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"Il Partito Comunista"   n° 327 - gennaio-febbraio 2008 [.pdf]
PAGINA 1 Dietro la crisi finanziaria il fallimento storico del Capitale
Riapre il baraccone elettorale, della qual cosa nulla riguarda la classe operaia
Armi con i colori dell’Arcobaleno
Il Papa, la Sapienza e l’anticlericalismo borghese
PAGINA 2-3 Tornati a Sarzana per la riunione di lavoro, 26-27 gennaio [RG100]: L’antimilitarismo nel Partito  Socialista Italiano - Economia marxista: Il capitale per il commercio di merci - Lotta di classi in Libano - Storia del movimento operaio americano (6) - Corso della crisi economica - Marxismo e religioni - Per una storia della scienza
PAGINA 4 Corriere Tnt: contro la cooperativa vince la lotta dei “soci-lavoratori”
Emigrano anche gli operai italiani
Ancora sullo sciopero degli operai di Mahalla, in Egitto

 
 
 
 
 

PAGINA 1


Dietro la crisi finanziaria il fallimento storico del Capitale
 

Dobbiamo occuparci di “alta senescente finanza capitalista”.

L’anno 2008 si è aperto con le stesse tensioni sui mercati dei capitali che avevano chiuso il 2007. Anche se la fase più acuta della crisi finanziaria sembra essersi trasformata – in un lento stillicidio di cadute e riprese negli indici delle borse mondiali – in progressivo rallentamento dell’economia “reale”, cioè della produzione, ed i grandi istituti finanziari continuano ad occultare alla meno peggio truffe e perdite, la parola “recessione”, come la manzoniana “peste”, che c’era forse si o forse no, inizia a presentarsi con insistenza sulla scena internazionale. E alla fine di febbraio gli analisti finanziari cominciano a parlare in modo aperto: il problema non è più se arriverà, ma quanto sarà profonda e quanto durerà. Si sprecano i paragoni con le crisi del passato più recente e di quello più antico: lo spettro del 1929 torna a costituire argomento di discussione e, se non proprio di Grande Depressione, a mezza bocca si comincia a parlare di piccola depressione.

In questa fase finale del ciclo capitalistico del secondo dopoguerra, tornano a ripresentarsi, secondo il più classico degli schemi, i sintomi della sua malattia mortale: inflazione e stagnazione, crescita dei prezzi e calo inarrestabile della produzione.

Nell’articolo “Crac 2008?” del febbraio scorso, il direttore di “Le Monde Diplomatique” illustra catastrofici scenari per il prossimo futuro dell’economia mondiale. Il loro e il nostro “catastrofismo” non coincideranno mai, perché i loro sono lamenti, che scivolano sulla superficie dei fatti, e misfatti, economici, espressi in funzione “migliorativa” del capitalismo, le cause del persistente peggioramento economico del quale addossano ad una continua successione di crisi importanti, ma episodiche e per cause ad esso esogene. La sua origine risalirebbe alla “crisi del petrolio” del 1973/74, per poi, ricordando solo le maggiori, incontrare quella delle “tigri asiatiche” degli anni ‘80, quella della Enron, ecc. ecc. fino a quella dei giorni nostri. Il nostro “catastrofismo” invece seziona alla radice l’intero meccanismo della produzione del plusvalore mettendo in luce le sue contraddizioni interne, per le quali la nostra analisi marxista gli nega la presunta “eternità”, fino alla sua demolizione sociale tramite la rivoluzione proletaria. Differenza non da poco!

Secondo il direttore del mensile francese una delle cause dell’attuale situazione... «ha avuto inizio nel 2001, con lo scoppio della bolla Internet. Fu allora che per tutelare gli investitori Alan Greenspan, presidente della Federal Reserve degli Stati Uniti, decise di orientare gli investimenti verso il settore immobiliare. Con una politica di tassi bassissimi e di riduzione delle spese finanziarie, incoraggiò gli intermediari del settore finanziario e immobiliare a indurre un numero crescente di clienti a investire nel mattone. Venne messo così a punto il sistema dei “subprimes”, mutui ipotecari rischiosi e tasso variabile, proposti anche alle famiglie economicamente più vulnerabili».

Inizialmente il sistema si sviluppò con successo e si estese in tutto il mondo capitalista avanzato, Italia compresa, anche se non subito, generando ovunque un rialzo dei prezzi nel mercato degli immobili.

Noi però abbiamo letto il fatto alla nostra maniera chiedendoci che cosa ha spinto, e spinge tuttora, il capitalista banchiere a finanziare il 100% dell’acquisto di una casa con un mutuo ipotecario trentennale, senza alcuna garanzia che non sia il semplice lavoro ancorché precario del beneficiario, a persone cui il giorno prima non avrebbe prestato nemmeno un euro per un caffè, immigrati compresi purché provvisti di un qualche contratto di lavoro? Lungimiranza, bontà, capitalismo filantropico o colossale errore?

Niente affatto. È stata l’enorme massa di capitali – cioè l’accumulo di gigantesche quantità di plusvalore proletario, frutto di lavoro non pagato – attualmente inoperosa, che preme per anche una sua pur minima valorizzazione, perché se questa massa monetaria non viene investita, non solo non si conserva ma decresce giorno dopo giorno anche solo per effetto dell’inflazione. Il denaro non riesce a trasformarsi in capitale, in merci necessarie alla produzione di nuove merci, arricchite del lavoro operaio, per ritrasformarsi poi ancora in denaro in una misura superiore a quella iniziale immessa. Una parte del capitale monetario mondiale disponibile agli investimenti, cioè, trova difficoltà ad entrare nel ciclo D-M-D’ in quanto, per la generale crisi di sovrapproduzione, le merci non si vendono.

La miseria della classe operaia non fa che restringere ulteriormente le possibilità di smercio: recentemente anche il presidente della Confindustria italiana lamentava lo scarso potere d’acquisto dei salari in Italia e la necessità di aumentarli per rivitalizzare gli acquisti.

Greenspan, un nome per indicarli tutti, fece di necessità virtù, badando bene però a prendere le debite precauzioni contro il reale pericolo di insolvenza dei beneficiari di questi mutui... «Per premunirsi contro quel rischio, [le banche] avevano venduto una parte dei loro crediti dubbi ad altre banche, che li avevano poi ceduti a fondi d’investimento speculativi, i quali a loro volta li hanno disseminati ovunque, tra le banche del mondo intero».

Analoghe “precauzioni” furono prese pochi anni fa in Italia nel clamoroso, perché poi emerse rovinosamente, caso Parmalat. Qui le banche, che ben conoscevano l’esatta situazione della “finanziaria” che faceva capo all’industria agro-alimentare parmense, perché erano loro che fornivano i capitali necessari alle disinvolte operazioni del dottor Tanzi e soci, condizionarono fortemente, per non dire obbligarono, i loro promotori finanziari a disfarsi velocemente dei titoli Parmalat in loro possesso, perché certi dell’imminente bancarotta. Questi intermediari, spesso per non perdere il posto di lavoro, appiopparono un’enorme massa di carta straccia a migliaia di piccoli e ignari risparmiatori, truffati e beffati dalle loro stesse banche “di fiducia”. La consistente pletora di questi piccoli borghesi si è ritrovata così una collezione di titoli di credito nemmeno utili per accendere il camino.

«Ma quando, nel 2005, la Fed decreta il rialzo del tasso di sconto (che aveva di poco abbassato) il meccanismo [dei subprimes] salta; e si scatena un effetto domino che fin dall’agosto 2007 fa vacillare il sistema bancario mondiale. Il rischio di insolvibilità di circa 3 milioni di famiglie, indebitate per una cifra che si aggira sui 200 miliardi di euro, provoca il fallimento di importanti istituti di credito. Risultato: la crisi, come un’epidemia fulminante, colpisce l’intero sistema bancario».

Anche qui un’altra insanabile contraddizione che i borghesi cercano di rimediare con la tattica di “un colpo alla botte e uno al cerchio”. Per stimolare gli investimenti, i mutui ipotecari e l’economia tutta, la Fed aveva ridotto il costo del denaro, cioè il tasso dei prestiti; poi, per la troppo cresciuta domanda di denaro e per contenere l’aumento dei prezzi, si aumenta il costo del denaro e le vendite diminuiscono bruscamente. Una parte della produzione si contrae, molti lavoratori perdono il lavoro e non possono più pagare le rate dei mutui. Si ritorna al punto di partenza, in una condizione di equilibrio sempre più precario.

L’ampiezza mondiale di questa prevedibile crisi, che nessuno è ancora in grado nemmeno di quantificare, ha messo in ginocchio un rilevante numero di grandi istituti finanziari di importanza mondiale. Questi non possono rifarsi in tempi rapidi perché gli immobili pignorati per insolvenza dei debitori necessitano di tempi lunghi per essere liberati e venduti all’asta, anche a prezzi stracciati, generando infine una riduzione generalizzata dei prezzi, a sua volta cresciuti per la solita legge della domanda e offerta. Alla fine questo si traduce in enormi perdite per le banche.

Nel frattempo il prezzo dell’oro, metallo considerato merce-denaro equivalente di riserva e tesaurizzazione mondiale, è lievitato addirittura del 32% nel 2007, sintomo di diffusa e molto profonda insicurezza.

La crisi delle banche si è ovviamente ripercossa anche sull’intero sistema dei finanziamenti alle attività produttive peggiorando il già traballante quadro strutturale dell’economia mondiale. La fase più virulenta della crisi indotta dalla speculazione dei mutui senza garanzie rimane in questi mesi in sottofondo, sempre minacciosamente presente e ben lontana dall’essere risolta. I debiti ipotecari, anticipi su rendite o su salari futuri in brusco ridimensionamento, sono divenuti per le banche crediti inesigibili, anche se mascherati da sistemi contabili e finanziari ben più intricati che ai tempi de “Il Capitale”, e hanno fatto precipitare la crisi.

Così le Banche Centrali, ed in prima linea la Federal Reserve, dismesso l’atteggiamento di distaccati spettatori ad ogni equilibrismo finanziario e tornati alla giacca del “dirigismo”, sono intervenute con la solita ricetta: prestiti a bassi tassi con meccanismi d’asta e crediti di scambio tra i vari istituti centrali; liquidità concessa a breve o a brevissimo, ma pur sempre utile per tamponare la fase più acuta.

Subito dopo la Banca Federale diminuisce il tasso di sconto – il costo del denaro per le banche – secondo una collaudata ricetta praticata con la freddezza di chi si sente padrone del mondo, per incrementare ancora la circolazione di capitale. Questa manovra si configura, per altro verso, come un attacco alle economie degli Paesi Europei, la cui moneta si apprezza sul dollaro, con tutte le conseguenze sul piano commerciale.

