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“Tecnica” o “politica”
è dittatura borghese contro la classe lavoratrice
Il bene del paese, inteso come bene dei cittadini, al di sopra delle classi, è una mistificazione: esso è sempre e solo il bene dei profitti di industrie e banche, è il bene del Capitale e della classe che ne ha il possesso, la borghesia.
La propaganda del regime martella ogni giorno che dal buon andamento dell’economia nazionale dipenderebbe la vita dei lavoratori perché altra società non può esistere se non questa, fondata sul Capitale; i lavoratori non avrebbero alternativa e devono essere disposti ad ogni sacrificio. “O capitalismo o morte” è il dogma della borghesia. Lavoratori e borghesi sono sulla stessa barca, ripetono tutti i megafoni.
A tenere incatenata la classe lavoratrice con questa ideologia reazionaria sono, più che i partiti apertamente padronali, quelli della cosiddetta “sinistra”, sia “moderata” sia “radicale”.
Questi partiti illudono i lavoratori che nel capitalismo sia possibile raggiungere benessere ed equità sociale, conciliando gli interessi delle opposte classi: basterebbe applicare un diverso modello di sviluppo. Affermano che il nemico da combattere non è il capitalismo ma un suo particolare modello: il liberismo. Sostengono che la causa della crisi è la disuguaglianza sociale, e che dunque riducendola il capitalismo ne uscirebbe equo, nonché sano e salvo.
Questo è falso. Il capitalismo è fondato sulla disuguaglianza fra chi possiede solo la propria forza lavoro, e la deve vendere in cambio di un salario per vivere, e chi possiede il Capitale, e compra questa forza lavoro al fine di accrescerlo: è una società divisa in classi.
Il divario fra le condizioni dei lavoratori e quelle della borghesia non è eliminabile. La miseria del proletariato cresce quanto più il capitale si ammoderna e si perfeziona. Ma questa miseria non è dovuta ad un nuovo tipo di capitalismo, è conseguenza del suo corso naturale, non modificabile e di sempre.
Quando l’economia cresce, come nel secondo dopoguerra, e i profitti sono enormi, la borghesia è disposta a concederne alcune briciole ai lavoratori, pagate con super-sfruttamento, perché questo è utile a realizzare profitti ancor maggiori. Si tratta di una necessità economica, non di un diverso modello di capitalismo, alternativo al liberismo. Ma nel capitalismo la crisi è inevitabile! Le sue cause sono la sovrapproduzione e il calo del saggio del profitto, malattia incurabile e degenerativa del Capitale.
Nella crisi diviene evidente che gli interessi dei lavoratori sono inconciliabili con quelli del Capitale, della borghesia, del cosiddetto “bene del paese”. Ciò che è un bene per il Capitale è irrimediabilmente dannoso per i lavoratori, e viceversa.
La borghesia, per cercare di tener in piedi la sua economia e rimandare il crollo, ha una sola strada: aumentare lo sfruttamento della classe lavoratrice.
Questo è quanto stanno facendo i governi di tutti i paesi, tutti nella medesima crisi. Dall’Inghilterra alla Grecia, dalla Germania alla Francia, all’Italia, al Nord e Sudamerica, alla Cina si adottano provvedimenti riducibili ad un’unica misura, la riduzione del salario complessivo della classe lavoratrice: si taglia il salario diretto (quello in busta paga), indiretto (i servizi sociali), differito (la pensione). Anche l’aumento della disoccupazione riduce il salario complessivo percepito dalla classe lavoratrice: con un salario sono di più le bocche da sfamare.
Questo attacco è condotto in tutti i paesi a prescindere dal colore del governo: è la dimostrazione di come la contrapposizione fra “destra” e “sinistra” sia fasulla. Chi accetta il Capitale deve obbedire alle sue leggi e rinnegare ogni bel discorso sui “modelli di sviluppo”.
* * *
Quello di Monti è un nuovo governo del Capitale. I suoi obiettivi sono, in perfetta continuità con quelli del governo precedente: piena libertà di licenziamento per le imprese (tutti gli impieghi saranno precari), appoggio al padronato per eliminare il contratto nazionale di lavoro, innalzamento dell’età pensionabile, taglio delle pensioni col blocco della rivalutazione e col passaggio al metodo contributivo, proseguimento delle missioni militari all’estero, aumento delle tasse sui salariati.
Questo governo può attaccare i lavoratori anche più del precedente perché ha di fronte una classe operaia disarmata dalla “sinistra”, moderata e radicale, che per 17 anni ha indicato quale suo nemico solo il Berlusconi, la cui colpa sarebbe stata quella di badare ai propri interessi invece che a quelli “del paese”. Questo, vero o meno, non era certo un problema dei lavoratori, ma della borghesia!
Banchieri e industriali, invece, si sono ben volentieri serviti per 15 anni della maschera del “pagliaccio” affinché la rabbia dei lavoratori fosse deviata solo contro di lui e non contro il loro intero regime di classe.
La borghesia italiana è tanto vile e corrotta quanto maestra nel cambiare tutto affinché nulla cambi: dopo anni di onorato servizio, il burattino Berlusconi è stato licenziato dal vero padrone, il grande Capitale, industriale e finanziario, nazionale e internazionale, perché adesso serve la faccia seria di un Monti per far ingoiare sacrifici ancora più duri alla classe lavoratrice.
La macchina di potere del grande Capitale è il suo Stato, che sopravvive immutato ad ogni governo. Il teatrino parlamentare è tenuto in vita solo perché utile per nascondere ai lavoratori la vera natura dittatoriale e di classe del regime borghese.
Sia che i lavoratori si illudano che per difendere i propri interessi serva un cambio di maggioranza parlamentare, votando a destra o a sinistra, sia che diano la colpa delle loro condizioni all’intera “casta” dei politicanti, in ogni caso è il dominio di classe del grande Capitale a uscirne rafforzato, perché può presentare ai lavoratori le false alternative: governo “tecnico”, di una maggioranza “diversa”, o, domani, un’aperta dittatura a parlamento chiuso e “casta” licenziata.
Il fatto che il governo Monti sia sostenuto da tutto l’arco parlamentare, da chi attende di rientrarvi alla prossima riapertura del baraccone elettorale (Vendola), nonché dai sindacati tricolore (Cgil, Cisl, Uil), è l’ulteriore dimostrazione che le differenze tra i partiti borghesi sono solo apparenza perché le varie bande di politicanti, in competizione per i loro affari di bottega, sono tutte al servizio del Capitale. Anche la fasulla opposizione al governo Monti della Lega Nord e della “sinistra” costretta all’extraparlamentarismo (Rifondazione, PdCI), sono utili alla borghesia per confondere la classe operaia.
La vera contrapposizione può essere solo fra chi difende il capitalismo e chi lotta per il suo abbattimento: il comunismo rivoluzionario.
Il marxismo spiega, su basi scientifiche, che il capitalismo stesso da oltre un secolo ha creato le condizioni materiali per il suo superamento. Il Capitale, nella ricerca affannosa del profitto, ha condotto a uno sviluppo tale delle forze produttive che permetterebbe di soddisfare tutti i bisogni dell’umanità con poche ore di lavoro medio giornaliero per individuo. Ma questa forza è allo stesso tempo il suo limite e la sua condanna. Organizzare la produzione secondo un piano razionale, finalizzato solo a soddisfare i bisogni dell’uomo, è impossibile finché è subordinata al mercato e al profitto.
Emancipare il lavoro dal Capitale, abolire il lavoro salariato, è il fulcro del programma rivoluzionario comunista ed è la sola alternativa alla miseria del capitalismo.
Come con la formula propagandistica del bene del paese si camuffa il profitto del Capitale, così dietro al mito della democrazia si nasconde la dittatura della borghesia. Sovrano nel capitalismo non è il popolo, tutti i cittadini al di sopra delle le classi, come recita l’ideologia democratica, ma il Capitale, nazionale e internazionale. Lottare per una vera democrazia è un controsenso quanto lottare per un capitalismo più equo.
La sola politica della classe lavoratrice, fintantoché il potere è in mano alla borghesia, è la rivoluzione, per conquistare il potere e imporre la sua dittatura sulla borghesia, unico mezzo per liberare la società dal Capitale e far uscire l’umanità dalla preistoria delle società divise in classi.
La prospettiva del superamento del capitalismo, per quanto possa apparire ancora lontana, è necessaria anche per poter condurre, in particolare nella presente situazione di crisi economica, lotte efficaci per la difesa immediata dei lavoratori. Oggi, infatti, la difesa della classe lavoratrice non può avvenire che contro l’interesse nazionale, cioè del capitale.
