Partito Comunista Internazionale
Il Partito Comunista N. 347 - maggio-giugno 2011
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DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: – la linea da Marx a Lenin, alla fondazione della III Internazionale, a Livorno 1921, nascita del Partito Comunista d’Italia, alla lotta della Sinistra Comunista Italiana contro la degenerazione di Mosca, al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani – la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario, a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco
PAGINA 1 – Manifesto del partito diffuso allo sciopero generale del 6 maggio: La vera difesa della classe lavoratrice è nella lotta contro il Capitale e le false alternative del suo moribondo regime
Crisi economica e sociale in Grecia: Fuori dai giochi parlamentari - Per la ricostruzione degli organismi indipendenti sindacali della classe
PAGINA 2-4 Gli ottimi risultati di un impersonale lavoro comunista - Riunione a Genova, 21-22 maggio 2011 [RG110]: Il corso del capitalismo mondiale - Difficile impianto del comunismo in Usa - La guerra dell’imperialismo in libia - Negazione comunista della democrazia - La nostra attività sindacale - Indirizzo nei sindacati su "Il Comunista" - La questione militare - Trame imperialiste intorno al Pakistan - Il Terzo Libro del Capitale

 
 
 
 
 

PAGINA 1


Manifesto del partito diffuso allo sciopero generale del 6 maggio
La vera difesa della classe lavoratrice è nella lotta contro il Capitale e le false alternative del suo moribondo regime

La vernice di benessere accumulata nelle società di un pugno di paesi nel mondo è da anni sottoposto all’azione erosiva della crisi economica che sta facendo riaffiorare sempre più la vera pietra di cui è fatta la società capitalistica: proletariato da un lato, borghesia dall’altro.

La crisi economica non è un fatto transitorio: è un processo iniziato fin dalla metà degli anni ’70, da allora in continuo avanzamento, e che sta portando sempre più velocemente i lavoratori di tutto il mondo verso la miseria e la guerra. La crisi sociale del Nord Africa e del Medio Oriente è un episodio di questa medesima crisi mondiale che colpisce l’Europa, gli Stati Uniti, il Giappone e la stessa Cina.

Le cause della crisi non risiedono in qualche malfunzionamento del sistema economico a cui si possa rimediare con una particolare diversa politica. La crisi è parte della vita stessa del capitalismo. E della sua morte. A generarla sono ineliminabili contraddizioni interne, le cui manifestazioni principali sono la sovrapproduzione e la caduta del saggio del profitto. Queste due malattie del capitalismo sono incurabili e degenerative e provocheranno il collasso della sua economia.

In Italia si va dicendo che la gravità della crisi è dovuta solo al governo Berlusconi, menzogna unico argomento della sinistra borghese, che non ha e non può avere nei confronti della classe lavoratrice una politica diversa da quella della destra. È la gravità con cui la crisi mondiale colpisce ciascun paese che determina l’azione di governi, costretti dai rapporti di forza fra i diversi capitalismi nazionali. Peggio dell’Italia stanno la Spagna e la Grecia, entrambe con governi di “sinistra”. Tutti i capitalismi nazionali, anche quelli apparentemente più solidi, crolleranno sotto il peso crescente della crisi.

Compagni, lavoratori!

Con la crisi e la rovina delle cosiddette classi medie sta morendo il mito di un capitalismo dal volto umano, in cui i lavoratori non sarebbero stati più proletari, ma pari ai borghesi, e la politica non sarebbe più stata la lotta fra le classi ma la pacifica conciliazioni dei loro interessi per la difesa di un inesistente “bene comune”. In nome di questo mito ai lavoratori è richiesto di sacrificarsi in modo sempre più gravoso per salvare l’economia nazionale o l’azienda. La pretesa conciliazione degli interessi si sta risolvendo in un progressivo sacrificio per il Capitale di ogni singolo aspetto della vita dei lavoratori salariati.

La crisi della cosiddetta “sinistra” – che altro non è che la sinistra borghese – è il riflesso politico di questo processo economico.

L’opportunismo politico (che in Italia furono PCI e PSI), sulla base materiale della ripresa economica nel secondo dopoguerra, ha ingannato e diseducato alla lotta la classe operaia, pretendendo che le conquiste salariali e normative di quegli anni non erano frutto solo dei duri scioperi condotti, che non erano legate a una fase transitoria dell’economia capitalistica, e sempre sotto minaccia d’essere attaccate dal padronato, ma erano il risultato di un capitalismo “nuovo”, “diverso”, “riformato”, e, in politica, della Democrazia e delle sue regole, fin dalla sua osannata Costituzione.

Questa mistificazione della realtà, che è certamente la più forte ideologia dell’epoca contemporanea, più del fascismo o del falso comunismo di marca staliniana, sta crollando. Il capitalismo sta facendo macerie di tutti i pretesi diritti inviolabili, distruggendo lo Stato sociale, garantendo ai giovani lavoratori di lavorare fino alla morte o di morire di stenti con una pensione da fame, aumentando senza fine i ritmi di lavoro da un lato e la disoccupazione dall’altro. Il tutto con l’avvallo di fatto della “sinistra”.

Si sta dimostrando che non era la “democrazia” la base dello sviluppo economico, ma, al contrario, era quest’ultimo che, creando le condizioni per la pace sociale, ha permesso alla borghesia di mascherare la dittatura del Capitale sui lavoratori con la finzione democratica.

Ieri, con la forte crescita economica del dopoguerra, la borghesia, costretta dagli scioperi dei lavoratori, ha concesso alcune briciole dei suoi profitti, e l’opportunismo ha potuto appropriarsi del merito di queste conquiste dandovi una veste parlamentare, giuridica, normativa. Oggi, con l’avanzare della crisi, la borghesia cerca di riprendersi quanto prima ceduto e all’opportunismo non resta nulla su cui speculare.

La sinistra borghese non ha, e non può avere, alcuna proposta politico-economica alternativa alla destra per il semplice fatto che oggi esiste solo una ricetta per mantenere in piedi capitalismo: aumentare lo sfruttamento della classe lavoratrice.

Ecco perché in Spagna e in Grecia sono governi di sinistra a farsi carico dei più drastici provvedimenti contro i lavoratori (fino a pochi anni fa il governo Zapatero era dipinto in Italia come esempio di “vero” governo di sinistra in contrapposizione al governo Prodi!).

Ecco perché in Italia l’abolizione della scala mobile, con la conseguente perdita del potere d’acquisto dei salari, la demolizione del sistema previdenziale, l’introduzione e l’allargamento dei contratti precari, sono stati tutti provvedimenti sostenuti dalla sinistra e dai sindacati di regime.

Ecco perché la sinistra borghese cerca di camuffare la natura antioperaia della sua politica dietro alla cortina fumogena dell’antiberlusconismo e della questione morale.

Compagni, lavoratori!

Norme, leggi e Costituzioni non hanno mai prodotto ma solo sancito ciò che la classe operaia ha conquistato, o perso, con la forza. Non sarà con la loro invocazione che i lavoratori riusciranno a difendersi ma solo con la reale mobilitazione in potenti scioperi.

Questo è esattamente ciò che non vogliono fare i paladini della Democrazia e della Costituzione perché accettare di scendere sul piano dei rapporti di forza è la negazione pratica dell’ideologia democratica, che droga i lavoratori illudendoli possa esistere un sistema di regole a difesa dei loro interessi e che non sia invece necessario organizzarsi per condurre lotte sempre più dure.

Lo sciopero di oggi conferma questo quadro. Non è una prova di forza per piegare il padronato e ottenere gli obiettivi rivendicati, ma una manifestazione d’opinione, utilizzata ai fini della politica parlamentare borghese, a sostegno della CGIL nella trattativa con la Confindustria – in cui si sta preparando un nuovo attacco ai lavoratori – e dell’unità sindacale con CISL e UIL, con cui brindare sul cadavere del contratto nazionale di lavoro.

Il capitalismo spingerà i lavoratori a tornare apertamente alla lotta, non per scelta ideale, ma quale unico mezzo per difendersi. Come già tante volte in passato la classe fronteggerà quali suoi nemici non solo i padroni, i loro governi e il loro Stato, ma anche i sindacati confederali, compresa la CGIL, in cui dalla fine degli anni ’70 ogni possibilità di ritorno ad un’azione sindacale classista è definitivamente tramontata.

I lavoratori più combattivi devono porsi fin da oggi sulla strada della ricostruzione della loro organizzazione sindacale di classe fuori e contro i sindacati di regime (CGIL-CISL-UIL). Il Sindacato di classe è lo strumento indispensabile per unificare le singole lotte dei lavoratori, divise per stabilimento, azienda, categoria, in un generale movimento di difesa, a partire dalla categorie più sfruttate, perseguendo gli obiettivi comuni di sempre: difesa del salario, riduzione dell’orario, salario ai lavoratori disoccupati.

Un tale movimento può essere condotto solo sulla base di un principio d’azione opposto a quello dei sindacati di regime: la difesa intransigente delle condizioni di vita dei lavoratori, rifiutando ogni responsabilità verso l’economia aziendale e nazionale, cioè capitalistica, perché consapevole che se questa affonda, la classe lavoratrice non muore con essa, ma ha invece la grande possibilità storica di prendere in mano la società e liberarla dalle leggi economiche del Capitale e dal lavoro salariato.

La ricostruzione del sindacato di classe ha oggi, fra gli altri, due principali ostacoli: la sinistra CGIL e la frammentazione del sindacalismo di base.

La sinistra CGIL in 30 anni, dalla “svolta dell’EUR” ad oggi, passando per il movimento degli “autoconvocati” a metà degli anni ’80 e per la “stagione dei bulloni” del 1992-’93, non solo non è riuscita nell’intento di “cambiare la CGIL”, ma nemmeno ne ha impedito il continuo spostarsi su posizioni di aperto corporativismo. Di fatto, non ha cambiato la CGIL ma l’ha puntellata, ha consumato sane energie operaie in questo compito fallimentare, ed ha così impedito e ritardato la formazione di una nuova organizzazione sindacale di classe.

La sua azione, poi, non si differenzia nella sostanza da quella della maggioranza CGIL. In questi mesi, a fronte di un attacco padronale generale e concertato, la FIOM ha fatto lottare i lavoratori divisi azienda per azienda. Fin dal referendum di Pomigliano (15 giugno 2010) i metalmeccanici dovevano essere chiamati allo sciopero generale, essendo chiara a tutti e da subito l’entità dell’attacco. Invece, in tutti i sei mesi successivi, fino al referendum di Mirafiori (14 gennaio 2011), la FIOM non ha proclamato un solo sciopero generale della categoria (e nemmeno della sola FIAT!) ma solo una manifestazione (16 ottobre 2010)! Lo sciopero del 28 gennaio è arrivato quando ormai non serviva più a nulla, a giochi fatti. Adesso si assiste allo stillicidio di sconfitte, dalla Piaggio di Pontedera, dove i delegati RSU FIOM sono stati abbandonati dalla FIOM nazionale, regionale e provinciale, alla ex-Bertone, dove, chiusi nei muri aziendali, i delegati FIOM hanno finito per accettare il piano Marchionne.