L’andamento degli indici delle Borse segue la dinamica della sottostante produzione di merci. La Borsa non è più il luogo deputato all’incontro tra chi ha necessità di capitali da impiegare e chi ne dispone, ma, giusta la sua connotazione iniziale nel diciottesimo secolo, l’ambiente dove cambiano di mano carta e denaro, dove si genera la vertigine che sia possibile creare valore senza che il denaro operi come capitale produttivo, ove insomma guadagni e perdite sono esclusivamente passaggi tra voci di conto o semplice cambio, comunemente accettato, di un valore facciale.

Anche in quest’ultima crisi la massa di titoli in circolazione – anche se ormai si tratta quasi esclusivamente di un “cartaceo elettronico” – ha raggiunto un volume tale da non poter fruttare gli attesi interessi da trarre dal profitto del capitale effettivamente in funzione. Quel che manca è il “denaro fresco”, come lo chiamano gli uomini della Borsa, non promesse di pagamento o scommesse su rendite future, che in tempi ordinari funzionano come denaro e che sono il normale surrogato al denaro contante nel ciclo produttivo del capitalismo. Questa è una costante: tutte le crisi finanziarie hanno avuto questa causa primitiva per il loro scoppio.

I giornali a grande diffusione come la stampa specializzata hanno deliziato le preoccupate platee con spiegazioni tecniche più o meno serie e approfondite; abbiamo letto di nuovo su “cartolarizzazioni”, su nuove obbligazioni, su operazioni di “swap” che dovrebbero fornire robustezza a debiti costruiti sul nulla, su Fondi di ogni genere che ridurrebbero o ammortizzerebbero il rischio. Tutte illusioni perché le crisi finanziarie hanno alla radice sempre altre cause. Quel che cambia nella sovrastruttura finanziaria, e non è fatto di poco conto, è la dimensione dei valori in gioco: stratosferici gli odierni, neppure paragonabili a quelli che caratterizzarono la “madre di tulle le crisi”, quella del 1929.

Analogamente al 1987, e a differenza degli anni 2000, lo scoppio della “New Economy”, nella situazione presente si assomma l’evento finanziario e quello produttivo. L’industria del mattone muove capitali reali, e virtuali, immensi; è un dei pilastri su cui si regge il sistema dell’indebitamento pubblico delle famiglie negli Stati Uniti d’America, il Paese e lo Stato più forti, ma più indebitati del mondo. E la crisi può spostarsi dal mercato dei capitali a quel comparto fondamentale nel sistema industriale, accelerando il fenomeno descritto nella Terza sezione del nostro Libro. Quello è il vero pericolo per il capitalismo.

Che però la situazione dei mutui sia ben lungi dall’essere risolta lo dimostrano gli ulteriori interventi che sono pianificati dalle banche americane per una ingente linea di credito – si parla di 80 miliardi di dollari – che sarebbe messa a disposizione di situazioni critiche che si potranno ancora determinare.

Questo significa che c’è un gran numero di piccoli e medi investitori che nelle crisi vedono svanire i loro amati capitali, dai quali si aspettavano invece un profitto, quasi per una sorta di intrinseca proprietà del denaro, che lo deve per forza generare quando consegnato al gran frullatore delle Borse e degli ingranaggi della finanza.

Il denaro, che sembra avere una esistenza autonoma, è invece sterile se non opera come capitale. Nulla produce nella forma tesaurizzata. Ma quando entra nel “ciclo virtuoso”, ecco che il “risparmio” esprime questa sua straordinaria caratteristica di moltiplicarsi. Il profitto, che è risultato solo del processo capitalistico di produzione, appare separato dal processo stesso, che sparisce alla vista. Il sogno del capitale finanziario prende forma e corpo in questo campo dei miracoli che promette di moltiplicare gli zecchini ivi sepolti. Non c’è esperienza di passate burrasche che possa contare; il denaro “non dorme mai”, ed è giocoforza metterlo in movimento, non ci sono alternative.

Per mantenere in movimento, alla scala mondiale, il forsennato sistema di produzione capitalistico, che richiede percentualmente, non solo per crescere, ma anche per mantenersi allo stesso livello, masse sempre crescenti di capitale, se ne inventa la moltiplicazione in un gioco blasfemo di moltiplicazione di pani e pesci, mediante segni di valore che hanno sempre meno attinenza con l’effettivo valore prodotto.

Sono in gioco promesse di profitti da realizzarsi in un futuro sempre più lontano, che però funzionano da capitali effettivi per il processo in atto. Per vivere questo mostruoso sistema mangia il suo futuro. Quello degli uomini.

Quanto sia in grado di durare ancora questa follia non ci è dato valutare. La nostra drastica e definitiva, “semplice”, “soluzione” richiede che si svolga il processo di ricostituzione del tessuto rivoluzionario, che da decenni segna il passo. Ma di certo affermiamo con assoluta sicurezza che siamo nella fase finale di questo lunghissimo ciclo capitalistico. E siamo altrettanto certi che il futuro, forse non troppo remoto, sarà l’alternativa guerra tra gli Stati o Rivoluzione comunista.

La generale crisi capitalista, che noi ci auguriamo ultima e definitiva e motore del riscatto proletario, la avvertiamo sempre più vicina. Lo spostamento dell’asse dell’economia mondiale da Stati Uniti-Europa a Cina-India darà ancora un motivo di sopravvivenza storica al modo di produzione capitalista. Ma, per quanto possa fornirgli un consistente quanto momentaneo sostegno, non sarà certamente in grado di risolvere pacificamente le sue contraddizioni economiche interne e i suoi contrasti interimperialistici che lo portano inevitabilmente alla guerra.

Il proletariato dovrà prepararsi, sotto la guida del suo partito comunista, a questo suo compito epocale per la salvaguardia del futuro del genere umano.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Riapre il baraccone elettorale
della qual cosa nulla riguarda la classe operaia
 

Il prematuro decesso della XIV legislatura repubblicana ha rimesso in moto il ben oliato meccanismo delle elezioni a cui i pretesi nuovi partiti parteciperanno chiedendo all’elettorato il voto per potersi spartire maggioranze e poltrone governative. Il proletariato, in tempi in cui accusa maggiormente i colpi della crisi economica (caro-vita, mancato rinnovo dei contratti, lavoro precario e disoccupazione), adesso viene bombardato dallo sciocchezzaio elettorale.

Oggi nell’agenda politica tornano anche temi operai come il salario, ma l’interesse dei vari Veltroni e Montezemolo è mantenere il controllo di una classe che, sebbene in difficile difensiva da lunghi decenni, è naturalmente portata alla lotta. In questo senso, se l’aumento degli orari, i bassi salari, il lavoro precario, la disoccupazione e l’immiserimento costituiscono un evidente vantaggio economico per i capitalisti, sono anche un pericolo che va “gestito”, e non solo per la riduzione del mercato interno, ma sotto il profilo sociale, sindacale e politico.

Sebbene il sistema parlamentare italiano sia trapassato dalla cosiddetta Prima Repubblica (“catto-social-comunista”, cioè della Dc, del Pci e del Psi) ad una Seconda (quella di Forza Italia e dei Ds), i mali della sovrastruttura politica non sono stati sanati e, potenza imperialistica di seconda tacca, continua a risentire dei suoi ritardi e inadeguatezze, dando teatro alle bande di politicanti che gozzovigliano nelle sale del Palazzo.

Non stupisce che, in tanto sfacelo e fallimento “dall’interno” del metodo democratico, torni ben visibile il modulo corporativo, con un ruolo attivo nella definizione della crisi recitato dalla Confindustria, “scesa in campo” tanto da partecipare alle consultazioni al Quirinale e a spendersi attivamente per la soluzione delle “riforme” e di un governo “di salute pubblica”. Apertamente in nome della classe borghese.

Stavolta il “casus belli” della crisi starebbe nell’abbandono della maggioranza parlamentare da parte del micro-partito post-democristiano dell’Udeur. Ma in realtà si cerca ancora una volta di ridurre i costi della politica, esorbitanti e fuori controllo, con una “razionalizzazione” del “sistema dei partiti” e con il varo di due “organizzazioni” nuove di pacco: il Partito Democratico e il Popolo della Libertà.

Si intende compensare la imbarazzante identità dei loro programmi con la formazione “a sinistra” del calderone informe dell’Arcobaleno. Evidentemente, per chi cura la regìa di queste gestazioni, che anche in Italia i tempi sono maturi per il distacco dalle ultime ombre del comunismo, impersonate da Rifondazione e Comunisti Italiani. Non solo ci si affanna a rinnegare il comunismo nei simboli e nel nome ma si decampa anche dal terreno di classe e si nega che possa darsi una qualunque espressione politica della classe operaia. Ma della “parola” comunismo non si libereranno mai.

Il tradimento del partito del comunismo non è però fatto recente né che ha qualcosa a che vedere con i “comunisti” attuali. Lo smantellamento del partito comunista iniziò nel 1926, con svolte sempre più conciliatorie nella tattica verso i partiti della sinistra borghese, fino a quel “Partito Nuovo” imposto dallo stalinismo in Italia per desautorare la direzione del Partito Comunista d’Italia, fino ad allora in mano alla Sinistra Comunista, di cui il nostro Partito è continuatore.

Una vera controrivoluzione vinse allora il partito, nel nome del socialismo in un solo paese e del capitalismo di Stato in Russia e del tradimento della rivoluzione internazionale. Da allora, l’operato del Pci è stato non più comunista ma asservito allo Stato capitalista italiano e agli imperialismi dell’Est e dell’Ovest. Con la “svolta di Salerno” nel 1943 il Pci si fece parte attiva nella ricostruzione istituzionale post-fascista e democratica dello Stato. Il ruolo di fedele oppositore democratico è stato allora e poi politicamente fruttuoso: si indicavano alle masse operaie falsi bersagli, per distrarle dal vero loro programma comunista, che alle Botteghe Oscure aborrivano.

Man mano che la rivoluzione russa del 1917 trapassava in ordinario capitalismo e diventava un ricordo lontano alle nuove generazioni, l’opportunismo, per far dimenticare alla classe anche il concetto stesso di un suo partito e del suo esclusivo programma antiborghese, per “aggiornarsi ai tempi” passava a continue nuove svolte, fino alla Bolognina nel 1991 e alla nascita del Pds, poi Ds e infine alla fusione “a freddo” con i “cattolici di sinistra” della Margherita nel 2007.

Questo l’infame precipizio storico dello stalinismo in Italia: al carrozzone Pci-Pds-Ds-Pd, e al sindacalismo di regime, la borghesia ha affidato il controllo ideologico ed organizzativo dei proletari e delle fasce inferiori della piccola borghesia, per raffrenarne le rivendicazioni e per prevenire ogni ricostruzione del vero partito del comunismo.

