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PAGINA 1
La Fiat è
una prigione
E la Fiom è il carceriere
Il nostro partito dalla seconda metà degli anni ’70 considera la Cgil un sindacato irreversibilmente perso alla causa dei lavoratori, impermeabile ad un indirizzo di lotta classista, e da allora dà indicazione ai lavoratori di uscirne per ricostruire un vero sindacato di classe. Le vicende attuali della lotta di classe in Italia vanno inserite in questo quadro.
La Cgil e la Fiom si trovano in difficoltà di fronte all’accelerazione della Fiat nel processo di attacco alle condizioni dei lavoratori. Ma ciò che sono e possono fare oggi è il risultato di ciò che sono stati e hanno fatto prima di arrivare a questo punto. Da 60 anni hanno cresciuto e formato tutta la loro struttura organizzativa per convincere gli iscritti e i lavoratori in genere della ineluttabile necessità della quadratura del cerchio fra interessi degli operai ed interessi dell’azienda, perché il bene dei lavoratori sarebbe condizionato dalla buona salute dell’azienda.
La Fiom non può oggi cambiare i binari su cui da sei decenni corre la sua politica per fronteggiare l’attacco della Fiat, separando le sue responsabilità da quelle dell’azienda e impostando una lotta aperta e basata sui soli rapporti di forza. Infatti la dirigenza Fiom nemmeno manifesta l’intenzione di scendere sul piano dello scontro, come ci si aspetterebbe da un vero sindacato di classe, ma continua con la litania opportunista e collaborativa di sempre.
Per Epifani «l’obiettivo principale della Cgil e della Fiom è di mantenere e di rafforzare l’industria dell’auto in Italia, di consentire alla Fiat di realizzare in sicurezza i suoi investimenti, di rendere più efficienti le fabbriche, di garantire i posti di lavoro» (L’Unità, 29 luglio). Questo non significa altro che continuare a sottomettere i lavoratori al gioco della competitività imposto dalla borghesia fra lavoratori dei diversi paesi. È certo infatti che per “mantenere e rafforzare l’industria dell’auto in Italia”, per “realizzare in sicurezza i suoi investimenti “, per “rendere più efficienti le fabbriche”, come per “garantire i posti di lavoro” c’è un solo modo: avvicinare i salari e gli orari degli operai degli stabilimenti in Italia a quelli degli stabilimenti in Polonia e in Serbia!
L’intesa col Marchionne è totale, e la loro direzione di marcia è esattamente opposta a quella classista dell’unità dei lavoratori per spezzare la concorrenza imposta dal capitale, che poi altro non è che la funzione originaria per cui nacque il movimento sindacale.
E non è solo Epifani, che rappresenta la maggioranza Cgil, che sarebbe “di destra”, a difendere queste posizioni. Per il “sinistro” Cremaschi «la chiusura di Mirafiori è un’aggressione senza precedenti a tutto il sistema industriale italiano», e la condotta di Marchionne in generale «una catastrofe per il lavoro e per l’industria del Paese». Ma di nuovo, difendere “il sistema industriale italiano” si può fare solo a spese degli operai.
Questo significa porre ancora una volta i lavoratori alla mercè degli interessi dell’industria nazionale, che – si dimostri il contrario – altro non è che il capitale nazionale, cioè la forza sociale che succhia il sangue e la vita dei lavoratori.
Il tradimento politico e sindacale prosegue per il suo fine: portare i lavoratori al completo sacrificio sull’altare delle esigenze dell’economia capitalistica. Gli operai possono rivendicare qualcosa solo e fintanto che le loro azioni non danneggino il preteso bene comune: il capitale!
La dirigenza Fiom, per difendere il suo ruolo di mezzana, si appella al padrone perché cessi dal suo comportamento “intransigente” e torni all’usato registro di “relazioni sindacali”. «La Fiat riapra la trattativa – chiede sul palco il segretario generale Fiom Maurizio Landini – Siamo disposti a una turnistica massacrante e a una redistribuzione delle pause che aumenti la produzione. Ma sia tolto dal tavolo ciò che mette in discussione i diritti civili dei lavoratori, come l’ eliminazione del diritto di sciopero e la malattia» (La Repubblica, 2 luglio).
Di fronte alla Fiat che mette in competizione i lavoratori italiani con quelli polacchi e serbi, ciò che sarebbe stato necessario fare in tutti questi anni, che sarebbe il dovere di un vero sindacato di classe, è la costruzione di una unità organizzativa con quei lavoratori, per arrivare ad uno sciopero contemporaneo contro i peggioramenti ovunque minacciati e per opporsi alla concorrenza fra lavoratori. Di fronte agli operai della Fiat di Tychy in Polonia che nel 2007 rivendicavano di alzare il minimo salariale in busta paga da 1.435 a 2.800 zloty (da 380 a 740 euro), l’indirizzo sindacale di classe sarebbe stato quello di scioperare anche in Italia a sostegno di quella lotta.
Nulla di questo è stato fatto, e nemmeno detto. La Fiom ha avallato perfino la competizione fra gli stessi stabilimenti italiani, fra Melfi, Termini Imerese, Mirafiori, ecc, a partire dalla firma di un patto territoriale in deroga al contratto nazionale per lo stabilimento di Melfi.
Oggi l’azienda Fiat è in crisi, con seria minaccia di fallimento e di definitiva chiusura di molti dei suoi stabilimenti, nonostante le finte e le fanfaronate del padrone. In questa situazione in particolare chiudere l’orizzonte sindacale all’interno dell’azienda significa necessariamente abbandonare chi ci lavora a ogni tipo di facile, e inevitabile, ricatto. La sola difesa possibile non è in quanto “dipendenti” di una impresa, che sta affondando, ma in quanto classe operaia, opposta a tutta quanta la classe dei padroni. Nella crisi è in fabbrica che i lavoratori sono più deboli.
L’ossigeno per la lotta sociale è fuori dalle fabbriche. La ricchezza
reale non è nelle imprese in crisi di bilancio ma nella società, nelle
banche, nel tesoro degli Stati ove è riposta la enorme ricchezza accumulata
dalla classe borghese. Ed è da tutta la borghesia e dal suo Stato che
la classe può e deve pretendere, con la lotta e con l’organizzazione,
il necessario per la propria vita.
La vulgata dominante considera la classe operaia e le sue lotte una presenza ormai estinta nel divenire sociale, e smentite le dottrine scientifiche su di essa fondate. Il marxismo – proprio quando ogni giorno di più si dimostra l’unica teoria che fin dalla metà del diciannovesimo secolo riuscì a descrivere il divenire del capitalismo nel ventunesimo e la sua crisi – è declassato a vinta ideologia emanata da, e propria di, un passato nel quale la società non era ancora sufficientemente progredita per andare oltre una visione manichea della realtà. Un arnese da èra pre-cristiana, appunto.
Ma, in questa fase involutiva che qualcuno ha voluto chiamare del dopo Cristo, i capitalisti, dai grandissimi ai piccolissimi e di ogni taglia e paese, con le loro aziende che stanno imbarcando acqua e minacciano seriamente di affondare nei fallimenti, gettano a mare anche tutte le loro precedenti dottrine difensive e utili menzogne, come quella sulla “dignità del lavoro” e dei “limiti sociali alla iniziativa privata”, di origine prima socialdemocratica, poi fascista-nazista-staliniana, infine postfascista. Siamo ad un “si salvi chi può”, ad un “rompete le righe”, ideale e materiale, davanti ai marosi della crisi che sgombrano via ogni detrito e lasciano a nudo solo il duro scoglio del sottostante rapporto di produzione: il tasso del profitto.
Come la rivoluzione industriale avrebbe emancipato l’umanità dall’oscurantismo religioso, la società post-industriale l’avrebbe liberata dalla ideologia. Questo il consolatorio pensiero dominante, fatto di premesse e conclusioni false. E fallimentari: il mondo borghese di fatto ammette, vestendosi come per una moda di alcune parole delle vecchie scuole del pragmatismo, dello scetticismo e del cinismo, di aver rinunciato a comprendere e a dominare la realtà. L’ossessivo abbandono delle teorie del giorno innanzi, il continuo loro aggiornamento con l’eclettico opporsi, mescolarsi e riproporsi, esprimono solo l’inadeguatezza del pensiero borghese ad ogni minima previsione dello sviluppo della sua società.
La borghesia può arrivare a cogliere solo aspetti parziali e contingenti del suo mondo, ma sfuggendogli il nucleo essenziale, ne stravolge il significato collocandoli al di fuori del loro quadro storico, isolandoli ed esagerandone il peso e gli effetti.
La teoria che possa esistere una società capitalistica post-industriale, non fondata sulla produzione di beni materiali, è il paradigma di questo vero e proprio delirio nel quale è ormai precipitata la classe borghese, del tutto assimilabile alle mistiche e alle superstizioni che essa irrideva nella decadenza delle classi che l’hanno preceduta e che con la sua Ragione pretendeva combattere.
Questa “teoria” si basa sulla assolutizzazione dei cosiddetti processi di de-industrializzazione e de-localizzazione. Ma nessuno dei due neologismi significa de-capitalizzazione. Il loro reale significato e portata è ascrivibile senza difficoltà allo sviluppo complessivo del capitalismo, fin dalle sue ormai lontane origini, come nella splendida lucidissima e definitiva descrizione, e condanna, che il marxismo ne ha dato già dal Manifesto del 1848. Nel marxismo quelli sono fenomeni che dal capitalismo non escono, lo confermano e riaffermano né in niente lo negano.
Sono inoltre relativi, ed anche, localmente, invertibili.
Relativi nello spazio perché, mentre si “de-industrializza” in Occidente, si industrializza, e a ritmi forsennati, in molte e più vaste regioni nel resto del mondo. Il risultato complessivo è così esattamente opposto a quello preteso dalla – questa sì! – ideologia della post-industrializzazione: abbiamo davanti a noi un mondo con più fabbriche, più salariati e più operai manuali, sia in termini assoluti sia relativi, rispetto al totale della popolazione mondiale.
Relativo ad un tempo: quello degli ultimi pochi decenni, segnati da un notevole divario fra i salari degli operai in Occidente e quelli del resto del mondo, tale da rendere conveniente la de-localizzazione degli stabilimenti. Ma anche questa differenza non è assoluta e riposa su condizioni materiali in continuo mutamento. Mentre una robusta lotta operaia dei paesi a giovane capitalismo già costringe le borghesie locali a concedere aumenti dei salari, nei paesi a vecchio capitalismo la lotta di classe, oggi qui di iniziativa borghese, riesce ad abbassarli. È un processo che negli ultimi mesi è stato reso evidente dai forti scioperi, spesso vittoriosi, in Cina, Vietnam, Cambogia, Bangladesh, Pakistan, Sud Africa, Panama...
