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PAGINA 1
In Egitto i
militari licenziano gli islamici
ma tenuti di scorta contro il proletariato
Il governo egiziano messo insieme a tempo di record dal primo ministro, l’ottantenne Hazem el-Beblawi, e insediatosi alla metà di luglio, non ha a disposizione molto tempo perché la situazione dell’Egitto richiede decisioni rapide. «Le riserve di grano importato sono sufficienti solo per altri due mesi, secondo un ex ministro del governo destituito. Si tratta di 500 mila tonnellate cui vanno aggiunti altri tre milioni di tonnellate coltivati nel Paese» (AGI, 11 luglio). Sembra infatti che da febbraio il deposto governo Morsi, a causa della diminuzione delle riserve in moneta estera, abbia sospeso i consueti acquisti di grano sul mercato mondiale. Adesso, dopo il golpe, si aspettano i 12 miliardi di dollari di aiuti promessi da Arabia Saudita, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti; questi ingenti capitali dovrebbero permettere allo Stato egiziano, il primo importatore di grano al mondo, di alimentare i suoi 85 milioni di abitanti guadagnando qualche mese di tregua, ma facendo crescere ulteriormente il suo debito.
Il governo dei Fratelli Musulmani aveva tentato, senza riuscirci, di abolire i sussidi statali nell’arco di cinque anni. La gran maggioranza di questi va a coprire i costi energetici, fornisce alle industrie energia a basso prezzo, ma anche ai privati la benzina. Il petrolio nazionale estratto vale 165 miliardi di Sterline Egiziane (1 dollaro = 7 S.E.), ma lo Stato lo rivende ad un prezzo di 50 miliardi, scaricando la differenza sul suo bilancio. Altri importanti sussidi vanno ad agevolare l’acquisto delle bombole di gas, indispensabili nell’economia familiare; sembra che in Egitto se ne consumino 360 milioni all’anno. Altro prodotto fondamentale sovvenzionato è il pane: il governo vende una pagnotta per 5 piastre mentre il costo di produzione è di 40.
Naturalmente questo sistema causa abusi e truffe ma sono molti milioni gli egiziani poveri per i quali il sistema dei sussidi è indispensabile per la sopravvivenza. I vampiri del FMI hanno ugualmente chiesto al governo Morsi di abolire il sistema dei sussidi.
Questo è solo uno dei problemi vitali che il governo dei
Fratelli
non
è stato in grado di affrontare. Problemi economici e sociali
gravissimi
stavano mettendo in pericolo la tenuta delle istituzioni e alimentando
i conflitti sociali. Da qui la decisione dell’Esercito, vero detentore
del potere politico ed economico, di intervenire.
La “rivoluzione” del 2011
Sull’esempio della rivolta tunisina, nei primi mesi del 2011 è stato il potente proletariato egiziano a mettersi in moto con mobilitazioni e scioperi che hanno portato in poche settimane allo svuotarsi dei sindacati di regime e alla nascita di sindacati liberi, che rivendicavano forti aumenti salariali e migliori condizioni di lavoro e di vita.
In questa fase l’intervento del movimento democratico liberale da una parte, e quello della Fratellanza Musulmana dall’altra, è servito alle classi dominanti per deviare la classe operaia dai suoi obbiettivi verso quello, interno alle classi borghesi, della caduta di Mubarak, improvvisamente additato da una ben orchestrata campagna di stampa come il responsabile di tutti i mali del paese. Ancora una volta si è trattato di “cambiare tutto per non cambiare nulla”
Ricorda L’Unità del 9 luglio:
«I militari hanno tenuto in mano l’Egitto nei 17 mesi successivi alla caduta del regime di Hosni Mubarak. In quei 17 mesi, ha sottolineato in un rapporto Amnesty International, le forze di sicurezza e l’esercito hanno ucciso almeno 120 manifestanti; le corti marziali hanno sottoposto a processi iniqui oltre 12.000 civili; i militari hanno arrestato donne che prendevano parte alle proteste e le hanno sottoposte con la forza a “test di verginità”».Eppure il liberale El-Baradei, tanto per ricordarne uno, sin dal primo momento oggi collabora con i militari golpisti.
Ancora alla fine del 2011 l’esercito è intervenuto contro una
manifestazione
di giovani copti, che protestavano contro le aggressioni dei Fratelli
Musulmani,
aprendo il fuoco sulla folla con le mitragliatrici e causando una
carneficina.
Eppure il Papa copto era accanto al generale Al Sissi quando annunciava
il colpo di Stato.
I Fratelli: cambiare tutto per non cambiare nulla
Il governo dei Fratelli, nato da una vittoria elettorale di misura, è stato condizionato nella sua azione da un accordo con le gerarchie militari. In campo economico il “liberalismo” dei Fratelli doveva fare i conti con lo “statalismo” dei militari, e si è quindi risolto solo in un accaparramento di posti di potere a favore dei confratelli.
Non è stato però così sul piano sociale dove l’azione del governo è stata ben più incisiva contro il movimento operaio, come testimonia un documento stilato dalla Confederazione Egiziana dei Sindacati Indipendenti nel giugno scorso (tratto da Mena Solidarity Network):
«Oggi viviamo nel terzo anno della rivoluzione, ma sotto il governo dell’attuale regime stiamo raccogliendo ancora i frutti amari della dittatura, che ha riportato l’Egitto nella lista nera dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro dei paesi con le peggiori statistiche in merito ai diritti dei lavoratori. Ora, alla vigilia di una nuova ondata della rivoluzione del nostro popolo, ricordiamo al mondo le rivendicazioni dei lavoratori egiziani all’indomani della rivoluzione.L’evolversi della situazione in Egitto negli ultimi due anni l’ha confermato.
«Chiediamo: dov’è la nuova legge sui sindacati, la cosiddetta legge sulle libertà sindacali? perché non è stata promulgata, benché sia stata oggetto di discussione per più di due anni?; perché la macchina della repressione viene usata sempre più contro le proteste dei lavoratori, fino al punto che lo sciopero presso la Portland Cement ad Alessandria è stato piegato dall’uso della polizia con i cani? perché si stanno licenziando i lavoratori colpevoli di esercitare i propri diritti di protesta e di sciopero, ed alcuni lavoratori stanno addirittura affrontando condanne in carcere con l’accusa del cosiddetto “incitamento allo sciopero”? perché ci sono migliaia di lavoratori disoccupati a causa della chiusura delle fabbriche o della fine dei loro contratti a termine? perché lo Stato è rimasto in silenzio mentre quasi 4.000 fabbriche hanno chiuso, senza nemmeno porre domande ai proprietari e senza proteggere i diritti dei lavoratori? cos’è che impedisce l’attuazione delle leggi che migliorano le condizioni dei lavoratori, come la legge sul salario minimo e massimo, la nuova legge sul lavoro? Al contrario, sono state promulgate leggi contro gli interessi dei lavoratori, come quella sulla criminalizzazione dello sciopero, o leggi che chiedono tasse ai poveri e non toccano invece i ricchi e gli investitori.
«Bisogna dichiarare l’attuale governo colpevole come i precedenti, sia prima sia dopo la rivoluzione, visto che hanno lavorato contro gli interessi dei lavoratori e a favore di quelli di una minoranza di investitori, di ricchi e di grandi imprenditori. Questa gente non ha altro interesse se non quello di far crescere i suoi profitti succhiando sangue e sudore dai lavoratori e dai poveri».
La borghesia applaude al colpo di Stato
Una accorta regia, probabilmente consigliata da Washington, ha guidato il colpo di Stato con il quale il Consiglio Supremo delle Forze Armate ha esautorato il Presidente Mohammed Morsi, arrestato centinaia di Fratelli Musulmani, tra cui i loro maggiori dirigenti, sospesa la Costituzione, disciolto il Senato e imposto come capo, provvisorio, del governo un giudice, Adly Mansour, presidente della Corte costituzionale. Il capo di Stato maggiore dell’esercito e Ministro della Difesa Al Sissi ha dato l’annuncio della destituzione di Morsi parlando in una sala dove erano riuniti esponenti rappresentativi al massimo livello della cosiddetta “società civile”, dei partiti d’opposizione, El-Baradei, della Chiesa copta e di quella islamica.
Gli scopi immediati dei golpisti erano: prevenire la reazione dei Fratelli Musulmani e del loro partito Giustizia e Libertà, estromesso di colpo dal potere; continuare a godere dell’aiuto degli Stati Uniti dando una parvenza “democratica” al colpo di Stato, giustificato con le oceaniche manifestazioni antigovernative; ottenere una patente di imparzialità e moderazione, che risulterà utile quando si tratterà di intervenire, e lo si farà ben più pesantemente, contro il proletariato delle città e delle campagne.
L’azione dell’esercito ha ottenuto l’appoggio del Fronte di Salvezza Nazionale del liberale El-Baradei, degli Islamisti salafiti, della Chiesa copta e del “Movimento dei Ribelli”, quelli che avevano raccolto, a detta loro, 22 milioni di firme per far saltare il governo Morsi. È stata una ulteriore chiara dimostrazione che i contrasti tra le diverse componenti delle classi dominanti passano in secondo piano quando c’è in ballo la questione fondamentale, la difesa dello Stato borghese.
Questo deve essere ben presente al proletariato egiziano, se vuole organizzarsi per difendere gli interessi dei lavoratori. Nemmeno in Egitto il partito comunista rivoluzionario può allearsi col movimento liberale borghese, in un fronte comune per l’ottenimento di obbiettivi che paiono acquisiti nelle democrazie borghesi d’occidente, come lo Stato laico, la parità tra i sessi, la libertà di stampa, la libertà di associazione sindacale o il diritto di sciopero. Non esiste oggi in Egitto, come nei paesi europei, una borghesia “liberale” e “progressista”: la borghesia è controrivoluzionaria ovunque, in tutte le sue frange, grandi e piccole, schierata solo in difesa di questo sistema economico che sente sempre più pericolante, pronta a tutto per difendere i suoi grandi o miseri privilegi e il suo potere anche con la dittatura aperta, quando sarà necessario. E non chiederà certo il consenso delle classi sfruttate.
Questo “democratico” colpo di Stato non è stato in realtà diretto contro i Fratelli Musulmani, con i quali, fino a qualche settimana prima, l’Esercito aveva collaborato attivamente in funzione antiproletaria, ma contro un governo che non è riuscito ad impedire la crescita delle proteste e degli scioperi.
«L’incapacità di garantire la sicurezza e il controllo del territorio è stato il limite più grande dell’amministrazione Morsi», racconta dal Cairo l’ambasciatore italiano Maurizio Massari. «L’approvvigionamento di gas è diventato irregolare, i trasporti pure, la moneta ha iniziato a sparire. La confusione istituzionale, la corruzione e il caos legislativo hanno infine dato il colpo di grazia all’esperienza di governo dei Fratelli Musulmani», scrive il n.29 de Il Mondo.Si è trattato di un colpo di Stato preventivo, per cercare di guadagnare tempo, deviare ancora una volta la protesta sul piano di un cambiamento tutto interno alla classe borghese, imponendo un governo in grado di ristabilire, almeno si illude, una parvenza di ordine e legalità e creare le condizioni minime per ricevere gli aiuti economici dall’estero essenziali allo Stato per rimandare il collasso.
L’esercito difende, è vero, i suoi interessi come trust proprietario di industrie e di terre che impiegano decine di migliaia di salariati, ed in questa sua natura si è trovato in contrasto con la politica “liberista” condotta dal governo Morsi, ma rappresenta anche lo Stato nella sua essenza di strumento di difesa dell’ordine borghese e per questo la sua azione ha ricevuto l’appoggio di gran parte delle classi dominanti.
Questa la dichiarazione rilasciata ad Asia News dal
portavoce
della Chiesa cattolica egiziana: «Quanto sta accadendo in Egitto
non è
un colpo di Stato. L’esercito ha scelto di proteggere una rivoluzione
pacifica organizzata dai giovani egiziani e seguita da milioni di
persone
in tutto il Paese. In un normale colpo di Stato i militari avrebbero
subito
nominato un loro uomo come presidente ad interim, avrebbero cambiato il
governo, prendendo il potere. Ma questo non è il caso
dell’Egitto».
Oggi contro musulmani domani contro il proletariato
Nelle prime ore del mattino di lunedì 8 luglio l’esercito egiziano ha sciolto con estrema violenza una manifestazione dei Fratelli Musulmani organizzata davanti alla sede della Guardia Repubblicana al Cairo per chiedere la liberazione dell’ex Presidente Morsi, che si riteneva fosse detenuto al suo interno. Sotto il tiro dei soldati e dei cecchini sono morti, molti colpiti alla testa, più di 50 dimostranti mentre più di 300 sono rimasti feriti. Più di duecento sono state arrestati e la sede del partito Giustizia e Libertà, emanazione dei fratelli musulmani, è stata chiusa. Questo massacro è passato senza grande scandalo, i partiti borghesi e le varie Chiese hanno solo chiesto “una commissione d’inchiesta” che “accerti” i fatti.
L’intervento brutale risponde certamente alla necessità di
terrorizzare
i dimostranti (e non solo quelli che si mobilitano dietro le parole
d’ordine
dei Fratelli). Ma ha anche un’altra funzione: gli islamisti devono
essere
allontanati dal potere ma non eliminati, perché la loro azione
contro
le organizzazioni operaie, il loro demagogico populismo, la loro
propaganda
religiosa ha aiutato e continuerà ad aiutare le classi domanti
nel
mantenimento
del potere. Del pari sarà sempre più necessaria la ben
oliata macchina
repressiva dello Stato, al di là delle altisonanti parole sulla
democrazia
e sulla libertà ora usate dai sostenitori dell’esercito.
Borghese solidarietà internazionale
Sul piano internazionale il golpe è stato immediatamente salutato dalla monarchia saudita, che si è congratulata con il generale Abdul Fattah al-Sisi e con il nuovo capo del governo Adli Mansur, il quale è stato per dieci anni l’uomo di fiducia di Hosni Mubarak in Arabia Saudita. Anche il Presidente siriano Al Assad ha salutato la caduta del governo dei Fratelli Musulmani, suoi avversari nella guerra che si trova in casa. Lo stesso ha fatto il presidente palestinese Abu Masen, mentre Hamas pare abbia perso, con Morsi, un alleato importante.
Invece il piccolo Qatar, finanziariamente molto potente, ha duramente condannato la fine del governo dei Fratelli, che avevano favorito i suoi interessi nel Paese, ma naturalmente non rinuncerà ai suoi affari. Stesso atteggiamento ha avuto anche il governo turco, anch’esso di matrice islamica. Anche l’Iran ha criticato il golpe.
Ben più prudenti i paesi occidentali, a partire dagli Stati Uniti d’America con l’Europa a seguire. Il loro atteggiamento è stato ben riassunto dalle parole del segretario generale della NATO Anders Fogh Rasmussen che ha dichiarato: «Non credo che la cosa più importante ora sia etichettare quello che è successo in Egitto, con discussioni teoriche se sia o meno un colpo di Stato, ora bisogna rafforzare la democrazia al più presto».
Gli Stati Uniti hanno ugualmente consegnato all’Egitto gli ultimi quattro aerei F16, di una fornitura di 20, a dimostrazione che l’alleanza continua e il Dipartimento di Stato che ha inviato al Cairo il vice segretario William Burns per ribadire il sostegno degli Stati Uniti “al popolo egiziano”. Nonostante la crisi e le difficoltà economiche che non risparmiano neppure la loro economia, gli Stati Uniti non vogliono perdere quest’alleato prezioso che non solo controlla direttamente il canale di Suez ma costituisce un pilastro nel mantenimento dello status quo mediorientale.
Anche il Ministro cinese degli Affari Esteri Hua Chunying ha espresso il suo sostegno alla “scelta del popolo egiziano” e ha fatto appello alle parti in nome del “dialogo” e della “riconciliazione”; eppure il presidente Morsi aveva fatto proprio in Cina la sua prima visita di Stato fuori dal mondo arabo. Ma gli affari sono affari e la Cina ha in Egitto progetti importanti. Secondo dati riportati da Le Monde del 21 settembre 2012,
«il volume degli scambi tra la Cina e l’Egitto è passato tra il 2009 e il 2011, da 5,5 a 9 miliardi di dollari. Poco spaventati dalla prospettiva dell’arrivo degli islamisti al potere, i cinesi hanno continuato ad investire in Egitto, mentre i capitali del mondo intero erano in fuga. Per la Cina, l’Egitto costituisce un punto strategico di grande importanza».
