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novembre
L’unione internazionale
della classe operaia è possibile
solo nella lotta contro il Capitale
Oggi i lavoratori di Spagna, Portogallo, Grecia e Italia sono in sciopero generale. A fronte della crisi mondiale dell’economia capitalistica; della concorrenza che il capitalismo scatena fra i lavoratori di tutti i paesi sngendo al ribasso salari, condizioni di vita e di lavoro, spostando le fabbriche dove maggiori sono i profitti; degli attacchi dei governi di ogni colore e di tutti i paesi contro la classe lavoratrice; del risorgente nazionalismo con cui, in ogni paese, la classe dominante mette i lavoratori gli uni contro agli altri: è necessario costruire un movimento di lotta internazionale della classe lavoratrice!
Ma i sindacati concertativi, che pure vi hanno aderito, non intendono certo acconsente ad un movimento di lotta internazionale della classe operaia.
In Italia, la Cgil, mentre aderisce a questo sciopero “europeo”, isola ogni lotta entro i confini aziendali, impedendo che dalla gragnola di chiusure, licenziamenti e messe in cassa integrazione nasca un movimento di lotta generale della classe lavoratrice. Ogni lotta è ridotta ad una vertenza, una questione “privata” dei dipendenti di quella azienda. Ogni crisi è affrontata con strumenti che rinchiudono i laratori entro i confini dell’azienda: contratti “di solidarietà” (riduzione dell’orario con riduzione del salario: cioè solidarietà col padrone!), ricerca di nuovi acquirenti dell’azienda, accettazione delle riduzioni del personale se ammorbidite da accompagnamenti alla pensione o ricollocazioni.
L’unione delle lotte dei lavoratori, nazionale e internazionale,
può e deve essere costruita solo perseguendo obiettivi che unifichino
davvero tutta la classe lavoratrice:
– riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario;
– difesa intransigente del salario, aumenti maggiori per le
categorie peggio pagate;
– salario per i lavoratori licenziati, a carico del Capitale,
ossia di banche e imprese, attraverso il suo Stato.
La “lotta per il lavoro”, senza queste rivendicazioni, non difende
i lavoratori perché:
– conduce i lavoratori a cedere ad ogni ricatto (come ad es. a
Pomigliano)
pur di non perdere “il posto”;
– divide i lavoratori occupati da quelli disoccupati, spingendo chi
ancora è occupato a lavorare più intensamente e a lungo, a discapito
di chi è disoccupato; – rinchiude la questione del lavoro entro i
confini
aziendali, escludendo dalla lotta i lavoratori delle aziende che
falliscono
e i disoccupati;
– può essere facilmente utilizzata per mettere contro i lavoratori
in sciopero coloro i quali, per debolezza, non aderiscono allo sciopero
e “vogliono lavorare”, come avvenutin questi giorni all’Ikea di
Piacenza.
Un movimento generale di lotta richiede un vero
Sindacato di classe,
cioè una organizzazione disposta a dirigere la lotta con i metodi
della
lotta di classe:
– scioperi a oltranza, senza preavviso e che minaccino di
estendersi
al di sopra delle aziende e delle categorie: ciò che più teme il
padronato non è il danno economico di una lotta, anche forte, chiusa
entro
l’azienda, ma la possibilità che scateni una lotta genere dei
lavoratori
con un danno economico generale per tutta la borghesia;
– picchettaggi, per impedire l’ingresso al lavoro di merci
e crumiri;
– privilegiare l’organizzazione territoriale dei lavoratori
rispetto a quella aziendale come nelle originali “Camere del lavoro”:
il riunirsi dei lavoratori in quanto tali e non in quanto dipendenti di
una data azienda o categoria, aiuta a tessere quei legami materiali ed
ideali necessari a costruire una vera e fatti solidarietà ed unità
della
classe, unendo occupati e disoccupati, lavoratori delle piccole e delle
grandi aziende;
– il Sindacato di classe deve propagandare incessantemente la necessità
di organizzare la massima mobilitazione della classe proletaria: lo sciopero
generale a oltranza.
Oggi il sindacato di classe non può che rinascere fuori e contro i sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl), che hanno tutti definitivamente rigettato i fini e i metodi della lottai classe.
La lotta sindacale è indispensabile ai lavoratori per difendersi dagli effetti del capitalismo e della sua crisi ma non può da sola eliminare le cause del peggioramento delle condizioni di vita. Queste non risiedono in una “cattiva politica”, negli “sprechi” o nella “corruzione”. La crisi colpisce in tutti i paesi del mondo: da Grecia, Spagna, Portogallo e Italia, a quelli considerati meglio “gestiti” e con meno “corruzione”, come Germania, Francia, USA, Giappone... fino all’Islanda! Con l’avanzare della crisi è l’intero capitalismo mondiale che crollerà e tutti i paesi precipiteranno nelle condizioni della Grecia, e peggio.
Per i lavoratori porsi sul piano della concorrenza capitalistica, facendosi carico dell’efficienza dell’economia nazionale, abbracciando un nazionalismo economico che è solo il preambolo di quello politico e militare, significa solo sacrificarsi per gli interessi del Capitale, della borghesia.
La crisi attuale infatti non è un fenomeno passeggero ma storico: è la crisi generale di questo modo di produzione, il capitalismo. A generarla non sono stati una “cattiva politica”, gli “sprechi” o la “corruzione”. La crisi non è frutto di una “cattiva” gestione dell’economia capitalistica che, con una politica “giusta” e “onesta”, sarebbe in grado di garantire benessere e progresso anche alla classe lavoratrice
L’economia capitalistica è destinata inevitabilmente a cadere e sprofondare nella sua crisi generale a causa delle sue ineliminabili contraddizioni interne.
Le vere cause della crisi sono la sovrapproduzione e il calo del saggio del profitto. La crescita – invocata da un estremo all’altro dello schieramento politico borghese quale “bene comune” a tutte le classi – non è altro che la crescita del Capitale. Oltre un certo limite è impossibile: perché sono state prodotte troppe merci e perché il margine di profitto diviene troppo esiguo. Le fasi economiche di forte crescita sono solo la premessa della crisi generale. Richiedere “investimenti per far ripartire la crescita” non ha alcun senso.
Quella attuale non è la prima crisi generale del capitalismo: l’ultima fu la Grande Depressione del 1929. La politica keynesiana – oggi invocata da tutta la sinistra borghese, moderata e “radicale”, in contrapposizione alla cosiddetta austerity – fu allora praticata indifferentemente da tutti i regimi – democratici, nazisti e fascisti – e non risolse affatto la crisi. A permettere il cosiddetto boom economico degli anni ’50 e ’60 fu solo la Seconda Guerra mondiale. Questo il prezzo da pagare per il ritorno alla crescita capitalistica!
Non esiste una soluzione economica alla crisi del capitalismo. Esistono solo le opposte soluzioni politiche delle due classi di questa società.La soluzione borghese è una nuova guerra mondiale per distruggere le merci in eccesso, prima fra tutte la merce forza-lavoro, e sottomettere al massimo sfruttamento i lavoratori in un nuovo folle ciclo di accumulazione. La soluzione proletaria è la Rivoluzione: per sottrarre il potere alla classe dominante e imporre le sole riforme rivoluzionarie in grado di far superare alla classe lavoratrice e a tutta l’umanità questo modo di produzione sempre più antistorico e inumano.
Non si tratta di inventare nulla di nuovo ma di riscoprire e impugnare l’originale programma comunista rivoluzionario, liberandolo dalle macerie dell’ultima e peggiore ondata opportunistica, quella dello stalinismo e dei suoi eredi odierni, che ha mistificato e nascosto ai lavoratori di tutto il mondo il significato e il senso del Comunismo, spacciando per esso il capitalismo di Stato russo, cinese, cubano, ecc.
I punti fondamentali del programma comunista sono:
– abolizione del lavoro salariato, con la conseguente
estinzione
del suo opposto, il Capitale, e quindi del denaro, e la distribuzione
gratuita
dei beni e dei servizi;
– obbligo sociale del lavoro, con la scomparsa della
disoccupazione;
– drastica riduzione del lavoro a poche ore giornaliere;
– regolazione della produzione secondo i bisogni umani e non
più secondo gli assurdi calcoli mercantili e aziendali;
– soppressione di interi settori di attività prettamente
capitalistiche
e parassitarie: da quelle legate alla contabilità monetaria e alla
finanza, a quelle, ad es., pubblicitarie, con la conseguente
liberazione
di enormi energie per scopi realmente utili.
La realizzazione di questo programma sociale rivoluzionario è possibile, non perché esso sia stato ben congegnato “a tavolino” ma perché è il capitalismo stesso che ne ha creato le basi materiali: la ricerca obbligata del profitto ha sviluppato la forza produttiva del lavoro a tal punto da rendere possibile la soddisfazione di tutti i bisogni umani con poche ore medie giornaliere di lavoro. Questo a patto di liberare il lavoro dalle leggi economiche capitalistiche che costringono un numero sempre minore di lavoratori a lavorare sempre più intensamente e a lungo, a fronte del crescere smisurato dei disoccupati, e immiseriscono il proletariato non per carenza di beni bensì per averne prodotti troppi!
Oggi la grave alternativa che la storia impone è fra Guerra o Rivoluzione. A decidere sarà la classe operaia mondiale: per non sottomettersi alla guerra dovrà rovesciare il capitalismo. Coloro che predicano temporanei sacrifici dei lavoratori per il “bene del paese” – che altro non è che il bene del Capitale – stanno già spingendo il proletariato sulla strada del suo completo sacrificio in una nuova guerra imperialista.
Il ricatto è semplice: dal capitale dipende l’esistenza dei lavoratori, ogni sacrificio è legittimo perché non esiste alternativa, o Capitalismo o morte! La classe lavoratrice ha invece in mano tutti gli strumenti per vivere senza il Capitale in una società superiore!
Per incamminarsi già da oggi su questa strada i lavoratori devono difendere i propri interessi economici di classe, intransigentemente: senza farsi alcun carico della salvezza dell’economia nazionale che altro non è che la salvezza del capitalismo!
Questo è possibile solo impugnando le storiche rivendicazioni del movimento operaio, le sole in grado di difendere il salario di tuttii lavoratori, unendoli veramente: aumenti salariali, maggiori per le categorie peggio pagate; riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario; salario pieno ai lavoratori licenziati.
Questi obiettivi sono perseguibili solo da un movimento generale della classe, che coinvolga anche i sempre più numerosi disoccupati, con scioperi sempre più estesi e duraturi, fino ad arrivare allo sciopero generale a oltranza.
Per questo è necessaria una organizzazione generale dei lavoratori, un vero sindacato di classe, che abbia, fra le altre caratteristiche, quella di privilegiare l’organizzazione territoriale dei lavoratori rispetto a quella aziendale e di categoria, per unire occupati e disoccupati, lavoratori delle piccole aziende con quelli delle grandi, come nella gloriosa tradizione delle originarie Camere del lavoro.
Il sindacato di classe oggi non può rinascere che fuori e contro i sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl), definitivamente votati alla difesa dell’economia nazionale. I sindacati di base possono rappresentare un passo in questa direzione solo a patto di superare le loro divisioni divenendo una vera alternativa per i lavoratori. Questo obiettivo non può che essere imposto dalla loro base, contro le attuali dirigenze che da trent’anni non sono state in grado di raggiungerlo.
La lotta intransigente in difesa del salario condurrà il proletariato verso la Rivoluzione contro un capitalismo sempre meno in grado di sfamare i suoi schiavi salariati.
Lungo questa strada i lavoratori incontreranno non solo la resistenza della classe dominante ma anche quella, più insidiosa, dei falsi partiti operai, che prospettano loro sempre falsi obiettivi intermedi utili solo ad allontanarli dalla Rivoluzione. Rivendicazioni “alternative”, quali l’“annullamento del debito”, la “nazionalizzazione” di banche e imprese, l’uscita dall’Unione Europea, non sono obiettivi della classe lavoratrice ma alternative per la classe dominante, tant’è che nel passato provvedimenti analoghi sono stati adottati indifferentemente da governi borghesi, sia democratici sia fascisti. I “nuovi modelli di sviluppo” sono solo la riproposizione delle vecchie illusioni di un capitalismo diverso.
