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Il proletariato in Ucraina ha da lottare contro entrambi i fronti imperialisti russo e occidentale e per la internazionale rivoluzione comunista di domani
Lo scontro tra Russia, Stati Uniti d’America, Germania e altri predoni per spartirsi le ricchezze dell’Ucraina sarà contro il proletariato ucraino, che ha la prospettiva di anni di miseria e di accresciuto sfruttamento, ma anche contro le classi lavoratrici dei paesi occidentali e di Russia, che rischiano tutte di trovarsi coinvolte in una guerra imperialista della quale sarebbero le prime e maggiori vittime.
La spietata lotta di potere tra diversi gruppi di capitalisti, che fanno capo agli Stati di Washington come di Mosca, di Berlino come di Varsavia e di Kiev, è solo il riflesso in Ucraina dell’acuirsi dello scontro tra le maggiori potenze economiche e militari del Mondo. La causa è la crisi di sovrapproduzione che sta aggredendo il sistema capitalistico dal suo interno e sconvolge ogni equilibrio e consumata ideologia borghese, con i suoi secolari menzogneri miti di progresso e di coesistenza, di pace.
Questa crisi, che cade giusto ad un secolo dallo scoppio della prima guerra imperialista mondiale, dimostra che il capitalismo, in tutti i paesi, è ormai una società in putrefazione e che è storicamente matura e aperta la strada al comunismo. Ma per sbarrare questa strada occorre distogliere la classe operaia mondiale dalla coscienza della propria enorme forza e del proprio destino e impedire così la sua internazionale scesa in lotta rivoluzionaria.
Gli scontri di piazza a Kiev e in altre città ucraine hanno portato alla caduta del governo Yanukovitch, sostituito con uno ugualmente borghese. Ma il nuovo governo, come il precedente, non può che prendere atto che lo Stato capitalista ucraino ha un enorme debito nei confronti dei grandi strozzini imperialisti, debito le cui conseguenze gravano sulle classi lavoratrici, messe al freddo e alla fame.
Per questo il governo soffia sul nazionalismo, per cercare di far dimenticare al proletariato i suoi problemi reali, il salario, il lavoro, la casa. Allo stesso scopo antiproletario e imperialista il governo di Mosca diffonde una uguale infame propaganda tra i proletari russi e tra quelli di origine russa delle regioni orientali e della Crimea!
La difesa della propria nazione, della propria razza, della propria religione sono le parole che la borghesia, tramite i suoi servi nei media, nei partiti e nei sindacati, diffonde tra i proletari perché vedano un nemico nel loro fratello straniero. Sono le bandiere ingannevoli per dividerli e per impedire la loro unione nella lotta sindacale oggi e comunista rivoluzionaria domani. Le rivolte di piazza a Kiev e in altre città ucraine dimostrano come le “sacre” bandiere e parole di patria non siano ormai solo che strumenti utilizzati dagli Stati borghesi per la propaganda di guerra.
Per questo, forse, il proletariato ucraino istintivamente si è tenuto alla larga dalle piazze inneggianti al patriottismo, vuoi “filo-russo” vuoi “filo-europeo”. Il proletariato non ha nulla a che spartire con la propria borghesia, con i padroni, con gli “oligarchi”, sia che vestano i colori della democrazia e dell’Europa, sia che cerchino la protezione dell’orso russo. Deve rifiutare ogni solidarietà con la propria borghesia e con le mezze classi e puntare alla propria organizzazione autonoma e indipendente di classe.
Ogni energia del proletariato vada alla ricostituzione degli strumenti indispensabili per la sua emancipazione, un vero e combattivo sindacato di classe, il partito comunista, internazionalista, rivoluzionario.
NO alla difesa delle patrie - PER la difesa proletaria di classe!
NO alla guerra tra gli Stati - PER la guerra internazionale tra
le classi!
L’Ucraina coi i suoi 603.700 Kmq è un po’ più grande della Francia. Con la sua vasta pianura centrale bagnata dal Dniepr e la sua terra nera molto fertile, è un grande paese agricolo e un grosso esportatore di cereali, principalmente mais. Nel 2011 la Francia ha prodotto 64 milioni di tonnellate di cereali e l’Ucraina 51 milioni. Per il 2013-2014 si prevede che l’Ucraina ne potrebbe esportare 28 milioni di tonnellate.
L’Ucraina confina a est con la Russia, a nord con la Bielorussia, a ovest con la Polonia, la Slovacchia, l’Ungheria e la Romania, a sud col Mar Nero. Occupa uno spazio geostrategico importante facendo da cuscinetto tra la Russia e l’Europa centrale e serve da testa di ponte, con la Crimea, per l’accesso marittimo al Mediterraneo.