Il marxismo scoprì che anche in regime della più perfetta democrazia vige la dittatura di classe, della borghesia sul proletariato. Di più oggi, nella fase imperialistica, la forma politica democratica è solo una maschera posta davanti allo incondizionato potere del capitale. Dei partiti lo Stato ne fa a meno, dato che le decisioni di governo vengono prese nelle istituzioni finanziarie e industriali, quando non provengono da determinazioni internazionali. I partiti della repubblica, compresi quelli “di sinistra”, progressisti, democratici, socialdemocratici o ex-stalinisti, sono ormai solo agenzie statali e bande affaristiche e parassitarie la cui unica residua positiva funzione è far chiasso. Il fascismo fu l’approdo naturale della politica alle evoluzioni del capitalismo e, sebbene sconfitto militarmente dagli Stati che si dicevano democratici, è stato adottato anche dai vincitori della Seconda Guerra Mondiale e si impone a scala planetaria. Vittoria così totale che, nei paesi più ricchi, ha potuto anche dotarsi di un innocuo simulacro di “democrazia” per camuffare la sua dittatura. Dove ha potuto coinvolgere alcuni strati sociali nella corruzione con un certo allargamento dei consumi, poteva meglio confondere la classe operaia, facendole perdere la coscienza di classe per sé e allontanarla dalla rivoluzione. In questo senso lo stesso Lenin parlava della democrazia come il miglior “involucro” del capitalismo.

Quindi, la risposta comunista da dare all’ennesima chiamata alle urne non può essere che l’astensionismo!

Proletari, non fatevi ingannare! Di fronte alla triviale vacuità del parlamentarismo, la vera riorganizzazione politica delle classe operaia può avvenire solo nel suo partito, rivoluzionario ed internazionale, nel solco della tradizione e del programma comunista!
 
 
 
 
 
 
 


Armi con i colori dell’Arcobaleno
 

Il 12 novembre il Parlamento ha approvato, all’interno della legge Finanziaria, lo stanziamento per la spesa militare nell’anno a venire. Evidentemente, il severo monito sulla necessità della riduzione della spesa pubblica, che ossessivamente e quotidianamente è ripetuto ai lavoratori da tutti i mezzi d’informazione, si riferisce a quella sanitaria, scolastica, pensionistica, assistenziale – tutte cose che, ben si sa, non recano profitto ad alcuno – ma mai e poi mai a cannoni, fucili, bombardieri, fregate e agli altri splendidi capolavori fa dono questa grandiosa società del Progresso. Ed infatti la “Difesa”, questo settore così caro ad ogni Stato borghese, per il 2008 avrà a disposizione 23,5 miliardi di euro, ovverosia l’11% in più rispetto al 2007. L’anno scorso, si badi bene, era andata esattamente nello stesso modo: l’aumento della spesa militare fu del 12%.

Nel capitalismo la guerra con le armi – da sempre sosteniamo – è la naturale prosecuzione della guerra commerciale, ipocritamente chiamata “libera concorrenza”. Guadagnarsi la supremazia militare significa garantirsi per lungo tempo anche la supremazia economica. Dialetticamente la forza si ritorce sull’economia, pur restando questa, in ultima istanza, a determinare la forza. Il meccanismo, naturalmente, è perfettamente noto alla borghesia, perciò tutti i suoi governi – di destra come di sinistra – alla prova dei fatti sono militaristi. Bertinotti lo sa non meno dei suoi “avversari”. In visita qualche mese fa alla Brigata Folgore sulle colline del Libano, dichiarò quegli appostamenti esser “La miglior vetrina d’Italia”! I suoi compagni di partito non gli sono da meno: con poche e incerte eccezioni hanno votato insieme alla odiatissima destra l’aumento della spesa militare che, in due anni di governo Prodi, è così stato 23%!

L’aumento sarà destinato in particolare ad investimenti in armamenti pesanti come gli F35 (i cosiddetti Joint Strike Fighter), nuovi aerei da combattimento (circa 110 milioni di euro cadauno), e nelle fregate Fremm. Per gli Eurofighters saranno stanziati 318 milioni di euro per il 2008, 468 per il 2009, 918 milioni per il 2010, 1.100 milioni per ciascuno degli anni 2011 e 2012! Altrettanto avverrà per le fregate Fremm e per i satelliti spia.

Un tale aumento della spesa militare (1/5 in due anni) e un simile programma futuro hanno un nome molto semplice: RIARMO. In questo lo Stato della borghesia italiana non fa che stare al passo con gli altri imperialismi mondiali e non è questa una tendenza decisa da una corrente politica piuttosto che da un’altra ma una necessità imposta dall’avanzare della crisi economica mondiale del capitalismo. Questa condurrà inevitabilmente alla guerra diretta fra le grandi potenze: una nuova guerra mondiale.

Solo la rivoluzione comunista potrà evitare questo sbocco. Anche questo la borghesia ha ben imparato: non scatenare la guerra significherebbe soccombere.

Tutti gli Stati lavorano in questa prospettiva. Potrà essere a breve o a lungo termine, questo nessuno oggi lo sa, né la borghesia né i comunisti. Ma intanto la partita si gioca aggiudicandosi posizioni di vantaggio rispetto agli avversari: Kossovo, Afghanistan, Iraq sono tappe verso il grande macello.

Il governo di centro-sinistra ha così portato avanti in perfetta continuità, anzi con maggior decisione, la linea di attivismo militare del precedente governo Berlusconi, allora additato agli occhi dei lavoratori come il male assoluto.

Che dire di Rifondazione e degli altri partiti “Arcobaleno”? Cinque giorni dopo aver votato in parlamento il nuovo aumento della spesa militare, erano tutti candidamente in piazza, a Genova e altrove, insieme al popolo pacifista dei no-global, senza che nessuno avesse di che obiettare...
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Il Papa, la Sapienza e l’anticlericalismo borghese
 

L’ “incidente”, come è stato definito dall’Osservatore Romano, che ha impedito la partecipazione dell’attuale papa alla cerimonia di apertura dell’anno accademico è nato e si è sviluppato a seguito di una lettera inviata al Rettore della Sapienza, lo scorso 14 novembre, da un professore emerito di Istituzioni di Fisica teorica e di Teorie quantistiche. Nella lettera, che avrebbe poi ottenuto l’adesione di 67 professori, di un consistente gruppo di studenti e di tutto il laicismo nazionale, venivano ripresi i vecchi argomenti dell’anticlericalismo risorgimentale (Roma non è più la capitale dello Stato Pontificio; la Teologia non è materia che si insegna nelle Università pubbliche) e temi facili ad effetto, stile talk televisivo (i cristiani hanno regalato al mondo le Crociate, i pogrom contro gli ebrei, lo sterminio degli indigeni delle Americhe, la tratta degli schiavi, i roghi dell’Inquisizione; e poi, poteva mancare?, il Sant’Uffizio ha condannato Galileo). Da professori universitari ci saremmo aspettati delle argomentazioni un po’ più, diciamo così, “attuali”.

I 67 professori, a loro volta, il 20 novembre inviavano al Rettore dell’Università un nuovo documento nel quale, tra le altre cose, si accusava l’allora cardinal Ratzinger, in un intervento tenuto a Parma nel lontano 1990, di avere approvato il processo a Galileo definendolo “ragionevole e giusto”.

Da parte sua il Rettore aveva pensato bene di ignorare le lettere e di andare avanti per la propria strada. Questo accadeva a novembre.

A gennaio, nell’imminenza della cerimonia, le lettere improvvisamente rispuntavano fuori, venivano pubblicate (per intero o in parte) e commentate, in maniera spesso stravolta, da tutti i giornali, tanto che divenivano, per giorni e giorni, l’argomento principale della politica e della vita italiana. Stampa e televisione quasi non parlavano d’altro. Il paese si divideva fra papisti e antipapisti, credenti ed atei, razionalisti ed oscurantisti, libero-pensatori e restauratori dell’inquisizione. Come al solito abbiamo assistito, da entrambi gli schieramenti, alle più squallide e volgari prese di posizione, che denotano il grado di decomposizione, anche morale, raggiunto dalla società capitalista.

Il papa, poi, alla Sapienza non c’è andato. Con soddisfazione per entrambe le parti: i laicisti hanno esultato per la “vittoria”; il papa ed i confessionalisti altrettanta vittoria hanno ottenuto con la servile sfilata di tutte le autorità civili e politiche che si sono spezzate schiena e ginocchia in espressioni di scuse e miserevoli genuflessioni.

Eppure la Sapienza, questa “Università laica” i cui professori con orgoglio ricordano e rivendicano la breccia di Porta Pia, aveva accolto a braccia aperte il precedente papa, Giovanni Paolo II. A Giovanni Paolo II, inoltre, la Sapienza di Roma, nel non lontano 2003, conferiva una laurea honoris causa in Giurisprudenza, motivata dal fatto che il Pontefice “aveva contribuito e contribuisce all’affermazione universale dei diritti dell’uomo, della giustizia e della pace nei rapporti tra le persone e i popoli”. Quel 17 maggio 2003, dopo le allocuzioni del Rettore e del Preside della Facoltà di Giurisprudenza, e dopo la laudatio del professore ordinario di Diritto civile, Giovanni Paolo II pronunciò la sua lectio magistralis. L’Osservatore Romano del giorno successivo dedicò ben quattro pagine all’avvenimento, pubblicando integralmente anche tutti i testi degli interventi. Alla cerimonia avevano partecipato numerose autorità civili (il presidente del Consiglio Berlusconi, quello della Corte costituzionale, il governatore della Banca d’Italia), ed ecclesiastiche, a cominciare proprio dal cardinale decano Ratzinger. Nessuno, allora, ebbe niente da ridire.

Perché questa differenza di atteggiamenti nei riguardi dei due papi? L’immancabile risposta è che papa Wojtyla era uomo moderno, aperto, progressista, mentre Ratzinger, l’“ex capo del Sant’Uffizio” è dogmatico, antimodernista, reazionario. Ecco il punto, il borghese, laico o perfino ateo, non nega il ruolo della religione nella società, nella scuola, nello Stato, vuole solo una religione fatta come al momento gli comoda, che cioè, a seconda dell’opportunità e dei bisogni, sia democratica o fascista, pacifista o bellicista, ecc. ecc.

Tipico esempio sono Pannella ed il Partito Radicale: anticlericali a morte, ma non antireligiosi; combattono l’ingerenza Vaticana negli affari dell’italica borghesia, ma nel loro sito ufficiale troneggia sempre la fotografia di Pannella e Bonino ricevuti da Giovanni Paolo II.

Questo è del tutto naturale perché, anche quando la borghesia si presenta con l’aspetto scapigliato dell’anticlericalismo, un patto d’acciaio ed un unico destino lega il suo potere di classe e la chiesa: la rovina dell’uno determinerà anche la rovina dell’altra. Chierici e antichierici sono infatti ugualmente nemici del comunismo e l’ateismo borghese, seppure si fonda sul razionalismo e nega l’esistenza di dio, afferma e rivendica la divisione della società in classi.