Il Partito Comunista Internazionale è la continuità della Sinistra
Comunista italiana, la sola corrente che ha potuto trarre
dall’ultima
sconfitta rivoluzionaria, culminata con lo stalinismo, le lezioni per
la
riscossa futura. È perciò il solo che possa condurre vittoriosamente
i lavoratori al superamento rivoluzionario del capitalismo. Per questo
grandioso quanto vitale compito vi chiama alla milizia nelle proprie
file.
Il processo a Mubarak viene presentato come prova che l’Egitto si è avvicinato ad un “sistema giuridico” gradito ai governi degli Stati Uniti e dell’Unione Europea (non che questi governi fossero particolarmente preoccupati per i metodi giudiziari del paese prima della “rivoluzione” di febbraio). È anche presentato come una concessione alle proteste delle masse egiziane che hanno portato alla caduta di Mubarak.
Nell’aprile 2011 la procura aveva ordinato l’arresto di Mubarak e dei suoi figli, Alaa e Gamal. Il processo, iniziato in agosto e concluso a giugno di quest’anno, ha condannato all’ergastolo Mubarak per omicidio plurimo, ed assolto, per caduta in prescrizione, dall’imputazione di corruzione, della quale erano accusati anche i figli, anch’essi assolti. Ma è solo un gesto esteriore che non cambia la sostanza delle cose.
Chi ha avuto processi di tutt’altra fattura e fuori dai riflettori sono i civili, fino a 10.000, giudicati da tribunali militari, a porte chiuse, davanti ad un singolo giudice, ovviamente militare. Sono stati processati con accusa di teppismo, aggressione e minaccia alla sicurezza dello Stato (esattamente come durante il regime Mubarak.) Molti erano manifestanti e noti attivisti, insieme a criminali comuni e a qualche spettatore innocente, condannati a pene detentive da pochi mesi fino a cinque anni.
La “rivoluzione di febbraio” in realtà è venuta in un momento opportuno per l’élite militare. Le tensioni tra l’esercito e Mubarak erano alte. Il 40% dell’economia egiziana è in mano all’esercito che, oltre a possedere o gestire un vasto portafoglio di beni immobili, controlla aziende che producono di tutto, dalle attrezzature mediche ai computer portatili ai televisori.
Alla fine degli anni ‘90, nell’ambizione di Mubarak di istituire una dinastia familiare, fu data al figlio Gamal una posizione influente nel Partito Nazionale Democratico. Presto fu privatizzato un grande numero di imprese statali, consegnate a sostenitori del partito, come Ahmed Ezz, che ha ottenuto quasi il monopolio sulla produzione di acciaio (Ezz è stato uno dei primi esponenti del partito a finire in carcere dopo la “rivoluzione”).
Il Consiglio Supremo, guidato dal comandante in capo delle forze armate maresciallo Mohammed Hussein Tantawi, teme solo che il suo potere ed influenza diminuiscano, e certo poco si cura della situazione dei lavoratori. La speculazione è così diffusa all’interno delle forze armate che un colpo di Stato era una reale possibilità. Quando le proteste presero vigore in piazza Tahrir, i militari si accorsero di avere più da perdere con Mubarak che senza. Nel frattempo numerosi scioperi scotevano il paese.
Anche senza il sollevamento popolare ci sarebbe stata una crisi. Le forze armate avversavano il figlio di Mubarak ed il piano di successione. Temevano che le privatizzazioni avrebbero sottratto loro il gran business dei trust militari. L’unica soluzione che rimaneva era un colpo di Stato, che però non sarebbe stato bene accetto dai potenziali alleati in Europa ed in America. Così il “popolo” ha fornito loro la soluzione: tutto sembrava cambiare, seppure per poco, quanto Tantawi fu acclamato eroe nell’incontrare i manifestanti anti-governativi in piazza Tahrir il 4 febbraio. E subito i suoi alleati capitalisti negli Stati Uniti e in Europa hanno accolto questi sviluppi come un progresso verso “la libertà e la democrazia”.
A febbraio ci sono stati forti scioperi e questa è stata la reale paura dell’esercito e dei capitalisti. La forza della classe operaia organizzata avrebbe potuto portare ad ulteriori proteste e sollevare lo spettro della rivoluzione proletaria. L’Esercito era impegnato a togliere slancio alle proteste.
Si è proclamato che “non sarà l’esercito ad avere il potere”, ed annunciato un piano del costo di 20 milioni di dollari per un “centro per l’assistenza sanitaria e sociale” per “le famiglie dei martiri del 25 gennaio” e dei feriti nelle proteste. Ma, a seguito degli scontri di fine giugno in Piazza Tahrir tra manifestanti e le forze della sicurezza, il Consiglio condannava la violenza dandone la colpa a “forze oscure... che non hanno altro fine che la distruzione della sicurezza nazionale e della stabilità dell’Egitto”.
La proposta di elezioni anticipate è stata respinta dalla maggior parte dei democratici come uno strattagemma per dare alla Fratellanza Musulmana il sopravvento elettorale. Diventava evidente che l’Esercito stava trasformando la “rivoluzione” in un colpo di Stato e si diceva: “i soldati sono con il popolo, ma i loro capi no”.
L’8 luglio dello scorso anno, nell’incapacità di arginare le proteste, era stato annunciato che Mubarak sarebbe stato messo sotto processo. Il giorno precedente la Commissione d’Inchiesta Giudiziaria, istituita dal procuratore militare, aveva annunciato che altre due dozzine di funzionari civili ed alleati di Mubarak si trovavano a rispondere di accuse di omicidio e tentato omicidio. L’annuncio è stato visto da molti come un tentativo di neutralizzare la protesta. Ma la folla, anche se molto minore di quella al culmine delle mobilitazioni, era ancora estesa ai bordi di piazza Tahrir, stimata da osservatori in circa 80.000 dimostranti.
L’Esercito, alla ricerca di ogni mezzo per mantenere il potere, si rivolge agli unici personaggi che può utilizzare: quelli della Fratellanza Musulmana. Tale avvicinamento significa un aumento della repressione sulle organizzazioni della classe operaia e sulle attività sindacali.
I borghesi sostengono che sia in atto un progresso verso “la libertà e la democrazia” e per dimostrarlo si rifanno alla coraggiosa storia sindacale in Egitto, sbrigativamente omologata come una richiesta di “libertà e democrazia” ed assimilata alle vicende che culminarono nella caduta del muro di Berlino: «Mentre cadeva il muro di Berlino, Abbas, a quei tempi giovane saldatore, si trovava a capo di uno sciopero illegale di 17.000 lavoratori per il salario e le condizioni in una grande acciaieria nel quartiere meridionale di Helwan in Cairo. La risposta dello Stato fu la repressione massiccia. Mandarono 5.000 soldati che utilizzarono proiettili veri e di gomma e gas lacrimogeni. Uno scioperante fu ucciso, altri quindici feriti e più di 600 incarcerati».
Questo allora; ma non si parla della ondata di scioperi che continuano oggi in Egitto o di una qualsiasi forma di aiuto. Tutto quello che si fa è un contributo per la creazione di un ufficio al Cairo della International Trade Union Confederation.
* * *
Un rappresentante dei “sindacati indipendenti” in Egitto ha tenuto un giro di conferenze in Europa occidentale con incontri in Spagna e in Gran Bretagna per informare sugli avvenimenti nel suo paese e sulle lezioni che se ne possono trarre.
In Spagna l’oratore ha parlato davanti ai giovani che stavano occupando le piazze per protesta contro le difficoltà che debbono affrontare. Questi hanno espresso simpatia con le lotte dei lavoratori in Egitto contro l’attacco alle loro condizioni di vita.
L’oratore si è poi recato in Gran Bretagna, dove i sindacati gli hanno organizzato delle conferenze in diverse città. Quella a Liverpool, tenuta presso l’Hotel Adelphi e a cui erano presenti alcuni nostri compagni, pubblicizzata solo con inviti via e-mail, non voleva certo organizzare una qualsiasi mobilitazione del proletariato a sostegno dei lavoratori egiziani. Alla riunione era consentito solo porre domande, e non dibattito o discussioni su come si sarebbe potuta esprimere ed organizzare la solidarietà con gli operai egiziani. Sono riunioni evidentemente riservate ai funzionari politici e sindacali: nessun coinvolgimento degli iscritti in qualsiasi forma, nessun segno di sostegno né solidarietà effettivi. Niente insomma che avrebbe potuto interferire con le manovrette e gli equilibri fra correnti interne ai sindacalisti riuniti al Trade Union Congress.
Ha introdotto la riunione un rappresentante dell’Egypt Workers Solidarity, il comitato organizzatore del giro di conferenze, seguito da un funzionario regionale del Sindacato dei Lavoratori Pubblici e Civili, che a lungo ha lamentato gli attacchi contro i lavoratori del pubblico impiego in Gran Bretagna ed ha parlato della possibilità di un collegamento fra i loro scioperi e, perfino!, di tenerli nello stesso giorno. Ha continuato lamentando la bassa affluenza alle urne nelle recenti elezioni, il che avrebbe sfavorito i partiti “anti-capitalisti”, presumibilmente riferendosi alla inqualificabile miscela ambientalisti-sinistri-scargillisti (Scargill è un dirigente del Socialist Labour Party), ecc. I programmi di questi cosiddetti partiti, niente affatto anti-capitalisti, rispecchiano ben poco le lotte economiche della classe operaia e chiedono solo qualche riforma della politica dello Stato capitalista. Non c’è da stupirsi che la massa dei lavoratori non si sia mossa a votare per loro.
Finalmente il dirigente sindacale egiziano ha potuto parlare di quello che stava accadendo in Egitto e delle lezioni da trarre dalle lotte nel medio-oriente e dalla “rivoluzione” in Tunisia.
Questo il quadro sociale che ha presentato. Alle richieste di libertà e di democrazia si è risposto con i gas lacrimogeni e altri strumenti antisommossa. Molte sono ancora le battaglie da combattere. L’esigenza primaria dei lavoratori è la libertà di associazione. Ma ottenerlo richiede il sostegno dei lavoratori degli altri paesi. All’interno dello Stato è anche in corso uno scontro tra fazioni di ispirazione religiosa e laiche.
Sono disponibili dei documenti, in arabo, che preconizzano il futuro delle lotte operaie. I sindacati indipendenti (intendendo indipendenti dal controllo statale) hanno subito il peggioramento nei diritti dei lavoratori a partire dal 2006. Gli scioperi contro la privatizzazione delle aziende (sotto Mubarak 175 aziende sono state cedute ai privati, con 700.000 lavoratori licenziati/messi in pensione) hanno incoraggiato adesioni e sostegno di altre lotte. La dirigenza della federazione sindacale indipendente ha indetto uno sciopero in opposizione ai sindacati controllati dallo Stato. Nel mese di febbraio ci sono stati 600.000 operai in sciopero. I lavoratori desiderano andare avanti fino alla “rivoluzione”: il loro obiettivo, sindacati veramente indipendenti. I principali sindacati esistenti finora sono sempre stati sotto il controllo di Nasser & C.
Il 44% della popolazione egiziana vive al di sotto della soglia di povertà. I sindacati indipendenti devono collegarsi alla base. Per contrastare le leggi contro gli scioperi, hanno bisogno di lottare per la contrattazione collettiva su questioni economiche. Con le leggi non si possono impedire gli scioperi.
Le associazioni studentesche sono sempre state dominate dallo Stato e sotto il controllo della polizia. Quando questo controllo è venuto meno ne ha preso il posto la Fratellanza Musulmana. In alcune università gli studenti sono riusciti ad organizzarsi.
Si sono anche formati dei gruppi con l’obiettivo di proteggere la impostazione laica dello Stato.
Infine, dopo aver risposto ad una serie di domande poste dalla
platea,
l’oratore ha riassunto nei seguenti punti:
- Gli eventi in piazza Tahrir hanno rappresentato la lotta di tutte
le classi.
- Presenti organizzazioni femminili.
- Vi è la chiara necessità di arrivare ad imporre allo Stato la
contrattazione
collettiva, e, successivamente, la formazione di un partito dei
lavoratori.