Dopo lo smembramento dell’Impero russo, la vecchia URSS, nel dicembre 1991, dovuto alla crisi del capitalismo russo, le repubbliche di Russia, di Ucraina, degli Stati Baltici ecc., hanno costituito degli Stati indipendenti. È necessario sottolineare che, contrariamente alle aspettative americane che prevedevano lo smembramento dell’URSS a partire dagli Stati musulmani del meridione russo, trattati come vere e proprie colonie, sono gli Stati ricchi, Russia, Ucraina, Paesi baltici, che hanno voluto e organizzato la separazione. Il sistema di perequazione delle ricchezze all’interno dell’URSS in favore delle repubbliche più povere era divenuto troppo pesante per loro.
La terribile crisi di sovrapproduzione che colpì le economie di tutti questi Stati prima del 1998 ha causato una caduta della produzione industriale e agricola. In Russia la produzione industriale si ridusse del 56% superando per profondità la crisi che dal 1929 al 1932 colpì gli Usa (-43%)!
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La crisi ha provocato una forte emigrazione: la popolazione, che aveva raggiunto i 52.179.210 abitanti nel 1993 è scesa regolarmente negli anni successivi per arrivare ai 45.593.300 nel 2012. Questo dimostra la durezza della crisi e delle sofferenze che la popolazione ha dovuto sopportare. Per il proletariato e le classi medie è stato come essere in guerra.
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Però tra il 2000 e il 2008 l’Ucraina, proprio come la Russia e i Paesi baltici, ha profittato dell’afflusso di capitali che non trovavano da essere impiegati in Europa occidentale e in America del Nord, riuscendo così a modernizzare la sua industria e la sua agricoltura.
Attualmente l’Ucraina possiede una solida base industriale, soprattutto manifatturiera e mineraria, con una manodopera altamente qualificata, ma con salari che fanno concorrenza a quelli degli operai cinesi. I suoi principali prodotti di esportazione sono i prodotti siderurgici, soprattutto le tubazioni per il trasporto di gas e petrolio; i prodotti dell’industria meccanica, come i motori per aerei ed elicotteri, una industria che è vitale per la Russia e la Cina; i prodotti chimici, dal carbon coke ai fertilizzanti, all’acido solforico ecc; le armi, esportate soprattutto verso la Cina.
L’Ucraina ha approfittato di questo periodo per modernizzare la sua agricoltura e privatizzare i kolkos, questi centri di conservatorismo sociale, ed è così divenuta una grande esportatrice di cereali. Nel 2012 le sue esportazione verso la Russia sono state di 17,61 miliardi di dollari e verso l’Unione europea di 17.06 miliardi, valori pressoché ugualmente ripartiti.
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La recessione mondiale del 2008-2009 ha colpito duramente l’Ucraina. La produzione industriale è dapprima caduta del 5% nel 2008, del 22% nel 2009: del 27% in due anni. A questo va aggiunto un cronico deficit del commercio con l’estero che è andato aumentando a partire dal 2005. Questo è stato aggravato dal tentativo delle autorità economiche ucraine di mantenere la moneta nazionale, la Hryvnia, ad un livello elevato di cambio. Dopo il 2009 la Russia ha posto fine alla politica del “prezzi fraterni” e vende il suo gas al prezzo di mercato internazionale espresso in Dollari. Le imprese e le banche si sono fortemente indebitate in divise straniere – Dollari ed Euro – e la metà del debito pubblico è anch’esso formulato in Dollari. Per non appesantire il debito e la fattura del gas, la Banca centrale ucraina mantiene ad un livello elevato la parità della moneta nazionale con la divisa statunitense, proprio come l’Argentina che, prima della crisi del 2001, fissava la sua moneta sul Dollaro. Questa politica monetaria di mantenimento della moneta ucraina ad un tasso di cambio elevato è sfavorevole alle esportazioni, soprattutto in questo periodo di recessione a livello mondiale, ed è costoso in divise estere.
Dopo una forte ripresa nel 2010 e nel 2011, la seconda recessione internazionale ha causato in Ucraina una nuova flessione della produzione industriale nel 2012 e nel 2013, con una caduta dei profitti per le imprese e le banche. Dopo l’uscita dalla recessione degli Stati Uniti alla fine del 2013, con l’annuncio da parte della FED di un arresto progressivo del quantitative easing (dal settembre 2012 la FED raccoglie ogni mese 85 miliardi di dollari di ipoteche immobiliari e di buoni del tesoro per mantenere bassi i tassi d’interesse, questo rende il denaro poco caro e abbondante) e dopo l’annuncio della ripresa economica dell’Unione europea, i capitali abbandonano i paesi emergenti, i BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) per tornare in America del Nord e in Europa, facendo andare a fondo le divise di questi paesi e provocandovi recessione. Anche l’Ucraina, come la Russia, sta subendo questa dinamica.La Banca centrale ucraina nel 2013 ha speso decine di miliardi di dollari per mantenere la parità della sua moneta e questo ha esaurito le sue riserve. Dopo l’inizio dell’anno, malgrado questi interventi e le restrizioni drastiche sui movimenti di capitali, il corso della Hrvynia si è abbassato del 10%. La svalutazione della moneta favorisce le esportazioni e frena le importazioni, rendendo però più gravoso il debito calcolato in dollari o in euro.