Il marxismo, anticipazione della scienza di domani, si colloca al di sopra sia del dogma religioso sia della universitaria scienza borghese attuale, che entrambi riduce storicamente e verrà a superare.

Per noi quindi la religione prima che un fatto personale è un problema di rapporti di classe; non la libertà di coscienza o di religione, ma la libertà dalla religione è quello per cui combattiamo, come combattiamo per la libertà dallo sfruttamento capitalista. E la vittoria sul capitalismo precederà la vittoria sulla religione. Sarà dopo la distruzione del capitalismo che dio morirà di morte naturale.

Mentre a Roma gli studenti di Rifondazione Comunista contestano papa Benedetto XVI, il loro capo Fausto Bertinotti è intervenuto ufficialmente alle università cattoliche di Lima e di Quito. In Ecuador, nella Università Cattolica di Quito, dove gli è stata conferita una laurea honoris causa in Scienze Politiche, Bertinotti ha tenuto la sua lectio magistralis nel corso della quale ha ammonito che “oggi il nuovo sovrano che minaccia la politica è la estremizzazione del mercato unita al matrimonio con la scienza e con la tecnica”, mentre ha indicato come unica via d’uscita la “restituzione all’uomo del controllo del suo destino”. Belle applaudite parole... le avrebbe potute dire Ratzinger!

Il governo cubano, proprio in questi giorni, annuncia ufficialmente la imminente visita del cardinale Bertone e la realizzazione di un monumento in onore di papa Wojtyla, mentre manifesta orgogliosamente gli ottimi rapporti esistenti tra il regime “comunista” e il Vaticano. A Cuba non sanno che “il cristianesimo ha regalato al mondo le Crociate, i pogrom contro gli ebrei, lo sterminio degli indigeni delle Americhe, la tratta degli schiavi, i roghi dell’Inquisizione, e che il Sant’Uffizio ha condannato Galileo”. O forse non gliene frega niente. In Vaticano non sanno che a Cuba i diritti umani non sono garantiti. O forse non gliene frega niente!

Ma, fortunatamente, in Europa abbiamo pur sempre la Francia, modello di laicismo e di separazione netta fra Stato e Chiesa; la Francia repubblicana il cui presidente non si sognerebbe mai di assumere atteggiamenti servili o compiacenti per ingraziarsi Vaticano e preti.

Nicolas Sarkozy, il 20 dicembre scorso, veniva ricevuto in udienza dal papa. Dopo l’incontro dichiarava all’Osservatore Romano. «Io mi sento cattolico di tradizione e di cuore. Gli ho detto [ al papa – n.d.r.] quanto siano importanti per me i valori cristiani nella storia della Francia”. Sarkozy, si rammaricava però del fatto che “mancano gli intellettuali cristiani, le grandi voci che si facciano sentire nei dibattiti per far progredire la società, darle un senso e mostrare che la vita non è un bene di consumo come gli altri”. Poi, il presidente teorizzatore della “laicità positiva”, il pomeriggio dello stesso giorno si recava nel palazzo del Laterano per ricevere, dalle mani del cardinal Ruini, il titolo di protocanonico onorario della Basilica del Laterano e prendeva possesso del relativo stallo. Nel discorso di ringraziamento così si esprimeva: “La fede cristiana è penetrata in profondità nella società francese, nella sua cultura, nel suo modo di vivere. Le radici della Francia sono essenzialmente cristiane. E la Francia ha dato un contributo eccezionale alla diffusione del cristianesimo”. Questo sì che è parlare da laici!

Perché i 67 professori della Sapienza che hanno contestato Ratzinger, non invitano Nicolas Sarkozy, il laico presidente della laica Francia, a tenere la lectio magistralis per la cerimonia di apertura del prossimo anno accademico?
 
 
 
 
 
 
 
 
 

PAGINA 2 e 3



 
Tornati a Sarzana per la riunione di lavoro
26-27 gennaio 2008
[RG100]

Return to Sarzana for our working meeting
L’antimilitarismo nel Partito Socialista Italiano resoconto esteso ] Working class anti-militarism in PSI
Economia marxista: Il capitale per il commercio di merci Financial capital
Lotta di classi in Libano Class struggle in the Middle East
Storia del movimento operaio americano (6) resoconto esteso ] History of the American Labour Movement
Corso della crisi economica Course of the economy
Marxismo e religioni Towards a History of religion
Per una storia della scienza Toward a History of Science

 
 

Secondo l’appuntamento che ci eravamo dati, la maggior parte dei compagni del partito a distanza di un anno è tornata a Sarzana nei giorni 26 e 27 gennaio per la sua periodica riunione. L’accoglienza, in una tranquilla e capace sala prospiciente il Magra, nella bella giornata di gennaio, è stata del tutto adeguata alle necessità del nostro impegno, che oggi richiede non grandi clamori ma la caparbia insistenza nello studio, sconvolgente verità aduse e ovvietà borghesi, dei fenomeni su tutti i piani degenerativi della società presente, alla quale opponiamo la oggettiva valenza della dottrina classica originaria e del programma comunista.

Solo in questa attività, che svolgiamo in modo impersonale e senza fretta, in totale comune intento, e senza la morbosa attesa di “gialli” personalistici e polemici, ravvisiamo la preparazione del partito e della rivoluzione. Le riunioni servono non al confronto nel partito, o alla imposizione al partito di tesi nuove o di una sua parte al resto, ma a presentare e considerare collettivamente i progressi e la coerenza del suo lavoro, sempre difficile e controcorrente e tutto sempre apprezzato.

Qui lo schema delle relazioni, seguite con grande attenzione, che si sono divise nella seduta del sabato pomeriggio e della domenica mattina.
 

L’antimilitarismo nel Partito Socialista Italiano

Iniziava i lavori la trattazione sull’antimilitarismo, proseguita analizzando l’atteggiamento assunto dalle varie componenti del Partito Socialista Italiano nei confronti della guerra, e soprattutto dell’entrata dell’Italia in guerra.

Fintanto che lo Stato italiano si manteneva neutrale era stato facile per il PSI dichiarare la sua intransigente avversione allo scontro imperialista e rivolgere severe critiche alle sezioni dell’Internazionale che erano venute meno ai solenni dettami dei congressi mondiali. Ma, alla prova dei fatti, l’intransigenza antimilitarista, il neutralismo e lo stesso pacifismo vennero meno per lasciare campo libero a quella esigenza che nell’immediato si disse più importante: l’interesse nazionale.

Nelle precedenti trattazioni abbiamo dato atto al Psi di avere contribuito in maniera determinante alla realizzazione delle due conferenze di Zimmerwald e di Kienthal, che ebbero il pregevole risultato di riannodare i rapporti internazionali, di cristallizzare l’opposizione del proletariato alla collaborazione di classe e di denunciare gli scopi capitalisti ed imperialisti del conflitto.

Ma tutto questo sarebbe stato, e fu, insufficiente ed inutile qualora non fosse stata posta l’alternativa, costantemente ribadita da Lenin, di: “Guerra o Rivoluzione”.

Il partito di Lazzari e Serrati, anche se di tanto in tanto si atteggiava a rivoluzionario, era infettato dallo stesso virus che aveva colpito tutti i partiti ufficiali della Seconda Internazionale: il riformismo legalitario, collaborazionista e pacifista: pacifista di classe. Non venne recepita la necessità di una scissione definitiva e netta con il troncone di destra del partito, ormai irrecuperabile, così come veniva auspicata e richiesta insistentemente da Lenin. E ciò per il semplice fatto che nel Partito Socialista Italiano, così come era strutturato, non avrebbe potuto verificarsi.

I socialisti italiani non solo evitarono di porre questa alternativa classista e rivoluzionaria, ma si nascosero dietro l’ipocrita slogan “non aderire né sabotare” che, se vogliamo, fu tradimento uguale, se non peggiore, di quello perpetrato dai partiti socialisti delle altre nazioni belligeranti. La parola d’ordine “né aderire, né sabotare” praticamente poneva il PSI in aspettativa per tutto il periodo bellico.

Facendo larghissimo uso di citazioni, tratte dalla folta documentazione reperita, è stato agevole mettere bene in evidenza come il proletariato italiano fosse determinato alla lotta e pronto a scendere in campo al minimo segnale del partito e del sindacato di classe. Non solo: il proletariato tentò di imporre la propria volontà, di costringere quelle organizzazioni che avrebbero dovuto essere di classe a prendere la direzione del movimento e a dichiarare che tra proletariato e regime del capitale non ci possono essere scopi ed interessi comuni.

Il segretario della CGL, Rigola, prendeva atto del fatto incontestabile che i proletari erano «neutralisti così assoluti da propendere, dirò meglio, da volere un’azione estrema contro l’eventuale mobilitazione». Ma di fronte a ciò il bonzo sindacale metteva subito in atto la sua azione di pompieraggio: «Credo lo sciopero un’assurdità tale, nel caso in questione, che io non esiterei a separare la mia responsabilità da quella dei confederati, anche se il novantanove per cento di questi vi fossero favorevoli». Non ci fu bisogno di dissociarsi dal resto del sindacato che viaggiava unanimemente sullo stesso binario. Nel caso che lo sciopero generale fosse spontaneamente scoppiato, senza che il sindacato avesse potuto impedirlo, la CGL vi avrebbe preso parte, ma al solo scopo di “disciplinarlo”, come mesi prima aveva annunciato Caldara.

Mentre dalle colonne dell’Avanti! Serrati continuava a lanciare “ammonimenti” alla borghesia e ad annunciare rivoluzioni che mai sarebbero state fatte, il governo regio veniva informato dai propri Uffici periferici che il Partito Socialista, al di là della prosopopea parolaia non sarebbe andato, né si sarebbe mosso. E la stessa Direzione, massimalista, nel suo ordine del giorno, approvato all’unanimità, insinuava il dubbio disfattista e cioè che «il proletariato ed il PSI, che ne interpreta e rappresenta gli interessi, non avranno la forza e la compattezza necessaria per impedire la guerra». Intanto il gruppo parlamentare socialista, e soprattutto il suo maggiore rappresentante, Filippo Turati, sia negli interventi in parlamento sia attraverso intese con i rappresentanti del governo offriva la propria collaborazione e si metteva a disposizione per la riuscita vittoriosa della guerra.

Solo la rottura netta con tutte quelle forze collaborazioniste, palesi ed occulte, avrebbe dato libertà di azione alla corrente rivoluzionaria che, al contrario, rimaneva soffocata nella mortifera atmosfera dell’unità del partito. Di questo era ben cosciente l’ala riformista che in svariate occasioni si congratulava con la Direzione del partito per essere riuscita a mantenere l’unità; quella unità che impediva di «portare tutte le forze dell’opposizione fuori e contro la chiostra dello Stato, e quindi anche fuori e contro l’azione socialista parlamentare. Se ciò fosse avvenuto il movimento proletario avrebbe dovuto sbrigliarsi e rompersi nei torbidi torrenti dell’insurrezionalismo».