Al proletariato raccogliere la sfida
La situazione economica dell’Egitto è quindi difficilissima; l’economia, già minata da problemi strutturali e dalla crisi generale del capitalismo, è stata indebolita dai lunghi mesi di instabilità sociale, di disordini e scontri di piazza, di scioperi.
La borghesia di tutti i paesi, di vecchio come di nuovo capitalismo, nella crisi che non accenna a risolversi, non ha un “modello” alternativo da proporre se non la solita ricetta: ridurre i salari e azzerare lo Stato sociale per tentare di vincere la concorrenza sul mercato internazionale.
L’unico ad avere un “modello alternativo” di economia è il grande assente in questo momento, è il proletariato, mondiale ed egiziano, che ancora non riesce a parlare in prima persona, “schermato” da partiti apertamente borghesi o falsamente socialisti o comunisti.
I lavoratori delle città e delle campagne d’Egitto, è vero, sono la sola classe che può ottenere “pane, libertà e giustizia sociale”, come chiedono, ma lo potranno fare solo abbattendo, insieme al proletariato internazionale, lo Stato borghese, distruggendo il suo esercito, abolendo la proprietà privata sui mezzi di produzione e sulla terra, instaurando la loro dittatura di classe.
Quello che è avvenuto in Egitto non è stato affatto una rivoluzione, non c’è stato alcun mutamento di regime, sono solo cambiati dei governi. Sono cadute delle teste ma il potere è rimasto nelle stesse mani. Perché possa verificarsi una rivoluzione non basta la mobilitazione del proletariato, la debolezza delle classi dominanti e la crisi del sistema economico, è necessaria l’esistenza di organizzazioni di classe indipendenti e di un Partito Comunista ben strutturato e di forti organizzazioni economiche proletarie.
Per riuscire in questo risultato è indispensabile che il
proletariato
riesca ad allargare e rafforzare i suoi sindacati, che riesca a tenerli
fuori dall’influenza dello Stato, ma anche dei partiti borghesi e
opportunisti
per farne uno strumento formidabile di lotta. E potrà procedere
verso
il potere della sua classe solo se le sue avanguardie sapranno
ritrovare
il programma che condensa l’esperienza secolare della lotta per
l’emancipazione
rivoluzionaria, solo se sapranno ricollegarsi al marxismo
rivoluzionario,
al Partito Comunista Internazionale.
Per una interpretazione degli scontri recentemente avvenuti prima ad
Istanbul poi in altre città della Turchia dobbiamo fare qualche
passo
indietro nella storia del Paese, un poco integrando quanto scrivemmo
nel
settembre 1982 in: Il proletariato turco rifiuti l’inganno
antifascista,
nel numero 97 di questo periodico, a cui rimandiamo per la precisa
analisi
storica ed economica.
Breve riassunto storico
Nell’Ottocento continuò ad interessare le potenze europee, come già nel secolo precedente, la cosiddetta ”Questione Orientale”, che verteva su due principali istanze: la spartizione dei territori, quelli europei in primis, del decadente Impero Ottomano ed il controllo delle importanti vie commerciali che lo attraversavano, terrestri, fluviali e marittime, verso l’India e tutta l’Asia.
La pesante sconfitta subita dal grande ma inefficiente esercito di Maometto IV nella battaglia di Vienna del 1683 segna l’inizio del declino militare ottomano. I successivi sultani cercarono solo di rallentare la progressiva perdita di territori, a favore dell’uno o dell’altro vicino. Veneziani, genovesi, ragusani, poi austriaci, francesi e spagnoli si installarono nei centri commerciali di quell’incerto Impero. Successivamente le maggiori potenze commerciali e militari interessate furono l’Impero russo, bastione europeo della controrivoluzione feudale, l’Inghilterra e la Francia, poi la Germania, le cui moderne grandi produzioni industriali necessitavano di uno sbocco sugli immensi mercati asiatici.
La guerra d’indipendenza greca del 1821-22 e specialmente la guerra di Crimea del 1854-56, si inscrivono in questa dinamica, come abbiamo esposto nei rapporti sulla “Questione militare” che pubblichiamo nella nostra rivista Comunismo. Per le divisioni fra i concorrenti, più che con un attacco diretto si preferì erodere l’Impero a piccoli morsi.
Negli ultimi decenni dell’Ottocento nei Balcani centrali si formarono tanti piccoli Stati che si erano affrancati, o tentavano di farlo, dal secolare dominio ottomano: agli inizi del Novecento nel grande Impero rimaneva solo la Turchia, parte del Medio Oriente e dell’Iraq, essendosi già perso anche lo Yemen.
Nella nostra, e solo nostra, materialistica e dialettica lettura della storia abbiamo osservato che i modi di produzione, e i grandi apparati statali che ne difendono le classi dominanti, crollano sotto il peso delle contraddizioni che li minano quando si presenta una nuova forza sociale rivoluzionaria, portatrice di un migliore modo di produzione e di una ricomposizione delle classi, dei popoli e, modernamente, delle nazioni.
Le contraddizioni interne all’Impero Ottomano nelle sua fase finale si possono così elencare: 1) Era multietnico, multirazziale e multireligioso, in una frammentazione pre-nazionale; le classi medio-alte, professionisti, commercianti, erano rappresentate da minoranze etniche: gli armeni, i greci, gli ebrei; 2) Economicamente si basava sulle conquiste e il bottino, frutto di continue guerre oltre i confini, e sul mantenimento di un esercito sempre più grande e costoso, con enormi problemi, come la difficoltà di rapidi spostamenti; 3) Con le classi pre-borghesi prive di ogni diritto, la sua vita economica era pesantemente condizionata dalla rendita fondiaria, da una agricoltura su piccola scala e da un allevamento semi-nomade; gli unici prodotti di esportazione consistevano in cotone prima e tabacco poi; 4) Esisteva un piccolo commercio interno di produzioni artigianali e manifatture locali e un commercio di transito di merci pregiate tra Europa e Asia; 5) Praticamente assente quindi, o solo sul nascere la produzione su scala più ampia o industriale.
Il potere centrale manteneva l’unità dell’Impero, che si esprimeva in molteplici situazioni locali diverse, attraverso la continuità di un antico e sperimentato apparato militare.
L’inerzia del sistema, a contatto con lo sviluppo europeo, giunse
ad un punto di rottura con la guerra italo-turca del 1911-12 quando,
dopo
la sconfitta della Turchia, le isole di Rodi e del Dodecaneso, la
Tripolitania
e la Cirenaica, da Gaetano Salvemini definite “scatoloni di sabbia”,
divennero colonie del farsesco “Impero Italiano”.
Nascita della Turchia moderna
Alcuni storici borghesi datano l’inizio della Prima Guerra mondiale non dal maldestro attentato di Sarajevo del 1914, ma da questo precedente conflitto, quando il corpo di spedizione italiano di 34 mila uomini con facilità ebbe ragione dei 4 mila ottomani dislocati in Libia, forte anche del blocco dei rinforzi ottomani spediti via mare, intercettati dalla flotta italiana. Questo spinse gli Stati membri della Lega Balcanica, un’alleanza militare tra i regni di Serbia, Montenegro, Grecia e Bulgaria, a scendere in guerra contro l’Impero Ottomano per ottenere la completa indipendenza ed allargare i rispettivi territori. Alla prima guerra Balcanica del 1912 ne seguì una seconda nel 1913, tra i membri ed ex alleati della Lega per la spartizione della Macedonia e della Tracia.
Gli accordi di pace, o per meglio dire di tregua armata, coinvolsero gli interessi delle maggiori potenze europee, Italia compresa, per il controllo dell’Albania, e nel 1914 sfociarono nella Prima Guerra mondiale. L’Impero Ottomano si alleò con gli Imperi Centrali, la moderna economia tedesca infatti aveva da tempo favorito un’alleanza e un’espansione nell’area. La sconfitta degli Imperi Centrali portò come conseguenza per l’Impero turco la perdita di buona parte dei territori e la riduzione praticamente all’attuale Turchia. Nell’immediato primo dopoguerra la Grecia, spinta dalla Gran Bretagna, anche in funzione anti italiana, occupò l’importante città di Smirne iniziando l’invasione della stessa Anatolia, mentre truppe italiane, francesi e inglesi presidiavano quelle coste mediterranee: la questione orientale e balcanica non era evidentemente ancora conclusa.
Nel 1920-21 il generale Mustafà Kemal Pascià, fervente nazionalista, riuscì a costituire un esercito efficiente e a fermare l’avanzata dell’esercito greco su Ankara; nei mesi successivi passò all’offensiva riuscendo a ricacciare in mare le truppe greche mentre gli altri eserciti stranieri lasciavano di loro iniziativa le coste occupate.
Mustafà Kemal depose l’ultimo sultano turco nel novembre del 1922 e l’anno successivo fu proclamata la Repubblica. La nuova Costituzione concedeva il voto alle donne, stabiliva la laicità dello Stato, avendone estromesso l’Islam e tutta la sua gerarchia, proibiva alle donne di indossare il velo nei locali pubblici, sanciva il compimento della rivoluzione nazionale.
Le rivoluzioni democratiche borghesi all’inizio apparvero laiche e atee, come la Rivoluzione francese del 1789, che inizialmente soppresse il potere della Chiesa cattolica e confiscò tutti i suoi beni, salvo, pochi anni dopo, reintegrarla nel sistema di potere per controllare “gli umili e gli oppressi” anche con l’acqua santa e l’incenso. Anche nel mondo islamico in questi ultimi decenni abbiamo visto alternarsi in Iran, Afghanistan, Iraq, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, Turchia, ed oggi in Siria regimi “laici e democratici” a governi che si appoggiano alla “tradizione” e al clero. La spinta rivoluzionaria delle deboli borghesie locali, per esangue che sia stata, si è ormai esaurita e la generale crisi capitalistica mondiale impone di utilizzare anche la superstizione religiosa a far da barriera al sovvertimento da parte delle masse sfruttate.
I recenti governi turchi “filo islamici” si inseriscono in questi diversivi controrivoluzionari.
Dopo la Seconda Guerra mondiale la Turchia, alleata dell’ultima ora degli ormai certi vincitori, insieme ai finanziamenti americani ne dovette accettare le imposizioni. In particolare, contro il “pericolo rosso” ai suoi confini, ma anche sociale interno, adottare severe restrizioni legali al partito “comunista” e ai sindacati da esso influenzati.
La casta militare turca, già espressione della locale borghesia rivoluzionaria, ha mantenuto un ruolo egemone ed è intervenuta a più riprese con vari colpi di Stato ad assicurare la continuità del potere a quella parte della borghesia e dei fondiari che meglio difendeva lo sviluppo del capitale, contro il proletariato interno e le varie minoranze etniche. Col tempo l’esercito ha assunto direttamente il ruolo di imprenditore col controllo di alcuni settori economici e attività produttive, come è stato anche per la casta militare in Egitto dopo il colpo di Stato nazionalista di Nasser.
Così scrivemmo:
«La borghesia turca non ha mai avuto i mezzi per concorrere con gli affermati e modernizzati apparati industriali dell’Europa. Non ha mai avuto i mezzi finanziari per corrompere il proletariato, creare una piccola borghesia intellettuale ed una aristocrazia operaia, con il seguito naturale di partiti opportunisti e apparati sindacali di regime. Ha potuto tirare avanti con i prestiti americani ed europei che le sono stati concessi per via della posizione strategica che la Turchia ha al confine con la Russia e per via degli Stretti, e anche per l’assoluta dipendenza alle direttive americane: adesione alla Nato, riconoscimento dello Stato di Israele, mantenimento della pregiudiziale “antimarxista” nella costituzione (...) I militari hanno rappresentato negli ultimi sessanta anni di storia della Turchia la parte più moderna del nemico di classe del proletariato: ancora oggi clero, proprietari fondiari e borghesia riconoscono nella dittatura militare l’ultimo e più efficiente mezzo per tenere a freno le masse proletarie costrette a scendere in piazza dall’aggravarsi della crisi economica (...) Come noi, anche la borghesia europea ha capito che i militari turchi non sono golpisti per passione, ma per necessità».La situazione attuale
Questo il quadro economico al 1982:
«L’industrializzazione turca è di tipo leggero: assemblaggio di autoveicoli, industria tessile, calzaturiera e pellami, produzione di materiale ferroviario; ricca di minerali manca di petrolio; l’agricoltura, alla quale è dedito ancora il 60% della popolazione attiva, è per la maggior parte di tipo mediterraneo con l’aggiunta di tabacco e cotone. Sia i prodotti agricoli sia quelli industriali sono soggetti ai contingentamenti da parte dei paesi della CEE; la difficoltà a trovare nuovi paesi importatori e ad “adattarsi alle nuove esigenze del mercato” è un fenomeno che affligge certamente anche la Turchia (...) Non può puntare sulla produzione di alta tecnologia, sia perché manca di mezzi finanziari, sia perché non risolverebbe il problema della disoccupazione (...) Repressione violenta di manifestazioni e scioperi, torture, assassini e galera diventarono una costante della vita politica turca. Solo la forte emigrazione in Germania, Svizzera e Austria permise ai vari governi di andare avanti, pareggiando con le rimesse degli emigranti la bilancia dei pagamenti».Gli interventi statali nell’economia dei primi governi kemalisti sono poi proseguiti negli anni ’80 attuando riforme interne, ovviamente sulle spalle dei lavoratori, allo scopo di richiamare capitali e imprese estere, tra cui dall’Italia la Fiat con lo stabilimento di assemblaggio di vetture, trattori e macchine per il movimento terra di Bodrum. Dal quel periodo, del quale non abbiamo valide statistiche, si assiste ad un continuo rapido sviluppo economico, pur presentando periodi di recessione negli anni 1994, nel 1999, causa anche il grande terremoto, e nel 2001. Nel periodo 1981-2003 il reddito nazionale è aumentato in media del 4% annuo. La Turchia è ora completamente inserita nel ciclo capitalistico mondiale, tanto che è diventata membro al 17° posto del G20, l’organizzazione politico-economica dei maggiori paesi capitalistici. Anche secondo i dati forniti dalla CIA, la Turchia risulta essere uno degli Stati più sviluppati.
La grande svolta si ha dopo la grave crisi del 2001, legata alla bolla della new economy e la conseguente crisi finanziaria, quando il Pil segna un -9,4% nell’anno, l’inflazione sale al 68,5%, con un debito pubblico del 77,9% sul Pil. Rimane arretrata sia la produzione, legata alle vecchie aziende statali che controllano i maggiori settori strategici, sia il prevalente settore agricolo, sia quello dei servizi, turismo compreso.
Per evitare l’insolvenza dello Stato il ministro dell’economia turco Kemal Derviş, già vicepresidente della Banca Mondiale (!), tratta per ottenere un finanziamento dal Fondo Monetario Internazionale, con gli Stati Uniti primi sostenitori, che sarà l’operazione più consistente mai fatta dal Fondo, ma alle solite condizioni: privatizzazione delle aziende statali, compressione delle spese sociali dello Stato, apertura del settore bancario nazionale alle banche straniere e ulteriore compressione e liberalizzazione della forza lavoro (lavoro nero e minorile al massimo livello).
Era utile presentare nel contempo un “uomo nuovo” ed una “nuova” forza politica per mimare la “alternanza” parlamentare. Ecco quindi che entra in scena Erdoğan con il suo Partito della Giustizia e Sviluppo (AKP), fondato nel 1998, che alle elezioni del 2002 prende un terzo dei voti. Il secondo partito, il Partito Popolare Repubblicano (CHP), “laico”, “kemalista”, di “centrosinistra”, ne ottiene un quinto. Un complesso sistema elettorale con la soglia di sbarramento fissata al 10% permette all’AKP di governare da solo.