La classe operaia ha una sola possibilità per difendersi: rispondere all’offensiva borghese attaccando, senza remore, il capitalismo, organizzando veri e potenti scioperi che mettano in ginocchio “il paese”, ossia le industrie, i traffici e la finanza.
Su questa strada i lavoratori devono dotarsi dei loro organi di combattimento
ricostruendo un vero sindacato di classe, fuori e contro i sindacati
dei regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl), e militando le loro avanguardie nel
Partito Comunista Internazionale.
L’esecuzione sommaria sul posto di Gheddafi in fuga dalla città di Sirte, ultimo suo indifendibile rifugio, chiude ai disegni imperialisti sul nordafrica un capitolo e ne apre un altro.
La presenza di Gheddafi in città era stata rilevata da agenti della Cia e del Mi6. Il convoglio in fuga è stato bombardato da un drone Predator, decollato da Sigonella e teleguidato dall’America, e i “ribelli” che presidiavano le vie intorno alla città hanno trovato Gheddafi ferito. Altrettanto sommariamente sono stati giustiziati sul posto Mutassin, un figlio del rais, e il ministro della difesa Yunes Jaber mentre altri alti funzionari sono stati arrestati. Il figlio Saif al Islam, già prescelto come successore, è stato arrestato pochi giorni dopo.
Il Cnt ha successivamente dichiarato di ricercare gli assassini di Gheddafi per sottoporli a regolare processo; quello che era un terribile torturatore del suo popolo, motivo per cui la Coalizione sarebbe intervenuta in Libia, ora diventa quasi un martire della ferocia popolare, secondo il mito democratico della dignità di ogni essere umano. C’erano allettanti taglie sulla cattura di Gheddafi: una americana, la più ricca, “dead or alive” di 20 milioni di dollari, una di un milione di sterline britanniche offerta da vari imprenditori e una di 1,6 milioni di dollari dal Cnt tramite un anonimo uomo d’affari. Nessuna di queste al momento è stata consegnata ai molti che si sono fatti avanti; sarà il CNT a decidere, segno che la versione ufficiale da consegnare alla storia non è ancora pronta, o forse qualcuno ora vuole risparmiare, visti i costi delle operazioni militari.
Al mosaico della guerra libica, descritto nei nostri precedenti articoli, si aggiungono via via altri pezzi che migliorano la visione complessiva e confermano la nostra iniziale interpretazione: manovre imperialiste nell’area sud del Mediterraneo e non moto democratico del popolo libico.
“Controinformazione”
Un vecchio articolo del 3 agosto 1981, “Un piano per rovesciare Gheddafi” di David Icke, informa che la Cia da oltre 30 anni studiava soluzioni per sbarazzarsi di Gheddafi basandosi su due differenti opzioni strategiche: intervento militare diretto, con sbarco di truppe in Libia, oppure uno indiretto, senza proprie truppe sul campo. Questo a sua volta si sarebbe articolato in tre parti: a) un programma di “informazione” atto a mettere in cattiva luce il rais, la sua famiglia e il suo regime, b) la creazione di un governo di opposizione, composto da esuli e scontenti del regime di ogni matrice, e quindi instabile e bisognoso di aiuti esterni; c) infine una campagna militare a scala ridotta, azioni di guerriglia per mostrare che una forza politica indigena era presente e si opponeva con determinazione. È stata scelta questa opzione, affidando poi la direzione delle operazioni della coalizione dei maggiori imperialismi alla “neutrale” Nato (della quale il maggior finanziatore sono gli Usa): i centri della democrazia e della libertà intervengono militarmente a sostegno delle forze libiche in armi nel volgare tentativo di nascondere i motivi reali che abbiamo descritto.
Si è atteso il momento propizio: far apparire i fatti e gli artefatti libici estensione e conseguenza dei moti, generati dalla crisi economica, e non – come dicono loro – dal bisogno di democrazia, nei paesi confinanti del Maghreb: Algeria, Tunisia e Egitto. E così è stato.
Come sempre è stata messa in moto una campagna di disinformazione, alterazione dei fatti o pura invenzione a uso mediatico. Il fronte interventista poggiava sulle affermazioni della LLHR (Lega libica per i diritti umani) con sede in Francia, che riferiva, tramite “testimoni sul posto”, di una feroce repressione ad opera dei reparti scelti del rais dapprima a Bengasi, poi in tutta la Libia, di carri armati che schiacciavano i dimostranti, di cecchini sui tetti, di giovani mercenari dell’Africa nera pagati mille dollari il giorno per uccidere i libici, fino dell’ordine di Gheddafi di uccidere 6 mila persone a Bengasi in occasione degli scontri del 15 febbraio 2011. Costoro hanno inviato una lunga lettera al segretario generale dell’Onu, al presidente degli Stati Uniti e a quelli delle grandi potenze mondiali, richiedendo un rapido e deciso intervento in favore del martoriato popolo libico. Certamente c’è stata una dura repressione, ma successive lettere della stessa organizzazione ridimensionano la cifra a 400-600 caduti. Mahdi Darius Nazemroaya, riconosciuto esperto sul Medio Oriente e Asia centrale, nel lungo articolo: “La Libia e la grande bugia: usare le organizzazioni umanitarie per lanciare le guerre” sostiene che cinque dirigenti della LLHR sarebbero entrati nel direttivo del Cnt fin dalla sua costituzione, tra cui l’economista libico Ali Tarhouni, formatosi in America e considerato l’uomo di Washington. Costui sarebbe diventato il ministro per il petrolio e la finanza presso il Cnt e in questa veste i suoi primi atti sono stati la privatizzazione e, praticamente, la cessione delle risorse energetiche e dell’economia della Libia ai nuovi padroni.
La disinformazione organizzata si applica anche, e soprattutto, ai combattimenti sul campo: rapide avanzate seguite da incredibile stallo delle operazioni proprio nei momenti decisivi, cittadine prese e perse più volte, Gheddafi e la sua famiglia dati per fuggiti all’estero varie volte, morti e poi resuscitati, presenti in diverse località, tutto nella confusione e indeterminatezza necessaria a confezionare di volta in volta la versione più opportuna a creare consenso alle operazioni. Non sono mai stati mostrati i veri combattimenti ma abbiamo visto ribelli con armi nuovissime di magazzino sparare in aria o a caso da dietro un muro, quasi una esibizione personale e non certo in formazione da combattimento, oppure batterie di lanciarazzi che sparavano nel deserto o nelle periferie delle oasi mentre le distruzioni dei vari bunker del regime erano fatte con sofisticati razzi della Coalizione. Tutto ciò conferma che i ribelli hanno avuto pura funzione di contorno mediatico. Non si costruisce un esercito in poche settimane, e molto scarse sono state le notizie relative alle sorti del precedente esercito libico.
Certo è poca cosa se raffrontiamo questa alterazione della realtà con i falsi documenti e foto della Cia sul possesso di armi chimiche di distruzione di massa illustrati all’Onu dall’allora presidente americano Gorge W. Bush per vincere le ritrosie a scatenare la guerra in Iraq contro Saddam Hussein, per non parlare della figuraccia del primo ministro inglese che nella stessa circostanza esibì un analogo studio, rivelatosi poi copia di una tesi di laurea scaricata da internet, come lo stesso ex studente si affrettò a denunciare.
Islamisti in affitto
Scarse notizie sono circolate sulla “morte in combattimento”, annunciata il 28 luglio scorso, del generale Abdel Fattah al-Younes, comandante in capo di tutte le forze ribelli; già ministro degli interni del governo di Gheddafi, aveva disertato fin dai primi momenti con parte delle forze armate regolari. Il comunicato ufficiale del leader del Cnt, Mustafa Abdul Jalil, dice: «Abdel Fattah al-Yonues e due suoi aiutanti, alti comandanti militari, sono stati uccisi da tiratori scelti il 28 luglio dopo essere stati convocati nella capitale de facto, Bengasi, per comparire dinanzi a un’inchiesta giudiziaria». C’è chi parla di regolamento di conti all’interno del Cnt, di spionaggio, doppio gioco, sparizione di fondi destinati agli armamenti, vendetta e invidia personale, ma non si sa di più.