Quali erano le finalità che la destra riformista, in alternativa all’insurrezione rivoluzionaria, prospettava al proletariato? «La difesa delle istituzioni parlamentari, oppresse dalla guerra e dal prepotere degli elementi politici che la guerra avevano voluta». Quindi difesa dell’ordinamento democratico borghese come equivalente a lotta contro il militarismo e la guerra.

Come si vede la storia è vecchia: l’opportunismo trova sempre qualche cosa da dover “salvare” all’interno della struttura dello Stato borghese: quel qualcosa, del quale la borghesia si afferma che si vorrebbe disfare, in realtà è inutilizzabile al proletariato per conquistare la sua emancipazione, ma serve al sistema capitalistico per scongiurare che il malcontento e la ribellione del proletariato vengano incanalati dentro l’argine della lotta di classe. Questo compito collaborazionista, indispensabile per la borghesia, di lottare per la difesa della minacciata libertà democratica, è sempre stato magnificamente svolto dai gruppi parlamentari dei partiti socialdemocratici e stalinisti poi. L’utilizzo del parlamentarismo rivoluzionario, con un gruppo parlamentare disciplinato ed utilizzato semplicemente come portavoce, può essere attuato solo da partiti saldamente orientati nella prospettiva rivoluzionaria e solo in particolarissime situazioni, che non si ripetono più nei paesi di consolidato regime democratico, come la storia ha voluto dolorosamente insegnarci.

I riformisti del PSI non esitavano a riconoscere che l’attività da loro svolta contrastava con le aspettative e con la volontà del proletariato, e riconoscevano che non sarebbe stato loro possibile sviluppare la politica di collaborazione e di sostegno alle istituzioni senza il sostegno determinante della Direzione del partito, sebbene questa si atteggiasse ad intransigente e rivoluzionaria. «Fu la stessa Direzione del Partito – scriveva Treves – che venne incontro al Gruppo Parlamentare per plaudire solidale all’opera compiuta, volgendosi contro la propria parte estrema, irriducibile nel suo furore incomposto di demolizione, espressione penosa ed appassionata delle esasperazione delle folle. E fu Costantino Lazzari che fissò i termini concreti del continuamento dell’opera comune ergendosi contro l’insurrezionalismo ed illustrando nuovamente la formola che fu la bandiera fin qui agitata: “Né aderire, Né sabotare alla guerra”, che implica la non indifferenza che il padrone sia austriaco o italiano».

Eccoci al dunque! “la non indifferenza che il padrone sia austriaco o italiano”, cioè collaborazione di classe, cioè adesione alla guerra nazionale. Alla “guerra patriottica”, di futura formula staliniana!

Un’ultima citazione dalla “Critica Sociale” (n. 5, marzo 1917) per dimostrare come i riformisti, al pari dei rivoluzionari e al pari di Lenin, riconoscessero che i due metodi di attività politica sono inconciliabili: «Ora, o il Partito, intuendo le chiare necessità e responsabilità dell’azione socialista politica, approvava l’azione del Gruppo Parlamentare, oppure la disapprovava; ma la disapprovazione avrebbe necessariamente investito non l’attività di un gruppo, ma la bontà di un metodo. Il giudizio era di una complessità magnifica, e, per le terribili circostanze, implicava un bivio storico».

Questa dichiarazione, enunciata con la massima chiarezza, significa una cosa sola, e cioè che chi teorizza la possibilità di convivenza del metodo riformista con quello rivoluzionario, in nome di quel valore supremo che sarebbe la “unità del partito”, in effetti persegue un solo scopo: quello di impedire che il metodo rivoluzionario possa sviluppare la sua azione, senza altro impedimento se non quello che non provenga apertamente dall’esterno, dalla classe borghese, e che il proletariato resti incatenato alla collaborazione interclassista.
 

Economia marxista:
Il capitale per il commercio di merci

Proseguendo il lavoro intrapreso nella precedente riunione di partito, abbiamo continuato poi l’esposizione del 3° Libro de “Il Capitale”, presentando, prima di arrivare alla Quinta Sezione, i capitoli 16, 17 e 18 della Quarta Sezione – che riguardano la trasformazione del Capitale merce e del Capitale monetario in Capitale per il commercio di merci – con l’analisi del profitto commerciale e cenni sulla rotazione del capitale commerciale.

Se si considera il capitale complessivo della società, vediamo che una parte di esso, pur composta di elementi diversi e di grandezza mutevole, si trova sempre sul mercato sotto la forma di merce per essere convertita in denaro. Un’altra parte si trova sotto forma di denaro per essere trasformata in merce. Nel suo complesso il capitale è continuamente in movimento per operare questa conversione.

Questa caratteristica del capitale che si trova nel processo di circolazione diventa specifica di una funzione particolare, attribuita, tramite la divisione del lavoro, ad una classe particolare di capitalisti. In questo caso il capitale merce si trasforma in capitale per il commercio di merci o capitale commerciale.

L’esistenza del capitale sotto forma di capitale merce e la metamorfosi che esso in quanto tale subisce sul mercato nella sfera della circolazione costituiscono una fase del processo di riproduzione del capitale industriale e quindi del suo processo complessivo di produzione. Questa metamorfosi si risolve in acquisto e vendita, trasformazione di capitale merce in capitale monetario e di capitale monetario in capitale merce.

Una parte del capitale complessivo si trova sempre sul mercato in questa forma di capitale di circolazione impegnato nel processo di questa metamorfosi. Il capitale per il commercio di merci non è altro che la forma trasformata di una parte di questo capitale di circolazione che si trova costantemente sul mercato ed è sempre circoscritto nei confini della sfera della circolazione.

Il capitale per il commercio di merci non è altro che il capitale merce del produttore che deve subire il processo della sua trasformazione in denaro, adempiere sul mercato la sua funzione di capitale merce, con la differenza che questa funzione, invece di essere una operazione secondaria del produttore, appare ora come l’operazione esclusiva di una categoria particolare di capitalisti, dei commercianti di merci, diventata autonoma, come attività di un particolare investimento di capitale.

Nella circolazione semplice di merci come si presenta nel capitalista industriale, M’-D-M, la stessa moneta cambia due volte di mano e la merce acquistata la seconda volta non è la stessa merce della prima volta: sono stati venduti prodotti e acquistati mezzi di produzione.

Nel movimento del capitale commerciale le cose si presentano diversamente. Nella circolazione semplice, D-M-D’, il commerciante acquista la merce e la rivende. In questo caso non è lo stesso segno monetario che cambia due volte di mano, ma è la stessa merce che passa dalla mano del venditore a quella del compratore, che a sua volta può diventare venditore e cederla ad altro compratore. La stessa merce può esser venduta due o più volte. È proprio per questa serie di vendite ripetute, per il mutamento di mano della stessa merce, che il denaro, anticipato nell’acquisto dal primo compratore, a lui alla fine ritorna.

Nel caso del capitale industriale, M’-D-M, il mutamento di mano dello stesso denaro fa sì che la merce è alienata sotto una forma ed acquistata sotto un’altra forma: prodotti finiti contro mezzi di produzione. Nell’altro caso, il doppio mutamento di mano della stessa merce fa sì che il denaro anticipato sia di nuovo ritirato dalla circolazione.

Questo mostra che ciò che per il capitalista produttore è M’-D-M, cioè la semplice funzione del suo capitale nella forma transitoria di capitale merce, per il commerciante, D-M-D’, è una particolare valorizzazione del capitale monetario da lui anticipato.

Il movimento della merce, nell’ambito del capitale per il commercio di merci, assume quindi una configurazione autonoma a forma di capitale per il fatto che il commerciante anticipa il capitale monetario, il quale si valorizza solamente perché è impiegato come intermediario nella metamorfosi del capitale merce, cioè per la sua conversione in denaro, mediante l’acquisto e la vendita ripetuta.

Nel Secondo Libro del Capitale si evidenzia che le semplici funzioni del capitale nella sfera della circolazione, cioè le operazioni che il capitalista industriale deve intraprendere per realizzare il valore delle sue merci, e poi riconvertirlo negli elementi di produzione come descritto dal ciclo M’-D-M, sono funzioni che non generano né valore né plusvalore.

Viceversa il tempo richiesto da tali operazioni comporta dei limiti nella formazione del valore e del plusvalore. Tutte le considerazioni e leggi che valgono per la metamorfosi del capitale non subiscono cambiamenti quando una parte del suo ciclo assuma la forma di capitale per il commercio di merci, per il fatto che le operazioni che determinano la mediazione del capitale merce appaiano come attività particolare di una categoria speciale di capitalisti.

Come il capitale industriale realizza il profitto unicamente perché questo si trova già come plusvalore nel valore della merce, così il capitale commerciale lo ottiene solo perché non tutto il profitto è rappresentato nel prezzo della merce incassato dal capitale industriale. Il prezzo di vendita del commerciante è quindi superiore a quello di acquisto non perché il prezzo di vendita sia superiore al valore della merce, ma perché il suo prezzo di acquisto ne è inferiore.

Il capitale commerciale contribuisce quindi a riportare il plusvalore al livello del profitto medio, pur non entrando nella produzione di questo plusvalore. Il saggio generale del profitto contiene già la quota del plusvalore che spetta al capitale commerciale, che è una detrazione dal profitto del capitale produttivo.

Quindi il saggio del profitto industriale esprime sempre un valore inferiore al saggio del plusvalore, cioè al grado di sfruttamento del lavoro, gravando cioè sulla classe operaia la classe dei commercianti oltre a quella degli industriali.

Il rapporto che esiste fra il plusvalore e il capitale commerciale è differente da quello col capitale industriale. Il capitale industriale si appropria del plusvalore direttamente dal pluslavoro, dal lavoro non pagato. Il capitale commerciale invece fa sua una parte del plusvalore già incorporato nella merce, facendosi consegnare questa parte dal capitale industriale.

È solo per la sua funzione nel processo di riproduzione di assicurare la realizzazione dei valori che il capitale commerciale opera come capitale e, in quanto capitale operante, ha diritto alla sua quota proporzionale sul plusvalore prodotto dal capitale complessivo: al saggio medio del profitto, cioè totale del plusvalore nazionale diviso capitale totale, uguale al capitale industriale più il capitale impiegato nel commercio.

Per il capitale commerciale la massa del profitto che gli spetta dipende dalla massa di capitale che impiega e tanto di più ne investe nell’acquisto di merci tanto maggiore è la quota di lavoro industriale non pagato di cui si appropria.

La rotazione del capitale industriale è la somma del suo tempo unitario di produzione e di circolazione ed abbraccia quindi l’intero processo di produzione. La rotazione del capitale commerciale invece, non essendo in realtà che il movimento reso autonomo del capitale merce, rappresenta solo la prima fase della metamorfosi della merce M-D, ossia il movimento di un tipo particolare di capitale che ritorna al punto di partenza. Il commerciante compera, converte il suo denaro in merce, che poi vende trasformando di nuovo questa merce in denaro, e così di seguito in un ciclo continuo.