Erdoğan è il “personaggio” giusto: di umili origini, già incarcerato per le sue idee politico-religiose islamiche e populiste, piace ai poveri delle periferie di Istanbul, di cui era stato sindaco. E si ritorna all’utilizzo della millenaria ideologia dell’islam a sostegno del moderno regime borghese: l’assistenza statale lascia spazio alla chiesa, dal riammettere le scuole religiose per avvelenare le giovani menti, ai centri sanitari e alle opere di carità per corrompere lavoratori e diseredati.
Arrivano investimenti diretti esteri assecondando la robusta crescita economica, da 1,8 miliardi di dollari nel 2003 ai 22 nel 2007. La bilancia commerciale è negativa e si continua ad importare più di quanto si esporti. Notevole il miglioramento del settore turistico, che diventa la prima voce dell’economia. Dal 2002 al 2007 gli aumenti annui del Pil sono i seguenti: +6%, +5,2%, +9,3%, +8,0%, +6,5%, +4,8%.
Forte di questa crescita nel 2004 la Turchia apre i negoziati per l’adesione all’Unione Europea.
Il 2007 è ancora un anno di espansione economica prima della generale crisi mondiale che scoppierà a metà del 2008. Ancora in quell’anno Erdoğan basa la campagna elettorale sulla possibilità di non rinnovare gli onerosi prestiti del Fmi e ridurre le misure di austerità: stravince così alle elezioni con quasi la metà dei voti.
Ma già nel maggio si rimangia le promesse elettorali e stipula un nuovo accordo con il Fmi a condizioni ancora più gravose: privatizzazioni di importantissime infrastrutture nel settore dei trasporti: aeroporti, autostrade, ponti, porti, in un paese tradizionalmente con un alto tasso di movimento merci e persone; sono incluse anche le dighe, sia per irrigazione sia per produzione di energia, e addirittura le lucrose lotterie.
È imposto un pesante aumento dell’età per la pensione, che passa a 65 anni, in un paese con una aspettativa di vita di 72 anni per gli uomini, mentre anche quella delle donne, sotto la ipocrisia della “parità fra i sessi”, passa da 58 a 65 anni. Viene anche introdotta la Assicurazione Sanitaria Unificata, mediante la quale praticamente si privatizza il sistema sanitario.
La svendita dell’apparato produttivo statale, la cui produzione era il 40% di quella nazionale, presenta questi numeri, forniti dalla “Nota Congiunturale aprile 2011” dell’italiano Istituto per il Commercio Estero: «All’inizio del processo di privatizzazione lo Stato deteneva quote di maggioranza in 250 imprese, 105 impianti produttivi, 524 proprietà immobiliari, 8 autostrade, 2 ponti e 6 porti marittimi. A fine 2009 erano state privatizzate 199 imprese ed in 188 la presenza dello Stato era del tutto scomparsa».
Leggiamo il passaggio della crisi mondiale proseguendo coi dati della precedente tabella della variazione annua del Pil, dal 2008 al 2012: +1%, -4,8%, +9,0%, +8,5%, +2,3%. Sempre secondo l’ICE dovrebbe essere +3,2% nel 2013.
La recessione blocca il flusso degli aiuti europei mentre continuano quelli provenienti dall’Est, Russia in testa. Ciò determina un cambio di rotta negli orientamenti internazionali della Turchia, che blocca il processo di adesione alla UE: almeno per il momento la questione è rinviata, con buona pace delle preferenze di alcuni titubanti governi europei.
La ripresa del 2010 consente ad Erdoğan, forse anche per celare la strisciante crisi interna, di cercare di assumere un ruolo di potenza regionale tra le nazioni arabe; così abbiamo visto il ruolo della Turchia contro Gheddafi nella recente crisi libica, riuscendo ad ottenere la gestione dell’aeroporto di Tripoli appena riaperto. Oppure contro Israele quando permise il carico e la partenza da un suo porto della nave Mari Marmara che portava aiuti nella Striscia di Gaza: la nave fu attaccata da un commando israeliano che causò 9 morti tra gli attivisti pro-palestinesi imbarcati; la faccia di Erdoğan e il prestigio internazionale alla Turchia restarono al sicuro.
In quel periodo Erdoğan, tramite un Referendum Costituzionale, ha cercato di sottomettere al controllo del governo la magistratura e l’esercito, questo rimasto prevalentemente laico e kemalista e che mantiene ancora il controllo di alcuni settori produttivi, tra cui quello degli armamenti.
L’ascesa della parabola governativa del “partito islamico” potrebbe anche invertirsi: lo decideranno le capitali finanziarie europee e mondiali secondo come giudicheranno i tentativi di sganciarsi dal controllo del FMI. Pare che il centro di Londra in occasione delle elezioni politiche del 2011 abbia appoggiato il partito di opposizione, il Partito Popolare Repubblicano, “laico”.
Inoltre è da considerare lo spostamento del piano geostrategico degli Stati Uniti, per i quali il pericolo ora proviene dalla Cina, verso i mari della quale stanno progressivamente spostando il loro sistema aereo e navale, mettendo la Turchia in secondo piano.
Nonostante ciò l’AKP ottiene la metà dei voti, il CHP un quarto e un terzo partito, il Partito del Movimento Nazionalista (MHP), di estrema destra, arriva al 13%, superando la soglia di sbarramento. L’AKP perde però seggi e ne ottiene 327 sui 330 necessari per poter cambiare la Costituzione. Ampi strati, non solo della grande borghesia e dei fondiari, ma anche della piccola borghesia, arricchitisi in anni recenti coi nuovi traffici, col commercio, col turismo, e che sfruttano ampiamente il lavoro nero e quello minorile, e anche gli strati più bassi, lo sostengono ancora.
La Turchia è sprovvista di petrolio; per garantirsi un
continuo
flusso
di greggio dai nuovi pozzi aperti nel nord dell’Iraq, controllato da
una autorità locale curda, è stato organizzato un
ininterrotto traffico
di autocisterne che trasportano circa 70 mila barili al giorno. Le
recenti
trattative condotte recentemente dal governo turco con il capo del PKK,
Abdullah Ocalan, detenuto da anni in un carcere militare, e che hanno
portato
ad una apparente riconciliazione e all’annuncio, il 21 marzo 2013, di
un cessate il fuoco da parte dei gruppi nazionalisti curdi che operano
nel Kurdistan turco, può forse essere spiegato con la
volontà del
governo
turco di rinsaldare la collaborazione con le autorità curde del
nord
Iraq
per ottenere maggiori quantitativi di petrolio.
La lotta operaia
I dati forniti dall’ICE indicano che l’agricoltura nel 2001 produceva il 12,9% del Pil che scende al 9,2% del 2011; il settore industriale passa dal 30,4% del 2001 al 26,9% del 2011 e quello dei servizi dal 56,7% del 2001 passa al 63,9% del 2011, con turismo in testa e a seguire il settore finanziario.
Il progressivo sviluppo economico ha prodotto negli ultimi decenni una considerevole crescita del proletariato, soprattutto per la riduzione degli attivi in agricoltura e per una forte crescita di tutte le città: attualmente la popolazione turca è di circa 75 milioni, dei quali 12,5 si concentrano ad Istanbul.
La forza lavoro turca è stimata dal TurkStat in 27 milioni di unità di cui il 30% in agricoltura, il 30% nei servizi e il 40% nell’industria, dati da considerare con cautela perché all’interno delle stesse Agenzie statali per gli investimenti esteri si trovano dati discordanti. Un loro interessante grafico vanta il consistente incremento della produttività del lavoro a fronte del blocco di fatto dei salari (con una nota sull’inesistente assenteismo fra i lavoratori turchi!). Va aggiunta l’enorme diffusione del lavoro nero e l’alto tasso di lavoro minorile e infantile, stimato in 1,6 milioni di bambini e ragazzi.
La nascita, lo sviluppo e l’attività delle organizzazioni di classe in Turchia è sempre stata ostacolata sia a livello costituzionale e legislativo sia con arresti preventivi quando queste organizzazioni potevano dare fastidio.
Il padronato europeo, temendo la concorrenza “sleale” dei compari turchi per il trattamento “di favore” dei loro lavoratori, ha imposto come condizione per l’adesione all’Unione, almeno a livello formale, una qualche apertura verso le organizzazioni dei lavoratori.
Secondo alcune stime sarebbero 3 milioni i lavoratori sindacalizzati. Le poche informazioni di cui disponiamo danno in Turchia 5 grandi federazioni sindacali. Il Kesk, “Confederazione dei sindacati del pubblico impiego”, sorta nel 1995, raggruppa categorie che nella pratica sindacale sono soggette a maggiori restrizioni rispetto al privato. Vi è poi il Disk, fondato nel 1970, “Federazione dei sindacati rivoluzionari dei lavoratori”; fra gli altri uno che, dalla sigla, sembra emanazione dell’AKP: “Federazione giusta dei sindacati”, Hak-is.
Per iscriversi ad un sindacato riconosciuto dallo Stato è necessaria una registrazione presso un notaio, in cinque copie alcune delle quali ovviamente vanno ai vari uffici statali. Per indire uno sciopero occorre un iter particolare di preavviso, dopo di che le autorità possono bloccarlo in qualunque momento per “motivi di sicurezza”. Prima del Referendum Costituzionale del 2010 era possibile scioperare solo nel settore privato e non nei settori strategici dell’energia, gas, carbone e nel settore bancario e notarile. Ancor oggi non sono possibili scioperi politici e di solidarietà di classe. Ci sono poi le Zone Economiche Speciali dove le grandi multinazionali straniere possono stipulare contratti lavoro capestro in assenza di copertura sindacale.
Nonostante questa blindatura della borghesia turca, nel 2004 partono i primi grandi scioperi nel comparto della produzione dei pneumatici, tanto che il governo è costretto ad inserire il settore in quelli strategici, dove sono vietati gli scioperi.
Lo scoppio della bolla speculativa immobiliare produce disoccupati
soprattutto
nelle imprese minori. Seguono grandi scioperi nel 2007 nella Turk
Telecom,
scontri di piazza ad Istanbul in occasione del vertice del FMI e della
Banca Mondiale del 2009, poi ci sono gli scioperi nel 2010 alla Tekel,
l’azienda statale del tabacco e degli alcolici. Nello stesso anno con
la riforma della scuola 300 mila insegnanti perdono il posto di lavoro,
andandosi ad aggiungere all’esercito dei disoccupati, la cui
percentuale
sarebbe dell’8,7% degli occupati.
Venendo all’oggi
Lo sviluppo accelerato dell’economia turca ha prodotto una concentrazione di ricchezza da una parte e miseria all’altra, come negli altri paesi a capitalismo avanzato, e tanto più quanto esso “avanza”. L’avvento del capitalismo ha indotto profonde trasformazioni in una società ancora pastorale e contadina. Si è venuta formando una classe piccolo borghese urbana, dedita al commercio e ai traffici, ed un ampio proletariato in gran parte impiegato nella produzione materiale, industriale ed agraria, ma anche nelle attività professionali, intellettuali e del pubblico impiego, sanità, scuola, trasporti, ecc.
Anche in Turchia le condizioni di tutte queste classi e sotto-classi sono migliorate negli anni del primo sviluppo del capitalismo moderno rispetto a quelle vissute dalle generazioni precedenti. Precipitati a milioni da vallate e altipiani nelle aree urbane, hanno sì conosciuto l’inferno della fabbrica, ma anche goduto delle utilità della vita associata moderna e di un certo numero di garanzie che lo Stato capitalista può assicurare ai lavoratori in periodo di grande slancio produttivo.
La crisi di sovrapproduzione mondiale è il brutto risveglio da tutte queste false promesse del capitalismo, ed una nuova miseria, non migliore della antica, viene a minacciare da vicino tutti gli strati proletari e semi-proletari.
Ogni strato sociale reagisce nei suoi modi e nei suoi tempi. Non è detto che la piccola borghesia non si agiti per prima, e vistosamente, ben riflessa nei media, nei suoi atteggiamenti incoerenti, disperati, e senza poter prodursi in un programma realmente diverso da quello della dittatura del grande capitale, e in un partito. Sua propria è la scontata e facile “protesta” ambientalista. La classe operaia ha altri e ben più gravi problemi.
Non sarà la piccola borghesia a tirarsi dietro il proletariato ma, viceversa, una classe lavoratrice in rivolta contro lo sfruttamento crescente e contro il capitalismo.
Delle tre condizioni perché questa gerarchia sociale si capovolga nel giusto ordine, in Turchia abbiamo sì un proletariato moderno e concentrato; abbiamo si in formazione dei potenti sindacati di classe. Manca ancora il partito di classe.
I lavoratori turchi pare abbiano colto l’occasione degli scontri tra la polizia e gli ecologisti per iniziare la lotta loro, e di ben maggior respiro, subito bloccata dalla polizia e dai partiti opportunisti. Non disponendo di documenti originali è difficile valutare la scelta dei due più importanti sindacati, il Disk e il Kesk, di annullare la manifestazione in piazza Taksim il 17 giugno scorso, avendo prima indetto uno sciopero generale di protesta contro le violenze della polizia sui dimostranti di Gezi Park e quando già migliaia di lavoratori si erano concentrati e mossi pur sapendo della presenza della polizia. Ufficialmente questa rinuncia è stata giustificata con la volontà di evitare inutili scontri.
La classe operaia turca, giovane, anagraficamente e di esperienze,
saprà
dare grandi prove di forza e coraggio.
Il Bangladesh è finito sulle prime pagine della stampa occidentale che scopre, con ipocrita orrore, le condizioni spaventose di lavoro degli operai tessili nel paese solo dopo la tragica catastrofe provocata dal crollo di una fabbrica lo scorso aprile che ha provocato la morte di più di 1.200 lavoratori, principalmente donne.
Ricordiamo brevemente la storia del Bangladesh, paese del sub-continente indiano situato a nord del Golfo del Bengala, quasi interamente circondato dall’India. È uno dei frutti avvelenati della divisione delle Indie Britanniche nel 1947, quando divenne la parte orientale del Dominion del Pakistan, fondato sulla religione maggioritaria dell’islam. Il Bangladesh è indipendente dal 1971 quando fu abbandonato dal governo centrale all’epoca di una catastrofe naturale e dopo una guerra di indipendenza sostenuta dall’India e dal suo alleato sovietico. Su 144.000 chilometri quadri abitano in 152 milioni, arrivando alla densità enorme di 1.054 abitanti per chilometro quadro, la maggiore del mondo. Ha poche risorse minerali ed è spazzato di frequente da cicloni ed inondazioni. Il suoi politicanti, organizzati attorno ad una pseudo-repubblica, sono fra i più corrotti al mondo. Il 40% degli abitanti vive al di sotto della soglia di povertà (è alla posizione 146 su 182 paesi classificati secondo l’Indice di sviluppo umano).
Il Bangladesh è l’ultimo protagonista nel fortunoso viaggio mondiale dell’industria delle confezioni, da sempre alla ricerca di paesi-fabbrica dove i profitti potessero essere i più elevati, cioè i salari più bassi. Ciò che ha permesso questa notevole mobilità, è il basso investimento necessario per impiantarsi in una zona: basta una numerosa manodopera, poco qualificata e, evidentemente, affamata. Questo è più complicato e costoso per altre industrie, come l’industria pesante, benché oggi tutto sia da attendersi da un Capitale incalzato dalla crisi economica.
Il ciclo delle industrie tessili e delle confezioni si è così riprodotto da un paese ad un altro: una fase di crescita frenetica, messa in moto sulle spalle di una classe operaia super sfruttata, permette ai capitalisti profitti enormi, successivamente reinvestiti in altri settori. Il settore declina per i miglioramenti conquistati dal proletariato, ed il capitale, da quello dei piccoli imprenditori a quello delle multinazionali, è trasferito in un altro paese con i costi di fabbricazione più bassi.
L’inizio di questa moderna epopea parte con l’industria tessile del Regno Unito che nel 18° secolo divenne, grazie al cotone della sua colonia indiana, la fabbrica di filati e tessuti del mondo, poi, nel 19° secolo, questa produzione si spostò nel Nord-Est della Nuova Democrazia americana, e all’inizio del 20° nel Sud di quel paese dove lo schiavo negro era divenuto ormai un salariato. Dopo 80 anni, sono i paesi dell’Asia ad entrare in questo potente meccanismo: la Cambogia, il Vietnam, l’India, lo Sri Lanka, la Cina. Numerosi paesi asiatici si sono così agganciati alla industrializzazione mondiale.
