|
|||||||||
|
|||||||||
|
Roma, 9 marzo
La difesa dei lavoratori è possibile solo
ricostruendo
il Sindacato di classe
Tutto ciò che la classe operaia ha conquistato lo ha fatto al prezzo di dure lotte, con scioperi preparati e condotti come autentiche prove di forza per piegare il padronato.
Come in tutta la storia del movimento operaio, italiano e internazionale, anche nel secondo dopoguerra queste lotte costarono grandissimi sacrifici ai lavoratori, la vita stessa per decine di operai e braccianti uccisi nelle piazze dalle forze dell’ordine. Nel 1969, la più grande ondata di scioperi dopo il 1945, fruttò forti aumenti salariali e miglioramenti normativi. Lo Statuto dei lavoratori (legge 300 del 1970) – col suo articolo 18 sul licenziamento individuale – fu il prodotto e la prova dei rapporti di forza fra padronato e classe operaia a quel tempo.
Queste conquiste furono possibili anche in virtù della forte crescita economica del secondo dopoguerra. La borghesia, a fronte degli enormi profitti realizzati prima con la guerra poi con la ricostruzione, fu costretta a concedere questi miglioramenti.
Ma tutte queste conquiste – come oggi ben si vede – non erano affatto definitive. Con la crisi del 1973-’74 il trentennio di forte crescita del dopoguerra terminò e iniziò il lungo processo della crisi generale del capitalismo mondiale, di cui la crisi attuale, esplosa nel 2008, è solo un nuovo capitolo, e non certo l’ultimo.
Le cause di questa crisi sono quelle indicate da Marx nel Capitale: la sovrapproduzione e il calo del saggio del profitto. Sono le stesse ragioni che determinarono la grande crisi del 1929. Né quella né questa furono previste da alcun “grande” politico od economista della borghesia, né di destra né di sinistra, ma solo dal marxismo.
Coloro che non hanno mai creduto alla originaria previsione scientifica marxista della crisi generale del capitalismo, oggi si affannano a darne false spiegazioni e false soluzioni. La preferita è che la sua causa principale sia stata la speculazione finanziaria, e la soluzione quindi sarebbe la sua regolamentazione e il ritorno a un “sano” capitalismo fondato sulla produzione industriale. Questa contrapposizione fra un capitalismo finanziario “cattivo” e un capitalismo industriale “buono” è solo una mistificazione ideologica perché, da ormai un secolo, finanza e industria sono un intreccio indissolubile, risultato della concentrazione del capitale.
La sovrapproduzione e il calo del saggio del profitto – le vere cause della crisi – hanno origine invece nella produzione, là dove il lavoro operaio crea il plusvalore, e agiscono in maniera inesorabile perché sono implicate nelle leggi stesse di funzionamento del capitale. Il gonfiarsi a dismisura della sfera finanziaria dell’economia è invece una conseguenza della crisi: il Capitale cerca nella finanza l’illusoria realizzazione dei profitti che ha sempre più difficoltà a ottenere nella produzione, abbandonandosi alla giostra finanziaria come ad una droga che allevii la sua malattia.
La crisi perciò non solo è inevitabile ma è anche irrisolvibile: ciò che la borghesia può fare è solo rimandare il suo precipitare. Questo è quanto è avvenuto dal 1973-’74 agendo su tre leve: l’allargamento del mercato mondiale, l’aumento del debito, l’aumento dello sfruttamento della classe lavoratrice. La crescita del debito pubblico, iniziata proprio nel 1973-‘74, e l’allargamento del mercato mondiale, maturato dalla metà degli anni ’80, hanno permesso alla borghesia di utilizzare la terza leva, l’attacco alla classe operaia, con studiata gradualità, onde evitare di scatenare la reazione di una classe lavoratrice ancora in forze.
Le tappe fondamentali di questo attacco graduale disegnano l’inesorabile arretramento delle condizioni dei lavoratori: nel 1977 la CGIL inaugurò, con la “svolta dell’EUR”, la politica della “moderazione salariale”; nel 1983 iniziò l’attacco alla scala mobile con il “protocollo Scotti”, completato nel 1992 con l’accordo Amato-Trentin; nel luglio 1993 fu formalizzata la “concertazione” e varata la nuova “politica dei redditi” sul parametro della “inflazione programmata”; nel 1995 il governo Dini riuscì dove aveva fallito il precedente governo Berlusconi, facendo approvare la controriforma del sistema pensionistico; nel 1997 la legge Treu apriva le porte al precariato nei rapporti di lavoro, sanzionata e peggiorata dalla legge 30 del 2003.
Il capitalismo ha così diluito e dilazionato la crisi, ma non ha potuto fermarla: è esplosa quattro anni fa e continuerà avvitandosi in una spirale di cause ed effetti, sempre più drammatici, che condurrà alla completa catastrofe questo modo di produzione, anti-storico e inumano.
Oggi, con l’allargamento del mercato mondiale in buona parte compiuto, con il debito pubblico e privato ogni giorno più insostenibile, alla borghesia, per frenare l’avvitarsi della crisi, resta in mano sempre più solo l’arma di aumentare lo sfruttamento della classe lavoratrice.
Per questo l’attacco ai lavoratori perde la precedente gradualità divenendo sempre più duro e frontale: si porta un nuovo brutale colpo alle pensioni, si lavora alla demolizione del contratto nazionale, si mette in cantiere una “riforma” del mercato del lavoro per levarsi dai piedi l’articolo 18 e rimaneggiare i cosiddetti ammortizzatori sociali (cassa integrazione e mobilità). Non esiste “diritto” che la borghesia non sia pronta a sacrificare sull’altare dell’economia capitalistica.
Tutto questo dimostra il fallimento del sindacalismo di regime. La CGIL, fin dalla sua ricostituzione “dall’alto” col “Patto di Roma” del 1944, nacque “di regime”, ossia votata a subordinare la vita dei lavoratori alle necessità del capitale, queste – allora ed oggi – ideologicamente camuffate con la formula del “bene del paese”. Ma la sua base operaia conservava allora ancora integre grandi tradizioni di lotta che le permisero di utilizzare quel sindacato per le proprie battaglie e lasciavano ancora aperta la possibilità di una cacciata della dirigenza opportunista.
La fondamentale azione anti-operaia dell’opportunismo politico e sindacale è consistita nello sradicare dalla classe lavoratrice il suo bagaglio di conoscenze, tradizioni, sentimenti e capacità di lotta. Questo processo è giunto a completamento a fine anni ’70 e da allora si è definitivamente chiusa ogni possibilità di ricondurre la CGIL ad essere un Sindacato di classe.
Questo è avvenuto insegnando ai lavoratori che andavano
abbandonati
i metodi della lotta di classe, perché le conquiste
passate
avrebbero
creato un sistema di regole, tutele, diritti, valido di per
sé
a difendere i lavoratori: da qui gli appelli, non a organizzare la
forza
dei lavoratori, ma ai diritti, alla legalità,
alla democrazia.
In questo modo da 35 anni i lavoratori sono accompagnati da una
sconfitta
all’altra, e fatto ancora più grave è stata ostacolata la
loro
riorganizzazione
ai fini della lotta.
Operai, lavoratori!
Oggi la vostra strada è una sola: difendere con la forza ciò che solo con essa avete potuto conquistare! Questo significa necessariamente spezzare i ponti con il sindacalismo di regime di Cgil, Cisl e Uil che in via di principio rifiutano di prepararvi alla lotta aperta, perché questa dimostrerebbe, ancor più delle sconfitte subite, il loro fallimento e dimostra come legalità, diritti e democrazia siano solo un castello di carta per mantenere la classe operaia pacifica e sottomessa.
Non si tratta di difendere i diritti invocandoli, ma di ripresentare la forza dei lavoratori. Questo significa costruire un’organizzazione dei lavoratori adeguata alla lotta, un Sindacato di classe.
Il Sindacato di classe ha i caratteri della vera tradizione del
movimento
operaio, antitetici a quelli del sindacalismo di regime:
- si deve fondare principalmente sull’ impegno diretto e volontario
dei lavoratori, occupati e disoccupati, non su un apparato elefantiaco
di dirigenti, funzionari, dipendenti;
- non persegue il suo riconoscimento da parte delle aziende
e delle associazioni padronali sulla base di regole, diritti e leggi ma
su quello della forza;
- rifiuta i distacchi sindacali;
- non riscuote le quote dei lavoratori col metodo della delega,
mettendo in mano al padrone la lista degli iscritti e i soldi del
sindacato,
ma direttamente tramite i suoi militanti sui luoghi di lavoro;
- organizza i lavoratori nelle aziende ma privilegia la organizzazione
territoriale, come nella gloriosa tradizione delle Camere del
lavoro
(non certo quelle odierne), necessaria ad unire i lavoratori al di
sopra
dei confini fra aziende e categorie;
- privilegia le assemblee fuori dal luogo di lavoro, lontano
dagli occhi delle spie aziendali;
- rifiuta per principio ogni genere di leggi e accordi che limitino
lo sciopero;
- considera ogni conquista non un “diritto” corrispondente a un
generale sentimento di “giustizia” della “pubblica opinione”, ma
solo un fortilizio da cui ripartire per la permanente lotta
fra
le classi, che si prevede giungere non a un equilibrio pacifico, ma
a un progressivo inasprimento;
- non subordina gli interessi della classe lavoratrice a quelli
del cosiddetto “bene del paese”, dell’economia nazionale, che altro
non sono che gli interessi del Capitale;
- non lotta per rendere “migliore” e più efficiente il sistema
industriale nazionale, assecondando la competizione fra
lavoratori
dei diversi paesi, ma persegue la unità internazionale dei
lavoratori;
- ha quale strategia generale cui mai rinunciare lo sforzo continuo
per condurre ogni lotta parziale verso la lotta generale di tutta la
classe
lavoratrice per gli obiettivi di sempre del movimento operaio: riduzione
dell’orario a parità di salario; forti aumenti salariali
maggiori per le categorie peggio pagate; salario ai lavoratori
licenziati.
