili di fronte alle annessioni: italiana dell’Albania e tedesca della Lituania.

Il 23 agosto 1939 a Mosca venne firmato un patto di non aggressione tra la Germania e la Russia ex-comunista: il patto stabiliva che nel caso che una delle due potenze fosse entrata in guerra, l’altra non avrebbe aderito a coalizioni direttamente od indirettamente rivolte contro di essa. Ma l’aspetto più significativo del patto fu il suo protocollo segreto in base al quale i due paesi stabilivano le rispettive sfere di influenza. La Russia avrebbe avuto carta bianca sulla zona orientale della Polonia, in Estonia, in Lettonia, in Finlandia; la Germania nella Lituania e nella Polonia occidentale.

Il 1° settembre 1939 le truppe tedesche varcarono il confine polacco. Il 3 settembre Francia ed Inghilterra rispondevano dichiarando guerra alla Germania.

La guerra non venne quindi dichiarata per tener fede ai trattati di alleanza; altrimenti le potenze democratiche avrebbero dovuto dichiarare guerra alla Germania già all’epoca della occupazione della Cecoslovacchia. La guerra non venne dichiarata neppure per salvare uno Stato democratico dall’aggressione del nazismo: il governo polacco di Pilsudski era altrettanto dittatoriale di quello di Hitler. Non si dichiarò guerra nemmeno per salvaguardare l’integrità nazionale e territoriale della Polonia: essa veniva contemporaneamente occupata dalle truppe tedesche e da quelle russe.

Nemmeno la guerra fu dichiarata contro le Dittature e per la Democrazia in quanto tutte le potenze occidentali (e poi anche la Russia) avevano per 17 anni appoggiato, Churchill entusiasticamente, il regime di Mussolini e non contrastato quello di Hitler.

Nè fu guerra delle Democrazie contro le Dittature: nel fronte democratico stava la peggiore di tutte le dittature, lo stalinismo. E, a guerra finita, alla Russia non fu lasciata libertà di azione solo su quelle regioni che Hitler le aveva accordato nel 1939, ma le democratiche America ed Inghilterra le permisero, nella concordata spartizione dell’Europa fra i vincitori, di sottomettere tutta quanta la Polonia, metà della Germania, la Cecoslovacchia, l’Ungheria, la Romania, la Bulgaria e le Repubbliche Baltiche.

Gli sbarchi americani del 1944 in Italia e Francia, se ebbero, l’effetto di far cadere i governi di Roma e di Berlino, non furono a quello scopo ma di affermare il dominio statunitense nel Mediterraneo e nell’Europa occidentale tutta. Furono tappe di una unica invasione, passata da Versailles nel 1917/18 e diretta a Berlino. Ma che non si sarebbe fermata a Berlino perché, a differenza di quello nazista che si limitava ad una parte dell’Europa orientale, «lo spazio vitale dei conquistatori statunitensi è una fascia che fa il giro della terra; è il punto di arrivo di un metodo cominciato con Esopo quando il lupo disse all’agnello che gli intorbidava l’acqua pur bevendo a valle. Bianco nero e giallo, nessuno di noi può più ingollare un sorso d’acqua senza intorbidire i cocktails serviti ai re della camorra plutocratica nei nightclubs degli States». Questo affermammo nel 1949 ed ora non c’è democratico di sinistra, o “no-global”, che non lo constati amaramente.

Ma allora, perché si sono trovati a commemorare lo sbarco di Normandia (con l’Italia messa occasionalmente alla porta) i rappresentanti degli Stati vinti e dei vincitori, gli eredi dei paesi democratici e di quelli dittatoriali, tutti inneggianti alla Pax Americana?

In larga misura è viltà ed impotenza, e diplomazia in vista della Terza Guerra, “antiterrorista” che si profila. Ma non solo. È anche sincera gratitudine per avere, da 60 anni a questa parte, tenuto a bada il nemico comune a tutti costoro: il proletariato internazionale che, quando finalmente rialzerà la testa, cosciente della propria forza e del proprio destino di classe, non si limiterà al semplice cambiamento degli stati maggiori politici nel quadro del vigente ordine capitalista, ma farà finalmente piazza pulita di vincitori e vinti, instaurando il suo regime rivoluzionario di classe.
 
 
 
 
 
 
 



Gli operai scioperano - Confindustria e Sindacati concertano

Gli scioperi a Melfi, considerata “fabbrica modello”, hanno colto di sorpresa sindacati, padroni e classe politica.

I primi scioperi a Melfi sono stati spontanei e solo successivamente la Fiom ha cercato di cavalcarli; le cause del malcontento operaio erano i salari più bassi mediamente del 20 per centorispetto al contratto dei metalmeccanici e ai salari degli altri stabilimenti del settore auto; ritmi e carichi di lavoro notevolmente più gravosi che a Mirafiori e a Pomigliano, nonché turni durissimi con imposizione di 15 giorni consecutivi di orario notturno, e la repressione continua in misura di circa 5.000 provvedimenti disciplinari l’anno, dalla multa al licenziamento. Tutti questi elementi hanno portato ad una diffusa condanna della Fiom, che dieci anni fa plause alla “iniziativa sociale” della Fiat, approvando i bassi stipendi, la produttività elevata e il sistema di lavorazione “just in time”, improntato alla massima flessibilità.

Segnali di malessere tra i lavoratori del gruppo si erano già avuti nei mesi scorsi a Mirafiori, il cui destino è totalmente incerto. I costi di produzione di Mirafiori, a parità di vetture assemblate, sono superiori a quelli di Termini Imerese e notevolmente più alti rispetto a Melfi. L’azienda propose, anzi, pretese di introdurre il TMC2, famigerato sistema di sfruttamento presente a Melfi, e in contemporanea metteva in cassa integrazione migliaia di lavoratori. Questi hanno risposto con scioperi spontanei inducendo la direzione aziendale a fare retromarcia.

Da ricordare cosa sta accadendo all’area ex Alfa Romeo di Arese, ormai in totale dismissione i cui pochi lavoratori rimasti hanno più volte bloccato l’Autostrada Milano-Laghi per chiedere certezze sul loro futuro e non “ipotesi” sul ricollocamento nel nuovo “polo logistico” di prossima realizzazione nell’area.

La vertenza di Melfi è terminata con una molto parziale vittoria per i lavoratori, della quale si è attribuita il merito la Fiom.

La lotta di Melfi non ha però modificata la politica antioperaia del politicantume “di sinistra”. Questo si è tutto dato a celebrare e a pettegoli commenti sugli avvicendamenti alla direzione dell’azienda e a proporre le sue logore ricette di cogestione.

Poco dopo lo sciopero, infatti, è deceduto il presidente della Fiat Umberto Agnelli. Quasi immediatamente si è dimesso dalla carica di amministratore delegato Giuseppe Morchio il cui piano omonimo di risanamento del gruppo prevedeva lacrime e sangue, in particolare una cura dimagrante per il settore auto affidato all’austriaco Demel, assai più adatto del predecessore, il torinesissimo Boschetti, a far ingoiare bocconi amari a quel che resta della più numerosa “classe operaia” italiana. Morchio, dicono, non avrebbe per nulla gradito la nomina a presidente di Luca di Montezemolo, ex pupillo dell’Avvocato Agnelli. Il personaggio (un tempo soprannominato “Libera e Bella”), che sarebbe oggi assai “amato dagli italiani” per aver riportato alla vittoria il “giocattolo” Ferrari, ha meriti invero più per la cronaca rosa che per quella industriale e finanziaria.

Ma il “ferrarista”, eletto ai vertici della Confindustria, ha ritenuto prioritaria “la ripresa della concertazione”, con estrema soddisfazione dei sindacati della triplice, un po’ bistrattati nel quadriennio D’Amato, e dai partiti della sinistra di regime, i quali vedrebbero nel nuovo dirigente di Viale dell’Astronomia un prezioso alleato.

L’ascesa di Montezemolo al piano alto del Lingotto inizialmente non è stata gradita dai banchieri, effettivi padroni del gruppo, debitore di ben 3.000 milioni di euro. Ma hanno confermato il maxi finanziamento.

In questo contesto, con il dr. Cordero si trova la “sinistra” massimalista e opportunista rappresentata da Rifondazione: per contrastare la crisi della Fiat, piccolo laghetto nel più generale oceano di crisi storica del capitalismo mondiale, propongono soluzioni che, pur risibili, non possono non riportare la memoria all’epoca fascista. Il “ferrarista” al termine del consiglio di amministrazione che lo ha eletto, esaltando i modelli del “gruppo”, dalla Maserati alla Panda, invita gli italiani a comprare prodotti italiani. Rifondazione invece, e la parte del sindacalismo di base che influenza, sognano di “nazionalizzare” la Fiat, per poi, magari, insediare qualche loro burocrate ai vertici.

Il capitale, che sia di “destra” o di “sinistra”, a proprietà publica o privata, è comunque ed ugualmente nemico alla classe operaia.

La crisi della Fiat dura da tempo: negli ultimi 15 anni sono stati smantellati gli stabilimenti di Firenze, Chivasso, Lambrate, Desio. I lavoratori non si lasceranno ammaliare dal “padrone di sinistra”, e nemmeno dai “rifondatori”, ma continueranno le lotte uniti, non solo da Arese a Melfi, da Mirafiori a Termini Imerese, ma inquadrati con tutta la classe operaia.
 
 
 
 
 
 
 
 



Pericolo giallo

La crisi economica ha riaperto il dibattito sul cosiddetto “pericolo giallo”. Sembra un problema d’attualità (così lo presentano) dovuto al pesante sfruttamento dei lavoratori in Cina, che genererebbe una concorrenza senza regole, “sleale”. Come se nella rimanente parte del globo non fosse così.

Sono compatibili con l’attuale società, la cui base è la tendenza al massimo profitto, delle regole concorrenziali “leali”?