Bisogna ricordare che la quasi totalità dei membri del Cnt sono di matrice gheddafiana, provengono dalle strutture del regime quasi senza soluzione di continuità, una sorte di golpe sostenuto militarmente dall’esterno, un ambiente quanto mai infido e per niente “rivoluzionario”. In prospettiva possiamo ben immaginare che anche qui, come negli altri paesi del Maghreb, si cambierà tutto per non cambiare niente, in assenza di una, ancora lontana, rivolta proletaria.
Fin dai primi giorni della rivolta Gheddafi denunciò l’intervento tra le file dei ribelli di forze di Al Qaeda, con alcuni dei suoi combattenti arrivati direttamente da Guantanamo e tutti con passaggio aereo a spese del contribuente americano; la denuncia si è dimostrata poi veritiera. In Libia non esistevano gruppi politici di opposizione al regime radicati e organizzati, e tanto meno armati e con una certa esperienza; le azioni di guerriglia a terra, necessarie a completare le azioni distruttive dei bombardamenti aerei, e il compito di costituire un primo nucleo armato che servisse da richiamo e controllo per una parte della popolazione giovanile, dovevano essere affidati, almeno in una fase iniziale, a quanti avessero una specifica esperienza e appartenessero alla stessa etnia, religione, meglio ancora se libici, in modo da non apparire invasori ma liberatori. Il presidente del Ciad denunciò da subito i furti di armi pesanti da loro compiuti negli avamposti libici alla frontiera tra i due paesi.
Uno studio del 2007 dell’Accademia militare di West Point ha dimostrato che la Libia ha fornito da sola il 20% di tutti i combattenti di Al Qaeda che, transitando dalla Siria, passavano in Iraq. Il maggior centro di reclutamento in Libia sarebbe stata la città di Derna (60 mila abitanti) nel nordest del paese. Da quella città provenivano tre terroristi al vertice dell’organizzazione: Abdul-Hakim al-Hasidi, Sufiam bin Qumu e Salah al-Barani. Dopo il loro soggiorno a Guantanamo sono stati riciclati contro Gheddafi. Anche Bengasi ha una forte presenza di membri di Al Qaeda che però non avrebbe il completo controllo delle organizzazioni paramilitari.
Ricordiamo che Al Qaeda fu organizzata, come una speciale Legione Araba, contro l’Urss in Afghanistan nel 1981-82 dal vicedirettore della Cia Robert Gates, attuale segretario alla Difesa. Altro braccio armato della Cia è il Libyan National Salvation Front (Lnsf) con iniziale sede in Sudan e poi in Virginia (Usa) appositamente creato negli anni ’80 con dissidenti esiliati negli Usa per intervenire in Libia. Tra questi Khalifa Hifter, ex colonnello libico, inviato come massimo esperto addestratore dei militari ribelli; a Bengasi il 24 marzo scorso gli è stato assegnato il comando militare; è il sospettato organizzatore della morte del generale al-Younes. Questo gruppo aveva tentato di uccidere Gheddafi, nell’aprile del 1984, con una vera e propria azione militare contro il quartier generale del rais a Bab al Aziziyah: vi morirono in ottanta tra libici, cubani e tedeschi dell’est.
Di osservanza inglese invece è il Lifg (Gruppo Combattente islamico in Libia) creato nel 1995 da mujahedin libici reduci della guerra contro i sovietici in Afghanistan allo scopo di rovesciare il regime di Gheddafi contro il quale nel marzo del 1996 organizzarono un fallito attentato con l’aiuto logistico e finanziario di 100mila sterline dei servizi segreti britannici del Mi6. A capo di questa organizzazione erano Anas al-Liby e Mohammed Benhammedi che hanno trovato rifugio e protezione in Gran Bretagna; di costoro però si sono perse le tracce da anni. Il forte coinvolgimento britannico in Libia è direttamente legato agli interessi della British Petroleum che intende ritagliarsi una grossa fetta delle risorse petrolifere.
Ovviamente non si sa quanti di questi “ex-terroristi” siano presenti in Libia; una stima attendibile indica in quasi mille solo gli uomini sotto il comando di al-Hasadi, un leader del Lifg.
In questo teatrino delle falsità e dell’ipocrisia, Germania e Turchia, entrambi paesi membri della Nato, pubblicamente si sono astenuti dalle operazioni militari; in realtà la prima ha fornito truppe di rimpiazzo a quelle britanniche e anche americane sui fronti asiatici, dirottate verso la Libia. La seconda invece ha giocato su due sponde, come l’Italia: da una parte premeva su Gheddafi e famiglia per una sua uscita di scena “onorevole”, dall’altra forniva le basi terrestri e marittime alle truppe angloamericane. In cambio ha avuto immediatamente la gestione dell’aeroporto di Bengasi.
Usa e Nato
A capo dell’AfriCom, il comando di tutte le forze armate americane destinate ad operare in Africa, è l’ammiraglio Stravridis, il quale è contemporaneamente il comandante della Nato. Il passaggio del comando delle operazioni in Libia dalla Coalizione alla Nato in sostanza ha significato mantenerlo affidato agli americani coinvolgendo altri Stati. La Nato come organizzazione plurinazionale, e ancor più il suo comandante, non devono rispondere a nessuno del loro operato e quindi in questo modo si scavalcano “democraticamente” tutti i vincoli e i limiti posti dall’approvazione dei parlamenti degli Stati che vi aderiscono. Nella fattispecie l’ammiraglio Stravridis può agire in assoluta autonomia e risponde del suo operato solo al Presidente Obama e al Pentagono.
Si legge in una intervista del giornalista cinese Xu Jingjing a Mahdi Darius Nazemroaya l’1 aprile 2011: «Il principale obiettivo di AfriCom è quello di assicurare il continente africano agli Stati Uniti e ai loro alleati. La sua missione è quella di contribuire a un nuovo ordine coloniale in Africa, che gli Stati Uniti e i suoi alleati stanno cercando di stabilire. Per molti versi questo è ciò che l’intervento militare in Libia significa. La recente Conferenza di Londra sulla Libia può anche essere paragonata alla Conferenza di Berlino del 1884. La differenza è che nel 2011 gli Stati Uniti sono al tavolo e, più importante, guidano gli altri partecipanti nella spartizione di Libia e Africa».
Il retaggio tribale
Altro corno del problema è la controversia sull’importanza della questione tribale, che potrebbe costituire un’incognita anche per il dopo Gheddafi. Va precisato che in Libia questo fattore ha un peso diverso da quello nelle alte valli dell’Asia centrale dove le organizzazioni tribali, ultime forme superstiti delle precedenti forme precapitalistiche, hanno un ruolo e controllo economico e politico pressoché totale in quelle società che vivono fisicamente ai margini del mondo moderno. (Un recente studio di un’agenzia dell’Onu stima in un miliardo di esseri umani quanti ancora vivono in società strutturate in maniera precapitalista fino agli ultimi “selvaggi” ancora raccoglitori e cacciatori nelle residue foreste del pianeta.)
In Libia non è così, per motivi economici, demografici, geografici, storici e culturali.
Gheddafi dopo la conquista del potere tramite il colpo di Stato del 1969 ha considerato con attenzione questo problema distribuendo gli incarichi governativi ed economici fra i gruppi tribali, senza nominarli mai, in un preciso ordine gerarchico, secondo una valutazione opportunista che non scontentasse nessuno, allo scopo di mantenere calmo il fronte interno. Questo fu possibile perché le risorse fornite dalla rendita petrolifera erano smisurate rispetto alla popolazione libica – i primi grandi giacimenti nel deserto furono scoperti nel 1959 – e col suo “socialismo islamico”, di puro stampo populista, poteva distribuire un certo benessere a tutti i libici cui bastava sollevarsi un poco dai tradizionali parchi costumi beduini. Va ricordato che la Libia, sia dopo la poco civilizzatrice occupazione coloniale italiana fino alla fine della Seconda Guerra mondiale, sia sotto il successivo protettorato anglo-francese precedente l’indipendenza concessa nel 1951, era considerata come la nazione più povera e arretrata di tutto il Maghreb, con un tasso di analfabetismo intorno al 90% e senza tradizioni di stabili governi autonomi nazionali.
Il governo della Libia fra gli attuali confini fu affidato a Sidi Idris al-Senussi che dal 1916 ricopriva la carica di capo della confraternita religiosa della Senusiyya, che però non disdegnava l’uso delle armi per difendere i territori, con centro di riferimento a Bengasi nella Cirenaica e maggior seguito tra le popolazioni beduine. Nel periodo della colonizzazione dei primi anni del ‘900, gli inglesi prima e gli italiani poi lo indicarono come la figura di maggior importanza sociale e politica riconoscendogli il titolo di emiro della Cirenaica. Durante l’occupazione italiana riparò in Egitto da dove diresse le operazioni di guerriglia contro gli occupanti sostenendo altresì le forze angloamericane. Al termine della Seconda Guerra mondiale gli furono proposti e concessi anche i titoli di emiro della Tripolitania e del Fezzan, passi necessari per costituire in modo artificiale, secondo il consueto sistema del colonialismo inglese, l’entità statale della moderna Libia.