Il corso del capitale, delle sue monete e dei suoi mercati, come ha dimostrato il marxismo, è totalmente incontrollabile e sfugge al controllo degli Stati. Tutto il corso storico del capitalismo russo – con il finale smembramento dell’URSS, mettendo un punto finale alle vanterie della controrivoluzione staliniana sul preteso controllo dell’economia da parte dello Stato – ha ampiamente confermato questo aspetto del capitalismo, e la crisi attuale dell’econimia mondiale, apportatrice di miseria, lo dimostra in maniera ancora più tragica.
Il risultato della politica dei cambi in Ucraina, malgrado un tasso di indebitamento pubblico relativamente basso – 43% del Prodotto Interno Lordo nel 2012 contro il 90% della Francia e il 127% dell’Italia – è che le imprese non riescono più a finanziarsi sul mercato internazionale. I tassi di interesse sulle obbligazioni pubbliche a breve termine, che ancora un mese fa erano al 5%, sono passati in una settimana al 35%. Quelli a scadenza decennale hanno raggiunto l’11,3% contro l’8,5% in gennaio. Le riserve in divisa estera della Banca centrale si sono molto ridotte e il deficit dello Stato, a causa della recessione, ha raggiunto circa il 55% del PIL. In una parola lo Stato ucraino è sull’orlo del fallimento e del blocco dei pagamenti.
Secondo il Ministro delle Finanze ad interim, Iuri Kolobov, l’Ucraina deve far fronte a 12 miliardi di Dollari di indebitamento nel 2014: 4 miliardi sono dovuti dalla Banca centrale ucraina al Fondo Monetario Internazionale, circa 2 miliardi sono costituiti da titoli e obbligazioni in Euro emessi dallo Stato e il resto è rappresentato dalle fatture del gas dovute dalla Compagnia pubblica russa del gas Naftogaz. Secondo lo stesso ministro, l’Ucraina per far fronte ai suoi obblighi, avrebbe bisogno per il 2014-2015 di 35 miliardi di dollari, cioè di circa 25,5 miliardi di Euro.
L’Ucraina ha dovuto fare appello per due volte al FMI. La prima volta, sotto il governo Yuchtchenko-Timochenko, nel novembre 2008, era stato raggiunto un accordo che prevedeva un prestito di 16,4 miliardi di dollari; la seconda volta nel 2010, sotto il governo di Viktor Yanukovitch un secondo accordo prevedeva un prestito di 15 miliardi di dollari. Tutti questi accordi prevedevano una serie di misure, tra cui la soppressione delle sovvenzioni alle fatture del gas per le imprese e per i privati. Ma ogni volta il governo non aveva poi applicato queste misure che, in una situazione di crisi economica, sarebbero risultate esplosive. Il FMI aveva di conseguenza cessato i suoi versamenti nel giro di qualche mese.
La crisi in corso
Per la sua situazione geografica e i suoi legami commerciali, l’Ucraina si trova in mezzo tra il grande “fratello” russo e l’Unione Europea. Proprio come la Polonia e i Pesi Baltici la borghesia ucraina vorrebbe far parte dell’Unione Europea nella speranza di attirare gli investimenti che sono necessari alla sua economia ed avere un accesso più facile al mercato dei capitali. Da parte sua l’Unione Europea, in questa situazione di saturazione mondiale dei mercati, non può che augurarsi una più grande apertura del mercato ucraino e le multinazionali europee, inglesi, tedesche, francesi o italiane, non possono che attendere con impazienza la possibilità di investire a condizioni vantaggiose in un paese che ha una solida base industriale con tecnologia di punta nei settori dell’elettronica e nel settore militare e soprattutto dispone di una manodopera altamente qualificata con dei salari a livello di quelli cinesi. Questa integrazione, o più semplicemente questo avvicinamento, con un prestito chiavi in mano di 20 miliardi di dollari come aveva prospettato l’Unione Europea, ha però una condizione: una ristrutturazione economica, duri tagli alla spesa pubblica, tra cui soprattutto la soppressione delle sovvenzioni per il consumo del gas e, forse più facile da ottenere, un sistema giuridico conforme ai bisogni degli affari, cioè trasparente, funzionante e non arbitrario.