I paesi più sviluppati hanno investito i loro capitali, non solo in Cina ma in tutti i paesi dove vi sono salari di fame, salari “cinesi”, per realizzare profitti più alti e sopravanzare i concorrenti.

L’Inghilterra dovette cedere il monopolio industriale agli Stati Uniti perché il loro sviluppo venne a rappresentato il centro del massimo profitto. Come contestarlo oggi alla Cina capitalista, sede attuale del massimo profitto? Il profitto è unico, che sia realizzato in Asia, Europa, America, Australia, «e con qualunque mezzo artificiale, dazi protettivi, sovvenzioni da parte dello Stato ecc. Così in Francia, Spagna, in Italia e, dal 1878 anche in Germania s’introdussero dazi protettivi allo scopo di permettere ai capitalisti di imporre alla clientela interna prezzi sufficientemente elevati per consentire la vendita sotto costo dei loro prodotti sui mercati stranieri».

Engels afferma nel 1893: «il signor Struve ha decisamente torto quando paragona lo Stato della Russia a quello dell’America. Egli pensa che gli effetti sgradevoli del capitalismo moderno saranno superati in Russia con la stessa facilità che negli Stati Uniti dimenticando con ciò che gli Stati Uniti nacquero moderni e borghesi, vennero fondati da piccoli-borghesi sfuggiti alla morsa del feudalesimo europeo per costruire oltre Oceano una società puramente borghese, mentre in Russia esiste una base di comunismo primitivo, una società precivile e gentilizia che cade bensì in frantumi, ma fornisce pur sempre la sottostruttura, la materia prima sulla quale e con la quale la rivoluzione capitalistica agisce ed opera. In America l’economia monetaria è vecchia di oltre un secolo; in Russia, la regola era quasi esclusivamente l’economia naturale». Per questo tale metamorfosi è stata infinitamente più violenta.

«Mentre l’Inghilterra perde rapidamente il suo monopolio industriale e la Francia e la Germania si avvicinano al grado di sviluppo industriale dell’Inghilterra, l’America è sulla buona strada per espellerle tutte e tre dal mercato mondiale sia dei prodotti agricoli sia dei manufatti industriali». Engels ben antivede qui un percorso che si completerà solo all’indomani della Seconda Guerra mondiale.

Nel secondo dopoguerra si sono uniti all’universo capitalistico gran numero di paesi che hanno superato l’economia naturale, come dimostra il maggior traffico di merci svoltosi nel Pacifico per la prima volta negli anni 1990. «Per Marx ed Engels, l’oro della California aveva fatto di quella costa estesa, precedentemente quasi disabitata, una terra ricca e civile, densamente abitata da uomini di tutte le razze. L’oro californiano si riversava a torrenti sull’America e sulla costa asiatica dell’Oceano Pacifico trascinando i riluttanti barbari nel traffico mondiale, nella civiltà, fino ad avere, l’Oceano Pacifico, l’importanza che ha avuto l’Atlantico e il Mediterraneo nell’antichità, quella della grande via marittima del commercio mondiale».

Engels in una lettera del 1892 scrive: «Uno dei fenomeni che accompagnano necessariamente lo sviluppo della grande industria è che questa distrugge il proprio mercato con lo stesso processo mediante il quale lo crea». «Il passaggio dell’economia naturale all’economia monetaria, questo mezzo fondamentale per la creazione del mercato interno a favore del capitale industriale, genera una profonda devastazione». E maggiormente nell’attuale alta produttività del lavoro.

«Agli inizi il capitalismo solo lentamente assorbì il contadino nell’orbita della manifattura; l’esportazione o l’importazione della rivoluzione industriale nelle aree ad economia naturale lo travolge dalla sera al mattino».

Questo si compie soltanto a prezzo di terribili sofferenze e di spaventosi sconquassi. «Ma la storia è più crudele di quanto si possa immaginare; essa guida il suo carro trionfale su montagne di cadaveri, non soltanto in guerra ma altresì nel pacifico sviluppo economico. E noi siamo purtroppo così stolti che non riusciamo a trovare il coraggio a progressi degni di questo nome se non vi siamo spinti da dolori che ci sembrano quasi smisurati». Questo vale per tutte le aree che passano da un’economia naturale ad un’economia monetaria, sconquassi che saranno sempre più spaventosi, perché si adeguano oramai ad uno sviluppo industriale già avvenuto. Lo abbiamo visto per la Russia, all’inizio del secolo scorso ed alla sua fine, ma diventerà ancora peggiore per la Cina e le altre aree.

Così minano i mercati interni con la stessa facilità con la quale li creano, dando inizio ad una crisi economica mondiale senza precedenti. La loro crisi non nasce dal commercio ma dalla produzione, non si spiega né si concilia con particolari regole commerciali. Con esse e col fantasma giallo vogliono nascondere le vere uniche cause capitaliste e giustificare, ancora una volta, una guerra di distruzione di merci e forze produttive che non possono più essere contenute nel sistema capitalista.

Dietro la facciata dell’Iraq e della “guerra al terrorismo” vogliono nascondere l’attuale crisi internazionale del Capitale e l’inizio della guerra, in procinto di esplodere nella sua totalità internazionale. Ogni guerra fra Stati borghesi ha sempre più il carattere controrivoluzionario preventivo, perciò per la classe operaia è sempre più impellente lottare per sabotarla e per la rivoluzione proletaria, che ponga fine al sistema del profitto, causa delle guerre imperialiste.

Il “pericolo giallo” è uno spettro, per i borghesi, lo spettro del capitalismo, che ha fatto il giro del Mondo e che, come capovolto in uno specchio, appare per quello che è: lo spettro del Comunismo.
 

(Citazioni da lettere di Engels a Danielson del 1891-94 e da Vita di Marx di F.Mehring).
 
 
 
 
 
 
 
 

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RIUNIONE GENERALE DEL PARTITO
Genova 29-30 maggio 2004
[RG89]



 
 

Corso della crisi
Economia marxista
La Guerra Civile in USA  [Resoconto esteso] The American Civil War [Extended report]
Antimilitarismo e movimento operaio in Italia [Resoconto esteso]

 

Ci siamo ritrovati per la riunione generale nella sede della nostra spaziosa redazione di Genova gli scorsi 29 e 30 maggio. Con alcuni già arrivati nella giornata del 28, oltre che dall’Italia erano presenti compagni dall’Inghilterra, la Francia e la Spagna. Tutto si è potuto svolgere nel migliore e più ordinato dei modi grazie anche all’organizzazione approntata dai genovesi, così silenziosa, accurata e senza alcun intoppo tanto da apparire quasi invisibile.

La mattina del sabato l’abbiamo dedicata, com’è uso, alla verifica e adeguamento dei piani di lavoro. Abbiamo considerato i diversi studi commissionati sulle questioni della storia e della dottrina del movimento e sull’analisi dei fatti in corso. In particolare, circa i recenti scioperi dei tranvieri e degli operai di Melfi si sono considerati gli accadimenti e le valutazioni riportate nella nutrita documentazione emanata dai diversi sindacati, precedentemente raccolta, ordinata e fatta pervenire a tutta l’organizzazione.

Concordavamo quindi l’ordine delle future pubblicazioni, a stampa e sul sito internet, nelle diverse lingue, e il programma di nuove traduzioni.

Diamo qui un rapido sunto dei rapporti esposti, che troveranno presentazione estesa nei prossimi numeri delle riviste del partito.
 

Corso della crisi

Una prima informativa è stata data sul corso della economia capitalistica mondiale, consistente in un aggiornamento dei dati correnti della produzione industriale nei principali paesi. Alla parete erano stati esposti i grafici che meglio dei numeri possono esprimere l’andamento generale delle grandezze.

I diagrammi coprono tutto l’arco temporale di questo dopoguerra, a cadenza annuale, con un “ingrandimento” ad intervallo mensile per gli ultimi tre anni. I paesi di cui abbiamo visto i dati in questa riunione erano Stati Uniti, Francia, Germania, Giappone e Gran Bretagna.

Abbiamo cercato di dare una valutazione della molto sbandierata “ripresa” attuale. Questi i dati quantitativi, ovviamente di fonte borghese.

Per Stati uniti e Giappone l’ultimo mese disponibile era marzo, per Francia gennaio, per Germania e Gran Bretagna febbraio. Qui abbiamo fatto 100 la produzione dell’ultimo massimo precedente in quel mese.

    Anno   Usa   Giap.  Germ.  Gr.Br. Fran.
          mar.   mar.   feb.   feb.   gen.
    2000  100    100           100
    2001   98,6   97,3  100     97,1  100
    2002   96,1   89,4   95,8   89,4   98,1
    2003   97,1   93,3   98,6   89,3   98,9
    2004  100,4  100,5  100,4   90,4   99,9
Ne risulta che la “ripresa”, per ora, è più immaginata che reale. A parte la Gran Bretagna, che appare del tutto incapace di recupero, gli altri si sono limitati a colmare il vuoto provocato dalla trascorsa recessione. Insomma, un impasse della cui gravità forse questi dati ufficiali riferiscono solo in parte.
 

Economia marxista

Il rapporto alla scorsa riunione aveva trattato dell’accumulazione del Capitale così come rappresentato dal Quadro della riproduzione semplice di Marx, che il curatore Engels ordinò nel Capitolo 20° del Libro Secondo. In questa riunione abbiamo proseguito la disamina della questione dell’accumulazione del capitale, confrontando l’approccio di Marx, da considerare culmine storico insuperato della cosiddetta scuola “classica” dell’economia, con gli apporti successivi, che qualifichiamo senz’altro come “volgari”.

Oltre che le anticipazioni di Marx, innumeri, sono fondamentali gli scritti di Engels, in particolare la sua caustica Prefazione alla pubblicazione nel ‘94 del Terzo Libro.