L’oratore avrebbe successivamente parlato a Londra al Congresso delle Trade Union, il fine settimana successivo. Si vedeva un sacco di pubblicità in giro per la riunione del TUC, ma niente sul discorso del sindacalista egiziano. Avrà certo avuto incontri discreti con alcuni dei dirigenti sindacali di “sinistra”. Al contrario è stato molto enfatizzato il discorso del nuovo capo del Partito Laburista Ed Miliband, che fa di tutto per cercare di dare una lustra popolare al partito. Per accarezzare il suo elettorato non cessa di sottolineare i problemi della classe media – cioè della gente come lui.
Insomma la lotta di classe non è certo al primo punto nell’ordine del giorno del TUC, né quella dei lavoratori egiziani né dei britannici. Davvero da parte del TUC qualsiasi richiesta di indipendenza dei sindacati egiziani appare una bestemmia, quando specificatamente la nega nel Regno Unito. Il TUC continua ad essere quello che è sempre stato nel passato, un pilastro dell’apparato e del capitalismo in generale.
Speriamo che l’esperienza della tappa britannica dei sindacalisti
egiziani abbia insegnato loro che non possano aspettarsi alcuna
solidarietà
dai burocrati del mondiale sindacalismo di regime. A questi dirigenti
una
condizione deve esser chiara: non si avrà alcun progresso per la classe
lavoratrice nel loro paese senza l’appoggio del proletariato di
occidente,
al quale giustamente è venuto a cercare aiuto. Che anche i lavoratori
in occidente riprendano la via dello scontro sociale, ricreino dei veri
sindacati di classe, si colleghino al proletariato mondiale per il
rovesciamento
del capitalismo aderendo al programma e alla milizia del partito
comunista
internazionale.
L’Io e la sua Coscienza sono fantasmi borghesi. «È compagno militante comunista rivoluzionario chi ha saputo rinnegare, strapparsi dalla mente e dal cuore la classificazione in cui lo iscrisse l’anagrafe di questa società in putrefazione, e vede e confonde sé stesso in tutto l’arco millenario che lega l’ancestrale uomo tribale, lottatore con le belve, al membro della comunità futura, fraterna nell’armonia gioiosa dell’uomo sociale».
Così è scritto nelle tavole del nostro Partito, sintesi della critica marxista all’idealismo borghese e alla pretesa della prima borghesia rivoluzionaria di esprimere una concezione totale e definitiva del mondo. Le speculazioni della nuova classe resteranno per sempre impigliate nel dualismo tra realtà oggettiva e coscienza soggettiva, tra libertà e necessità, tra individuo, specie e mondo “oggettivo”, esterno al pensiero.
Soltanto il marxismo, fin dal suo sorgere, compirà il balzo, che lo sviluppo materiale della realtà sociale rende ormai possibile, sciogliendo l’enigma: l’unità, di spirito e materia, di pensiero e realtà, va ricercata non nel rapporto tra uomo e natura, ma in quello tra individuo e specie, e sarà il risultato non dell’evoluzione critica del puro pensiero, ma della prassi sociale, dell’azione rivoluzionaria del proletariato che sfocia nella rivoluzione e nel comunismo.
Mentre i borghesi ragionano in nome dell’uomo astratto, categoria in cui la realtà storica delle classi e della classe proletaria non trova posto, Marx nei Manoscritti del 1844 affronta il problema dell’emancipazione dell’umanità partendo dalla prassi, dall’uomo reale, cioè della specie umana:
«Il soggettivismo e l’oggettivismo, lo spiritualismo e il materialismo, l’agire e il sentire, perdono la loro opposizione solo nello stato sociale, e quindi perdono la loro esistenza fatta solo di tale contrapposizione. Lo scioglimento delle opposizioni teoretiche è possibile soltanto in maniera pratica, solo a mezzo dell’energia pratica degli uomini, e questa soluzione non è un compito della conoscenza sola, ma anche un compito reale della vita, che la filosofia non poté sciogliere, proprio perché essa intendeva questo compito soltanto come compito teoretico».
La tesi si potrebbe quindi così scrivere: una sola pratica umana è immediatamente teoria, la rivoluzione.
Il proletariato sviluppando la socializzazione del lavoro – nel mutare la sua forza soggettiva vivente in beni di consumo, materie prime e macchine – predispone la base economica del comunismo. La soggettività proletaria alla fine trionfa sull’oggettività borghese di cui essa è la fonte. Il movimento dell’autoalienazione, la vendita della forza lavoro, si capovolge in quello dell’abolizione dell’alienazione.
La società comunista non è più soltanto una ipotesi scientifica, una astrazione, il teorico programma di un partito, ma l’abbagliante potenza di un necessario rivoluzionamento dell’umanità. Qui il segreto del “rovesciamento della prassi”, scoperto non nella coerenza di un sistema di pensiero o nella volontà di singoli, ma dall’intervento a tempo maturo del partito comunista nel vivo scontro delle classi sociali.
Il marxismo è il prodotto di tutta la storia umana, ma poteva nascere solo grazie alla lotta della classe proletaria. Secondo le parole di Marx nella Guerra civile in Francia, il proletariato «non ha da realizzare ideali, ma da liberare gli elementi della nuova società di cui è gravida la vecchia e cadente società borghese».
Il brano dal quale estraiamo i passaggi seguenti è tratto dalle note scritte da Marx all’opera di James Mill, vero manifesto contro ogni individualismo. La polemica è impostata, hegelianamente, come un dialogo tra i personaggi Io e Tu, perché Marx sulla ipotesi astratta di un rapporto fra persone fonda dialetticamente la costruzione di una critica che, partendo dall’individuale egoismo borghese e mercantile si capovolge nei delineati caratteri della società futura.
«Certamente tu, in quanto uomo, sei in un rapporto umano con il mio prodotto: tu hai bisogno del mio prodotto. Questo dunque esiste per te come oggetto del tuo desiderio e della tua volontà. Ma il tuo bisogno, il tuo desiderio e la tua volontà sono impotenti nei riguardi del mio prodotto».
In una società di proprietari Tu non puoi semplicemente stendere la mano e prendere il prodotto che appetisci ma del quale Io sono proprietario poiché la forma sociale te lo vieta. In altre parole, la forma sociale non riconosce a qualsivoglia essere umano il diritto di consumare la mia produzione, ma lo riconosce solo a me o a chi mi paghi.
«Il tuo bisogno, il tuo interno appetire sono legami che piuttosto ti rendono dipendente da me, perché ti mettono in uno stato di dipendenza dal mio prodotto. Ben lontani dall’essere il mezzo per darti un potere sulla mia produzione, essi sono un mezzo per dare a me un potere su di te».
Nella società mercantile lo scambio, lungi dal rappresentare due libere volontà che si sorridono venendosi incontro, nasconde in realtà due atti di violenza. La mia potenza sul pane che ti toglierà la fame è quella di farti morire, e ti puoi sottrarre solo se disponi del denaro che passi in mio possesso. Questo rapporto tra merci segnato da una algida uguaglianza aritmetica – merce/denaro – diventa rapporto tra uomini, e si disvela rapporto peggiore di quello tra lupi. L’umanità vive nel sistema sociale più insicuro, misero e spietato della storia, nonostante l’enorme grado di sviluppo raggiunto dalle forze produttive.
«Supponiamo di aver prodotto in quanto uomini». Marx fa un balzo nel tempo: quando, estinta nell’uomo l’angustia proprietaria, allorché il prodotto del lavoro ed il lavoro stesso non avranno più come finalità lo scambio mercantile, il lavorare e il produrre avranno fine e gioia in se stessi. Solo allora non ci saranno più categorie intorno a cui arrovellarsi e parole come Libertà e Valore perderanno di senso perché la società senza antagonismi economici non avrà più per soggetto la Persona. Lo storico dialogato tra l’Io e il Tu non troverà scioglimento nell’assoggettamento di uno dei due, e nemmeno nel loro equilibrio o equipollenza in una democrazia mercantile e “popolare” di produttori liberi, vana ideologia piccolo borghese, ma si risolverà nella fusione dei due personaggi, nell’Uomo Sociale del comunismo salito alla pienezza della gioia di una vita fino allora ignota.
Quando supponiamo di produrre “in quanto uomini” – cioè non come oggi, servi o mercanti, per essere pagati – allora «ognuno di noi avrebbe doppiamente affermato nella sua produzione sé stesso e gli altri», e nessuno dunque negato sé stesso e la sua umanità.
Le “figure”, non più “cittadini”, Io e Tu continuano il loro dialogo, ma è l’Uomo sociale che parla con sé stesso. Producendo in quanto uomo «io avrò: 1) materializzata nella mia produzione la mia “individualità”, e la sua “particolarità”, e per questo fatto avrò gioito tanto durante l’attività di una “manifestazione della vita individuale”, che nella contemplazione dell’oggetto prodotto; io avrò provata la gioia individuale e riconosciuta la mia persona e la mia potenzialità nella sua forma materializzata e sensibile, ossia senza dubbio alcuno. 2) Nella tua soddisfazione e godimento per l’uso del mio prodotto io troverò un godimento immediato, tanto per la consapevolezza di avere soddisfatto un bisogno umano col mio lavoro, che per avere materializzata la natura umana e quindi procurato ad un altro essere umano l’oggetto che corrisponde alla sua. 3) Di essere stato per te l’intermediario tra te stesso e la specie umana, e per tal fatto di essere sentito e riconosciuto da te come un complemento del tuo proprio essere come una necessaria parte di te stesso, e dunque sapermi affermato tanto nel tuo pensiero che nel tuo amore. 4) Di aver prodotto nella mia manifestazione di vita individuale la tua manifestazione di vita e di avere dunque affermato e realizzato nella mia attività, direttamente, la mia vera essenza; ossia il mio essere umano e il mio essere sociale».
La vittoria sulla estraniazione dell’uomo vivente ad opera dell’infamia della proprietà privata è così formulata nei Manoscritti: «Il comunismo, positiva abolizione della proprietà privata, e dunque soppressione dell’estraniazione dell’uomo da sé stesso, quindi effettiva conquista dell’essenza umana da parte dell’uomo e per l’uomo; e per questo ritorno completo, cosciente, raggiunto attraverso l’intera ricchezza dello sviluppo passato, dell’uomo per sé quale uomo sociale, ossia quale uomo umano».
Segue nel testo la tesi che non vi sarà più motivo di distinguere tra la vita individuale dell’uomo e la sua vita generica, cioè di specie. L’antica favola della coscienza del singolo viene tolta di mezzo: «Con la coscienza di specie l’uomo constata la sua reale vita sociale, e non fa che ripetere la sua esistenza nel suo pensiero; come inversamente l’essere di specie si constata nella coscienza di specie, e nella sua generalità, come essere che pensa, ha esistenza reale».
Matura il superamento della persona singola: «L’uomo, per quanto sia un individuo particolare (...) è tuttavia la totalità, la totalità ideale, la soggettiva esistenza della società che essa stessa pensa e sente (...) Pensiero ed essere sono dunque distinti, ma nello stesso tempo sono unità tra di loro».
Il millenario dilemma se si debba ipotizzare prima la realtà, l’essere, o prima il pensiero, è definitivamente sciolto. La critica radicale di Marx all’imbroglio dualista non risparmia il senso e l’esperienza: che il senso fosse individuale, e non collettivo e sociale, era una illusione determinata dal rapporto storico della proprietà privata. Non esiste l’occhio, l’orecchio dell’individuo, ma l’occhio e l’orecchio della specie. Dopo la soppressione della proprietà privata, nel comunismo, «l’uomo si appropria del suo essere onnilaterale in maniera onnilaterale, e quindi come uomo totale. Tutti i rapporti umani che l’uomo ha col mondo, e quindi vedere, udire, odorare, gustare, toccare, pensare, intuire, sentire, volere, agire, amare, in breve tutti gli organi che costituiscono la sua individualità, come gli organi che sono nella loro forma immediatamente organi comuni, sono nel loro oggettivo comportarsi, ovvero nel loro comportarsi verso l’oggetto, l’appropriazione di questo, per la effettualità umana; il loro rapporto con l’oggetto è la constatazione della effettualità umana. Questa manifestazione è tanto multipla quanto le determinazioni e attività umane, l’agire e il patire dell’uomo, perché le sofferenze prese nel senso umano sono un godimento proprio dell’uomo».