La vicenda FIAT e quella del rinnovo del contratto metalmeccanici dimostrano come ormai non esistano più gli spazi per il sindacalismo concertativo, fondato sul falso principio che gli interessi dei lavoratori siano conciliabili con quelli dell’azienda e dell’economia nazionale, cioè del Capitale. O si fa il sindacato complice, o si fa il sindacato di classe. La CGIL lo ha capito, ed ha ritrovato l’unità con CISL e UIL.
La FIOM proclama oggi 8 ore di sciopero per “rientrare in FIAT”,
per il ristabilimento di “regole” democratiche e condivise fra padroni
e sindacati, per un contratto nazionale unitario con FIM e UILM,
cioè
per tornare a quella concertazione di cui la borghesia
s’è
servita
per 20 anni per attaccare gradualmente i lavoratori e che oggi, sotto
il
morso della crisi, non le basta più. La FIOM non può e
non vuole porsi
sulla strada del Sindacato di classe, perché in tutti questi
anni non
ne ha costruito le basi, restando ben dentro i confini della
concertazione,
e perché non può e non vuole uscire dalla CGIL. Sta ai
lavoratori più
combattivi porsi su questa strada sempre più urgente e
necessaria.
Milano, 31 marzo
La sola politica della classe lavoratrice
è lotta aperta al capitalismo
Lavoratori, compagni!
La “riforma” del mercato del lavoro è un nuovo grave attacco a tutta la classe lavoratrice, che completa l’offensiva in corso e prepara gli attacchi futuri.
La modifica dell’articolo 18 rende più efficace il ricatto del licenziamento, eliminando, o rendendo una remota ipotesi giuridica, la possibilità del reintegro in caso di illegittimo licenziamento per ragioni economiche. Sarà più facile per il padronato imporre condizioni di lavoro peggiorative, ad esempio con nuovi contratti aziendali in deroga a quello nazionale di categoria, rese possibili dall’Accordo del 28 giugno 2011 fra i sindacati di regime (Cgil-Cisl-Uil-Ugl) e Confindustria e dall’ultima manovra del governo Berlusconi (art. 8), che hanno aperto la strada allo svuotamento del contratto nazionale di lavoro. Scioperare e opporsi significherà esporsi al rischio di essere licenziati col pretesto “economico”, visto che per le aziende una forza lavoro sottomessa vale assai più di qualche mese d’indennizzo.
Le manovre di luglio e agosto del governo Berlusconi e quella di
dicembre del governo Monti avevano:
- tagliato il salario indiretto, cioè i servizi sociali,
con
la riduzione dei trasferimenti agli Enti Locali, che si riflette nella
generale decadenza dei servizi pubblici e con l’introduzione di nuovi
ticket sanitari;
- esteso il blocco dei salari dei lavoratori pubblici fino al 2018;
- aumentato la tassazione con l’innalzamento dell’IVA e l’introduzione
dell’IMU;
- attuato l’infame innalzamento dell’età pensionistica per le
pensioni
di vecchiaia (66 anni al 2012, 66 e 7 mesi per tutti, uomini e
donne,
pubblici e privati, al 2018) e per le pensioni anticipate (ex
pensioni
di anzianità: 42 anni e 1 mese di contributi al 2012, 43 anni e
5 mesi
al 2021).
Ora è il turno degli ammortizzatori sociali: la nuova “Assicurazione sociale per l’impiego” durerà solo 12 mesi e abolirà le diverse forme di indennità di disoccupazione, l’indennità di mobilità e la Cassa Integrazione Straordinaria per chiusura d’azienda, provvedimenti che, sommandosi fra loro, coprivano il lavoratore dai tre ai cinque anni.
La borghesia si sta riprendendo tutte le conquiste della classe operaia. Questo processo, non nuovo, ma iniziato gradualmente a partire dalla seconda metà degli anni ’70, ha subito una forte accelerazione, perché, in assenza di una reale opposizione della classe lavoratrice, segue il corso di avanzata della crisi generale del capitalismo.
Il riformismo, politico e sindacale, ha illuso i lavoratori che le conquiste fossero definitive perché frutto di un capitalismo nuovo in quanto democratico, e che perciò i lavoratori per difendere i propri interessi non dovevano più confidare nella forza, nella lotta di classe, questi metodi andavano abbandonati in favore di quelli della trattativa, della concertazione. In questo modo da trent’anni i lavoratori sono stati accompagnati dai sindacati di regime (Cgil-Cisl-Uil) di sconfitta in sconfitta, con compromessi al ribasso che hanno diviso e indebolito la classe.
La stessa vicenda dell’art. 18 e degli ammortizzatori sociali insegna: la Cgil non ha mai condotto una vera lotta per estenderlo ai lavoratori che ne erano privi, molti dei quali giovani, consentendo l’opposizione fra giovani precari e vecchi “garantiti”, quando in realtà l’attacco peggiorerà salari e condizioni di tutta la classe.
La crisi sta dimostrando che non esiste “diritto” che la borghesia non sia pronta a sacrificare in nome della salvezza dell’economia nazionale, cioè dell’economia capitalistica. Ogni nuovo “sacrificio” presentato con la formula “stare peggio oggi per stare meglio domani” è stato invece sempre solo una tappa verso un ulteriore peggioramento.
Una soluzione all’interno del capitalismo non c’è. La cosiddetta sinistra radicale, costretta all’extra-parlamentarismo, alla guida della sinistra Cgil e dei sindacati di base, imputa l’attacco ai lavoratori, e la crisi stessa, non all’inesorabile corso dell’economica capitalistica, che impone alla borghesia di affamare i lavoratori per salvare se stessa e questo sistema sociale, ma ad una particolare politica economica, il neoliberismo.
Questa sinistra, che è solo una “sinistra borghese”, per 60 anni ha ingannato i lavoratori spacciando per Comunismo il capitalismo di Stato russo (cinese, cubano, ecc. ecc.). Oggi i suoi eredi, rottami politici dello stalinismo, proseguono nell’opera di mistificazione ideologica prospettando ai lavoratori “un diverso modello sociale ed economico, fondato sul pubblico, sull’ambiente e sui beni comuni, per riconvertire il sistema industriale con tecnologie e innovazione, per la pace e contro la guerra”, il tutto all’interno del sistema politico ed economico capitalistico.
Questa è solo una nuova illusione per la classe lavoratrice. Non fu la politica keynesiana d’intervento statale – per altro praticata indifferentemente dai regime democratici come da quelli fascisti – a far uscire il capitalismo dalla Grande Crisi del 1929 ma la Seconda Guerra mondiale che, con le sue terribili distruzioni di merci in eccesso, fra cui la merce forza-lavoro, permise l’inizio di un nuovo ciclo di accumulazione, il tanto necessario, per il Capitale, allora ed oggi, ritorno alla crescita. Il boom economico degli anni ’60 fu figlio della tragedia della Seconda Guerra mondiale. La crisi odierna è figlia del boom economico.
Non esiste alcuna politica economica in grado di “salvare il Paese”, ossia il capitalismo, dal crollo della sua economia. Esiste un’unica soluzione politica borghese alla crisi: la guerra imperialista mondiale, ossia il sacrificio totale della classe lavoratrice sull’altare del capitale. Ed esiste un’unica soluzione politica proletaria: la Rivoluzione. La salvezza della classe lavoratrice è nella morte del capitalismo.
Non si tratta di inventare nulla di nuovo ma di riscoprire
e recuperare l’originale programma comunista rivoluzionario
facendo pulizia dalle macerie dell’ultima e peggiore delle ondate
opportuniste,
quella dello stalinismo, che ha nascosto e mistificato agli occhi dei
proletari
il senso e il significato vero del Comunismo. Questo è
possibile
non certo con un’opera intellettuale ma di lotta politica, militando
in quel partito, il Partito Comunista Internazionale, che
è
l’autentica
continuazione del Partito Comunista d’Italia nato a Livorno nel 1921
e della sinistra comunista italiana che lo costituì, unica
corrente
politica
che quella degenerazione combatté dalla prima ora e che da
quella
sconfitta
ha saputo trarre le lezioni per la riscossa proletaria futura.
Nel numero 333 del nostro giornale scrivevamo: «Il fallimento generale del capitalismo mondiale avrà conseguenze sconvolgenti su tutte le classi sociali, per prima sulla piccola borghesia, produttrice o rentier, piccolo industriale, artigiana e contadina, e sulle aristocrazie del lavoro; su questi fragili, quanto vasti strati la crisi si abbatterà come tempesta e vi provocherà panico e reazioni scomposte».
Un esempio di queste reazioni è stato il cosiddetto “Movimento dei Forconi” organizzato durante lo scorso gennaio in alcune città italiane, in particolare nella regione siciliana. La cronaca racconta di strade, ferrovie e porti bloccati con tir, bidoni e cordoni umani creati in maggioranza da numerosi camionisti aderenti alla Associazione imprese autotrasportatori siciliani, agricoltori e pescatori. In linea di massima viene richiesto, oltre alla defiscalizzazione dei carburanti, la diminuzione del costo dell’energia, il congelamento delle procedure di riscossione dei tributi e la destinazione di alcuni fondi europei al settore agricolo.
I blocchi stradali sono stati numerosi e piuttosto efficaci. In alcuni paesi siciliani squadre di camionisti hanno imposto con la forza il fermo di tutti i trasporti ad uso commerciale e costretto molti negozianti alla chiusura, sotto la minaccia di ritorsioni. Il danno arrecato dallo “sciopero” ammonterebbe almeno a 300 milioni di euro, con tonnellate di prodotti alimentari a marcire nei tir. A Catania 7 aziende hanno richiesto nei giorni dei blocchi la Cassa integrazione ordinaria per circa 800 lavoratori. Infine la promessa del Presidente della Regione Sicilia di stanziare dei fondi per le imprese del settore ha fatto cessare lo “sciopero”.
“Si è trattato di uno sciopero del popolo siciliano per rivendicare libertà e dignità”, così hanno gridato alcuni dei capi; ma, al di là di queste frasi roboanti che evocano la solita retorica autonomista, il movimento ha espresso nei confronti delle istituzioni (soprattutto nazionali) forti sentimenti di rabbia e contraddittorie richieste di aiuto.