La rinascita del sindacato di classe potrà forse passare attraverso il riempimento degli attuali sindacati di base o di una parte di essi. I metalmeccanici FIOM avrebbero trovato in questi mesi la solidarietà dei lavoratori delle altre categorie, negata loro dalla CGIL, nei sindacati di base, che infatti hanno aderito allo sciopero del 28 gennaio, ma la FIOM pone una censura ed un silenzio totali verso questa prospettiva, e tiene prigionieri i suoi iscritti dentro la CGIL.

Solo l’apporto di nuove energie operaie consentirebbe di vincere la reticenza all’unificazione delle diverse organizzazioni sindacali di base in un organismo unico, che costituirebbe un’alternativa concreta ai sindacati di regime, capace di attrarre le forze migliori dei lavoratori di tutte le categorie, e rappresenterebbe un passo in avanti decisivo per il sempre più necessario ritorno della classe operaia alle sue grandi tradizioni: la battaglia per la sua valida difesa oggi, per la sua piena emancipazione sociale domani.
 
 
 
 
 
 
 


Crisi economica e sociale in Grecia
Fuori dai giochi parlamentari - Per la ricostruzione degli organismi indipendenti sindacali della classe
 

Il 15 giugno i lavoratori greci sono scesi in piazza per il terzo sciopero generale di quest’anno. Ad Atene durante la manifestazione l’ira contro i partiti di governo e di opposizione, contro i politici privilegiati e corrotti, si è manifestata nell’attacco al Parlamento, provocando la reazione della polizia.

Lo sciopero era per opporsi ai nuovi provvedimenti che il governo del Pasok si appresta a prendere, stretto per il collo dalla Banca Centrale Europea. L’ennesimo piano di austerità prevede tagli ulteriori a salari e pensioni e massicci licenziamenti nel pubblico impiego. Anche in Grecia i lavoratori sono costretti ad ulteriori, drammatici sacrifici, per assicurare ai “tagliatori di cedole” e alle banche di continuare ad accumulare profitti e allo Stato borghese di continuare a funzionare e a tenere in efficienza il suo apparato di repressione e di controllo della classe lavoratrice, compresi sindacati e partiti cosiddetti di sinistra, tutti nella lista dei fornitori di servizi per il Capitale.

Come soluzione alla crisi del governo, costretto ad accettare le imposizioni delle banche europee, i partiti della sinistra parlamentare, dal KKE a Syriza e Synaspismos, chiedono elezioni anticipate: questo solo per distogliere il proletariato dalla lotta ed imprigionarlo nei giochi parlamentari e nell’inganno delle elezioni.

I lavoratori greci non possono aspettarsi nulla dalle elezioni né dal teatrino parlamentare, ma solo dalla loro vera organizzazione di lotta di classe.

Nessun governo borghese difenderà i loro interessi, neppure se ne faranno parte il KKE o gli altri partiti della cosiddetta “sinistra” parlamentare. Anzi, nei momenti di crisi politica grave sono proprio questi partiti a diventare i primi difensori del regime borghese, come ha storicamente dimostrato, una volta per tutte, il ruolo svolto dalla Socialdemocrazia in Germania nei primi venti anni del Novecento, quando furono proprio i socialdemocratici a portare il proletariato alla guerra mondiale e a spezzare poi il movimento comunista rivoluzionario.

Quello del 15 è stato l’undicesimo sciopero generale dall’inizio del 2010. Ma il regime borghese è ormai attrezzato a resistere a questo tipo limitato di mobilitazioni, da una parte con il contenimento poliziesco della piazza, dall’altro “dialogando” con sindacati e partiti d’opposizione per arrivare a nuovi accordi, salvo poi rimetterli regolarmente in discussione e peggiorarli nelle settimane successive.

I sindacati greci, sia l’Adedy sia lo Gsee sia il Pame, non sono sindacati di classe decisi a difendere fino in fondo gli interessi generali del proletariato ma sono legati a doppio filo ai partiti borghesi e opportunisti, e svolgono un’azione di freno e contenimento invece che di stimolo alla lotta per la difesa delle condizioni di vita e di lavoro del proletariato, in primo luogo di quello più debole e sfruttato.

È necessaria una organizzazione sindacale che lavori senza riserve per assicurare l’unità della classe lavoratrice, per superare le contrapposizioni tra lavoratori privati e lavoratori pubblici, tra quelli garantiti e quelli precari, tra anziani e giovani, tra lavoratori attivi e disoccupati, tra manodopera autoctona e immigrata. Se la classe lavoratrice ricostituirà la sua unità sul piano della sua difesa economica potrà vincere la sua battaglia, altrimenti dovrà soccombere!

In Grecia la generosa lotta del proletariato porterà i proletari più combattivi a comprendere che non si tratta di vincere un partito o un governo ma che il nemico è il regime del Capitale nel suo complesso; per questo dovranno mettere al primo posto l’impegno per formare delle organizzazioni di classe in grado di assicurare la difesa quotidiana degli interessi dei lavoratori.

Le gravi misure che il governo greco sta imponendo ai suoi proletari sono le stesse che stanno prendendo tutti gli Stati a capitalismo avanzato. Oggi La borghesia mondiale impone al proletariato di versare lacrime e sangue per cercare di reagire al male che, come un cancro, rode il suo organismo dall’interno: la crisi mondiale di sovrapproduzione. Domani essa imporrà ai proletari di andare a scannarsi sui fronti di guerra per dare una nuova, orribile giovinezza a questo decrepito sistema economico, come è già avvenuto nel 1914 e poi nel 1939.

Non ci sono alternative all’interno del capitalismo; non ne può esistere uno più giusto, meno corrotto, più rispettoso degli uomini: la ricerca di sempre maggiori profitti non sopporta regole e potrebbe arrivare, in una corsa cieca, a distruggere l’umanità stessa.

Il rifiuto del regime del Capitale non può che essere totale e rivoluzionario. Occorre ritornare al programma genuino del comunismo rivoluzionario di sinistra, per l’emancipazione del proletariato dal lavoro salariato, al Partito Comunista Internazionale!
 
 
 
 
 
 
 
 
 

PAGINE 2-4


Gli ottimi risultati di un impersonale lavoro comunista
The excellent results that come of impersonal communist work
Genova, 21-22 maggio 2011
[RG110]


Il corso del capitalismo mondiale
Difficile impianto del comunismo in Usa (1)
La guerra dell’imperialismo in libia
Negazione comunista della democrazia [resoconto esteso]
La nostra attività sindacale
Indirizzo nei sindacati su "Il Comunista"
La questione militare [resoconto esteso]
Trame imperialiste intorno al Pakistan
Il Terzo Libro del Capitale

Abbiamo tenuto la riunione generale di primavera del partito nei giorni 21 e 22 maggio nella bella ed ampia sede della nostra redazione di Genova, che i compagni locali avevano riordinato e resa ancor più accogliente. Era presente una rappresentanza di quasi tutti i nostri gruppi, di Italia e di fuori.

Al sabato mattina si è tenuta la riunione preparatoria ed organizzativa, compito già anticipato e reso particolarmente efficace e spedito dalla fitta corrispondenza che la precede, col centro e nei gruppi di lavoro, dalla quale viene predisposto centralmente un dettagliato ordine del giorno ed una sintesi.

Le sedute del pomeriggio e della domenica sono state dedicate, con brevi interruzioni, alla presentazione dei rapporti, di argomenti assai disparati, come qui sotto si legge nei loro riassunti schematici, e predisposti da più compagni, ma che devono essere intesi come diverse “sezioni” attraversanti il medesimo programma rivoluzionario, affossatore infine del nauseante cadavere della società presente, ed anticipante in pieno la futura società del comunismo superiore. È la nostra scienza che, come tale, sola consente di scorgere nell’oggi i segni di un inevitabile e urgente domani.
 

IL CORSO DEL CAPITALISMO MONDIALE

Come di consueto aprivamo i lavori con un aggiornamento sull’andamento della economia mondiale.

– La produzione industriale

Confermando la nostra previsione alla precedente riunione, in questo inizio 2011 i grandi paesi imperialisti non sono ancora usciti dalla recessione. Le ultime cifre a nostra disposizione indicano per tutto l’anno 2010 una produzione industriale inferiore al massimo raggiunto nel ciclo precedente.

Nel quadro esposto e qui riportato la seconda colonna indica la variazione relativa fra il volume della produzione industriale del 2010 ed il massimo raggiunto prima della recessione, in altre parole quanto resta da percorrere per ritornare al massimo precedente e poter affermare di essere usciti dalla recessione. Per gli Stati Uniti, il Giappone e la Francia l’anno corrispondente al massimo, e che quindi chiude il ciclo precedente, è il 2007, mentre che per la Germania ritarda al 2008. Invece Gran Bretagna ed Italia sono in recessione addirittura dal 2001. Per la Russia abbiamo indicato due cifre: la prima fa riferimento al 2008, anno che precede l’attuale caduta della produzioni, la seconda si riferisce al massimo raggiunto dall’URSS nel 1989, prima del suo smembramento, massimo poi mai più raggiunto.


2010/max 2010/2009
USA -6,50%  6,13% 
Giappone -12,10%  15,50% 
Germania -7,60%  10,60% 
Francia -9,30%  6,40% 
Gran Bret. -14,3%  2,40% 
Italia -18,00%  5,50% 
Russia 1,80/-21,60% 9,40% 

Nella terza colonna l’incremento della produzione industriale nel 2010 rispetto al 2009. Basta uno sguardo per prevedere che vi sono poche possibilità che la maggioranza di questi paesi esca dalla recessione entro la fine di quest’anno. Bisogna tener conto del fatto che l’incremento nel 2011 sarà necessariamente più molto debole di quello del 2010, che appare assai dilatato solo perché di ripresa da una caduta molto profonda. È possibile che nessuno di questi paesi esca dalla recessione entro il 2011. Si possono già scartare con certezza Gran Bretagna, Italia, Francia e Giappone. La Russia non tornerà certo al massimo del 1989, però potrebbe superare quello del 2008. Ma nemmeno Stati Uniti e Germania è sicuro che ce la facciano.

– Il commercio

L’anno 2009 ha visto una forte caduta nel commercio mondiale. Abbiamo illustrato un quadro indicante la caduta delle esportazioni in volume ed in prezzi correnti. I paesi sono ordinati secondo il volume delle loro esportazioni nel 2007, anno di massimo.


Rango In
Volume
In
Valore
Germania 1 -16,4% -22,5%
Cina 2 -12,2% -16,0%
Usa 3 -14,8% -17,9%
Giappone 4 -27,7% -25,7%
Francia 5 - -21,0%
Italia 7 -22,6% -24,7%
Gran Bret. 8 -11,5% -23,7%
Russia 12 - -35,6%
India 25 -2,8% -20,5%

Il fatto che i principali paesi industrializzati non abbiano ancora raggiunto la loro capacità industriale del 2007 potrebbe condurre a pensare che sia lo stesso per il commercio mondiale, benché non vi sia una relazione meccanica fra questo e quella: nel corso del ciclo 2000-2007, mentre l’industria ristagnava, il commercio mondiale prendeva il volo. In effetti una parte della produzione è sempre più “esternalizzata” sotto forma di sotto-lavorazioni, provocando così gran numero di trasferimenti di semilavorati fra diversi paesi.

– Conclusioni

Stiamo andando verso una crisi del tipo 1929 ? I vari grandi centri industriali, compresa la Cina, ci sono già passati molto vicino. È stata evitata solo grazie all’intervento degli Stati e delle loro Banche centrali che hanno iniettato migliaia di miliardi di dollari nell’economia per salvare le banche e sostenere le produzioni. Secondo il sito finanziario Bloomberg, nel giugno 2009 gli Stati europei si sono accordati su di un piano di 5.300 miliardi di dollari per venire in soccorso alle banche, come dire una valore superiore a quello del PNL tedesco, che è di 3.300 miliardi di dollari!