In Bangladesh, che ormai ha il triste onore di offrire la manodopera meno cara del pianeta, l’industria delle confezioni è apparsa negli anni ’70 e vi ha conosciuto un vero boom negli anni ’90.
In Europa il capitalismo ha in gran parte abbandonato l’industria nazionale del tessile ed assai ridotto quella delle confezioni, mettendo fine al protezionismo ed offrendo ai paesi “meno sviluppati” l’accesso al mercato della comunità europea senza tasse né quote. Qui un altro esempio della fase imperialista del Capitale il quale, per quanto si appoggi sulle istituzioni della “sua” nazione, vi distrugge posti di lavoro, licenzia i proletari “nazionali” per correre verso contrade più allettanti per il profitto e dove il proletariato è senza difesa.
Il Bangladesh già nel 2011 era un forte fornitore di confezioni in Europa, dopo Cina e Vietnam; nel 2013 ha superato Turchia ed India! Nel 2011 le confezioni costituivano il 13% del Pil del paese. Questo settore chiave dell’economia rappresenta nel 2012 l’80% delle esportazioni del paese, delle quali l’80% verso l’Unione Europea. Il Bangladesh fa concorrenza infatti alla Cina, dove i salari degli operai sono aumentati più velocemente in ragione della loro combattività e dove già le imprese si spostano verso altri settori. Per i grandi marchi del mercato dell’abbigliamento la Cina non è più la fabbrica “felice”, la sua manodopera è più esigente e, di conseguenza, i profitti di questi grandi monopoli sono più bassi. Così il Bangladesh è divenuto la enorme fabbrica di questi predatori: con da tre a quattro milioni di lavoratori, ripartiti in 5.000 fabbriche, ha soppiantato i vicini indiani, pachistani, vietnamiti, cambogiani e indonesiani. Esperti americani prevedono che la produzione di confezioni del Bangladesh si raddoppierà da qui al 2015 e triplicherà entro il 2020!
Il paese non è ancora dotato di solide infrastrutture, particolarmente nei trasporti, nell’elettricità e nella sanità, ma i diritti dei lavoratori sono ancora meno “diffusi”. Esteso è anche l’utilizzo del lavoro dei bambini (il 13% di quelli fra 7 e 14 anni, secondo l’Unicef). Le eleganti griffe dell’abbigliamento rispondono stupite, o sventolano falsi codici di buona condotta, di garanzie sulle condizioni di lavoro, inviano ispettori per calmare le associazioni dei consumatori “etici”. Ma la lunga catena dei sotto-fornitori nasconde il cammino dal committente agli operai, facendo svanire ogni velleità di controllo sulle reali condizioni di lavoro. Fortunatamente il proletariato del Bangladesh non si attende la sua difesa dalla “buone intenzioni” occidentali! Ed è di questo che il Capitale ha paura.
Il proletariato delle confezioni, costituito prevalentemente da donne, rappresenta il 40% della manodopera industriale del paese. Le prime ad offrirsi sono state le reiette nella società islamica, le ripudiate, le vedove, le divorziate, poi hanno seguito le altre in condizione di bisogno, che sono la maggioranza della popolazione, malgrado l’ostilità degli ambienti tradizionalisti musulmani: era ben chiaro che questo lavoro femminile metteva in discussione le strutture patriarcali emancipando le donne che potevano dettare le loro condizioni per il matrimonio, apportare una dote e scegliersi il compagno maritale. È questo uno dei caratteri emancipatori del Capitale che noi marxisti abbiamo sempre riconosciuto.
Ogni mattina milioni di lavoratori si avviano verso i 4.000 stabilimenti della cintura industriale della capitale Dacca. Più di tre quarti sono donne (tracciatrici, tagliatrici, cucitrici, facchini). I committenti sono le grandi marche occidentali che vi hanno “delocalizzato” la produzione, direttamente o tramite degli intermediari.
Le condizioni di lavoro sono così dure, gli incendi delle sovraffollate fabbriche in rovina così frequenti, i salari così bassi, che moti di protesta scuotono sporadicamente il paese, fino a rivolte della fame come quella del 2008. I salariati si oppongono agli imprenditori raggruppati nella Bgmea, la Associazione dei fabbricanti ed esportatori di confezioni. Sistematicamente represse dalle forze armate, le manifestazioni si traducono in decine di morti e centinaia di feriti. I sindacati e i loro militanti sono sistematicamente repressi. Nel 2011, per compensare l’inflazione sui prezzi dei beni di prima necessità, i manifestanti chiedevano 51 euro mensili, contro i 17 che ricevevano, mentre in Vietnam gli operai guadagnano 75 euro ed in India 112. L’orario è di 80 ore settimanali, e fino a 18 al giorno in caso di commesse urgenti. Gli operai rivendicavano anche migliori condizioni di lavoro. Nel novembre 2010 è stato raggiunto un accordo per alzare il salario minimo a 30 euro, quando l’Asia Floor Wage, associazione regionale che rivendica salari decenti per gli operai del settore, stimava un reddito minimo vitale di 144 euro mensili. Ma questa legislazione non sarà rispettata come non lo sono state le precedenti.
La catastrofe del 24 aprile scorso, nella quale è crollato un grande edificio che ospitava cinque laboratori di confezioni con più di 3.500 operai, era facilmente prevedibile. La vetustà era stata denunciata più volte dai lavoratori che inutilmente indicavano l’aggravarsi delle fessure nei muri. Cronaca di un massacro annunciato. Più di 1.200 vittime sacrificate sull’altare del profitto capitalista! Nemmeno i più induriti possono chiudere gli occhi davanti a questa ecatombe!
Ma anche stavolta i proletari, in maggioranza donne in un paese musulmano, si sono fatti intendere e manifestazioni quasi quotidiane hanno impedito alle fabbriche di funzionare regolarmente. L’80% degli operai ha cessato il lavoro nella zona industriale di Ashulia, vicino a Dacca, per chiedere aumenti di salario e la pena di morte per il proprietario dell’immobile. All’inizio di maggio la Bgmea ha fatto chiudere i laboratori che lavorano notoriamente per i grandi marchi americani (Wal-mart, Gap), inglesi (Mark & Spencer, C&A), svedesi (H&M), spagnoli (Zara), francesi (Carrefour, Auchan, E.Lecler), italiani (Benetton), a causa di “agitazioni fra la manodopera”, e un accordo è stato precipitosamente firmato fra le confederazioni sindacali “mondiali” Industrial All Global Union e Uni Global Union e 31 marche occidentali di abbigliamento al fine di garantire la sicurezza delle fabbriche tessili; la firma di questo accordo era prevista fin dal settembre scorso ma le multinazionali facevano ostruzionismo! Solo il 17 maggio le fabbriche hanno riaperto, benché l’accordo non ne riguardi in realtà che un quinto.
Il Capitale, dal piccolo e disperso al grandissimo e concentratissimo, preoccupato per i dividendi, dovrà forse cercare un altro paese, con un altro proletariato, che possa offrire costi di lavoro altrettanto bassi. Può essere la vicina Birmania, o l’Etiopia, il Kenya? Ma nemmeno l’Africa, stima il New York Times, dove il costo della vita è troppo elevato perché i salari possano essere più bassi che in Bangladesh. E bisogna pensare anche alla stabilità politica del luogo. Insomma bisognerà tagliare sui profitti o aumentare i prezzi.
La specialista degli affari economici della Commissione europea a Dacca ha esclamato: «Tutto indica la responsabilità dei proprietari delle fabbriche, dei committenti e, alla fine, dei consumatori. Chi acquista una maglietta a sei euro dovrebbe sospettare che è stata fabbricata da gente che lavora in cattive condizioni». Alla fine quindi sarebbero i “consumatori” i veri responsabili? La retorica puritana dei borghesi! verso i salariati e non per chi incassa i profitti! Vorrebbero che il proletario d’occidente, che vede il suo tenore di vita diminuire, si dividesse invece di unirsi ai suoi fratelli d’Asia. Una parte del proletariato occidentale, quello che ha delle riserve, è intossicato dall’illusione della ricchezza, con tutti i suoi giocattoli informatici, con montagne di vestiti “a saldo”, per coprire il suo malessere e la sua insicurezza e frustrazione quotidiani.
Ma la pletora di merci “a basso prezzo” non è che il sintomo di una sovrapproduzione della quale il Capitale non sa che farsene. La crisi economica avanza a grandi passi, la talpa scava. Il proletariato occidentale deve ritrovare il cammino della lotta di classe, combattere il suo nemico comune, il capitale e i suoi mercenari borghesi che vivono del sangue dei lavoratori, occidentali e del resto del mondo, al fine di ritrovare tutta la sua umanità e la sua generosità.
Come i monopoli, che oggi sono chiamati multinazionali, queste
grandi
imprese industriali appoggiate dalla grandi banche, non conoscono
frontiere,
ed è a loro disposizione il proletariato del mondo intero, che
possono
sfruttare come loro conviene, così è per il proletariato
che si deve
organizzare sul piano sindacale e politico a scala internazionale in
vista
di rovesciare la borghesia, questa classe di parassiti, al fine di
abolire
i rapporti di produzione capitalistici. Solamente allora, sotto
l’azione
della dittatura del proletariato, potranno sparire le classi e
l’oppressione
di classe.
- Corso dell’economia mondiale | - Course of the World Economy |
- Il riarmo degli Stati | - The Rearming of the States |
- Attività sindacale del partito | - The Party’s Trade Union Activity |
- Per uno studio del capitalismo indiano | - Towards a Study of Indian Capitalism |
- La crisi finanziaria mondiale | - The Global Economic Crisis |
- Economia marxista | - Marxist Economy |
- Condizione operaia in Bangladesh | - Working-class Conditions in Bangladesh |
- La questione militare | - The Military Question |
Veramente ottimo il risultato della riunione di maggio. Presenti compagni dall’Italia e da fuori con rappresentanza di quasi tutte le nostre sezioni.
La parte organizzativa si è aperta con la relazione del centro che ha esposto l’insieme delle nostre attività negli scorsi mesi. Un lavoro davvero notevole, per quantità e qualità, date le nostre minime forze. Un risultato – dovuto al giusto metodo di lavoro comunista – che a noi per primi può non apparire nella sua dimensione, con tanta disciplina e spontaneo ordine lo svolgiamo, libero dei miserabili e volgari personalismi propri del morente mondo a noi nemico.
Siamo coscienti che, mentre il capitalismo mondiale ormai da cinque anni si sta avvitando nelle sua storica crisi di sovrapproduzione di merci – predetta dal marxismo autentico – la classe operaia non ha ancora accumulato sufficiente esperienza per potersi validamente opporre alla forza del regime borghese e, peggio, alle lusinghe della sue trascorse forme di corruzione materiale ed ideale, tramite i partiti e i sindacati votati al nazionalismo e alla solidarietà delle classi.
Il partito non può, con la sua volontà ed impegno, anticipare la Rivoluzione e il Comunismo di una sola ora. Sarà la Rivoluzione comunista a farlo crescere, quando sarà il momento. Il partito potrebbe, invece, ritardare la rivoluzione, ed anche farla sconfitta qualora si presentasse in quel frangente incerto sulle sue basi di dottrina e non sufficientemente chiuso ad indirizzi tattici transigenti e bloccardi. Il partito sa di essere solo. Solo con la classe in guerra sociale, di ieri, di oggi e di domani.
Qui segue il riassunto delle relazioni presentate, tranne due che
dobbiamo
lamentare di non esser riusciti ad esporre per assoluta mancanza di
tempo.
Il rapporto sulle lotte operaie e sull’attività sindacale del
partito
è pubblicato per esteso in altra pagina di questo stesso numero.
Appare
anche qui la comunicazione circa le dure condizioni dei lavoratori
delle
confezioni in Bangladesh, così come tragicamente provato dal
crollo del
fabbricato industriale a Dacca.
Un articolo de “Il Sole 24 Ore” del 9 luglio ha messo in evidenza come il Libro Bianco sulla Difesa pubblicato dal Governo giapponese alla fine del giugno scorso non usi più i toni felpati utilizzati di solito e affermi senza remore che «la Cina rappresenta una minaccia e viola il diritto internazionale», e che quindi è necessario che il Giappone aumenti le sue spese militari e cambi la sua strategia procedendo, fin da quest’anno, alla creazione di un corpo di fanti di marina con elevate capacità anfibie. Il Libro Bianco plaude inoltre al fatto che, dopo 11 anni di stallo, è stato varato il primo aumento della spesa militare, «nel quadro di crescenti pericoli per la sicurezza nazionale».
È questo uno dei tanti segnali che confermano quanto emerge dall’analisi della spesa militare mondiale sulla base dei dati diffusi dal SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) nei primi giorni di aprile 2013, che sono aggiornati al dicembre 2012.
Il primo dato messo in rilievo dal compagno è che per la prima volta dal 1998 la spesa militare mondiale con i suoi 1.753 miliardi di dollari, è calata, in termini reali, dello 0,5% tra il 2011 e il 2012. Anche nel 2011 la spesa mondiale era rimasta pressoché uguale a quella del 2010.
La ragione di questa stagnazione non sta naturalmente in motivazioni etiche di tipo pacifista, ma trova la sua spiegazione nella crisi mondiale di sovrapproduzione che ha costretto molti dei maggiori Stati imperialisti, ma soprattutto gli Stati Uniti d’America e gli Stati dell’Europa a cercare di ridurre il bilancio militare come le altre spese a carico dello Stato (Sanità, Istruzione, ecc.).
Non è lo stesso però per tutte le regioni del mondo: mentre sulle due sponde del Nord Atlantico si tende a ridurre la spesa, altrove e in particolare intorno al Pacifico invece aumenta rapidamente. In un articolo di “Le Monde” del 9 gennaio si legge: «Secondo uno studio pubblicato l’ottobre scorso dal Centro di Studi Strategici Internazionali (CSIS), le spese per la difesa nei più importanti Paesi dell’Asia che vi consacrano gran parte del loro budget – India, Giappone, Corea del Sud, Taiwan – sono praticamente duplicate in 10 anni mentre in Cina sono quadruplicate».
Questo rapido aumento della forza militare della Cina preoccupa non solo gli Stati dell’area (il Giappone) ma anche gli Stati Uniti che hanno apertamente manifestato la loro volontà di rinforzare la loro presenza militare nella regione, presentandosi come i difensori dello status quo.
A questi movimenti non resta estranea la Russia che non nasconde di voler tornare ai fasti militari dell’Impero “sovietico”.
Anche in America latina, in Asia centrale, in Africa e in Australia i bilanci militari sono in aumento.
La stagnazione della spesa militare mondiale in questi due ultimi
anni
non significa che gli Stati stanno rinunciando ad armarsi per andare
verso
una “coesistenza pacifica”; significa al contrario che la crisi
economica
e sociale sta causando rapidi cambiamenti nei rapporti di forza tra gli
Stati e ne acuisce i contrasti, preparando la strada ad un nuovo
conflitto
mondiale. Sta al proletariato, organizzato come classe per sé,
rintuzzare
questi disegni catastrofici per l’intera umanità preparandosi
alla
internazionale
guerra di classe contro il nemico borghese.
Per uno studio del capitalismo indiano
Il compagno ha presentato questo primo rapporto sull’India, parte di un piano di studio inizialmente storico, dalle origini dell’antica civiltà dell’Indo fino all’indipendenza moderna: dal comunismo primitivo, al modo di produzione asiatico, al feudalesimo e al capitalismo. Approfondiremo la conquista dell’India da parte della Corona britannica, il sorgere dei movimenti nazionalisti e la nascita del moderno proletariato, considerando i giudizi di Marx ed Engels nei loro scritti e nella loro corrispondenza, e da quanto descritto dalla nostra corrente nel corso degli anni. Il lavoro dovrà inquadrare il capitalismo indiano partendo dal nostro principio che la produzione e lo scambio dei prodotti sono la base di ogni ordinamento sociale in ogni periodo storico.