Il processo di progressiva riduzione delle differenze salariali e di condizioni di lavoro nelle diverse zone economiche è destinato a durare. La forza organizzata degli operai dei Paesi emergenti infatti, seguendo un processo materiale già avvenuto nei Paesi di più antica industrializzazione, non potrà che accrescersi, mentre nell’Occidente in fase di recessione, l’inasprirsi dell’attacco padronale alle condizioni dei lavoratori, come emblematicamente dimostra la recente vicenda Fiat, è destinato ad approfondirsi vista la difficoltà che dimostra la classe operaia a riprendersi dalla improvvisa perdita delle sue illusioni di progresso e di sicurezza sociale, a reagire e a trovare il suo proprio orientamento politico.
Domani quindi i flussi della de-localizzazione dovranno modificarsi ancora e non è escluso che tornino ad invertirsi.
La condizione attuale di debolezza del proletariato mondiale, addebitata meccanicamente alla cosiddetta globalizzazione, quando invece è il prodotto di un lungo ciclo storico di controrivoluzione e di temporaneo soccombere della prospettiva politica comunista nella guerra mondiale fra le classi, non è dunque un dato assoluto e incontrovertibile, ma destinato a mutare a causa delle stesse leggi capitalistiche che l’hanno determinata.
Questo processo, che è per così dire spontaneo, sarà di molto influenzato dalla capacità della classe operaia di attrezzarsi efficacemente per la lotta, determinandone velocità e profondità. Quanto prima i lavoratori sapranno dotarsi di una organizzazione di lotta che li unisca al di sopra delle aziende, delle categorie e delle frontiere nazionali, tanto più la condizione di attuale debolezza della classe operaia sarà capovolta nella posizione di forza di una struttura della classe che affascierà tendenzialmente i lavoratori del mondo intero. Questo processo è inevitabile e l’attuale crisi di sovrapproduzione, nei suoi colpi e contraccolpi, lo renderà sempre più necessario.
Il partito comunista mondiale non si nasconde le difficoltà che si
frappongono e si frapporranno alla effettiva unificazione della classe
lavoratrice. Considera sua funzione vitale, e di grande aiuto alla riorganizzazione
proletaria il suo intervento nelle lotte del proletariato, per indirizzarlo
sia nella difesa immediata sia nel riappropriarsi dello storico programma
comunista, l’unico che può permettere di trasformare gli sparsi reparti
operai in una armata in marcia per la sua emancipazione.
L’attacco dell’Esercito israeliano contro la flottiglia noleggiata da pacifisti di varie nazionalità, che intendevano forzare il blocco della striscia di Gaza e portare beni di conforto per la popolazione sottoposta all’embargo, è un nuovo atto di guerra in una regione che da un secolo non ha pace.
Mentre il linguaggio diplomatico degli Stati affonda nella fanghiglia dei dibattiti nel sontuoso palazzo dell’ONU, dimostrando tutta la sua inconcludenza e ipocrisia, la guerra, col suo carico di sangue e di sofferenze, si impone ancora una volta, unica soluzione al precipitare della crisi economica che oggi strangola la società dei borghesi e del capitale mondiale.
Le continue provocazioni del borghese Stato d’Israele nei confronti dei vicini Stati e popolazioni non sono che uno strumento della politica imperiale del capitale mondiale e in particolare statunitense, interessato ad un focolaio di tensione sempre acceso nella cruciale regione e a mantenerla politicamente ed economicamente divisa.
Israele, come e forse più degli altri Stati industrializzati, sta inoltre attraversando una crisi profonda al suo interno, dal punto di vista economico ma anche politico e sociale. Già l’attacco al Libano e l’offensiva “piombo fuso” contro Gaza avevano mostrato come per allentare la sua situazione di crisi il governo israeliano non veda alternative alla guerra.
Tutte queste guerre hanno avuto come prima vittima la popolazione civile palestinese, e in particolare il proletariato. Ma vittime ne sono anche i proletari ebrei, costretti nell’esercito a comportarsi come aguzzini e, nello stesso tempo, ad accettare ogni sacrificio imposto in nome della “difesa nazionale”, in realtà per difendere gli interessi strategici della propria borghesia.
Le continue guerre non hanno quindi portato né alla sicurezza né alla pace promessi ormai a tre generazioni, al contrario rischiano di coinvolgere l’intera regione in un nuovo conflitto, che avrebbe conseguenze disastrose per l’intero proletariato, senza distinzione di religione, razza, nazionalità.
Quel che si teme è che il proletariato d’Israele, come quello di tutti i paesi, traviato da decenni di propaganda guerrafondaia da parte della socialdemocrazia come dei partiti apertamente reazionari, cessi di offrire la sua solidarietà alle classi dominanti, sempre più corrotte, interessate e ossessionate soltanto dal mantenimento del loro potere e dei loro privilegi.
C’è un’altra strada, opposta a quella percorsa sino ad ora, sulla quale la classe lavoratrice di tutti i paesi e anche di Israele può avviarsi: quella della solidarietà e della lotta di classe. In Medioriente significa l’unione e la collaborazione del proletariato israeliano con quello di Palestina e dell’intera regione, lottando contro la propria borghesia per la difesa dei suoi interessi di classe, immediati e futuri. Per questo occorre che il proletariato ritrovi la propria indipendenza politica, il proprio partito, l’indirizzo del comunismo internazionalista e rivoluzionario.
Dove hanno condotto le prospettive borghesi, quelle che si dicevano “più realiste”? È per ritrovarsi nella galera di Gaza e della Cisgiordania, con salari da fame e nessuna prospettiva di vita decente, che migliaia di giovani proletari palestinesi hanno dato la loro fiducia ai partiti nazionalisti? Cosa potrà offrire il micro-nazionalismo palestinese ai lavoratori in una situazione di crisi che sta mettendo alla fame milioni di disoccupati anche nei grandi Stati industrializzati?
Contro la guerra tra Stati guerra tra le classi per l’emancipazione
proletaria, per la vera pace della società senza classi, per il Comunismo!
Questa prospettiva, che appare oggi così lontana da sembrare un’inattuabile
utopia, è l’unica prospettiva realistica per l’emancipazione proletaria.
In Grecia i lavoratori stanno cercando di reagire all’attacco alle loro condizioni, deciso in sintonia dal governo e dall’Unione Europea per sbloccare un pacchetto di nuovi prestiti per permettere allo Stato di continuare a pagare i debiti.
Grande è la rabbia dei lavoratori, che vedono colpiti i salari, le loro condizioni, le pensioni. Le manifestazioni hanno avuto una partecipazione più numerosa del solito con cortei nelle principali città, ad Atene, a Salonicco, a Patrasso e in altre.
Nei primi sette mesi dell’anno sono stati indetti ben sei scioperi generali. Il punto più alto del movimento si è avuto forse con lo sciopero generale del 5 maggio, il terzo, che ha visto scendere in piazza i lavoratori del settore pubblico, per adesso i più colpiti insieme ai pensionati, e del settore privato.
Durante la numerosa manifestazione del 5 maggio ad Atene, una grande folla si era diretta verso il Parlamento cercando di entrare all’interno e solo l’intervento di migliaia di poliziotti lo ha impedito. Durante i tumulti che sono seguiti, una bomba molotov scagliata contro una filiale della Marfin Bank, ha provocato un incendio e tre lavoratori che vi erano stati chiusi dentro dalla direzione, sono morti.
Questo episodio, forse frutto di una provocazione o di un atto irresponsabile, ha permesso alla propaganda di regime di intimorire una parte dei lavoratori e le manifestazioni seguenti sono state meno numerose e combattive.
La borghesia greca adottando misure lacrime e sangue, oggi contro i dipendenti del pubblico impiego e domani contro la generalità dei lavoratori, come ha già fatto da decenni in Italia e in tutti i paesi di Europa, pone le basi materiali per l’unione dell’intero proletariato nella lotta per la difesa delle sue condizioni.
Ma i due sindacati, quello del lavoro privato (Gsee) e quello del lavoro pubblico (Adedy), come la frazione sindacale Pame, apparentemente più radicale ma legata a doppio filo al Partito Comunista demo-stalinista, il Kke, cercano di evitare che il movimento si trasformi in scontro tra proletariato e padronato. Mai accusano della crisi il regime del capitale, ma i “plutocrati” dell’Europa, la Germania, le banche, il governo greco, che sarebbe incapace di difendere l’onore nazionale e l’interesse del “popolo”.
Proprio per questo, il proletariato greco non può fondare le sue speranze in una estemporanea, quanto dannosa in questo momento, guerriglia di strada ma ha bisogno prima di tutto di dedicare le sue energie a ricostituire la forza della sua unità in una organizzazione sindacale che, sulla base di un programma di chiara impostazione di classe, lavori per l’unione dei lavoratori, del pubblico con quelli del privato, che unisca indigeni ed immigrati, che si dia una struttura anche territoriale per inquadrare i giovani proletari che non hanno un lavoro stabile o al nero.
L’unità per essere effettiva e duratura deve avere nella dirigenza del movimento chiarezza di obbiettivi, sia sul piano politico sia sindacale. Le rivendicazioni economiche sono quelle comuni a tutti i lavoratori: difesa del salario; lotta contro l’aumento dello sfruttamento; condizioni di lavoro e salario tendenzialmente uguali per tutti, uomini e donne, greci e immigrati, giovani e anziani; salario per i disoccupati; difesa delle pensioni e dell’assistenza sanitaria.
Gli strumenti per imporre queste rivendicazioni sono quelli tradizionali della nostra classe, che mostrano al nemico borghese la forza del proletariato: organizzazione, manifestazioni, scioperi sempre più generali ed estesi nel tempo, fuori da ogni corporativismo, ma anche da ogni compatibilità con l’economia nazionale.
In questo cammino verso il rovesciamento rivoluzionario del regime capitalistico
a livello internazionale, le giovani avanguardie proletarie di Grecia,
se non vorranno cadere in errori già costati cari al proletariato nei
decenni passati, (e la Grecia più di altri paesi ne è stata tragico teatro)
dovranno respingere ogni tentazione di tipo anarcoide, spontaneista, operaista,
stalinista, e ricollegarsi alla tradizione e al programma chiaro e invariante
del comunismo rivoluzionario di sinistra, al Partito Comunista Internazionale.
The Party’s General Meeting in Cortona 29-30 maggio [RG107] |
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Secondo i precedenti accordi nel fine settimana del 29 e 30 maggio abbiamo convocato a Cortona il partito per la periodica riunione di lavoro. Presente una rappresentanza di tutti i nostri gruppi, salvo assenze per forza maggiore.
I lavori si sono svolti in una comoda sala affittata al pubblico dall’amministrazione comunale ed i compagni sono stati alloggiati in alcuni alberghi non distanti.