Oggi alcuni Stati sono sull’orlo del fallimento come la Grecia e L’Irlanda, altri come il Portogallo e la Spagna non ne sono lontani. Benché si volgano verso il proletariato per imporre ulteriori misure di austerità, questo non impedirà il tracollo anche di grandi Stati come la Francia, il Giappone o gli Stati Uniti. La sola cosa che possono fare è rallentare la crescita dell’indebitamento, ma non possono fare marcia indietro, diminuire il tasso di indebitamento. Questo non fa che crescere in modo esponenziale fin dalla grande recessione del 1973. L’indebitamento degli Stati è uno dei mezzi utilizzati per assorbire la sovrapproduzione. Negli Stati Uniti il debito pubblico nel 2010 rappresenta circa il 93% del PNL e il debito privato è 2,5 volte il PNL.

I cicli di crescita e di crisi, dopo il 1973, durano in media dai 7 ai 10 anni. Nel caso il capitalismo mondiale dovesse uscire dalla presente crisi, questo passo ci porterebbe ad un anno fra il 2014 e il 2017, cioè da tre a sei anni ci separerebbero dalla prossima crisi. Allora nessuno Stato potrà più intervenire perché l’indebitamento sarà tale, malgrado tutte le misure di austerità che possano prendere, che saranno sepolti dai debiti.

Se riusciranno ad uscire dalla recessione, la crescita sarà quasi nulla; lo prova il fatto che negli ultimi due cicli la crescita media annua è ovunque precipitata, tranne che in Germania:

USA 1973-2000 2,8% 2000-2007 1,0%
German. 1973-2000 1,7% 2000-2008 2,3%
Giapp. 1973-1991 3,2% 1991-2007 0,5%
Francia 1974-2001 1,5% 2000-2007 0,5%
Gr. Bret. 1973-2007 0,8% 2000-2007 0,8%
Italia 1974-2000 1,6% 2000-2007 -0,2%

Ma può darsi anche che la crisi anticipi: dalla Cina. Da ottobre 2008 a maggio 2009 gli indici ufficiali dello Stato cinese segnano solo un rallentamento delle produzioni, ma si sa che questi indici sono gonfiati. Se controlliamo con la produzione di energia elettrica, in gran parte consumata dall’industria, emerge un quadro ben diverso: da ottobre 2008 a maggio 2009 abbiamo questa serie di incrementi rispetto all’anno prima: -3; -7,8; -7; -14,1; +4,8; -2,2; -3,6; -3,2! il che meglio raffigura la realtà e spiega perché la Banca centrale dello Stato cinese abbia dovuto sostenere l’economia a colpi di molte centinaia di miliardi di dollari e lasciar correre il credito! Ma questi fondi hanno soprattutto alimentato una frenetica speculazione immobiliare. Così oggi si presentano tutte le condizioni di una gigantesca crisi di sovrapproduzione: un aumento dei prezzi delle materia prime e dei prodotti agricoli, migliaia di appartamenti che non trovano un acquirente ed un aumento irresistibile del tasso di interesse.

Quando la crisi batterà alle porte della Cina, questa non potrà più sostenere il debito americano acquistandone i buoni del Tesoro. Lo Stato americano dovrà allora dichiararsi fallito. O costretto alla guerra.

Una nuova peggiore catastrofe, che farà impallidire il ricordo di quella del 1929, si avvicina, e presto!
 
 

DIFFICILE IMPIANTO DEL COMUNISMO IN USA (1)

Lo studio rappresenta l’inizio di un lavoro di partito sulla tradizione politica della classe operaia negli Stati Uniti, che va ad affiancare l’altro, in fase più avanzata, sulla storia delle lotte operaie e del sindacato.

Il rapporto prende le mosse da una lettera di Marx a Bolte del 23 novembre 1871, nella quale si definisce il movimento politico della classe, e la sua importanza nei confronti della classe stessa. Quando, un anno più tardi, il Consiglio Generale dell’Internazionale sarà trasferito in America, la concezione delineata nella lettera avrebbe continuato ad essere difesa dal nuovo Segretario Generale, il fedele amico e seguace di Marx Friedrich Sorge.

La posizione presa dalla frazione lassalliana, che nell’Internazionale aveva una presenza significativa e all’epoca anche molto influente, era invece molto diversa: le lotte economiche erano necessariamente condannate alla sconfitta perché, secondo la loro visione, i livelli salariali erano imposti da immutabili leggi dell’economia. Invece per i marxisti tale legge non sussiste, e l’organizzazione politica della classe operaia prevede, senza contraddizione, sia la lotta difensiva sia la conquista del potere politico.

Allora la possibilità che tale conquista si potesse ottenere in modo pacifico, attraverso le urne elettorali, era una ipotesi “non esclusa”, anche se i confini della lotta politica erano per i marxisti molto più ampi, e comprendevano molte attività anche rivendicative, come la lotta per le 8 ore. Nel 1872, il giorno dopo il Congresso dell’Aia dell’Internazionale, Marx per l’America e l’Inghilterra mantiene la possibilità che «i lavoratori possano raggiungere i loro scopi con mezzi pacifici», anche se non sottace che «nella maggior parte dei paesi del continente sarà la forza la leva delle nostre rivoluzioni; ed è alla forza che un giorno dovremo affidarci per stabilire la società del lavoro».

Ma sarebbe stato proprio negli Stati Uniti, dove il voto era stato prima che altrove esteso ad ampi strati del proletariato, che le prime crepe nella tesi ottimistica di una “via pacifica” al potere per la classe operaia avrebbero iniziato a evidenziarsi. In quanto avanguardia della classe operaia, i marxisti non tardarono a notare questo cambiamento e già nel 1876, al Congresso di fondazione del Workingmen’s Party of the United States, fu affermato che «L’urna elettorale ha da un pezzo cessato di registrare la volontà popolare, e serve solo a falsificarla nelle mani dei politicanti di mestiere». L’invito rivolto alla classe fu quindi quello di dirigere i sui sforzi verso la propria organizzazione per la difesa delle condizioni di vita e di lavoro.

Non disposti ad attenersi alle direttive dell’Internazionale, i lassalliani si separarono da questa nel 1874, per fondare il Workingmen’s Party of Illinois nell’Ovest, e il Social-Democratic Workingmen’s Party of North America all’Est. Il rapporto si è quindi soffermato sulle differenze tra lassalliani e marxisti, di diretta derivazione dalle discussioni che quasi contemporaneamente avevano luogo nel partito tedesco, e sulla critica della “Legge bronzea dei salari”.

Nel frattempo scoppiò il grande sciopero del 1877, e il successivo successo elettorale delle elezioni dello stesso anno sembrò avvalorare la prospettiva lassalliana. Nonostante l’opposizione degli ex internazionalisti, i lassalliani convocarono una convenzione straordinaria a Newark, nel New Jersey, per il 26 dicembre 1877 e conquistarono il completo controllo del partito. Era nato il Socialist Labor Party.

Non per questo i marxisti cessarono l’attività sindacale, che sfociò nella fondazione della International Labor Union, il primo tentativo per organizzare tutti i lavoratori non specializzati in un sindacato, unito ai sindacati dei lavoratori specializzati, per conquistare la solidarietà del lavoro su tutto il territorio nazionale, senza riguardo per nazionalità, sesso, razza, religione, opinione politica o colore della pelle.

Il nuovo partito, ora riorganizzato con l’obiettivo di condurre campagne “politiche”, cioè elettorali, riscosse un discreto successo alle elezioni di primavera e autunno 1878. Ma l’anno successivo la tendenza si invertì, e i dirigenti lassalliani, consci del fatto che i migliori successi si erano ottenuti solo dove il sindacato si era mobilitato, dovettero riconoscerne l’importanza per il movimento operaio.

Ma la strada era costellata di tentazioni cui i lassalliani non riuscivano a sfuggire. Una di queste fu l’alleanza con i “greenbackers”, che causò una scissione di elementi che, soprattutto a Chicago, scivolarono sulla strada dell’anarchismo.

Un’ulteriore spiegazione della scissione proveniva dalla posizione che l’esecutivo aveva preso nei confronti delle “Società di Educazione e Difesa” (Lehr und Wehr Vereine), che erano state costituite dai socialisti di Chicago e Cincinnati. Anche se queste milizie operaie, nella maggior parte composte da membri del SLP, erano state fondate a partire dal 1875, il loro numero si moltiplicò a causa della repressione seguita al grande sciopero del 1877, durante il quale le forze congiunte di polizia, milizie territoriali e esercito federale lanciarono violenti attacchi contro gli operai. A Chicago in particolare gli operai erano stati oggetto di particolare attenzione, e di brutale repressione, a causa del sostegno efficace e organizzato che avevano dato allo sciopero. Il comitato esecutivo nazionale del partito era contrario a queste organizzazioni, sostanzialmente militari, e nel 1878 fu ordinato a tutti i membri del SLP di abbandonarle.

Nel novembre 1880 numerosi membri di New York, appartenenti alle sezioni della sinistra del partito, lasciarono l’organizzazione per fondare un Social Revolutionary Club, che adottò una piattaforma modellata in gran parte sul programma di Gotha del Partito Socialdemocratico Tedesco, anche se costellata di violente frasi anarchiche. Così la piattaforma del Revolutionary Socialist Party, come presto si chiamò, invocava l’organizzazione di sindacati su principi “comunisti” e sosteneva che si sarebbe dovuto sostenere solo quei sindacati che fossero di carattere “progressivo”: un classico esempio di confusione di ruoli tra organizzazioni politiche e economiche, confusione cui i marxisti resistevano con tutte le forze. La piattaforma denunciava anche il sistema elettorale come «una invenzione della borghesia per infinocchiare gli operai» e raccomandava un’azione politica indipendente al solo scopo di dimostrare agli operai «l’iniquità delle nostre istituzioni politiche e la futilità del tentare di cambiare la società attraverso le elezioni». L’arma fondamentale da utilizzare nel combattere il sistema capitalistico era «l’organizzazione armata dei lavoratori, pronti col fucile a resistere all’usurpazione dei loro diritti». Le caratteristiche del nuovo movimento rimanevano quindi vaghe, oscillando tra socialismo di tono radicale e dichiarato anarchismo.

Il nuovo movimento anarchico, rinato su suolo americano con un atteggiamento di maggior riguardo verso i sindacati, sarebbe stato uno spazio naturale per lo sfociare della rabbia operaia e dei sentimenti rivoluzionari. Senonché, come sempre, il suo agire in modo cieco ed individuale avrebbe fatto il gioco dello Stato, che alla fine, dopo gli eventi di Haymarket 1886, avrebbe chiuso le sue tenaglie repressive sull’intero movimento operaio.
 

LA GUERRA DELL’IMPERIALISMO IN LIBIA

È seguita una descrizione dell’intervento militare della Nato in Libia: dopo tre mesi di bombardamenti quotidiani la guerra, che avrebbe dovuto risolversi in pochi giorni con la caduta dello screditato regime del colonnello Gheddafi sotto i colpi dell’aviazione della Nato in appoggio dell’avanzata terrestre delle truppe dei ribelli, sembra ristagnare senza uno sbocco prevedibile. Nonostante il completo controllo dell’aria, le truppe di Bengasi avanzano molto lentamente verso occidente e la città di Misurata, unica enclave dei ribelli in Tripolitania, resta circondata da reparti lealisti.