A noi preme individuare il carattere di classe e le motivazioni economiche che stanno alla base di queste manifestazioni per ribadire nello specifico la nostra posizione sulle mezze classi e il loro rapporto con il proletariato.
È evidente che non ci possiamo associare al piagnisteo dei media borghesi per la bottega non rifornita o per i “disagi ai cittadini”, così come non ci sembrano rilevanti le probabili infiltrazioni nel movimento della criminalità: questa, organizzata e non, è ovunque presente in ogni piega del sistema capitalistico.
Nel Manifesto del Partito Comunista Marx ed Engels scrivevano a proposito: «Fra tutte le classi che oggi stanno di contro alla borghesia, il proletariato soltanto è una classe realmente rivoluzionaria. Le altre classi decadono e tramontano con la grande industria; il proletariato è il suo prodotto più specifico. Gli ordini medi, il piccolo industriale, il piccolo commerciante, l’artigiano, il contadino, combattono la borghesia per resistere alla loro scomparsa sociale. Quindi non sono rivoluzionari, ma conservatori. Anzi, sono reazionari, poiché cercano di far girare all’indietro la ruota della storia. Quando sono rivoluzionari, sono tali in vista del loro imminente passaggio al proletariato, non difendono i loro interessi presenti, ma i loro interessi futuri, e abbandonano il proprio punto di vista, per mettersi da quello del proletariato».
Tutte le previsioni scientifiche del marxismo si sono avverate. Per contro questa nostra tesi è stata negata, nella pratica politica, sia dall’opportunismo della Seconda Internazionale sia dalla degenerazione stalinista della Terza, sia dai suoi odierni, degni, eredi.
I camionisti “padroncini”, cioè proprietari del carro, i tassisti con il possesso della vettura, i piccoli contadini che dispongono di poche macchine e scorte, i piccoli pescatori, quando non utilizzano lavoro salariato al di fuori di quello dei loro familiari, sono socialmente degli ibridi, in parte capitalisti, in parte lavoratori salariati. Se il contadino inoltre è proprietario del pezzo di terra che lavora, è anche un fondiario. Sono queste figure, quindi, gli sfruttatori economici di se stessi. E spesso dei feroci sfruttatori.
Ma, anche se le loro condizioni, come numero e intensità delle ore di lavoro e come compenso, possono essere talvolta peggiori di quelle del proletario operaio in fabbrica, e nella crisi non migliore è il grado di sicurezza davanti alla rovina, la loro mentalità, la loro psicologia, i loro programmi sociali sono sempre molto più angusti e reazionari di quelli dei grandi borghesi stessi.
Infatti la ideologia espressa anche dal “movimento dei Forconi” è palese: continui riferimenti al generico “popolo siciliano”, richieste a favore di padroni e padroncini dei vari settori e nessun riferimento alle rivendicazioni di classe, riduzione dell’orario di lavoro, salario ai disoccupati.
Questo movimento, quindi, non esprime la lotta di una classe contro l’altra, ma va inquadrato in quelle contraddizioni, accentuate dalla crisi, tra le mezze classi, la piccola borghesia e la grande borghesia, regionale, nazionale ed internazionale. Ed ovviamente nel “movimento” erano presenti anche veri padroni che impiegano diversi salariati. Altri, con molti dipendenti, ad esempio l’azienda di trasporto del gruppo Spinelli, erano contro lo “sciopero”.
La Sicilia si gioca con la Campania il primato in Italia per il maggior numero di disoccupati mentre è tra le dieci regioni europee con il più alto tasso di disoccupazione, oltre il 40%. A subire le pesanti conseguenze della crisi, che avanza inesorabile, non sono soltanto questo mare di disoccupati ed i lavoratori salariati, oggi disillusi e rinchiusi in organizzazioni sindacali totalmente corrotte, ma anche molti di questi strati sociali intermedi tra padroni e proletari. La crisi accelera la concentrazione delle forze produttive e delle centrali finanziarie, un processo di proletarizzazione che continua inesorabile.
Nella guerra fra le classi questi strati intermedi si debbono necessariamente appoggiare ad una delle classi fondamentali della società, scegliendo, volta volta, la più forte, o quella che riesce ad incuter loro maggior terrore. Quindi si sposteranno dalla parte del proletariato e del comunismo, o perlomeno si terranno neutrali, non quando questo si mostrerà disposto a far loro concessioni, ma, al contrario, quando si porrà totalmente avverso alla società del grande capitale, forte e determinato ad abbatterla. Il comunismo proporrà alla piccola borghesia lavoratrice non la conferma e la difesa delle sue condizioni di miseria ed insicurezza ma di liberarla infine dal tormento della piccola proprietà. La rivoluzione potrà tirarsi dietro parte delle mezze classi quando il proletariato farà rigetto delle ideologie che da esse promanano: popolo, nazione, patria, libertà, democrazia, miti falsi ed impotenti con i quali l’opportunismo ha corrotto e compromesso l’autonomia proletaria di pensiero e di azione.
La rivoluzione comunista sarà monoclassista e quindi monopartitica. Questo non ci porta a negare che le mezze classi produttrici sopravvivranno per un certo periodo anche durante la transizione al comunismo. Con l’aggravarsi della crisi del capitalismo, le loro espressioni di malessere si potranno moltiplicare, assumendo tratti anche clamorosi e violenti. Ma rifiutiamo una loro funzione autonoma sia nella economia sia, tantomeno, in politica: questi “movimenti” possono al massimo ritagliarsi qualche vantaggio influenzando il governo della grande borghesia, ma non intaccheranno mai il suo potere politico, restando in balia della dittatura del grande capitale, degli usurai, dei monopoli, dei grandi fondiari. Solo il nostro programma, non illudendo le mezze classi su una loro possibile sopravvivenza, potrà indicare loro l’unica prospettiva reale: quella del superamento di “ogni” piccola o grande economia mercantile.
Il nostro compito da comunisti nei confronti degli sconvolgimenti
sociali
che la crisi del capitalismo genera nelle altre classi è la
difesa
intransigente
del marxismo e l’altrettanto intransigente opera di netta demarcazione
tra la nostra classe e gli interessi e i movimenti delle altre classi.
Nessuna contaminazione è possibile: da una parte il proletariato
rivoluzionario,
le sue organizzazioni ed il suo programma, dall’altra tutto il
decadente
mondo borghese. «Le classi dominanti tremino al pensiero di una
rivoluzione
comunista. I proletari non hanno da perdervi che le loro catene. Hanno
un mondo da guadagnare». La rovina delle mezze classi, aggiogate
inevitabilmente
alle sorti del capitalismo mondiale, è uno dei sinistri
rintocchi della
campana a morto per questa putrida società.
Seconda parte del rapporto esposto alla riunione del partito a Sarzana.
LA RIVOLTA
Durante i primi mesi le manifestazioni di protesta nelle varie città e governatorati sono sostanzialmente simili e tendenzialmente pacifiche; soprattutto nelle periferie proletarie più povere in migliaia si riversano nelle strade, approfittando dei cortei funebri delle vittime della repressione o della preghiera del venerdì, che permette di unirsi vicino alle moschee in deroga alle limitazioni imposte dalle leggi speciali. I cortei, scandendo slogan antigovernativi, inneggiando alla caduta del regime, a riforme sociali ed economiche, ipnotizzati dal mito della richiesta di più libertà e più democrazia si dirigono verso sedi e uffici governativi spesso scontrandosi con le forze di sicurezza che non esitano a sparare.
La lotta si inasprisce nella cittadina di Dara’a quando vengono arrestati e torturati una quindicina di ragazzi per le scritte antigovernative sui muri. La manifestazione di protesta provoca una prima repressione della polizia cui segue, il 9 aprile, una seconda manifestazione più decisa a cui il regime risponde con una repressione ancor più dura, segno della convinta determinazione di entrambi i fronti. Nel frattempo il governo si dimette per protesta contro la violenza della polizia, fatto di scarso effetto perché il potere è ben controllato dal clan legato al presidente Assad.
Il 21 aprile il presidente, costretto dalle circostanze, revoca lo stato di emergenza, promette vaghe riforme tra cui quella di concedere la cittadinanza siriana a 200 mila curdi, finora classificati come “senza patria” secondo la consolidata politica del controllo delle minoranze e indice anche un referendum per una nuova Costituzione.
Il governo siriano non ha esitato nelle circostanze più critiche a usare l’esercito e le milizie speciali contro la popolazione come a Dera’a, Homs, Douma ed Hama. Quest’ultima città tra la fine di luglio ed i primi di agosto 2011 è stata colpita duramente dai bombardamenti delle forze governative, numerosi carri armati sono entrati al suo interno uccidendo molti rivoltosi che avevano eretto rudimentali barricate. Il sistematico taglio nella fornitura di acqua ed elettricità ad interi quartieri è stata una tattica da subito utilizzata nelle operazioni di repressione di questi mesi. Avvenimenti simili stanno accadendo nel corso di questi mesi ad Homs e in altre città in rivolta.
È probabile che molti proletari, in particolar modo contadini salariati, disoccupati ma anche lavoratori dell’industria e dei servizi abbiano partecipato e continuino a partecipare alle manifestazioni, ma senza mettere in evidenza delle loro specifiche rivendicazioni di classe.
INTERVENTO ESTERNO
La classe dirigente siriana per sopravvivere in questi anni di acuta tensione nell’area mediorientale, è stata costretta a elaborare tattiche differenziate: da una parte la borghesia alawita ha cercato nuovi e migliori rapporti con gli Stati Uniti, come è stato dimostrato dall’appoggio sostanziale fornito alla coalizione guidata da Washington nella guerra contro l’Iraq; dall’altra lavora per rafforzare l’alleanza strategica con l’Iran in funzione anti israeliana.
Nonostante queste manovre il regime siriano, per debolezza interna, è stato costretto nel 2005 a rinunciare all’occupazione militare del vicino Libano, dove per anni ha svolto la funzione di cane da guardia contro il proletariato palestinese e libanese. Nonostante queste manovre Damasco ha perso molta della sua influenza sulla regione ed ora queste debolezze sul fronte esterno si sommano a quelle interne aggravate dall’inevitabile precipitare della crisi mondiale.