Secondo il nostro metodo abbiamo dedicato la seduta del sabato mattina alla verifica del lavoro fatto, ai programmi di quello futuro e allo scambio dei materiali necessari. È stato apprezzato da tutti l’impegno notevole che il partito prodiga, in questi tempi di crisi incipiente, nello studio dei problemi e delle lotte operaie, addivenendo ad un suo giudizio quanto più completo possibile, riuscendo a formulare il giusto indirizzo comunista e a presentarlo alla classe.
Abbiamo ascoltato quindi, in tranquillità e attenzione, l’esposizione
delle relazioni, risultato di un lavoro silenzioso e non appariscente e
che non ricerca alcuna “originalità”, se non quella di ben rappresentare,
in questi tempi bui, la corretta e incorrotta impostazione marxista di
sinistra.
La Questione militare - La rivoluzione americana
Il capitolo del rapporto ha riferito dei fatti militari dalla sconfitta, e conseguente perdita, di New York alla vittoria di Saratoga. La riproduzione del rapporto su Comunismo sarà corredata di una adeguata cartografia.
Qui per la prima volta l’esercito americano raggiunge la dimensione di un vero esercito ed ottiene il suo primo grande successo non più con attacchi di guerriglia ma con una battaglia campale. Questo evento ha un grande significato morale per gli americani, dà un nuovo indirizzo al conflitto e soprattutto convince la Francia ad impegnarsi con gli americani contro la Gran Bretagna, dando uno sviluppo quantitativo e qualitativo a tutta la guerra.
Questa la successione dei fatti.
Dopo la perdita di New York e la ritirata in Pennsylvania, Giorgio Washington deve affrontare problemi di carattere organizzativo per le truppe rimaste dopo le sconfitte, le diserzioni e i non rinnovi della ferma: molti consideravano ormai perduta la causa dell’indipendenza, soprattutto dopo l’arrivo delle forze assiane rivelatesi più forti e organizzate di quelle inglesi. Per loro fortuna ben 9 mila dei 38 mila assiani disertarono e in buona parte si unirono agli americani con l’intento di costruirsi nel nuovo continente una vita migliore di quella da mercenari nell’esercito tedesco. Il comandante americano aveva anche problemi politici nel Congresso, che l’accusava di incapacità nonostante alcuni piccoli successi, l’oculata gestione delle poche e sgangherate sue formazioni e la carenza di armamenti che gli imponevano una tattica basata su scaramucce di modeste dimensioni, sull’attacco a sorpresa con azioni di guerriglia mai impegnandosi in scontri campali aperti, del tutto ingestibili dagli americani.
Un esempio fu la battaglia di Trenton avvenuta durante il giorno di Natale del 1777. Per quell’inverno le forze inglesi erano accampate prevalentemente a New York mentre due distaccamenti composti da tedeschi si trovavano su due avamposti a Trenton e Bordentown sul fiume Delawere, vicino alle postazioni americane. Il piano elaborato da Washington prevedeva di attaccare la postazione di Trenton con tre colonne dopo l’attraversamento del fiume a nord mentre una quarta si sarebbe insinuata fra le due posizione avversarie allo scopo di impedire l’arrivo e il congiungimento di rinforzi. Contava anche sulle pessime condizioni atmosferiche, sui pranzi e le bevute per i festeggiamenti del Natale ma soprattutto sull’opera di una spia che dette agli assiani informazioni errate sulle intenzioni americane. La tempesta di neve e la superficie ghiacciata del fiume permise solo il passaggio di metà degli americani che però riuscirono con un breve combattimento ad espugnare la posizione assiana, catturando ancora nel sonno buona parte della guarnigione e facendo un consistente bottino di guerra. Fu un grande risultato ottenuto praticamente senza perdite.
Washington si ritirò quindi attendendo il contrattacco inglese che non mancò. A tappe forzate gli inglesi giunsero nei pressi di Princeton. Vista la sfavorevole posizione delle truppe americane, il comandante Cornwallis decise di concedere alle sue truppe un giorno di riposo per recuperare le forze e preparare l’attacco. Prevedendo ciò, Washington ordinò di accendere tutti i fuochi e le lanterne degli accampamenti e di mettersi in marcia nottetempo: all’alba si scontrarono con tre reggimenti inglesi mandati di rinforzo che, colti di sorpresa, si dispersero disordinatamente nelle campagne.
Washington decise di non inseguirli ma puntò direttamente su Morristown ben fortificata e meglio difendibile. In quella cittadina, in posizione strategica, avrebbe stabilito il suo quartier generale e lì approntato subito le necessarie opere.
Nel frattempo Cornwallis andava all’assalto delle posizioni americane ormai abbandonate. Saputo dello scontro dei suoi rinforzi con gli americani ritornò verso Princeton portandosi dietro tutti i carri che rallentarono la marcia e perse altro tempo a riorganizzare i reggimenti sbandati lasciando a Washington ventiquattro ore di vantaggio per ritirsi al sicuro a Morristown.
A Londra il War Office decise per un’azione più risoluta con il cambio del comandante in capo e un potenziamento degli effettivi. Il piano prevedeva l’attacco contemporaneo di tre colonne: una prima, diretta da Burgoyne, doveva scendere verso sud dal Canada lungo la valle dell’Hudson per riprendere il controllo di tutto il New England e sbaragliare l’esercito americano, una seconda dal lago Ontario verso est si doveva congiungere con la prima, mentre la terza da New York risalendo l’Hudson avrebbe completato l’accerchiamento delle forze americane. Dopo una prima fase di successi inglesi questo piano fallì per un’iniziativa personale di Howe, comandante di New York: invece di eseguire il piano assegnato lasciò un minima parte delle sue forze nella città e con la maggiore e la flotta si diresse a sud verso Filadelfia che conquistò infliggendo sensibili perdite agli americani. Anche il successivo contrattacco americano presso Germantown si risolse in una sconfitta con forti perdite per il fronte sud di Washington.
Ma a nord le sorti furono opposte: la colonna inglese più consistente che scendeva dal Canada si trovò impantanata nelle wilderness dove avanzava lentamente anche per l’abbandono delle tribù indiane, che ben conoscevano quegli acquitrini, e dove fu continuamente attaccata dalla guerriglia americana; la colonna inglese poi, anche per diserzioni e malattie, si ridusse di un terzo. Burgoyne nonostante ciò proseguì caparbiamente la sua marcia verso sud non sapendo però che la colonna del lago Ontario dopo alcuni successi era stata costretta a rientrare nella base di Montreal e che da sud nessuno sarebbe venuto a completare il piano prestabilito. Londra, saputo della presa di Filadelfia, ordinò alle forze di New York di risalire l’Hudson per appoggiare la colonna principale, ma dopo solo un paio di miglia queste rientrarono nella città. Burgoyne, rimasto solo, comunque superò Saratoga e diresse verso le posizioni americane che in un primo momento sconfisse senza però infliggere il necessario colpo decisivo.
Ci furono piccoli scontri mentre giungevano rinforzi che portarono gli
effettivi americani per la prima volta alla ragguardevole cifra di 16 mila
uomini. Mentre gli inglesi per proteggersi cercavano di raggiungere Saratoga
furono attaccati dagli americani con una ben organizzata manovra da vera
battaglia campale e non più con attacchi da guerriglia, frutto degli sforzi
organizzativi degli esperti militari prussiani, francesi e polacchi giunti
in soccorso dall’Europa. Una dopo l’altra le posizioni inglesi caddero
finché, rimasti in 5 mila, si arresero. Questo fece cadere a Parigi gli
ultimi indugi circa un intervento della Francia nel conflitto che quindi
assunse un significato più ampio.
Come ad ogni riunione, abbiamo ascoltato l’aggiornamento sul decorso dell’economia mondiale, con esposizione di grafici e tabelle e loro commento.
In questa riunione è stato dapprima mostrato un confronto fra la depressione produttiva attuale e la precedente del 1975, con la sovrapposizione delle due curve della produzione industriale nei due periodi e per i maggiori capitalismi. Si osservava:
- Usa - L’anno precedente alla crisi, fino a tutto il 1973, aveva segnato forti incrementi, mentre il 2007 e la prima metà del 2008 una crescita media vicina allo zero. La recessione è circa della medesima profondità e, secondo gli ultimi dati disponibili, di una durata non inferiore.
- Germania - Andamento non dissimile nel pre-crisi fra il 1973 e il 2007, ma la caduta nel 2009 è molto più profonda di quella del 1972: -29% contro -13%.
- Giappone - L’industrialismo del paese, che nel 1973 era ancora lanciato a grande velocità, e nel 1975 precipita a -20%, stavolta passa da ritmi di crescita più maturi, intorno al 3%, ad un precipizio disastroso di -37%. Anche qui, poi, la discesa rallenta, ma discesa rimane.
- Francia - Confronto simile agli altri paesi. Stavolta la caduta è maggiore: -15% nel 1975, -21% nel 2009.
- Italia - Scese nel 1975 a -21%, l’anno scorso a -26% ma, come per tutti gli altri, la caduta rallenta ma prosegue.
- Russia - Il paese, che aveva una storia industriale con un decorso separato, in questa crisi dimostra invece un totale parallelismo col resto del mondo: entra in recessione nell’autunno del 2008, scende a un -17%, non recupera ancora i massimi precedenti.
- Cina - Le statistiche del paese sembrano aver appreso, e peggiorata, l’arte delle smargiassate vanto di quella che era la pianificazione staliniana. Per il 2009 riportano una crescita industriale del 16%, che non è credibile in un paese di non più giovanissimo capitalismo e ben lontano da eventi catastrofici. L’inverno 2008 e la primavera 2009 avrebbero solo segnato un rallentamento, senza recessione, il che può essere, temporaneamente essendosi colà spostate parte delle produzioni mancanti in occidente. Noi ci attendiamo le crisi peggiori dove il capitalismo è più giovane e vitale. Sarà lo stesso per la crisi sociale?
- India - Nemmeno l’India entra in recessione. Ci andò nel 1973 col -5%. Ma arriva allo zero. La ripresa poi c’è, ma con cifre più credibili di quelle della Cina, rispetto al quale paese però è molto meno dipendente dalle esportazioni.
Lo stesso andamento, che si potrebbe definire “la crisi continua”, mostrano le curve del commercio mondiale. La contrazione per tutti i paesi è drastica, dell’ordine del 30%, tranne che per la Russia che in valore dimezza le esportazioni per il calo del prezzo del petrolio. Dopo aver raggiunto un massimo di precipizio nell’estate dello scorso anno, la caduta percentuale annua rallenta, ma permane. Anche la Cina vede ridursi drasticamente le sue esportazioni, e continua, e di almeno un quarto.
L’ordine dei maggiori paesi esportatori ha visto, nel 2008, alla vigilia
della crisi, il sorpasso “storico” degli Stati Uniti da parte della
Cina, che si colloca al secondo posto dopo la Germania. Seguono nell’ordine
Giappone Francia Olanda Italia Gran Bretagna. Nuove grandi potenze emergenti
come il Brasile e l’India esportano invece ancora poco: il primo è al
23° posto e la seconda al 29°, ben dietro ad un piccolo paese come la
Svizzera.