Il 10 giugno il portavoce del Comando della NATO ha dichiarato «i nostri aerei hanno compiuto 10.500 missioni sulla Libia, di cui la metà di bombardamento e intensificano gli attacchi su obbiettivi a Tripoli». Nello stesso giorno, il Segretario USA alla difesa Robert Gates ha rivelato, in modo a dir poco non usuale, che lo Stato tradizionale perno dell’Alleanza, cioè gli Stati Uniti, «sono esausti a causa di un decennio di guerre e dei crescenti deficit di bilancio, ma che non vedono un impegno corrispondente da parte degli Alleati» (Il Manifesto, 11 giugno) Riguardo alla Libia il Segretario alla difesa ha detto esplicitamente che «l’alleanza è a corto di bombe dopo appena 11 settimane di bombardamenti» e che «l’operazione fallirebbe se non vi fosse un continuo grosso sostegno da parte degli USA che forniscono agli alleati le armi per gli attacchi aerei»; «l’alleanza è disperatamente a corto di aerei da ricognizione e per il rifornimento in volo dei cacciabombardieri». Gates ha infine richiamato i paesi alleati alla disciplina, a «spendere di più in armamenti e a impegnarsi di più nelle varie operazioni militari».

Questa guerra è stata provocata dalla recessione economica mondiale che ha innescato la rivolta sociale e indebolito il regime libico al suo interno, anche sull’onda delle rivolte in Tunisia e in Egitto. Ma in Libia essa ha immediatamente preso una piega diversa. Intanto una larga parte dello stesso apparato di potere ha fin da subito approfittato della rivolta per ribellarsi contro Gheddafi e il suo clan, facendo leva sulla tradizionale divisione regionale tra Cirenaica e Tripolitania, e sapendo di poter contare sull’appoggio di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna. Così la rivolta è stata immediatamente svuotata di qualsiasi impronta di classe e ha lasciato subito il posto all’inquadramento di guerra, interna ed esterna. Questo ha determinato la fuga dei quasi due milioni di proletari immigrati, fuggiti in massa dal paese nel timore dei combattimenti, ma soprattutto non trattenuti da un concreto appello e offerta di solidarietà da parte del proletariato libico.

Nei primi giorni del conflitto è stato facile per Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti condurre il gioco puntando sull’intervento militare, forse già previsto da tempo. Ma, nei giorni successivi, insieme alle bombe, sono scoppiate una serie di contraddizioni tra gli interessi dei paesi coinvolti che mai come in questa occasione si sono presentati in ordine sparso, ognuno ansioso di accaparrarsi la parte più grande del bottino.

D’altronde il boccone è troppo ghiotto per non far gola a tutti; le compagnie petrolifere occidentali presenti in Libia prima della guerra erano Eni, BP, Total, Royal Shell, Exxon Mobil, Chevron, Occidental Petroleum e Statoil, oltre a diverse compagnie petrolifere asiatiche: Pertamina, Oil India, China National Petroleum e Nippon Oil. È probabile che alla fine della guerra alcune di queste Compagnie non potranno rimettere piede nel paese.

Le contraddizioni tra i diversi Stati erano evidenti fin dai primi giorni della crisi, quando il Consiglio di sicurezza dell’ONU, sotto la pressione di Francia e Gran Bretagna, ha autorizzato l’intervento «per difendere le popolazioni civili da eventuali rappresaglie del regime», prevedendo però solo un intervento aereo mentre ha escluso l’impiego di truppe di terra, forse per ottenere almeno l’astensione da parte della Russia e soprattutto della Cina che, in questo caso, dalla guerra aveva solo da perdere.

La Germania non ha voluto partecipare all’attacco, dando così una nuova dimostrazione che l’Europa, come entità politica e militare, è inesistente. Ai bombardamenti partecipano infatti aerei di Gran Bretagna, Francia, Italia e Canada oltre ad aerei telecomandati degli USA; la Norvegia, che ha aderito alla prima fase del conflitto, ha dichiarato di volersi ritirare dalla guerra a partire dal primo agosto.

Da notare che consiglieri, addestratori militari e piccoli nuclei di truppe scelte già operano a fianco delle milizie di Bengasi.

Ma la coalizione non agisce solo sul piano militare: il 9 giugno ad Abu Dhabi, durante il terzo incontro del Gruppo di Contatto sulla Libia, copresieduto dal ministro degli esteri italiano, si è puntato a risolvere il problema di come finanziare il nuovo governo di Bengasi, il cosiddetto Comitato Nazionale Transitorio, e di come potersi appropriare dei capitali libici conservati nelle banche occidentali; il Gruppo si è impegnato a cercare la strada per permettere al CNT di esportare idrocarburi e fornire garanzie per i prestiti e anche quella per «trovare un meccanismo (naturalmente del tutto legale, ndr.) che permetta lo scongelamento degli asset (cioè dei capitali, ndr) libici oppure di utilizzarli come garanzie per finanziare i crediti al CNT». A questo scopo è stato istituito un fondo internazionale di aiuti finanziari per il CNT che, da parte sua, ha garantito che tra breve inizierà ad esportare 100 mila barili di greggio al giorno. Il Ministro italiano ha subito annunciato che l’Italia è pronta a sborsare al CNT 300-400 milioni di euro in contanti e a forniture per 150 milioni di euro, utilizzando come garanzia i capitali libici congelati in Italia.

A garanzia dei loro prestiti “umanitari” i pelosi usurai del Gruppo di Contatto hanno scritto nero su bianco nel documento finale: «Il futuro governo della Libia dovrà onorare gli obblighi finanziari assunti dal CNT. Il Gruppo di Contatto lavorerà per assicurare che i crediti forniti al CNT siano assunti dal successivo governo». La guerra umanitaria verrà così pagata, come sempre del resto, dagli umanizzati, quelli che oggi sono, umanamente, bersagliati dalle bombe, fra cui il proletariato della Libia.

Intanto Washington pare abbia messo nelle mani di un suo uomo all’interno del CNT, Ali A.Tarhouni, la gestione delle finanze e del petrolio cirenaico: infatti il primo contratto per l’esportazione del petrolio libico, 1,2 milioni di barili, è stato concluso con una compagnia statunitense, la Tesoro, e una petroliera ha già trasportato le prime tonnellate di greggio negli USA. «Il sostegno americano per altre vendite da parte del Consiglio Nazionale Transitorio continuerà per sostenere maggiori introiti per il popolo libico», si legge nel comunicato del dipartimento di Stato.

Nonostante questo risultato positivo, pochi giorni dopo, il 13 giugno, la Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti ha votato una mozione che vieta l’utilizzo di fondi per la guerra in Libia, criticando il Presidente per essere entrato in guerra senza chiedere al Congresso la preventiva autorizzazione. Anche la diplomazia di Mosca si è mossa; l’inviato russo in Libia, dopo aver incontrato sia i rappresentanti del CNT sia quelli del governo ufficiale libico, non è riuscito a dare il via a trattative di pace, ma ha dichiarato che la Russia vuole vedere la Libia come uno Stato unico, indipendente e sovrano e democratico, parte integrante del mondo arabo e parte inalienabile dell’Unione Africana. Il messaggio è rivolto ai paesi occidentali potrebbero favorire la separazione della Cirenaica (che possiede l’80% del petrolio libico) dalla Tripolitania, più popolosa e meno ricca di risorse naturali.

È questa della separazione una prospettiva niente affatto esclusa. D’altronde lo Stato libico fu una creazione dell’occupante italiano negli anni Trenta del Novecento e anche all’interno del Regno, unito e formalmente indipendente dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, le tendenze secessioniste erano forti tra Cirenaica e Tripolitania, con il Fezzan troppo poco popolato per aspirare ad una forma di indipendenza.

La Cina segue da vicino la questione libica; l’11% del petrolio libico veniva esportato in Cina e ben 30.000 lavoratori cinesi erano impegnati nel paese prima dello scoppio della guerra. La Cina, tramite il suo ministro degli Esteri, sostiene che un cessate il fuoco in Libia è «priorità assoluta» per «evitare altre catastrofi umanitarie»; secondo l’agenzia di stampa Xinhua, il ministro avrebbe esortato entrambe le parti a «prendere a cuore gli interessi fondamentali del Paese e della popolazione», ricordando l’opposizione di Pechino a qualsiasi intervento militare che travalichi i limiti dettati dalle risoluzioni Onu. Pechino dunque ribadisce la sua opposizione ad un intervento militare terrestre e cerca di inserirsi nelle eventuali trattative di pace per difendere i suoi importanti interessi economici in Libia. Ma la coalizione occidentale, e gli Stati Uniti soprattutto, cercheranno di approfittare della crisi anche per ridurre l’ingombrante presenza cinese nella regione.

Il proletariato mondiale, ed in particolare quello nord africano, assiste oggi impotente alle imprese guerresche dell’imperialismo dei vari Stati e coalizioni che, spinti dalla necessità di reagire alla morsa per essi mortale della recessione economica, sono sempre più propensi all’uso della forza militare per difendere i propri interessi economici e strategici.
 

NEGAZIONE COMUNISTA DELLA DEMOCRAZIA

Il rapporto ha continuato ad analizzare l’evolversi del movimento operaio nel periodo dell’unità d’Italia e degli anni immediatamente successivi. Un suo periodo breve, ma molto importante e denso di avvenimenti se si considera evolversi e la sua maturazione in senso socialista, pur con tutti i limiti ed una traiettoria non certo rettilinea.

L’esposizione, ripartendo dal punto in cui era terminata nella precedente riunione, prendeva la mosse dal congresso operaio di Milano, del 1860, il primo a svolgersi al di fuori degli angusti confini piemontesi. Anche se questo congresso, come tutti quelli che lo avevano preceduto, ebbe una connotazione dichiaratamente interclassista, tuttavia, per la prima volta, vennero discussi anche temi specifici operai, come le condizioni igieniche delle fabbriche, le vertenze fra operai e padroni, gli scioperi, la base professionale dell’organizzazione delle società operaie, ecc. E, con grande scandalo dei rappresentanti conservatori, venne avanzata la richiesta del suffragio universale.

Il congresso iniziò i suoi lavori il 26 ottobre, il giorno stesso dell’incontro a Teano fra Garibaldi e Vittorio Emanuele, in un momento cioè, nel quale l’interesse generale era rivolto ai grandi avvenimenti politici e militari nazionali.

Questo fatto ha dato lo spunto al relatore per soffermarsi sulla impresa garibaldina, che venne entusiasticamente seguita e descritta da Engels. Ma soprattutto sono stati evidenziati i tentativi messi in atto dal governo piemontese allo scopo di far fallire la rivoluzione che, sotto la guida di Garibaldi, conquistata la Sicilia, risaliva la Calabria con l’intento di non fermarsi se non quando fosse stata raggiunta e liberata Roma; rivoluzione che, lasciata in mano alla iniziativa popolare, avrebbe potuto mettere in pericolo non solo il trono dei Borboni e quello del Papa-re, ma perfino quello dei Savoia.