La dinamica e la natura delle manifestazioni di protesta sembra abbiano subito una svolta negli ultimi mesi: a novembre e a dicembre sul fronte internazionale si è intensificato l’isolamento di Damasco, su quello interno si è assistito a una progressiva militarizzazione della rivolta. Da settembre sono diminuiti gli episodi di impari confronto tra governo e generici dimostranti, ma diversi gruppi armati, finanziati dagli imperialismi occidentali e dalle monarchie del Golfo, fronteggiano sempre più spesso l’esercito. Periodicamente sono condotte incursioni contro centri di comando, imboscate a convogli, uccisioni mirate ma anche vere e proprie battaglie che pare abbiano portato anche al controllo di alcune cittadine da parte degli insorti.
Alla rivolta manca però una guida politica autorevole; la frammentata ed ininfluente opposizione siriana all’estero, è formata prevalentemente da fazioni borghesi in contrasto tra loro e si sorregge solo grazie agli aiuti delle potenze occidentali. Da questo ambito deriva anche il Consiglio Nazionale di Transizione, che appena costituito ha richiesto esplicitamente un intervento armato della Nato. Anche il Syrian National Council si propone di delineare e gestire il futuro di una Siria senza Assad, secondo piani previsti altrove poiché attualmente le sue relazioni con la società siriana sono molto deboli.
Ad ottobre, inoltre, è stato costituito un esercito, il Free Syrian Army, responsabile di attacchi sempre più frequenti contro obbiettivi militari e civili; questo FSA, diretto da una parte dell’opposizione siriana, è in gran parte finanziato da capitali stranieri. Il suo comandante, il Colonnello Riyadh Al-Assa’ad ha dichiarato: «Sulla base della nostra realtà nazionale e dell’esigenza di fermare i massacri che non tolleriamo più, annunciamo la formazione dell’esercito siriano libero (...) L’obiettivo è operare in collaborazione con la popolazione per la libertà, la dignità, la rivoluzione e per rovesciare il regime. [Invitiamo] tutti a disertare l’esercito e rifiutarsi di eseguire gli ordini e di sparare sui connazionali. Ogni soldato che sparerà sui cittadini sarà considerato un bersaglio legittimo da parte del nostro esercito».
Forze speciali britanniche, francesi, giordane ed in particolar modo del Qatar sono operanti nella base turca di Iskenderun dove addestrano mercenari del FSA insieme ai militari di Ankara.
LA LEGA ARABA
Il 12 novembre scorso Damasco è stata ufficialmente sospesa dalla Lega Araba, organizzazione oggi guidata dall’Arabia saudita, dagli Emirati e dalle monarchie del Golfo, preoccupata non tanto per le sorti del “popolo fratello” siriano quanto per la stabilità regionale in un contesto di instabilità sociale.
L’imperialismo americano preme sulla Lega tramite il governo di Riyad affinché la borghesia alawita al potere in Siria sia indebolita, o ancor meglio scalzata, avvenimento che segnerebbe un punto a suo favore contro il nemico iraniano e ridurrebbe fortemente l’influenza russa in quell’area.
Il piano della Lega araba prevede, tra i vari punti, la fine delle violenze, il ritiro dei tank dalle strade e l’immediato rilascio dei detenuti politici. A votare a favore dell’espulsione sono stati diciotto dei 22 stati membri, tranne il Libano e lo Yemen, mentre l’Iraq si è astenuto. Un analogo provvedimento di espulsione era stato adottato poco tempo prima della guerra contro la Libia del Colonnello Gheddafi. La Lega ha inoltre invitato tutte le correnti dell’opposizione a ritrovarsi al Cairo per definire una soluzione comune.
Il rappresentante di Damasco ha reagito accusando la Lega di fondersi agli interessi di Washington e di voler provocare un intervento straniero analogamente a quanto avvenuto in Libia. In risposta all’iniziativa della Lega, a Damasco è stata organizzata una manifestazione a favore di Assad ed alcune rappresentanze diplomatiche, tra cui le ambasciate di Arabia Saudita, Turchia, Qatar e Francia, sono state assaltate; sono state chiuse alcune sedi diplomatiche o richiamati in patria gli ambasciatori per consultazioni.
UNA CRISI GLOBALE
Considerando il quadro strategico la soluzione della crisi potrebbe derivare da accordi esterni al paese passando sopra gli immediati interessi locali.
Gli elementi che compongono lo scacchiere sono molti e assomigliano a un castello di carte ove toccarne una significa far crollare il tutto.
I porti siriani sono stati da sempre molto importanti per i traffici tra l’Europa e l’Asia; oggi ancor di più perché essi sono anche i terminali degli oleodotti che veicolano il petrolio e il gas dei consistenti giacimenti nell’estremo nord-est del paese, al confine con la Turchia, e di quello che proviene dall’Iraq e passa la frontiera orientale presso la città di Abu Kemal. Entrambi gli oleodotti confluiscono nella città di Homs da cui si diramano poi verso i due porti di Baniyas e di Tartus, dove per altro c’è una base militare della marina russa. Tutte queste città sono coinvolte negli scontri; diventa più chiara quindi la necessità del governo di riprendere il controllo di Homs, fondamentale per soffocare la rivolta.
Come abbiamo descritto nel nostro precedente articolo sui retroscena della guerra in Libia, la poderosa macchina bellica della marina statunitense potrebbe facilmente spostarsi di fronte alle coste siriane o attendere in uno dei porti della costa meridionale turca, protetta dalla vicina base aerea americana di Incirlirk in Turchia, presso Adana.
Ma c’è di mezzo la base navale russa di Tartus. L’ammiraglio russo Kravchenko, memore della lezione libica, ha chiaramente minacciato: «La presenza di una forza militare diversa dalla Nato è molto utile in questa regione, perché previene lo scoppio di un conflitto armato». Se si intraprendesse un’azione unilaterale ciò provocherebbe una reazione di Mosca in difesa di un alleato che ospita una sua base nel Mediterraneo e con il quale solo nel 2010 ha avuto un giro d’affari, tra armi e investimenti, di 20 miliardi di dollari. La Russia ultimamente ha accusato il colpo per il suo obbligato silenzio – assenso alla rimozione dell’alleato Gheddafi e sta cercando di invertire questa tendenza statunitense ad estendere la loro influenza nel Mediterraneo.
Anche la Cina in un primo momento ha posto il veto ad una risoluzione di condanna ONU del regime siriano. Diversamente da Mosca, che difende la Siria per difendere se stessa, Pechino vuole invece affermare il suo ruolo di nuova potenza di livello mondiale, pronta ad affiancare le vecchie, per poi metterle in secondo piano. Gli equilibri di potere stabiliti dai vincitori della Seconda Guerra Mondiale e ratificati ad Yalta tra Stati Uniti, Gran Bretagna e Russia da decenni ormai non sono più validi perché Londra di fatto non ha più alcuna voce in capitolo e quella di Mosca è stata fortemente ridimensionata, mentre Pechino rivendica il suo “posto al sole”. L’Europa continentale, debole politicamente e militarmente, è costretta a stare a guardare.
In questi nuovi rapporti di forza, uno dei protagonisti emergenti è certamente rappresentato dall’Iran che si muove come una potenza regionale e si scontra dunque col predominio israeliano ed americano. Teheran aspetta l’occasione propizia per confermare il suo ruolo verso l’esterno allo scopo anche di controllare le spinte dell’opposizione interna. Ma parlare di guerra fredda tra Iran e Stati Uniti è un non senso. La guerra fredda tra Usa e Urss era il risultato di un ben concertato piano di divisione e di dominio sul mondo. Pensare invece ad un grande Iran che controlli tutta la regione è pura fantapolitica. Al più si potrebbe immaginare una sorta di corridoio montano che lo colleghi via terra alla Siria, attraverso il Kurdistan nel nord dell’Iraq, per dargli uno sbocco sul Mediterraneo e al porto di Tartus, dove l’alleata Siria garantisce un appoggio alla marina iraniana. Ma ogni sorta di modifica degli attuali confini non è ammessa dalla “comunità internazionale”.
Gli Usa, del resto, da anni manovrano per destabilizzare i due regimi alleati facendo leva sui paesi vicini. In Siria operano guastatori responsabili, pare certo, del sabotaggio, uno dei tanti, del principale oleodotto siriano presso la raffineria di Homs nel quartiere Bab Amro, una roccaforte sunnita. Però un intervento diretto di paesi stranieri in Siria per la composizione della crisi attuale, soprattutto se attuato con la partecipazione di Washington, potrebbe provocare la reazione iraniana.
La strada americana per Teheran passa per Beirut, Damasco e Baghdad. Ma la sua destinazione finale è ancora più ad oriente: chiudere l’espansione cinese verso le fonti energetiche arabe attraverso la costruzione di una cintura di Stati sotto il controllo americano ai confini della Cina, comprese le traballanti e corrotte repubbliche transcaucasiche, in parte già sotto la sua influenza.
Al momento il gigante cinese non si sbilancia e il rappresentante di Pechino al Consiglio di sicurezza dell’ONU si limita a dichiarare che «La comunità internazionale dovrebbe fornire assistenza costruttiva per facilitare il raggiungimento degli obiettivi del processo politico siriano rispettando pienamente la sovranità, l’indipendenza e l’integrità territoriale della Siria».
Nel vicino Libano il Partito di Dio, Hezbollah, ed in generale il governo libanese, hanno ribadito il proprio allineamento al governo siriano, e di conseguenza all’Iran, contro ogni “complotto internazionale”. Allo stesso tempo, però, il movimento libanese starebbe smobilitando il proprio arsenale presente sul territorio siriano.
Lo stesso Iraq non vede di buon grado le sanzioni comminate alla confinante Siria, anche perché, da antagonista di vecchia data, è diventato un suo importante partner commerciale e si oppone ad ogni ipotesi di intervento straniero nel Paese..