La lunga depressione del 1866 veniva a confermare l’inevitabilità delle crisi cicliche previste da Marx. La coscienza borghese, costretta a rigettare le catastrofiche conclusioni del marxismo, allora abbandonava senz’altro il terreno scientifico e, nella seconda metà del secolo, si dette ad elaborare una nuova teoria economica, detta “marginalismo”. Questa, nelle sue numerose elaborazioni ed inevitabili aggiustamenti, ha imperato nelle aule universitarie, fra i Premi Nobel e nelle illusioni-inganni della cosiddetta “pianificazione” dell’Est e dell’Ovest per più di un secolo.

Si chiama marginalismo in quanto si fonda sul postulato della “utilità marginale decrescente” secondo il quale il costo per ottenere una unità addizionale di prodotto cresce al crescere della quantità prodotta, legge economica empirica questa del tutto irrealistica, smentita da ogni comunque osservabile corso della storia moderna.

Questa nuova teoria non si presenta come una critica della precedente, classica, e con essa non si confronta: né, del resto, potrebbe. Semplicemente la ignora. In tutta l’opera principale di quello che è correntemente ritenuto il massimo esponente dell’economia del Novecento, La Teoria Generale di Keynes, Marx non è citato nemmeno una volta. La cosa ovviamente non ci rincresce affatto: a nemico che fugge...

Il marginalismo esordisce nel 1871 con un testo del Menger, “Principi di Economia Pura”. Puro è concetto relativo e negativo, significa depurato, o epurato e, nel 1871 (nostro anno-termine), poteva esser depurato solo d’una cosa: dalla scienza e da ogni suo portato rivoluzionario.

La scuola classica, fin dai suoi albori seicenteschi e nelle sue approssimazioni “mercantilista”, “fisiocratica” e “politica”, aveva impostato l’economia come scienza sociale storicamente determinata, coscientemente anti-scolastica. Come le contemporanee scienze nascenti della fisica, nei suoi schemi e quadri rappresenta un flusso materiale continuo di beni e di valori all’interno di necessari e determinati raggruppamenti sociali che sono le classi. Come il ciclo naturale dell’acqua sulla Terra così la circolazione della ricchezza è la linfa che permette la vita sociale e ne determina l’evoluzione.

Il marginalismo abbandona questo terreno per ritrarsi (la solita “robinsonata”) sull’individuo, privo di ogni connotazione storica e di classe, e sulla sua volontaria scelta nel singolare atto mercantile. La grandezza di valore, che, come la massa per la fisica di Galileo, era stato l’oggetto della secolare indagine della economia, finalmente disvelato da Ricardo-Marx, trascende evidentemente questo angusto orizzonte molecolare, e pertanto viene ignorata a favore di “quello che si vede”, cioè il prezzo.

Il prezzo della merce, che per Marx è determinato dal suo valore – il tempo medio sociale necessario a riprodurla – diventa effetto di suggestioni psicologiche, del gusto, di chi compra e di chi vende. Maggiore è il mio individuale bisogno per una merce, la cosiddetta “utilità marginale”, maggiore è il prezzo che sono disposto a pagare; maggiore è la pena del lavoro, la “disutilità marginale”, maggiore il salario che esigerò dal padrone, e così via per semplicemente racchiudere tutta la potenza del complesso meccanismo della produzione e riproduzione del Capitale, della finanzia e della moneta in una infinita serie di rapporti mercantili: fra commerciante e consumatore, e viceversa, fra operaio e capitalista, e viceversa, fra risparmiatore e investitore, e viceversa.

L’analogia immediata è con la teoria molecolare della pressione dei gas, una concezione gassosa della storia, che trascura l’esistenza e i bruschi passaggi di stato a liquido e a solido.

È evidente che una simile fragile costruzione, oltre che certo incapace di qualsivoglia previsione, ben difficilmente poteva reggere alle tempeste delle crisi economiche mondiali. Detta opera del Keynes, di rattoppo del marginalismo, è del 1935, quando non era proprio più sostenibile l’ammissione che i milioni di disoccupati fossero tali perché i salari erano troppo bassi (il che sperimentalmente, fra l’altro, è falso), inferiori alla “disutilità del lavoro”, e se ne stessero a casa per individuale e libera scelta.

Si può osservare che il capitale, il grande capitale, non è più ormai capace di darsi una dottrina storica ed economica generale e si adorna di inutile cianfrusaglia che ricorre a stilemi d’ispirazione piccolo borghese.
 

La Guerra Civile in USA

Il rapporto successivo, sulla Guerra Civile Americana, ha riguardato il periodo immediatamente seguito alla cessazione delle ostilità, chiamato della “Ricostruzione”.

Dopo la morte di Lincoln prese il suo posto il suo vice, Andrew Johnson, con l’intento di completarne il lavoro. Che era di graduale, ma non poi tanto, reintegro della oligarchia meridionale ai posti di potere. Anche la questione dei negri veniva vista come un problema da aggirare, in modo che sostanzialmente in quel campo le cose tornassero alla situazione prebellica. Insomma, ci si accontentava del mantenimento dell’unità federale, ma da un punto di vista economico non c’erano intenti particolarmente innovativi.

A questa posizione si oppose quella dei Repubblicani Radicali, che già con Lincoln avevano avuto modo di scontrarsi. Questi intendevano la sconfitta del Sud come la sconfitta anche di un sistema produttivo e sociale: i negri dovevano emanciparsi non solo a parole ma nei fatti, con il diritto al voto, all’educazione, alla terra. Solo in questo modo la guerra avrebbe raggiunto un risultato duraturo e progressivo; altrimenti i sudisti, che avevano perso la guerra, avrebbero vinto la pace.

Il braccio di ferro che ne seguì portò alla messa in minoranza di Johnson, che scampò all’impeachment per un voto. Per tre anni i radicali svolsero un programma di riforme che poteva essere effettivamente rivoluzionario in senso borghese. Ma le condizioni interne allo schieramento capitalistico erano tali che il programma fallì.

La borghesia del Nord, dopo una fiammata rivoluzionaria, nella quale aveva cercato di essere conseguente nel suo rivolgimento della società affinché tutta aderisse al modello borghese liberal-democratico (anche se in questo mai unita), si era accontentata di avere raggiunto il fine principale della guerra civile, quello di mantenere unita la Federazione. Questo era essenziale a diversi scopi, tutti importanti: in primo luogo la borghesia si garantiva un mercato interno di rispettabili dimensioni, in tumultuosa crescita, che avrebbe garantito uno sbocco per le merci, non ancora competitive sul mercato mondiale; poi si assicurava un retroterra pacificato per poter arricchirsi e speculare con le immense possibilità aperte dalla conquista del West, ancora in corso (e che era riservato alla colonizzazione del Nord); infine, poteva rivolgere la sua attenzione, forte di un paese sviluppato economicamente e posto in posizione militarmente favorita, a qualsiasi avventura imperialistica si fosse presentata.

I negri si sarebbero dovuti arrangiare. Di fatto la loro condizione nel 1877, alla fine del periodo (la cui parte finale i sudisti chiamano “Redenzione”), non era molto migliore di quella precedente, anzi, sotto molti aspetti era peggiore. Piano piano i sudisti infatti ristabilirono il cosiddetto home rule, con le buone e spesso con le cattive (è l’epoca in cui nasce il Ku Klux Klan).

Nel 1877, quando la classe operaia del Nord fa risentire la sua voce, le ultime truppe di occupazione sono ritirate.

I negri avrebbero continuato a costituire lo strato più basso, sottomesso, sfruttato, vessato, della società meridionale per altri 80 anni.
 

Antimilitarismo e movimento operaio in Italia

Il rapporto sull’antimilitarismo si è occupato del periodo 1912/1914, dalla fine della guerra libica all’inizio della Prima Guerra mondiale, insistendo soprattutto sulle ripercussioni che le vicende ebbero sul proletariato e sul Partito Socialista Italiano.

A guerra conclusa l’insegnamento che il proletariato ebbe a trarre dalla campagna libica fu ben sintetizzato dal movimento della gioventù socialista, cioè che la guerra aveva sgomberato il campo dai falsi alleati del proletariato, che fino ad allora il Partito Socialista aveva considerato come possibili compagni di strada ma che, di fronte alla guerra, in un sol blocco si erano schierati dalla parte degli interessi imperialistici italiani.

Approfittando dell’ulteriore indebolimento dell’ormai decrepito Impero ottomano dovuto alla guerra contro l’Italia, Serbia, Bulgaria, Grecia e Montenegro iniziarono le ostilità contro la Turchia per la spartizione dei possessi turchi in Europa, ossia le regioni attualmente occupate da Albania, Kossovo, Macedonia, nord della Grecia, sud della Bulgaria. Questa guerra, che dagli uffici di propaganda delle potenze interessate allo smembramento dell’Impero turco veniva presentata come di indipendenza e di liberazione di popoli oppressi, raccolse l’entusiastica adesione di tutti i partiti “progressisti” d’Europa e non mancarono neppure gli arruolamenti e le partenze di volontari.

La corrente rivoluzionario del PSI sciolse il nodo gordiano dell’atteggiamento da tenere nei confronti delle guerre balcaniche con un taglio nettissimo. L’Avanguardia scriveva: «Noi non facciamo questione se la guerra in tal caso sia giusta o ingiusta. La storia non si giustifica, si osserva soltanto. Discutiamo solo la posizione che deve assumere in questi conflitti un partito rivoluzionario di classe». E all’interrogativo se questa guerra avesse potuto accelerare lo sviluppo della borghesia nel paese ancora feudale veniva risposto con un netto no e con un plauso all’eroico atteggiamento dei compagni serbi e bulgari che la avevano tenacemente avversata. Nella guerra balcanica non veniva visto un moto di indipendenza contro la sopraffazione ed il dominio turco quanto l’ambizione ed il banditismo degli Staterelli locali che avevano sempre soffiato nel fuoco dell’odio di razza. Non ultimo vi si ravvisava il carattere di guerra per procura delle potenze europee e della Russia, in vista del non lontano scontro aperto tra gli imperialismi

Infatti, la sconfitta della Turchia e la pace che ne seguì non segnarono che un breve intervallo tra due guerre, quanto bastò a determinare nuovi schieramenti di alleanza per cui gli ex nemici divennero alleati e gli alleati nemici. Sui campi di battaglia le popolazioni balcaniche e turche si scannavano reciprocamente, ma le sorti della guerra venivano determinate dagli interessi imperialistici delle grandi potenze ed imposte dalle rispettive diplomazie.