Origini del Partito Comunista Cinese
Questo secondo capitolo del rapporto è iniziato con un inquadramento del particolare momento storico in Cina. Poi è stata descritta la presenza nel paese della Internazionale Comunista, dopo il 1919, e la impostazione, dal 1917, dei rapporti dello Stato Russo con il governo di Pechino, in mano ai Signori della Guerra, e con il governo di Canton (accordi con Sun Yat Sen).
Si passava quindi ad una disamina critica della politica della Internazionale nei confronti del Partito in Cina, fondata su documenti dell’epoca, in parte di nostro nuovo reperimento e traduzione.
La formazione del P.C.C., che avviene in stretta relazione ed influenza degli emissari dell’Internazionale, dà vita ad un partito giovane che necessariamente dispone di poca esperienza e di una formazione teorica più intuita che sistematizzata.
Ciononostante i comunisti cinesi rilevano subito la sottovalutazione dell’Internazionale del ruolo che il P.C.C. avrebbe potuto e dovuto svolgere nell’immediato futuro, a fronte dell’enorme sviluppo delle forze produttive e delle schiere proletarie. L’Internazionale infatti sopravvaluta il ruolo borghese rivoluzionario del Kuomintang, che già aveva dimostrato di tradire una conseguente rivoluzione democratica.
Enorme è il lavoro svolto dal minuscolo partito comunista di Cina, soprattutto nell’organizzazione sindacale, come delle donne e dei giovani.
Al Secondo Congresso del P.C.C., nel luglio 1922, vengono accettate e rigidamente applicate le norme e lo spirito del parlamentarismo rivoluzionario come stabilito dalle tesi del Secondo Congresso dell’I.C. Nel Manifesto del Secondo Congresso del P.C.C. si sostiene correttamente: «Il proletariato ha i suoi propri interessi di classe. Quando la rivoluzione democratica accade, il proletariato guadagnerà semplicemente alcune libertà e diritti, ma non otterrà la liberazione completa (...) Perciò il proletariato deve occuparsi della borghesia immediatamente, instaurando la “dittatura proletaria in alleanza con i contadini poveri”».
Si rilevava infine una resistenza del P.C.C. al peso ed alla ingerenza
dello Stato Russo in Cina, attuata anche tramite i rappresentanti dell’I.C.
Nella riunione di maggio si è sospesa l’esposizione ragionata dei capitoli della quinta Sezione del III Libro per presentare, in due distinte sessioni, una serie di indici, tabelle ed argomenti di finanza, in particolare elementi di teoria monetaria, perché la propaganda di tutti i governi del mondo maschera oggi in un modo ossessivo e continuo l’effettivo stato dello sviluppo della crisi capitalistica, in un turbine di notizie, smentite, dati ottimistici che paiono negare l’estrema gravità della situazione presente, con un continuo asfissiante mantra alla stabilizzazione del sistema finanziario ed alla ripresa che sarebbe “dietro l‘angolo”.
Troppe volte il nostro entusiasmo rivoluzionario, e le certezza della nostra scuola ci hanno fatto sperare prossima la caduta di questo infame mondo capitalista, con tutti i suoi miti, la sua follia, la sua disumanità.
Quanto sta scuotendo il mondo capitalistico, ipertrofico di merci e finanza come non mai dai tempi della grande crisi del ‘29, ci pare indicare in modo non equivoco l’esito da noi previsto per questa fase. Non dobbiamo però forzare i dati e quanto ci viene prospettato dalla stessa statistica borghese in senso necessariamente favorevole alla nostra visione del crollo, ma valutare con attenzione ciò che la critica dell’avversario ci mette a disposizione. Già la nostra scuola ha ottenuto una formidabile vittoria teorica, non fosse altro per il fatto che la crisi si è innescata e si va sviluppando proprio come da noi previsto e studiato. Pur se riuscisse il mondo borghese ad arginarla anche questa volta, possiamo vantare un altro colossale riscontro empirico del marxismo.
Questo lavoro su cui noi, modestissimi seguaci di una lunga tradizione di studio e di lotta, nel silenzio generale caparbiamente insistiamo, ha proprio questa finalità: verificare razionalmente la validità dei nostri teoremi storici ed economici alla luce dei fatti.
Per questo non ci sottraiamo ad affrontare lo studio e l’analisi della loro crisi anche con gli strumenti e gli assunti dei nostri avversari storici, per addivenire comunque ai nostri stessi risultati e alla doppia smentita dei loro errori.
Nella prima sessione dell’esposizione, al sabato, l’intervento si è aperto con la riproposizione di un brano potente e fondamentale, tratto dal Capitolo 30 del III libro, “Capitale monetario e Capitale effettivo”, in cui viene chiarito come a produrre una crisi sia la scarsezza, fino al blocco, dei mezzi di pagamento, che si accompagna alla discesa della produzione rispetto alle potenzialità della macchina produttiva.
Poggiando il sistema produttivo essenzialmente sul credito, quando questo viene a contrarsi o a mancare, la crisi pare assumere il carattere di crisi finanziaria, creditizia e monetaria, mentre nella sostanza è crisi che si fonda sul meccanismo della produzione che ha superato, nella ricerca del tasso di profitto più alto, l’effettiva capacità di acquisto sociale. Questo è per noi il concetto fondamentale: la crisi generale del sistema capitalistico, come studiata e descritta dalla nostra scuola, è crisi che si presenta come deflazione, per usare termini attuali.
Nel corso di tutto il rapporto l’analisi dei dati a nostra disposizione, gentilmente forniti dai centri di studio capitalistici, presi con le dovute cautele – le manipolazioni dei dati statistici sono all’ordine del giorno, e le forzature una costante – indicano lo stato deflattivo della finanza, anche se i fenomeni inflattivi da speculazione, posizione di privilegio o cartello, sui consumi di base o su comparti specifici delle materie prime e dell’energia possono suscitare l’impressione di un processo inflattivo in atto.
A proposito di dati manipolati, sono stati presentati alcuni valori statistici ufficiali cinesi relativi all’ultimo quadrimestre del 2009: per il Pil indicano aumenti superiori al 5,6%, che sarebbe l’incredibile 24% sull’anno, proprio il peggiore per l’economia mondiale; valori delle esportazioni con crescite superiori al 16%, ed altre forzature grossolane.
Di questi modi truffaldini di presentare i dati fanno scuola i centri studi borghesi e gli istituti di statistica di tutto il mondo quando, per negare la disgregazione progressiva, a volte più veloce a volte più lenta, del tessuto economico e produttivo, comparano gli scarti percentuali rispetto ai periodi di minimo più marcato. Si poteva leggere sulla stampa italiana, “A marzo produzione industriale +6%, ai massimi dal 2006”: si trascurava di aggiungere che il calcolo era fatto rispetto al minimo del marzo 2009, e quindi la lievissima ripresa valutata da gennaio a marzo 2010 produceva in realtà un incremento irrisorio. Ma tanto basta per istillare “la fiducia e l’ottimismo”.
Affrontando il problema del “debito”, che è nella fase di capitalismo declinante il vero motore finanziario dell’economia, si è accennato al rapporto debito pubblico su debito privato, cioè alle possibilità da parte degli Stati di raccogliere risorse finanziarie dai cittadini, mediante misure “di emergenza” (tasse, prelievi forzosi e così via) ove il debito “privato” fosse di bassa consistenza. Ma la situazione del debito totale, rispetto al Pil, appare molto critica: all’inizio del 2010 il Regno Unito presenta la percentuale del 450%, 308% la Francia, 342% la Spagna, Italia e USA oscillano intorno al 290%. In generale le curve dei debiti totali in percentuale sul Pil segnano una crescita marcata e costante nel tempo.
Un dato particolarmente significativo sulle effettive condizioni del capitalismo è dato dal debito federale – quindi senza considerare il debito delle famiglie, che per gli USA assomma a 13 trilioni di dollari, tredicimila miliardi – che non cessa di aumentare, su un Pil di circa 17 trilioni. Se consideriamo i metodi molto discutibili di calcolo del Pil (almeno da un punto di vista dell’effettiva valutazione della ricchezza prodotta), appare evidente che nelle condizioni attuali gli Stati Uniti impongono il peso del loro debito al mondo intero.
Relativamente al Pil delle diverse economie sono state esposte delle tabelle comparative a scala mondiale, anche se datate al 2008. La nostra considerazione della grandezza Pil è molto bassa, ce ne fidiamo poco. Riteniamo sia peggio ancora se utilizzata per confronti internazionali, quando è noto che si basano tutti su calcoli differenti, a volte notevolmente, da Stato a Stato, da un sistema di rilevazione ad un altro.
Stabilito questo, appare che, almeno all’inizio della “madre di tutte le crisi”, il Pil aggregato della Unione Europea sarebbe di gran lunga superiore a quello degli Stati Uniti, e che la Germania solo nel 2008 avrebbe ceduto il suo posto in classifica alla Cina, che si porterebbe al terzo dopo Usa e Giappone e davanti a Germania e Regno Unito. Se poi si andasse a valutare il Pil pro capite, cioè in relazione alla popolazione, la Cina risulterebbe ancora molto lontana dalle economie dell’Occidente.
Nella seconda sessione della esposizione, alla domenica, sono stati trattati temi specifici monetari, in particolare sono stati descritti quelli che si definiscono modernamente “aggregati monetari”.
Questa digressione nella teoria economica dei nostri avversari crediamo sia importante per comprendere meglio grafici, tabelle e dati che sono l’argomento principe delle analisi borghesi e per far avere al nostro Partito una migliore comprensione dello sviluppo ed approfondimento della crisi.
Per “aggregati monetari” si intende la quantità complessiva di moneta, in un certo momento ed in un certo spazio economico, nella sua forma di circolante o di moneta scritturale, che è moneta a tutti gli effetti, e di altre attività finanziarie che, per il loro grado di liquidità – cioè la possibilità di essere convertite in tempi più o meno brevi in “moneta” – possono svolgere le stesse funzioni della moneta stessa.
Vogliamo rimarcare che su quel “possono svolgere” si è fondato l’inizio della più terribile crisi finanziaria di questa fase.