Come ogni nostro lavoro, non vorrà essere un semplice contributo intellettuale o storiografico ma un mezzo, uno strumento di combattimento rivoluzionario, utile al partito ed alle future generazioni di comunisti, secondo la nostra nota formula per cui non può esservi azione rivoluzionaria senza teoria rivoluzionaria. Trarre una lezione dalla controrivoluzione, ecco uno degli scopi cardine di questo lavoro, atto quindi a riconoscere e smascherare i fedeli alleati di sua maestà il capitale, i falsi partiti operai ed i sindacati di regime.
La Repubblica Indiana, nata con l’entrata in vigore della Costituzione il 26 gennaio del 1950, si affaccia ambiziosa nello scacchiere internazionale, forte del suo posto nelle dinamiche del capitalismo mondiale, e tentando di aumentarne il peso sia sul piano diplomatico sia su quello economico e militare. Sebbene conosca ancora diversi retaggi etnici, religiosi e di casta, questo enorme paese è un limpido esempio di come il capitalismo abbia un inequivocabile carattere internazionale e detti ovunque le proprie regole, la sua morale. Nonché l’unica via da percorrere: quella del profitto.
Nel rapporto presentato in questa riunione generale il compagno dava un primo inquadramento dell’attuale consistenza del moderno Stato indiano, denso di contraddizioni sia sul piano dei rapporti tra le classi sia tra le diverse etnie che lo compongono.
L’India è un grande paese dell’Asia meridionale, suddivisa in subcontinente indiano ed altopiano iraniano. Il subcontinente indiano è separato dal resto del continente da ostacoli naturali potenti, molto più di quelli che dividono l’Europa dall’Asia. A nord si estende la più imponente catena montuosa al mondo, l’Himalaya, oltre la quale vi è l’altopiano del Tibet e la sterminata distesa del deserto del Gobi, ostacoli naturali che hanno reso difficili le comunicazioni fra India e Cina. Anche ad est, giungle, colline e grandi e numerosi fiumi che sfociano nel golfo del Bengala stabiliscono barriere naturali difficili da superare, in particolar modo dagli eserciti. Unica eccezione storica l’esercito giapponese nel 1943. Il versante occidentale, al contrario, è di facile attraversamento: i numerosi varchi nel corso dei secoli hanno consentito intensi traffici commerciali e l’accesso di eserciti e di intere popolazioni. Al riparo di queste barriere il subcontinente indiano è articolato in due zone principali: il Nord, formato dalla vallata indo-gangetica e dal deserto di Thar, ed il centro-sud costituito dalla penisola del Deccan.
L’India fa modernamente parte da diversi anni dei BRICS, un acronimo utilizzato per riferirsi a Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa, caratterizzati da una economia in crescita. È tra i più grandi paesi per estensione geografica al mondo e, con più di 1 miliardo e duecento milioni di abitanti, il secondo più popolato. Metà della popolazione ha meno di 25 anni.
L’India ha una forza militare numericamente impressionante. Circa il 3% del suo prodotto interno lordo è riservato alla difesa. La produzione di armamenti si basa su diverse imprese pubbliche che riforniscono le tre armi. I principali cantieri navali si trovano a Mumbai e Kolkata. L’India è una potenza nucleare dal 1974 e attualmente disporrebbe tra le 60 e le 90 testate, destinate ad armare caccia-bombardieri e missili. L’esercito allinea più di 1.200.000 uomini, ma con armamento non sempre moderno. L’aviazione, al contrario, dispone di caccia efficienti come i Mig 29 e i Su 30 acquistati dalla Russia. La marina, con quasi 200 navi, è tra le più importanti al mondo.
L’India possiede la seconda più grande forza lavoro al mondo, con più di 500 milioni di salariati, il 60% dei quali sono impiegati nel settore agricolo e nelle industrie connesse, il 28% nei servizi ed il 12% nel settore industriale vero e proprio.
Il peso industriale del paese nel panorama mondiale risulta ancora debole. Riferendoci alla produzione di elettricità, si può stimare un 4% del totale mondiale, contro il 21,7% per gli USA, il 16,5% per la Cina, il 12,5% per tutta l’Europa, il 5,7% per il Giappone e 5,1% per la Russia. Le grandi industrie sono attive nei settori automobili, cemento, prodotti chimici, elettronica di consumo, trasformazione alimentare, macchinari, miniere, petrolio, prodotti farmaceutici, acciaio, mezzi di trasporto, e tessile. Le industrie più importanti si trovano a Udaipur, nel Gujarat, e, al confine con il Bangladesh, Jamshedpur e la regione del Damodar, tanto che questa è considerata la Ruhr indiana. L’industria informatica, concentrata tra Hyderabad e Bangalore, considerata la Silicon Valley indiana, è considerata un punto di forza dell’economia indiana: molte aziende occidentali hanno trasferito qui i loro centri di elaborazione dati, come Microsoft, General Motors, British Airways, Deutsche Bank ed in parte Ericsson. Importante la produzione di filati e tessuti di cotone, iuta, lana e seta.
L’India presto diventerà la quarta più grande consumatrice di energia del mondo, dopo Stati Uniti, Cina e Giappone. Attualmente la produzione d’elettricità, prevalentemente di origine termica, è insufficiente, e le interruzioni nella distribuzione penalizzano gran parte del settore industriale. L’India è dipendente dal petrolio per circa il 33% del suo fabbisogno ed importa più del 70% del suo petrolio. Le capacità di raffinazione sono ancora limitate, le 18 raffinerie indiane sono mediamente di dimensione modesta, anche se pochi anni fa è stata ultimata a Jamnager, nel golfo di Kutch, vicino al confine pakistano, una nuova raffineria, una delle più grandi al mondo, con una capacità di 21 milioni di tonnellate annue.
La debolezza delle infrastrutture stradali, ferroviarie, portuali ed aeroportuali continua ad essere evidente e penalizzante. Il porto di Nava Sheva, vicino a Mumbai, che può essere paragonato per numero di container ad i grandi porti americani, rimane un’eccezione.
L’incremento della produzione industriale in questi ultimi anni riflette la crisi mondiale ed è in netto calo passando dall’8,2% del 2010 al 2,9% del 2011 allo 0,6% del 2012.
Nonostante il definitivo ingresso dell’India nel gotha del
capitalismo
mondiale, un quarto della popolazione si trova sotto la soglia di
povertà,
ovvero sopravvive con meno di 0,40$ al giorno.
Nella riunione generale di maggio è proseguita l’esposizione degli aspetti stavolta maggiormente significativi della crisi finanziaria che, tra alti e bassi, è ormai quinquennale.
In questa sessione il relatore ha esposto due temi specifici.
Inizialmente, alla luce soprattutto del repentino e violento crollo borsistico, dopo mesi di crescita inarrestabile, è stata trattata la politica finanziaria del governo giapponese – la cosiddetta Abenomics, dal premier Abe – evento che ha avuto risonanza su tutta l’informazione mondiale, in relazione alla omologa politica della FED.
L’argomento, prosecuzione di un rapporto precedente, riguardava l’opposto comportamento della Banca Centrale del Giappone e della FED, organismi che hanno alle loro spalle uno Stato centralizzato, e la BCE, che “nominalmente” non rappresenta alcuno Stato nazionale, ma pretende di essere espressione di una generica “politica” finanziaria degli Stati membri, nei fatti condizionata ed imposta, più che dai trattati costitutivi, dalle necessità dello Stato più forte in questa unione di diseguali – e come altrimenti potrebbe essere nel mondo degli Stati del Capitale!
La Banca Centrale Federale d’America continua, malgrado qualche tentativo ufficiale di smentita, che ha subito fatto vedere i suoi effetti negativi sui corsi di Borsa, ad alimentare l’emissione di liquidità nel sistema finanziario con l’acquisto di Titoli di Stato ed ABS (Asset Backed Securities, strumenti finanziari simili alle obbligazioni) per 85 miliardi di dollari al mese, una quantità di denaro che spinge la Borsa a rialzi forsennati, e non induce alcuna significativa spinta inflazionistica. La Banca Centrale del Giappone ha continuato a sostenere il piano di raddoppio della base monetaria dal 28% al 56% in due anni (2013-2014), acquistando Titoli di Stato per 1.400 miliardi di dollari.
Operazione che ha indotto una crescita del PIL, accoppiata ad una svalutazione competitiva dello Yen del 30% sul dollaro, dando ossigeno ai profitti dell’industria esportatrice, spingendo al rialzo le aspettative di inflazione – che però rimane per ora a livelli bassi.
La crescita forsennata della Borsa di Tokyo ha subìto nel mese di maggio un drammatico ed inaspettato collasso. In effetti l’evidenza che il 70% del debito pubblico giapponese è detenuto dai portafogli di banche, assicurazioni, fondi pensione e privati, minaccia l’esplosione di una bolla finanziaria.
Per l’Unione Europea, che non ha una direzione unitaria, o meglio, la cui direzione è forzata dalle necessità della Germania, ed è inoltre composta da Stati con prospettive e necessità diverse tra loro, non è possibile seguire la strada del “quantitative easing”.
Un dato è significativo alla scala mondiale, ed offre motivo di riflessione sulle effettive dimensioni di questa crisi mondiale: in nessuna area, tanto quelle che continuano a inondare il proprio mercato di liquidità, quanto quelle che operano – o fanno operare! – il più stretto rigore monetario: in nessuna si sta presentando un processo inflazionistico.
Dallo scenario USA-Giappone il relatore si è quindi riportato a quello europeo, che al momento pare (ma non a ragione, per noi marxisti) l’epicentro di una crisi imponente quanto quella del 2008 per i cosiddetti mutui-senza-garanzie.
A seguire il relatore ha affrontato la descrizione del complesso strumento di controllo e contabilizzazione dei flussi economici tra gli Stati membri dell’Unione Monetaria Europea, detto Target 2 (Trans-European Automated Real-Time Gross Settlement Express Transfer). Ha illustrato in merito anche il sistema contabile dei flussi finanziari all’interno del sistema monetario. Ne è emerso un quadro impressionante di come opera l’intero sistema finanziario europeo, centrato sulla Germania, smascherando la pretesa unità di interessi della composita e truffaldina Unione.
La presentazione del meccanismo, senza scendere nei suoi sofisticati tecnicismi, ha chiarito i movimenti finanziari e la situazione di fragilità economica nascosta da un surplus delle partite correnti. La debolezza dei partner europei, sulla quale si è costituito il “miracolo tedesco”, con il precipitare della loro crisi porterà alla rovina anche il capitalismo egemone dell’Unione, assieme a tutte le chiacchiere dello Stato forte, dell’economia virtuosa, del basso debito pubblico, della forza del sistema di esportazione; tutte voci, se non smentite, di certo fortemente ridimensionate da una semplicissima ed onesta lettura dei dati ufficiali.
Tutti gli Stati membri dell’Unione si trovano a dover trattare l’Euro come una divisa che è, di fatto, per tutti moneta estera. Anche se per qualche Stato risulta meno “estera” che per altri. Non è emesso da nessuna delle Banche Centrali e la sua emissione non è subordinata alle particolari necessità di un qualche Stato.
Contrariamente alle operazioni commerciali, nel caso di operazioni tra Stati dell’Unione, qualunque movimento di denaro (rammentiamo che quello “contabile” era lo scopo del “T2”) porta nello Stato che riceve il denaro un circolante che costituisce una passività per la Banca Centrale, che pure non l’ha emesso. La Banca Centrale per estinguere questo scompenso normalizza la sua posizione con un saldo in attivo sul Target 2. Ovviamente in contropartita nasce un saldo negativo per l’altra Banca Centrale.
Tutto bene sino allo scoppio della crisi dei mutui nel 2008, quando il meccanismo contabile transnazionale è stato impiegato per mantenere solvibile il sistema monetario Euro, ed in particolare gli apparati bancari delle nazioni in maggior difficoltà, con un flusso di capitali dalla Banca Centrale Tedesca, cioè fino a quando i movimenti essenzialmente finanziari di capitale nominato in Euro sono diventati di gran lunga preponderanti rispetto ai movimenti indotti dagli scambi commerciali.
Evidentemente fintantoché il finanziamento si è potuto sviluppare sui mercati internazionali, i saldi “T2” non ne sono stati interessati. Il problema per la sostenibilità dell’Euro si è determinato con il movimento dei capitali interno all’Unione, e la conseguente esplosione dei saldi “T2”.
Nominalmente questo processo di accumulo dei saldi potrebbe non avere limiti; di fatto è limitato dall’ammontare complessivo del credito che la BCE ritiene di erogare ai paesi in disavanzo mediante concessioni di crediti al sistema bancario – ed acquisti di Titoli di Stato sul mercato.
Il famigerato “LTRO”, un credito da mille miliardi di euro nominali
– 530 netti – è l’ultimo esempio, in ordine di tempo, di questa
politica di rigore.
Origini del movimento operaio in Italia [ rapporto esteso ]
Chiudevamo il precedente rapporto parlando del processo di Bologna del 1876 contro Andrea Costa ed altri 78 anarchici per il vagheggiato moto insurrezionale del ’74. Avevamo relazionato sulla clamorosa assoluzione degli imputati e sulle manifestazioni popolari che accolsero la loro scarcerazione.
Il capitolo esposto a Genova proseguiva mettendo in evidenza come in meno di un mese molte delle sezioni anarchiche chiuse dalla polizia si fossero ricostituite e, il 16 luglio, fossero state in grado di indire, a Bologna, un congresso regionale.
Già da questo momento cominciano ad affiorare i primi sintomi di quel progressivo distacco dei socialisti romagnoli dall’ideologia anarchica. Se è vero che il congresso ribadì il fermo proposito di rimanere fedeli alle “idee che Michele Bakunin professava”, allo stesso tempo veniva approvata la proposta di considerare gli Statuti generali dell’Internazionale parte integrante del programma, poiché essi «rappresentano il terreno comune sul quale i lavoratori di tutti i paesi [...] s’incontrano [... e...] in essi e per essi noi tutti ci sentiamo solidali e fraternamente vincolati». Inoltre veniva data indicazione di «approfittare della disgregazione de’ partiti borghesi per costituire il grande partito socialista rivoluzionario». Il congresso non usciva dal campo dell’anarchia, però cominciavano a penetrarvi concetti a questa estranei, soprattutto il riconoscimento della necessità del partito.
Intanto, ad opera de “La Plebe”, l’unico giornale socialista italiano che aveva mantenuto un orientamento favorevole al Consiglio Generale di Londra, era nata la Federazione Lombarda dell’Associazione Internazionale degli Operai. La Federazione il 1° luglio 1876 aveva lanciato un manifesto in cui prendeva netta distanza dalle cospirazioni insurrezionali le quali «non possono servire che di pretesto ad una implacabile repressione». Infine auspicava la costituzione di un «grande Partito Operaio d’Italia» che ponesse le basi «di una possente Federazione Internazionale».
Altro dissenso all’impostazione anarchica e contro le “sollevazioni inconsulte” veniva da Palermo: «La nostra non è una bandiera di sterili agitazioni improvvisate, né segnacolo ad impazienze individuali, è la bandiera del proletariato, non di alcuna fazione, di alcuna camarilla» (“Il Povero”, 25 ottobre 1876). Erano questi i primi segnali critici che si manifestavano all’interno movimento anarchico italiano alla vigilia del suo congresso nazionale.
Nell’esposizione del rapporto ci si è poi soffermati sul rocambolesco congresso nazionale di Firenze-Tosi del 1876 e sulle peregrinazioni dei delegati che, inseguiti dalla polizia, determinati a portare a termine il congresso, lo tennero comunque, all’aperto, nella foresta e sotto una pioggia dirotta. In questo congresso, di cui Cafiero fu il vero ispiratore, venne ribadita tutta l’impostazione di stretta osservanza anarchica.
Di segno nettamente opposto fu il congresso che si tenne a metà febbraio 1877 dalla Federazione dell’Alta Italia, segnando la netta rottura con il movimento anarchico. Il congresso affermava di far propri gli Statuti dell’Internazionale e, anche se non si costituì come partito, ne dichiarò la necessità e le caratteristiche di classe: «Il partito socialista deve costantemente affermare la propria esistenza, come forza indipendente da qualsiasi governo e da qualsiasi partito politico o religioso». Dichiarava inoltre che l’organizzazione sindacale rappresenta il rimedio sia all’ «infecondo mutuo soccorso» sia al «romanticismo rivoluzionario».