Gheddafi nel suo “Libro verde” del 1975, che già descrivemmo, con i termini di “congressi popolari” e di “comitati popolari”, che poneva a base della sua “democrazia popolare”, non designava altro che quelli che erano i vecchi consigli tribali delle varie comunità, sia che vivessero nelle aree meno urbanizzate, marginali e del deserto, sia in quelle più concentrate dove gruppi tribali diversi già convivevano. Nella sua gerarchia si parte dalla famiglia, poi la tribù, la nazione ed infine la comunità sopranazionale di tutte le nazioni. Nel capitolo “La Tribù” così riaffermava questo ruolo, che sicuramente non poteva disconoscere: «La tribù è un riparo sociale naturale per la sicurezza dell’individuo. In forza delle sue consuetudini sociali tribali essa fornisce ai suoi membri un prezzo di sangue (diyah) di gruppo, un risarcimento (garamah) di gruppo, una vendetta di gruppo, ossia offre una protezione sociale». C’è da chiedersi quanto ancora fossero osservati quei precetti, ma noi ben sappiamo che, radicati da secoli, anche il capitalismo non riesce a cancellarli del tutto, anzi, in parte e spesso ne trae beneficio. Sta di fatto però che ancora nel 1994 veniva istituito il “Comitato dei Capi tribali” per garantire il loro coinvolgimento nei processi decisionali, segno dell’importanza di quelle istituzioni che continuavano a fare da tramite indispensabile per ottenere incarichi statali o per l’accesso a fondi per varie attività.
La questione ora è di sapere come, dopo Gheddafi, verranno spartiti potere e ricchezze, se saranno utilizzate o meno quelle arcaiche organizzazioni e strutture sociali, che in effetti sono l’unico e radicato collante della Libia, e quali saranno i rapporti di forza fra le stesse visto che alcune di queste si sono schierate a favore, altre contro il regime del rais.
Nei piani segreti delle diplomazie americane e britanniche ovviamente sono pronte alcune soluzioni tra cui il ritorno, almeno in un primo momento di transizione, del legittimo erede al trono nella figura di Mohammed Idris al Senussi, che si è reso disponibile; formatosi in Inghilterra è ora importante e riconosciuto uomo d’affari, anche in Italia dove vi sono sedi di alcune sue attività. Il modello ricalcherebbe quello validamente sperimentato con il re della Giordania o come quello di Simeone di Bulgaria che, dopo la caduta del Patto di Varsavia e il crollo del muro di Berlino, è ritornato nel suo paese non più come re ma come presidente eletto della repubblica. Nella politica borghese non si butta via niente, tutto prima o poi può tornare utile per la sua “pace”.
Nel coacervo delle nominate 140 tribù libiche, solo 30 hanno però valenza politica, e la contesa si svolge intorno alle quattro principali. Quella dei Warfalla, di circa un milione di individui, in Tripolitania, nell’ovest del paese, che da subito ha abbandonato Gheddafi facendo di Misurata la propria roccaforte, unica città in mano agli insorti dell’ovest, assediata ma mai riconquistata dai lealisti. Anche gli Zuwayya, nell’est, si sono mossi, dopo un periodo di incertezza, contro Gheddafi. A questi si sono aggiunti parte dei Tuareg, che controllano le piste del deserto sui confini algerini. A sostegno del regime c’era la piccola tribù dei Ghadafa, da cui il rais proveniva, con Sirte città di riferimento, e che non aveva mai contato granché prima del colpo di Stato del colonnello, e quella più potente dei Meqarha che vivono nella parte sud occidentale del paese. Difficile proseguire oltre nel confuso intreccio, anche per le difformi trascrizioni dei nomi che sovente creano confusione. L’assalto finale a Tripoli è venuto principalmente dall’ovest, dalla forte tribù delle montagne, gli Zintan, con il fronte orientale bloccato a Brega, mentre non essendo ancora pronta la versione ufficiale, nessuna tribù può ancora vantare il merito della morte di Gheddafi né si può ancora determinare la nuova linea gerarchica fra le tribù libiche che peserà sul futuro organigramma del potere.
Strategia globale
Riferisce il “Quadriennal Defense Review” appena pubblicato, la più autorevole fonte pubblica del settore, del cambio di impostazione strategica delle forze armate americane, avendo il ministero della difesa completamente abbandonato la precedente, basata sulla necessità di prepararsi a combattere contemporaneamente due conflitti convenzionali su due differenti teatri di guerra. La nuova strategia è alquanto vagamente descritta: fronteggiare più e molteplici attacchi e pericoli per la sicurezza degli Usa, comprendendo il terrorismo su larga scala, con armi chimiche, biologiche e nucleari, gli attacchi informatici, la ricaduta sul piano politico e militare dei “cambiamenti climatici” in atto e futuri (sic). Per questa pochezza, però, è stato stanziato un investimento record di 700 miliardi di dollari. Nella Q.D.R. la Cina viene implicitamente assunta come la principale origine dei più insidiosi e pericolosi “attacchi informatici” verso gli Usa i quali, in aggiunta alle irrisolte e molto meno virtuali questioni di Tibet, Taiwan, Pakistan e Corea del Nord, hanno indotto gli strateghi americani a delineare un conflitto bellico convenzionale a larga scala tra Washington e Pechino. Questi piani possono essere ben altro che fantasie o esercitazioni accademiche dello Stato Maggiore.
È possibile che, controllata pienamente la situazione in Libia, quella imponente e attivata macchina bellica venga spostata verso la Siria, dove si potrebbe applicare la stessa strategia; e attraverso la Siria far pressione sull’Iran.
L’Iran è un altro punto chiave nel gioco imperiale nella regione, ma più complesso per motivi economici, storici, politici e per il più elevato sviluppo industriale. Nel lungo studio “Which Path to Persia? Options for a New American Strategy Toward Iran” (Come arrivare all’Iran? Opzioni per una nuova strategia americana nei confronti dell’Iran) del giugno 2009 ed edito dal Saban Center, finanziato da Wall Street e da Londra, così si afferma in modo esplicito: «Se gli Stati Uniti riuscissero mai ad innescare una rivolta contro il regime dei mullah, Washington potrebbe essere costretta ad intervenire fornendo una qualche forma di sostegno militare per evitare che Teheran la schiacci».
Vanno definendosi dei possibili scenari della prossima Terza Guerra. Non sono ancora chiari gli schieramenti e le future alleanze e quale ruolo rivestirà la Cina. Una nota ufficiale cinese del 19 maggio diffida il governo americano da intervenire militarmente o solo invadere parzialmente il Pakistan per debellare le basi del terrorismo che si annidano ai suoi confini settentrionali, considerando tali interventi come portati direttamente contro il suolo cinese. Sarà il veloce procedere della crisi economica mondiale a scandire la successione degli eventi. Intanto, però, se ne incomincia a parlare: il cancelliere tedesco Angela Merkel, a margine del recente incontro a novembre dei primi ministri dei 17 paesi dell’euro, con un senso della storia che in Germania manca meno che altrove, avverte: ”Se cade l’euro cade l’Europa: nessuno prenda per garantiti altri 50 anni di pace in Europa».
La limitata guerra in Libia va inquadrata in questo più ampio contesto
strategico mondiale.
Il maltempo che ha devastato la Lunigiana, poi Genova ed infine Messina ha causato anche in questo autunno la perdita di vite umane. Sui quotidiani solite prime pagine con titoloni, denunce, lacrime di coccodrillo.
In Liguria il 25 ottobre, nel giro di poche ore, un forte nubifragio ha ingrossato i torrenti rovesciando a valle ogni sorta di detriti. I maggiori fiumi, Vara e Magra, hanno dilagato nelle pianure intorno a Borghetto, Brugnato, Ameglia, Villafranca in Lunigiana ed anche a Pontremoli e ad Aulla, in alta valle. La catastrofe ha colpito anche le vicine Cinque Terre, in provincia di La Spezia: lungo il compluvio naturale che accoglie i villaggi di Vernazza e di Monterosso l’acqua ha cumulato enormi quantità di materiali solidi e, lungo la via principale trasformata in fiume, li ha spinti fino la mare.