Dall’altro versante, l’imperialismo russo vede di cattivo occhio questo avvicinamento. Di fatto la integrazione nell’Unione Europea condurrebbe alla integrazione del paese nella NATO. Questo vorrebbe dire che la Russia si ritroverebbe le forze NATO alle frontiere, il che metterebbe in serio pericolo la Crimea, con l’importante base di Sebastopoli. Per questo la Russia ha usato col presidente Yanukovitch la carota e il bastone pur di impedire l’avvicinamento all’Europa; il bastone è consistito nella minaccia di tagliare gli approvvigionamenti di gas e di aumentare i dazi doganali su tutte le importazioni ucraine, anche se in contraddizione con le regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, di cui la Russia fa parte ormai da due anni; la carota è la prospettiva di un prestito di 15 miliardi di dollari, senza condizioni, e la diminuzione di un terzo del prezzo del gas. Tra il bastone e la carota il governo Yanukovitch non ha esitato molto.
Il seguito è noto: davanti alle speranze deluse di una parte delle classi medie, tra cui i piccoli imprenditori, con il sostegno discreto di una parte degli oligarchi che fanno i loro affari con l’Europa, e sicuramente grazie all’opera di agitatori professionali finanziati dall’imperialismo europeo o statunitense – come fa oggi l’imperialismo russo in Crimea e in alcuni regioni dell’Ucraina orientale – fu occupata Piazza Majdan a Kiew e dopo due o tre mesi di scontri con la polizia e le forze speciali, il governo è caduto, come durante le primavere arabe in Tunisia e in Egitto.
Come in altre regioni del mondo, la crisi mondiale del capitalismo ha messo le classi in movimento, ma a differenza della Tunisia e dell’Egitto, dove il proletariato ha avuto un ruolo importante, soprattutto attraverso una rete di organizzazioni sindacali che hanno saputo organizzare scioperi duri e prolungati, il proletariato in Ucraina è stato completamente assente. Un certo numero di proletari ha certamente preso parte alle manifestazioni ma era disperso nella massa dei manifestanti e non si è distinto in nulla rispetto alle rivendicazioni puramente borghesi di Piazza Majdan. La grande massa del proletariato ha sicuramente compreso in maniera istintiva che non c’era da aspettarsi nulla di buono né dall’una né dall’altra delle parti in lotta.
I piccoli Stati, soprattutto quando sono in difficoltà, diventano facili prede dei grandi Stati imperialisti. Chi si mangerà l’Ucraina, la Russia o, attraverso l’Unione Europea, gli Stati Uniti?
La Russia non ha i mezzi economici per assorbire l’Ucraina e non può impedire il suo avvicinamento all’Europa. La Russia di oggi non ha più nulla a che vedere con la vecchia URSS che si spartiva il dominio del pianeta con gli Stati Uniti. Quanto pesa oggi la Russia senza l’Ucraina, i Paesi Baltici e l’Europa centrale? Se prendiamo la produzione di elettricità come riflesso della potenza industriale, all’ingrosso, prendendo i dati del 2007, prima della grande crisi del 2008-2009, il suo peso mondiale sarebbe vicino al 5% contro un 22% degli Stati Uniti d’America e un 16% della Cina. La Germania con lo stesso criterio peserebbe circa per il 3%. La Russia è dunque una grossa Germania con i denti a forma di ogive nucleari, ma una grossa Germania né più né meno. In nessun caso può pretendere di rivaleggiare con gli Stati Uniti come fu in passato.
Il vero avversario degli Stati Uniti è rappresentato dalla Cina. La borghesia cinese si prepara a prendere il posto dell’imperialismo americano. Essa conta sul tempo: con ritmi di crescita industriale del 5-6% (anche se quelli ufficiali sono del 9-10%), conta di raggiungere e di sorpassare gli Stati Uniti e di produrre più armi di loro. Quello che la borghesia cinese dimentica, come tutte le borghesie, è la crisi di sovrapproduzione. Una formidabile crisi di sovrapproduzione minaccia infatti la Cina, una crisi la cui intensità sarà almeno uguale a quella del 1961-62, se non superiore. Il problema non è se la crisi avrà luogo ma quando. Alla fine del ciclo attuale che si prevede per il 2017 o più tardi, o prima addirittura? In tutti i casi questa gigantesca crisi di sovrapproduzione sarà il punto di partenza di una crisi deflattiva mondiale di una intensità superiore a quella del 1929.
L’intervento militare della Russia in Crimea e le sue minacciose manovre ai confini orientali dell’Ucraina, sono la prova della sua debolezza. Gli Stati Uniti stanno reagendo inviando una nave da guerra nel Mar Nero e rafforzando le difese aeree in Polonia ma non fanno pressione su altri teatri operativi, come la Siria ad esempio. Questo dimostra due cose.