La Pace di Bucarest, dell’agosto 1913, si lasciò alla spalle morte, devastazioni e miseria delle popolazioni, e soprattutto lasciò irrisolti, anzi acuiti, tutti i problemi razziali e sociali.

I marxisti rivoluzionari italiani auspicarono che il proletariato balcanico potesse trovare ancora lo slancio di rivolta contro le dinastie nazionali che lo avevano condotto al massacro ed insorgesse contro il nemico comune: il militarismo sanguinario, dinastico e borghese.

Il rapporto passava poi ad analizzare l’atteggiamento tenuto dal Partito Socialista Italiano nei confronti della Guerra europea, scoppiata nel ‘14.

A Vienna, a Berlino, a Parigi, a Londra i Partiti Socialisti non solo non avevano pronunciato una sola parola contro la guerra, ma avevano votato la loro approvazione ed i crediti militari. Ai governi degli Stati capitalistici non solo furono lasciate le mani libere, ma i socialisti parlamentari fecero ancora di più: entrarono nei governi che presero l’ignobile nome di Unione Sacra.

Di fronte a questa tremenda rovina non vi furono che poche ma gloriose eccezioni: in Russia quella dei bolscevichi; in Inghilterra coraggiosamente contrario fu il Partito Indipendente del Lavoro; vero esempio di internazionalismo conseguente dettero i serbi, gli unici che avrebbero potuto vantare il motivo della difesa nazionale; all’opposizione si tenne pure il Partito Socialista bulgaro.

In Italia si era verificata una situazione tutta particolare, perché quasi tutti i partiti parlamentari borghesi in un primo momento si opposero all’intervento che, in base agli accordi diplomatici, avrebbe dovuto avvenire a fianco degli Imperi Centrali. Così il governo italiano il 2 agosto annunciava la sua neutralità mentre, in realtà, si preparava a scendere in guerra a fianco dei paesi “civili e democratici”, Russia zarista compresa.

Il rapporto ripercorreva le tappe del tradimento mussoliniano che, dalla iniziale proposta di proclamazione dello sciopero generale insurrezionale, passava al possibilismo, condizionava la neutralità del proletariato al fatto che la patria non venisse “aggredita” e terminava affermando che il partito avrebbe dovuto riservarsi di determinare la sua azione “a seconda degli avvenimenti”, ritenendo che la formula della “neutralità assoluta” fosse diventata troppo impegnativa e “dogmatica” davanti ad una situazione internazionale sempre più “complessa” ed irta di incognite preoccupanti. Come si vede gli argomenti dei traditori del marxismo non si discostano mai da un unico copione.

Nel prossimo rapporto si riferirà della posizione in merito della corrente di estrema sinistra del partito.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Gran Bretagna
Imbrogli anti-operai ed esplosioni di sciopero represse dai dirigenti sindacali

(Continua dal numero scorso)
 

Gli scioperi di autunno

Negli scorsi ottobre e novembre è diffuso un notevole malumore in molte categorie sulla questione salariale, in particolare nelle poste, nelle ferrovie, fra i vigili del fuoco e che deborda in altri settori del pubblico impiego.

Abbiamo già riferito di cosa sta avvenendo nelle poste inglesi, con il progetto di ristrutturazione della Royal Mail: l’obiettivo di eliminare 30.000 posti su circa 220 mila già in questo giugno è raggiunto a metà.

Due sono i principali sindacati nelle poste inglesi, il Sindacato Lavoratori delle Comunicazioni (CWU) e la Federazione di categoria dell’AMICUS, che organizza i dirigenti. Il segretario nazionale federale dell’AMICUS, Peter Skite, riferiva The Times nel giugno 2003, si riteneva “abbastanza soddisfatto” di come andava attuandosi il piano triennale di ristrutturazione: evidentemente i membri del suo sindacato non si considerano fra quelli in prima linea.

La direzione della Royal Mail aveva avanzato un’offerta del 14,5% di aumento, dilazionato su un periodo di 18 mesi, contro l’accettazione dell’intero pacchetto, così ripartito: 4,5% più il 10% qualora tutti gli obbiettivi di taglio dei costi fossero raggiunti, compresi i 30.000 licenziamenti. Il CWU rispose che aveva “tutto” da contestare. La Royal Mail allora preferì ignorare il CWU e mandò una lettera direttamente ai dipendenti per illustrare i termini dell’offerta.

Un minimo (100 sterline annue) era l’aumento dell’indennità per il costo-alloggi nella zona di Londra. La questione dell’indennità per Londra stava quasi per provocare uno sciopero non-ufficiale lo scorso 1 agosto e fu fermato solo quando la Royal Mail minacciò il CWU di ritenerlo responsabile di qualsiasi sciopero selvaggio qualora si provasse che era stato a conoscenza dell’intenzione dei lavoratori di scioperare e non avesse fatto nulla per fermarli. Il CWU allora invitò i 200.000 postini a votare contro l’offerta del 14,5% e rimise la questione dell’indennità per Londra ad una votazione separata. Dicevano che sarebbe bastato il voto favorevole allo sciopero per costringere la direzione a far marcia indietro (figurarsi!).

La Royal Mail, che aveva dato per scontato il bluff del CWU, andava invece dicendo che qualunque fosse stato il risultato del voto per lo sciopero i lavoratori sarebbero stati licenziati entro Natale. Intanto erano state fatte filtrare dichiarazioni ai media su si sarebbe fatto ricorso ai dirigenti e a personale avventizio per far funzionare le poste durante lo sciopero.

Già nel passato i postini avevano votato per lo sciopero, ma spesso poi non era stato indetto. La votazione nazionale (gestita ovviamente dal CWU) bocciò lo sciopero, ma solo per la differenza di 2.000 voti. Ancora una volta è evidente che la lotta si sarebbe potuta svolgere secondo il metodo tradizionale operaio, e non su quello cucitogli addosso dai dirigenti del CWU.

Il 40% dei lavoratori non ha votato. Ma a Londra, sulla questione dell’indennità, hanno votato in 15.000, e la maggioranza 5 a 2 era per lo sciopero. Le sedi fuori Londra, inoltre, erano state minacciate di chiusura e le intimidazioni non si sono risparmiate.

Ma il fatto è che molti operai hanno una assai misera considerazione della gestione del CWU, anche se il suo dirigente e il suo deputato laburista al parlamento, rispettivamente Bill Hayes e Dave Ward, son parte della cosiddetta “Squadra dei coscritti”, la sinistra sindacale. Dave Ward, vecchio dirigente sindacale della regione di Londra, si è dato per motto “più impegno per Londra”. Non basta certo denunciare che il “New Labor” è alleato alla Royal Mail, né un poco più di falsa opposizione a Blair per rintuzzare gli attacchi in arrivo.

Molti postini ricordano ancora l’ultimo sciopero nazionale, nel 1996, contro il governo Tory: capo del sindacato era allora Alan Johnson; ora è ministro laburista all’Educazione, lo stesso governo che organizza gli attacchi. Questo è uno dei prezzi da pagare per l’affiliazione al Labour Party!
 

La reazione dei lavoratori delle poste

Proteste e scioperi iniziano alla metà di ottobre contro le richieste di straordinario ad Oxford e per la indennità a Londra; la Royal Mail offre di cambiare le condizioni locali in cambio del ritorno al lavoro.

Ma la continua pressione sui lavoratori porta un quindici giorni dopo ad esplosioni di una serie di scioperi non ufficiali, che si sarebbero presto estesi a scala nazionale. Dave Ward, del CWU, negò subito che il sindacato ne fosse responsabile – il che è appunto la sua colpa e responsabilità!

Sembra che la lotta sia iniziata dapprima a Greenford, nel West London, estendendosi a cinque uffici di smistamento, seguiti da quelli di Oxford, Peterborough e Glasgow. Glasgow era particolarmente combattiva. Il giorno dopo, il 29 ottobre, due terzi dei 28.000 postini erano scesi in sciopero, seguiti dei centri dell’Essex e del Kent. Il 2 novembre lo sciopero si era esteso a Portsmouth e a Swindon. La diffusione dello sciopero era principalmente dovuta a che la dirigenza della Royal Mail aveva spostato la corrispondenza da smistare in altri centri, inducendo anch’essi ad interrompere il lavoro. L’intasamento cresceva, anche se a Londra le cassette della posta erano state sigillate e si chiedeva ai londinesi “per il momento” di astenersi dall’inviare posta.

Il vice primo ministro, John Prescott, scese allora nella mischia minacciando l’intervento del governo. Questo era già intervenuto nello sciopero dei vigili del fuoco e l’avrebbe fatto ancora se necessario. «Noi non siamo parte nelle trattative, ma è una questione di modernità», disse Prescott.

La direzione della Royal Mail accusò comunque i dirigenti del CWU di appoggiare gli scioperi: riteneva che un incontro tenuto al centro di Kings Cross due settimane prima fosse servito a “complottare” l’onda di sciopero. La risposta dei funzionari londinesi del CWU fu che si erano sì colà incontrati, ma giusto per discutere un’azione di soli due giorni, uno in novembre, l’altro in dicembre, cioè due dei soliti scioperi stile ufficiale. Norman Candy, uno dei due maggiori rappresentanti londinesi del CWU, affermò che essi mai si sarebbero recati in un centro di smistamento per indurre a scioperi non ufficiali, perché questo avrebbe invalidato il risultato del ballottaggio sullo sciopero per l’indennità dell’area di Londra. Il CWU aveva impiegato molte tempo e risorse per ordinati scioperi ufficiali, così perché lo si minacciava provocando scioperi non ufficiali?