Dopo solo un paio di settimane, il 4 novembre, anche a Genova hanno straripato i rii Fereggiano, Carrega, Vernazza e i torrenti Sturla e Bisagno.
I due disastri hanno causato 17 morti e migliaia di sfollati oltre ad ingenti danni stimati in circa 1 miliardo.
Nella sola Genova, nel periodo che va dalla Seconda Guerra ad oggi, già si elencavano ben nove alluvioni importanti: nel 1945, 1951 (due volte), 1953, 1970, 1977, 1992, 1993, 2010. Ogni volta, come in questa, si è incolpato l’evento eccezionale, senza precedenti, cosa che, evidentemente, non è.
La dinamica è sempre stata la stessa e simile anche a quella dello scorso autunno. Negli occhi dei genovesi rimane viva la tragedia dell’alluvione del 1970: allora il rovescio durò molte ore, tra le 19 del 7 ottobre e le 17 dell’8; in quell’arco di tempo a Bolzaneto, quartiere periferico in Val Polcevera, caddero, secondo le statistiche, 948 mm di pioggia, massimo nelle registrazioni della pluviometria nazionale nell’arco di 24 ore; se ne deduce che sui rilievi alle spalle di Genova in quelle 22 ore le precipitazioni avevano sfiorato i 1.100 mm.
Il 4 novembre scorso, nel quartiere di Quezzi, dove si è avuta la punta massima, è stato rilevata una quantità d’acqua con punte che hanno raggiunto i 542 mm. È vero che, rispetto al 1970, il nubifragio si è concentrato in un tempo inferiore, circa tre ore, ma è anche vero che la quantità d’acqua piovuta è stata la metà: non si può quindi parlare di eccezionalità.
Non grandi sono i bacini imbriferi a monte di Genova, non spingendosi lo spartiacque appenninico più di una dozzina di chilometri dalla costa, il che riduce i flussi ma ne determina un marcato carattere torrentizio.
Oggi la scienza dei fenomeni dell’atmosfera è in grado di descrivere la complessa meccanica di questi eventi e ci spiega come in Liguria si producono simili temporali. I venti caldi di scirocco risalendo il Tirreno si saturano di vapore acqueo; incontrando le correnti più fredde e pesanti di tramontana che precipitano dall’Appennino, sono sospinti rapidamente verso l’alto ove condensano formando giganteschi cumuli lungo la linea di costa. Si innesca così un sistema temporalesco che per varie ore scarica diluvi monsonici; il fenomeno è autorigenerante: fin tanto che rimane attiva la linea di convergenza fra le opposte masse d’aria, la corrente ascendente attrae altra aria calda ed umida dal mare.
Sappiamo anche che quando c’è vento di scirocco il Mar Ligure è mosso, le onde contrastano alla foce il deflusso dei fiumi e ne aumentano la piena.
È quindi possibile prevedere il decorso e la quantità di acqua che scaricherà un temporale. Infatti nei giorni precedenti il 4 novembre l’amministrazione comunale aveva diramato l’ “allerta 2”, che prevede esondazioni, frane, mareggiate ed un elevato rischio per l’incolumità degli uomini e danni alle cose. Ma il capitale nemmeno in questa fase di profonda crisi può permettersi di bloccare la produzione un solo minuto, tanto più di fermare una città intera per uno o addirittura due giorni. La società moderna, fondata sul capitale, non ha il controllo né sui fatti della natura né su se stessa, può solo ubbidire alle disposizioni del Capitale, anonimo e che tutto pervade; e che, dopo ogni catastrofe, cinico sorride alla distruzione, con tante merci da sostituire ed immobili da riedificare.
Ma tutto si sa, nulla si può. Innumeri quanto ormai quasi rituali relazioni di geologi ed ingegneri tornano ogni volta a ripeterlo, ignorate dagli agenti del capitale impegnato nel ramo del cemento e delle costruzioni: le leggi della meccanica dei fluidi indicano che dragare materiali, modificare il corso, la larghezza e la profondità del letto dei fiumi determina variazioni difficilmente prevedibili nel loro regime con serie conseguenze nel decorso a monte e a valle.
Il capitale impone agli abitati un accrescimento anarchico e privo di piano, comprese in questo dopoguerra le storiche città italiane, già modello di proporzioni e di un percepibile piano urbano. Tranne poche eccezioni, e non più ripetibili, capitalismo ed urbanistica sono incompatibili. Le città, prive, come il capitale, di misura e di confini, rispetto al loro opposto, la campagna, sono intrinsecamente irrazionali e instabili.
Anche la regione Liguria, nonostante la particolare e fragilissima conformazione morfologica, stretta tra Appennino e mare, ed antropica, con borghi arroccati sul mare e ripide valli terrazzate dal lavoro di millenni, è stata sconvolta da questo processo, che ha edificato nell’alveo dei fiumi e nel fondo delle valli, concentrandovi abitazioni, fabbricati industriali e civili. Oggi sono la conformazione urbana e la desertificazione dei pendii che rendono la Liguria la regione più vulnerabile alle piene dei fiumi.
Poiché, per il meccanismo della rendita fondiaria, nel capitalismo lo spazio per vivere è sempre più prezioso, è divenuto normale costruire, non solo vicino, ma addirittura al di sopra dei fiumi. Questi vengono tombati, voltati anche per tratti molto lunghi in un artificiale percorso carsico. Del fiume originale e del suo tracciato gli stessi abitanti della città presto si dimenticano. Sopra questi Stige si fanno strade, parcheggi, e perfino edifici.
I paesi delle Cinque Terre sono incassati, sul mare, nello sbocco di strette ed erte valli; fino a pochi decenni fa potevano essere raggiunti, comodamente, solo in treno, o in barca, e lì ci si muoveva a piedi. Il cosiddetto “progresso” borghese doveva però far crescere il numero dei “turisti”, per i quali è stata aperta una scomoda viabilità, su e giù da quelle giogaie lunga e tortuosa. Per far arrivare la strada fin sulla spiaggia si è dovuto passare sopra il rio, solo percorso possibile, ovvero, il meno costoso: coprendolo, si è ricavato a monte il parcheggio e attraverso il paese antico la nuova via. A Monterosso un enorme parcheggio è stato costruito sul mare.
Basta che un tronco d’albero trascinato dalla piena o altro si impigli all’imbocco del fiume sotterraneo perché si formi uno sbarramento e l’acqua sia costretta a passare di sopra. Se l’ostruzione si determina nel tratto coperto più a valle, l’acqua entra in pressione.
A Genova quasi tutti i rii e torrenti sono stati intubati, dalla periferia a monte della città fino allo sbocco a mare. Il rio Vernazza è completamente incanalato sotto quella che ora è via Pontetti: il 4 novembre l’acqua in pressione ha infranto e sollevato la volta del tunnel e da lì ha tutto inondato. Il rio Carrega, modesto affluente del Bisagno, non riuscendo a defluire in questo ha tracimato allagando la zona di Piazzale Adriatico, ad alta densità abitativa a 30 metri dal Bisagno e sotto il suo livello. Ma è lo straripamento del Fereggiano che ha causato i maggiori danni: scorre sotto l’omonima via; in questi ultimi anni si è completata la copertura di un’altra parte di questo torrente che oramai è quasi tutto intubato.
È evidente che riportare una città come Genova ad una condizione, non diciamo “naturale”, che non ha senso storico e pratico, ma sicura e bella, dopo secoli di capitalismo, è impresa molto molto difficile e controversa. Per il capitale è di sicuro impossibile. Ci si metterà il comunismo, senza fretta e quando saremo più saggi e sapienti.
Invece di prendere iniziativa alcuna, come ogni volta, è partita la ricerca, postuma, delle “responsabilità”. Le accuse alla maldestra gestione dell’allerta, la scarsa comunicazione alla cittadinanza, la lentezza dei soccorsi e così via. Si è tornati infine a denunciare i trascurati interventi di pulizia del letto dei fiumi. Come sempre la risposta è che non ci sono i soldi per farlo; ed è vero, il capitale non trae profitto ad impegnarsi in simili modesti lavori di manutenzione e si concentra nelle “grandi opere” – quasi sempre e sempre di più inutili o dannose – dalle quali può trarre giganteschi profitti e rendite, e senza rischi perché garantiti dallo Stato committente.