Nella circolazione la metamorfosi del capitale industriale si presenta sempre come: M’-D-M; il denaro è ricavato dalla vendita di M’, la merce prodotta viene venduta per acquistare nuovi mezzi di produzione, e si ha uno scambio effettivo tra M’ ed M.

La rotazione di un capitale industriale esprime la periodicità della riproduzione, e quindi determina la quantità di merci che in un dato tempo viene portata sul mercato. La durata della circolazione, spesso aleatoria, influisce sulla formazione del valore e del plusvalore poiché si somma al tempo di produzione per dare la durata del ciclo complessivo della riproduzione delle merci.

Il tempo di circolazione costituisce quindi un elemento che limita la massa del plusvalore prodotto annualmente e quindi il saggio generale del profitto. Al capitale commerciale, invece, il saggio medio del profitto appare come una grandezza determinata esternamente, alla cui formazione non partecipa. Non alla creazione del profitto né a quella del plusvalore, entra nella formazione del saggio generale del profitto soltanto perché, sulla massa del profitto prodotto dal capitale industriale, preleva i suoi dividendi proporzionalmente alla frazione che costituisce del capitale complessivo.
 

Lotta di classi in Libano

Come terzo rapporto abbiamo ripresa l’indagine sulla storia del Libano, intrapresa nelle sue grandi linee durante l’invasione israeliana del Paese ed argomento di un primo rapporto nella riunione generale del dicembre del 2006.

Quella guerra, preceduta da estesi bombardamenti su tutto il Libano meridionale e sulla città di Beirut, pur provocando centinaia di vittime civili, non è riuscita nel suo scopo, quello di colpire al cuore la milizia sciita di Hezbollah, accusata di costituire la lunga mano dell’Iran e della Siria. Anzi ha contribuito a rafforzare la presa del partito sciita sulle masse proletarie, sui profughi, sui diseredati, sulla piccola borghesia. Le milizie dispongono infatti di grandi mezzi finanziari con i quali riescono a fornire una certa assistenza alla popolazione e parziale compenso dei danni subiti.

Nell’intento di ricostruire una cronologia della storia moderna del Libano, che ci sarà di aiuto e base per un previsto futuro approfondimento, abbiamo ripreso una traccia fornita dai nostri compagni parigini col primo scopo di confrontare i nuovi dati della storiografia borghese con le interpretazioni che il partito ha coerentemente allineato nell’arco di mezzo secolo.

L’attenzione che abbiamo dedicato a questo piccolo paese, non più grande di una regione italiana e con una popolazione che si aggira sui 4 milioni, non è sproporzionata, anche perché questa indagine, come tutte le nostre, pur riferendosi all’analisi della complessa situazione dei rapporti tra le classi e tra gli Stati nella regione, trae lezioni generali valide nei tanti e difficili casi di rivoluzioni nazionali incompiute, e che tali resteranno. Anche l’approfondito lavoro che abbiamo pubblicato sulla rivoluzione algerina e sui tragici avvenimenti che l’hanno seguita, si deve utilizzare per comprendere la parabola di altre rivoluzioni nazionali, vittoriose sul piano militare ma costrette poi nella morsa dell’ordine imperialistico mondiale, come il Vietnam ad esempio. Come il Libano molti Stati di quell’area sono stati disegnati a tavolino dagli strateghi dell’imperialismo anglo-francese per salvaguardare i loro profitti e i loro interessi di classe.

Ripercorrendo la storia del Medioriente nell’ultimo secolo e mezzo, da quando l’imperialismo europeo ci ha messo le mani, si evidenziano alcune questioni centrali: lo scontro tra i diversi Stati imperialisti per accaparrarsi le spoglie dell’Impero Ottomano; l’utilizzo delle minoranze religiose o etniche come “teste di ponte” per introdursi nella regione prima e poi per spezzare il movimento nazionalista e, in seguito, per irretire il movimento del proletariato. Quelle stesse vicende confermano invece come i lavoratori e i diseredati non possano trovare aiuto e salvezza che nella loro organizzazione indipendente di classe, rinnegando ogni loro sottomissione alla causa ed al movimento nazionale, vuoi in veste laica-modernista vuoi religiosa.

La causa nazionale nei micro-paesi della regione non ha basi materiali sufficienti, quantitative e qualitative, per imporsi e vincere: in quei paesi la rivoluzione nazionale borghese ormai ha abortito. Solo il proletariato ha la possibilità storica oggettiva di riconoscersi positivamente come classe per sé, di imbracciare utilmente le armi per la difesa delle sue condizioni di vita e di lavoro, per rifiutare la solidarietà alla borghesia e al clero, per riconoscersi fratello con i proletari di tutti i paesi. Solo la sua sollevazione rivoluzionaria e socialista può realmente minacciare la borghesia internazionale.

Gli inizi di questa polarizzazione sociale si stavano per manifestare nel Libano della guerra civile, a metà degli anni Settanta, quando le armate, fino ad allora nemiche di Israele e Siria, si unirono per terrorizzare i proletari con le stragi della Quarantena e di Sabra e Chatila.

Oggi la borghesia del fragile Stato libanese vuole coinvolgere il proletariato in un nuovo scontro armato, spingendolo ad aderire ad uno dei due fronti imperialisti, quello statunitense-israeliano e quello russo-iraniano-siriano. Oppresso da decenni di guerra, da una grave crisi economica, da bassi salari e da un’inflazione galoppante, il proletariato dovrà rifiutare di schierarsi sui fronti che la borghesia gli presenta; dovrà organizzare il proprio fronte, quello di classe, chiamando a raccolta tutti i proletari del paese, sciiti o sunniti, maroniti o drusi, libanesi o palestinesi, contro la guerra e la borghesia che la fomenta, contro lo sfruttamento che non ha colore di bandiera, contro le ideologie nazionaliste e religiose dietro le quali si maschera l’ideologia borghese, per la difesa incondizionata delle sue condizioni di vita e di lavoro, in nome della solidarietà internazionale di classe.
 

Storia del movimento operaio americano (6)

Apriva i lavori della domenica il rapporto sul movimento negli Stati Uniti.

L’afflusso di proletari dall’Europa, soprattutto tedeschi, infuse nuova vita nel movimento operaio nordamericano. Oltre agli ultimi rigurgiti dell’utopismo, la fine degli anni ’40 vide presentarsi sulla scena dottrine comunistiche; tra queste ebbe un certo risalto quella di Weitling, che visitò più volte il paese e che vi fondò un giornale e organizzazioni operaie. Ma Weitling non credeva veramente alla lotta sindacale, che utilizzava solo per unire gli operai in vista dei suoi progetti di cooperativismo e in genere di un comunismo utopistico che in breve gli alienò il seguito inizialmente ricevuto.

Nel 1851 giunse in America Joseph Weydemeyer, comunista rivoluzionario amico di Marx e Engels, che dovette subito entrare in polemica con Weitling, e dimostrare che il “cooperativismo rivoluzionario” serviva solo a dividere gli operai, oltre ad essere una mera utopia. La cosa più importante all’immediato per il movimento operaio era la lotta per la difesa economica; ma egualmente importante era la lotta politica.

Nel 1853 fu fondata dagli operai tedeschi la American Labor Union, con lo scopo dichiarato di unire tutti i lavoratori senza distinzioni di razza, lingua, mestiere, opinione politica. Anche se inizialmente ebbe un certo seguito anche tra gli operai anglofoni, si scontrò con l’indifferenza dei sindacati di mestiere nei confronti delle altre categorie, e quindi con un movimento ancora immaturo sotto quell’aspetto; inoltre molti operai nativi erano infettati dal morbo del “nativismo”, diffuso dall’American Party.

Il movimento operaio sopravvisse tra alti e bassi per il resto degli anni ’50. Nacquero organizzazioni nazionali e centrali cittadine, che furono però colpite duramente dalle depressioni del 1854 e del 1857.

D’altro canto in quel solo decennio ben 2 milioni di stranieri sbarcarono in cerca di lavoro, una cifra enorme se rapportata alla popolazione esistente; nonostante le crisi, furono loro ad occupare gli spazi aperti dalla accresciuta meccanizzazione e divisione del lavoro, che richiedeva sempre minore preparazione professionale.

Al Sud la situazione era ancora più arretrata, e la classe operaia quasi inesistente. Negli anni ’50, poi, la borghesia del Sud tentò anche di introdurre gli schiavi nelle attività dell’industria, con risultati in verità non buoni. Poche e deboli furono quindi le lotte rivendicative.

La forza lavoro fondamentale per il Sud era quindi quella degli schiavi, che vivevano in condizioni tremende, alla mercé dei padroni e dei loro aguzzini, che potevano disporre a proprio piacimento della loro vita. Ma l’inserimento in fabbrica degli schiavi, ove possibile e conveniente, trasformava rapidamente lo schiavo in un proletario cosciente e combattivo, che non tardava a trovare un terreno di comune interesse con l’operaio bianco.

Verso la fine degli anni ’50 quindi la piccola oligarchia del Sud rischiava di dover affrontare a breve uno scontento che poteva tradursi in una guerra di classe, preoccupazione che traspare dalla stampa locale del tempo. Il dilemma era grave: tenere gli schiavi fuori della fabbrica avrebbe significato l’ascesa di una classe operaia libera, per natura ostile ai piantatori. Consentire agli schiavi di lavorare in fabbrica avrebbe indebolito il sistema schiavistico, perché l’esperienza insegnava che gli schiavi impiegati nell’industria in breve divenivano agitatori per l’emancipazione. La scelta fu quindi di ostacolare con tutti i mezzi la crescita dell’industria nel Sud; scelta miope, che dava fiato ai piantatori per un po’, ma che sarebbe stata pagata caramente nel corso della guerra.

Al Nord la classe operaia non tardò a convincersi che il permanere dello schiavismo nell’Unione avrebbe costituito un pericolo per le condizioni di vita di tutti i proletari, visto che i piantatori del Sud pretendevano che per legge fosse ammesso nei nuovi territori dell’Ovest: a quando la sua reintroduzione al Nord? Quindi gli operai, storicamente vicini al Partito Democratico, cominciarono a sostenerne la parte non schiavista, quella dei Freesoilers, e anche il partito di opposizione, quel Partito Repubblicano nato dalle ceneri del partito Whig, ma con in più in programma l’abolizionismo e le misure di politica economica care alla borghesia industriale del Nord, viste di buon occhio anche dai proletari. Tra i suoi sostenitori nel campo del proletariato si distinsero gli immigrati, in particolare gli operai di origine tedesca e scandinava, che in buona parte risentivano dell’influenza di Weydemeyer e del suo Communist Club. Negli anni successivi queste stesse componenti si rafforzarono, e nel 1860 si può dire che il Partito Repubblicano, sostenuto da una borghesia che sempre più comprendeva quale ostacolo lo schiavismo fosse per lo sviluppo capitalistico del Paese, si presentasse alle elezioni come il partito del lavoro libero; il suo campione era Abramo Lincoln, il “figlio di operai”.
 