Il cammino verso l’uomo comunista non si illude di poter sopprimere
il dolore, ma di raggiungere un ricomporsi, una riappropriazione,
naturale,
umana,
di gioia e di dolore.
Corso dell’economia | Trends in the Economy |
Prezzo e produzione dell’oro | |
Questione militare: la spedizione dei Mille [ rapporto esteso ] | The Military Question: Garibaldi’s ‘Thousand’ |
Teoria economica marxista | Marxist Economic Theory |
Attività sindacale [ rapporto esteso ] | Trade Union Activity |
Movimento operaio negli Usa [ rapporto esteso ] | Labour Movement in the USA |
Guerra civile in Siria | The War in Syria |
Imperialismo e petrolio | Imperialism and Oil |
Questione della democrazia in Italia [ rapporto esteso ] | The Democracy Question in Italy |
I militanti del nostro piccolo partito intendono custodire e rappresentare la continuità della tradizione comunista rivoluzionaria di sinistra e, tenendosi strettamente per mano – l’ha scritto Lenin – concordemente lavorare a che il partito la riproponga ad una classe operaia mondiale, che in Occidente si sta risvegliando dalla folle certezza del progresso indefinito e in Oriente dai miti borghesi della indipendenza nazionale e della democrazia. Oggi si aprono solo degli spiragli nella ormai quasi secolare muraglia della controrivoluzione, ma contro di essa si abbattono i marosi della generale crisi economica che, seppure ancora solo alle sue prime manifestazioni, sta dimostrando che il Capitale, sotto la forma di proprietà privata o pubblica, è esattamente quello descritto da Carlo Marx. Per contro riprova la tesi del marxismo autentico che la classe operaia, priva da ogni quota di potere nella dittatoriale società borghese, quand’anche a regime democratico, per la sua difesa come per la sua emancipazione può contare solo su due forze: quella dalla sua organizzata e risoluta lotta sociale e quella della chiarezza del suo programma rivoluzionario, opposto e negatore di quello di tutte le altre classi.
Non diciamo che il partito “si prepara alla rivoluzione”, che ha sapore, insieme, di volontarismo e di fatalismo, ma ben di più, che il partito è la rivoluzione; non nel senso che la “facciamo”, ma che è una anticipazione nella società presente del comunismo, mentre in ogni tempo svolge tutti i suoi propri compiti storici, nella misura che la situazione permette. Quindi attività di studio, di conservazione dei testi, di propaganda, di intervento nei sindacati, eccetera.
Anche alla scorsa riunione di Torino, come nelle precedenti, ci siamo sforzati di far convergere i contributi dei gruppi impegnati in queste diverse attività in modo che a tutto il partito venga presentato quel loro comune significato e generale.
Come di consueto l’ospitalità dei nostri locali, che ringraziamo, e tutta la logistica sono state impeccabili. Erano presenti, oltre i torinesi, compagni da Genova, la Francia, Firenze, l’Inghilterra, Cortona, Parma, Milano.
Riportiamo qui una prima parte degli schemi riassuntivi degli
esposti,
rimandando la seconda ed ultima al prossimo numero. La relazione
sull’attività
sindacale appare invece per intero in queste pagine.
La questione militare
LA SPEDIZIONE DEI MILLE
Per continuare il processo di unificazione italiana occorreva affrontare tre direttrici: nuovi alleati in funzione anti asburgica, essendo i francesi non più proponibili; una soluzione per lo Stato pontificio; una per la particolare situazione del Meridione. In Sicilia una consistente massa di contadini e braccianti premeva per sollevare le sue misere condizioni di vita. Una parte della nobiltà e della ridotta classe borghese, progressista, desiderava affrancarsi dal dominio borbonico e per questo era disposta ad appoggiare la dinastia Savoia, mentre l’altra parte, per non perdere gli antichi privilegi, era disposta ad alleanze di vario genere. Alla morte di Ferdinando II di Borbone gli successe il figlio Francesco II, per niente interessato al suo mandato regale, tantomeno a questioni militari. La sollevazione dell’ottobre del 1859 per disorganizzazione e improvvisazione fu subito soppressa dalla polizia; la successiva, dell’aprile 1860, al convento della Gancia, causa delazione fu anch’essa soppressa nel sangue e i ribelli superstiti dopo un sommario processo furono subito fucilati.
Queste notizie, che giunsero al Nord ingigantite, davano un falso quadro della capacità di sollevazione delle classi oppresse siciliane. Garibaldi fu così facilmente convinto ad organizzare una spedizione in Sicilia per mettersi alla guida di quella inesistente rivoluzione.
Il governo sabaudo mostrava alle potenze europee di mandare le navi ad impedire moti repubblicani, mentre segretamente sosteneva Garibaldi con denaro, armi e assistenza. Presso il notaio Boldi in Torino fu firmato, garanti re Vittorio e Cavour, presenti medianti emissari di fiducia, l’atto di acquisto temporaneo dall’armatore Rubattino di Genova di due vapori, dei quali il nizzardo si sarebbe dovuto poi impadronire con un finto atto di pirateria.
La diplomazia francese e inglese segretamente sostenevano questa spedizione in funzione antiasburgica: una Italia unita avrebbe costituito un più forte fronte meridionale contro l’Impero d’Austria. Gli interessi economici inglesi in Sicilia erano inoltre legati alla produzione e al commercio del vino di Marsala che, lavorato con lo stesso procedimento del Porto e dello Sherry, ma di minor costo e meno gravato dai dazi di importazione, stava avendo notevole successo in Inghilterra. Altro interesse era il monopolio del commercio dello zolfo e alcuni derivati sia per ottenere esplosivi sia come antiparassitario in agricoltura.
I Mille, partiti nella notte tra il 5 e il 6 maggio, per evitare la flotta napoletana, che pattugliava il Tirreno, percorsero una rotta più lunga fin sotto le coste tunisine, dopo un sommario rifornimento a Orbetello. Navi militari inglesi e di pescatori siciliani li avvisarono della presenza di navi napoletane nel porto di Sciacca e li consigliarono di sbarcare in quello di Marsala, meno protetto, base commerciale degli inglesi, dove potevano approfittare della loro presenza. Lo sbarco fu favorito sia dal tardivo arrivo delle navi napoletane sia dal fatto che tutte le forze di terra borboniche erano state richiamate a difendere Palermo, temendo una sollevazione generalizzata.
L’esercito borbonico sulla carta era il più grande d’Italia con oltre 93.000 effettivi e con la flotta più grande e moderna del Mediterraneo. Era però privo di esperienza di scontri con analoghe formazioni ed era stato modellato prevalentemente con fanteria leggera contro il secolare brigantaggio, le lotte contadine e le rivolte politiche.
I borbonici approntarono un piano strategico che prevedeva la partenza da Gaeta di una flotta che, sbarcando anch’essa a Marsala, avrebbe dovuto attaccare alle spalle i garibaldini, mentre le forze di Palermo avrebbero dovuto intercettarli prima del loro arrivo nel capoluogo, evitando il collegamento con una prevedibile sollevazione palermitana. Per contrasti interni la flotta partì con un considerevole ritardo e si diresse invece a Palermo vanificando il piano originale.
Il primo scontro avvenne nella piana di Calatafimi la settimana successiva allo sbarco. Quando il forte presidio locale stava per avere il sopravvento il comandante in capo ordinò la ritirata in direzione di Palermo lasciando esterrefatti i Mille, cui si erano aggiunti volontari locali. Come fatto militare fu minimo ma di grande impatto. Nella ritirata a Partinico i borbonici si macchiarono di eccidi sulla popolazione, insorta anche per difendersi dal saccheggio.
Liberata la strada per Palermo Garibaldi rivelò la sua bravura strategica, come annotava Engels, attuando un ardito piano fatto di attacchi, finte sconfitte e ritirate allo scopo di farsi inseguire il più lontano possibile per poi, con rapida manovra, presentarsi sotto le difese della città, che attaccò con l’aiuto dei volontari siciliani organizzati da Rosolino Pilo, morto in combattimento in quegli scontri preliminari. La battaglia durò quattro giorni con atti di ritorsione napoletana contro i quartieri e la popolazione insorta. Dopo una tregua più volte prolungata i borbonici abbandonarono la città e si imbarcarono per Messina.
Fuori discussione il valore strategico di Garibaldi, l’ardimento dei garibaldini e dei siciliani a cui si aggiunsero 3.500 volontari di altre regioni arrivati con navi della flotta sarda guidati dal generale Giacomo Medici, con 8.000 fucili di nuova concezione e 400.000 cartucce. Si assistette alla rapida dissoluzione dell’esercito napoletano; molti suoi effettivi entrarono nella nuova formazione o per convinzione o per la promessa di ingaggio nel futuro esercito sabaudo. Anche se mai dichiarata ora era una vera guerra con un costituito Esercito Meridionale che giunse ad un massimo di 50.000 effettivi, anche se prevalentemente senza esperienza. Arrivarono da Malta anche armi inglesi.
L’aiuto di molti volontari siciliani era motivato dalle promesse fatte dal nizzardo di sollevare le misere condizioni di vita delle masse contadine e della spartizione delle terre dei latifondi. Promesse tradite, come dimostrò l’episodio della rivolta contadina di Bronte. Qui dal 2 al 4 agosto scoppiò una sollevazione con incendi e saccheggi e l’uccisione di 16 notabili, proprietari terrieri e amministratori del ducato Nelson, una vasta proprietà in cui lavorava una gran massa di braccianti e su cui pendeva una secolare causa legale dei brontesi, che si erano viste espropriate le terre a favore prima dell’Ospedale di Palermo, poi di Orazio Nelson, che le aveva ricevute in ricompensa dell’aiuto della sua flotta a ristabilire l’ordine a Napoli nel 1799.
Nonostante la rivolta rientrasse da sé con la fuga dei principali capipopolo, Bixio, mandato da Garibaldi a presiedere un tribunale speciale, in un processo durato 4 ore con 150 imputati emise dure condanne a morte allo scopo di assicurare i fondiari nonché gli affaristi inglesi e il governo di Londra che la proprietà terriera non sarebbe stata intaccata.
I borbonici ripartendo da Messina pensavano di riprodurre lo schema usato per riprendere il controllo della Sicilia dopo i moti repubblicani del 1848. Garibaldi decise di attaccare per prima la fortezza di Milazzo la cui piccola guarnigione era stata rafforzata da un contingente di circa 4.000 soldati. Il piano di Garibaldi, ora in forte superiorità numerica e ben armato, prevedeva un attacco centrale con due contemporanei laterali allo scopo di sfondare le linee avversarie ed accerchiarle. Ma solo l’arrivo della moderna e potente corvetta a vapore Tukory, che alcuni giorni prima il suo comandante aveva consegnato alla flotta sarda, convinto con denaro e promesse dall’ammiraglio sabaudo Persano, risolse la battaglia a favore dei garibaldini con il cannoneggiamento delle linee borboniche.
Alcuni giorni dopo tutte le truppe napoletane lasciarono la Sicilia e i garibaldini risalirono verso nord senza incontrare valida resistenza; interi reparti napoletani si arrendevano senza combattere o con minimi tiri giusto per salvare la forma. Garibaldi entrò trionfalmente in Napoli, abbandonata da tempo da Francesco II, rifugiato nella fortezza di Gaeta. Sul fiume Volturno avvenne l’ultima battaglia garibaldina, una serie di scontri durati quattro giorni in diverse località tra 50.000 napoletani e 24.000 garibaldini dislocati su un fronte lungo 20 chilometri per controllare le vie di comunicazioni verso l’interno. L’evento militare più rilevante avvenne il 1° ottobre, risolto in una sofferta supremazia garibaldina solo quando incominciarono ad arrivare le avanguardie del corpo di spedizione sabaudo.
Per unificare l’Italia era necessario collegare il Nord al Sud appena liberato sottraendo vasti territori allo Stato pontificio. Allo scopo si era concentrata un’armata piemontese di oltre 39.000 uomini con artiglieria per fronteggiare l’esercito mobile papalino forte di 10.000 effettivi di ben 7 diversi paesi cattolici impegnati a proteggere il potere temporale del papa; altri 10.000 austriaci erano nella roccaforte di Ancona richiesti dal papa dopo i moti del 1849.