Per quel che serve al nostro lavoro si distinguono quattro categorie di aggregati. Si parte da quello definito M0, o “base monetaria”, che è la “moneta” (in senso lato) prodotta, per così dire, dalla Banca Centrale – detta anche “moneta ad alto potenziale” – e comprende anche tutte le partite che sono immediatamente convertibili in moneta senza costi ed immediatamente, cioè passività della Banca Centrale verso le altre banche. Poi M1, “liquidità primaria”, è definita da M0 più attività finanziarie che operano come mezzo di pagamento (depositi in conto corrente, traveller’ cheque). Segue M2, definita anche “liquidità secondaria” o “quasi moneta“, composta da M1 più altre attività finanziarie, depositi bancari e postali non trasferibili a vista con assegno e libretti di risparmio. Infine M3, cioè M2 più attività finanziarie che possono operare come riserva di valore. Ogni aggregato insomma è dato dalla somma del precedente e da “valori” la cui convertibilità è via via più a lungo termine e con costi maggiori.
Per dare una stima dei volumi, a fine del 2008 nell’area dell’euro M1 valeva 3.970 miliardi, di cui 704 di circolante, M2 8.300 miliardi, ed M3 9.364 miliardi.
L’andamento nel tempo di queste grandezze, tutte correlate, e la loro velocità di circolazione definiscono lo stato del sistema finanziario. M0, la moneta emessa dalla Banca Centrale a fronte dell’emissione da parte del Tesoro di Buoni (o bond), costituisce il motore monetario con cui il sistema bancario nel suo complesso genera, mediante il meccanismo della riserva frazionaria, il surplus che permette il funzionamento del sistema economico – e quindi produttivo. Giusto quella massa di cambiali e valori convertibili citati nello splendido brano del “Capitale” con cui abbiamo aperto il rapporto.
Sulla scorta di queste semplici informazioni, sono poi state presentate e commentate quattro tabelle, aggiornate al 2009, che saranno riprodotte nella pubblicazione estesa del rapporto.
La prima, che riporta il volume delle valute in circolazione, espresse in miliardi di dollari ed in percentuale su tutte le valute circolanti, vede ai primi quattro posti l’Euro, seguito dal Dollaro, poi dallo Yen e dallo Yuan; la loro somma percentuale quota il 75% di tutte le banconote emesse. Che l’Euro sia in volume la prima delle divise circolanti spiega molte cose anche non attinenti a finanza ed economia, nel campo della politica internazionale.
La seconda tabella presenta la stima, dal 1971 al 2009, dei quattro aggregati monetari; è da notare l’impennata di M2 nel quadriennio 2005-2009 rispetto agli altri e la sua preponderanza, assieme ad M1 per la massa attuale della circolazione, e la crescita rapidissima di M3 nel biennio 2007-2009; questo aggregato è quello che più direttamente caratterizza l’espansione delle “bolle finanziarie”, ed è un indice, per certi versi, dell’inflazione monetaria – qui con “inflazione” non si indica la crescita costante dei prezzi delle merci, ma l’abbondanza oltre il necessario per gli scambi economici, di moneta. La sua grande disponibilità influenza i corsi delle borse.
Nella terza tabella, che mostra la crescita dal 1971 al 2009 delle principali quattro divise e del totale delle altre, si nota la crescita vertiginosa dal 2007 al 2009 delle prime tre divise, a fronte di una crescita molto più contenuta dello Yuan; un segno manifesto di come la principale attività finanziaria degli Stati sia quella di stampar moneta.
La quarta tabella infine, prodotta dalla Federal Reserve di St. Louis e riferita agli Stati Uniti d’America, riporta nel tempo la velocità di circolazione di M1, il moltiplicatore monetario, cioè il tempo in cui M0 e il suo derivato M1 si muovono nel sistema economico.
Dal 2008 al 2009 la velocità di circolazione di M1, malgrado l’incredibile
quantità di moneta prodotta dalla FED nel quantitative easing più
forsennato della storia del capitalismo (“moneta” che è però andata
a tamponare le voragini prodotte dalla bolla nel sistema finanziario, e
non nel ciclo della produzione o consumo!) ha subito un crollo drammatico,
per continuare a scendere fino al 2010. Questo è un indice certo di un
processo deflazionistico in atto, della spirale senza esito in cui si avvolge
il capitalismo.
A cavallo degli anni ’70 e ‘80 appare e si fa strada all’interno della classe operaia una nuova organizzazione, i Cavalieri del Lavoro (Knights of Labor). In realtà l’organizzazione era stata fondata nel 1869, ed aveva assunto una struttura settaria, con riti di iniziazione e convinzioni anche profondamente religiose. Inizialmente segreta, verso la fine degli anni ’70 si aprì a strati più ampi del lavoro, senza escludere categorie che storicamente erano state discriminate dai sindacati più importanti, come i negri e le donne.
Gli scopi di emancipazione delle classi lavoratrici, secondo i fondatori, non erano da raggiungersi tanto con le lotte economiche quanto con la cooperazione, e con l’educazione. Quindi lo sciopero non era uno strumento gradito, anche se tollerato. Di fatto, in tutta la sua esistenza l’Ordine vide un continuo contrasto tra una base combattiva e un vertice pacifista, legalitario e anche un po’ fanatico. Quindi gruppi di operai aderivano per poi spesso andarsene quando capivano che i Cavalieri facevano ben poco per aiutarli ad avere migliori salari. La natura dell’organizzazione però faceva sì che si presentasse come una organizzazione a respiro nazionale nel momento in cui i sindacati tradizionali venivano messi in crisi e scomparivano a seguito della depressione. Ma siccome fino al 1878 i Cavalieri non disponevano di una piattaforma, di uno statuto, o di qualsivoglia elenco di principi che li ispirassero, i loro attivisti potevano promettere agli operai interessati che tutti i loro problemi sarebbero stati risolti da una forte organizzazione.
La situazione in quegli anni non era del tutto favorevole. Nel 1883 era iniziata una nuova depressione, mentre, nonostante la nascita della nuova organizzazione rivale (la AFL), la classe faceva i conti con una serie di sconfitte sindacali. Il decollo vero avrebbe avuto luogo in seguito a due eventi verificatisi nel 1885, il successo nei boicottaggi e gli scioperi, vittoriosi, contro tre compagnie ferroviarie di Gould, uno dei “robber barons”, o plutocrati senza scrupoli, quali Carnegie, Morgan, Rockefeller, che ben rappresentavano il capitalismo rampante, quanto rapace e spietato, dell’America fine secolo.
Il rapporto si è dilungato nella descrizione degli scioperi del 1885-1886, vittoriosi, ma che poco dopo furono seguiti da cocenti sconfitte, determinate non da debolezza o mancanza di combattività della classe, ma da imperizia se non da aperto tradimento della dirigenza, e in particolare del Gran Maestro Terence Powderly.
Questi atteggiamenti di disprezzo verso l’azione diretta, e di incomprensione
dei veri bisogni delle masse operaie, gettarono le basi per un progressivo
abbandono dell’Ordine da parte della classe, che in buona parte (gli
operai specializzati) passò ai più moderni sindacati della American Federation
of Labor.
Il rapporto ha messo in evidenza, analizzando gli ultimi dati disponibili, cioè al dicembre 2009, che – mentre la crisi di sovrapproduzione a livello mondiale sta contraendo produzioni e scambi commerciali – uno dei pochi rami d’industria che non risente della crisi è quello degli armamenti. La produzione ed il commercio di armi sono in costante aumento da più di un decennio, così come la percentuale dei bilanci statali riservata alle spese per la “difesa”.
Continuando questa ricerca, tendente a fornire al partito un quadro aggiornato del confronto di forza tra vari blocchi imperialisti, il rapporto ha cercato di dare un quadro della situazione in due paesi sotto occupazione, l’Iraq e l’Afghanistan.
In Iraq da pochi mesi è iniziato il ritiro di una parte delle truppe ma gli Stati Uniti lasciano nel Paese una rete di formidabili basi militari e circa 50.000 uomini; una forza di tutto rispetto che potrebbe permettere a Washington di interrompere in qualsiasi momento l’approvvigionamento di petrolio di altri Paesi. È peraltro da rimarcare che, nonostante l’occupazione militare, sul piano economico lo Stato iracheno è riuscito a salvaguardare per sé la rendita sul petrolio, lasciando solo il profitto industriale alle grandi compagnie petrolifere, anche statunitensi, mentre lo sfruttamento dei maggiori pozzi è stato assegnato, a condizioni accettabili per Bagdad, soprattutto a compagnie cinesi, russe ed europee e spingendo in secondo piano le compagnie statunitensi.
Il piano di ritiro delle truppe dall’Iraq è stato accompagnato da
un aumento della presenza militare statunitense in Afghanistan. Questa
“nuova” strategia non ha però dato, per adesso, risultati significativi
per quanto riguarda il controllo del territorio, soprattutto per le contraddizioni
che caratterizzano la politica statunitense in quella regione, come meglio
espone un articolo su questo numero del giornale.
Il governo degli Stati Uniti sa che non ha da vincere alcuna guerra in Afghanistan, ma è costretto a continuare la guerra e l’occupazione.
A poche settimane dalla destituzione del generale Mc Kristall, comandante della coalizione (International security assistance force) e pochi giorni dopo la ennesima, inconcludente Conferenza internazionale di Kabul, la recente diffusione di una gran massa di documenti segreti del Pentagono, riguardanti la conduzione della guerra dal gennaio 2004 al dicembre 2009, ha messo nuovamente in difficoltà la Casa Bianca, sebbene si riferisca soprattutto al periodo di presidenza repubblicana, perché smentisce gli argomenti usati dalla propaganda ufficiale per giustificare la guerra. Risulta evidente soprattutto la mancanza di una strategia complessiva degli Stati Uniti e dei loro alleati, mancanza di un respiro storico e che non dipende certamente dal partito che al momento sta al governo.
Le sprezzanti dichiarazioni del generale Mc Kristall contro il presidente Obama e i suoi consiglieri, seguite dal suo inevitabile dimissionamento, hanno reso di pubblico dominio lo scontro tra i vertici politici e militari nella conduzione della guerra. Secondo alcuni commentatori il generale avrebbe così voluto esprimere il malumore che da mesi cova tra i militari al fronte: contro le nuove direttive imposte da Washington, che nel 2010 hanno provocato un repentino aumento delle perdite tra i soldati dell’Isaf; l’offensiva di Marjah, nella provincia di Helmand, che, spacciata per una grande vittoria, si e dimostrata un fallimento; la prevista nuova offensiva su Kandahar che è stata rimandata all’autunno. La sua sostituzione col generale David Petreus però non ha segnato una vittoria della Casa Bianca, ma un ennesimo compromesso.
La nuova strategia imposta dai Democratici per giustificare l’aumento dello sforzo bellico e che si voleva basata sulla “conquista dei cuori e delle menti” degli afghani, riducendo gli attacchi contro obiettivi civili, doveva servire soprattutto a dare un’immagine dell’Afghanistan come di un paese pacificato sotto il buon governo di Karzai, soprattutto a scopi elettorali interni americani.
Il generale Petreus, sotto l’insegna della “continuità” sbandierata dalla casa Bianca, ha voluto dare subito un segnale di come la vede lui, dando il via libera all’ennesima strage di civili nella provincia meridionale dell’Helmand dove alcuni razzi delle forze Isaf hanno massacrato 52 persone; à la guerre comme à la guerre!