Engels, che aveva sempre seguito con grande interesse e continuità le vicende italiane, commentava entusiasta i risultati dell’assise: «Finalmente anche in Italia il movimento socialista è stato posto su un solido terreno e promette un rapido e vittorioso sviluppo». Metteva poi in evidenza come il congresso avesse avanzato «con la massima precisione tre punti di importanza decisiva per il movimento italiano:
«1) che per assicurare il successo del movimento devono essere impiegati tutti i mezzi possibili, quindi anche quelli politici;Pure una parte del campo tradizionalmente anarchico cominciava a mettere in dubbio le teorie bakuniniste. Questa corrente era capeggiata da Andrea Costa che ormai ripudiava la pratica del complotto: «Per mezzo della cospirazione si può ottenere un cangiamento di forma nel governo; può spodestarsi o pugnalarsi un principe e mettersene un altro al suo posto; ma operare la rivoluzione sociale, come l’intende e vuole l’Internazionale, è impossibile».
«2) che gli operai socialisti devono costituirsi in partito socialista, partito che non dipenda da qualsiasi altro partito politico o religioso;
«3) che la Federazione dell’Alta Italia [...] sulla base degli Statuti iniziali dell’Internazionale, si considera membro di questa grande associazione [...] Quindi lotta politica, organizzazione di un partito politico e rottura con gli anarchici».
Un’altra parte, diretta da Cafiero, rimaneva di stretta osservanza anarchica e riproponeva come unica strategia possibile il moto insurrezionale. Nonostante il fallimento della congiura del 1874, Cafiero ed i suoi seguaci si misero ad organizzare una nuova azione. Se il precedente tentativo sarebbe dovuto partire da una città del centro-nord, Bologna, il nuovo avrebbe dovuto avere il suo centro nelle montagne del meridione. Però anche in questa occasione la polizia era a conoscenza fin nei minimi particolari dei preparativi e dei progetti di quella che venne definita la “Banda del Matese”. Anche la seconda strampalata esperienza guerrigliera fu brevissima, nel giro di qualche giorno la truppa accerchiò gli anarchici che, quasi morti di freddo e di fame, vennero arrestati senza che un solo colpo fosse sparato.
L’unico aspetto positivo di questo tentativo insurrezionale fu che Cafiero, durante i 15 mesi di carcerazione, iniziò il famoso Compendio del Capitale, molto apprezzato dallo stesso Marx.
Il cosiddetto “moto di San Lupo” diede al governo il pretesto per scatenare una violentissima repressione contro tutto ciò che aveva odore di socialista: venne emanato un decreto che dichiarava sciolte tutte le federazioni, sezioni, circoli e gruppi dell’Associazione Internazionale, ordinava la chiusura dei suoi locali ed il sequestro di ciò che vi si trovava. Perquisizioni ed arresti furono effettuati su vasta scala in tutta la penisola. In più luoghi l’esercito occupò paesi e città bivaccando nelle piazze. Atti di provocazione vennero compiuti per farne ricadere la colpa sugli anarchici e, per tentare di distruggere definitivamente l’internazionalismo, una serie di processi si svolse in diverse regioni d’Italia. A Firenze, nel 1879, vennero comminate pene severissime: un ergastolo, due condanne a 20 anni e quattro a 19.
Nel processo che si aprì a Bologna il 9 novembre 1879, tra gli imputati spiccò un personaggio il cui ruolo assumerà importanza nel socialismo italiano degli anni successivi, Anna Kuliscioff, la cui già compiuta maturità politica può essere ricavata da queste sue affermazioni pronunciate nel corso dell’interrogatorio: “Le rivoluzioni non le posson fare gli internazionalisti a loro comodo, perché non è nelle forze degli individui né di farle né di provocarle; è il popolo che le fa: quindi non conviene insorgere in bande armate [...] I socialisti debbono prendere parte ai movimenti popolari, come ad ogni altra manifestazione della vita popolare, per dirigerli, ma non possono crearli essi stessi. La rivoluzione deve partire dal popolo e non può esser fatta suo malgrado [...] Il socialismo deve essere pronto a prendere la direzione del movimento, convertire gli istinti, i sentimenti che sono latenti nel cuore del popolo, in forze socialiste».
Intanto Andrea Costa seguitava nella sua lenta, ed a volte contraddittoria, evoluzione fino a che con la famosa lettera “Ai miei amici di Romagna”, si poneva definitivamente fuori dell’anarchismo.
Ormai tra Costa e Cafiero, difensore al oltranza del programma anarchico, non c’era più possibilità di intesa. Agli anarchici che avevano definito come “empiastri di cattiva lega sulle piaghe dei lavoratori” ogni tipo di rivendicazione per le riforme sociali, compresa la lotta per la diminuzione delle ore di lavoro, Costa risponde:
«Voler opporsi, per esempio, all’agitazione che si propone di ottenere la diminuzione delle ore di lavoro? Ma perché? A vantaggio di chi? Io mi meraviglio che non abbiano detto che bisogna, invece, agitarsi perché si lavori 20 ore al giorno!».Nell’agosto 1881 sarà convocato il congresso clandestino di Rimini cui parteciparono circa quaranta delegati, rappresentanti una cinquantina di circoli o sezioni romagnole, più una rappresentanza dei socialisti marchigiani. Nasceva così il Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna; allo stesso tempo il congresso esprimeva il proposito di promuovere la costituzione di un Partito socialista rivoluzionario italiano e una commissione veniva incaricata di redigere il progetto di programma del nuovo partito. Si trattò di un documento di fondamentale importanza per la nascita e lo sviluppo del partito in Italia, e nella nostra “Storia della Sinistra” leggiamo:
« La premessa al programma del Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna è [...] di una straordinaria lucidità, e di una formulazione ineccepibile [...] Quanto sappiamo dell’Andrea Costa dei momenti migliori [...] permette a noi di inserirlo nella traccia storica dell’autentica sinistra italiana. Abbiamo qui l’attestazione programmatica della dittatura marxista del proletariato [...] Essa non era ignota in Italia, sebbene soffocata dalla menzogna che gli anarchici sono per la violenza e che i socialisti se ne staccarono per pacifismo sociale» (“Storia della Sinistra”, vol.I).
Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale | |
Per la rinascita del sindacato di classe fuori e contro il sindacalismo di regime. Per unificare le rivendicazioni e le lotte operaie, contro la sottomissione all’interesse nazionale. Per l’affermazione dell’indirizzo del partito comunista negli organi di difesa economica del proletariato, al fine della rivoluzionaria emancipazione dei lavoratori dal capitalismo |
Fiom a Roma il 18 maggio
La classe operaia può difendersi
dalla crisi
solo lottando
unita fuori delle aziende e unendo tutte le categorie fuori e
contro
i sindacati di regime
Il capitalismo è un inestricabile intreccio mondiale e tale è la sua crisi economica. Tutti i paesi ne sono colpiti. I vecchi capitalismi – i paesi occidentali – sono in recessione da cinque anni: dopo il crollo del 2008-2009, una flebile ripresa, che ha riguardato solo alcuni di essi senza riuscire a riportarli ai livelli precedenti la crisi, dal 2012 la produzione industriale ha iniziato nuovamente a calare, anche in Francia, Olanda e Germania. In Italia e Gran Bretagna non cresce più dal 2001. Giappone e Stati Uniti non sprofondano nella recessione solo in virtù di manovre monetarie fondate su un colossale indebitamento, cioè rimandando e ingigantendo il crollo economico. I giovani capitalismi, dall’Asia al Sud America – che hanno permesso negli ultimi 25 anni al capitalismo mondiale di respirare rimandando la crisi – entrano in recessione (Brasile) o rallentano la crescita (Cina).
Le cause di questa crisi non sono affatto nuove. Sono le stesse che causarono la grande depressione del 1929: la sovrapproduzione e il calo del saggio del profitto. Esse non risiedono nella sfera finanziaria, come vuol far credere la propaganda di regime, ma in quella produttiva, là dove il lavoro salariato crea il plusvalore.
Il Capitale o cresce o muore. Ma aumentando la sua massa, da un lato ha sempre maggiori difficoltà a crescere ancora, perché i mercati si saturano di merci, dall’altro diminuisce la redditività dell’investimento (il plusvalore). Invocare “maggiori investimenti” non ha senso perché significa proporre come soluzione proprio il fattore che ha generato la crisi.
Il marxismo rivoluzionario – fin dalle sue origini col “Manifesto” del 1848 e “Il Capitale” del 1867 – è l’unico movimento politico che ha previsto le crisi catastrofiche del capitalismo, ne ha denunciato l’inevitabilità e l’esito nell’alternativa: guerra fra Stati borghesi per conservare il capitalismo o rivoluzione internazionale proletaria per abbatterlo.
Tutti i nostri avversari – in primis coloro che per decenni hanno ingannato i lavoratori spacciando per comunismo il capitalismo di Stato russo, cinese, ecc. – come ieri non hanno previsto la crisi, così oggi si affannano a darne false spiegazione e false soluzioni. Ieri ed oggi illudono i lavoratori che la causa delle loro sofferenze non sia il capitalismo stesso, con le sue intrinseche leggi economiche, ma la sua cattiva gestione, la finanza senza regole, la ricerca di ingiusti superprofitti!
Che questa buona gestione del capitalismo sia una favola lo dimostra il fatto che non vi sia paese in cui la crisi non avanzi, dal Giappone agli Stati Uniti, dalla Grecia all’Islanda, indifferente a fattori quali corruzione, mafia, destra, sinistra o... Berlusconi! La gravità con cui ciascun capitalismo nazionale è colpito dalla crisi non dipende dalle politiche seguite dai vari governi ma dalle inesorabili leggi del capitalismo.
Lavoratori!
Sostenere la propria azienda nella competizione capitalistica significa lottare contro i vostri fratelli di classe. Se gli operai FIAT, Fincantieri, Electrolux, ecc., accettano la diminuzione del salario, l’incremento della produttività, la riduzione del personale, forse per un po’ conserveranno un salario – sempre più misero – ma a discapito degli operai delle aziende concorrenti. Questa competizione riduce alla miseria tutti i lavoratori e fa la fortuna del capitalismo.
Allo stesso modo, sostenere il proprio paese nella competizione internazionale, illudendosi che possa scampare all’inesorabile avanzata della crisi, significa combattere contro i lavoratori degli altri paesi, per ritrovarsi, infine, tutti sconfitti, divisi e incatenati al carro del proprio capitalismo nazionale, e fino alla adesione alla guerra, l’unica terribile soluzione del capitalismo alla sua crisi mondiale.
La vostra strada deve essere un’altra, quella indicata dal comunismo rivoluzionario fin dal suo esordio col “Manifesto”: Proletari di tutti i paesi unitevi! Unitevi, non nel cullare le illusioni riformiste di un capitalismo democratico e riformatore, che si accontenta del “giusto” profitto in cambio di un “giusto” salario, ma contro il regime capitalistico, innanzitutto quello del proprio paese, per la società internazionale senza classi, cioè senza Capitale.
Il solo modo per potervi difendere oggi è avere questa prospettiva per domani.
L’unione dei lavoratori è possibile solo lottando per
obiettivi che
difendono gli interessi generali di classe contro quelli dell’azienda
e dell’economia nazionale:
- Difesa intransigente del salario, con aumenti maggiori per
le categorie peggio pagate;
- Riduzione dell’orario di lavoro, a parità di salario;
- Salario pieno ai lavoratori licenziati, a carico di
industriali
e banchieri mediante il loro Stato. Questi obiettivi sono perseguibili
solo con la lotta di classe, cioè con veri scioperi:
a
oltranza,
senza preavviso, con picchettaggi, che si estendano al di sopra delle
aziende
e delle categorie, fino a confluire nella mobilitazione di tutta la
classe
lavoratrice.
A questo scopo è necessario ricostruire un vero Sindacato di Classe, fuori e contro i sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl), che impongono la subordinazione dei lavoratori agli interessi dell’azienda e del capitalismo nazionali, attraverso la loro falsa politica conciliativa.
La FIOM si conferma l’argine a sinistra di questo sindacalismo concertativo. Ha illuso i lavoratori di difendere il contratto nazionale, ma lo ha fatto con una mobilitazione fabbrica per fabbrica, cioè assecondando con la sua azione quella divisione tra i lavoratori che è l’obiettivo del padronato.
La FIOM firma accordi aziendali unitari in cui avalla ciò che ha proclamato di combattere sul piano nazionale, come alla Fincantieri di Sestri Ponente e a Castellammare dove è giunta a sostenere la deroga non al Ccnl unitario del 2008, ma perfino a quello separato del dicembre 2012.
Accetta, come alla Electrolux, aumenti di produttività a fronte della riduzione dell’orario, del salario e il ricorso allo straordinario, che si premura persino di gestire insieme all’azienda.
Pone fra i suoi principali obiettivi i contratti di solidarietà, che riducono l’orario insieme al salario, chiudono ancora una volta la lotta nella vertenza aziendale, dividono i lavoratori delle poche imprese che possono ricorrervi dalla grande maggioranza che ne restano estranei, mistificando il concetto della riduzione dell’orario di lavoro per tutti.
Mentre mobilita i lavoratori con la manifestazione odierna, più che per rivendicazioni sindacali, per obiettivi politici del più fradicio riformismo, quali “un piano straordinario d’investimenti” e “la riconversione ecologica del sistema industriale” – come se queste favolette potessero risolvere la crisi storica e mondiale del capitalismo! – si appresta ad avallare un nuovo patto sulla rappresentanza sindacale, voluto da Cgil, Cisl e Uil per puntellare il loro controllo sui lavoratori a discapito dei sindacati di base.
Lavoratori, compagni!
L’opportunismo politico e sindacale per 90 anni, dal prevalere della controrivoluzione staliniana, ha spacciato la menzogna del falso socialismo russo, deformando il significato del comunismo. Gli eredi odierni continuano nell’opera di disorientamento dei proletari vendendo l’illusione di una soluzione alla crisi attraverso fantomatici modelli di sviluppo, “declinati”, secondo la moda dei politicanti oggi in voga, alla “green economy”, alla “decrescita”, all’ “autogestione”, ecc., ma tutti ossequienti nel rispetto del capitalismo.
La strada per la liberazione della classe mondiale dei lavoratori dal capitalismo va nella direzione opposta. Va nel senso della preparazione rivoluzionaria, dell’abbattimento del regime capitalistico e del suo Stato, dell’instaurazione della dittatura del proletariato.
Passa per la ricostruzione del Sindacato di classe.
E passa per la milizia nel Partito Comunista Internazionale
erede
della tradizione di quella Sinistra Comunista che fondò
il Partito
Comunista d’Italia a Livorno nel 1921, conobbe e combatté
sin dalla
prima ora la controrivoluzione e lo stalinismo, e, da quella grave
sconfitta
della Rivoluzione che ancora oggi pesa, ha tratto le necessarie lezioni
per la riscossa proletaria futura.
Il licenziamento di 40 lavoratori in appalto alla Granarolo, colpevoli di avere partecipato agli scioperi organizzati dal SI Cobas, dimostra che in questa putrida società capitalista i cosiddetti “diritti” sanciti dalla Costituzione sono carta straccia, da sempre calpestati quando mettono in pericolo gli interessi vitali – il profitto – della classe dominante, del padronato.
Così ha fatto la Commissione di garanzia sullo sciopero che, per mettere un freno alla lotta dei lavoratori della logistica, ha inserito tra i servizi pubblici essenziali la movimentazione ed il trasporto di merci deperibili con conseguente applicazione delle procedure previste dai codici di autoregolamentazione e dalla legge 146 del 1990.
Lo sciopero è un’arma della classe lavoratrice e può essere difeso solo impiegandola in modo sempre più esteso e determinato. Appellarsi al diritto di sciopero non serve, anzi svia i proletari da questa strada. I diritti che tutelano i lavoratori sono in realtà sempre conquiste della loro lotta. Se non sono difesi con la stessa forza che li ha guadagnati finiscono inevitabilmente per essere distrutti dal regime capitalista, magari in nome dei diritti dei cittadini e delle imprese. Non il diritto ma solo la loro lotta difende i lavoratori.