Il timore del governo piemontese, che nella rivoluzione nazionale si innestasse quella sociale, non era certo ingiustificato perché nel Meridione, nel momento stesso in cui si realizzava l’unificazione, la questione sociale, come rilevava Cavour, “era entrata nel suo stadio acuto”. Molti furono i paesi in cui la plebe insorta seminò terrore e morte non solo tra i proprietari terrieri.

È un dato di fatto che all’unificazione d’Italia non si accompagnarono miglioramenti economici per i lavoratori, ma anzi, dalle Alpi alla Sicilia le loro condizioni peggiorarono sensibilmente ed immediatamente. Questa situazione provocò un risveglio generale dell’antagonismo di classe. Gli scioperi di intere categorie di lavoratori, che fino ad allora erano stati episodi limitatissimi, divennero abituali e dilagarono senza eccezione alcuna in tutte le città del nuovo Regno; e senza eccezione alcuna il governo del nuovo Regno represse tutte quante le agitazioni con la massima violenza. Lampante dimostrazione di quanto aveva previsto Carlo Pisacane quando affermava che il governo costituzionale piemontese avrebbe potuto essere addirittura peggiore della tirannide di Francesco II.

L’unità d’Italia determinò anche la nascita di sempre nuove Società operaie svincolate dal paternalismo padronale (caratteristica di quelle piemontesi) nelle quali gli iscritti non tardarono a portare, anche se in modo non sempre chiaro, gli interessi delle loro condizioni di lavoratori: sempre più spesso i problemi dibattuti riguardavano i salari, gli orari di lavoro, gli scioperi.

Le nuove Società operaie erano caratterizzate da un orientamento spiccatamente democratico e repubblicano e la loro costituzione, spesse volte, era frutto dell’attività degli aderenti al partito mazziniano. Mazzini infatti riteneva che il proletariato fosse un formidabile strumento ai fini della rivoluzione nazionale. Il suo intento era quello di organizzare i lavoratori non per un movimento nuovo ed autonomo, ma come massa di azione, come pietra basilare della rivoluzione nazionale.

Per la realizzazione di questo progetto rivendicava la necessità della formazione di una organizzazione operaia unitaria nazionale. Chiaramente Mazzini non aveva nessuna intenzione di scatenare la lotta di classe, il suo scopo era semplicemente quello di dare al suo partito di opposizione una solida e larga base operaia. Gli elementi avanzati della classe operaia non furono in primo tempo sordi a tali appelli, e in larga misura si staccarono dai liberali e dai cattolici. Però il semplice istinto di classe fino da allora faceva capire ai proletari che il programma di Mazzini non poteva bastare, non era sufficiente per risolvere i loro bisogni e che la questione istituzionale, ossia l’alternativa tra re e repubblica, non poteva avere un contenuto rivoluzionario.

Dopo i tentativi nei congressi di Firenze (1861) e Parma (1863), con il congresso di Napoli (ottobre 1864) finalmente venne approvato lo statuto delle associazioni operaie, il mazziniano “Atto di fratellanza”.

Ma un primo accenno al superamento del programma di Mazzini si ebbe già nel corso del congresso con la proposta del delegato pugliese, Bovio, che richiedeva che le associazioni operaie italiane si collegassero con «le società operaie delle diverse nazioni, acciò provvedendo a’ loro comuni bisogni, ne detti un comune regolamento, che sempre più ne avvicini a quell’unità morale fra le nazioni o popoli, ch’è la più sublime ispirazione del nostro secolo». Il riferimento alla Associazione Internazionale dei Lavoratori, appena sorta a Londra, è più che evidente, tant’è che la proposta fu accolta con immenso entusiasmo e si deliberò di far rappresentare gli operai italiani al futuro Congresso dell’Internazionale. Il 1864 fu dunque l’anno di nascita della Prima Internazionale e l’anno di unificazione delle Società operaie italiane.

Fu anche l’anno della calata in Italia di Bakunin. Bakunin, al di là delle sue millantate organizzazioni segrete internazionali pronte a scatenare ovunque rivoluzioni, nell’anno trascorso a Firenze, e nei successivi tre passati a Napoli, di fatto, non riuscì ad organizzare assolutamente niente di apprezzabile.

Furono le frange radicali del partito repubblicano che per prime compresero l’esigenza di affrontare il problema della questione sociale, ormai non più dilazionabile, ma, facendo questo, di fatto decretavano la fine del mazzinianesimo.

A Firenze, nell’agosto 1865 usciva “Il Proletario”, giornale che si dichiarava socialista, che affermava il proletariato essere classe sociale distinta dalle altre classi e con interessi separati da quelli della borghesia. “Il Proletario” inoltre fu tra i primi giornali italiani che diedero notizie sulla attività dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, ed il 12 novembre 1865 riportava il verbale del Consiglio Generale svoltosi dal 25 al 29 settembre a Londra. Quasi contemporaneamente a Napoli usciva “Libertà e Giustizia” che già nel suo primo numero affermava di voler fungere da organo internazionale di collegamento fra le associazioni italiane e l’Internazionale di Londra.

È vero che molta era ancora la confusione che regnava all’interno delle organizzazioni operaie italiane, ma tutte quante sentivano ormai il bisogno di dichiararsi socialiste e di unirsi, magari anche solo idealmente, con l’Internazionale.
 

LA NOSTRA ATTIVITÀ SINDACALE

È seguita una esauriente relazione circa gli scioperi e le vicende sindacali occorsi dalla precedente nostra riunione e fino a questa e su come il nostro partito ha descritto alla classe la reale situazione in cui si trova a lottare e sull’indirizzo generale di movimento che le ha presentato.

In Italia ci sono stati quattro scioperi a carattere nazionale: uno dei metalmeccanici, il 28 gennaio, indetto dalla FIOM, e tre di tutte le categorie, distanziati circa un mese l’uno dall’altro, l’11 marzo, il 15 aprile e il 6 maggio, indetti rispettivamente dall’USB, dalla CUB e dalla CGIL.

Il primo elemento da mettere in rilievo è che di questi scioperi solo due hanno avuto reale rango di mobilitazione generale della classe, o di una sua categoria di mestiere: quelli indetti dalla CGIL o da una sua singola federazione, in questo caso la FIOM. Gli scioperi indetti dai sindacati di base non assurgono invece al livello di una mobilitazione generale della classe lavoratrice, o almeno di una sua parte apprezzabile.

Meno peggio l’USB, grazie al suo visibile seguito in alcuni settori del pubblico impiego, e in alcune città nel trasporto pubblico locale. Ma anche in questi settori la presenza è minoritaria. Ciò, unito alla quasi totale ininfluenza nel settore privato, rende la mobilitazione indetta dall’USB lungi dall’essere un vero sciopero generale. Stesso per la CUB, con una situazione rovesciata: nessuna influenza nel pubblico impiego, presenza in alcune città nel TPL, nel settore privato ancor più minoritaria di quella dell’USB nel pubblico impiego. La debolezza della CUB, anche rispetto all’USB, è da ascrivere alla oggettiva maggiore difficoltà a svolgere un’attività sindacale anche minimamente classista nel settore privato rispetto a quello pubblico.

Questa sorta di “divisione del lavoro” fra le due organizzazioni rendeva evidente la necessità dell’unione fra le due organizzazioni: è stata tentata ma è poi miseramente fallita.

La CUB non firma, “per principio”, accordi da essa considerati peggiorativi; cosa che invece tendenzialmente fa l’USB nel Pubblico Impiego, allo scopo, afferma, di non perdere la cosiddetta “rappresentatività”, ossia essere chiamata alle trattative, i permessi sindacali, i diritti, ecc. Due opposti atteggiamenti che noi comunisti consideriamo entrambi errati, o almeno ingenui e controproducenti.

L’adesione ai due scioperi della CGIL, i numeri in piazza, lo spirito e il morale delle manifestazioni, in sintesi, la forza espressa dalle due mobilitazioni, sia da quella FIOM del 28 gennaio che da quella CGIL del 6 maggio, sono state nella misura desiderata per il sindacato di regime.

Sufficientemente elevate per confermare, da una parte, ai lavoratori che, alla fin fine, il suo compito di sindacato, seppure di regime, lo adempie, dall’altra, ai borghesi la sua influenza ed insostituibilità nell’irreggimentare la naturale combattività operaia.

Sufficientemente bassa per non far prendere troppa fiducia alla classe nelle propria enorme forza, se adeguatamente mobilitata e diretta, e da non lasciar paventare alla borghesia la possibilità che il maggior sindacato di regime d’Europa possa perda il controllo del movimento, e farsi scavalcare dalla volontà di lotta della classe.

Questa volontà di lotta, però, continua oggi ad essere molto bassa e la crisi – come già accaduto in passato – in assenza di un sindacato di classe e di un radicato partito di classe, inizialmente agisce come suo fattore depressivo. I lavoratori continuano a cullarsi nell’illusione di poter seguire il registro di questi ultimi tre decenni, affidando ai professionisti del sindacalismo di regime la difesa dei loro interessi, volendo credere in ciò che essi raccontano loro, cioè che infine dalla crisi il capitalismo possa uscire e che il futuro non sia, come è, segnato dalla inevitabile catastrofe economica e sociale – e noi confidiamo anche politica – di questo sistema sociale.

D’altro canto i lavoratori, aderendo numerosi alle mobilitazioni della CGIL mentre ignorano quelle dei sindacati di base, agiscono così non perché condividono l’indirizzo politico generale, affatto borghese e sovente antioperaio, della CGIL, ma perché ritengono più utile accodarsi a quell’organizzazione sindacale che sanno essere in grado di mobilitare meglio l’intera classe, rifuggendo invece manifestazioni che appaiono, e sono, assai più atti di testimonianza che scioperi.

Qui appare con ancor maggiore evidenza quanto è dannosa la condotta dei sindacati di base d’indire scioperi separati sia fra di essi (USB da un lato, CUB dall’altro), sia dalla CGIL. La sana condotta sindacale classista, da noi insistentemente richiamata nei volantini che abbiamo distribuito, mira al miglior utilizzo delle forze dalla classe disposte alla lotta, a maggior ragione quando esse sono, come oggi, non grandi, e punta quindi al massimo di unità d’azione dei lavoratori. I sindacati di base dovrebbero aderire agli scioperi della CGIL, ma per le loro piattaforme rivendicative e le loro parole d’ordine, che sono opposte a quella della CGIL, ed gridarle in piazza ai tanti lavoratori che seguono il sindacato di regime, spingendoli al confronto e ad una scelta anche organizzativa e di milizia.

Il partito è intervenuto, il 28 gennaio allo sciopero dei metalmeccanici della FIOM a Firenze, Genova e Torino; il 15 aprile allo sciopero della CUB, a Milano; il 6 maggio allo sciopero generale CGIL a Firenze e Milano. Da aggiungere la presenza con la vendita della nostra stampa per il Primo Maggio a Torino e Napoli. I nostri compagni inglesi erano presenti con un manifestino a Londra allo sciopero generale contro i tagli del governo il 26 marzo. Il partito si è presentato con volantini redatti per ciascuna occasione, nei quali si spiegava la situazione attuale di debolezza della classe come risultato del corso generale del capitalismo negli ultimi decenni, del ruolo dell’opportunismo politico e sindacale, e della prospettiva futura, quadro generale nel quale si inseriscono le questioni sindacali contingenti.