Corso della crisi economica

Grazie all’ausilio di un proiettore luminoso i convenuti potevano meglio e più in dettaglio seguire su uno schermo le cifre e le curve relative alle serie statistiche dei maggiori paesi del mondo.

Tenendosi la riunione a gennaio i dati potevano essere conosciuti solo fino agli ultimi mesi del 2007, e quindi non davano ancora risalto alla crisi recessiva nella quale sta attualmente affondando il capitalismo americano e a ruota gli altri d’occidente.

Il primo quadro rappresentava l’andamento del commercio mondiale, con dati definitivi di esportazioni ed importazioni fino al 2006 e del 2007 provvisori e solo per il saldo commerciale, ricavato dalle “proiezioni” dell’Economist.

Per l’anno appena trascorso si evidenzia ulteriore forte crescita del surplus di Germania, Cina e Giappone, riduzione del surplus della Russia (prima dell’aumento del prezzo di gas e petrolio), ma anche una certa riduzione del deficit degli Stati Uniti.

Una seconda tabella, sempre relativa al commercio estero, analizzava la variazione di importazioni ed esportazioni di ogni paese nel tempo, nei cicli 1995-2000 e 2000-2006. La media mondiale dell’aumento medio annuo è intorno al 5% nel primo quinquennio e dell’11%, in accelerazione della “globalizzazione”, in questo iniziale del 21° secolo. Si nota forte tendenza ad aumentare l’apertura sull’estero di Cina, Russia ed India, con saggi medi annui di crescita superiori al 20%. Italia e Corea intorno alla media mondiale. Stati Uniti, Giappone e Francia sotto la media.

Sono stati poi illustrati gli aggiornamenti dei grafici delle produzioni industriali dei principali paesi e il quadro dei “Cicli brevi” e dei “Cicli lunghi”, che non presentano ancora grandi inversioni di tendenza rispetto agli stessi mostrati alla riunione di settembre.
 

Marxismo e religioni

Veniva quindi esposto il primo capitolo di una nuova trattazione, collegata alle precedenti, sul tema delle religioni.

La nostra corrente ha l’ambizione non solo ad indicare un metodo, ma a conoscere sistematicamente i processi, le modalità nei vari campi dell’esperienza umana, che hanno portato l’uomo dalle origini ai nostri tempi tempestosi.

Ce l’abbiamo fatta a gettare le basi essenziali di questo compito? Qualcosa abbiamo fatto, ma il nostro è lavoro in progresso che crediamo potrà essere compiuto solo nel regime comunistico di vita sociale. Nel frattempo dovremmo lasciar perdere? Niente affatto, i nostri semilavorati, anche se tali rimasti, non si contano, e non rinunciamo a nessuno di essi.

La storia (istoria, cioè cose viste) per essere tale, richiede elementi di prova, documenti, scritture... Queste non mancano, il problema è saper dare senso a questi elementi per una storia credibile. Le religioni hanno tagliato la testa al toro, in generale, rivendicando di aver a disposizione “rivelazioni”, racconti consegnati da Dio attraverso i profeti, o scritte direttamente da Allah.

L’essere umano è oppresso e impaurito dalla religione, che lo minaccia con la promessa di punizioni ultraterrene, o, come si preferisce sostenere da più parti oggi, è una consolazione senza la quale non c’è che da disperare. La religione è l’una e l’altra cosa, naturalmente, con molta abilità amministrate dai fautori che a volte minacciano, a volte si propongono di conforto.

Se la realtà storica è in divenire, è necessario fare distinzione tra le varie forme di società che si sono succedute nel corso storico. La sovrastruttura religiosa non è identica nel comunismo primitivo, nelle società antiche, dominate dai padroni di schiavi, oppure nelle più moderne società servili e poi di borghesi. Se prescindiamo da queste differenze cadiamo in generalizzazioni abusive senza grande costrutto.

C’è chi ipotizza la formazione della cultura umana come graduale comparsa della coscienza e della sua lineare evoluzione fino alla filosofia come viene intesa dai Greci fino ad oggi. La nostra ipotesi è diversa, non continua, non lineare, ma meglio rappresentabile col diagramma delle spezzate.

Abbiamo chiaramente detto in tesi che mito e religione corrispondono ad una sistemazione sovrastrutturale ed avvolgente che vale per intere epoche.

Nel contesto del comunismo rozzo e primitivo nascono e si sviluppano le condizioni della vita, che non è semplicemente biologica, ma culturale. Quali sono gli elementi che sarebbero da attribuire alla struttura di base, e, distinguendo, alla sovrastruttura religiosa? Sembra chiaro che i due piani coincidono, s’intersecano, almeno fino a quando l’esigenza di tramandare per simboli la propria condizione, non sospinge verso i primi riti, le prime forme di credenza e quindi di culto religioso. Ma non c’è dubbio che nel comunismo primitivo non esistono ancora due piani opposti contraddittori, che invece in seguito si realizzeranno, in particolare a causa delle tensioni e delle fratture di classe al suo interno.

L’attuale scienza, specie quella che riguarda l’uomo, è inficiata dal conflitto tra le classi, al punto che la stessa immagine che viene prefigurata nel partito è solo un tentativo di sottrarsi alle sue potenti. Ciò non impedisce che il partito rivendichi la sua visione, e dunque una ricostruzione attendibile dei processi sociali pregressi, che postulano il passaggio alla società senza classi.

La storia dei divieti, delle trasgressioni e della necessità di guadagnarsi da vivere “col sudore della fronte” è una costante, diversamente raccontata e accomodata. La stessa tendenza a pensare i primordi ora come uno stato di natura felice e positivo, ora invece una guerra feroce di tutti contro tutti, costituisce la variante della stessa costante, segnata da componenti ideologiche non difficili da decodificare.

Non staremo ad opporre la “bontà” del comunismo primitivo contro lo “stato di natura” ferino di altre concezioni, semplicemente ci atteniamo ad una ricostruzione inevitabile e giustificata per proiettarci nella possibilità-necessità della società di specie.

La “religione” dell’uomo delle origini esprime la percezione del legame originario: l’uomo è un essere sociale, un fascio di relazioni che non vengono dopo, ma iniziano da subito. Chi invece pretende il primato astratto dell’individuo, segue un percorso che non è né scientifico né antropologicamente sostenibile.

Una lettura dialettica ci permette di comprendere come anche quando cambiano determinati modi di produzione, possono permanere negli ambiti sociali più diversi modi di pensare e di rappresentare la realtà dominanti in altri sistemi. Ciò, secondo l’ideologia corrente borghese, significherebbe che le religioni sono valide sempre in assoluto; per noi invece che il rapporto tra essa e la realtà sociale determinata è compatibile con residui ideologici anche millenari, per la ragione che un residuo magico e superstizioso è inevitabile, anzi vitale, per la sopravvivenza stessa di certi gruppi in declino.
 

Per una storia della scienza

Infine, si dava lettura solo di una breve traccia schematica del piano di questo nuovo lavoro.

C’è una correlazione fra il crescere della forza produttiva del lavoro, la successione delle forme sociali e le rivoluzioni nella visione che l’uomo ha del mondo fisico.

Talvolta arte e scienza nelle loro intuizioni hanno anticipato i grandi rivolgimenti storici e politici. Le nuove “verità” urgono nelle cose, e si impongono nonostante tutto. E le classi dominanti sono costrette, in parte, ad accettarle, ad utilizzarle, pur sterilizzandone il portato, sociale ma anche tecnico.

La scienza dei greci parte dai numeri interi e dalla geometria, e con essi legge ed interpreta il cosmo. Tale geniale grado di sviluppo del pensiero (che a noi appare “mistico”) non riesce a dare spiegazione del moto dei corpi e delle forze.

In Galileo, relativo all’osservatore, oltre allo spazio, è la velocità, la serie delle successive posizioni dei corpi nello spazio al variare del tempo. Lo spazio è “funzione del tempo”. Si trapassa dalla geometria e dalla statica alla cinematica e alla dinamica. Esiste una legge universale, si scopre, che lega la forza e la variazione della velocità nel tempo, la forza alla variazione della variazione della posizione spaziale di un corpo nel tempo.

Con Einstein si opera un ulteriore salto nella conoscenza.

Schema della ricerca scientifica in Einstein è, in salita: dalla esperienza alla teoria; in discesa: dalla teoria alle leggi, per tornare infine alla verifica nell’esperienza. Il primo passaggio è un risultato della “fantasia” (vedi il nostro “In morte di A.Einstein”). La scienza prende avvio da un atto di intuizione, da un moto emotivo, psicologico. Si convince e convince per un complesso di sentimenti, determinati da fattori storici-sociali, di natura “estetica”, pre-razionale: semplicità, eleganza, essenzialità, armonia, bellezza, forza. O affettivi e “morali”. Si ha “fede” in una teoria scientifica.

Dalla Teoria del Valore di Carlo Marx, che non è “dimostrabile” ma che “non può non esser vera”, si “ridiscende” alla Legge della caduta del Saggio del profitto, e alla sua “riproducibile” verifica empirica: le crisi economiche a ripetizione, queste provate e riprovate a volontà.

La Teoria del Valore, infatti, si è imposta alla generalità, come quelle di Galileo nonostante i tribunali romani. Nemmeno i borghesi l’hanno mai potuta-voluta negare, nessuno ha mai detto “Non è vero!”: la ignorano o la mistificano o la nascondono sotto cumuli di cianfrusaglie.

La sua “umanità” non viene a sminuire affatto l’importanza, la necessità, nel progredire storico del possesso di una serie di successive teorie del mondo e della società in particolare. Come al di fuori di una piena, indiscussa ed esplicitata comprensione delle moderne leggi del moto è certamente impossibile progettare una qualunque macchina di media complessità; come senza l’apparato matematico descrivente le leggi della relatività non sarebbe tarabile un comune sistema di localizzazione satellitare, così senza la padronanza della teoria del materialismo storico, e di tutte le leggi che ne discendono, è da escludere che il partito della classe operaia possa destreggiarsi e portarla a vincere il potere secolare della classe borghese.

Newton appare più “meccanico” di Galileo, col suo schema di Universo-macchina, con i corpi celesti tenuti insieme come da una rete di molle e tiranti. Era la sua epoca, gli albori del macchinismo: l’uomo pensa “con le mani” (Non proprio le sue, individuali). Oggi tutto è, appare, “informazione”, anche in fisica. L’uomo che pensa non precede l’uomo che lavora. All’apice del mercantilismo si vedeva un Universo-mercato, dove l’attrazione gravitazionale è un negozio fra masse prese due a due.