Le lotte degli operai della logistica sono un esempio per i proletari di tutte le categorie. Finché i lavoratori partecipano ai finti scioperi dei sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil) e seguono le liturgie elettorali, il regime capitalista può nascondersi con l’inganno della democrazia. Quando imboccano la sola strada utile a difenderli, quella della lotta di classe, la maschera democratica cade e si svela il vero volto della dittatura del capitale. La repressione delle carogne padronali e dello Stato borghese – coi licenziamenti, i fogli di via, i processi e le cariche della polizia contro gli operai in sciopero – mostra la vera natura del regime del Capitale e indica che la classe dominante riconosce nel SI Cobas un organismo di difesa dei lavoratori che cammina sulla strada per la ricostruzione di un vero Sindacato di Classe fuori e contro i sindacati di regime.
Il licenziamento degli operai alla Granarolo è un attacco contro tutti i lavoratori perché mira a non far rialzare la testa alla classe lavoratrice e ad impedire la rinascita del Sindacato di Classe!
Per questo i militanti del sindacalismo di base, superando le misere divisioni di sigla, frutto delle attuali dirigenze opportuniste, devono mobilitarsi al fianco del SI Cobas e degli operai della logistica per preparare ed estendere il più possibile lo sciopero in loro difesa spezzando i confini della categoria!
La crisi storica del capitalismo è al suo inizio e continuerà inesorabilmente costringendo in ogni paese tutti i governi borghesi, di destra o di sinistra, ad affondare l’attacco alle condizioni di vita del proletariato. Presto anche i lavoratori italiani saranno condotti dal capitalismo stesso a intraprendere la strada della lotta di classe, per ora imboccata dai loro fratelli di classe immigrati.
Il futuro non sarà catastrofico, come nemici e falsi amici del proletariato prospettano, se verrà affrontato in maniera cosciente ed organizzata. La lotta sindacale è necessaria a difendere i lavoratori ma non è sufficiente. Più avanza la crisi più la minima rivendicazione salariale diverrà insopportabile per il capitalismo ed il suo regime vi si opporrà con ogni forza. Si porrà necessariamente per la classe lavoratrice la questione del potere politico. Contrariamente a quanto vuol far credere la classe dominante con l’ideologia democratica la classe dei lavoratori è priva di ogni potere politico, tutto in mano alla borghesia che lo esercita attraverso il suo Stato.
Come alla lotta economica serve il Sindacato di classe, quella politica necessita del Partito rivoluzionario che ambisca alla conquista rivoluzionaria del potere e alla instaurazione delle dittatura del proletariato.
Il Partito Comunista Internazionale è l’erede storico
della
Sinistra
Comunista italiana che fondò il Partito Comunista d’Italia a
Livorno
nel 1921 e combatté l’ondata opportunista dello stalinismo.
È il solo
che abbia saputo difendere l’originale programma comunista
rivoluzionario
e abbia tratto dalla sconfitta della rivoluzione, culminata nel trionfo
della menzogna del capitalismo di Stato russo, cinese, ecc. spacciato
per
socialismo, le lezioni necessarie per la riscossa proletaria futura.
In tutti i paesi i governi borghesi, a prescindere dal loro “colore”, applicano analoghi provvedimenti contro la classe proletaria per difendere il capitalismo dalla sua crisi, fatto che l’ideologia borghese presenta ai lavoratori come difesa dell’interesse nazionale. Ciò conferma che la causa della crisi è nell’economia capitalistica le cui leggi determinano le politiche dei governi.
In Francia il governo “di sinistra” propone una riforma del lavoro analoga a quelle già approvate, ad esempio, in Italia, Grecia e Spagna, che prevede la possibilità di ridurre sino alla metà il salario dei lavoratori delle aziende in crisi e una maggiore libertà di licenziamento. Come in Italia con Cgil, Cisl e Uil, anche in Francia la borghesia usa le finte divisioni dei sindacati di regime per accreditare fra i lavoratori quelli “a sinistra” (come qui la Fiom), quando in realtà nessuna seria lotta è da essi imbastita. CGT e FO infatti fingono di opporsi a questa riforma, che convertirebbe in legge un accordo firmato a gennaio da altri sindacati apertamente filo-padronali (CFDT, CFTC, CFE-CGC). A tal scopo organizzano scioperi simbolici o semplici manifestazioni. Ad una di queste, il 9 aprile, i nostri compagni hanno distribuito il volantino di cui riportiamo qui di seguito alcuni stralci.
Lavoratori!
Il capitalismo continua a passare da una crisi all’altra. Siamo ormai alla quinta crisi internazionale di sovrapproduzione dal 1974-1975. Le risposte della borghesia sono state una forte pressione al ribasso sui salari e lavoro a tempo determinato.
Ora questo non è più sufficiente. Le leggi economiche del capitale impongono che anche i lavoratori con contratti a tempo indeterminato diventino precari. Con la scusa della “difesa del lavoro” i padroni ed il governo si preparano a una riforma che permetterà alle imprese in crisi di abbassare i salari e renderà più facili i licenziamenti.
L’opportunismo vorrebbe far credere che la crisi non è dovuta alle leggi economiche del capitalismo ma a fattori esterni, in gran parte soggettivi, come la fame di arricchimento della grande borghesia e degli speculatori che avrebbero provocato la crisi del debito degli Stati. Sarebbe per essi sufficiente tornare a una politica “keynesiana” e così, senza rivoluzione, senza scontro con la borghesia, attraverso la farsa della democrazia, con qualche modifica della Costituzione, sarebbe possibile superare la crisi e tornare di nuovo alla prosperità.
Questa è una menzogna criminale che punta ad illudere il proletariato. La crisi di sovrapproduzione è inevitabile per il sistema capitalistico e il suo corso non può che essere catastrofico. Le politiche economiche “keynesiane” che sono state applicate negli Stati Uniti tra le due guerre mondiali non hanno consentito al capitalismo americano e al mondo di uscire dalla grave crisi di sovrapproduzione del 1929. Questa ha portato alla Seconda Guerra mondiale che con la strage di proletari e la distruzione dei mezzi di produzione ha permesso al capitalismo di iniziare un nuovo ciclo di accumulazione. Ma anche questo è definitivamente finito con la crisi del 1974-1975.
La soluzione esiste, ed è già pronta. Il grande ruolo storico del capitalismo è stato quello di sostituire la prduzione frammentata con quella collettiva e centralizzata dell’industria; ha così sviluppato le basi economiche della società comunista. Oggi invece il capitalismo è diventato un ostacolo allo sviluppo delle forze produttive e al suo utilizzo per soddisfare i bisogni dell’umanità. Se è sopravvissuto fino ai giorni nostri è solo grazie a due guerre mondiali.
È urgente abolire i rapporti capitalistici di produzione, cioè il salariato e il capitale, per consentire il libero sviluppo della società comunista. Una società basata non più sull’accumulazione di valore ma la sulla soddisfazione dei bisogni umani. Una società in cui al posto del mercato si avrà una gestione della produzione di beni d’uso. Una società in cui saranno utilizzati gli incrementi della produttività in primo luogo per ridurre il tempo di lavoro e la sua intensità.
Questo possiamo conquistarlo solo con la rivoluzione proletaria e la dittatura del proletariato!
Prima cosa che deve fare il proletariato è organizzare una rete di sindacati di classe, fuori e contro il piano dei sindacati di regime, sia quelli che apertamente collaborano con il padronato, come la CFDT e la CFTC, sia quelli che fanno finta di organizzare le lotte, come CGT e FO. Un vero sindacato che non esiti a ricorrere a scioperi ad oltranza e allo sciopero generale.
La lotta sindacale, essenziale per la difesa degli interessi vitali
e immediati della classe, non basta. La classe proletaria deve essere
preparata
al confronto con la borghesia non solo sul piano sindacale ma anche sul
piano politico. Per questo è necessario unirsi alle file del
Partito
Comunista
Internazionale per rovesciare con la forza il potere della borghesia
industriale,
finanziaria e fondiaria.
Da mesi i media borghesi ci bombardano di numeri sulla disoccupazione, in special modo su quella giovanile. Verrebbe da chiedersi perché tali quotidiane denunce provengano da stampa, televisioni nonché governi e perfino istituzioni finanziarie della classe dominante. Si potrebbe pensare che tanto allarmismo sia dannoso al regime capitalista. Ma si tratta di un pensiero ingenuo e sbagliato.
La borghesia è una classe flessibile, pragmatica, spregiudicata. Questi caratteri le derivano dalla sua funzione sociale che si può sintetizzare nel principio: gli affari sono affari! Diversamente, ad esempio, l’aristocrazia, fondata sul lavoro servile finalizzato non al profitto e all’accumulazione del capitale ma al consumo nell’isola chiusa del feudo, estranea al mercato, era proverbiale per la sua rigidità.
I regimi borghesi, fingono sorpresa e preoccupazione per la crescita della disoccupazione giovanile per terrorizzare i lavoratori che ancora un lavoro ce l’hanno e per proporre le loro false soluzioni che, se attuate, si rivelerebbero ancora più dannose per salariati e disoccupati, giovani ed adulti.
In realtà tanto allarmismo prepara il terreno al varo di nuovi provvedimenti per aumentare la flessibilità degli operai, che, rendendo i lavoratori più ricattabili, consente di sfruttarli di più, aumentare carichi e ritmi di lavoro e ridurre i salari. In tal modo inoltre la borghesia divide i lavoratori fra precari e cosiddetti “garantiti” col risultato di abbassare il salario medio della classe intera.
Le percentuali di disoccupazione giovanile che quotidianamente ci aggiornano andrebbero dal 62,5% della Grecia, al 56,4% della Spagna, al 42,5% del Portogallo, al 38,5% dell’Italia: sono enormi. Ma queste percentuali sono calcolate sul totale di residenti che partecipano al mercato del lavoro, cioè a coloro che sono in cerca di un lavoro, o come primo impiego o perché hanno perso quello che avevano. Ne sono esclusi coloro che un lavoro non lo cercano, come, ad esempio, gli “studenti”, e coloro che hanno rinunciato a cercarlo, i cosiddetti “scoraggiati”. Nemmeno è contato chi lavora in nero, chi vive di rendita, chi campa con attività illecite.
La disoccupazione giovanile fa riferimento ai giovani tra i 15 ed i
24 anni, a loro volta divisi in adolescenti, dai 15 ai 19 anni, e in
giovani,
dai 20 ai 24 anni. La partecipazione al mercato del lavoro tra gli
adolescenti
in Europa è in media solo del 10%; per i giovani è
superiore, ma
inferiore
a quella degli adulti. Questo significa che se, per effetto della
crisi,
una parte dei adolescenti e giovani domani non potesse più
permettersi
di “studiare” e si iscrivesse alle liste, il tasso di disoccupazione
giovanile aumenterebbe di molto.
Il rapporto, passando in esame il periodo intercorso dall’ultima
riunione
generale del Partito a quella odierna, si è soffermato su: 1)
l’azione
della Fiom dalla sigla del Ccnl separato dei metalmeccanici, il 5
dicembre,
fino alla manifestazione nazionale del 18 maggio scorso; 2) il nuovo
patto
sulla rappresentanza fra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria.
Le tre carte della Fiom
Il 5 dicembre scorso, Fim, Uilm, Fismic, Uglm e Federmeccanica firmavano il nuovo contratto metalmeccanico per il triennio 2013-2015. La notizia della firma giunse mentre il segretario generale della Fiom parlava dal palco di Milano durante la manifestazione per lo sciopero generale proclamato per quello stesso giorno dalla federazione metalmeccanica della Cgil, evidenziando emblematicamente il fallimento di questo sindacato nella difesa del contratto nazionale.
Dalla firma del Ccnl separato dell’ottobre 2009 – dopo la disdetta di quello unitario del 2008 – l’azione Fiom si è articolata su tre piani: 1) quello giudiziario; 2) successive proposte a Fim e Uilm per un nuovo contratto unitario; 3) lo sciopero.
La via giudiziaria ha avuto successo per quanto riguarda i cosiddetti diritti sindacali. La Fiom aveva promosso una serie di procedimenti per “condotta antisindacale” contro la Fiat che, uscita da Confindustria l’1 gennaio 2012, aveva disconosciuto tutti gli accordi collettivi, compreso quello che istituiva le RSU del 1993, contando su una interpretazione dell’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori che le consentirebbe di tenere la Fiom fuori dalle proprie aziende, impedendole di costituire proprie RSA, giacché il testo della norma prevedeva il requisito dell’essere firmatari della contrattazione collettiva applicata in azienda.
Anche se non firmataria del Contratto Collettivo specifico di 1° Livello firmato tra Fiat, Fim, Uilm, Fismic e Uglm, diversi tribunali hanno riconosciuto alla Fiom il diritto ad avere una rappresentanza sindacale entro l’azienda (RSA), a disporre dei permessi sindacali, a richiedere assemblee retribuite durante l’orario di lavoro, a ricevere le quote sindacali a mezzo della delega, con prelievo da parte dell’azienda di parte del salario del lavoratore iscritto e versamento della quota sul conto del sindacato. Solo in una minoranza di casi i giudici si sono espressi a sfavore della Fiom.
I tribunali di Modena, Vercelli, Melfi e Torino avevano rimesso la questione alla Corte Costituzionale, che il 2 luglio ha dichiarato incostituzionale l’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori (legge 300 del 1970) nella parte in cui richiedeva il requisito della firma al contratto nazionale per poter costituire RSA, dando così definitivamente soddisfazione alla Fiom.
Con riguardo all’applicazione dei contratti separati, invece, i tribunali si sono sempre espressi riconoscendone la legittimità, rigettando i ricorsi della Fiom. Così è stato sia per il Ccnl separato dell’ottobre 2009, per il quale la Fiom aveva inviato a gennaio 2010 a tutte le aziende metalmeccaniche una lettera che le diffidava dalla sua applicazione, sia per il Ccnl del dicembre 2012, impugnato dalla Fiom perché avrebbe violato l’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 firmato da Confindustria, Cgil, Cisl, Uil e Ugl.
Nel gioco delle tre carte, con cui il sindacalismo di regime dal secondo dopoguerra opera, purtroppo con successo, per confondere i lavoratori, con finte “rotture” e ritrovate “unità”, quell’accordo aveva segnato la ricomposizione fra Cgil, Cisl e Uil, da un lato aprendo in modo deciso alle deroghe al contratto nazionale, dall’altro con un impegno a mantenere l’unità. Inoltre fu un importante passo verso la regolamentazione della “rappresentatività” sindacale, attraverso la certificazione degli iscritti e dei voti nelle elezioni per le RSU. In un primo tempo la Fiom vi si oppose, a causa delle deroghe al Ccnl, poi lo accettò perché ritenne prioritario l’obiettivo del contratto unitario, che, a suo dire, avrebbe garantito da contratti peggiorativi e dallo smantellamento del contratto nazionale.
La storia sindacale, precedente e successiva a quell’accordo, dimostra la falsità di questo assioma dell’azione sindacale della Fiom e di tutta la Cgil. Non è la firma congiunta di Fim, Fiom e Uilm che garantisce contratti favorevoli ai lavoratori – piuttosto il contrario! – ma solo la loro lotta. Se la Fiom fosse un sindacato di classe, un “buon contratto” non potrebbe essere “unitario” ma corrisponderebbe a una sua piattaforma separata imposta al padronato, ed anche a Fim e Uilm, con un vero movimento di sciopero. Questa impostazione della lotta è esplicitamente esclusa dalla Fiom, dimostrando come essa sia solo l’ala sinistra del sindacalismo di regime. L’accordo del 28 giugno è servito alle aziende per derogare al Ccnl e non per impedire il contratto separato di dicembre. La Fiom è così ricorsa alla via giudiziaria, incontrando peraltro l’opposizione della Cgil. Il 13 maggio il ricorso è stato respinto confermando ancora una volta la legittimità del contratto separato.
Il piano giudiziario di difesa del contratto nazionale si è quindi dimostrato utile a garantire la “agibilità sindacale”, nonché i quattrini, alla Fiom, ma non a difendere i lavoratori.