La prima è che le condizioni per un terzo conflitto mondiale, malgrado gli allarmi che arrivano dall’Estremo Oriente (qualche settimana fa navi da guerra cinesi hanno sparato contro navi da pesca filippine; in effetti la Cina rivendica come sua zona di influenza tutto il Mare della Cina e tutto il relativo spazio aereo), dal Medio Oriente e ora anche dall’Europa, non sono ancora mature, prima ci sarà una grande crisi economica mondiale che riporterà il proletariato sulla via della lotta di classe; in seguito si porrà l’alternativa: terza guerra mondiale o rivoluzione comunista internazionale.
La seconda è che gli Stati Uniti per ora non contano sulla forza militare per piegare la Russia ma su un’arma altrettanto potente, quella del capitale finanziario. È la stessa arma che Washington usò nel 1956 dopo l’intervento militare anglo-francese al Cairo e a Suez: i due alleati si credevano ancora i padroni del mondo ma sotto la pressione finanziaria statunitense dovettero rapidamente fare i bagagli e tornare a casa, anche se sul terreno la conquista era stata evidentemente facile. Si può ben immaginare la rabbia della borghesia francese e i suoi sentimenti anti americani di allora.
Oggi la Russia non soltanto subisce la crisi internazionale ma deve anche far fronte, come gli altri Paesi emergenti, ad un riflusso dei capitali. Bisogna inoltre considerare che la produzione industriale ha ristagnato nel 2013 e che per il 2014 si annuncia addirittura una recessione. «La Russia ha segnato l’anno scorso una crescita di appena l’1,4% del PIL (contro il 3,4% nel 2012, lontano dal 7% del decennio 2000 e del 5% promesso dal presidente Putin nel 2012) e le autorità speravano di ottenere un rimbalzo al 2,5% nel 2014. La Banca centrale ha già rinunciato, rivedendo al ribasso le sue previsioni: meno del 2% all’anno fino al 2016 almeno. Le cause sarebbero, notoriamente, lo scarso entusiasmo degli investitori esteri, in mancanza di una reale diversificazione industriale, di programmi concreti di privatizzazione, di un buon clima per gli affari e di un sistema giudiziario trasparente» (“Les Echos” del 4 marzo 2014).
Questa situazione provoca una svalutazione del Rublo, oggi aggravata dalle sparate militari della Russia: dopo l’annuncio di un possibile intervento militare in Ucraina l’Euro ha superato la soglia simbolica dei 50 Rubli, cosa mai vista, e il Dollaro ha superato il suo record del 2009 con 36,85 Rubli per un Dollaro. La Banca centrale per contrastare questa dinamica ha dovuto inopinatamente aumentare il tasso di riferimento, il tasso che regola gli scambi interbancari, dal 5,5% al 7%.
In caso di embargo sugli investimenti in Russia, come ha minacciato il Segretario di Stato americano John Kerry, il capitalismo russo sarebbe danneggiato duramente. Un certo numero di banche rischierebbe sicuramente il fallimento. Così, con un gesto di distensione, Putin ha fatto arrestare le manovre militari alle frontiere con l’Ucraina.
Non c’è dubbio che negoziati sono in corso. Cosa vuole l’orso russo? Dare sicurezza alla propria base navale in Crimea, che l’Ucraina non entri nella NATO e dunque nell’Unione Europea e che il governo di Kiev non sia dichiaratamente antirusso.
Su questo ultimo punto tutti i governi dell’Ucraina, compresi quelli che sembrano più filooccidentali, si sono mostrati molto pragmatici e coscienti della realtà geopolitica. È stato così quando la stella della “rivoluzione arancione” Iulia Timochenko era primo ministro e passava per essere filo occidentale. È lei che ha negoziato con la Russia quel nuovo contratto del gas che in seguito sarebbe stato considerato da Yanukovitch, il presidente deposto che si è rifugiato in Russia, troppo favorevole ai russi.
Per quanto riguarda l’integrazione dell’Ucraina all’Europa, quello che l’Unione Europea ha proposto fino ad ora, è un partenariato. Al contrario se la Crimea dovesse essere acquisita con la forza, come sembra, non c’è alcun dubbio che, a medio o a lungo termine l’Ucraina sarà integrata all’Europa e alla NATO.
Ma né l’Europa né la Russia possono sopportare una Ucraina fallita, perché questo comporterebbe dei problemi ad entrambe. Se l’Ucraina cesserà di pagare le rate del debito le banche pubbliche russe, che hanno pesantemente investito in Ucraina, subirebbero conseguenze gravissime. Su questo punto europei e russi hanno interesse a trovare un accordo.