La fisica moderna introduce il concetto di “campo”: la materia di per sé genera un campo, indipendentemente se questo è abitato da altre masse. Anche la dottrina del comunismo, e il partito che ne “detiene” la teoria, genera un campo: esiste, informa e deforma lo spazio sociale, anche quando non c’è nessuno che ascolta.

Il “cronotopo”, scoperto da Albert Einstein all’inizio del XX secolo – le tre dimensioni spaziali “intrecciate” alla quarta che è il tempo – è l’ambito, la “dimensione cosciente”, nella quale “sente” di vivere l’uomo nel comunismo. L’uomo che si è appropriato del Tempo.

Oggi la quarta dimensione, il tempo, è sequestrata, fatta propria dal Capitale. La dimensione proibita, perché il Capitale ha preso tutto il tempo agli uomini. È un mostro che non dorme mai, non conosce notte né stagione. Il tempo è Denaro!

Il partito è in condizioni per spingere incursioni nel futuro, di viaggiare nel tempo. Per questo i marxisti non hanno mai fretta. Nel partito espressioni come “siamo pochi”, o “siamo molti” sono, in gran parte, formule prive di significato e solo effetto di debolezza. L’uomo del comunismo “vede”, e “vive” i secoli passati nello stesso modo che il geologo ha chiaro avanti a sé e può “toccare” i milioni di anni, i cataclismi e le lente erosioni, e il mare, le onde e i fondali dove ora s’innalzano le catene di monti.

* * *

Infine, presi gli ultimi accordi di lavoro pratico, la riunione si scioglieva con soddisfazione di tutti.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Corriere Tnt: contro la cooperativa vince la lotta dei “soci‑lavoratori”
 

I padroni nostrani per far circolare le merci, in mancanza di migliori infrastrutture, utilizzano principalmente il trasporto su gomma. Questo è costituito da una miriade di padroncini e cooperative, costretti a lavorare in condizioni disumane con orari massacranti e salari al limite della sopravvivenza. Tra i corrieri più importanti nel settore del piccolo collettame troviamo la TNT.

Riproduciamo qui uno stralcio di informativa trovata sul sito della Associazione difesa lavoratori invisibili, (ADL) che polemizza con la CGIL sull’atteggiamento che ha tenuto nei confronti dei lavoratori in lotta.

«Verso il mese di maggio del 2007, alcuni soci-lavoratori della FastCoop-TNT di Limena si rivolgevano all’ADL per avere un appoggio materiale per iniziare un percorso di lotta, per farla finita con una situazione divenuta insostenibile. Si iscrivevano al nostro sindacato circa 70 lavoratori su una novantina presenti tra i tre turni di lavoro. Iniziava così un percorso di lotta che si sostanziava in una serie di richieste assolutamente di buon senso, quali la formulazione di una busta paga regolare su base oraria, in modo da poterla leggere, l’istituzione di un “buono pasto”, il pagamento degli scatti di anzianità mai pagati prima, una forma di integrazione per la malattia, la creazione di uno spazio per le pause, visto che quello che c’era era uno spazio indegno per ospitare persone. Su questi punti, poiché la risposta data dalla controparte era complessivamente negativa, partiva una lotta durissima che portava al blocco per alcuni giorni del magazzino di Limena. Cosa avete fatto, in quel contesto, voi della CGIL? Siete venuti a portare la vostra solidarietà? Avete convinto i vostri due o quattro iscritti a partecipare alla lotta per la conquista di qualche piccolo diritto? Nulla di tutto ciò. Avete mandato dei vostri militanti o funzionari, mentre i lavoratori erano là che bloccavano i cancelli 24 ore su 24, a cercare di convincerli che quella lotta era sbagliata che era meglio se smettevano, altrimenti avrebbero rischiato di perdere tutto. SIC!!!»

Comportamento che è quello abituale per un sindacato, la CGIL, da qualche decennio non più votato alla difesa degli interessi dei lavoratori.

Ma veniamo all’attualità. Venerdì 25 gennaio i lavoratori della Fast Coop Gesconet di Limena, in provincia di Padova, che iniziavano il lavoro con il turno di pomeriggio, senza alcun preavviso si sono trovati la sorpresa del magazzino della TNT totalmente svuotato e chiuso. Nel chiedere spiegazioni ai responsabili dell’azienda, veniva loro consegnata una lettera nella quale si dichiarava la cessazione dell’appalto da parte di Gesconet con TNT, a partire dal 28 gennaio, e che il Consorzio avrebbe valutato l’eventuale opportunità di offrire un altro posto di lavoro.

I “soci lavoratori”, in maggioranza immigrati, organizzati dall’ADL Cobas hanno intrapreso iniziative di lotta con picchetti che si sono estesi anche alle filiali di Vicenza, Verona e Treviso. In quest’ultimo deposito nella giornata di venerdì 1 febbraio e lunedì 4 febbraio hanno dato vita ad un genuino gesto di solidarietà bloccando l’ingresso della TNT impedendo ai camion di caricare e scaricare le merci.

Il 6 febbraio si è tenuto l’incontro fra l’ADL Cobas e i responsabili di TNT, alla presenza del consorzio uscente e di quello entrante nella gestione del magazzino di Limena, oltre che del Prefetto e dell’Assessore al Lavoro della Provincia di Padova con la firma di un accordo tra le parti.

I punti salienti dell’accordo sono:
1) L’iscrizione alle liste di mobilità per tutti i soci lavoratori;
2) Per 60 soci lavoratori ci sarà l’assunzione nella cooperativa entrante “Corso”;
3) Dei restanti 34 soci lavoratori, una buona parte verrà assorbita nei Comuni della cinta urbana di Padova, mentre una piccola parte verrà distribuita tra Venezia, Treviso e Vicenza.

Ai lavoratori che non accettassero le proposte di lavoro o di trasferirsi in altra provincia sarà offerta una somma netta di 4.000,00 euro. Inoltre, per compensare il periodo di mancato lavoro, ed il disagio subito, FastCoop pagherà ad ogni lavoratore un importo a partire da euro 850 netti, incrementati in base ai famigliari a carico.

Il capitale, stretto nella morsa dell’inesauribile fame di plusvalore, necessita, come sappiamo, di erodere al massimo le condizioni di vita e salariali del proletariato.

Questa vertenza dimostra che l’unione, la solidarietà e la determinazione dei lavoratori possono talvolta costringere i padroni, per chiudere le vertenze in modo veloce, a cedere alle richieste dei lavoratori.
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Emigrano anche gli operai italiani
 

La crisi che attanaglia il Mezzogiorno “post-industrializzato” ha prodotto la ripresa dell’emigrazione verso il Nord del Paese, ed anche all’estero.

Per esempio nella provincia di Taranto, che a differenza di altre nel meridione vanta la presenza nel suo territorio di grandi industrie, studi demografici hanno descritto come negli ultimi 15 anni siano emigrati in 150.000. Principale mèta di destinazione pare essere l’Emilia Romagna. Il tasso di disoccupazione giovanile (15-24enni) nel 2005 era del 32,3%.

La provincia ionica aveva già conosciuto una forte emigrazione negli anni a cavallo tra il 1950 e il 1970, essenzialmente rurale. Ma nel ventennio successivo l’industrializzazione massiccia aveva interrotto il fenomeno, anzi attirando dalle province limitrofe flussi migratori: erano gli anni dell’Italsider dei “metal-mezzadri”, quando là dentro le tute blu erano in 30.000.

Le statistiche demografiche individuano che il fenomeno dell’emigrazione sia ripreso a partire dagli anni ‘90 per continuare tutt’oggi. La città capoluogo oggi conta meno di 200.000 abitanti, con continua perdita anno per anno di residenti, essenzialmente giovani e ben scolarizzati.

Sebbene negli ultimi anni al grande centro siderurgico ci sia stato il ricambio generazionale e si siano insediati grandi centri commerciali che impiegano centinaia di giovani, un call-center con 1.500, il Terminal Container che occupa circa 600 addetti, la Alenia in Grottaglie altre centinaia, i nuovi posti di lavoro creati non sono sufficienti a placare la fame di lavoro del giovane proletariato locale. In questa situazione il clientelismo e la logica delle parentele familiari, politiche e affaristiche condizionano molte assunzioni.

I centri del grande capitale che si sono insediati sul territorio hanno determinato la rovina di migliaia di piccole imprese, ben 18.160 nell’ultimo decennio, e di queste, 1.345 nel settore immobiliare e informatico, quelli che una certa propaganda vorrebbe individuare come un volano dell’economia terziaria. Molte di queste piccole società erano state aperte grazie all’investimento del Tfr da parte del genitore, operaio pensionato, in favore del figlio disoccupato.

Con il dissesto economico del Comune di Taranto, poi, molti servizi in appalto sono stati bloccati e l’espulsione di forza lavoro porterà sicuramente a nuovi esodi.

Questo scenario di pauperizzazione determina la conseguenza del continuo ricatto occupazionale per i pochi fortunati che si riescono ad impiegare senza dover affrontare la lacerazione dell’emigrazione, ingaggiati con forme contrattuali precarie e con salari decisamente bassi.

Si conferma la necessità di una ricomposizione della classe operaia, sul piano organizzativo sindacale, di questa nuova generazione di proletari.
 
 
 
 
 
 
 
 


Ancora sullo sciopero degli operai di Mahalla, in Egitto

Nell’articolo apparso sul precedente numero del giornale cercavamo di mettere in evidenza che la vittoria dello sciopero degli operai del delta del Nilo non rappresentava tanto un fatto positivo in sé, ma soprattutto nelle sue ripercussioni sul movimento operaio egiziano, che ne avrebbe potuto ricevere una spinta verso nuove lotte e soprattutto verso la costituzione di una organizzazione stabile per la sua difesa economica, su basi di classe.

Apprendiamo dal “Manifesto” del 19 febbraio che oltre 10.000 operai della Textile Company di Mahalla sono scesi in strada di nuovo «per manifestare contro la crescita senza controllo dei prezzi e per chiedere l’aumento dei salari (...) Gli operai hanno chiesto che la Textile Company rispetti l’impegno di aumentare i salari del 40% preso dopo gli scioperi dello scorso autunno, quando al grido di “Non siamo schiavi del Fondo Monetario Internazionale” avevano costretto alla resa il consiglio di amministrazione e lo stesso sindacato statale, di fatto schierato con il Cda». Pare che la polizia abbia caricato il corteo dei lavoratori che si stava dirigendo verso la città.

Questa ripresa dello sciopero, a così breve distanza dall’ultimo movimento, dimostra che la lotta ha lasciato il segno, che ha fatto emergere almeno un embrione di organismo sindacale che vuole continuare a battersi per migliorare le miserabili condizioni di vita di quel proletariato. Ci auguriamo ora che la lotta e l’organizzazione si estendano ancora, coinvolgendo le altre categorie operaie.