In Italia il padronato e i sindacati di regime oggi manovrano per sferrare un altro duro colpo alla classe lavoratrice: la distruzione del contratto nazionale di lavoro. Questo obiettivo è nell’agenda padronale da anni, ma a volerlo imporre, sotto la spinta della crisi, è stata la FIAT, coi suoi accordi fuori del contratto metalmeccanici prima a Pomigliano e poi a Mirafiori, rispettivamente nel giugno e nel dicembre dell’anno passato. In questa lotta i lavoratori si trovano contro sempre lo stesso fronte composto dai padroni, dal loro Stato e dal loro governo di turno, dai partiti borghesi di destra e di sinistra, e dai sindacati di regime.

All’interno dello schieramento sindacale solo la sinistra CGIL, e in particolare la FIOM, affermano senza troppe ambiguità di voler ancora difendere l’istituto del contratto nazionale di categoria.

La debolezza dell’ala sinistra del sindacalismo di regime, da trent’anni addetta a recuperare i lavoratori che tendono ad organizzarsi fuori di esso, è frutto inevitabile dell’avanzare della crisi capitalistica. Si restringe sempre più lo spazio vitale per questo sindacalismo che pretende definirsi di classe pur predicando la conciliabilità degli interessi fra lavoratori e padronato. Più avanza la crisi, più duro si fa l’attacco contro i lavoratori, più resta spazio per due soli tipi di sindacalismo: o quello apertamente filo-padronale, o quello di classe.

Anche le ultime vicende sindacali confermano che la sinistra CGIL, la FIOM, non può cambiare la sua natura di regime divenendo un organizzazione classista. L’opposizione all’attacco padronale è stata meramente di parole, non avendo organizzato in oltre sei mesi, da giugno a dicembre 2010, un solo sciopero generale. I lavoratori di Pomigliano hanno affrontato l’attacco da soli. Così pure, sei mesi dopo quelli di Mirafiori. Lo sciopero è arrivato il 28 gennaio, quando ormai non serviva più a nulla.

Ma anche fosse stato organizzato prima non avrebbe ugualmente sortito alcun effetto perché la FIOM indice gli scioperi esattamente come la CGIL, non come una prova di forza per piegare il padronato, ma come una democratica manifestazione d’opinione. Sicché lo sciopero del 28 gennaio non è stato affatto l’inizio di chissà quale movimento di lotta, come fingevano di augurarsi Landini & C., ma la chiusura del sipario sullo commedia “la FIOM sulla barricata”.

Aggiustatasi la coscienza con lo sciopero di categoria la FIOM ha continuato sul solito registro la propria azione sindacale, mantenendo separate le lotte dei lavoratori ciascuna nella singola azienda e stabilimento. Nessuna battaglia generale è condotta in difesa del contratto nazionale. Così isolate si consumano una dopo l’altra le sconfitte.

Fa eccezione la lotta in Fincantieri dove gli operai hanno ottenuto il blocco del piano industriale che prevedeva la chiusura di due cantieri e il licenziamento di 2.500 lavoratori. Ma questa vittoria è solo parziale, e se da un lato può dare coraggio ai lavoratori, dall’altro, per l’essere stata condotta dietro la parola d’ordine della “difesa del cantiere”, li espone al prossimo attacco, che non tarderà a venire, e che si presenterà nella forma di pretendere più lavoro per meno salario proprio “in difesa del cantiere”.

La lotta da condurre non è in difesa del posto ma del salario, cioè per il salario ai lavoratori licenziati. Questa rivendicazione è assai più vicina alle esigenze attuali dei lavoratori di quella della “difesa del posto”. I cantieri navali infatti non saranno chiusi, ma resteranno presto senza lavoro. I dipendenti diretti Fincantieri riceveranno circa 800 euro di cassa integrazione, come da mesi già fanno molti di loro. Ma la maggior parte della forza lavoro dei cantieri invece, gli operai dalle ditte in appalto, sarà licenziata senz’altra tutela.

Emblematiche sono state le vicende della Piaggio di Pontedera e della ex-Bertone di Grugliasco (To). Alla Piaggio la dirigenza aziendale ha presentato un piano di riduzione degli operai. La RSU FIOM lo ha respinto, ma è stata abbandonata dalla FIOM provinciale, regionale e nazionale che si sono rimesse al risultato di un referendum consultivo. La conta dei voti individuali nel segreto dell’urna sarà sempre uno strumento contro i lavoratori e la loro lotta, sia esso adoperato direttamente dal padrone, come a Pomigliano e a Mirafiori, o invece dal sindacato di regime, come a Pontedera.

Alla ex-Bertone, ora Officine Automobilistiche Grugliasco e di proprietà FIAT, si è verificata la situazione rovesciata. Gli operai sono da anni in cassa integrazione. La loro debolezza è perciò massima. L’azienda ha richiesto l’applicazione dello stesso contratto applicato a Pomigliano e Mirafiori, in deroga al contratto nazionale metalmeccanici, quale unica alternativa alla chiusura della fabbrica. Gli operai e la stessa RSU FIOM hanno pragmaticamente accettato l’accordo. Né si può biasimare questa scelta, una volta che la questione diviene un problema dei lavoratori della singola azienda, lasciati soli ad affrontare il ricatto della disoccupazione. Prima a Pomigliano, poi a Mirafiori, poi alla ex-Bertone i lavoratori sono stati mandati alla lotta, e all’inevitabile sconfitta, uno stabilimento per volta. Ci voleva tanto a capire che da subito, cioè dal referendum di Pomigliano (del giugno 2010) era necessario mobilitare unitariamente tutti gli stabilimenti del gruppo FIAT e tutta la categoria dei metalmeccanici? Ma evidentemente il punto non è l’incapacità di capire quale è la corretta impostazione della lotta, ma a quale politica ha aderito il sindacalismo di regime, la CGIL e la stessa FIOM, in modo definitivo, irrevocabile.

Fin dal giugno 2010 la FIOM ha iniziato a richiedere alla CGIL l’indizione di uno sciopero generale di tutte le categorie. Ma questa richiesta, risuonata alla manifestazione nazionale dei metalmeccanici a Roma sabato 20 ottobre, con Epifani sul palco simbolicamente affiancato da Landini e Cremaschi, è servita a nascondere il fatto che era la stessa FIOM che nel frattempo si rifiutava di indire lo sciopero generale della categoria, giunto appena il 28 gennaio.

Ma anche la CGIL ha fatto mostra di saper ascoltare le richieste della sua sinistra, della sua base, e ha finalmente organizzato lo sciopero generale venerdì 6 maggio. Anche qui un capolavoro di tempistica, dal punto di vista del sindacalismo di regime, visto che lo sciopero arrivava ad acque completamente raffreddate, disinnescata la possibile esplosione della lotta sull’onda degli attacchi di Pomigliano e Mirafiori. Lo sciopero, atteggiato nel fatuo anti-berlusconismo alla moda e che non costa nulla, non aveva rivendicazioni immediate se non un vago richiamo a una “maggiore giustizia sociale” e di fatto è servito a sostenere la CGIL nella sua attività concertativa con Confindustria con cui sta preparando un nuovo Patto sociale il cui piatto forte è proprio la distruzione del contratto nazionale di lavoro.

La CGIL prosegue la sua strada in coerenza con la sua politica di sempre. Volendo conciliare la difesa dell’economia nazionale con la difesa dei lavoratori non può far altro che cogestire i peggioramenti alle condizioni di vita e di lavoro, costantemente e in maniera crescente richiesti dal capitale per combattere la sua crisi e restare in piedi. Il suo scopo non è far crescere la forza della classe lavoratrice per opporsi agli attacchi, perché così facendo comprometterebbe la salute dell’economia nazionale. Ciò condurrebbe inevitabilmente al dover prospettare ai lavoratori un futuro oltre il capitalismo. Questo è negato e alla classe lavoratrice si ripete le litania: non c’è alternativa alla società presente, senza capitalismo e capitalisti gli operai morirebbero tutti.

Lo scopo della CGIL quindi è organizzare scioperi e manifestazioni nella misura e nei modi utili a tale scopo: centellinati, impostati a smorzare ogni istintiva propensione alla combattività dei lavoratori, non atti di un generale movimento di lotta che potenzialmente possa volgersi contro il capitalismo, ma singoli eventi che si devono esaurire in se stessi.
 

INDIRIZZO NEI SINDACATI SU “IL COMUNISTA”

Come primo utilizzo della recente nostra riproduzione delle collezioni complete degli organi a stampa della nostra corrente di Sinistra, il compagno ha dato una prima lettura dalle pagine sindacali de Il Comunista, organo quotidiano ufficiale del Partito Comunista d’Italia del 1921 e 1922. Delle quattro pagine di ogni numero, una era dedicata alle lotte operaie nel mondo ed una alla vita sindacale in Italia. In quest’ultima troviamo, fra l’altro, molti articoli sul Fronte unico dal basso, nostra parola d’ordine in campo sindacale allora ed oggi.

Viene detto chiaramente che non si tratta di un ripensamento riguardo alla scissione dal Partito Socialista, al contrario la separazione dai riformisti e dai massimalisti è condizione indispensabile per realizzare l’unità tra i proletari su posizioni di classe. Il Fronte unico sindacale aveva appunto questo scopo, e fu quindi osteggiato dai socialisti, oppure formalmente accettato come nell’Alleanza del lavoro, ma al solo scopo di riportare i proletari sotto la guida dei riformisti.

In un articolo del 9 febbraio 1922 dal titolo “Fronte unico... socialista”, si rende evidente invece la concezione di unità dei socialisti, riportando un manifesto uscito a Piombino, roccaforte proletaria, e firmato da un prete, un frate, un anarchico, 32 socialisti ed il segretario dei Fasci di combattimento. Il manifesto faceva appello «ad ogni cuore palpitante di santo amore fraterno (...) tutti in stretto abbraccio attivansi a difesa del loro Paese (...) Scendiamo con bandiera bianca, in mezzo a voi, o cittadini piombinesi di tutte le classi, di tutte le condizioni, di tutte le età, a porgervi il simbolico ramo di olivo per il supremo interesse morale ed economico di questa nostra Piombino».

Nel numero del 10 febbraio nell’articolo titolato “L’alleanza del lavoro” si dice che il partito è favorevole a tale progetto di unità proletaria in campo sindacale; pertanto rifiutavamo un invito partito dal Sindacato Ferrovieri ad una riunione, seppure avente per tema l’Alleanza del lavoro, insieme a Partito Socialista, Partito Repubblicano e Unione Anarchica. Veniva tentata una operazione in parte analoga a quella che avrà luogo nel 1945 con la formazione della C.G.I.L. ad opera dei partiti borghesi.

Troviamo in seguito molti articoli sull’Unione Sindacale Italiana, sindacato proletario composto in gran parte da anarchici e sindacalisti rivoluzionari. Erano apprezzati da noi comunisti gli atteggiamenti di classe di questo sindacato e la sua adesione all’Internazionale dei Sindacati Rossi. Dovevamo però poi criticare aspramente le posizioni di Borghi e di altri anarchici, che divennero maggioritarie in tale sindacato e ne fecero una sorta di sindacato di partito in mano all’Unione Anarchica, e richiedevano l’uscita dell’U.S.I. dall’I.S.R.