Il mezzo di ritorsione della Russia è il gas ma ha dei limiti perché rischia di ammazzare la gallina dalle uova d’oro. La Russia non può continuare a lungo ad usare l’arma del gas. La produzione di gas dagli scisti negli Stati Uniti ha rivoluzionato il mercato dei prodotti energetici. Diventando indipendenti dal punto di vista energetico e grossi esportatori di carbone, gli Stati Uniti hanno fatto abbassare il prezzo dell’energia e obbligato i loro antichi fornitori a trovare altri sbocchi. D’altra parte la possibilità di liquefare il gas naturale ne permette il trasporto per lunghe distanze. L’Europa consuma attualmente 485 miliardi di metri cubi di gas all’anno, di cui 160 miliardi provengono dalla Russia, ma da qui a 10 anni buona parte di questo gas sarà sostituito dal GNL (Gas Naturale Liquefatto). Se la Russia dovesse interrompere adesso le sue forniture di gas, cosa che avrebbe riflessi negativi sulla stessa economia russa, l’Europa potrebbe approvvigionarsi in Qatar, in Australia o in Canada.
Sempre sulla questione del gas, il deposto governo di Yanukovitch aveva fatto di tutto per ridurne il consumo e l’acquisto dalla Russia che lo forniva ad un prezzo superiore a quello di mercato. Aveva fatto sostituire nelle centrali termiche che producono l’elettricità il gas con il carbone, che è prodotto in Ucraina, e ha perfino importato gas dalla Germania. Con questi sistemi era riuscito a ridurre il consumo di gas dai 54 miliardi di metri cubi del 2011 ai 45 miliardi del 2012 e aveva ridotto la dipendenza dalla Russia acquistando nel 2012 solo 34 miliardi di metri cubi da Mosca. D’altra parte all’inizio del 2012 il governo ucraino ha firmato due contratti per lo sfruttamento di due giacimenti di gas dagli scisti che potrebbero fornire ciascuno, secondo stime dello stesso governo, tra gli 8 e i 10 miliardi di metri cubi di gas all’anno. Quanto agli Stati Uniti essi accelerano la costruzione di terminali per l’esportazione di GNL. Esportazione che potrebbe essere rivolta proprio verso paesi come l’Ucraina.
In questo braccio di ferro, fino a dove vogliono spingersi gli americani? Organizzeranno un embargo degli investimenti in Russia nel caso in cui questa si rifiutasse di lasciare la Crimea? La Cina, che fino ad ora ha moderatamente sostenuto la Russia, potrebbe allora intervenire in aiuto di Mosca. Ma questo “aiuto” avrebbe il suo prezzo: la borghesia cinese presterà i suoi capitali a condizione di far man bassa sulle risorse minerarie della Siberia e sulla tecnologia di punta della Russia. Gli Stati Uniti, da parte loro, dovranno convincere la City, che ricicla una parte della rendita russa generata dalla vendita del gas e del petrolio, a partecipare all’embargo. Ma gli Stati Uniti possono avere interesse a non colpire troppo a fondo la Russia per non ritrovarsi da soli ad affrontare la Cina.
Non si possono fare che delle supposizioni, ma è sicuro che non uscirà mai alcuna soluzione positiva da tutti questi mercanteggiamenti tra Stati imperialisti; al contrario essi servono solo ad imputridire ulteriormente la ferita, basta ricordare quanto è successo a Cipro.
In tutti i casi il proletariato ucraino non ha niente da aspettarsi dall’uno o dall’altro campo, solo lacrime, sangue e precarietà. Se si confermasse una ripresa industriale a scala mondiale nei grandi paesi imperialisti, essa sarebbe molto moderata e si farebbe solo a prezzo di un maggiore impoverimento e più grave precariato dei lavoratori, tanto nell’industria quanto nei servizi. In Giappone il 30% della forza lavoro è già precario e povero, in Germania il 20%, in Francia il 15% secondo dati del 2010 e non c’è dubbio che questa percentuale sia aumentata negli ultimi mesi.
La borghesia europea ha ben presente che non può applicare all’Ucraina le brutali ricette che ha imposto a Grecia e Spagna; sarà obbligata ad usare metodi meno drastici, ma sarà sempre il proletariato ucraino a pagarne il costo. Ecco cosa ha dichiarato in una intervista Erik Berglof, economista in capo della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo: «Un paese come l’Ucraina, che ha una economia diversificata e una forza lavoro educata, deve fare degli sforzi per suscitare fiducia negli investitori». Molto chiaro.
Queste tensioni militari crescenti, in mar della Cina, come in Medio Oriente o in Europa, sono le premesse della futura guerra mondiale, verso la quale gli Stati imperialisti sono spinti dalla crisi del capitalismo mondiale. Quando le condizioni saranno mature basterà una scintilla per dar fuoco alle polveri. Sarà un disastro se i primi missili partiranno e il proletariato non sarà capace di fermare la guerra con la sua azione di classe, o la fermerà troppo tardi, come nella Prima Guerra mondiale.