Nessun funzionario dello Stato del capitale né al centro né delle sue amministrazioni locali può avere la forza, quand’anche lo volesse, di arrestarne la corsa folle, la funzione dello Stato essendo giusto il favorirla in ogni modo e ad ogni costo, come comprovano i non altrimenti spiegabili ma inarrestabili progetti del ponte di Messina, del tunnel in Val di Susa, della Tav sotto Firenze.
Siamo già, benché ancora in pace, in una economia di guerra: al capitale mondiale, di nuovo precipitato in una delle sue cicliche crisi di sovrapproduzione, non basta più il consumo imposto, a forza, alla popolazione (per lo più di schifezze) e le commissioni statali “di pace”, scuole, ferrovie (dove non v’erano), strade, ospedali. Come mosso da una forza demoniaca deve distruggere per poter costruire. Le “grandi opere”, come la guerra, nessuno le vuole, ma è un fatto che la guerra viene. È una necessità economica. Volete il capitalismo? Vi prenderete, inevitabilmente, che vi piaccia o meno, prima il ponte di Messina, poi le bombe a tirarlo giù. Lo spettacolo demente che il politicantismo italico offre ai proletari, col passare dal clown che ride a quello che piange (letteralmente) è segno di questo avvitarsi e incarognirsi della crisi borghese.
È ora di spezzare questo ciclo demente. A Genova, nei giorni successivi
alla alluvione, alcune centinaia di ragazzi sono andati a spalare il fango
dalle strade; li hanno chiamati “angeli del fango”. Dei diavoli, invece,
ci vogliono, alle pale, il diavolo proletario, che scavi profonda la fossa
e ci seppellisca per sempre il corpaccio infetto e disfatto del Capitale.
Nelle sue tesi il partito rintraccia le risposte alle questioni che la storia gli pone, ma, soprattutto, è il metodo di lavoro che permette di capire il contenuto da cui è stato tratto: la lotta di classe tra borghesia e proletariato.
Il Partito non è un luogo di discussione, una stupida tavola rotonda che organizza dibattiti dove gli esperti-dementi di turno dicono l’ultima opinione alla moda. Il Partito è l’organismo di lavoro della classe per la distruzione del capitalismo e di direzione della stessa nel periodo di transizione e nel socialismo. Gli scambi di opinioni tra di noi sono molto fitti, ma sono resi possibili solo perché abbiamo dei principi ed una teoria comune su cui non si discute, non la si mette in dubbio.
La chiarezza dell’esposizione è il punto d’arrivo, è l’approdo di un percorso in cui chi scrive ha già chiaro nella sua testa l’argomento. Una tesi essenziale del materialismo è che non si può avere scienza prima della conoscenza, che vuol dire banalmente che per essere scienziati, occorre prima conoscere.
Chi conosce? Presupposto che di Marx ne nascono 1 ogni 5 secoli circa,
noi dobbiamo essere un po’ più umili. La coscienza si ottieni non come
singolo ma come membro di un partito, del partito della sola classe che
può conoscere questo mondo in quanto è destinata a distruggerlo. Questo
non nel senso che ogni singolo militante del partito capisce tutto di tutto
e sa tutto di tutto, o peggio che ci sono degli esperti in sindacalismo,
in crisi, in finanza, ecc., ma nel senso che il partito come organo collettivo
è il solo soggetto in grado di avere coscienza del percorso che deve attraversare
questo modo di produzione, dalla nascita alla morte, per omicidio.
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La classe operaia non
ha da difendere la legalità borghese le sue regole e rispettabilità
Nel montare della sua inevitabile crisi di sovrapproduzione, il Capitale spinge, suo malgrado, verso la rottura della pace sociale nonostante la corruzione materiale e intellettuale che la borghesia esercita sul proletariato. Anni di sviluppo e di “benessere”, ovvero di profitti per le aziende, hanno permesso al Capitale di comprare la mente dei proletari spacciando per eterno e indiscutibile questo sviluppo e questo benessere.
La crisi è dovuta ai limiti insiti nel sistema capitalista, alla sovrapproduzione e alla conseguente impossibilità di creare ulteriore profitto, e non alla cupidigia di qualche speculatore dai denti particolarmente lunghi.
Per mantenersi in vita il capitalismo deve sostenere i calanti profitti con una ulteriore estorsione di plusvalore dal lavoro salariato. Da qui nascono tutti i problemi che opprimono la vita dei proletari; ma anche gli incubi della borghesia che sa che la rabbia finirà per esplodere. Non basterà allora il torpore mentale e l’osceno diversivo dei partiti parlamentari, del parlamento stesso, dei sindacati venduti, insomma quello che è il regime borghese.
Ma la rabbia da sola non basta. Perché sia efficace occorre che sia cosciente ed organizzata.
Consapevole del fatto che la crisi sta ormai incrinando la propensione delle masse ad accettare acritica la realtà e l’interpretazione che la classe dominante ne fornisce, questa sta già preparando nuove menzogne che si aggiungono alle vecchie.
Un metodo è il cullare il sentimento di avversione verso la “politica”, tipico della piccola borghesia. È necessario che i proletari, come troppo spesso è successo, non si facciano trascinare in guerre che non sono le proprie.
La individualista ideologia dei borghesi, che vedere tutto opera di un “grande uomo”, prima “salvatore” poi capro espiatorio, in questa ridicola riduzione assolve se stessa ed il proprio sistema economico e sociale. Ancor oggi la propaganda borghese torna a porre la soluzione degli attuali problemi nella ricerca di un capo, un dittatore “buono e saggio” che rispetti infine legalità, moralità e democrazia.
Torna la necessità per la borghesia di offrire alle masse un malvagio cui attribuire la colpa di tutto, un satiro o una banda demoniaca: tra un “Mani pulite” ed una nuova ondata “moralizzatrice”, si cambiano facce scomode per sostituirle con nuove peggiori.
Fintanto che esisteranno società divise in classi, esisteranno privilegi da difendere, più o meno leciti, più o meno meritati.
I proletari non hanno nessun interesse a difendere la legalità borghese, le sue regole e la sua onorabilità, soprattutto quando chi decide il confine tra legalità e illegalità è una classe che sposta questo confine a proprio piacimento, con l’unico scopo di salvaguardare i suoi interessi di classe.
“Legale” è solo difendere il Capitale. Compito dei partiti, che provengano dalle file della destra o della sinistra del borghese parlamento è di rendere democratiche tutte le istanze che il Capitale imporrà con la dittatura della sua forza economica, politica, militare. Lo provano le Leggi finanziarie, approvate e votate da destra e da sinistra, atte a colpire più duramente le condizioni dei proletari.
Come si trovò ad affermare in un’intervista George Soros già una ventina di anni fa, con tutto il candore che la sua posizione di grosso squalo gli consentiva: «Le masse votano ogni 4/5 anni nelle cabine elettorali, io voto ogni giorno alzando il telefono».
E sopra i parlamenti nazionali, comitati d’affari delle borghesie nazionali, aleggia una Unione Europea, comitato d’affari di una borghesia europea che non ha mai saputo diventare tale trovando strategie comuni, se non nel momento in cui c’è da colpire i proletari, di qualunque nazionalità, etnia e religione (sì, in questo il Capitale è veramente “democratico”).
Non si tratta di un’economia “violentata” da politici e banchieri privi di scrupoli, senza i quali essa sarebbe portatrice di pace giustizia e prosperità per tutti, ma di un modo di produrre che, come la scienza di Marx insegna, vive di cicli di sviluppo e di crisi che nascono dalla incessante necessità per il Capitale di trasformare il denaro in merce, per produrre altra merce, da trasformare in maggior denaro. Una corsa, senza criteri che non siano il profitto, il produrre di più per vendere di più e a prezzi di costo sempre più bassi.
Alla fine della corsa criminale, la crisi. Allora per il Capitale è necessario distruggere merci e risorse, perché tale distruzione è l’unica strada che ha per rigenerare sé stesso. Per rendere più veloce e completa questa distruzione occorre la guerra.
Cercano una chimerica moralità tutti i movimenti che vorrebbero una gestione “più democratica”, dell’acqua, dell’ambiente, della scuola, della sanità, eccetera. Tali posizioni sono “post-fasciste” perché al di sotto perfino del gradualismo socialista della Seconda Internazionale. Auspicano infatti solo “un capitalismo morale”, convinti che la società sia composta da classi con interessi in fondo comuni e componibili.
Sono uno dei maggiori nemici della classe operaia, oltre che inutili ed inconcludenti per gli stessi loro fini dichiarati, poiché deviano le forze proletarie dall’affrontare la causa di tutti i problemi, il capitalismo, nascondendolo sotto tanti suoi effetti particolari. Finché esisterà il Capitale saranno le soluzioni del Capitale ad imporsi, perché ineluttabili e sole possibili nella realtà del mercato e delle sue leggi.