Continuammo ad appoggiare la minoranza formata in gran parte da sindacalisti rivoluzionari, che restava saldamente su posizioni di classe e voleva restare nell’I.S.R., anche dando indicazione ai comunisti là presenti di restare a far parte di tale minoranza, senza creare una frazione comunista all’interno di quel sindacato. In altro articolo si invitavano anche i comunisti eventualmente presenti nella U.I.L., sindacato giallo per eccellenza, a non uscirne, se possibile, ma a tentare di portarlo nell’Alleanza del Lavoro, a contatto quindi con il grosso del proletariato.

Ribadivamo sempre il nostro principio per cui nei sindacati non chiediamo ai proletari di aderire al programma politico comunista, pur non rinunciando noi a propagandarlo, ma chiediamo l’adesione ad un programma di classe senza il quale il sindacato tradisce la propria ragione di essere.

Ci sono poi vari articoli sulle lotte dei metallurgici milanesi e torinesi che ricordano i nostri giorni. Sono condannate le dichiarazioni del riformista Buozzi che sosteneva che la direzione delle lotte doveva restare alla F.I.O.M., e non all’Alleanza del Lavoro, in contrasto con la necessità di ampliarle il più possibile.

Davanti alla richiesta degli industriali di riduzione delle paghe Buozzi chiedeva che i lavoratori decidessero con un referendum. Leggiamo in un articolo titolato ”L’avanguardia metallurgica” del 25 maggio: «L’onorevole Bruno Buozzi, segretario generale della organizzazione metallurgica, dice ora di accettare l’azione generale e parla... di uno sciopero generale di mesi, cioè fino all’esaurimento delle forze degli operai e al riconoscimento che i padroni possono resistere più a lungo».

Scriviamo in un articolo del 27 maggio titolato “Rottura delle trattative con la F.I.A.T.”: «È chiaro che se le condizioni proposte dalla F.I.A.T. fossero accettate esse verrebbero in breve estese a tutte le altre officine e darebbero il modo agli industriali, dopo sei mesi e forse anche prima, di cercare di peggiorare ancora maggiormente le condizioni delle proprie maestranze».

Il numero del 1 giugno riporta una lettera del comm. Agnelli a Bruno Buozzi da cui leggiamo: «L’industria rappresenta oggi un interesse più grande per gli impiegati e gli operai che vi trovano lavoro, che non per il capitale che vi è investito (...) Il richiedere agli operai un sacrificio, nel momento attuale, è una dura crudele necessità alla quale hanno dovuto sottostare gli operai degli altri paesi le industrie dei quali si trovano per altro in condizioni più facili di quelle dell’industria italiana».

Nel numero del 2 giugno riportiamo alcune righe del nostro giornale di Torino “L’Ordine Nuovo”: «I comunisti insistono nel loro punto di vista, che le vertenze di carattere salariale debbono soprattutto essere impostate e risolute sulla base del diritto degli operai alla vita. A prescindere dalle condizioni dell’industria, gli operai debbono affermare il loro sacrosanto diritto a non morire di fame».

Nel giornale del 6 giugno scriviamo: «Noi comprendiamo che ogni singolo industriale desideri tornare al normale andamento della sua officina, ma sappiamo altresì che ciò non avverrà sino a quando non si rinuncerà da parte di essi ad effettuare riduzioni di salario, ed a voler fare a meno di un contratto collettivo sotto la egida della organizzazione operaia».

E pensare che, nella polemica di quart’ordine di oggi, saremmo noi comunisti a ripetere le stesse litanie da decenni e decenni.

Evidentemente capitalisti e riformisti hanno un grande avvenire... dietro le spalle.
 

LA QUESTIONE MILITARE

Lo studio sul centrale argomento è passato al teatro delle guerre di indipendenza in Italia.

Fra le molteplici cause del ritardo con cui l’Italia giunge ultima in Europa alla sua unificazione, per quanto riguarda l’argomento militare, due sono le più importanti: La prima è sua sistemazione dopo il Congresso di Vienna del 1815, con la quale si intendevano realizzare Stati cuscinetto, e quindi eserciti più grandi in funzione antifrancese. Il Regno di Sardegna fu ampliato con la Repubblica Genovese e col suo porto. Il secondo è la presenza del forte Stato Pontificio, che diagonalmente tagliava la penisola in tre parti, lasciando nel meridione il Regno delle Due Sicilie.

Differente è lo sviluppo economico nelle varie regioni, ma in molte di esse è già impiantata un’agricoltura ben sviluppata, ormai condotta su basi capitalistiche, e le prime industrie tessili e meccaniche, con la presenza di una classe operaia salariata. In Toscana la mezzadria ostacola la diffusione dell’agricoltura capitalistica. Nello Stato della Chiesa l’agricoltura è condotta su basi estensive semi feudali. Lo scarso sviluppo della rete ferroviaria e l’assenza di accordi doganali fra gli Stati italiani, premesse per la costituzione di un ampio mercato nazionale, ne bloccano lo sviluppo commerciale.

Abbiamo letto in riunione il pesante giudizio di Marx su casa Savoia, la sua ambiguità e il doppiogiochismo in politica.

L’elezione del nuovo Papa Pio IX, nel 1846, e le sue dichiarazioni di sapore liberale, spingono anche gli altri regnanti italiani sulla via delle riforme democratiche e si rafforza il partito neoguelfo che propugna un processo di unificazione nazionale sotto la guida papale.

I moti rivoluzionari in Europa del 1848 spingono alla rivolta anche grandi città italiane. La prima è Palermo, e la Sicilia tutta insorse, da sola scacciò l’esercito borbonico fin oltre lo Stretto, proclamò la repubblica e ripropose la Costituzione del 1830. Poi insorsero le città sotto dominio asburgico tra cui Venezia e Milano, che si liberano da sole delle truppe occupanti.

I gravi errori politici e militari della neonata Repubblica Veneta furono le basi della sua sconfitta: il partito rivoluzionario nella città lagunare sprecò la forte spinta popolare, non strinse alleanza con le altre città che si erano sollevate, preferì rimanere isolato e fu così poi facile vittima. Lasciò che la debole guarnigione nemica si ritirasse, con le armi, sulle sue navi mentre avrebbe dovuto trattenerla e scambiarla con gli ufficiali veneziani e veneto-dalmati impiegati nella repressione asburgica in Ungheria e Polonia. Non vennero neppure richiamate le navi militari, le più importanti, nei porti di Trieste, Fiume e Pola, rinunciando così a mezzi e uomini di maggior esperienza.

Milano si liberò dopo cinque giorni di impari combattimenti con la forte guarnigione di Radetzky che, temendo di rimanere imbottigliato nella città, preferì ritirasi nel complesso delle quattro fortezze, il Quadrilatero, vista anche la probabile necessità di correre in soccorso di Vienna in sommossa; la sua fu una precisa manovra strategica più che una sconfitta.

La parte moderata sabauda premeva su re Carlo Alberto perché corresse in aiuto di Milano e si mettesse così alla testa del movimento di unificazione nazionale. La scelta fu presa non per ardore risorgimentale ma come scelta del “male minore”, costante in tutte queste vicende, cioè muoversi per impedire che il vitale movimento repubblicano prendesse il sopravvento e spazzasse via, una dopo l’altra, le varie monarchie. Per la stessa ragione queste concessero minime aperture: la figura e della carriera politica di Carlo Alberto è il simbolo di tutti i regnanti italiani del tempo.

I fatti d’arme furono minimi: l’esercito piemontese entrò in una Milano liberata, prosegui verso il Mincio con piccole vittorie tra cui quella di Goito e si attardò poi per tre settimane nell’attraversamento del fiume. Disponeva grosse forze nell’inutile assedio della fortezza di Peschiera dando così tempo ai rinforzi austriaci di unirsi a Radetzky, che aveva libera la strada del Brennero per l’Austria. A sostegno dell’esercito sabaudo furono subito inviati forti contingenti da Granducato di Toscana, Regno borbonico, Stato Pontificio, più molti volontari da tutte le regioni.

Dopo i primi entusiasmi, però arrivarono le difficoltà: Pio IX richiamò le truppe, come poi subito fece il granduca di Toscana e il re delle due Sicilie. La più parte delle truppe, tra cui i migliori generali, però non obbedirono all’ordine e si misero a disposizione dell’esercito piemontese. Falliva così il sogno sia dei neoguelfi sia quello di un’alleanza federale dei principi italiani e rimaneva il solo Carlo Alberto, il “re tentenna”.

Il giorno successivo il ritiro papale, il 30 aprile 1848, l’esercito sardo ottenne una buona vittoria a Pastrengo ma per i dissapori tra Stato maggiore e Carlo Alberto non si inseguì il nemico oltre l’Adige tagliandogli la strada e i ponti della strada del Brennero commettendo un grave errore. Il re preferì col grosso delle truppe dirigersi su Verona, quasi in reale corteo, contando su una sollevazione della città, che però non ci fu. Approfittando della generale confusione nel campo italiano, Radetzky sferrò un’improvvisa offensiva, bloccata in tempo a Curtatone e Montanara dai volontari toscani permettendo così ai piemontesi di vincere una seconda volta a Goito.

Radetzky, ricevuti i rinforzi richiesti, approfittò di questa situazione e di un errore di disposizione delle truppe piemontese sferrando a Custoza una battaglia che si risolse in un suo modesto vantaggio. La battaglia, durata tre giorni con alterne situazioni, si concluse col completo disarticolamento del fronte piemontese che decise per la ritirata su Milano, per poi ritirarsi ancora e proteggere le sue frontiere del Ticino. Carlo Alberto, nottetempo, inseguito da qualche fucilata dei milanesi infuriati, abbandonò la città disarmata e impoverita delle riserve delle banche lasciando il generale Salasco a firmare un armistizio. Questo fu conveniente per entrambe le parti: i piemontesi dovevano abbandonare fortezze e magazzini occupati ma senza dover versare alcuna indennità. Radetzky, calmato il fronte con il Piemonte e forse la Francia, poteva occuparsi di riprendere il controllo nel Lombardo-veneto e dare un sostegno per la ripresa di Vienna.
 

TRAME IMPERIALISTE INTORNO AL PAKISTAN

La relazione sulla guerra in Asia centrale e sulla crescente tensione interimperialista nell’area non poteva non commentare l’episodio recente della “spettacolare” uccisione di Bin Laden che, ricercato da quel lontano 11 settembre, sembrava un fantasma. È stato trovato in una villa in Pakistan, ostaggio e prigioniero dei servizi pachistani, che, probabilmente, quando è loro convenuto, lo hanno consegnato agli americani. Il due maggio scorso, a seguito di una incursione in suolo pachistano, nella città di Abbotabad, 60 chilometri a nord di Islamabad, il “principe del terrore” sarebbe stato ucciso da una specialissima squadra di forze speciali. Per motivi non spiegati i giovanotti, mutati da guastatori a necrofori, ne avrebbero trascinato il cadavere fino all’elicottero (quello che non si è rotto) per deporlo poi sul ponte di una portaerei in navigazione al largo, e da questa in tutta fretta seppellito in mare. Se non si parlasse di morti verrebbe da ridere.

A noi marxisti non interessa entrare negli avventurosi particolari, forniti in abbondanza per istupidire le masse, alle quali debbono sfuggire le questioni principali. In realtà l’azione americana potrebbe essere stata un teatrino montato ad arte, Osama vivrebbe in un lussuoso albergo in Arabia Saudita, oppure, forse più verosimilmente, sarebbe morto già da anni. C’è chi sostiene, fra gli specialisti della intelligence, che Al Qaeda non è mai stata oltre che una minima cerchia di dilettanti della congiura, e il mito romantico del suo capo creato ad arte, e telecomandate le sue apparizioni virtuali. La scrupolosa amministrazione americana sarebbe stavolta riuscita a resuscitarlo.