Se la guerra dovesse scoppiare prima della rivoluzione la trasformazione della guerra imperialista in guerra civile sarà difficile, ma non impossibile. Al contrario, se la terza guerra mondiale dovesse arrivare al suo termine, non soltanto il pianeta verrebbe ridotto ad un campo di desolazione e di rovine, con forse un miliardo di morti, ma ci sarebbero tutte le condizioni, col proletariato schiacciato dalla miseria e dalla fame, perché il capitalismo possa ricominciare un altro ciclo di accumulazione. Il centro di gravità economica sarebbe spostato nel Pacifico mentre la vecchia Europa, che non avrà saputo arrivare al comunismo, non avrebbe che da andare in pensione.
Venezuela
La piccola borghesia alza le barricate
Lo Stato si predispone per combattere
la classe operaia
Lotta alla “speculazione” risorsa
del governo borghese
Nello scorso novembre il governo del Venezuela aveva preso una serie di provvedimenti contro le imprese commerciali che “speculano” e contro gli “usurai”.
Quel governo, smascherato da tempo dall’analisi marxista, si proclama socialista ma, con Cuba, la Cina e altri, è semplicemente una delle espressioni del riformismo al potere, e gestisce gli interessi della borghesia, utilizzando discorsi ad effetto pseudo-rivoluzionari.
Stavolta “denunciava” che “da diversi mesi” era in corso “una guerra economica” mossa dagli oppositori politici al chavismo, in collaborazione con il governo degli Stati Uniti. Questa presunta guerra avrebbe perseguito l’obbiettivo di peggiorare le condizioni di vita della popolazione così da provocare la riduzione della base elettorale del chavismo e in favore dell’opposizione alle elezioni municipali dell’8 dicembre.
All’origine della questione è che in Venezuela attraverso la Commissione Cambi Esteri si possono acquistare bolivares alla parità imposta di 6,30 per dollaro. È così sorto un traffico di bolivares “pesanti” cambiati in dollari per importare beni, poi venduti sulla base del cambio reale di 40/60 bolivares per dollaro. I commercianti ovviamente hanno così iniziato ad alzare assai i prezzi. Secondo i dati della Banca Centrale, in tutto il 2013 in Venezuela è stata registrata l’inflazione più alta del mondo: più del 50%.; ma a novembre per alcuni beni è stata fino al 1000%. I prezzi degli elettrodomestici, dei ricambi auto, dei cellulari e molte altre merci salivano senza controllo da un giorno all’altro.
Il tasso di cambio applicato in Venezuela, come in Argentina, è un meccanismo per mezzo del quale il governo ha sovvenzionato gli importatori con i dollari generati dal petrolio. Si tratta di una misura palliativa per frenare l’effetto dell’inflazione. Per raggiungere il pareggio di bilancio il governo venezuelano, con parziali svalutazioni è riuscito a incamerare nominalmente più bolivares per ogni dollaro proveniente dalla vendita del petrolio e dei derivati. Ma ad ogni svalutazione è aumenta la moneta circolante, cresciuta l’inflazione e i prezzi dei beni di prima necessità. Il governo ha cercato di scaricarne la responsabilità su di un “complotto” dell’opposizione.
Intanto si diffondevano, da una parte, una scarsità di vari prodotti di prima necessità (latte, olio, farina di mais, carta igienica, zucchero, ecc.), dall’altra aumenti dei prezzi della carne e di altri prodotti.
Il governo ha reagito con una campagna contro il contrabbando e l’accaparramento dei beni alimentari. E, mettendola “in politica”, ha proclamato che tutto ciò faceva parte di una “guerra economica”, paragonata a quanto avvenne in Cile durante il governo Allende. Ha quindi presentato all’Assemblea Nazionale una legge delega che gli consentirebbe di agire contro la “corruzione” e contro la “guerra economica”.
Già nel 1984 il presidente Jaime Lusinchi del Partito di Azione Democratica, aveva sollecitato il Congresso della Repubblica (oggi Assemblea Nazionale) ad approvare una legge delega per poter rapidamente legiferare su questioni economiche e “contro gli speculatori”, in un paese anche allora in preda di una crisi economica e di squilibri finanziari. Come si vede le misure sono simili e dimostrano, non solo la ciclicità delle crisi economiche capitalistiche, ma che i differenti governi borghesi, siano essi di destra, centro o di sinistra, attingono ad una unica gamma di reazioni e non possono proporre ne tanto meno attuare soluzioni risolutive, contemplate esclusivamente nel programma della rivoluzione proletaria anticapitalistica.
Nel tentativo di difendere la sua immagine, nei mesi scorsi il governo “bolivarista” aveva già arrestato per corruzione un governatore ed un sindaco del suo Partito Socialista Unito.