Ma, anche se fosse vero che il modo di produzione associato al Capitale e al lavoro salariato è l’unico funzionante ed eterno, proprio perché prodotto non di scelta di qualche politico o banchiere ma de impersonali leggi materiali, ugualmente la classe operaia non chinerebbe il capo né accetterebbe come immutabile tutto ciò. La classe è costretta a difendersi. E difenderà la sua vita anche se la borghesia dimostrasse matematicamente che non potrà vincere.
Ma, se fosse eterno ed incontrastato il suo dominio perché, per trattenere il movimento della classe operaia, la borghesia è costretta a ricorrere al disfattismo e molto più sovente al fattivo sabotaggio dei sindacati di regime?
Soggetti e fattori di storia sono le classi. I proletari, come individui, non possono sperare di riuscire a tener testa allo strapotere politico, economico e infine culturale del Capitale. Possono farlo soltanto come classe e soprattutto come classe organizzata. I sindacati sono la forma spontanea ed immediata di organizzazione della classe. Nel momento in cui questi rinunciano al loro compito, i proletari si sono trovati nell’impotenza. È fondamentale per i lavoratori ricostruire quindi quell’organizzazione che permetta loro di presentarsi sulla scena sociale al di sopra delle artificiose divisioni di azienda, regione, comparto o categoria.
Ogni classe ha un suo programma, una sua dottrina, un sua “visione
del mondo”. Il programma della classe operaia è il comunismo, che è
custodito e difeso nel partito comunista marxista, oggi nel nostro partito.
Proletari di tutto il mondo unitevi, per la distruzione ovunque del capitalismo.
Il 30 novembre si stima che due milioni di lavoratori pubblici abbiano scioperato in Gran Bretagna in quella che è stata la più partecipata astensione dal lavoro fin dallo sciopero generale del 1926. Alcuni dei grandi sindacati di categoria hanno chiamato allo sciopero in risposta ad una manovra sulle pensioni pubbliche e contro i tagli minacciati dal governo che prevedono aumenti nei contributi a carico dei lavoratori, prolungamento della vita lavorativa e riduzione degli assegni di pensione. Ha aderito perfino il sindacato dei dirigenti, che mai aveva scioperato nei suoi 150 anni di esistenza!
Nella tattica classica del divide et impera, il governo ha cercato di mettere i lavoratori del privato contro quelli del pubblico impiego dipingendo questi ultimi come privilegiati, con trattamenti superiori, finanziati con le tasse versate dai dipendenti del settore privato. In risposta molti gruppi di lavoratori in tutto i paese hanno distribuito ai cortei dello sciopero, a smentire le menzogne governative, le cifre di quanto in realtà i lavoratori pubblici ricevono di pensione che, anche prima dei peggioramenti proposti, è davvero modesto.
I sindacati sono stati costretti ad indire lo sciopero dalla loro base, in parte organizzata, bene o male, nella Rete dei Consigli di Fabbrica, una organizzazione formata dal sindacato RTM-trasporti nel 2006. La natura reazionaria di tutta la direzione dei sindacati è genericamente ammessa, ma le soluzioni avanzate per affrontare il problema si aggirano per lo più all’interno delle strutture dei sindacati con la richiesta di una maggiore dose di democrazia.
Così leggiamo in The Socialist: «È essenziale che le decisioni sulle lotte non siano lasciate nelle mani dei dirigenti nazionali dei sindacati. Noi chiediamo che gli iscritti ai sindacati abbiano il controllo democratico sulle trattative ad ogni livello». C’è poi un appello per «imporre alle organizzazioni della sinistra di impegnarsi per assicurare che i sindacati si battano negli interessi dei loro iscritti. Una loro richiesta dovrebbe essere la periodica elezione dei funzionari a tempo pieno e che siano pagati non più che con una paga operaia». Inoltre, e non solo ne The Socialist, v’è la richiesta che i sindacati escano dal Labour Party, non essendo quest’ultimo un partito della classe operaia.
Non possiamo certo noi impedire a chi crede in questa strategia di cercare di metterla in atto, ma speriamo che i partecipanti all’esperimento trarranno presto la lezione dai risultati, perché noi crediamo che il movimento sindacale nella sua forma presente è così intrecciato con l’apparato capitalistico che i tentativi di dissociarlo dal Labour Party e di ridurre la paga dei funzionati siano, oltre che condannati al fallimento, del tutto improduttivi di risultati.
I sindacati attuali sono pronti a mettere quelli che chiamano gli interessi “del paese”, del capitale nazionale in altre parole, davanti agli interessi della classe, che sono legati non ad una particolare “gabbia nazionale” nella quale si sono trovati rinchiusi, ma sono quelli della internazionale classe operaia. Il sindacato di classe deve essere preparato ad andare oltre, al di là dei limiti di ciò che è compatibile con il capitalismo.
Questo magnifico sciopero ha prodotto, subito il giorno dopo, una improvvisa retromarcia del governo. Dopo aver irriso lo sciopero come un “petardo bagnato”, si è affrettato ad aprire un tavolo di trattative quanto prima, ed ha già promesso ulteriori concessioni e fissato incontri nella settimana successiva.
Se i capi sindacali a queste trattative accetteranno qualcosa di meno di sostanziali rettifiche da parte del governo dovranno probabilmente affrontare notevoli proteste degli iscritti, che si spera siano davvero organizzate dalle nuove organizzazioni intersindacali di base che stanno lentamente emergendo e provando i muscoli.
Ma noi non dobbiamo giudicare ciò che succede solo secondo i “risultati concreti”. A commento delle organizzazioni sindacali in generale un passo del Manifesto del Partito Comunista afferma: «Qua e là i lavoratori riescono vincenti, ma solo occasionalmente. Il frutto reale delle loro battaglie non consiste nel risultato immediato, ma nella loro crescente organizzazione».
Questo sarà il maggior risultato dello sciopero del pubblico impiego
del 30 novembre, è già si va parlando di unire la lotta con quella dei
lavoratori del settore privato...
Il movimento che attraversa gli Stati Uniti esprime un diffuso rancore verso le grandi corporations e le istituzioni finanziarie. Ma, ad oggi, non è stata avanzata alcuna rivendicazione, nessuna richiesta, nemmeno di un generico cerotto da applicare sul cadavere maleodorante del capitalismo.
È iniziato con una serie di dimostrazioni a New York City, nel distretto finanziario di Wall Street. Le proteste, indette da vari gruppi di attivisti, si sono scagliate contro le ineguaglianze economiche, l’avidità delle corporazioni, la corruzione politica e le lobby. Lo slogan “siamo il 99%” si riferisce alla disparità delle ricchezze negli Usa ed altrove, col grosso del denaro mondiale e del potere detenuto dall’ 1% più ricco della popolazione. Iniziate nel settembre scorso le proteste si sono allargate quasi ad un migliaio di città americane e a centinaia di migliaia di partecipanti, con copertura massiccia dei media e repressione della polizia. Donazioni hanno sostenuto il movimento, ed ora il suo peggior nemico pare il rapido avvicinarsi dell’inverno.
Da quanto si può ricavare dalla confusione dei servizi alla televisione e dalle dichiarazioni dei suoi capi, OWS chiede posti di lavoro, una “più equa” ripartizione della ricchezza, e una “minore” influenza delle corporazioni sul governo. Un “capitalismo compassionevole”, questo sembra tutto il suo messaggio. Con più del 50% degli elettori americani che nei sondaggi simpatizza per OWS, entrambi i due principali partiti, i Democratici e i Repubblicani, sono saltati su quel carrozzone populista, ulteriormente diluendo il già debole soffio di blando malumore diffuso dai capi del movimento.
Molti dei protestatari credono che questo più compassionevole capitalismo sarà raggiungibile esercitando una pressione morale: se i capitalisti si sentiranno colpevoli del loro egoismo e avido comportamento potremo convincerli a “fare a metà”, come in un giardino d’infanzia. Di fatto i capitalisti sono stati ben pronti ad accettare il dibattito su questo terreno, assimilando le richieste del movimento a quelle dei “grandi uomini” della filantropia capitalistica come Carnegie e Rockfeller. E non è a caso che vediamo avvicinarsi a valido difensore dei protestatari (e dei capitalisti) l’eroe dell’ora, niente meno che... Bill Gates!