All’interno americano, anche l’altro mito, dell’opposto figurante, quello del presidente Obama “negro e buono”, aveva bisogno d’essere resuscitato, in caduta libera a causa delle sue inevitabili mancate promesse elettorali rivolte agli operai. E a luglio dovrebbe iniziare il ritiro delle truppe “regolari” dall’Afghanistan. Tutto, per un attimo, è passato in secondo piano, la guerra in Libia, l’immenso deficit statunitense, ma anche lo sciopero generale che una parte di lavoratori americani inizia a richiedere con insistenza.

Fuor di commedia, quel che è invece utile capire è l’evoluzione della guerra e i mutamenti dei rapporti tra i vari imperialismi in lizza: Stati Uniti, Cina, Russia, Inghilterra, Germania, e tra i grandi e popolosi Stati dell’area: Afghanistan, Pakistan, Iran, India. Queste le domande, come evolverà la guerra nel delicato baricentro afghano-pachistano? Gli Usa si ritireranno dall’Afghanistan? Con quali modalità? E soprattutto, perché ora?

Non vi è una sola ragione, ma di sicuro la principale è far fronte ai gravi problemi interni che affliggono gli USA, riguardanti principalmente la pericolante economia del paese, che non si è certo risollevata dalla crisi finanziaria, i cui presupposti sono più imponenti di prima, mentre la produzione non riesce a riprendere vigore.

Lo scorso venerdì 8 aprile il Congresso, approvando la finanziaria 2010-2011, che taglia soprattutto l’assistenza sanitaria, ha evitato, per il momento, la bancarotta dello Stato. I tagli colpiranno soprattutto milioni di proletari, aumentando altresì la disoccupazione, che ha già raggiunto valori molto elevati. Ma la finanziaria ha tagliato circa 80 milioni di dollari, niente in confronto al debito federale che si aggira intorno ai 14 mila miliardi di dollari, vicino al tetto massimo, fissato a 14.294. Lo scorso maggio il segretario al Tesoro americano, paventando un default del Paese, ha invitato il Congresso a alzare urgentemente il tetto «per proteggere la credibilità e il credito degli Stati Uniti ed evitare catastrofiche conseguenze».

La verità è che, in questi anni, la crisi economica mondiale del capitalismo si è dimostrata una minaccia ben più grave profonda e concreta del tanto reclamizzato “terrorismo internazionale” di stampo islamico. Le rivolte che stanno attraversando il Nordafrica e parte dell’Asia lo dimostrano: in queste il ruolo dell’integralismo islamico, e del santino Osama, è stata pari a zero.

Osama era l’utile nemico non solo all’imperialismo Usa, per il quale ha rappresentato il terrorismo fondamentalista islamico, in sostituzione dell’imperialismo rivale e capitalista russo, ma al capitalismo in generale oramai in crisi generale. Un nemico che ha contribuito ad allontanare la prospettiva della lotta di classe alimentando il fantasma di un conflitto tra civiltà.

Inoltre l’esistenza in vita di Osama Bin Laden forniva la ragione formale della guerra in Afghanistan e la permanenza delle truppe USA in territorio afgano e pachistano, uno dei centri strategici e nevralgici del mondo, vicino al suo baricentro demografico ed ormai economico.

Ciononostante, col “nemico numero uno” morto e in fondo al mare, il Congresso americano ha rinnovato la dichiarazione di guerra al mondo, che autorizza l’impiego delle forze armate in qualunque conflitto, senza confini e senza nemico. È necessario poter continuare la guerra anche senza dover cercare fantasmi nelle grotte. Questa nuova dichiarazione viene ad aggiornare quella approvata il 18 settembre 2001, davanti alle macerie fumanti delle torri gemelle. A differenza del vecchio testo, che in nome del diritto di autodifesa autorizzava l’uso della forza militare “contro nazioni, organizzazioni e persone responsabili degli attacchi lanciati contro gli Stati Uniti (...) al fine di prevenire nuovi atti di terrorismo”, il nuovo prefigura una guerra senza fine, senza confini, in attesa di un nuovo macello mondiale, unica salvifica soluzione alle malattie incurabili del capitalismo.

Gli Stati Uniti difficilmente potranno ridurre drasticamente i loro impegni militari all’estero perché, al di là anche dei delicati equilibri internazionali, la necessità della guerra è vitale per il capitalismo a stelle e strisce e per tutti i capitalismi, grandi e piccoli, vecchissimi e giovanissimi.
 

IL TERZO LIBRO DEL “CAPITALE”

Proseguendo nella trattazione del tema capitalismo e finanza, a Genova è stato esposto il capitolo 29 del III Libro del Capitale che tratta del capitale bancario.

La tesi di base qui espressa è che il capitale bancario, cioè quanto è detenuto in conto capitale dal sistema bancario, consta in larga parte di meri segni di valore.

Definito cosa si deve intendere per capitale bancario, si enuncia un principio fondamentale: il capitale produttivo di interesse ha una forma tale che qualunque reddito monetario determinato e regolare si mostra come l’interesse di un capitale, sia che provenga effettivamente da un capitale o no. Cioè, il reddito monetario si trasforma prima in interesse, poi, da questo, si individua il capitale da cui deriverebbe. Il processo mistificato rovescia il percorso fisico e logico. È una concezione puramente illusoria; salvo il caso in cui la fonte del reddito sia un titolo di proprietà, un credito, un effettivo elemento di produzione e sia direttamente convertibile o assuma una forma che la renda tale.

La formazione di tale capitale fittizio è chiamata capitalizzazione; si capitalizza ogni reddito regolare e periodico. Si calcola il capitale dividendolo il reddito annuo per il saggio medio di interesse, come se fosse un provento ricavato da un capitale dato in prestito. Un reddito di un milione annuo, se il tasso di interesse è del 5%, si figura come prodotto da un capitale di 20 milioni.

Svanisce in questo modo ogni traccia di un rapporto con l’effettivo processo di valorizzazione e si consolida l’idea che rappresenta il capitale come un automa che si valorizza di per sé stesso.

Anche nei casi in cui il titolo di credito non rappresenta un capitale illusorio, il valore di questo titolo è ancora puramente illusorio. Infatti il sistema del credito produce titoli di credito considerati titoli di proprietà che rappresentano una quota di un capitale; le azioni delle società produttive rappresentano capitale effettivo, cioè il capitale investito e già operante in queste imprese, oppure la somma monetaria anticipata dagli azionisti (anche se non si esclude che spesso possano rappresentare delle semplici truffe).

Ma, di questa duplice esistenza del capitale, una volta espresso nel valore del titolo di proprietà e un’altra nel capitale effettivamente investito, la reale è unicamente quella nella seconda forma, e l’azione non è altro che un titolo di proprietà in relazione al plusvalore che verrà realizzato da questo capitale.

In periodi di difficoltà per il mercato monetario questi titoli subiranno una duplice riduzione di prezzo: sia perché aumenta il saggio di interesse, e quindi diminuisce il valore capitale fittizio che lo genera, sia perché vengono gettati in massa sul mercato per essere convertiti in denaro. E questo accade tanto per titoli con proventi assicurati, come i titoli di Stato, che per azioni relative ad un capitale reale che risente di una perturbazione del processo di riproduzione nell’impresa industriale; in questo caso si aggiunge una terza svalutazione.

Ma il punto cruciale di tutto il capitolo è così sintetizzato: «In quanto la diminuzione o l’aumento di valore di questi titoli sono indipendenti dal movimento di valore del capitale reale che essi rappresentano, la ricchezza di una nazione non varia in conseguenza di tale diminuzione od aumento».

In tutti i paesi a produzione capitalistica si genera una massa enorme di cosiddetto capitale produttivo di interesse, o moneyed capital, che prende questa forma. Per accumulazione di capitale monetario si deve intendere l’accumulo di questi diritti sulla futura produzione di plusvalore, ovvero l’accumulo, al prezzo di mercato, del valore capitale illusorio di questi diritti.

Una parte del capitale bancario è investita in questi cosiddetti titoli fruttiferi. Si tratta di una parte del capitale di riserva della banca che non interviene nelle sue effettive operazioni.

Ma la parte più importante è costituita da cambiali, cioè promesse di pagamento; per chi le acquista queste cambiali rappresentano titoli fruttiferi, cioè le paga al di sotto del loro valore, detraendovi l’interesse per il tempo che manca alla loro scadenza – operazione detta “di sconto”.

Infine l’ultima parte del capitale bancario consiste nella sua riserva monetaria, aurea o cartacea.

I depositi non vincolati sono sempre a disposizione dei depositanti e sono sottoposti ad una continua fluttuazione: ritirati dagli uni, depositati dagli altri e a loro massa oscilla poco attorno ad un valore di base.

Il fondo di riserva delle banche è costituito da denaro, esistente sotto la forma di tesoro, che normalmente si compone di carta, di semplici buoni sull’oro, che non hanno però un valore intrinseco; la maggior parte del capitale del banchiere è dunque puramente fittizia e consiste in titoli di credito, titoli di Stato e azioni. Il valore monetario rappresentato da queste carte che giacciono nelle casseforti delle banche è fittizio e si muove indipendentemente dal valore del capitale effettivo che questi titoli, almeno in parte, rappresentano.

Abbiamo seguito questa trattazione che Marx sviluppa del capitale bancario nella sfera della circolazione di prestiti e dei depositi, ed abbiamo visto che nel sistema creditizio tutto si raddoppia e moltiplica come in una chimera.

Ma lo stesso accade anche per il fondo di riserva, dove ci si aspetterebbe di trovare qualcosa di solido, di concreto.

Il paradigma che Marx sta analizzando è relativo al banking departement della Banca d’Inghilterra, la struttura, la più evoluta al suo tempo, che deteneva i depositi, sotto forma di oro, delle altre banche inglesi; in definitiva i fondi di riserva del sistema bancario inglese si risolvevano in quello della Banca d’Inghilterra, ed un deflusso di oro da questa – un evento strettamente correlato alla emissione e circolazione su base aurea – si sarebbe immediatamente ribaltato sui fondi di riserva delle altre banche.

Annota qui di Engels: «La sospensione [nel 1857] del Bank Act del 1844 dà facoltà alla Banca d’Inghilterra di emettere banconote in quantità indeterminata senza riguardo alla copertura aurea che essa possiede: di creare quindi delle quantità indefinite di capitale monetario cartaceo fittizio e di fare su questo capitale degli anticipi alle banche e agli agenti di cambio, e per tramite loro, al commercio».

Con lo sviluppo del capitale produttivo di interesse e del sistema del credito, ogni capitale pare moltiplicarsi come in un gioco di specchi a causa dei diversi modi con cui lo stesso capitale o anche lo stesso titolo di credito appare in forme diverse ed in mani diverse. La maggior parte di questo capitale monetario è dunque puramente fittizia.

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Terminato l’ascolto di queste numerose ed impegnative relazioni, che hanno suscitato l’ammirazione e l’approvazione di tutti, i convenuti si attardavano ancora un poco per la conferma degli ultimi compiti e modalità e per salutarci nel rinnovato impegno nel nostro collettivo, non facile ma appassionato, lavoro comunista.