Da ex alleata, al contrario, la Turchia sembra diventata una delle più acerrime nemiche di Assad. Erdogan nelle sue dichiarazioni cavalca l’interventismo, sostenendo la necessità di aiuto alla popolazione civile. Durante una delle tante riunioni dell’ONU il premier anatolico ha così commentato: «Siccome Al Assad ha affermato di voler combattere fino alla morte vorrei ricordare gli altri che hanno fatto lo stesso: Hitler, Mussolini, Ceauscescu. Se Al Assad non è in grado di trarre una lezione da loro, guardi a quanto accaduto a Gheddafi, ucciso in Libia, anche lui ha sparato sul suo popolo, ripetendo le sue stesse frasi».
Ankara inoltre ospita il leader in esilio dei Fratelli Musulmani siriani, Mohammad Riad Shakfa, che ha definito auspicabile un intervento turco in Siria. Turchia e Giordania, in attesa del consenso delle potenze occidentali, stanno preparando due “zone cuscinetto” all’interno della Siria, aree formalmente create per la tutela dei civili ma che in realtà avrebbero la preziosa funzione di evitare che l’instabilità siriana e le conseguenti tensioni sociali si estendano ai propri territori.
Israele si sta muovendo con non usuale prudenza cercando di non fornire alcun pretesto a Damasco. Se è vero infatti che Tel Aviv è in grado di tener fronte agli eserciti regionali è pur vero che, specialmente in questa situazione, le guerre si sa come iniziano ma non come finiscono e sembra che ogni possibile mossa sia sbagliata. La famiglia Assad, d’altronde, è scesa più volte a patti con Tel Aviv e la repressione attuata dalla borghesia siriana è stata spesso la chiave per la “pacificazione” dell’area a spese del proletariato mediorientale, in particolar modo quello palestinese.
Ma la generale crisi capitalistica, che qui si esprime come conflitto regionale, non ammette lunghi stalli; si tratterà di vedere chi farà la prima mossa falsa.
L’INDIRIZZO DI CLASSE
Nei lunghi mesi di questa rivolta, che ha assunto anche le caratteristiche di insurrezione armata, non pare che il proletariato siriano sia riuscito a darsi organizzazioni autonome né sul piano politico né su quello delle rivendicazioni immediate. Il movimento di resistenza contro il regime, di cui certamente fanno parte anche larghi strati proletari, è nelle mani di fazioni borghesi foraggiate dall’imperialismo occidentale.
Il primo compito del proletariato siriano che certamente sta fornendo la carne da cannone al movimento anti governativo, è quello di dotarsi di autonome organizzazioni di classe spezzando l’influenza nefasta del sindacalismo filo statale e cercando di ricollegarsi con le sue avanguardie alla tradizione del comunismo rivoluzionario, svincolandosi dall’influenza delle organizzazioni borghesi e piccolo borghesi che vogliono portarlo nel cul di sacco della lotta per la libertà e la democrazia. Se il proletariato continuerà a seguire i partiti borghesi, le sue sofferenze e il suo sangue gli serviranno solo a cambiare di padrone, a portare il Paese dalla sudditanza a Mosca alla sottomissione all’imperialismo occidentale. Il caso della Libia è in questo senso una lezione evidente e ancora bruciante.
Il proletariato arabo, di cui anche quello siriano fa parte, ha significative tradizioni di classe. Le rivolte in Tunisia ed in Egitto hanno visto i lavoratori salariati in prima fila; in Egitto soprattutto in questi ultimi anni sono nati numerosi e combattivi sindacati, indipendenti dall’influenza statale i cui dirigenti hanno già capito a proprie spese che il nuovo regime, nato dopo la caduta di Mubarak, non è migliore del precedente. Così è accaduto anche in Tunisia.
Così accadrà anche in Siria se questa rivolta non riuscirà ad innescare una ripresa della lotta di classe, contro il regime di Assad ma anche contro i suoi “avversari” borghesi, perché queste fazioni, che oggi si combattono, sono ambedue nemiche del proletariato.
La “nostra” rivolta infatti dovrà fatalmente smascherare le
innumerevoli
menzogne della propaganda borghese che mira a sciogliere le classi nel
magma indistinto del “popolo” arabo, che vuole incatenare i proletari
al feticcio religioso per cercare di allontanare il momento in cui il
proletariato
arabo dovrà unirsi a quello occidentale nella lotta comune
contro il
regime
del Capitale, scrivendo sulle proprie bandiere: morte al regime
borghese
sia esso democratico o apertamente dittatoriale, per l’emancipazione
dal lavoro salariato, per il comunismo.
Riprendiamo dal numero scorso
e concludiamo con i resoconti brevi dei rapporti alla riunione.
Il rapporto ha esposto ai compagni una rassegna degli avvenimenti sindacali intercorsi dalla precedente riunione generale, quindi da settembre a gennaio, concentrandosi sugli attacchi alla classe lavoratrice condotti da governo e industriali, sulle reazioni sia dei sindacati di regime sia di quelli “di base”, e sull’attività del partito.
Il rapporto alla precedente riunione si concludeva con le valutazioni circa lo sciopero generale del 6 settembre, proclamato dalla Cgil contro la cosiddetta “Manovra-bis” del governo Berlusconi, e con le valutazioni circa la piattaforma Fiom per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici, approvata all’Assemblea nazionale dei delegati Fiom a Cervia il 23 settembre.
Sullo sciopero del 6 settembre si sottolineava che:
1. Secondo l’impostazione fondamentale del sindacalismo di regime
lo sciopero non era preparato come una prova di forza con cui
piegare
il Governo costringendolo a ritirare la manovra, ma era una
manifestazione
per puntellare e ribadire – soprattutto nei confronti dei propri
iscritti
e della propria elefantiaca struttura – la funzione della Cgil di
sindacato
che svolge opera di conciliazione, nella nazione e nelle aziende, fra
le
esigenze del lavoro e quelle del capitale, cioè – giocoforza –
di
sottomissione delle prime alle seconde;
2. Lo sciopero era proclamato dalla Cgil in particolare contro
l’articolo
8 della manovra e in difesa dell’Accordo del 28 giugno, firmato da
Cgil,
Cisl, Uil e Confindustria. Il proposito dell’art. 8 era sfondare
là
dove l’Accordo del 28 giugno aveva aperto la breccia: distruggere il
contratto nazionale di categoria svuotato di contenuti, spostandolo sui
contratti aziendali. Lo sciopero serviva dunque anche a suggellare la
precedente
azione della Cgil, che con l’accordo del 28 giugno, contestato
aspramente
dalla sua minoranza di sinistra, aveva ritrovato l’unità
sindacale con
Cisl e Uil.
Il 14 settembre il Decreto legge n. 138 del 13 agosto era approvato dal parlamento e convertito in legge.
Il 21 settembre la Cgil – senza nemmeno attendere l’esito formale della consultazione referendaria dei suoi iscritti – ratificava con Cisl e Uil l’accordo del 28 giugno.
La Fiom, che teneva l’Assemblea dei delegati a Cervia il 22 e 23 settembre per l’approvazione della piattaforma per il rinnovo del Ccnl, appare stretta, da un lato, dall’appartenenza alla sua confederazione, che le impone di non poter minimamente uscire dai binari della “concertazione”; binari su cui, del resto, ha svolto tutta la sua azione sindacale passata che, appunto, mai è uscita dal piano concertativo e nazional-aziendale e che quindi non ha condotto a lavorare per costruire una forza di classe finalizzata alla lotta aperta col padronato. Dall’altro lato, si fa sentire la condizione di debolezza della classe in conseguenza della crisi, che con la minaccia della disoccupazione spinge i lavoratori – privi di una loro organizzazione sindacale classista – ad accettare ogni tipo di peggioramento.
Date queste basi la pietra angolare su cui la Fiom ha impostato la difesa del contratto nazionale è la stessa di sempre del sindacalismo di regime: l’unità sindacale, in questo caso con Fim e Uilm.
Dal 15 ottobre 2009 sussistono infatti per i metalmeccanici due diversi contratti nazionali di categoria: quello del 20 gennaio 2008, firmato da Fim, Fiom e Uilm, in scadenza a fine 2011, ma disdetto da Fim e Uilm a metà del 2009 e da Federmeccanica a settembre 2010; quello del 15 ottobre 2009, firmato da Fim e Uilm con Federmeccanica, che scadrà il 31 dicembre 2012.
Per cercare di firmare un nuovo contratto unitario con Fim e Uilm, che avrebbero dovuto quindi dare la disdetta al “loro” contratto separato, la Fiom ha varato una piattaforma cedendo parzialmente alle posizioni sostenute da questi due sindacati innanzitutto su deroghe, tregue sindacali e triennalizzazione.
Come prevedibile questo non è servito allo scopo e Fim e Uilm hanno continuato dritte per la loro strada: il 13 dicembre la Fiat ha esteso a tutte le fabbriche italiane del gruppo il Contratto collettivo specifico di primo livello applicato prima a Pomigliano poi a Mirafiori, in vigore dal 1° gennaio al 31 dicembre 2012; il 22 dicembre Fim, Uilm, Fismic e Uglm hanno firmato con Federmeccanica un protocollo d’intesa sulla disciplina specifica per il comparto auto, cioè per le fabbriche dell’indotto; dal 1° gennaio 2012 resta vigente solo il contratto metalmeccanico di Fim e Uilm.
L’attacco della borghesia alle condizioni di vita della classe lavoratrice in Italia si sta quindi dispiegando lungo due dorsali principali: lo smantellamento del contratto nazionale di lavoro, condotto dagli industriali appoggiandosi ai sindacati di regime, senza l’intervento diretto del governo; l’attacco al salario complessivo della classe attraverso le successive manovre finanziarie operato colpendo principalmente il salario differito (pensioni), quello indiretto (servizi sociali), nonché il salario diretto attraverso l’aumento della tassazione.
L’8 novembre cadeva il governo Berlusconi, il 16 si insediava il governo Monti e il 6 dicembre il nuovo governo varava col Decreto legge n. 201 (“Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici”) un’ulteriore manovra che colpisce i lavoratori: nuovo innalzamento dell’età pensionabile (dal 2018 a 66 anni e 7 mesi), passaggio per tutti dal sistema retributivo di calcolo della pensione a quello contributivo (all’incirca da una pensione pari all’80% ad una pari al 60% dell’ultimo salario), annullamento dal 2018 delle pensioni d’anzianità, aumento della pressione fiscale.