Il secondo livello dell’azione è stato quello della ricerca di un’intesa unitaria con Fim e Uilm. La Fiom è il maggior sindacato fra i metalmeccanici ma l’ipotesi di lottare per imporre una propria piattaforma è liquidata come “follia”: «Non abbiamo mai fatto accordi separati e mai lo faremo»; «Il nostro obiettivo nel presentare la piattaforma non è quello – non siamo così pazzi – di pensare di fare un contratto solo della Fiom in alternativa ai contratti separati che altri hanno fatto» (Landini, Assemblea Nazionale dei Delegati, Cervia 22-23 settembre 1911). Le proposte d’intesa unitaria della Fiom si sono distinte, ad ogni rifiuto, per una maggiore concessione alle posizioni apertamente filo-padronali di Fim e Uilm, cui è bastato tirare avanti dritto, certe della indisponibilità della Fiom a imbastire una vera lotta.
Il terzo piano dell’azione della Fiom, quello dello sciopero, è servito a mantenere la parvenza di sindacato combattivo. Gli scioperi proclamati sono stati pochi, inoffensivi, divisi fra azioni generali e mobilitazioni azienda per azienda, svilendo l’arma fondamentale di lotta dei lavoratori, ridotta ad impotenti manifestazioni d’opinione. Per nascondere la sconfitta la Fiom ha dato mostra di continuare a lottare ma lo ha fatto, se possibile, a un grado ancora più basso, con l’obiettivo di impedire l’applicazione del contratto separato azienda per azienda. In questo modo l’azione sindacale ha avallato la divisione dei lavoratori, obiettivo del padronato.
Questa decisione, presa al Comitato Centrale del 12 dicembre, all’indomani della firma del contratto separato, è stata confermata dall’Assemblea Nazionale dei delegati dell’11 gennaio, che ha approvato una “Carta rivendicativa” da proporre alle aziende in alternativa all’applicazione del nuovo Ccnl metalmeccanico. In essa erano espressi i concetti tipici dell’opportunismo utili a confondere i lavoratori. Nello specifico, l’azione padronale “metterebbe a rischio la coesione sociale”, cioè, tradotto, scatenerebbe la lotta di classe, che sarebbe proprio il presupposto perché i lavoratori possano difendersi! Spezzandosi la coesione e la pace sociale, a rischio sarebbero invece i profitti padronali, il ruolo dei sindacati concertativi, di cui la Fiom fa parte.
All’Assemblea nazionale dei delegati Fiom dell’11 gennaio, la minoranza di sinistra, la Rete 28 Aprile, ha presentato un documento alternativo a quello di maggioranza su aspetti generali, più d’ordine politico che sindacale, ma non sul deleterio indirizzo pratico di lotta fabbrica per fabbrica, che invece è stato condiviso.
Tutta la Fiom quindi ha ancora una volta lavorato a dividere la classe operaia calpestando il basilare principio proletario che si vince o si perde insieme! Solo in poche aziende, per condizioni particolari di forza dei lavoratori o di salute dell’impresa, la Fiom ha potuto cantare vittoria applicando la “carta rivendicativa”, mentre la grandissima parte del resto dei metalmeccanici ha dovuto subire il contratto separato.
Queste sconfitte peggiorano le condizioni dei lavoratori ma non fiaccano l’influenza dei sindacati di regime, garantita proprio dalla debolezza della classe operaia. Più i lavoratori sono deboli e divisi più per essi è difficile intraprendere la strada della lotta e altra alternativa non hanno che affidarsi ai metodi concertativi. I sindacati di regime perciò temono assai più le vittorie che le sconfitte dei lavoratori. Per questo conducono scioperi deboli condannati alla sconfitta e sabotano quelli vincenti.
La firma del nuovo Ccnl separato dei metalmeccanici ha disilluso molti operai sull’effettiva capacità e volontà della Fiom di organizzare la lotta in loro difesa, minando la nomea che si era creata attorno a questo sindacato all’indomani del rifiuto a firmare l’accordo di Pomigliano il 15 giugno 2010, che ebbe quale massima espressione pratica la grande manifestazione del 16 ottobre di quello stesso anno. Ma questo epilogo è coerente col reale contenuto di quel rifiuto, che non fu il passaggio della Fiom alla lotta di classe bensì, la difesa del metodo concertativo, posto sotto attacco prima dalla Fiat, poi da Federmeccanica. Infatti al rifiuto a firmare non è conseguito un indirizzo pratico di lotta ma l’azione articolata sopra descritta, sul piano giudiziario, su quello della ricerca di intesa unitaria e con i pochi scioperi utili a conservare questa illusione.
La minoranza di sinistra della Fiom, che ha dato credito alla sua dirigenza, indicando in essa un alleato contro la maggioranza e la dirigenza della Cgil, ancora una volta ha contribuito a illudere i lavoratori sulla possibilità che la Cgil o la Fiom possano cambiare e diventare un organismo sindacale di classe. La sinistra sindacale ancora una volta ha svolto la funzione – volente o meno non importa – di puntello a sinistra del sindacalismo di regime. Le denunce di come la dirigenza stesse dilapidando la capacità di mobilitazione dei lavoratori, toccata con mano alla manifestazione del 16 ottobre 2010, non solo non sono servite a fermare la Fiom, ma hanno dimostrato l’incomprensione e nascosto il fatto che la Fiom non si rammarica della impotenza dei lavoratori, ma la persegue.
Aver spento gli ingenui entusiasmi dei lavoratori che ancora una
volta
avevano visto in questo sindacato il loro organismo di lotta le
consente
di operare tranquilla sui binari della concertazione, chiudendo i
proletari
nelle trattative azienda per azienda, dove si consuma, con poche
eccezioni,
la consolidata prassi unitaria con Fim e Uilm. Lo dimostrano i recenti
accordi in Fincantieri, Zanussi, Ilva, Xerox, Vm, Almaviva, Kme – solo
per citare i maggiori – tutti gravemente a perdere, in cui la
Fiom ha accettato deroghe persino al Ccnl separato di dicembre! Accordi
che i lavoratori, imprigionati dentro l’azienda dalla Fiom, sono stati
costretti nei referendum ad accettare, schiacciati fra il ricatto del
licenziamento
e l’assenza di una organizzazione di lotta generale.
La “democrazia sindacale” e l’accordo sulla “rappresentanza”
Visto che l’Accordo del 28 giugno 2011 si è dimostrato inadeguato sia ad avviare la “certificazione della rappresentanza” sia ad evitare il contratto separato dei metalmeccanici, la Fiom ha sostenuto l’iniziativa che la Cgil da gennaio ha avviato per un nuovo accordo con Cisl, Uil e Confindustria.
Il 30 aprile scorso un direttivo unitario di Cgil, Cisl e Uil ha varato un documento, votato anche dal segretario della Fiom, con cui i tre sindacati di regime avviavano la trattativa con Confindustria per il nuovo accordo sulla “rappresentanza”.
Come solita manovra diversiva la Fiom ha indetto una manifestazione nazionale sabato 18 maggio per i soliti vaghi, confusi e antioperai obiettivi del riformismo. La manifestazione ha confermato quanto sopra: una partecipazione decisamente inferiore a quella dell’ottobre 2010, pochi striscioni di fabbriche e priva di ogni sentimento di lotta proletaria, rabbia, determinazione, fratellanza. Una passeggiata a cui la stampa e le televisioni del regime borghese hanno dato il solito interessato risalto per puntellare il loro sindacalismo, in specie la sua ala sinistra, le migliore garanzia contro il ritorno della lotta di classe.
Il 31 maggio Confindustria, Cgil, Cisl e Uil hanno siglato il “Protocollo d’intesa” sulla “rappresentanza”. Il 6 giugno si è aggiunta la firma dell’Ugl, da anni, giustamente e organicamente, aggiuntasi alla Trimurti del sindacalismo di regime. Il senso dell’accordo è elevare una nuova barriera contro la rinascita del sindacato di classe rafforzando il controllo dei sindacati di regime sui lavoratori.
Questo risultato è stato ottenuto da padroni e sindacati di regime in nome della democrazia sindacale, bandiera di tutte quelle correnti, sindacali e politiche, sia nella Cgil sia nel sindacalismo di base, che affermano volersi battere per la rinascita del sindacato di classe. È solo il nostro partito, distinguendosi da tutti gli altri, che mette in guardia i lavoratori dal fare della democrazia sindacale l’obiettivo e lo strumento taumaturgico che garantirebbe in sé da ogni sconfitta, da ogni tradimento e degenerazione dell’organizzazione sindacale.
L’elemento che discrimina fra sindacati filo-padronali e autentici sindacati proletari è la lotta di classe. Il richiamo alla democrazia per la sua ambiguità è insidioso, infatti contraddistingue senza soluzione di continuità tutto l’arco sindacale, dall’Ugl ai sindacati di base.
Nel sindacato la democrazia può essere un metodo, un meccanismo per prendere le decisioni, non un principio astratto. Un metodo necessario perché il sindacato di classe, per il fatto che organizza sulla base di una condizione sociale – quella del moderno salariato – ha al suo interno una pluralità di indirizzi sindacali e politici che debbono convivere e confrontarsi.
Diversamente il Partito Comunista, che si fonda su una completa omogeneità teorica e programmatica, nonché su di una ben sperimentata definizione e condivisione degli strumenti tattici, se non degenerato, non si divide in sotto-partiti, correnti o frazioni, e quindi non ha più bisogno di ricorrere al meccanismo democratico. Il suo centralismo, prima che disciplinare e gerarchico, è organico, cioè ovvio spontaneo e naturale. Un risultato acquisito dall’evoluzione storica, come la stazione eretta per l’animale homo. Come sarà nella futura società comunista.
Nella società capitalista, divisa in classi con condizioni ed interessi materiali inconciliabili e contrapposti, la democrazia è invece un turpe inganno, il miglior strumento della classe dominante per mascherare la sua dittatura politica e garantirne lo sfruttamento economico.
L’organizzazione sindacale è costantemente minacciata di cadere nelle maglie del regime borghese per il tramite delle correnti sindacali opportuniste e riformiste. Ciò che la difende da questo processo, che le può permettere di restare fedele alla classe lavoratrice, non è il metodo democratico di funzionamento, per quanto formalmente perfetto esso sia, ma un giusto indirizzo sindacale, quale è quello propugnato dai comunisti. Sotto indirizzi borghesi inesorabilmente l’organizzazione di lotta economica dei lavoratori tende a cadere al rango di strumento di regime del capitale, con o senza il formalismo della democrazia interna. La battaglia dei militanti comunisti nel sindacato per affermare l’indirizzo sindacale del partito, se vinta, è la migliore garanzia contro la sua degenerazione.
Il partito comunista, quando avrà conquistato a sé il sindacato, prima e dopo la presa del potere, praticherà al suo interno un indirizzo tale da assicurarne l’unità di movimento e mantenerne l’apertura a tutti i lavoratori a qualunque ideologia appartengano. La forma che prenderà questa sua prudente e sapiente direzione non è detto che sempre si atterrà e rigidamente ai canoni dell’elettoralismo maggioritario.
Oggi, tutte le correnti sindacali che fanno della democrazia sindacale la chiave di volta della loro strategia di battaglia contro il sindacalismo di regime, hanno offerto un magnifico cavallo di Troia a Cgil, Cisl, Uil e Ugl perché questi falsi sindacati potessero incassare una nuova vittoria e rafforzare i bastioni a loro difesa.
Non a caso il nuovo accordo è stato accolto positivamente non solo dalla maggioranza Cgil ma anche dalla parte più consistente della sua minoranza di sinistra, quella che guida la Fiom, con la sola esclusione della Rete 28 Aprile. Una nuova disfatta della sinistra Cgil, ennesima dimostrazione di come una opposizione di classe interna a questo sindacato non abbia alcuna possibilità di vittoria e le sia concessa cittadinanza al suo interno solo come puntello ed argine a sinistra.
L’accordo del 31 maggio scorso affronta e mistifica la questione della democrazia sindacale su un terreno ancora più insidioso di quello interno al sindacato: quello dei rapporti fra le diverse organizzazioni sindacali. Si stabilisce che, fatta una media fra il numero di iscritti, per delega ovviamente, e i voti per le elezioni delle RSU, i sindacati che superano uno sbarramento del 5% potranno partecipare alla trattativa per il rinnovo dei Ccnl. Ma l’accordo prevede che la certificazione della media fra i voti per le elezioni RSU e le deleghe sia effettuata solo «per ogni singola organizzazione sindacale aderente alle Confederazioni firmatarie della presente intesa». L’esclusione dei sindacati di base dalle trattative per il rinnovo dei Ccnl, sempre avvenuta di fatto, è così sancita e rafforzata.
La parte padronale resta peraltro libera di trattare con chi vuole. Quindi, sul piano della trattativa nazionale, non cambia nulla. Gli industriali potranno continuare ad ignorare i sindacati di base – fintantoché questi non avranno alle spalle una reale forza operaia che costringa i padroni alla trattativa con lo sciopero – e quando utile, come in Fiat e per i metalmeccanici, tenere in anticamera la Fiom, giocando sulla falsa contrapposizione fra i sindacati di regime.
Sul piano aziendale l’accordo stabilisce che «in ragione della struttura attuale della rappresentanza, che vede la presenza di RSU o RSA, il passaggio alle elezioni delle RSU potrà avvenire solo se definito unitariamente dalle Federazioni aderenti alle Confederazioni firmatarie il presente accordo», il che, laddove vi sono ad oggi RSA e non RSU, pone nelle mani dei sindacatoni di regime la possibilità di escludere i sindacati dalla rappresentanza sindacale in azienda.
Questi nuovi ostacoli eretti a difesa del sindacalismo di regime contro il futuro risorgere di organismi sindacali di classe sortiranno certamente il loro effetto, ma fintantoché la spinta alla lotta dei lavoratori resterà bassa: quando l’energia che va accumulandosi nella classe per il peggioramento delle sue condizioni raggiungerà il livello critico sicura ignorerà tutte queste barriere. Anzi, proprio l’erezione, da parte del padronato e dei sindacati di regime, di un sistema di regole che esclude sempre più l’organizzazione difensiva dei lavoratori, potrà giovare alla lotta di classe evitando che resti imbrigliata nei formalismi legalitari della, loro, “rappresentanza”. I lavoratori dovranno impegnarsi non a raccogliere voti ma ad organizzare e a scioperare, perché, sia sul piano aziendale sia della categoria sia nazionale, sarà per la forza di questi scioperi, non per i voti “certificati”, che i padroni saranno costretti a trattare con le future nuove organizzazioni sindacali di classe.
Anche il nuovo ostacolo posto alla rappresentanza sindacale in azienda, se in un primo tempo potrà essere d’ostacolo ai sindacati di base e ad ogni nuovo organismo di classe, successivamente ne favorirà il corretto instradamento verso una organizzazione territoriale dei lavoratori, fuori e al di sopra dei confini aziendali, che sono la morte della lotta di classe, come nella tradizione delle originarie gloriose Camere del Lavoro d’inizio Novecento.
Sarà lo sviluppo della lotta di classe per la difesa delle condizioni elementari di vita dei lavoratori, intorno alla chiave di volta della difesa del salario, a distruggere questa nuova barriera rendendo l’accordo inservibile ed inutile per gli stessi padroni.
Per concludere: rimedio peggiore del male è quello indicato dall’USB, che sostiene la necessità che il parlamento vari una legge sulla rappresentanza. Questo significa calpestare l’ABC della lotta di classe, che insegna che leggi e diritto sono lo specchio dei rapporti di forza fra proletariato e borghesia. Se i lavoratori oggi hanno ingoiato un simile accordo, una legge non potrà che sortire effetti peggiori, sia nel contenuto sia per il carattere maggiormente impositivo della legge rispetto ad un accordo fra le parti.
Ma anche quando una legge esprimesse rapporti di forza favorevoli
alla
classe lavoratrice pensarli così garantiti per sempre è
una illusione
riformista: i padroni, quando ne avessero la forza, prima aggirerebbero
la legge, poi la cambierebbero. La lotta e l’organizzazione per la
lotta
sono la sola arma che i lavoratori hanno a loro difesa.