La stessa diffusione di quei documenti “più o meno segreti” del Pentagono non è escluso che sia stata pilotata proprio da ambienti militari, come ipotizza La Repubblica del 29 luglio, proprio «per sbattere in faccia ai decisori i fatti e non le pietose bugie che amano ripetere, ad esempio riguardo all’alleato pakistano».
Ma non sono solo questi problemi a turbare i piani della Casa Bianca dove, invece della la musica nuova che si sarebbe dovuta ascoltare con la vittoria democratica. Le cose in Afghanistan vanno male non solo sul piano militare ma anche politico, amministrativo, sociale: la lotta intestina tra i diversi “servizi” di informazione e sicurezza, la contrapposizione tra truppe mercenarie e truppe regolari; il contraddittorio atteggiamento verso i guerriglieri, trattati ufficialmente come terroristi ma oggetto di accordi sotto banco; il palese disprezzo dei vertici militari statunitensi verso gli alleati dell’Isaf, chiamati però ad uno sforzo sempre più impegnativo nella guerra; gli annunci di un vicino ritiro mentre ci si appresta ad una importante offensiva militare; le strobazzate vittorie poi sempre smentite e ridimensionate; la strategia ondivaga verso l’alleato-nemico pakistano comprato a fior di milioni di dollari mentre il suo territorio viene colpito quotidianamente dai bombardamenti indiscriminati dei droni, ciechi e micidiali.
Queste contraddizioni non sono determinate dalla schizofrenia dei governanti statunitensi o del Pentagono o del Dipartimento di Stato, ma dalla mancanza di un vero, reale obbiettivo strategico da raggiungere con la guerra che non sia la guerra stessa.
La propaganda di regime, anche in Italia, continua a ripetere, dinanzi ad ogni nuova notizia di militari caduti, la favola della necessità di continuare la guerra per combattere Al Qaeda e impedire la sua andata al potere. Ma, come ammettono ormai in molti, l’araba fenice di questa misteriosa e imprendibile organizzazione non esisterebbe più in Afghanistan, e forse non c’è mai stata, e sarebbe oggi dispersa in gruppi distinti in vari paesi, dalla Somalia allo Yemen, al Pakistan.
Sarebbe il timore di un ritorno al potere dei talebani a costringere Washington a mantenere in Afghanistan un esercito di 150.000 uomini, a cui si aggiungono altrettanti mercenari? Ma l’attuale governo Karzai in cosa sarebbe diverso da un governo a guida talebana? Certamente l’attuale governo già non si distingue da quello per la corruzione dei suoi membri e di quanti sono al loro servizio. Non per quanto riguarda l’ordine pubblico o i servizi sociali, dato che la popolazione ha timore della corrotta polizia afghana più che delle milizie, vive nella paura e spesso in condizioni di estremo disagio in mancanza di ospedali, scuole e altri servizi primari. Né il governo Karzai si distingue da quello talebano per una politica di parità per le donne, altra menzogna sui fini della guerra nella propaganda interventista: le donne, che avevano raggiunto una equiparazione sociale al tempo dell’occupazione russa e del regime filo russo, sono dall’attuale governo, con la piena compiacenza della “comunità internazionale”, mantenute in quello stato di semi schiavitù sotto cui furono riportate dal regime talebano.
L’ultima conferenza internazionale, tenuta a Kabul, ha dimostrato proprio questo: non ha raggiunto alcun risultato pratico per quanto riguarda la risoluzione dei problemi del Paese. Solo risultato significativo è che ha cancellato la scadenza del 2011, posta sconsideratamente da Obama, per l’inizio del ritiro delle truppe d’occupazione; la conferenza ha infatti ribadito che fino al 2014 non vi sarà alcun ritiro. Circola intanto la notizia che il Pentagono stia costruendo una base militare del costo di 100 milioni di dollari, vicino a Mazar i Sharif, a poche decine di chilometri dal confine uzbeko, sull’esempio di quanto è stato fatto in Iraq.
Nonostante le sconfitte, le contraddizioni, i costi umani e materiali, Washington non intende togliere il suo pesante stivale da una regione che permette di controllare da vicino la zona centroasiatica e le sue riserve di idrocarburi, la Russia e i suoi satelliti, il turbolento Pakistan, l’Iran, l’India, la Cina in continua espansione anche in quell’area.
La spiegazione di tutto questo si trova forse in questa semplice constatazione: negli ultimi dieci anni la spesa per il bilancio della “difesa” degli USA è aumentata di più del 100 %; nello stesso periodo il peso della economia statunitense sull’economia mondiale si è ridotto dal 32 al 23%.
Questo vuol dire che gli Stati Uniti negli ultimi dieci anni hanno mantenuto pressoché inalterata la loro preminenza in campo militare con una spesa annua stimata pari a circa la metà dell’intera spesa militare mondiale, ma hanno perso, relativamente, peso nell’economia mondiale rispetto alle altre potenze, soprattutto rispetto alla Cina, all’India e ad altri Stati di recente capitalismo.
È dunque logico che in una situazione di crisi mondiale di sovrapproduzione come è quella che stiamo vivendo da alcuni decenni, ma che in questi ultimi anni pare volgersi verso la catastrofe per l’intero sistema capitalistico, gli Stati Uniti, come e più di altre potenze, guardino alla guerra come suprema ed unica via d’uscita dalla palude della recessione.
In questa prospettiva, poter disporre di punti di forza in zone di primaria importanza strategica per gli approvvigionamenti di materie prime o per la loro posizione geografica, come sono appunto l’Iraq e l’Afghanistan, assume una importanza vitale.
La decisione di ritirare una parte delle truppe dall’Iraq non è in contrasto con questa ipotesi; essa non è stata infatti determinata da una raggiunta pacificazione e “democratizzazione” del Paese, che è e resta sempre sull’orlo della guerra civile e in condizioni disastrose dal punto di vista delle condizioni di esistenza della sfortunata popolazione, ma da una valutazione dei costi dell’occupazione dal punto di vista finanziario e dell’impegno militare. L’acquartieramento delle truppe in basi super attrezzate e ben difese permette agli Usa, pur rinunciando al controllo del territorio, di mantenere nel Paese una forza militare determinante che rappresenta una oggettiva minaccia sia per il governo iracheno sia per le potenze vicine, Siria Turchia Iran.
La stessa cosa si intende probabilmente fare in Afghanistan, che sia “pacificato” o meno.
La borghesia americana è spinta a puntare molto sulla guerra afghana anche per dimostrare agli imperialismi rivali la forza militare di cui ancora dispone e che è disposta a tutto per difendere i suoi privilegi di prima potenza.
Per uscire dalla recessione il sistema capitalistico conosce una sola
via, la guerra. Sta al proletariato internazionale riprendere la strada
della sua organizzazione indipendente, come classe, per sfuggire alla trappola
mortale di una nuova terza guerra imperialista che lo vedrebbe ancora una
volta mandato al macello per le necessità di conservazione del regime
dei suoi sfruttatori, ribadendo il suo programma storico: contro la guerra
tra gli Stati guerra tra le classi per il comunismo.
Allarme rientrato per il bene dei Mondiali, con questo titolo un giornale borghese usciva nel luglio del 2009 quando, dopo più di una settimana di sciopero, circa 70.000 operai sudafricani ripresero a lavorare nei cantieri dei dieci stadi che avrebbero ospitato i Mondiali di calcio.
Tale generoso sciopero ad oltranza era stato intrapreso per ottenere un adeguamento del salario. Il Num, il sindacato dei minatori, tra i più importanti sindacati del paese, con molti iscritti anche fra gli edili, aveva chiesto un aumento del salario del 13%. Lo sciopero paralizzò per giorni i lavori nei dieci stadi in costruzione o in ristrutturazione, quelli nei cantieri per il treno rapido Gautrain-Johannesburg e nell’aeroporto di King Shasa, vicino Durban. Non sappiamo se alla fine quello firmato dai sindacati fu un buon accordo, ma siamo certi che i lavoratori sudafricani sono ben coscienti che solo la lotta di classe può migliorare o salvaguardare le loro condizioni.
È stata una lotta che ha fatto scuola. A pochi mesi dal Mondiale una nuova ondata di scioperi ha squarciato l’immagine patinata e la melensa retorica che in questa occasione dal Sudafrica sono arrivate al mondo intero. Un maestoso sciopero nel settore dei trasporti ha infatti nuovamente minacciato l’evento bloccandone, a pochi giorni dall’apertura, l’arrivo delle forniture. Quasi la totalità dei 54.000 lavoratori della società Transnet (società pubblica che ha la gestione dei porti, delle infrastrutture ferroviarie, degli oleodotti e partecipazioni anche nelle telecomunicazioni) hanno incrociato le braccia per diverse settimane e sono scesi in strada ritmando le parole “No 15%? No treni, no coppa del mondo!”.
I sindacati che appoggiavano questa robusta lotta erano il Satawu e lo Utatu.
Lo sciopero, iniziato il 10 maggio, era ad oltranza con interi porti paralizzati per settimane, ponti occupati dai lavoratori e manifestazioni di piazza numerose e partecipate con scontri con la polizia all’ordine del giorno. La lotta era indirizzata all’aumento del salario del 15% ma anche a migliori condizioni di lavoro.
Padroni, opinione pubblica, cioè borghese, e Banca centrale cercavano di far smettere lo sciopero dichiarando, calcolatrici alla mano, che le richieste dei sindacati erano troppo “esose”.
I padroni della Transfert proponevano un generosissimo 8%, continuando a pretendere che, con un’inflazione al 5,1%, non vi fossero presupposti reali per richiedere tanto. Niente da fare, gli operai non fecero un passo indietro fino a che, dopo circa due settimane di blocco totale, il fronte sindacale si divise: lo Utatu, forse il sindacato più rappresentativo, accettò l’ultima offerta della Transnet, salita all’ 11%; il Satawu invece proseguì la lotta, pur scendendo con la richiesta al 13%, invitando però alla mobilitazione e alla solidarietà anche i lavoratori non impiegati nel settore dei trasporti.
Così, con sorpresa e terrore dei padroni e dei loro servi, la lotta si andava allargando. Subito aderì il Psasa, dei dipendenti pubblici, invocando un simile trattamento anche per essi. Qualche giorno dopo sia la Prasa, che riunisce i dipendenti di Metrorail, società che fa viaggiare ogni giorno due milioni di sudafricani, sia il Hosptusa, una delle quattro sigle dei dipendenti della catena ospedaliera privata Netcare, aderirono allo sciopero, oramai divenuto generale, chiedendo per le loro categorie adeguamenti del salario.