Come previsto la borghesia dispone la periodica sceneggiata del cambio del personale di servizio: il “professor” Monti al governo riceve gli applausi di tutta la “sinistra” borghese – sia quella moderata del PD sia quella cosiddetta radicale e costretta all’extra-parlamentarismo del SEL, delle Rifondazioni, ecc. che per due decenni hanno additato il libertino Berlusconi quale principale nemico dei lavoratori e del loro sindacato.
Contro la manovra Cgil, Cisl e Uil proclamano uno sciopero generale ancora più farsesco del solito: il 12 dicembre sciopero di 3 ore dei lavoratori del privato, il 19 sciopero di 8 ore del pubblico impiego. Il 22 dicembre la manovra è tranquillamente convertita in legge.
Varata la manovra il governo si sta apprestando a sferrare un nuovo colpo con la cosiddetta “riforma del mercato del lavoro” e da febbraio si sta consumando il balletto di dichiarazioni e incontri fra sindacati e governo. Il tutto ha uno scopo sopra tutti gli altri: che non si parli di organizzare una vera lotta difensiva della classe lavoratrice.
In queste vicende, che vedono i lavoratori subire senza riuscire a reagire, il sindacalismo “di base” continua a confermare le sue tare, muovendosi secondo norme pratiche proprie più di organizzazioni politiche che sindacali, prima fra tutte quella d’indire scioperi separati, sia dai confederali sia fra le varie sigle del sindacalismo conflittuale.
La scelta di Usb e Slai Cobas d’aderire allo sciopero del 6 settembre della Cgil si è infatti confermata solo contingente. La Cub non ha aderito a quello sciopero ma ne ha organizzato uno per sé il 17 novembre, insieme ai Cobas, che nel frattempo, a seguito della manifestazione “No debito” del 15 ottobre a Roma, si erano scontrati duramente con i vertici di Usb per ragioni esplicitamente politiche. L’Usb invece proclamava uno sciopero il 2 dicembre, poi, a seguito della caduta del governo Berlusconi, ritirato.
Di fronte alla dura e provocatoria manovra del governo Monti, pur di non scioperare insieme alla Cgil, tutto il sindacalismo di base non ha mosso un dito. Fatto evidentemente gravissimo. Solo la federazione dell’Usb-lavoro-privato ha aderito allo sciopero del 12 dicembre, che la Fiom aveva esteso per i metalmeccanici a tutte le 8 ore (3 ore per le restanti categorie). Ma questa scelta, comunque positiva, appare dovuta al fatto che nel settore privato l’Usb conta pochissimi organizzati.
L’Usb e lo Slai Cobas hanno organizzato uno sciopero il 27 gennaio del tutto fuori tempo: troppo tardi per contrastare la manovra Monti – già approvata da un mese – troppo presto per contrastare la nuova riforma del lavoro, con le trattative nemmeno iniziate. Uno sciopero che perciò non aveva un obiettivo e che infatti ha avuto un’adesione ancora inferiore rispetto agli scioperi passati – sempre minoritari – del sindacalismo di base.
Unica eccezione nel sindacalismo di base è il piccolo SI-Cobas, che conduce scioperi nel settore della logistica, organizzando lavoratori per lo più immigrati, e giustamente aderisce sia agli scioperi generali della Cgil, per il semplice fatto che ad essi partecipa ancora la gran massa dei lavoratori, sia a quelli del sindacalismo di base.
Il partito è intervenuto agli scioperi dei confederali del 12 e 19 dicembre e a quello dell’USB-Slai Cobas del 27 gennaio, con volantini appositi che hanno descritto alla classe la reale situazione economica e politica in cui si trova, dato il suo indirizzo generale di lotta, hanno attaccato il sindacalismo di regime ed avanzato critiche puntuali ed esplicite a quello di base.
Sul piano dell’attività all’interno del sindacalismo di base i nostri compagni hanno ribadito, nelle occasioni che si sono presentate per assemblee territoriali o sui posti di lavoro, la necessità di rompere con la pratica degli scioperi separati e perseguire la unità di azione di tutti i lavoratori, quale mezzo migliore per combattere il sindacalismo di regime di Cgil, Cisl, Uil, Ugl.
A tal scopo i nostri compagni, insieme ad altri lavoratori, hanno
redatto
due diversi appelli rivolti entrambi alla dirigenza Usb, a seguito
dello
sciopero del 6 settembre (contro la scelta d’organizzare manifestazioni
separate) e in vista dello sciopero generale di Cgil, Cisl e Uil del 19
dicembre, chiedendo a Usb di aderire. Lo scopo di questi appelli non
è
tanto convincere la dirigenza a cambiare posizione – cosa ben difficile
– ma propagandare fra gli iscritti e i militanti del sindacalismo di
base la giusta prassi classista dell’unità d’azione.
DEMOCRAZIA E MOVIMENTO OPERAIO IN ITALIA
Il rapporto iniziava ricollegandosi a quanto esposto nel corso dell’ultima riunione generale: veniva accennato alla ondata di scioperi in Italia del 1868 ed ai moti contadini dell’anno successivo. Il 1868 era stato l’anno della miseria più nera per le classi lavoratrici urbane ed il malcontento era sfociato in frequenti e clamorosi atti di protesta. Gli operai e gli artigiani delle città diedero sfogo al loro malcontento con la richiesta di aumenti salariali, attraverso pubbliche dimostrazioni e, soprattutto, intensificando le azioni di sciopero che coinvolgevano contemporaneamente le varie categorie di una stessa città: lo sciopero generale.
L’anno successivo fu l’introduzione della tassa sul macinato a determinare la rivolta spontanea dei lavoratori delle campagne, rivolta che immediatamente assunse forme e proporzioni non previste né dal governo né dagli stessi insorti. Fu a questo punto che alcuni nuclei repubblicani, agendo di loro iniziativa, cercarono di utilizzare il movimento ai propri fini. Il partito repubblicano, infatti, avrebbe potuto, perché ne aveva la forza, congiungere la rivolta dei contadini a quella, ben più pericolosa, degli operai e degli artigiani nelle città, se oltre alla bandiera della repubblica avesse agitato anche quella delle riforme sociali. Ma Mazzini ed il suo partito svolsero il ruolo tipico dell’opportunismo, fare in modo che le proteste e le azioni di lotta di classe non infrangessero gli equilibri di potere dell’ordinamento borghese.
Questi movimenti di proletari e di contadini non mancarono di allarmare la borghesia che nella stampa e nel parlamento accusava l’Internazionale come unica responsabile e denunciava l’imminente pericolo del comunismo. Di fatto, sfortunatamente, l’Internazionale non aveva ancora messo piede in maniera stabile in Italia, ma già lo spettro del comunismo faceva sudare freddo ai borghesi.
Contemporaneamente a questi avvenimenti si tenevano in Svizzera i congressi dell’Internazionale e della Lega della Pace. Il rapporto si soffermava quindi esponendo i vari tentativi di Bakunin di stravolgere l’Internazionale dalla sua diritta impostazione, prima tentando di innestarvi la Lega per la Pace e successivamente la sua Alleanza Internazionale della Democrazia socialista.
Nel gennaio del ’69 a Napoli era sorta la prima sezione dell’Internazionale con piena adesione ai suoi statuti. Però dobbiamo ammettere che i “socialisti” italiani erano tali soprattutto dal punto di vista sentimentale, mentre ancora era lontana l’acquisizione di una vera coscienza di classe. Rende bene l’idea di questa situazione quanto fu scritto su uno degli esponenti più in vista della sinistra democratica: «Ciò che resta inesplicabile è come possa trovarsi anche con l’Internazionale, dopoché si trova con la più o meno monarchica Sinistra, con la più o meno malva Massoneria, colla più o meno rossa Democrazia ad un tempo; egli è dunque un potpourri». E questa non era la situazione di un singolo individuo ma della maggior parte di coloro che militavano all’interno delle organizzazioni rivoluzionarie: mazziniani, garibaldini, internazionalisti. Era un periodo in cui la democrazia italiana civettava con il socialismo ed il “socialismo” italiano faceva altrettanto con la democrazia, periodo delle conversioni clamorose e dei tentativi di conciliare le due inconciliabili scuole: “riunire sotto una sola bandiera repubblicana e internazionalisti e mazziniani”.
Non vi era ancora in Italia una esatta idea della dottrina socialista, anzi, il più delle volte per socialiste passavano idee che non lo erano affatto.
Ma furono gli avvenimenti di Francia quelli che, intorno al 1871, diedero un profondo scossone all’ambiente politico italiano. Il rovinoso crollo dell’impero di Napoleone il Piccolo e la successiva insurrezione del proletariato parigino commossero gli animi e determinarono le posizioni dei partiti politici e delle classi sociali.
La stampa moderata (chi si trova al potere è sempre “moderato”), spargeva il terrore all’interno della classe borghese descrivendo a fosche tinte i crimini compiuti dai comunardi e ricordando che «il socialismo, il comunismo, tutti i deliri delle sette più avanzate minacciano la società». Era toccato alla Francia, ma sarebbe potuto toccare, domani, all’Italia solo che l’Internazionale fosse riuscita a suscitare nelle plebi l’odio contro l’ordine sociale e la proprietà. E di conseguenza ogni sciopero, ogni manifestazione operaia venivano attribuiti ai diabolici disegni dell’Internazionale. Quindi invocavano il governo affinché prendesse immediati provvedimenti per reprimere tutte quelle organizzazioni che avessero dimostrato una qualche solidarietà con gli insorti parigini.
Come naturale del tutto opposta era l’attitudine del proletariato italiano e delle organizzazioni che al proletariato si riferivano. Comitati e gruppi politici nati spontaneamente si affiancavano alle vecchie Società Operaie rinvigorite da nuovo afflusso di giovani e prendevano una posizione ferma e decisa a favore della lotta del proletariato di Parigi. E questo atteggiamento non si limitò ai giorni della gloria, ma rimase inalterato anche dopo la sconfitta della Comune.