Non fu presentata alcuna dichiarazione di guerra ma il generale piemontese Fanti avvisò per lettera che sarebbe intervenuto qualora con le armi si fosse recato danno a quanti manifestavano per l’unificazione italiana. Senza attendere risposta il giorno seguente oltrepassò il confine muovendo su due direttrici: una costiera, direttamente su Ancona, per impedire il congiungimento dell’esercito papalino, l’altra interna, lungo la valle del Tevere, per tagliar le linee di rifornimento da Roma. Le proteste delle potenze europee furono placate dai giochi diplomatici di Inghilterra e Francia che sostenevano l’Italia in funzione anti-austriaca. I due eserciti si incontrarono il 18 settembre nella piana sotto Loreto e Castelfidardo. Qui si combatté una breve battaglia che si risolse nella totale disfatta dell’esercito mobile papalino che il giorno successivo si arrese in massa armi e bagagli.
Alcuni mesi dopo anche la fortezza di Gaeta cedette all’assedio e Francesco II e la sua corte si rifugiarono a Roma.
A tutte le forze di terra e di mare fu proposto di entrare nel nuovo esercito italiano mantenendo i gradi; altri invece confluirono nelle bande dei briganti duramente represse da Cialdini in 5 anni di lotta senza esclusione di colpi.
Come conclusione abbiamo sintetizzato per punti: 1) con questa doppia campagna e guerra mai dichiarata casa Savoia ottiene il più grande ampliamento territoriale; 2) questo fu possibile per il sostegno, non solo diplomatico, di Inghilterra e Francia in funzione anti-asburgica; 3) si scontravano due formazioni ben diverse; 4) l’avanzata dei Mille fu così veloce per la dissoluzione dell’esercito napoletano; 5) volontari siciliani e di altre regioni confluirono in gran numero, segno del diffuso sentimento nazionale; 6) determinante fu il sostegno militare inglese; 7) non vi furono particolari schemi strategici innovativi; l’intuito tattico di Garibaldi fece la differenza.
Abbiamo chiuso leggendo un passo di Engels sull’abilità dell’Eroe
dei due Mondi soprattutto nella presa di Palermo.
Occorre puntellare le fondamenta del complesso edificio della nostra
dottrina per opporre la forza del nostro programma ai veleni
opportunisti.
Ci definiamo per differenziazione, scavando un fossato sempre più
profondo
tra noi e il nemico, non riempiendolo con l’acqua torbida dei
compromessi
e dei luoghi comuni. Il significato profondo dell’abbicì dell’economia
marxista, sfatato il mito della sua presunta impenetrabilità, è il
convergere
nella critica dell’economia politica.
Nel marxismo l’economia non è, come, nella società borghese, ricerca
di un disavanzo, un surplus, è invece produzione e riproduzione della
specie, cioè produzione dei mezzi materiali che ne assicurano la vita.
Economia quindi in questo senso ampio, non solo in quello di risparmio
di energie lavorative. Studiare l’economia allora equivale ad indagare
i meccanismi profondi di una formazione sociale.
Da un punto di vista soprastrutturale studiare l’economia capitalistica equivale ad indagare i rapporti di produzione rivestiti dai feticci di questa società. In una società dominata in ogni suo aspetto dalla legge del plusvalore, l’economia non può che essere il rapporto più estraniato. È questo il campo dove il marxismo squarcia i veli e denuncia le peggiori menzogne. La borghesia avverte che la nostra dottrina apporta qui i suoi colpi più efficaci, ed è costretta o a discreditarla o, più sovente, a nasconderla sotto una spessa coltre di polvere ed ignoranza.
Le nostre ricerche consistono nella ricostruzione della continuità del lungo lavoro del partito: andiamo avanti con uno sguardo rivolto all’indietro. Il partito può essere un organismo che travalica le generazioni proletarie, e proprio per questo esserne l’arma primaria, se riesce a ricordarsi cos’è. Seppure formato dagli atomi delimitati e personalissimi che sono i suoi militanti, per non procedere alla cieca ha bisogno di rivivere la storia dell’intero suo percorso. Come la filosofia e l’arte sono incomprensibili al di fuori della storia della filosofia e della storia dell’arte, e della storia in generale, così per definire il partito occorre la storia del partito. Del precisarsi nel tempo del suo programma, ma anche la storia della sua vita reale, delle sue affermazioni vittoriose come delle sue trascorse crisi e degenerazioni.
È Il Capitale di Marx, opera che magnifica e condanna la classe nemica, a darci il quadro dell’impalcatura del lavoro economico del partito, la traccia da seguire. Il Capitale deve essere “capovolto” dalla descrizione del capitalismo a programma della società comunista, esattamente come il Manifesto. Il Capitale è il programma della distruzione del capitalismo. Non una fredda descrizione dell’economia borghese; Marx non è solo lo scienziato che seziona il cadavere del capitalismo. Ogni nostra pagina di spietata analisi del modo di produzione più sanguinario e infame della storia è uno specchio che riflette l’immagine del comunismo, il modo di produzione che “gli sta in grembo”. Perché insiste tanto Marx sulle contraddizioni immanenti, interne, del capitalismo, capitalismo come “contraddizione in processo”? Ogni contraddizione ha un suo scioglimento, ed analizzarla significa già indicarne la soluzione: la soluzione del capitalismo è il comunismo.
Il marxismo adotta il metodo della dialettica. Ma solo l’approccio metafisico imposta un discorso sul metodo in generale, su di una serie di regole buone per tutte le occasioni, procedure che preesisterebbero all’oggetto di cui ci si deve occupare. È una maniera idealistica di affrontare l’argomento. Il metodo, tutto da costruire nella testa del filosofo, vorrebbe essere quel sistema astratto di operazioni che il pensiero utilizzerebbe per classificare e studiare la realtà. Nei sistemi più estremi si arriva a creare la realtà dal fatto del pensarla. L’approccio empirista è l’opposto, si limita a registrare i fatti come accadono, rinunciando ad individuare la trama che li lega e a prevederne gli sviluppi futuri. Del capitalismo, scosso continuamente da crisi, registra i fenomeni superficiali ma ciò che accade al loro interno gli rimane inconoscibile.
Fare scienza è invece indagare il presente avendo ben chiare le sue passate trasformazioni per scoprirne le leggi di funzionamento e costruire una teoria in grado di tracciare le grandi linee future del movimento reale.
La giustezza del metodo non è rintracciabile in esercizi puramente logici, nel suo rigore interno. Il metodo è dialettico perché studia relazioni, studia i mutamenti all’interno di queste relazioni. Così la teoria diventa la rappresentazione ideale-intellettiva delle trasformazioni che avvengono nella realtà. Costruire una teoria marxista della conoscenza significa studiare le relazioni che intercorrono tra la realtà in trasformazione e le corrispondenti rappresentazioni nell’intelletto collettivo generale patrimonio della specie umana. Elaborare un metodo significa soprattutto costruire una ragnatela di collegamenti il cui senso è percepibile tenendo in pugno gli snodi che uniscono tra loro i vari settori della tela.
Il marxismo è il metodo scientifico, applicato, per ora, particolarmente all’economia e alla storia. La scienza del futuro sarà unica come unica è la materia che la scienza studia. Sosteniamo che il metodo scientifico è applicabile a tutti i campi della conoscenza umana.
Il partito marxista impiega il suo metodo in ogni ambito, nel lavoro sindacale, negli studi sui rapporti fra gli Stati, ecc. Chiaramente quando si affrontano ambiti particolari il lavoro di depurazione dei fenomeni contingenti e inessenziali è enorme. Prendiamo il nostro lavoro in campo sindacale: è condizionato pesantemente da tutta una serie di fenomeni che disturbano la visione del quadro d’insieme, per esempio un quadro giuridico-negoziale intricato all’inverosimile impedisce di vedere il reale rapporto di vendita di forza-lavoro, stratificata in compartimenti determinati dalla divisione sociale e tecnica del lavoro: si oppongono operai manuali a impiegati, dipendenti privati a pubblici, ecc.
Separare oltre una certa misura lo studio del corso effettivo dell’economia da quello della teoria economica è impossibile. Come avrebbe potuto Marx arrivare a scavare così in profondità nel capitalismo e carpirne i segreti e poi risalire alle vette dell’astrazione senza tutto quel materiale di dati, di statistiche, di studi sull’economia inglese del tempo? Il metodo si elabora proprio con questa costante compenetrazione. Purtroppo oggi, anche lasciando da parte i problemi derivati dai trucchi contabili borghesi, rintracciare la catena che conduce alla formazione del valore non è per niente facile poiché si ha a che fare con economie giunte ad un alto grado di complessità e “dannosità”.
Lo studio intende anche addivenire ad ordinare in un Indice del lavoro di partito sull’economia, sul modello di quello che già stiamo predisponendo in campo sindacale, per darne un primo panorama ai compagni che si occupano della materia e debbono attingere alla grande mole di materiale elaborato lungo tutta la nostra non breve storia. Il marxismo, e l’economia marxista, non sono facili, richiedono applicazione e studio e non possono essere ridotti “in pillole”: nella critica dell’economia politica è contenuta tutta la critica del modo di produzione capitalista nel suo insieme.
L’ambizione sarebbe addivenire ad un Indice cronologico ed uno per argomenti. Il partito non si è mai troppo preoccupato che la presentazione dei suoi lavori rispondesse sempre ai canoni della sistematicità e della simmetria: non siamo un’accademia ma un organo di battaglia, condizionato dalla contingenza e dal corso della lotta di classe. Corriamo a turare le falle che gli obliqui colpi della controrivoluzione aprono nel conneso fasciame del marxismo. Ogni attacco può compromettere la tenuta dell’intero nostro sistema, che resiste in blocco o in blocco affonda. Lo testimoniato gli argomenti dei nostri lavori, a volte interrotti, o solo abbozzati, e che sono sempre dei semilavorati. Inoltre i diversi argomenti, già nelle nostre esposizioni, si intrecciano fra loro, anticipazione della scienza “unica” comunista di domani.
Tenuti presenti questi limiti, anche un l’Indice per argomento
sarebbe
certo molto utile per le nostre ricerche. Una prima proposta di
partizione
potrebbe essere questa. - Fondamenti: Origine del plusvalore e del
valore;
circolazione del valore; legge della miseria crescente; teoria della
moneta.
- Rapporti di produzione e rapporti di proprietà: successione delle
forme
storiche; Stato ed economia; imperialismo e mondo post-coloniale;
concorrenza
e monopolio; capitalismo di stato; “pianificazione” e
nazionalizzazioni;
questione agraria. - La teoria delle crisi: legge della caduta del
tasso
di profitto; processo di produzione e riproduzione del capitale;
capitale
fittizio; corso dei cambi e crisi; teorie borghesi; soluzioni borghesi.
- Corso storico dell’economia.
STORIA DEL MOVIMENTO OPERAIO IN USA
Lo studio, giunto alla fine del secolo XIX, ha descritto un sindacalismo americano che ha assunto la sua forma definitiva, adatta a quella collaborazione di classe che lo distinguerà nei decenni successivi. I dirigenti della A.F.L. mai mostrarono grande entusiasmo di fronte alle lotte vittoriose del sindacalismo d’industria. In quegli anni l’esempio luminoso venuto dai minatori preoccupava i capi della Federazione perche il successo di quella lotta metteva in evidenza la forza del sindacalismo d’industria, che univa specializzati e non, lavoratori di tutte le fedi, colori e nazionalità.
Non era quello il sindacalismo che doveva caratterizzava l’A.F.L. che, al contrario, in quel periodo si stava muovendo sempre più nella direzione di una opposta struttura, che mirava ad organizzare soprattutto i lavoratori specializzati, che costruiva la sua base sul mestiere piuttosto che sul settore produttivo, e che era indifferente, se non ostile, nei confronti dei lavoratori non specializzati o semi-specializzati, dei negri, delle donne, degli immigrati.