In questo clima teso ma, come risulta dai resoconti, euforico per la classe operaia di questo travagliato paese, molti giovani operai oltre a sindacalizzarsi per la prima volta hanno conosciuto la gioia e la forza che solo la solidarietà dei loro fratelli di classe può dare, hanno capito da che parte sta il nuovo e democraticissimo Stato africano, raccogliendo la repressione degli apparati polizieschi non appena la loro organizzazione e rabbia sfociavano nelle strade.
La borghesia di questa nazione, a pochi giorni dal grande business del pallone ha davvero avuto paura di non poter contenere questa lotta. Ha infatti utilizzato tutte le sue armi, la repressione e la propaganda, facendo diffondere slogan interclassisti: “per la tutela del paese”, “per il bene della collettività”, “per un occasione mondiale che non possiamo perdere” etc. etc.
Il successivo 27 maggio il sindacato Satawu si è accordato con Transet per un aumento del 12% e la sospensione per un anno dei licenziamenti.
Le poche notizie che ci arrivano non ci fanno conoscere nei dettagli come si siano concluse le singole vertenze, e se siano definitivamente sopite. Quello che conta è la ritrovata combattività del proletariato sudafricano che per anni ha subito il capitalismo nella forma di apartheid ed ora lotta contro una faccia del capitale non meno spietata, la borghese ed interclassista democrazia.
Questa è appunto il peggior nemico per il proletariato, perché nasconde la reale sottomissione di classe. Contro la menzogna propagandata dai partiti di ogni colore, nessuna pace può esistere fra le classi e sotto qualunque regime la nostra prospettiva non cambia: guerra aperta alla borghesia sia essa bianca e vestita di nero fascista, sia oggi negra e vestita di bianco democratico.
L’apartheid e il razzismo sono stati strumenti utilizzati in Sudafrica
dai capitalisti, allora prevalentemente bianchi, per sfruttare al meglio
la forza lavoro del paese, prevalentemente negra. Oggi la democrazia serve,
anche meglio e con minori “costi”, allo stesso identico scopo.
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Dal ricatto
di Pomigliano un monito per tutti i lavoratori
Il rapporto di lavoro salariato si fonda, per sua natura, su un ricatto, da parte dei monopolizzatori del capitale, nei confronti di chi è costretto a vendere la propria forza lavoro per non fare la fame.
Le condizioni che la Fiat pretende di imporre ai lavoratori di Pomigliano, e che il padronato va imponendo in tutte le categorie, confermano che il capitalismo è oggi, ed è sempre stato, quello descritto da Carlo Marx: vive solo dello sfruttamento spietato e senza misura della forza lavoro. Il sistema della fabbrica, il cosiddetto fordismo, non è mai morto e il ricatto di Pomigliano è esercitato, e in termini anche peggiori, contro i lavoratori, pubblici e privati e di tutti i paesi.
Il capitale mondiale, stretto fra la folle sovrapproduzione di merci, per lo più inutili o dannose, e la caduta del saggio del profitto, è una forza sociale sempre avida di sopralavoro, sempre più nemica della classe operaia, sempre più incapace di consentire la vita di chi lavora.
Si costringono gli operai a 18 esasperanti turni, notte e giorno, per produrre un numero infinitamente crescente di automobili che nessuno vuole e di cui nessuno ha bisogno. Il capitalismo è una malattia grave dalla quale l’umanità deve liberarsi e guarire.
In questa società nessuna legge, diritto, costituzione o statuto potrà mai garantire la classe operaia, che può difendere salari ed orari solo quando riesce a schierare la sua forza organizzata contro la forza unificata del padronato.
Oggi invece i lavoratori non riescono a resistere al peggioramento del ricatto borghese perché sono deboli. E sono deboli sia perché la crisi economica esaspera la concorrenza fra venditori di forza lavoro, sia perché sono divisi, privi della loro organizzazione sindacale di classe.
I sindacati di regime Cgil, Cisl, Uil, Ugl non sono che i rappresentanti della borghesia all’interno della classe lavoratrice, incaricati di far passare con qualsiasi mezzo la politica padronale.
La Fiom usa talvolta un linguaggio diverso solo per illudere i lavoratori e i suoi stessi delegati di base, e ritardare il momento in cui questi si daranno una nuova e combattiva organizzazione difensiva. Nei fatti nemmeno la Fiom ha mai organizzato veramente una lotta decisa e generale per la difesa operaia. La dirigenza e i funzionari Fiom invece tengono e terranno sempre imprigionati gli operai e i delegati all’interno della Cgil, nonostante questa sia da trent’anni un organismo irreversibilmente passato dalla parte dei padroni e nonostante in ogni importante battaglia abbandoni gli operai a se stessi – esattamente come è avvenuto per Pomigliano. Gli iscritti alla Fiom devono invece rompere con la loro dirigenza, abbandonare la Cgil ed unirsi a quei lavoratori che da anni si sono già organizzati fuori e contro i sindacati di regime, per costruire un vero sindacato di classe.
In particolare nel precipitare della crisi mondiale del capitalismo, la difesa della classe lavoratrice richiede un indirizzo di politica sindacale opposto a quello, praticato da molti decenni, di sottomissione delle esigenze dei lavoratori a quelle della economia nazionale, della produttività, dei profitti industriali. Occorre tornare alla impostazione classica ed originaria della lotta operaia, che denuncia ogni solidarietà con la classe padronale e con il cosiddetto “sistema Italia”.
Il referendum è – indipendentemente dai brogli – una truffa in sé per i lavoratori: in esso il voto di quadri, crumiri, venduti di ogni specie e di semplici lavoratori che cedono al ricatto padronale, ha lo stesso peso del voto di chi lotta e sciopera. Dalla consultazione – individuale, locale e contingente – dei lavoratori, non può che uscire la sottomissione ai ricatti borghesi. La ragione e il fine del sindacalismo di classe è appunto sopravanzare la debolezza dei singoli per esprimere la forza di un movimento e di una coscienza collettiva. In tal senso un referendum è il contrario della lotta di classe.
Nella crisi è in fabbrica che i lavoratori sono più deboli e ricattabili. Si impone quindi il ritorno alla lotta sociale generale fra le opposte classi, alla solidarietà di categoria e fra categorie, fra assunti a tempo indeterminato e precari, fra indigeni ed immigrati.
Per finirla con la concorrenza al ribasso senza fine che i lavoratori sono costretti a farsi fra Occidente ed Oriente, Nord e Sud del mondo, occorre invece tornare a proclamare e ricercare nei fatti la solidarietà fra gli sfruttati dei diversi paesi, schiacciati dal medesimo ed unico capitale internazionale.
Questo richiede, da una parte una mobilitazione generale per rivendicazioni di tutta la classe operaia, come un salario a tutti i lavoratori licenziati, dall’altro una vera confederazione sindacale di classe che torni ad un indirizzo politico e a moduli di azione tradizionali e tipici della lotta operaia antipadronale.
Questo intransigente e sempre più vasto movimento di resistenza contro
il ricatto borghese arriverà a porsi il compito della soppressione storica
e definitiva del regime sociale che su quel ricatto si basa.
Questo il volantino che abbiamo diffuso fra i lavoratori a commento delle imposizioni padronali agli operai di Pomigliamo. Non fa che ripetere, nel caso attuale, quello che il nostro partito afferma da molti decenni: che Cgil e Fiom sono sindacati oggi irrecuperabili per la difesa e la mobilitazione della classe operaia.
Questa affermazione e previsione ha dato ai nervi all’interno di una certa "organizzazione" che si definisce, inspiegabilmente, "Lotta Comunista". Il che non ci riguarda né ci interessa, ma lo prova il fatto che i nostri compagni di Genova, nel distribuire il 2 luglio agli operai in sciopero il testo qui sotto riprodotto, sono stati avvicinati da dei capetti Fiom, alcuni dei quali noti aderenti a questi "lottatori", che gli hanno strappato di mano i volantini ed impedito di continuare a distribuirli.
Della cosa non abbiamo da stupirci e nemmeno da lamentarci, ovviamente, né ci attendiamo da chicchessia il riconoscimento di nostri "diritti”. Tantomeno, quindi, modificheremo i termini e le modalità della nostra propaganda.
Solo rileviamo sia il metodo, identico a quello staliniano-democratico della Cgil nei confronti dei suoi veri oppositori sulle posizioni di classe, sia il merito, l’effettivo indirizzo sindacale di simili "comunisti".
Risulta che questi efficienti funzionarietti non mostrano mai altrettanta energia nel condannare il tradimento dei sindacati di regime. Ben infilati nella dirigenza Cgil e Fiom a tutti i livelli, accusano la Cgil non di tradimento, ma di essere «diretta da una burocrazia ripiegata su se stessa, priva della consapevolezza dei processi reali in corso». Si tratterebbe di una questioncella psicologico-culturale dei capi, e non la sottomissione piena ed organica di tutta l’organizzzione alla politica e agli interessi storici e contingenti della classe borghese. Il solito trito opportunismo della sinistra sindacale, insomma, ultima linea difensiva del sindacalismo borghese.
Hanno proprio dei buoni motivi per strappare i nostri volantini.
Allo sciopero del 5 giugno
La crisi economica mondiale del capitalismo non ha vie d’uscita e, come previsto da sempre dal marxismo, essa è destinata ad aggravarsi ben oltre lo stato attuale.
Sotto la sua pressione, nelle scorse settimane i governi di tutti i paesi europei, in questo uniti sebbene in guerra finanziaria e commerciale fra loro, con il beneplacito di fatto di tutti i sindacati di regime (in Italia Cgil, Cisl Uil, Ugl), hanno varato pesanti provvedimenti straordinari a danno dei lavoratori: taglio dei salari, licenziamento di decine di migliai di lavoratori precari, innalzamento dell’età pensionabile, demolizione delle provvidenze sociali.
Questo è un attacco della borghesia contro tutta la classe lavoratrice, ma colpisce per primi i giovani lavoratori precari e i lavoratori del pubblico impiego, che una interessata campagna propagandistica da anni oppone agli altri lavoratori. La borghesia – che procede con questo identico metodo in tutti i paesi d’Europa – cerca in tal modo di dividere la classe per evitare di affrontare la lotta comune di tutte le categorie.
In Grecia e in Spagna governi “di sinistra” hanno tagliato i salari nominali dei lavoratori pubblici del 20% e del 5%. Non sono provvedimenti eccezionali riguardanti paesi “mal gestiti”, come li dipinge la stampa borghese, ma rappresentano la strada che tutti i governi borghesi europei e mondiali – di “destra” come di “sinistra” – percorreranno nel prossimo futuro. La crisi è del capitalismo mondiale e sotto il suo procedere i capitalismi nazionali più deboli sono soltanto i primi a cadere in ordine di tempo.
La manovra del governo italiano è la medesima: riduzione del salario dei lavoratori pubblici col blocco del rinnovi contrattuali per i prossimi tre anni, licenziamento di decine di migliaia di lavoratori precari ed aumento dell’età pensionabile.