Lo spirito con il quale la gioventù italiana sentiva di aderire alla Comune di Parigi e, di conseguenza, all’Internazionale venne egregiamente tratteggiato da Andrea Costa in un suo scritto successivo: «La Comune di Parigi, fu quella soprattutto che rivelò al popolo italiano che v’erano altri e ben più gravi problemi da discutere, da quelli in fuori che l’avevano occupato fin allora [...] Fu sul cadavere della Comune – feconda nelle sue rovine – che s’impegnò la lotta tra lo spirito vecchio ed il nuovo; è dal sangue dei trucidati comunardi che si trassero gli auspici. Ricordate o compagni come aspettavamo le nuove da Parigi? Come cercavamo gli statuti di questa Associazione Internazionale? [...] Ricordate le nostre prime sezioni, i primi manifesti i primi opuscoli [...] i Fasci Operai incerti come cercanti la luce che coprirono in un batter d’occhio mezza Italia? [...] Noi ci gettammo in quel movimento, spinti assai più dal desiderio di romperla con il passato che ci opprimeva [...] piuttosto che dalla coscienza riflessa di quel che volevamo. Noi sentimmo che l’avvenire era là [...] Un volta infatti per quella via noi avemmo ben presto coscienza dell’esser nostro [...] onde l’accettazione inevitabile del programma dell’Associazione Internazionale, che poneva l’emancipazione economica dei lavoratori a fondamento del benessere materiale».
Di fronte a questa entusiastica adesione della gioventù rivoluzionaria, Mazzini mostrava nei fatti la sua natura di conservatore piccolo-borghese ed il suo giudizio sulla Comune di Parigi fu di condanna senza appello. Dalle colonne della Roma del Popolo iniziò la sua metodica battaglia contro la Comune e, a cominciare dall’aprile, non uscì numero di questo giornale che non contenesse un suo articolo, direttamente o indirettamente, dedicato alle vicende francesi.
La sua attitudine violentemente antisocialista non mancò di essere notata ed apprezzata dai suoi ex-“nemici” monarchici: La Nazione di Firenze si rallegrava scrivendo: «Siamo lieti, come italiani, che anche il capo del partito repubblicano abbia sentito il dovere di protestare contro gli eccessi di Parigi [...] Ci ha fatto piacere che il Sig. Mazzini abbia scritto come ha scritto» (10 luglio 1871).
Mazzini per primo si rendeva però conto di combattere una
battaglia
ormai perduta, il suo era ormai un partito che andava in sfacelo.
Ultima
sua speranza era riposta nell’aiuto della repressione poliziesca nei
confronti di quelle organizzazioni che esprimevano simpatia verso
l’Internazionale.
INDIRIZZO SINDACALE SU IL COMUNISTA 1922
Il compagno ha illustrato estratti della nostra stampa del giugno e luglio 1922, precisamente dal giornale Il Comunista, per mostrare come il Partito Comunista d’Italia cercasse di portare le lotte dei metalmeccanici allora in sciopero e delle altre categorie nell’ambito della neonata Alleanza del Lavoro. L’intento era quello di unire i proletari presenti nei vari sindacati, secondo la parola d’ordine del Fronte Unico sindacale. Naturalmente i dirigenti della Confederazione e della Fiom di Buozzi fanno di tutto per spezzare le lotte, e alla nostra proposta di sciopero generale oppongono lo sciopero città per città o anche fabbrica per fabbrica, argomentando che se una parte dei padroni è contraria alle proposte dei metalmeccanici, sarebbe bene scioperare solo nelle fabbriche di questi ultimi, evitando di far perdere denaro agli altri operai, e di fermare la produzione in un momento di crisi.
Anche le richieste degli industriali di diminuzione dei salari sono accettate dai dirigenti confederali in nome dell’economia nazionale, sbandierando come vittoria aver ottenuto diminuzioni inferiori alle richieste.
Nel giornale del 20 luglio 1922 troviamo un articolo sullo SFI, il Sindacato Ferrovieri Italiani, in cui erano presenti i comunisti ma la cui maggioranza era costituita da sindacalisti rivoluzionari e da anarchici, che rimproveravano a noi comunisti di non essere abbastanza rivoluzionari ed antiparlamentari. Vi si riporta un articolo del giornale borghese Il Resto del Carlino del 25 dicembre 1921 in cui viene intervistato un membro del Comitato Centrale. Leggiamo: «Gli estremisti ebbero nel Sindacato breve fortuna. L’unico comunista che allora faceva parte del Comitato Centrale dovette dimettersi. Oggi i comunisti sono di fatto esclusi da tutte le cariche del Sindacato mentre tutti gli altri partiti, dal riformista all’anarchico, e dal repubblicano al sindacalista, vi sono rappresentati. La designazione di “Sindacato rosso” con cui correntemente si indica il Sindacato Ferrovieri Italiani può quindi considerarsi assai inesatta. La concezione a cui si inspira il Sindacato risponde a quella del sindacalismo più puro ed al criterio che adottò anche il fascismo. Da un pezzo le circolari del Comitato Centrale e del Consiglio Generale hanno lodevoli accenni alle necessità del servizio e all’interesse del paese».
Ancora una volta, con le parole d’ordine della apoliticità e
della
pace, troviamo riformisti, massimalisti, sindacalisti ed anarchici
schierati,
confusamente tra loro, ma dalla stessa parte: quella
dell’anticomunismo.
PAGINA 3
Dietro le
quinte del
paradiso tedesco
Una notizia Ansa dell’8 marzo dice: «Per le “eccellenti prestazioni” fornite nell’anno record 2011, Volkswagen liquiderà un premio di produzione di 7.500 euro agli oltre 100.000 dipendenti impiegati col contratto collettivo nelle sei fabbriche tedesche. L’anno passato la multinazionale di Wolfsburg aveva fatto registrare un guadagno netto di 15,79 miliardi di euro, più del doppio rispetto all’anno precedente. Il premio era stato di 4.000 euro». Ovviamente la notizia, di questi tempi, ha fatto scalpore. E padronato e sindacati, con accenti diversi ma in sostanza d’accordo, prendono l’azienda tedesca a modello. Purtroppo, nel capitalismo, il “successo” di una azienda implica l’ “insuccesso” delle altre!
Passiamo però ad una ricerca dell’Istituto per il Lavoro e la Qualificazione professionale dell’Università di Duisburg-Essen che è stata pubblicata dalla Suddeutsche Zeitung, e che ha avuto meno risonanza. Lo studio rivela che in Germania circa 8 milioni di lavoratori percepiscono un salario inferiore ai 9,25 euro l’ora, 4,1 milioni inferiore ai 7 euro l’ora, 2,5 milioni inferiore a 6 e quasi 1,4 milioni sono addirittura costretti a cavarsela con meno di 5 euro, che sono meno di 1.000 euro lordi al mese. Quasi la metà dei sottopagati non ha un’occupazione part-time, bensì un posto a tempo pieno. Dal 1995 al 2010 il numero dei sottopagati è salito di 2,3 milioni, un aumento imputato, in parte, al fatto che i ricercatori hanno incluso per la prima volta nei loro calcoli anche studenti e pensionati che esercitano un’attività lavorativa (500.000 in tutto).
Si evince da questi dati che nell’economia capitalista i “miracoli”
sono fatti solo grazie ad un maggiore sfruttamento della classe
operaia.
Il momento felice della Volkswagen presto finirà; spetta ai
lavoratori
di quella azienda unirsi fin da ora con i fratelli di classe oggi meno
fortunati contro il padronato che cerca di dividerli.
PAGINA 4
Parigi, 18 marzo
O Riformismo, e le sue illusioni, o Rivoluzione!
In Francia, le due correnti del riformismo, socialdemocratica e staliniana, vogliono rifarsi una verginità presentandosi insieme alle elezioni come “Fronte delle Sinistre”. Promettono che, votandoli, senza rivoluzione, senza rovesciare con la forza la borghesia, sarebbe possibile una diversa ripartizione della ricchezza fra la classi, un salario decente ed una occupazione stabile, vivere onestamente del proprio lavoro senza il rischio di trovarsi disoccupati, assicurarsi una previdenza per la vecchiaia e per le malattie e, infine, sarebbe possibile una società senza crisi economiche, senza crisi di sovrapproduzione! Che il “Fronte delle Sinistre” creda o meno a queste illusioni piccolo borghesi, poco importa: diffondere simili assurdità nelle file del proletariato è comunque criminale.
Dopo la depressione dell’interguerra, per 30 anni il capitale ha conosciuto un ciclo di accumulazione quasi continuo. Dal 1952, anno in cui la produzione industriale supera il massimo del 1930, al 1974 la produzione industriale è cresciuta al tasso medio del 6,2%, contro lo 0,7% fra il 1912 ed il 1930. Solo in quei decenni del tutto eccezionali fu generalizzata la “sicurezza sociale” che ha permesso l’accesso per tutti all’assistenza sanitaria e ad un minimo di pensioni di vecchiaia. Il livello di vita effettivamente si elevò e le condizioni di lavoro migliorarono, creando così l’illusione che all’interno della società borghese sarebbe stato possibile un progresso continuo e senza crisi economiche. Si dimenticò presto che il ciclo di accumulazione del capitale riposava sulle distruzioni massicce della Seconda Guerra mondiale e sui suoi 50 milioni di morti, distruzioni e massacri che soli hanno permesso al capitale mondiale di uscire dalla crisi di sovrapproduzione degli anni ‘30 e di simulare una sua effimera nuova giovinezza.
Ma il miglioramento del trattamento operaio non è stato un regalo della borghesia, né ottenuto con la scheda elettorale, ma strappato con lotte aspre, con una classe inquadrata in sindacati e determinata a battersi unita in uno spirito di fraterna solidarietà. La borghesia, messa sotto pressione, ha dovuto cedere; l’ha potuto fare perché allora il capitale era in piena crescita e le era preferibile accettare che i salari aumentassero piuttosto che rischiare di perdere mirabolanti profitti per lunghi e duri scioperi. È al portafogli che alla borghesia fa male.
Oggi la situazione è radicalmente diversa: la fase di espansione è definitivamente terminata nel 1975 con la prima grande crisi mondiale di sovrapproduzione del dopoguerra. Da allora il capitalismo mondiale ha attraversato una serie ininterrotta di riprese e crisi di sovrapproduzione. Per la Francia, al tasso annuale medio del 6,2% nei “30 anni di gloria” è seguito quello dell’1,3%. E quel che è per il capitalismo francese lo è anche per tutti i grandi paesi industriali, a verifica del calare del tasso di profitto previsto da Marx nella sua opera “Il Capitale”.