La Royal Mail accettò queste assicurazioni, e perfino gli inviò una lettera per ammettere che, in fin dei conti, il CWU non aveva appoggiato gli scioperi non ufficiali.

Quindi, dove era da cercare il responsabile? Escludendo che “provocatorie” fossero le loro stesse azioni, i caporioni della Royal Mail allora pensarono ad “agitatori” all’interno dei luoghi di lavoro. Poiché gli scioperi erano cominciati alla periferia, come a Bristol, Stoke e Warrington, allora doveva esserci una rete di agitatori all’opera. I dirigenti, insieme ad alcuni investigatori privati, si infilavano nei picchetti e pedinavano singoli scioperanti. Ripresero fotografie e video per cercare di identificare eventuali turbolenti. Con il solo risultato di infiammare maggiormente lo sciopero.

Banche, compagnie di credito ed agenzie governative stavano prorogando i termini delle scadenze a causa dello sciopero. Erano affari rimandati per le organizzazioni finanziarie, costrette ad aspettare con pazienza la fine dello sciopero. Gran piagnisteo fu sollevato per i problemi del piccolo commercio, che la Royal Mail li ignorò, ma quando le grandi compagnie, principali utenti del servizio postale, minacciarono di passare ad altri fornitori del servizio, la Royal Mail si precipitò in “pregnanti” discussioni con il CWU. In poche ore lo sciopero fu sospeso, e ci si accordò per l’inizio delle trattative.

Di conseguenza fu revocato dal CWU lo sciopero programmato per prima di Natale, Ulteriori annunci furono dati di un accordo raggiunto fra la Royal Mail e il CWU, e questo sarebbe stato argomento di votazione dei postini solo l’anno entrante.
 

Altre vertenze

Contemporanee allo sciopero delle poste sono state avanzate rivendicazioni salariali alla UNISON per la indennità a Londra. Non deve sorprendere che nessun collegamento sia stato stretto fra il CWU e la UNISON per le identiche rivendicazioni. UNISON portava avanti una richiesta di 4.000 sterline annue per i lavoratori dell’amministrazione comunale di Londra, molti dei quali sono ausiliari nelle scuole, bibliotecari e custodi in altri edifici municipali.

Solo il giorno dopo che i postini erano tornati al lavoro parte la vertenza dei vigili del fuoco, motivata per la rinegoziazione di un precedente accordo. Più di metà del paese vide dimostrazioni, picchetti e rifiuto di accorrere se non che ai casi di emergenza. Andy Gilchrist, dirigente del Sindacato dei pompieri, FBU, sollecitava ulteriori trattative per rivedere il precedente accordo col governo. Fu proposta una votazione, “consultiva”, sull’azione di sciopero, che, se approvato, avrebbe condotto poi ad un’ulteriore votazione, solo dopo la quale lo sciopero avrebbe potuto, finalmente, essere dichiarato. La richiesta di un’assemblea fu rifiutata, perché avrebbe dato un certo potere al vigili del fuoco, piuttosto che ai funzionari sindacali: sarebbe stato difficile ignorare la richiesta di sciopero che fosse uscita di una simile conferenza.

Anche gli addetti ai bagagli all’aereoporto di Heathrow e di Liverpool erano coinvolti in vertenze sui salari che portarono a scioperi e ad altre forme di lotta.

Altra vertenza si è avuta a metà ottobre nella Metropolitana di Londra, per timori sulla sicurezza a seguito di un deragliamento a Camden, nel quale sette passeggeri rimasero feriti. Rallentamenti furono programmati per dicembre.

A metà novembre un macchinista, Chris Barret, fu licenziato per assenteismo. Il licenziamento portò immediatamente ad un’interruzione spontanea del lavoro che bloccò parte della rete metropolitana di Londra. Il sindacato RMT minacciò ulteriori scioperi se il lavoratore non fosse stato reintegrato al suo posto, ma tali minacce di sciopero sono rimaste tali e lo sciopero ulteriormente rimandate all’anno nuovo. Il RMT è impegnato in trattative con la ACAS, l’agenzia governativa di conciliazione, ma certo non ne verrà fuori nulla. La evidente lezione, anche in questo caso, è che occorreva scendere e restare in sciopero finché il licenziamento non fosse revocato.

Ken Livingston, sindaco di Londra, approfittando dell’occasione per fare dello scandalismo moralista, ha lasciato cadere la sua immagine di amico-degli-operai, e ha dichiarato che era stato giusto licenziare Barrat. Livingston era in trattative per ritornare nel Labour Party sotto la direzione Blair: si troverà certamente di nuovo bene nel Labour Party, insieme a tutti gli altri crumiri di professione e campioni contro gli operai.

Il Sindacato dei Sevizi Pubblici e Commerciali (PCSU) contesta l’aumento del 2,6% concesso dal governo ai dipendenti del Dipartimento del Lavoro e delle Pensioni, l’organismo responsabile dei pagamenti e dell’assistenza. Quasi 90.000 dipendenti pubblici sono interessati dalla questione. Vi sono state interruzioni del lavoro a Glasgow e scioperi a Basildon, nell’Essex.

Quindi gli ultimi mesi hanno confermato che la classe operaia inglese non ha perso il suo spirito battagliero, né che la lotta di classe è finita “nel bidone della spazzatura”, come l’associazione degli industriali inglesi pretenderebbe.

Sono gli ulteriori sviluppi della crisi del capitalismo, con gli incessanti attacchi ai livelli di vita dei lavoratori, che la lotta di classe deve affrontare. Solo l’unificazione operaia sulla base dei sindacati, stringendo legami, creando reale solidarietà fra i lavoratori in lotta, può resistere ai padroni. E far questo significa ignorare gli attuali dirigenti dei sindacati, anche quelli che si dichiarano scontenti del capitalismo, e sono parte della cosiddetta “Squadra dei coscritti”.
 
 
 
 
 
 



Lo sciopero nei supermercati americani

Non sono molti i lavoratori che hanno saputo dello sciopero nei supermercati del Sud della California, grazie al fatto che il grande sindacato AFL-CIO, in combutta con i media padronali, si è adoperato a tenerlo nascosto, in una congiura per la costante soppressione della memoria di classe. È invece compito del Partito far sì che non si perda il ricodo di questi episodi, non per piangere sulle amare sconfitte, ma per trarne le lezioni e delineare i passi necessari a dare nuova vita alle lotte future.

Questo sciopero, durato quattro mesi, è terminato, come prevedibile, con una sconfitta, nonostante il sindacato UFCW (United Food and Commercial Workers Union) abbia dichiarato vittoria, il 26 febbraio, nel siglare il nuovo contratto con Safeway, Kroger e Albertson’s. I burocrati sindacali vantano che i termini dell’accordo non sono così duri come originalmente offerto dalle Compagnie, ma la differenza è minima e comunque costituisce un’ulteriore erosione delle precarie condizioni di vita dei lavoratori dei supermercati.

Il Presidente dell’UFCW, Doug Doroty, si è sbilanciato a dichiarare che questo «è stato uno dei più riusciti scioperi della storia». Se questo eroico dirigente sindacale (il cui stipendio supera i 300.000 dollari!) avesse ragione la storia degli scioperi operai sarebbe ben deprimente!

Certo la storia dell’UFCW non è edificante. Questo sindacato, che organizza lavoratori degli Stati Uniti e del Canada, fu fondato nel 1979, ma non tardò molto a dimostrare da che parte del fronte di classe era schierato.

Un ben noto episodio che riguarda l’UFCW fu lo sciopero alla Hormel nel 1985. Gli anni ‘80 furono caratterizzati dal peggioramento delle condizioni generali di vita dei lavoratori. Nello stabilimento alimentare Hormel, presso Austin, nel Minnesota, una attacco alle condizioni di lavoro, il taglio di salari e ai rimborsi per l’assistenza medica, avevano sospinto allo sciopero i lavoratori iscritti alla sezione locale. L’UFCW, prima che la lotta iniziasse, si era adoperato per condannare l’iniziativa che rompeva con l’atteggiamento assunto dalle altre sezioni sindacali, pronte alla capitolazione di fronte alle richieste delle aziende. Successivamente i burocrati dovettero ratificare lo sciopero, rifiutandosi tuttavia di estendere la lotta e di organizzare il boicottaggio e non alzando un dito quando la direzione decise di spostare la produzione in altri stabilimenti. Tutta la solidarietà espressa dal sindacato si ridusse ad un’elemosina di 65 dollari a compenso delle ore perdute nello sciopero.

Anche il cosiddetto Partito Comunista USA, in una delle poche occasioni in cui poteva avere una qualche influenza, fece la sua misera figura, richiamando i lavoratori degli altri stabilimenti a non sostenere questo sciopero in quanto avrebbe “rotto il fronte sindacale”, che si stava prostrando di fronte ai padroni.

Ciò nonostante i lavoratori della Hormel riuscirono ad organizzare una significativa solidarietà da parte dei lavoratori della zona, nonostante il boicottaggio delle chiese, delle scuole e della stampa. Presi i contatti con le altre fabbriche, furono organizzati comitati di sostegno alla lotta e il boicottaggio secondario nei confronti dell’azienda.

Indipendentemente dai dirigenti sindacali lo sciopero proseguiva. E quando il presidente dell’UFCW insisté perché i lavoratori accettassero una nuova proposta della Hormel, che sostanzialmente ricalcava quelle che avevano sospinto allo sciopero, i lavoratori opposero il loro netto rifiuto.

Tuttavia la combattività degli scioperanti, isolati dal sindacato che aveva steso un cordone sanitario, non fu infine sufficiente, essendo venuta a mancare la solidarietà che poteva venire solo dall’estensione della lotta ad altri stabilimenti.