Per i capi della A.F.L. la storia del movimento operaio durante e subito dopo la crisi del 1893 aveva dimostrato che una federazione sindacale efficiente avrebbe dovuto fondarsi su una base di sindacati di mestiere, che unissero in primo luogo gli operai specializzati, i più decisi dei sindacalizzati, che sarebbero rimasti nell’organizzazione sia nei momenti di piena occupazione sia durante le depressioni. L’idea che il sindacalismo di mestiere potesse essere obsoleto per loro era inaccettabile.
Al contrario, a loro dire l’esperienza degli ultimi anni dimostrava che era il sindacalismo sostenuto dai Cavalieri del Lavoro e dalla American Railway Union a non andare bene: questo, basato com’era sul concetto di unire in un unico sindacato tutti i lavoratori di un settore produttivo, senza discriminazioni, si sarebbe dimostrato inadeguato a superare la crisi economica. Il sindacalismo di mestiere invece, sempre secondo questa interpretazione, aveva dimostrato di riuscire a sopravvivere alle crisi, e di potersi riprendere quando terminavano.
L’A.F.L. in effetti in quegli anni cresceva, per raggiungere nel 1901 quasi 800.000 iscritti; ma erano diversi milioni i lavoratori esclusi, in particolare i negri, gli immigrati, le donne, quelli che con un termine di slang erano chiamati underdog.
Negli anni che seguirono il 1895 le caratteristiche fondamentali della American Federation of Labor furono tracciate, e rimasero praticamente immutate fino agli anni ‘30. In questo periodo il principale obiettivo dell’A.F.L. fu la difesa della “aristocrazia del lavoro”. Nonostante il periodico proclamare dei più sacri principi di solidarietà, l’A.F.L. operò ad impedire l’organizzazione della stragrande maggioranza della classe operaia.
Perché fu preso questo atteggiamento, dopo che nei primi anni della sua formazione la tendenza era stata ben altra? Di sicuro una spinta importante venne dal declino dei Knights of Labor: fino a quel momento i dirigenti dell’A.F.L. avevano dovuto fare i conti con una organizzazione rivale che, con tutti i suoi difetti, aveva il pregio di accogliere tutti i proletari, senza alcuna distinzione; dovevano quindi dimostrare che l’A.F.L. non era da meno in termini di solidarietà. Ma dopo la caduta dei K.L. non restava ai lavoratori altra scelta se non i sindacati affiliati alla Federazione: bastava mantenere a parole l’impegno, mentre niente impediva di trasgredirlo nei fatti.
Su un piano un po’ più ampio, e visto a distanza, la politica dell’A.F.L. fu una componente fondamentale di un programma di collaborazione di classe con il capitale monopolistico, che poteva garantire un minimo di sicurezza e di benessere per i lavoratori specializzati a spese dei non specializzati e dei non organizzati.
Vedremo come i dirigenti dell’A.F.L. andranno a braccetto con i trust, anzi ne diverranno i più strenui difensori, affinché i loro sindacati di mestiere si potessero ricavare zone di piccole guarentigie nel retrobottega dei megamonopoli. In cambio accettarono di non fare assolutamente niente per organizzare la stragrande maggioranza di lavoratori che gli stessi monopoli sfruttavano, appunto, e soprattutto, gli immigrati, i negri, le donne.
L’acquiescenza dell’A.F.L. verso il grande capitale avrà modo di manifestarsi, per esempio nella partecipazione alla National Civic Federation, un’associazione interclassista che, come ebbe a scrivere il suo fondatore, aveva lo scopo di incanalare il movimento operaio su percorsi di conservazione sociale, privandolo di qualsiasi radicalismo e combattività.
Anche la guerra ispano-americana, a parole condannata prima della
dichiarazione
di guerra, fu poi assecondata dalle dirigenze dei sindacati come
“gloriosa
e progressiva”.
PAGINA 3
Riunione di Torino - Rapporto sulle lotte operaie
Una classe lavoratrice che deve trovare se stessa
fra l’attacco borghese, il tradimento dei sindacati di regime e le
incertezze
del sindacalismo di base
La relazione sull’attività sindacale che abbiamo ascoltato a Torino ci ha riferito delle lotte operaie negli ultimi quattro mesi. Lo sciopero generale del sindacalismo di base del 22 giugno fu indetto contro la cosiddetta “Riforma Fornero” o “del mercato del lavoro” (Legge 92 del 28 giugno), ultimo di una serie di attacchi alla classe lavoratrice condotti in Italia dal governo borghese di turno a seguito dell’aggravarsi delle difficoltà finanziarie dello Stato. Nel 2011, nell’arco di cinque mesi, si erano avute già tre manovre governative: a luglio e settembre, col governo Berlusconi, e a dicembre, col governo Monti.
Quest’ultima era stata qualitativamente e quantitativamente la più dura. E di questo bisogna dar merito innanzitutto alla sinistra borghese – sia quella “moderata” sia quella “radicale” e costretta all’extra-parlamentarismo – che per 17 anni ha indicato quale principale nemico dei lavoratori il governo Berlusconi: così il passaggio della tutela degli interessi del Capitale al governo Monti è stato utilizzato dai partiti e dai sindacati “operai” come pretesto per acconsentire a provvedimenti di accresciuta asprezza.
Quest’anno, la momentanea e relativa stabilizzazione del debito statale italiano ha permesso al governo di non anticipare la “legge di stabilità” (quella che era chiamata “legge finanziaria”), il cui Disegno di legge è stato approvato dal Consiglio dei ministri il 16 ottobre e dovrebbe passare all’esame della Camera dal 12 al 16 novembre.
Quella del 22 giugno è stata perciò, ad oggi, l’ultima mobilitazione generale della classe lavoratrice in Italia.
Le manovre “di stabilizzazione finanziaria” di luglio, settembre e dicembre 2011 hanno comportato: l’aumento della tassazione con effetti immediati; una forte riduzione dei trasferimenti finanziari dallo Stato centrale agli enti locali; il drastico innalzamento dei requisiti pensionistici.
La “riforma Fornero” ha invece modificato la normativa sui “licenziamenti individuali”, cioè l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori (Legge 300 del 1970), e drasticamente ridimensionato gli ammortizzatori sociali, attraverso l’abolizione di diverse forme di integrazione salariale e l’introduzione al loro posto di una Assicurazione Sociale per l’Impiego (ASpI).
La contro-riforma delle pensioni e quella del mercato del lavoro sono state in Italia un passo cruciale nello smantellamento, in atto da decenni in tutti i paesi, di quel sistema di garanzie, chiamato Stato sociale, base materiale della presa del riformismo nel secondo dopoguerra. Questi provvedimenti segnano la sconfitta di questa ideologia, rimarcata dal fatto che la maggior forza politica che ad essa si richiama – il Partito Democratico – ne ha sostenuto l’approvazione, e la Cgil, la cui maggioranza appartiene politicamente al PD, ha finto di opporvisi, al solo scopo di non perdere il controllo sui lavoratori, dispiegando un’azione di difesa puramente simbolica, consistita in 8 ore di sciopero per il settore pubblico (19 dicembre) e 3 ore (!) per quello privato, con la sola Fiom che lo ha esteso a 8 ore.
A questi attacchi governativi ha continuato ad affiancarsi l’offensiva delle associazioni padronali, capeggiate dalla Fiat, con a seguire Federmeccanica e Confindustria, con l’obiettivo della distruzione del Contratto Nazionale di Lavoro.
Lo sciopero del 22 giugno
Lo sciopero del 22 giugno, come abbiamo allora rimarcato, ha avuto un aspetto positivo: quello d’aver ricevuto l’adesione di quasi tutti i sindacati di base, tranne la Confederazione Cobas. Ha segnato un ritorno all’unità d’azione del sindacalismo di base, dopo due anni, da quando, nel maggio 2010, nasceva l’Usb dall’unione fra RdB e SdL, contestuale però alla divisione fra RdB e parte consistente della Cub, i due maggiori sindacati di base, il primo nel pubblico impiego, il secondo nel settore privato.
La nascita di Usb, presentata dalla sua dirigenza come un passo in avanti verso l’unificazione dei sindacati di base, è stata invece quanto meno una battuta d’arresto, con Cub e Usb che da allora hanno proclamato scioperi separati.
Ma questo sciopero, per l’estremo ritardo con cui giungeva, ha messo a nudo le gravi incertezze del sindacalismo di base. Contro la “riforma Fornero”, infatti, la Fiom aveva indetto i primi scioperi il 19 marzo e due giorni dopo la Cgil aveva proclamato uno sciopero generale, a data da destinarsi. Il testo della manovra, dopo una presentazione il 23 marzo, era reso pubblico il 4 aprile. Lo sciopero arrivava quindi tre mesi dopo le prime azioni dei sindacati di regime, lasciati così svolgere indisturbati l’opera di esaurimento e scoramento della già oggi debole combattività della classe lavoratrice, quando ormai per i lavoratori la manovra era considerata un fatto compiuto.
I sindacati di base avrebbero potuto proclamarlo a fine marzo, in concomitanza con gli scioperi Fiom, sia perché in quel momento l’attenzione dei lavoratori era più alta, proprio a seguito degli scioperi dei metalmeccanici, sia perché in tal modo si agiva nel senso di unire le azioni di lotta dei lavoratori al di sopra delle categorie e delle sigle sindacali, sia infine per anticipare lo sciopero della Cgil, che nel frattempo continuava a rimandare la sua proclamazione, e lo avrebbe infine ritirato.
Ma è proprio sull’unità nell’azione della classe che le attuali dirigenze del sindacalismo di base esitano, temendo, a torto, che questa venga a nascondere ai lavoratori le differenze fra i sindacati di base e quelli di regime. In questo modo il sindacalismo di base ha perso un’altra facile occasione per rafforzare la sua ancora scarsa influenza sulla classe lavoratrice e per indebolire il sindacalismo tricolore.
Metodo di organizzazione dell’Usb
Ulteriore prova di questi errori e debolezze sono state le vicende interne all’Usb degli ultimi mesi. La dirigenza di questo sindacato è tenuta da un’organizzazione politica stalinista. Questo fatto, di per sé, non basterebbe a indicarne la natura definitivamente borghese, ma solo la necessità di sostituirne la dirigenza opportunista e traditrice con quella comunista. È quanto cercarono di fare i comunisti in Italia all’interno della rossa CGL dal 1904 al 1926, e della Cgil tricolore, dalla sua rinascita “dall’alto” nel 1944, col “Patto di Roma”. Alla fine degli anni ‘70 il nostro partito, che aveva sostenuto la sussistenza della doppia possibilità fra la riconquista della Cgil, “magari a legnate”, e la rinascita del sindacato al suo esterno, considerò chiusa la prima possibilità avendo potuto osservare che il movimento operaio spontaneamente si disponeva in sue piccole ma non minime minoranze ad organizzarsi e lottare fuori e contro la Cgil.
Un sindacato organizza in base a una condizione sociale, quella di proletario, non sull’adesione al programma di un partito o ad una ideologia. In esso sono iscritti e delegati di diversa appartenenza politica, e anche senza alcun preciso orientamento. È inevitabile che vi si formino frazioni espressione dei diversi partiti fra i quali si dividono i suoi militanti e che una di esse prevalga e diriga l’organizzazione. Questa pluralità di frazioni, per la sopravvivenza stessa del movimento e la sua crescita, deve poter convivere nella stessa organizzazione e lo scontro delle posizioni politiche generali, così come si riflettono in diversi pratici indirizzi sindacali, non debbono portare alla sua lacerazione. È quindi tradizionalmente adottato all’interno del sindacato operaio il metodo del centralismo democratico. In esso si deve trovare completa libertà di espressione e formazione di frazioni; queste correnti misurano il loro peso nelle periodiche riunioni, ai deliberati delle quali occorre, nella generalità dei casi, disciplinarsi nell’azione, fatta salva la piena libertà di critica ai dirigenti, ugualmente scelti col meccanismo democratico.
Questo dovrebbe essere il metodo di vita e di prendere decisioni di un sindacato di classe, non perché il centralismo democratico risponda a un superiore principio di “giustizia”, ma in quanto metodo efficiente per condurre un organismo non omogeneo sul piano politico, quale è il sindacato.
Diversamente, il partito comunista ha acquisito, nel corso secolare della sua storia, una omogeneità politica tale da consentire il superamento anche del meccanismo democratico in favore di un metodo superiore, il centralismo organico, corrispondente al tipo di gestione che la futura società comunista si darà spontaneamente.