La borghesia internazionale tenta con ogni mezzo di salvare il sistema di produzione che le garantisce i suoi privilegi di classe, e si è ormai ridotta a parare giorno dopo giorno i colpi peggiori. Sotto la pressione della concorrenza è costretta a svuotare di contenuto la legislazione del lavoro, tornare alla precarietà illimitata dell’impiego, a salari al di sotto dei contratti, a ridurre i servizi pubblici; il welfare del secolo scorso viene smantellato non perché la borghesia sia particolarmente malvagia ma perché ne è costretta dalle leggi del capitale. Una sola cosa conta, il profitto a breve termine. Così facendo il capitalismo, e con esso la borghesia, diviene sempre più parassitario ed inutile.
Il “Fronte delle Sinistre” lascia credere che sia possibile aumentare lo SMIG, il Salario Minimo, a 1.700 euro, che si possa tornare alla pensione a 60 anni, e al 100% del salario, e nello stesso tempo eliminare il debito pubblico! Che sia possibile una ripartizione dei redditi più favorevole a chi lavora! E il tutto senza stampare nuova moneta!
Dal 2009 il capitalismo mondiale è precipitato in una crisi peggiore di quella del 1929. Ha evitato appena il tracollo con l’immissione massiccia di molte migliaia di miliardi di dollari nel circuito dell’economia, il che ha accumulato un montagna di debiti inesigibili nelle casse delle Banche centrali mentre degli Stati hanno un tasso di indebitamento vertiginoso. Nel 2011 in Francia si accumulano 1.646 miliardi di euro di debito pubblico, l’84% del prodotto interno lordo!
La BCE, per evitare un crollo della produzione e una bancarotta finanziaria come nel 2008, ha prestato alle banche mille miliardi di euro nell’arco di un trimestre, con promessa di rimborso in tre anni, ma solo per evitare il peggio alla società borghese e senza con questo muovere al rilancio l’accumulazione del capitale. Alla prossima caduta della produzione industriale, che è ineluttabile, la crisi di sovrapproduzione supererà quella del 1929 e coinvolgerà la Cina, gli Stati Uniti, l’Europa ed il resto del Mondo.
Il riformismo socialdemocratico e quello staliniano hanno condotto il movimento proletario di sconfitta in sconfitta, tradendolo ad ogni scontro critico con la borghesia e provocando demoralizzazione e disorganizzazione della classe operaia. Non sono oggi cambiati, il “Fronte della Sinistra” segue le stesse vie, la stessa tattica, lo stesso programma: deviare le lotte sul terreno democratico, che è quello della borghesia e nel quale il proletariato si è tante volte impantanato. In politica “alleanza elettorale al secondo turno”, in economia “intervento dello Stato nell’economia”.
Il famoso “socialismo” di Stalin, che non era altro che capitalismo di Stato nelle città ed un ibrido mostruoso di capitalismo privato e di piccola produzione parcellare nelle campagne, è finito in bancarotta clamorosa. Dal 1990 al 1998 la produzione industriale in Russia è crollata del 55%! Peggio che durante la grande crisi degli anni ‘30 negli Stati Uniti.
Le “sinistre”, una volta al governo, riusciranno a peggiorare ancora le condizioni della classe operaia e a far pagare alla piccola borghesia maggiori imposte, ma sicuramente non alle multinazionali, che non soltanto non le pagano, o molto poco, ma per di più utilizzano i paradisi fiscali per non pagare l’IVA. E della crisi di sovrapproduzione nemmeno parlano! Nessuno Stato è riuscito da evitarla.
Il capitalismo è un cadavere che cammina. Il compito storico del capitalismo è stato quello di socializzare le forze produttive: ha sostituito la produzione parcellare ed individuale del contadino e dell’artigiano con la produzione industriale basata sul lavoro collettivo dei salariati. Ha reso i popoli del mondo intero interdipendenti, sviluppando con le multinazionali una vasta rete economica che abbraccia il pianeta. Così facendo ha sviluppato a scala gigantesca le basi economiche della società comunista. Questa base entra oggi in conflitto con i rapporti di produzione capitalisti: il salariato ed il capitale. Più la produttività aumenta, più il valore aggiunto diviene irrisorio in rapporto agli enormi capitali che occorre anticipare, condannando così a morte il capitalismo.
I rapporti di produzione capitalistici sono divenuti solo un guscio che bisogna infrangere per liberare la società comunista. Ma questo richiede il rovesciamento con la forza del potere della borghesia industriale, finanziaria e fondiaria, la sua messa al di fuori della legge e la sua espropriazione.
La rivoluzione deve però maturare e prepararsi: dapprima organizzandosi la classe operaia sul terreno della lotta difensiva in dei veri sindacati di classi, che non esiteranno a ricorrere allo sciopero generale per difendere gli interessi dei lavoratori, e non dei sindacati che solo fingono di organizzarli, come fanno le confederazioni della collaborazione di classe (Cfdt, Cgt, Fo). Il cammino della ripresa della lotta di classe richiede di ritrovare i sentimenti della solidarietà e della fraternità fra lavoratori.
Ma per rovesciare il potere della borghesia occorre ritrovare ed
inquadrarsi
nel partito comunista internazionale, che si mantiene, dopo aver
combattuto
la controrivoluzione staliniana, risolutamente sul terreno
programmatico
del comunismo rivoluzionario.
Dal primo marzo gli infermieri, gli operatori dei servizi esterni ed esternalizzati, gli addetti alle camere mortuarie, gli impiegati, i dirigenti e tutto il personale paramedico di tutto il paese sono entrati in sciopero. La rivendicazione è semplice: l’applicazione degli aumenti salariali concordati con i sindacati lo scorso anno. La prima rata degli aumenti, suddivisi parte entro gennaio parte entro luglio, che ammontano a 30.000 scellini mensili, circa 270 euro, non è stata pagata, anche se, dice il Governo, in parte si.
La lotta generale indetta dal sindacato Kenya Health Professionals Society, partita la domenica del 1° marzo, viene già boicottata dall’associazione di categoria il martedì. Dopo aver ricevuto dal tribunale l’ingiunzione alla ripresa del lavoro, una riunione interna della dirigenza sindacale decide di smettere lo sciopero in attesa della convocazione del Governo.
Ma i lavoratori del Moi Teaching Hospital scendono immediatamente in lotta, e marciano lungo le vie della città protestando contro le pessime condizioni di lavoro e per l’applicazione dell’accordo. Via via tutti i lavoratori degli altri ospedali cittadini fraternizzano e proseguono la lotta. Lo sciopero si estende alla provincia sulla costa e di nuovo a tutto il paese, fuori dal controllo sindacale. I lavoratori, in maggioranza donne, denunciano il tradimento della direzione sindacale.
Queste loro dirette dichiarazioni: «Non siamo stati consultati e nessuna questione è stata messa sul tappeto: hanno saputo fare solo promesse. Non torniamo indietro senza la sicurezza del mangiare in tavola. Nemmeno crediamo che l’accordo in realtà ci sia; le trattative non ci hanno fatto guadagnare nulla e ci sentiamo ingannate. Per questo continueremo con lo sciopero fino a quando tutte le nostre richieste saranno soddisfatte. Non vogliamo più promesse, vogliamo risultati immediati e tangibili». Le infermiere hanno promesso di rimanere in sciopero finché le loro richieste non saranno soddisfatte in pieno: sciopero ad oltranza fino al raggiungimento degli obiettivi, questo il principio dei lavoratori.
Intanto il governo subito giovedì ha dichiarato il licenziamento di 25.000 lavoratori in sciopero con sospensione dello stipendio dal 1° marzo, forte dell’ingiunzione del tribunale di riprendere il lavoro immediatamente perché lo sciopero sarebbe “illegale”. Va osservato che, sebbene i servizi essenziali e d’urgenza fossero stati garantiti, come dichiarato dagli scioperanti, questi sono stati denunciati individualmente per abbandono del posto di lavoro, in conformità alle normative vigenti per i pubblici dipendenti. Sono accusati inoltre di aver provocato la morte di molte pazienti lasciati senza assistenza.
La lotta è proseguita fino al 16 marzo con il raggiungimento degli obbiettivi iniziali, la non menzione ed il reintegro di tutti i licenziati, e nuovi obbiettivi posti per nuove lotte future: maggiori aumenti salariali, rischio e notti pagati come i medici, quindi almeno il doppio, migliori condizioni di lavoro. Tutto questo significherebbe anche una migliore assistenza per la popolazione, costretta spesso a ricorrere al servizio sanitario privato, a costi impossibili per i proletari.
Va notato, per una corretta interpretazione dal nostro punto di vista classista e rivoluzionario, che oggi il Kenia rappresenta in Africa uno dei punti più alti di sviluppo capitalistico. Dopo la crisi del 2008, che lo ha coinvolto come il resto del globo, facendolo arretrare ad un 1,6% del Pil, ha ripreso la sua marcia di sviluppo con un incremento del 5% all’anno per gli anni successivi fino ad oggi. Anche l’inflazione, che nel 2010 si era attestata al 9%, è passata nel 2011 al 4% per effetto delle aumentate esportazioni a prezzi più remunerativi per la borghesia locale per via del rincaro generalizzato delle materie prime, soprattutto quelle agricole. Infatti le principali voci di esportazione nel 2010 sono state il tè (23%) e i prodotti agricoli in genere (14%), manufatti (12%) e caffè (3,9%). Nel 2010 il solo valore dell’export del tè è aumentato del 37%.
Ma il proletariato keniota non gode certo dei dividendi del capitale, anzi si ritrova di fronte ad una riduzione del potere d’acquisto dei salari dovuto all’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità, ed è costretto ad impegnarsi in una serrata lotta di difesa economica. In questa già sta facendo l’esperienza della scuola di guerra anticapitalista, che passa necessariamente dalla lotta locale e di categoria, per incamminarsi verso il sindacato unico della classe lavoratrice.