Se la voce che esce dal movimento OWS è che il capitalismo deve essere purgato dei suoi elementi corrotti più appariscenti, e reso “più premuroso”, si spera che, una volta che i manifestanti siano stati trascinati via dalle strade a forza dalla polizia ed ostentatamente sparso disinfettante sull’asfalto dove erano accampati, alcuni di essi finiranno per credere invece che quell’ “1%” deve essere rovesciato dal potere, piuttosto che fatto sentire “in colpa” e “condividere” con il “99%”! Forse allora i dimostranti riusciranno a vedere che il capitalismo è ormai solo un cadavere che cammina, che ha fatto i suoi giorni, e il solo problema di cui vale la pena discutere è come il suo becchino, la classe operaia, può riuscire nel compito storico di seppellirlo.
Ovviamente si tratta di un movimento interclassista. Uno dei suoi dirigenti scrive «Dobbiamo rafforzare il movimento Occupy alleandoci con gli operai ed i sindacati, gli immigrati, gli studenti, i disoccupati, i senza casa, le comunità di resistenza ed i gruppi religiosi». Che possibile coerenza politica può essere attribuita ad una direttiva che include tutti questi soggetti, classi ed ideologie? È un altro ampio “fronte” che ha per base comune solo l’idolatria della Democrazia, intoccabile feticcio per tutti. Occupy non è né un movimento economico né un partito politico, ma solo un prodotto ed un fattore di confusione. Insieme agli inevitabili anarchici, che predicano il loro messaggio di indiscriminata e disarmante opposizione a qualsiasi organizzazione, vi troviamo liberali e gruppi piccolo-borghesi e cristiano-sociali, tutti in competizione fra loro per guadagnare reclute alle loro varie cause; e tutti collaborando a rovesciare fuori strada i genuini combattenti di classe.
* * *
La sorpresa e la rabbia dei dimostranti OWS alla mano pesante della autorità nello spezzare le occupazioni e gli accampamenti si è curiosamente innestata in una preesistente lotta economica di lavoratori.
Il 18 novembre, Occupy Oakland, seguendo una iniziativa lanciata da Occupy Los Angeles, proclamava «il blocco e le interruzioni delle attività economiche controllate dall’1% con la chiusura coordinata dei porti dell’intera costa occidentale, fissata per il 12 dicembre. L’1% ha devastato le nostre vite di camionisti, portuali ed operai, che creano la loro ricchezza, proprio come gli attacchi della polizia coordinati a scala nazionale hanno trasformato le nostre città in campi di battaglia nel tentativo di distruggere il nostro movimento di occupazione. Invitiamo ogni occupazione sulla costa occidentale ad organizzare una mobilitazione di massa al fine di bloccare il porto locale. Le azioni anti-sindacali devono essere attentamente denunciate, in particolare EGT che a Longview nello Stato di Washington ha revocato il contratto con i portuali. Occupy Los Angeles ha già approvato una risoluzione per entrare in azione nel porto di Los Angeles il 12 dicembre al fine di chiudere il terminale SSA, di proprietà della Goldman Sachs. Occupy Oakland estende questo invito alla intera costa occidentale e chiama alla continua solidarietà con i portuali di Longview nella loro lotta con EGT (...) Durante lo sciopero generale del 2 novembre, in decine di migliaia hanno bloccato il porto di Oakland per persuadere EGT a fermare l’attacco ai lavoratori di Longview».
Lo sciopero generale del 2 novembre al quale questo appello si riferisce aveva avuto luogo ad Oakland un paio di settimane prima ed avrebbe visto la partecipazione di “decine di migliaia di lavoratori, precari e studenti”. Le banche e molte scuole chiusero, e così tutti i moli. Gravi disturbi al traffico nel resto della città provocarono l’interruzione di molte attività economiche.
Il nucleo organizzativo di questo sciopero generale locale è stata un’assemblea di lavoratori. Infatti nessun credito viene dato alle grandi centrali sindacali. Sia la AFL-CIO sia la “Change to Win Federation”, una coalizione alternativa di sindacati formatasi nel 2005, subito hanno cercato di boicottare lo sciopero invocando le leggi anti-sciopero che essi stessi hanno sottoscritto nei contratti delle singole categorie. Si sono anche affrettati ad invocare il Taft Hartley Act del 1947 che, insieme a numerose integrazioni a livello di Stato e federale, di fatto proibisce gli scioperi generali e prevede multe severe; e che, merita ricordare, i grandi sindacati non hanno mai veramente combattuto. Ma stavolta le organizzazioni locali degli insegnanti e dei portuali hanno dichiarato il loro appoggio allo sciopero, benché non scioperando essi stessi. I grossi sindacati hanno ceduto e si sono trattenuti da un attacco frontale. Solo il piccolo ma storico IWW e l’organizzazione locale dei portuali, che aveva partecipato nel 2003 al blocco delle navi che portavano armi per le truppe in Iraq, ha attivamente organizzato lo sciopero sui posti di lavoro.
Il successivo blocco delle banchine il 12 dicembre ha visto manifestazioni e proteste nei porti di tutta la West Coast da San Diego a Portland e fino ad Anchorage in Alasca, ma la partecipazione è stata scarsa. Solo a Portland e ad Oakland il blocco ha avuto realmente successo, anche per l’appoggio della sezione locale del sindacato dei portuali (ILWU), ma non dei capi dei sindacati. Di fatto Robert McElrath, il segretario nazionale dell’ILWU, vedendo la sua posizione minacciata, è stato svelto a denunciare “i tentativi di gruppi esterni che con le loro richieste politiche stanno strumentalizzando la lotta”.
Altri portavoce del sindacato ILWU hanno poi cercato di seminare divisione imputando al movimento Occupy la responsabilità della perdita delle giornate di lavoro fra i non scioperanti messi in libertà, così appoggiando i non iscritti e i camionisti padroncini.
Ora si parla di un nuovo sciopero per il 1° maggio 2012.
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Nobile sforzo senz’altro. Ma non sarà appoggiato dal “99%”. Se andiamo oltre la statistica e le percentuali vediamo che di quel “99%” fanno parte gli strati intermedi ed inferiori della borghesia. Questi appoggeranno la classe operaia solo quando vedranno che sta vincendo, in atteggiamenti energicamente anticapitalisti. Fino ad allora saranno disponibili a battersi solo i lavoratori, coloro che hanno interessi economici diretti contro il capitalismo, e solo essi, compresi i disoccupati ed i pensionati, debbono essere organizzati. In Usa solo quando i lavoratori sono scesi in campo si sono aperte vere prospettive ed un progetto ambizioso come chiudere i porti della intera West Coast è divenuto un obiettivo realistico.
Il capitalismo può essere rovesciato solo da chi possiede una chiara visione della strada da percorrere. Qualsiasi lotta che non si conformi alle lezioni delle lotte passate, sia che le rifiuti sia che non le conosca, fallirà. Esse insegnano che l’esercito operaio potrà rovesciare il capitalismo, mosso per rivendicazioni pratiche, nell’ambito di lotte economiche ed assumendo una forma organizzata basata sui sindacati di classe. Questo esercito, per poter vincere, deve esser condotto dal suo partito internazionale di classe, un partito che rintraccia la sua storia fin dalla metà del 19° secolo ed è il depositario dell’esperienza politica del movimento.
Solo il partito comunista è cosciente del ruolo storico della classe operaia di naturale e materiale oppositore del capitalismo. Questo non può più offrire alcun vantaggio alla classe che opprime, il cui lavoro produce ogni cosa e che sarebbe in grado di praticamente organizzare la vita economica senza i capitalisti. È ormai evidente che i tanto vantati ed altamente retribuiti “esperti” del capitale stanno vivendo un irrimediabile fallimento, “esperti” come sono solo nel mantenere la loro posizione sociale: la razionalizzazione del parassitismo.
Solo la classe operaia, o, meglio, il proletariato, termine non sociologico ma storico e dinamico, può sfidare direttamente, nel suo movimento rivoluzionario, questo parassitismo, una volta che abbia rintracciato il suo programma politico originario ed intransigente, già definito compiutamente dal 1848.
La classe operaia americana ha sparso molto sangue nel passato in una lunga storia di scontri con un capitalismo nazionale particolarmente sregolato, brutale ed apertamente sfruttatore. Oggi ha bisogno di riscoprire, con l’orgoglio della sua tradizione di lotta di classe, la sua organizzazione politica, il partito comunista internazionale, una riscoperta in un paese dove il comunismo, forse più che altrove, è stato correttamente individuato come il nemico numero uno del capitalismo!