Nel 1986 la Hormel iniziò ad assumere crumiri che venivano scortati all’interno dello stabilimento dalla Guardia Nazionale, inviata dal governo democratico “filo laburista” del Minnesota. In tal modo fu stroncato lo sciopero. Alcuni degli scioperanti cedettero e si unirono ai crumiri, mentre molti altri furono licenziati e inseriti in una “lista di attesa”, facendo loro sperare di poter riottenere il posto di lavoro in futuro.

Gli attivisti organizzatori dello sciopero furono non solo espulsi dalla fabbrica, ma anche allontanati dal “movimento sindacale”, accusati del fallimento dello sciopero e del delitto di aver combattuto i padroni.

Lo sciopero alla Hormel è stato un noto esempio del tradimento dei sindacati e anche un’importante dimostrazione della necessità per i lavoratori di darsi una organizzazione di classe capace di combattere i padroni e i burocrati sindacali al loro servizio. È certamente un episodio molto conosciuto e discusso ed ha contribuito a generare sfiducia da parte dei lavoratori nei confronti delle dirigenze sindacali. Molti oggi considerano l’UFCW non come il loro sindacato, ma l’organizzazione alla quale si debbono iscrivere se vogliono ottenere certi posti di lavoro, versando in cambio le quote destinate ai ricchi stipendi che i dirigenti si riconoscono. Un termine frequentemente usato per descrivere l’UFCW e i sindacati di quel genere è “Business Union”, perché gestito come una impresa, rivolta a difendere esclusivi interessi di corporazione.

Sotto l’UFCW l’industria della distribuzione al dettaglio è diventata un settore in cui si è passati da un tipo di impiego a tempo pieno al part-time generalizzato.

* * *

Come alla Hormel, lo sciopero dei supermercati della California del Sud ha investito il problema dei salari ed i sussidi per l’assistenza sanitaria.

Nell’ottobre 2003 le Compagnie avevano avanzato la richiesta di una riduzione sostanziale dei già magri contributi stabiliti nei precedenti contratti. In quel momento il lavoratore medio dei supermercati riceveva 12,50 dollari l’ora e lavorava circa 30 ore a settimana. Molti ricevevano assai meno di questo salario: gli imbustatori 6,75, un salario di fame, insufficiente ad assicurare le minime condizioni di vita.

Intanto veniva introdotto il doppio regime contrattuale: agli anziani peggioravano le condizioni salariali, ma quelle dei nuovi assunti sarebbero risultate ancora peggiori. I giovani non avrebbero mai potuto superare il massimo di 14,90 dollari/ora (da raggiungersi dopo molti anni di lavoro) e il livello delle pensioni veniva poi notevolmente abbassato. Inoltre tutti i lavoratori avrebbero dovuto versare contributi per 1.300 dollari l’anno per l’assicurazione sanitaria, con un limite massimo per i giorni degenza e per i trattamenti ospedalieri. Tutto ciò era sufficiente per privare la maggior parte dei lavoratori della possibilità di sostenere i bisogni di base, come pagare un modesto affitto o mantenere la famiglia.

Erano condizioni chiaramente inaccettabili: alla chiamata dell’UFCW ad esprimersi in merito, 70.000 lavoratori votarono contro e scendendo in sciopero l’11 ottobre dello scorso anno.

L’UFCW iniziò subito male affermando: «I lavoratori hanno deciso di attaccare solo una catena di supermercati, per non mettere in difficoltà i consumatori». Dunque lo sciopero sarebbe partito solo nella catena del Safeway, mentre i dipendenti di Kroger’s e Albertson’s avrebbero risparmiato i rispettivi padroni. Nei confronti di questi ultimi i capi dell’UFCW tentavano di mostrarsi dei partners affidabili, che non desiderano altro che il bene degli affari: se solo i padroni contenessero appena il loro appetito di ricchezza, la meravigliosa cooperazione fra imprenditori e dipendenti sarebbe potrebbe continuare e condurre verso il futuro la grande nazione americana. L’argomento base del sindacato era: visto che le Compagnie stavano realizzando iperbolici profitti, perché non avrebbero potuto sostenere le spese per i contributi alla salute dei dipendenti? Si è certamente nel campo della collaborazione di classe allorché si considera la lotta dei lavoratori come rivolta ad una più equa suddivisione del profitto e non alla difesa della condizione operaia indipendentemente dall’andamento dei profitti e dell’economia.

Nonostante questa offerta di collaborazione le Compagnie non erano disponibili a compromessi e lo sciopero anche nei loro Supermercati, nonostante gli sforzi dell’UFCW, non si poté evitare. Più di 70.000 lavoratori della grande distribuzione si trovarono dunque protagonisti del più grande sciopero dei lavoratori alimentaristi nella storia degli Stati Uniti.

Un altro errore (se così lo si vuole chiamare, e non un altro episodio di sabotaggio della lotta da parte del sindacato) è stato quello di non aver approntato seri picchetti di fronte ai negozi e lasciare che passassero dei crumiri assunti per 19 dollari l’ora. Se pure molti consumatori, per solidarietà con gli scioperanti, rinunciassero ad entrare nei supermercati, altri attraversavano i picchetti ed i negozi continuarono a funzionare con il lavoro dei crumiri.

Inoltre, essendo il 13 di ottobre iniziato uno sciopero dei lavoratori di Kroger’s in West Virginia, Kentucky e Ohio, invece di coordinare secondo un’unica strategia questa lotta con quella della California, l’UFCW iniziò delle trattative separate.

Il sabotaggio della lotta da parte del sindacato divenne poi manifesto il 31 ottobre, allorché vennero ritirati i picchetti ai supermercati Ralph’s, appartenenti alla catena Kroger’s, con due giustificazioni. La prima era che, dirottando i clienti verso Ralph’s, una maggiore pressione si sarebbe esercitata nei confronti di Albertson’s e Safeway. Ma questa “tattica” venne tuttavia immediatamente inficiata dalle Compagnie, che dichiararono la loro intenzione di suddividersi i profitti realizzati. La seconda giustificazione era che se i lavoratori fossero “andati incontro” alle necessità “dei clienti”, la Compagnia avrebbe apprezzato il gesto di “buona volontà” ed elargito qualcosa, avrebbe “iniziato a cedere”, dando un primo segnale per la conclusione della vertenza. Non arrivò mai alcuna elargizione.

Intanto lo sciopero proseguiva ottenendo la simpatia dei lavoratori di Los Angeles e di tutta la California del Sud, i quali per solidarietà organizzavano donazioni alla cassa sindacale di sciopero.

Il 24 novembre la solidarietà si estese ai dieci centri locali di rifornimento per i supermercati: 7.000 lavoratori della distribuzione ai negozi e i membri del sindacato dei camionisti organizzarono picchetti e si rifiutarono di caricare e consegnare le merci. Il crumiraggio, non combattuto dall’UFCW, impedì la piena efficacia di questa azione. Tuttavia questo moto di solidarietà fu benvenuto per innalzare il morale degli scioperanti dei supermercati. Molti ampollosi discorsi furono fatti da parte dei capi sindacali che descrivevano una rinascita della solidarietà fra i lavoratori, risuscitando vecchi slogan laburisti del tipo “Tutti per uno, uno per tutti”.

Ma a metà dicembre l’UCFW decideva di smobilitare i picchetti ai centri di rifornimento, non portando giustificazioni per questo atto, salvo un nuovo “gesto di buona volontà” verso le Compagnie. Si è ipotizzato che fra i dirigenti del sindacato dei camionisti si fosse manifestata dell’incertezza nel portare avanti un’azione di solidarietà con uno sciopero che si prolungava oltre le aspettative, ma le dichiarazioni dei lavoratori interessati non erano in questo senso, decisi a sostenere gli scioperanti, nella consapevolezza che presto essi stessi avrebbero dovuto impegnarsi in una simile battaglia.

Sette picchetti ai centri di distribuzione smobilitarono secondo le disposizioni del sindacato, mentre, in uno slancio di combattività, i lavoratori dei picchetti ai centri Vons della Safeway, decisero di proseguire, e ai sindacalisti che arrivarono per persuaderli a desistere, fu contestato che i picchetti sarebbero dovuti rimanere ovunque e che lo sciopero sarebbe dovuto crescere anziché esaurirsi! Al che i pompieri sindacali dovettero ratificare il fatto che alla Vons i picchetti proseguivano, sebbene l’azione presso i centri appartenenti alla Kroger e alla Albertsons doveva considerarsi conclusa. Ciò rappresentò un grosso colpo per lo sciopero ed un ulteriore regalo ai padroni.

Verso Natale i lavoratori dei supermercati ricevettero la bella sorpresa che il sussidio da parte della cassa di sciopero, gestito dal sindacato, sarebbe passato da 240 a 100 dollari la settimana, venendosi così molti a trovare in grave difficoltà.
 

(Fine al prossimo numero)

 
 
 
 
 
 
 

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Scioperi e Sindacati

Questi appunti sono la collaborazione proposta a “Bip-Bip, Bollettino sindacale dei collettivi Flmu-Cub Telecom, Tim, Tecnosistemi e aziende collegate”, da un nostro compagno, militante in quel sindacato, per intervenire su di una importante questione, che attualmente anche lì vi si discute

Lo sciopero come azione collettiva

L’Flmu, come la Cub tutta, pone la sua ragione di esistere nello sviluppo del conflitto sociale come mezzo per raggiungere gli obiettivi della classe lavoratrice. Di conseguenza senza la ricerca e l’azione per il conflitto sociale, che ha come caposaldo lo sciopero, non avrebbe senso la stessa sua esistenza.