Nell’Usb, al contrario, il gruppo dirigente nega e nasconde agli iscritti che un preciso partito politico ne è alla direzione e presenta il sindacato come privo di alcuna divisione interna. Inevitabilmente mantenere questa forzatura della realtà richiede un corollario di nomine dall’alto dei funzionari territoriali e di categoria, di espulsioni e di repressione delle correnti interne, il tutto, evidentemente, a detrimento della crescita e del rafforzarsi del sindacato.
La apparente combattività della Fiom
Lo sciopero generale dei sindacati di base del 22 giugno aveva ricevuto il sostegno e l’adesione della corrente più “a sinistra” della Cgil, la Rete 28 Aprile, presente soprattutto nella Fiom, con circa il 10% dei componenti del Comitato centrale e un membro nella segreteria nazionale. La Fiom è l’unica federazione della Cgil in cui l’area congressuale di minoranza detiene la maggioranza e ad essa fa riferimento il segretario Landini. Ma nei confronti della “riforma” del mercato del lavoro il sindacato metalmeccanici della Cgil si è mosso in modo solo apparentemente più combattivo rispetto alla sua Confederazione. Il 9 marzo, quando era appena iniziata la trattativa fra governo e sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl), la Fiom aveva proclamato lo sciopero generale dei metalmeccanici, con l’obiettivo di condizionare la Cgil, oltre che in difesa del Contratto nazionale. Dieci giorni dopo, il 19 marzo, la Fiom aveva dato l’avvio agli scioperi fabbrica per fabbrica contro la riforma i cui contenuti si andavano ormai delineando. Due giorni dopo la Cgil indiceva lo sciopero generale a data da destinarsi, poi rimandato e infine ritirato.
Ancora il 10 maggio, alla sua Assemblea nazionale dei delegati, la Fiom, nel documento di maggioranza di Landini, indicava la necessità che la Cgil fissasse la data dello sciopero generale. Ma, nelle settimane successive, di fronte all’intenzione sempre più palese della Cgil di ritirarlo, si rifiutava di indire lo sciopero generale dei metalmeccanici, così come aveva fatto il 9 marzo. Questo sciopero avrebbe avuto la possibilità di mettere in difficoltà la Cgil assai più di quanto aveva fatto quello del 9 marzo, a trattative appena iniziate, perché ad esso avrebbe potuto unirsi, con lo sciopero generale di tutte le categorie, il sindacalismo di base. Ma era proprio questo rischio che la Fiom voleva evitare, mostrando in tal modo i binari sui quali soli può muoversi una opposizione interna alla Cgil.
Dopo la proclamazione, il 4 giugno, dello sciopero generale per il 22 da parte del sindacalismo di base, la Fiom indiceva tre giornate di manifestazioni e scioperi, di poche ore e sempre divisi per azienda, il 13, 14 e 15 giugno.
Nemmeno di fronte alla revoca Cgil dello sciopero generale, il 19 giugno, la Fiom mutava condotta, anzi, significativamente, il segretario Landini, proprio il giorno dello sciopero dei sindacati di base, partecipava come ospite all’Assemblea generale di Federmeccanica a Bergamo: un modo chiaro per dimostrare la propria fedeltà alla Cgil nonché alla concertazione.
Il contratto dei metalmeccanici
L’offensiva degli industriali del settore metalmeccanico punta alla distruzione del contratto nazionale di categoria che sarebbe un’altra sconfitta del movimento operaio in Italia, forse la più dura. La Fiom, che ha impostato la sua battaglia difensiva entro i limiti della concertazione, e diversamente non poteva fare vuoi per la sua consolidata natura vuoi per l’appartenenza alla Cgil, sta dimostrando la sua incapacità a organizzare una difesa efficace.
Il padronato tira dritto per la sua strada e avanza con metodo, appoggiato dalle confederazioni di regime, cioè dalla Cisl, dalla Uil e dalla stessa Cgil.
Schematizziamo qui le tappe principali di questa offensiva. Il 20 gennaio 2008 Fim, Uilm e Fiom firmavano unitariamente il Ccnl metalmeccanico 2008-2011. A maggio-giugno dello stesso anno in tutto il mondo faceva capolino la crisi economica generale del capitalismo.
A giugno 2009, Fim e Uilm, in vista del rinnovo biennale della parte economica del Ccnl 2008-2011, presentavano una propria piattaforma, separata dalla Fiom, annunciando la disdetta del Ccnl 2008-2011; il 15 ottobre Federmeccanica, sulla base della piattaforma separata di Fim e Uilm, firmava un nuovo Contratto con questi sindacati per il triennio 2009-2012. Da questo momento sussistono due contratti in vigore: quello unitario (Fim-Fiom-Uilm) del 20 gennaio 2008, disdetto da Fim e Uilm, e quello separato del 15 ottobre 2009.
Il 22 aprile 2010 la Fiat presenta il piano industriale denominato “Fabbrica Italia” che prevede la produzione di 1.400.000 auto nel 2014, con incremento già dal secondo semestre 2011, in corrispondenza della ripresa produttiva allo stabilimento di Pomigliano dopo il rinnovamento degli impianti. Il segretario generale della Fiom-Cgil, Gianni Rinaldini, “prende atto positivamente del del piano industriale”.
Ma a maggio 2010 la Fiat presenta una serie di condizioni cui subordinare gli investimenti a Pomigliano. Il 15 giugno Fim e Uilm firmano un Accordo separato per lo stabilimento Fiat di Pomigliano e una settimana dopo un referendum lo approva. Il 23 dicembre un accordo analogo a quello di Pomigliano è firmato da Fim e Uilm per lo stabilimento di Mirafiori, ed approvato con un nuovo referendum il 14 gennaio.
A settembre 2010 Federmeccanica aveva annunciato la disdetta del Ccnl unitario 2008-2011. Sempre a settembre, all’Assemblea nazionale dei delegati di Cervia, la Fiom presenta la piattaforma per il rinnovo del Ccnl unitario in scadenza a fine 2011. La piattaforma cede verso le posizioni di Fim e Uilm con l’intento di tornare a un contratto unitario.
Il 13 dicembre Fiat, Fim, Uilm e Fismic siglano un contratto collettivo specifico di 1° livello per il gruppo Fiat, diverso da quello metalmeccanico.
Dal 1° gennaio 2012 quindi resta in vigore solo il Ccnl metalmeccanico separato del 15 ottobre 2009, essendo quello unitario 2008-2011 scaduto e non rinnovato; Fiat esce da Confindustria e applica il contratto del Gruppo.
Il 7 giugno Fim e Uilm presentano la piattaforma per il rinnovo del Ccnl 2009-2012, non firmato dalla Fiom, che spiega come il nuovo contratto non possa che “muoversi all’interno del sistema di regole per i rinnovi contrattuali definito nel 2009” e come l’obiettivo principale sia, semplicemente, “rinnovare il contratto”.
Né la piattaforma di Fim e Uilm né le linee guida di Federmeccanica hanno fatto menzione della piattaforma Fiom votata all’Assemblea nazionale dei delegati a Cervia un anno fa.
Il 10 luglio Federmeccanica ha posto la Fiom di fronte alla scelta: o riconoscere il contratto separato dell’ottobre 2009, e sulla base di questo partecipare alla trattativa per il rinnovo, o restare esclusa dalla trattativa.
Il 23 luglio la trattativa iniziava. La Fiom, esclusa, lo stesso giorno faceva scioperare per 4 ore i metalmeccanici a sostegno della piattaforma di Cervia. Ma al Comitato centrale del 5-6 settembre votava per il suo abbandono e per una nuova proposta a Fim, Uilm e Federmeccanica ancor più cedevole, come logica vuole, verso le loro posizioni. La proposta è un “Accordo unitario per il lavoro e per un’industria di qualità e ambientalmente sostenibile” che ha quale punti centrali: il rinvio di un anno (al 31 dicembre 2013) del rinnovo contrattuale; la misurazione e certificazione della rappresentatività, come previsto dall’Accordo del 28 giugno 2011; aumenti salariali defiscalizzati per lavoratori e imprese; l’impegno ad affrontare le crisi aziendali attraverso lo strumento dei “contratti di solidarietà”, ossia attraverso la riduzione dell’orario di lavoro con riduzione del salario; l’utilizzo delle risorse del fondo pensione integrativo Cometa “anche al fine di processi di investimento e di innovazione del nostro sistema industriale”.
Cedimento su tutta la linea. La Fiom si era dichiarata contraria alla sottoscrizione dell’Accordo del 28 giugno 2011 in quanto apriva la porta alle deroghe al contratto nazionale. Oggi la Fiom impugna quell’Accordo. Anche la “certificazione della rappresentatività”, invocata dalla Fiom, non impedirebbe a Federmeccanica di continuare ad escluderla dalla trattativa, nonostante sia noto a tutti che la Fiom è il sindacato numericamente più rappresentativo dei metalmeccanici.
I contratti di solidarietà solidarizzano solo col padrone: riducono la lotta per la riduzione dell’orario di lavoro, in grado di unificare tutta la classe, a una questione aziendale, e sono attraenti per il padronato in quanto prevedono una diminuzione del salario. Un ottimo modo per gabellare i lavoratori stravolgendo la loro classica rivendicazione della diminuzione dell’orario di lavoro a parità di salario.
A questa proposta di Landini si sono contrapposti due documenti alternativi, uno della Rete 28 Aprile, l’altro della destra, legata alla maggioranza Cgil, di fatto identico al documento del segretario Fiom. Si è quindi verificato un ribaltamento delle alleanze interne, conseguenza della nuova virata “a destra” della Fiom ed è stato estromesso dalla segreteria nazionale l’unico rappresentante della sinistra interna, appartenente alla Rete 28 Aprile.
Con questa resa dei conti, si è consumata l’ennesima sconfitta della sinistra Fiom e Cgil e della pretesa di riportare questo sindacato sulla strada del sindacalismo di classe. Come da noi ribadito costantemente la sinistra Cgil non solo non è riuscita, in 35 anni, a “cambiare la Cgil”, ma nemmeno ha fermato il suo spostarsi su posizioni sempre più anti-operaie. Il bilancio di questo arco di 35 anni è stato un grave sciupio di energie e una loro sottrazione al necessario lavoro di ricostruzione del sindacato di classe fuori e contro i sindacati di regime.
La proposta della Fiom è stata, come prevedibile, rigettata da Fim, Uilm e Federmeccanica che proseguono sulla loro strada nella trattativa per un nuovo contratto separato, che accoglierà buona parte delle richieste padronali.
È del tutto evidente che la linea Fiom, che nasconde la sua inerzia nella volontà di riconquistare un contratto unitario, sta conducendo i metalmeccanici a subire colpi gravissimi. La strada indicata dalla sua componente di sinistra è quella di iniziare a costruire una lotta per imporre con la forza un contratto su una piattaforma della sola Fiom. Ma questa pretesa è liquidata da Landini come “follia: Noi non firmeremo mai un contratto senza Fim e Uilm”.
Naturalmente, oggi, la Fiom non è in grado di condurre una simile battaglia. Ma non tanto per l’oggettiva debolezza dei lavoratori, determinata dalla crisi, ma soprattutto perché tutta la sua azione sindacale passata è andata in direzione opposta, e continua ad andarvi.
La Fiom non può uscire da determinati binari, stando dentro la Cgil.
La sua sinistra, a seguito della grande manifestazione del 16 ottobre
2010
a Roma, successivamente al referendum di Pomigliano, mostrava di
credere
che la Fiom andasse allo scontro frontale con la sua Confederazione.
Che
ci credessero davvero o meno poco importa. Quel che conta, previsto dal
nostro partito fin dalla fine degli anni ‘70, è che la Cgil, e la Fiom
in essa, sono definitivamente dei sindacati di regime.
Di seguito riportiamo il volantino che abbiamo distribuito a Piacenza durante la manifestazione indetta dal sindacato S.I.Cobas. Circa in 300 hanno attraversato le vie del centro cittadino, in maggioranza operai delle cooperative in subappalto della Ikea, davanti ai cancelli della quale da circa un mese si susseguono proteste, picchettaggi e scontri con la polizia.