Ma il più importante intervento per far cassa è il drastico taglio dei finanziamenti a Regioni ed Enti Locali, col che lo Stato delega ai suoi organi periferici il compito di impoverire i lavoratori attraverso la cancellazione dei servizi sociali, che di fatto sono una parte del salario, e il licenziamento di migliaia di precari da essi impiegati. A questi vanno aggiunti gli oltre 40.000 licenziamenti previsti fra i lavoratori precari della scuola. La disoccupazione, in specie quella giovanile, già altissima, crescerà ancora.
Nessuno ha il coraggio di sostenere che questi provvedimenti avranno carattere temporaneo e che in futuro le condizioni dei lavoratori torneranno a migliorare. Si invocano invece – ancora da “destra” e da “sinistra” – nuove riforme della previdenza e del mercato del lavoro che già si annunciano peggiori ancora delle odierni condizioni contrattuali e normative.
Tutti, per altro, prevedono che, anche ammesso che la crisi temporaneamente si allenti, le condizioni di vita della classe lavoratrice comunque peggioreranno. La classe dei lavoratori si conferma a tutti gli effetti ciò che in realtà è sempre stata: una classe di PROLETARI.
Ma se gli effetti della crisi colpiscono i lavoratori, l’origine dell’attuale decadenza e disfacimento sociale non è nella classe operaia ma nel sistema capitalistico di produzione fondato sull’oppressione e sfruttamento del lavoro. La crisi è la prova dell’impossibilità del capitalismo a consentire ogni progresso e la vita stessa. La crisi è quindi la premessa a che i lavoratori maturino la loro totale sfiducia nel capitalismo, nelle sue istituzioni e nelle sue promesse e menzogne sociali, e tornino ad affidarsi per la loro difesa esclusivamente nella loro lotta intransigente e nella loro organizzazione.
Ciò avverrà attraverso il dispiegarsi di scioperi veri, cioè senza preavviso, a oltranza, estesi al di sopra delle aziende e delle categorie: ad un attacco mosso all’insieme della classe bisogna che la classe lavoratrice risponda unitariamente con lo sciopero generale.
Ma per tornare a lottare in questo modo è assolutamente necessario dotarsi di un’organizzazione adeguata, il sindacato di classe. I lavoratori hanno bisogno di un unico grande sindacato, che inquadri al suo interno tutti i lavoratori, occupati e disoccupati, al di sopra di qualunque divisione nazionale, religiosa o di ideologia politica.
Questo vero sindacato non subordina la difesa della classe operaia a nessun altro principio o condizione, come invece fanno gli attuali sindacati di regime che, per gli interessi aziendali e dell’economia nazionale, collaborano coi padroni e coi governi per far digerire ai lavoratori ogni nuovo sacrificio.
La Cgil invece nel XVI congresso ha ribadito la sua irreversibile natura di sindacato di regime, fedele agli interessi dell’economia nazionale, cioè del capitalismo, al quale consegna la classe lavoratrice legata mani e piedi. Di fronte all’attacco frontale in atto, solo per impedire l’insorgere di uno spontaneo movimento di lotta proclama una “manifestazione” per il 12 giugno e solo parla di una vaga possibilità di sciopero.
L’opera della riesumata sinistra CGIL – sconfitta senza appello e con disonore al congresso – conferma l’impossibilità di “cambiare la CGIL” e dimostra ancora una volta che la sua sola ed effettiva funzione è quella di impedire che i lavoratori l’abbandonino, a cominciare dai metalmeccanici.
La ricostituzione del sindacato di classe dovrà passare per lo svuotamento del sindacalismo di regime, ormai divenuto inconquistabile ad una politica di classe.
Il sindacalismo di base da decenni afferma di voler rappresentare, almeno in alcune sue componenti, una via di ricostruzione del sindacato di classe, ma dimostra di esser influenzato da deleterie forze centrifughe che ne minano la possibilità di crescere e di affermarsi. Il semplice fatto che nella intera vita di una generazione di militanti sindacali non si sia ancora riusciti a far progressi verso una unitaria opposizione ai confederali dimostra che questo non è, nonostante i proclami, l’obiettivo delle dirigenze attuali di queste organizzazioni.
Il comunismo di sinistra, rivoluzionario ed internazionalista, al quale il nostro partito è rimasto sempre fedele, ritiene necessaria la ricostituzione di un sindacato di classe, in opposizione al sindacalismo di regime, se possibile attraverso la fusione organizzativa dei sindacati di base. Questo processo sarà grandemente favorito dal ritorno alla lotta di sempre maggiori masse di lavoratori, spinti all’azione dalla miseria in cui li sta precipitando il capitalismo.
Le rivendicazioni generali del Sindacato di Classe saranno quelle classiche
del movimento operaio, unificanti tutti i lavoratori:
- Aumenti salariali maggiori per le categorie peggio pagate
- Riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario
- Salario garantito per i lavoratori disoccupati.
I nostri compagni parigini hanno distribuito ai lavoratori il testo
che segue in occasione della manifestazione per lo sciopero del 25 giugno,
indetto dai sindacati contro la minacciata “riforma” che, anche in
Francia, punta a differire l’età del pensionamento, così come sta accadendo
in tutti i Paesi europei.
La grande borghesia industriale e finanziaria con il suo governo sta approntando una serie di misure di austerità per farvi pagare il conto della crisi.
Vi si dice che lo Stato è super indebitato (1.500 miliardi di euro), che la cassa della sicurezza sociale sprofonda in un deficit abissale, e che quindi vi dovete sacrificare per salvare il sistema. In particolare lavorare più a lungo per avere una pensione minore.
La realtà è che il capitalismo è superato e parassitario. Questo miserabile sistema, che si basa sul meschino e spregevole sfruttamento del lavoro salariato – come già il feudalesimo sullo sfruttamento dei servi – è divenuto un intralcio alla sviluppo dell’umanità. È sopravvissuto fino ai nostri giorni solo tramite due guerre mondiali.
Dal 1975, ogni 5-10 anni, l’economia capitalista attraversa cicli di espansione e di recessione, ogni 5-10 anni precipita in una contrazione che dura in media due anni. Ad ogni recessione il deficit della sicurezza sociale aumenta perché i versamenti previdenziali si contraggono, senza parlare di tutte le esenzioni concesse al padronato.
Cosa ci riserva il futuro? Nel 2009 il mondo ha sfiorato una recessione del tipo ‘29, che è stata evitata solo con una fuga in avanti dell’indebitamento. Siamo oggi alla vigilia di una nuova crisi di sovrapproduzione, di un’ampiezza superiore ad allora.
L’attuale crescita industriale della Cina, che esibisce cifre mirabolanti, in parte truccate, si basa su investimenti statali di molte centinaia di miliardi di dollari, lasciando crescere il debito. Si può dunque affermare che anche la Cina, proprio come Europa e Stati Uniti, si trova in una situazione di sovrapproduzione.
Come riesce la borghesia a mantenere in vita questo sistema economico, che garantisce i suoi privilegi di classe? Spremendo il proletariato, mantenendo un tasso di disoccupazione elevato per far pressione sui salari, sostituendo gli impieghi fissi con quelli precari, rendendo il lavoro flessibile, aumentando il carico di lavoro, ecc. Il risultato è che da un lato la miseria si accresce (secondo l’Istituto nazionale di statistica il 13,5% della popolazione francese vive con meno di 850 euro al mese) mentre dall’altro crescono la ricchezza e il parassitismo.
Ma forse è stata efficace la politica economica applicata da trenta anni tanto dai governi di destra quanto di “sinistra”? No, il risultato è il dilagare in proporzioni gigantesche di uno strato di parassiti (azionisti, speculatori, ecc.) e un indebitamento crescente dello Stato e degli individui.
E credete che queste nuove misure proposte dal governo risolveranno il problema? No, sono solo un inganno. Presuppongono una crescita tale da riportare il tasso di disoccupazione al 4,5% della popolazione attiva e fornire eccedenti sufficienti a colmare il deficit delle casse di disoccupazione. Ci si prende gioco di voi. Dagli anni ‘80 mai il tasso di disoccupazione è sceso al di sotto del 9%. Ogni provvedimento sarà inutile. Oggi vi si chiede di lavorare fino a 62 anni, ma domani, fra 2-3 anni, se la crisi non colpisce prima, vi si domanderà di lavorare fino a 65, dopodomani a 67!
Perché vi dovreste sacrificare, quando la produzione annuale di ricchezza per abitante è superiore oggi a quella di 10 anni fa, e ancora di più rispetto a 20 o 30 anni fa? Per salvare un sistema economico fondato sullo sfruttamento del lavoro salariato e garantire i privilegi di una minoranza di parassiti?
Vi ricordate di cosa accadde agli operai della Moulinex che hanno accettato di tutto per evitare la chiusura delle loro fabbriche: alla fine si sono trovati licenziati.
Tuttavia la soluzione esiste: si chiama Comunismo! Il capitalismo ha fatto il suo tempo, perché ha sviluppato ad una scala notevole le basi economiche della società comunista. C’è una contraddizione fra questa base economica e i rapporti di produzione mercantili del capitalismo.
Per questo occorre opporsi alla borghesia e al suo Stato rifiutando le sue cosiddette “riforme” e le sue misure di austerità.
Bisogna per primo farlo sul terreno economico con la lotta sindacale, riscoprendo il senso di solidarietà e di fraternità fra lavoratori, superando le divisioni di categoria, di generazione e di razza. Rigettando ogni difesa degli interessi nazionali e di azienda, che non sono altro che la difesa degli interessi del capitale.
Per far questo occorre rimettere in piedi un vero sindacato di classe, un sindacato che, a differenza dalle organizzazioni di collaborazione di classe (Cgt, Cfdt, Fo, ecc.) non organizzerà i lavoratori solo sulla base della categoria, ma cercherà al contrario di superare ogni divisione. Un sindacato che non esiterà a condurre lotte radicali, superando i limiti di impresa e regionali, per impugnare l’arma dello sciopero generale a scala nazionale ed anche, quando verrà il momento, a scala internazionale.
Ma per uscire da questo sistema economico che ci sta portando diritto contro il muro, l’organizzazione sindacale non basta, occorre anche organizzarsi sul piano politico in vista del rovesciamento con la forza della grande borghesia industriale, commerciale e finanziaria e del suo sfruttamento.
Per questo occorre che vi inquadriate nei ranghi del vostro partito, il Partito Comunista Internazionale, che si tiene fermamente sulla basi programmatiche del comunismo rivoluzionario che tendono all’abolizione dei rapporti di produzione fondati sul capitale e sul salariato, al fine di permettere il libero sviluppo della società comunista.
Il vecchio mondo deve dar vita al comunismo, e questo non si può fare che con la forza della lotta di classe.