Ma non basta dichiarare gli scioperi, anche se su giusti obiettivi, nel senso che per essere efficaci e rispondere alla nostra necessità di sviluppare il conflitto sociale devono avere determinate caratteristiche:
a) Costare il meno possibile ai lavoratori, in modo che la lotta possa durare più a lungo;
b) Arrecare il maggior danno possibile, sia come blocco dell’attività produttiva sia in termini di propaganda;
c) Sviluppare il senso di unità, visibilità e partecipazione dei lavoratori, rafforzare in ogni senso il loro legame di classe;
d) Prefigurare in una lotta di lunga durata, nei tempi e nei modi migliori per costringere l’Azienda alla trattativa e per raggiungere gli obbiettivi prefissi; per esempio, per uno sciopero di protesta o dimostrativo possono bastare da poche ore o una giornata.

Tanti scioperi da noi proclamati non soddisfano queste caratteristiche. Prendiamo ad esempio, i nostri scioperi a mesate di una o due ore il giorno, soprattutto nei Call Center.

Naturalmente tali scioperi costano relativamente poco ai lavoratori, proprio perché fatti secondo un piano individuale, ma costano ancor meno all’Azienda. Gli scioperi organizzati all’inizio e fine turno, in un’Azienda dove sempre più si lavora su diversi turni giornalieri che si accavallano tra di loro, non bloccano l’attività ma hanno, troppo spesso, come risultato principale di appesantire i lavoratori del turno successivo che magari sciopereranno più tardi, al termine del loro turno.

Tali scioperi così organizzati potranno aumentare forse la partecipazione dei lavoratori alle nostre iniziative ma, se anche fosse vero, di quanto? E soprattutto con quale efficacia? Questo tipo di scioperi non lascia spazio per organizzare iniziative: presidi, manifestazioni, assemblee, ecc., che se partecipate possono dare visibilità e il senso di unità della classe.

L’unico risultato certo che si ottiene, se tutto va bene, è di mandare i lavoratori a casa. È uno sciopero di protesta che per le sue condizioni di svolgimento non mira ad una lotta e ad una trattativa per degli obbiettivi raggiungili.

Tali scioperi è evidente che sono soprattutto una guerriglia individuale, una guerriglia che il singolo lavoratore usa a proprio uso e consumo una volta ogni tanto secondo il suo piacimento e voglia. Penso che non si è mai avuto che un lavoratore, pure nostro attivista, abbia usato quest’arma tutti i giorni.

Per concludere: si ha che, per assecondare i lavoratori nell’usare l’ora di sciopero individualmente, per le mille possibili necessità, si svilisce il concetto di sciopero come azione collettiva.
 

Gli scioperi di Cgil, Cisl e Uil

Do per scontata la nostra necessità a sviluppare ed organizzare un’azione sindacale totalmente diversa, per postulati ed obbiettivi, rispetto a quella di Cgil, Cisl e Uil, atteggiamento che si può sintetizzare con la battuta che la Cub non deve lavorare “per il Re di Prussia”.

Nella vicenda della modifica dell’Articolo 18, la Cub, che si mobilitò subito contro le modifiche governative e contro il Patto per l’Italia, fu in qualche modo favorita anche dalla mobilitazione della CGIL, pure lei, con altre considerazioni, contraria alle modifiche ed al Patto. Si finì che gli scioperi nostri coincisero con quelli di Cgil, seppure con dimostrazioni divise, inevitabilmente, se non si voleva essere relegati in un cantuccio, nonostante le nostre critiche all’operato della Cgil su tutta la sua politica in difesa dell’occupazione (accettazione del Pacchetto Treu, contratti con sempre maggiori quote di lavoro precario e determinato, ecc).

Finita la mobilitazione della Cgil nemmeno la Cub fu in grado di continuare da sola, pur avendo raccolto, insieme agli altri Sindacati di Base ed autonomi, notevoli simpatie. (La vicenda tutta, fra l’altro, mise in chiara evidenza che da sole Cisl ed Uil, che pure contano notevoli schiere di iscritti e raccolgono vasti consensi, hanno una capacita di persuasione e di mobilitazioni veramente minima).

La vicenda della riforma delle Pensioni ha visto il ricompattamento di Cgil, Cisl ed Uil: la Cgil per paura di essere definitivamente isolata da tutti i possibili giochi di concertazione, la Cisl e la Uil per il fondato timore di vedere le loro strutture collassate in un possibile peloso abbraccio governativo. Inevitabilmente tale ricompattamento ha anche voluto dire scioperi generali ridottissimi.

E qui la Cub e pochissime altre organizzazioni di Base hanno preso cappello. Non solo hanno indetto scioperi in date diverse ma hanno apertamente richiesto ai lavoratori il boicottaggio degli scioperi Confederali. L’unico risultato pratico raggiunto è stato degli scioperi nostri minoritarissimi, che purtroppo forse non hanno visto nemmeno tutti i nostri iscritti partecipare, con un travaso maggiore dei nostri verso i Confederali rispetto ai lavoratori confederali verso di noi, tendenza che si era felicemente avuta in altre occasioni. I suonatori sono stati suonati ed il bilancio è stato del tutto negativo, soprattutto nel privato dove lo sciopero è ancora visto come un’azione collettiva.

Tale fallimento, purtroppo non dichiarato e quindi non digerito, è evidente se si considera che dopo il secondo isolato sciopero anti-pensioni, la Cub non è stata assolutamente in grado di sviluppare la minima azione contro la riforma delle pensioni, che pure si sta avvicinando. Era inevitabile perché quegli scioperi, e soprattutto quei boicottaggi, hanno logorato i nostri invece di rafforzarli.

Questo risultato è soprattutto derivato da una visione ideologica dello sciopero, il considerarlo non come un’azione collettiva ma come un beau geste individuale.

Tale visione ideologica ha in qualche modo in dispetto l’arretratezza delle masse, che si ostinano a non seguire noi, che tutto abbiamo inteso e tutto abbiamo capito, ma a dare invece ed ancora il consenso a Cgil, Cisl e Uil, nonostante le loro nefandezze. Ma queste organizzazioni, se possono essere e sono colluse con gli interessi padronali ed aziendali, non sono fesse e sanno tessere e sviluppare i loro rapporti e legami con la grande maggioranza dei lavoratori e sanno considerare l’azione dei lavoratori come una necessaria azione collettiva ed unitaria, facendo leva anche su innegabili considerazioni di classe.

Sta a noi raccogliere la sfida e portare i lavoratori sul nostro terreno, propagandando le nostre posizioni, convincendo i lavoratori della loro giustezza, dei nostri atteggiamenti e delle nostre azioni. Ma tali azione di propaganda e di convincimento deve in qualche modo fare i conti con tutte quelle considerazioni individualiste ed intellettuali che in qualche modo ispirano azioni velleitarie volutamente minoritarie.
 
 
 
 
 
 
 



TRANVIERI

Un’altra vivace lotta locale si ha a Bologna dove oltre alla questione dello smembramento-privatizzazione si aggiunge quella del contratto integrativo aziendale. Il 17 marzo è raggiunto l’accordo sull’integrativo. L’RDB-CUB, che firma l’accordo, dichiara: «L’accordo, che prevede una corresponsione di salario accessorio quantizzabile in circa 560 euro annui a regime più 250 una tantum, e una serie di miglioramenti normativi anche per i neo assunti, è sicuramente il frutto della lotta condotta dai lavoratori ATC in questi mesi, scioperi senza preavviso compresi». Il 7 maggio sempre l’RDB-CUB dichiara uno sciopero contro il ricorso alle gare d’appalto per l’assegnazione del servizio, viatico per la privatizzazione. Lo sciopero anche qui è un successo con un 70% di adesioni.

Il Coordinamento Nazionale viene escluso dagli incontri relativi al rinnovo contrattuale sia con ASSTRA e ANAV, sia col rappresentante del Governo.

Per il 19 maggio proclama uno sciopero nazionale di quattro ore nelle cui rivendicazioni figurano non solo il nuovo contratto, ma anche la lotta contro i provvedimenti repressivi di aziende e Stato e il coinvolgimento nella trattativa. Ora che l’inerzia della lotta di dicembre-gennaio si può dire esaurita questo sciopero mette alla prova la capacità dei sindacati di base di ripartire per così dire “da fermi”. Lo sciopero, pur non raggiungendo i risultati del 9 e 30 gennaio, dimostra tuttavia una buona tenuta e capacità di mobilitare, in una fase di stanca, una robusta minoranza dei tranvieri a livello nazionale. Questo solido risultato ha certamente un grande valore permettendo ai lavoratori, all’esplodere della prossima lotta, di ripartire da un livello di forza superiore a quello in cui si sono trovati a metà dicembre quando iniziarono gli scioperi per strappare i 106 euro di aumento ed i 3.000 di arretrati.
 
 
 
 
 
 
 



Un unico nemico ai lavoratori tessili del “Nord” e del “Sud”

La nostra critica all’economia capitalistica ci ha sempre portato a dire che non esiste una vera contrapposizione tra Nord e Sud del mondo, prevalendo quella tra Salario e Capitale, il conflitto fra i quali non conosce confini. Ne è esempio la crisi del sistema capitalistico ed in particolare quella del settore tessile.

Dal 1974 sino al 1995 il mercato dei filati e dei tessuti è stato governato dall’accordo Multifibre (Multifibre Arrangement), nato per porre dei tetti alle importazioni nel settore, stabilito dai paesi occidentali per evitare la concorrenza dei paesi più poveri.

Dal ’95 entra gradualmente in applicazione il nuovo accordo ACT (Agreement on Texiles and Clothing) che soppianterà il Multifibre entro il 2005: entro quella data anche il settore tessile tornerà sotto le regole del GATT, eliminando il sistema delle quote. Ma l’accordo prevede che la liberalizzazione avvenga gradualmente, nel giro di 10 anni (curioso che altri accordi WTO, a vantaggio dei paesi sviluppati, prevedono un periodo di cinque anni) e in modo significativo solo nel periodo finale (2005). I paesi con quote restrittive all’importazione (Canada, Unione Europea, Norvegia e USA) devono gradualmente aumentare tali quote sino a rimuoverle. Ma un “meccanismo di salvaguardia” permette loro di attuare sistemi per evitare un aumento troppo rapido delle importazioni; l’uso di questo strumento è stato criticato pesantemente dai paesi in via di sviluppo.