Anche con questa manifestazione gli operai hanno espresso una forte determinazione ed unità dimostrando di aver appreso che solo con la lotta potranno riuscire a scardinare le offensive del padrone. Ma anche con l’organizzazione, infatti in molti aderiscono al piccolo, ma in crescita, combattivo S.I.Cobas.
Da rilevare che neanche un delegato Cgil era presente, confermando che questo sindacato ha da decenni abbandonato la causa della classe lavoratrice. Quando il proletariato utilizza le sue naturali forme di lotta, scioperi ad oltranza, ostacolo ai crumiri etc., diventa tutto immediatamente cristallino e non ci sono se o ma. O si sta dalla parte dei lavoratori o contro di essi.
La battaglia dei lavoratori della CGS deve essere presa ad esempio dall’intera classe operaia. Solo estendendo la lotta ad altre categorie al di fuori del recinto aziendale si potrà allargare il fronte proletario per fronteggiare quello padronale.
La quasi totalità di questi lavoratori è immigrata, in particolare dal Nord Africa. Oggi in Italia quest’esercito di senza riserve è così suddiviso: una parte “regolarizzata” nella schiavitù salariale, ma con lavori spesso sottopagati; un’altra clandestina, pronta a fornire al “bene del paese” mano d’opera ricattabile a basso costo, infine una terza, rinchiusa “democraticamente” negli infami CIE è in attesa di essere espulsa o pronta a subentrare nelle privilegiate categorie precedenti.
Noi comunisti riconosciamo questi lavoratori delle cooperative come nostri fratelli di classe, parte dell’esercito internazionale del proletariato.
* * *
Da tre settimane gli operai del consorzio di cooperative CGS bloccano con scioperi e picchetti il Deposito Centrale dell’Ikea a Piacenza. La lotta è contro i salari da fame (500-600 euro), l’uso discriminatorio dello straordinario, la mancata applicazione del contratto nazionale di lavoro.
Il Consorzio Gestione Servizi (CGS) per ritorsione ha sospeso 15 lavoratori – molti dei quali attivisti del sindacato di base SI Cobas che ha organizzato la lotta – con l’intenzione di trasferirli e per tre di loro miha nacciato il licenziamento. Altri 80 sono stati lasciati a casa senza alcuna motivazione.
Non bastando la repressione aziendale a piegare i lavoratori è prontamente giunta in soccorso al padronato la macchina statale, democratica e borghese. La polizia ha aggredito i picchetti che bloccano le merci e impediscono l’ingresso ai pullman con a bordo lavoratori esterni, utilizzati come crumiri. Alcuni lavoratori versano tutt’ora in gravi condizioni in ospedale.
Ecco la “legalità”, invocata dalla sinistra borghese e dai sindacati di regime a difesa dei lavoratori! Si aggiungeranno poi i risultati dell’inchiesta avviata dalla magistratura, altro strumento padronale spacciato per “amico” dei lavoratori.
Le istituzioni locali – “di sinistra” – si sono erette a difesa del... lavoro. Cioè contro gli scioperanti – che il lavoro bloccano – e dalla parte dei profitti di CGS e Ikea, frutto del lavoro... degli operai. La “difesa del lavoro” è una formula ambigua congeniale ai falsi partiti e sindacati operai: fra difesa del salario e quella del profitto, alla fine, è sempre il profitto che difendono.
La lotta degli operai CGS indica i metodi di lotta che tutta la classe lavoratrice deve tornare a utilizzare:
Questa fiera lotta operaia ha anche importanti insegnamenti politici: la democrazia è una maschera della dittatura del Capitale, cioè della classe che lo detiene e gestisce – la borghesia – e del suo Stato.
Finché i lavoratori non lottano, o si affidano ai sindacati di regime, o credono di poter difendersi scegliendo col voto chi andrà a rappresentare gli interessi della classe dominante, la democrazia appare vergine e immacolata. Ma se i lavoratori lottano per davvero – come hanno fatto gli operai del CGS – il regime borghese cala la maschera, usa il manganello e se necessario il piombo, e la sinistra borghese piange per la “democrazia violata”.
Alla dittatura borghese i lavoratori non devono contrapporre la
lotta
per una inesistente “vera democrazia” ma difendere oggi con la forza
il proprio salario e imporre domani con la forza la propria
dittatura
rivoluzionaria per abbattere il capitalismo, unica strada per
liberare
i lavoratori dalla schiavitù del lavoro salariato.
L’economia capitalistica deve inevitabilmentecadere nella sua crisi generale e sprofondarvi fino alla completa rovina a causa delle sue ineliminabili contraddizioni interne. Le vere cause della crisi sono la sovrapproduzione e il calo del saggio del profitto. Queste cause risiedono nella produzione, là dove il lavoro operaio crea il plusvalore. Il gonfiarsi a dismisura della sfera finanziaria non è una causa della crisi ma un sintomo: più diventa difficile trarre un profitto adeguato dalla produzione più il capitale è attratto dalla speculazione finanziaria, come da una droga
La crescita – invocata da un estremo all’altro dello schieramento politico borghese quale “bene comune” a tutte le classi – non è altro che la crescita del Capitale. Oltre un certo limite è impossibile: perché sono state prodotte troppe merci e perché il margine di profitto diviene troppo esiguo. Le fasi economiche di forte crescita sono solo la premessa di quelle di crisi. Richiedere “investimenti per far ripartire la crescita” non ha alcun senso
Quella attuale non è la prima crisi generale del capitalismo. L’ultima fu la Grande Depressione del 1929. La cosiddetta politica keynesiana – ossia l’intervento statale a sostegno dell’economia capitalistica – invocata oggi dalla “sinistra”, “moderata” o “radicale”, allora fu praticata indifferentemente da tutti i regimi borghesi – sia democratici sia nazisti e fascisti – e non risolse affatto la crisi. A permettere il cosiddetto boom economico degli anni ’50 e ’60 fu solo la Seconda Guerra mondiale. Questo il prezzo da pagare per il ritorno alla crescita capitalistica!
Non esiste una soluzione economica
alla crisi del capitalismo.
Esistono solo le opposte soluzioni
politiche
delle due classi di
questa società.
- La soluzione borghese è una nuova guerra mondiale per
distruggere
le merci in eccesso, prima fra tutte la merce forza-lavoro, e
sottomettere
al massimo sfruttamento i lavoratori in un nuovo folle ciclo di
accumulazione.
- La soluzione proletaria è la Rivoluzione: sottratto
il potere alla classe dominante, imporre le riforme rivoluzionarie in
grado
di far superare alla classe lavoratrice e a tutta l’umanità questo modo
di produzione sempre più antistorico e inumano.
Non si tratta di inventare nulla di nuovo ma di riscoprire e impugnare l’originale programma comunista rivoluzionario, liberandolo dalle macerie dell’ultima e peggiore ondata opportunistica, quella dello stalinismo e dei suoi eredi odierni, che ha mistificato e nascosto agli occhi dei lavoratori di tutto il mondo il significato e il senso del Comunismo, spacciando per esso il capitalismo di Stato russo, cinese, cubano, ecc.
I punti fondamentali del programma comunista sono:
- l’abolizione del lavoro salariato, con la conseguente
estinzione
del suo opposto, il Capitale, e quindi del denaro, e la distribuzione
gratuita
dei beni e dei servizi;
-
l’obbligo sociale del lavoro, con la scomparsa della
disoccupazione;
- la drastica riduzione dell’orario di lavoro a poche ore
giornaliere;
- la regolazione della produzione secondo parametri fisici riferiti
ai bisogni umani e non più secondo gli interessi mercantili e
aziendali;
- la soppressione di interi settori di attività prettamente
capitalistiche
e parassitarie: da quelle legate alla contabilità monetaria e alla
finanza, a quelle, ad es., pubblicitarie, con la conseguente
liberazione
di enormi energie per scopi realmente utili.
La realizzazione di questo programma sociale rivoluzionario è possibile, non perché esso sia stato ben congegnato “a tavolino”, ma perché è il capitalismo stesso che ne ha creato le basi materiali: la ricerca obbligata del profitto ha sviluppato la forza produttiva del lavoro a tal punto da rendere possibile la soddisfazione di tutti i bisogni umani con poche ore medie giornaliere di lavoro.
Questo a patto di liberare il lavoro dalle leggi economiche capitalistiche che costringono un numero sempre minore di lavoratori a lavorare sempre più intensamente e a lungo, a fronte del crescere smisurato dei disoccupati, e immiseriscono il proletariato non per carenza di beni bensì per averne prodotti troppi!
Oggi la grave alternativa che la storia impone è fra Guerra e Rivoluzione. A decidere sarà la classe operaia mondiale: per non sottomettersi alla guerra dovrà rovesciare il capitalismo. Coloro che predicano temporanei sacrifici dei lavoratori per il “bene del paese” – che altro non è che il bene del Capitale – stanno già spingendo il proletariato sulla strada del suo completo sacrificio in una nuova guerra imperialista.
Il ricatto è semplice: dal capitale dipende l’esistenza dei lavoratori, ogni sacrificio è legittimo perché non esiste alternativa, o Capitalismo o morte! La classe lavoratrice ha invece in mano tutti gli strumenti per vivere senza il Capitale in una società superiore!
Per incamminarsi già da oggi su questa strada i lavoratori devono difendere i propri interessi economici di classe, intransigentemente: senza farsi alcun carico della salvezza dell’economia nazionale che altro non è che la salvezza del capitalismo!
Questo è possibile solo impugnando le storiche rivendicazioni
del
movimento operaio, le sole in grado di difendere il salario di tuttii
lavoratori, unendoli veramente:
- forti aumenti salariali, maggiori per le categorie peggio
pagate;
- drastica riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario;
- salario pieno ai lavoratori licenziati.
Questi obiettivi sono perseguibili solo da un movimento generale della classe, che coinvolga anche i sempre più numerosi lavoratori disoccupati, con scioperi sempre più estesi e duraturi, fino ad arrivare allo sciopero generale a oltranza.
Per questo è necessaria una organizzazione generale dei lavoratori, un vero sindacato di classe, che abbia, fra le altre caratteristiche, quella di privilegiare l’organizzazione territoriale dei lavoratori rispetto a quella aziendale e di categoria, per unire occupati e disoccupati, lavoratori delle piccole aziende con quelli delle grandi, come nella gloriosa tradizione delle originarie Camere del lavoro.
Il SINDACATO DI CLASSE oggi non può rinascere che FUORI E CONTRO I SINDACATI DI REGIME (Cgil, Cisl, Uil, Ugl), definitivamente votati alla difesa dell’economia nazionale. I sindacati di base possono rappresentare un passo in questa direzione solo a patto di superare le loro divisioni divenendo una vera alternativa per i lavoratori. Questo obiettivo non può che essere imposto dalla loro base, contro le attuali dirigenze che da trentanni non sono state in grado di raggiungerlo.
La lotta intransigente in difesa del salario condurrà il proletariato verso la Rivoluzione contro un capitalismo sempre meno in grado di sfamare i suoi schiavi salariati.
Lungo questa strada i lavoratori incontreranno non solo la resistenza della classe dominante ma anche quella, più insidiosa, dei falsi partiti operai, che prospettano loro sempre falsi obiettivi intermedi utili solo ad allontanarli dalla Rivoluzione. Rivendicazioni “alternative”, quali l’“annullamento del debito”, la “nazionalizzazione” di banche e imprese, l’uscita dall’Unione Europea, non sono obiettivi della classe lavoratrice ma alternative per la classe dominante, tant’è che nel passato provvedimenti analoghi sono stati adottati indifferentemente da governi borghesi, sia democratici sia fascisti. I “nuovi modelli di sviluppo” sono solo la riproposizione delle vecchie illusioni di un capitalismo diverso.
Il Partito Comunista Internazionale è l’autentico erede della Sinistra Comunista italiana, la sola corrente che ha potuto trarre dall’ultima sconfitta rivoluzionaria, culminata con lo stalinismo, le lezioni necessarie per la riscossa futura. È perciò il solo che possa condurre vittoriosamente i lavoratori al superamento rivoluzionario del capitalismo. Per questo grandioso quanto vitale compito vi chiama alla milizia nelle proprie file.