Leggendo tra le righe nella stampa borghese ricaviamo una visione sicuramente parziale, ma che conferma appieno la crisi in atto nel settore tessile, segnato da una “ristrutturazione”, che vuol dire pesanti tagli ai salari e alle condizioni di vita della classe operaia in tutto il mondo.

In Italia le 40 ore non sono più di orario settimanale, ma possono essere il risultato di un orario medio pluri-settimanale o annuale. Le aziende possono stabilire delle settimane in cui si lavora fino a 48 ore; è orario obbligatorio, che i lavoratori non possono rifiutare, ed è pagato con una maggiorazione di molto inferiore allo straordinario: la percentuale di aumento dalla paga base oraria va, circa, dal 12% al 15%. Le aziende possono inoltre ricorrere al meccanismo della “flessibilità tempestiva”, con un preavviso di soli 5 giorni ai termini dei quali si obbliga i lavoratori ad ore aggiuntive. Anche in questo caso i lavoratori non possono rifiutarsi.

In Calabria, nella provincia di Cosenza, la Manifattura del Crati è stata dichiarata fallita e circa 350 lavoratori sono stati messi in cassa integrazione, mentre lo scorso 7 gennaio, a Praia a Mare, la Marlane, del gruppo Marzotto, ha posto in mobilità 191 lavoratori del reparto tessitura; ne restano 150 alla filatura, ma anche il reparto superstite sembra non abbia vita lunga. Altri 90 posti di lavoro andati in fumo in quello che un tempo era il polo tessile di Cetraro e, in provincia di Reggio Calabria, i 150 lavoratori del polo di San Gregorio. Antonio Granata, della segreteria regionale confederale e da pochi giorni numero uno della Cgil del comprensorio Sibari-Pollino, fa un po’ di conti: «Da un calcolo complessivo non è difficile concludere che a fronte di circa 700 persone che hanno perduto il posto di lavoro ce ne sono in pericolo quantomeno altre 1.500 relative all’indotto».

In Umbria negli ultimi tre anni sono diminuiti in maniera vertiginosa i posti di lavoro legati al settore: 40.000 posti persi da giungo 2001 a giugno 2003. Si è pure registrato un corrispondente incremento di ricorsi alla cassa integrazione ordinaria, passando dalle 6.000 ore richieste nel primo semestre del 2001 alle 112.000 nello stesso periodo di riferimento del 2002, fino a raggiungere le 117.000 nei primi sei mesi del 2003 (dati Cgil).

Anche in Lombardia, il comparto è in difficoltà, sconta il calo dei consumi, la debolezza del dollaro e l’aggressività dei paesi asiatici, con oltre 10.800 lavoratori in cassa integrazione ordinaria, 886 in straordinaria, 486 in mobilità e ben 21 aziende chiuse, questo il quadro del tessile lombardo, griffe comprese, nel secondo semestre del 2003 secondo i dati dell’Osservatorio congiunturale Femca Cisl. Tra le 310 imprese attive nel settore, l’area più colpita è quella bergamasca, con oltre 2.900 lavoratori che rischiano il posto, ma seguita subito dopo da Como (2.411), Ticino-Olona (1.988), Brescia (1.094), Varese (770), Vallecamonica (642), Mantova (392), Lecco (387) e Brianza (284). Una situazione difficile per tutte le aziende del comparto, dalla seta a Como, alle griffe e compresa la situazione del comparto cotoniero.

In Veneto, dopo la chiusura di Manerbio, il “ridimensionamento” di Nova Mosilana e della Filatura di Valdagno, l’accordo firmato lo scorso 9 maggio prevede il “ridimensionamento” del Finissaggio di Schio con l’esubero di 169 operai su 287 e di 20 impiegati su 35) e il trasferimento del Copertificio di Schio in Lituania (con l’esubero di 19 operai su 27 e di 7 impiegati su 19.

In Piemonte alla Fila si è provveduto alla ratifica formale dell’accordo già siglato tra le parti il 3 dicembre scorso, in base al quale la Fila presenterà istanza di Cigs per crisi aziendale, per la chiusura del sito produttivo di Biella a decorrere dal 1 gennaio 2004 e per la durata di un anno per l’intera forza lavoro attualmente impiegata. Il ricorso alla cassa integrazione non ha risparmiato le aziende più piccole.

Si potrebbe continuare per tutte le regioni italiche, e soprattutto Emilia

Toscana Marche e Puglia, per rendere conto della tremenda crisi che si è sviluppata nel settore, ma, essendo internazionalisti, diamo una piccola panoramica mondiale.

Dicono che la crisi è dovuta alla concorrenza dei paesi asiatici, nei quali il costo della forza lavoro è minore. Ma in questi paesi la classe operaia sciopera e si sta organizzando.

Tiriamo anche queste notizie di stampa.

La Cambogia, dove i diritti sindacali sono ancora deboli, è in competizione sul costo del lavoro con paesi altrettanto privi di tutele ma vasti e potenti, come l’India e la Cina. L’industria tessile cambogiana assorbe oltre 200 mila persone, nove su dieci donne. L’omicidio del dirigente sindacale Chea Vichea dimostra che i lavoratori cominciano ad organizzarsi. I tessili continuano a guadagnare 45 dollari al mese, contro gli 80 necessari alla sopravvivenza, secondo le stime dell’Organizzazione mondiale del lavoro.

In Cina i lavoratori tessili licenziati dalla Tieshu Textile di Suizhou, nella provincia centrale dell’Hubei, chiedono liquidazioni e arretrati da almeno un anno, ma la situazione è degenerata con una violenta repressione della polizia. Più di duemila operai stavano presidiando le vie d’accesso alla fabbrica, quando reparti speciali sono intervenuti per disperderli, caricando pesantemente. È ancora imprecisato il numero dei feriti, mentre è accertato che almeno 20 manifestanti sono stati arrestati. I lavoratori hanno continuato a dimostrare in centinaia davanti i cancelli della fabbrica e davanti alla sede dell’amministrazione locale per chiederne il rilascio. La Tieshu, che impiegava circa 5.700 persone, ha dichiarato fallimento nel dicembre del 2002 e da allora i dipendenti ancora aspettano il pagamento delle liquidazioni. Inoltre, molti erano stati convinti a investire i propri risparmi nelle azioni dell’azienda e dopo la notizia del fallimento – presumibilmente dovuta alla corruzione dei dirigenti – le quote hanno perso quasi interamente il loro valore. Il sindacato assicura che la situazione è sotto controllo, ma i lavoratori non saranno compensati delle perdite subite, anche perché la magistratura locale ha rigettato le loro richieste di risarcimento.

In Bangladesh neanche la metà delle operaie tessili ha un contratto regolare e quasi non esistono contributi per la maternità e la sanità. Otto su dieci sono regolarmente minacciate di licenziamento alla prima richiesta di condizioni migliori.

In Uzbekistan, dove si avvicina la stagione della raccolta di cotone, l’utilizzo di bambini tra i 5 e i 13 anni è ancora molto diffuso, fenomeno che deriva tanto dalla cultura e dagli usi, quanto dalla povertà delle famiglie.

In Thailandia, le condizioni delle operaie di aziende che lavorano per conto della Nike prevedono orari fino verso l’una di notte, dopo aver cucito per 17 ore consecutive abiti per bambini. I capisquadra usano costringere le operaie a bere delle anfetamine per non farle addormentare.

Ma, fatto il giro del mondo e tornando in occidente, anche sulla prima potenza capitalistica, gli Usa, soffiano venti di crisi sull’industria tessile che, a causa della forte concorrenza cinese, è stata costretta a ridimensionare il settore, ricorrendo alla chiusura di impianti e a drastici ridimensionamenti di manodopera. L’American Textile Machinery Association lamenta che lo Stato (che lì chiamano l’Amministrazione) non avrebbe intenzione di affrontare il problema, anzi cercherebbe di sminuirne la gravità. Il rapporto del Department of Commerce mette in evidenzia che i vantaggi dei nuovi accordi commerciali raggiunti bilateralmente dagli USA sull’abbattimento del mercato nero cozzano incredibilmente con la realtà di migliaia di licenziamenti nelle principali industrie locali. Nelle ultime settimane altri otto produttori tessili hanno annunciato chiusure di impianti e licenziamenti, inoltre dalla pubblicazione del rapporto ad oggi altre 50.000 persone hanno perso il lavoro. Secondo una recente analisi, ogni mese 4.500 lavoratori potrebbero perdere il posto nel settore tessile a causa della concorrenza straniera. Vi si aggiunge la crisi dell’abbigliamento, stretto nella morsa della concorrenza dei Paesi dell’Estremo Oriente, per i prodotti poveri, e di quelli europei per quelli costosi.

Come possiamo vedere le leggi di mercato capitalistiche impongono condizioni generali alla classe operaia sempre peggiori, e non solo a quella che vende la propria forza lavoro alle aziende del settore tessile. Nei capitalismi più vecchi la borghesia tende ad espellere lavoratori dal ciclo produttivo ed a togliere a quelli che rimangono le briciole di conquiste ottenute durante il boom economico dei decenni scorsi. Nei giovani capitalismi i proletari sono costretti a vendere la propria forza lavoro a salari da fame e talvolta in condizioni di pura schiavitù, facendo sì che le merci prodotte in quei paesi risultino più competitive. E tutto questo fino a quando non si tireranno le somme della sovrapproduzione. I lavoratori del Nord e del Sud hanno un unico nemico: il capitale e chi lo amministra. Proletari di tutto il mondo unitevi!