La legge delega autorizza per 12 mesi il governo ad emanare decreti, sulle questioni indicate dall’Assemblea Nazionale. In questo caso nel segno della “lotta contro la corruzione” e della “difesa dell’economia”. Si tratta di ambiti che tutti i governi controllano: flussi di valuta estera, rafforzamento del sistema bancario, regolamentazione dei prezzi di alcune merci al dettaglio, difesa della stabilità economica ecc.; tutti governi che, nelle diverse situazioni contingenti, difendono il funzionamento dell’economia capitalistica.
Vero e falso in questa storia
È certo che effettivamente un gruppo di imprenditori venezuelani, coordinati con l’opposizione politica al chavismo, ha ridotto la produzione e la distribuzione dei prodotti con prezzo regolamentato, perché o ci stavano rimettendo o perché i margini di profitto erano troppo bassi. Questo ha condotto ad una mancanza di prodotti di largo consumo e si sono iniziate a vedere le code ai supermercati. È anche vero che i partiti dell’opposizione hanno sfruttato l’occasione per attaccare il governo di inefficienza e di politiche economiche errate.
Il falso sta nel negare le responsabilità del governo. I “bolivariani”, che si dicono socialisti, negano che il loro modello di capitalismo di Stato, il loro “socialismo del XXI secolo”, soffra delle malattie tipiche del capitalismo. E non poteva essere altrimenti perché in Venezuela vige l’economia capitalistica e nessuna delle misure proposte dal chavismo e del suo “programma per la patria” porterà ad un modo di produzione diverso da quello capitalista.
Infatti nemmeno le aziende nazionalizzate riescono a garantire l’offerta delle merci che dobrebbero produrre. Lo Stato controlla la produzione e la distribuzione del metano ad uso domestico, del cemento, gran parte della produzione di zucchero, il mais precotto, eppure tutti questi beni scarseggiano o si trovano solo a prezzi speculativi. E anche le aziende statali o non lavorano o lavorano in perdita.
Entrambe le fazioni della borghesia, governo e opposizione, hanno portato a questa situazione dove i prezzi dei prodotti e dei servizi di base sono in costante aumento e i salari subiscono un continuo arretramento, colpendo con questo la classe operaia ma anche la piccola borghesia impoverita. È questo il risultato della dinamica del sistema capitalistico, ed è chiaro che il governo, nonostante affermi il contrario, sta lì per garantire che in questa burrasca vengano protetti gli interessi della borghesia a scapito dei salariati e delle loro famiglie.
Infatti il chavismo si guarda bene da sollevare il problema dei
salari, dei quali gli aumenti concessi non compensano l’inflazione. Né
ha certo proposto la riduzione della giornata lavorativa. La politica
“bolivarista” ha illuso di poter mantenere un oscillante equilibrio fra
le necessità dei lavoratori e i profitti degli imprenditori, e questo
gli ha fruttato alle elezioni tanti sindaci e consiglieri. Ma in questa
oscillazione il governo favorirà sempre il padronato, anche se afferma
di porsi dalla parte dei “più”, dei “bisognosi”, degli “esclusi”.
Il governo “rivoluzionario” ha permesso questi traffici esattamente come i governi precedenti. Anche ora che si è “scoperta” la speculazione, si fa bene attenzione che i prezzi imposti non intacchino il “normale” profitto dei commercianti. Alla fine le misure “contro gli speculatori” si risolveranno in un nuovo attacco contro il proletariato e la classe media impoverita e a favore dei commercianti.
Bassa politica borghese
Ad un mese dalle elezioni comunali il governo ha cercato di mettere gli avversari sulla difensiva. Contro “corruzione” e “speculazione” e la “guerra economica” dell’opposizione ha mosso esercito e forze dell’ordine facendo arrestare vari commercianti, accusati anche di associazione a delinquere, perché vendevamo a prezzi interni merci acquistate all’estero con i dollari della Commissione Cambi. È stata imposta l’apertura dei negozi perché offrissero al “popolo” alcune merci con notevoli riduzioni di prezzo: dagli elettrodomestici, ai giocattoli, l’abbigliamento, calzature, auto e loro ricambi. Il governo si è così potuto presentare ai media come difensore dei lavoratori contro i “ladri borghesi e senza scrupoli” che rubano ai lavoratori.
Questo ha permesso al chavismo anche di colpire alcuni pezzi grossi della finanza facenti capo ai partiti dell’opposizione. Naturalmente il governo non ha toccato i “suoi” imprenditori e banchieri né ammesso che i suoi funzionari nelle istituzioni e nella stessa Commissione Cambi non solo non si sono mossi prima ma ne siano stati complici beneficiando di grosse mazzette.
La rendita del petrolio finisce sempre
alla borghesia
La rendita proveniente dallo sfruttamento del petrolio arriva alla borghesia per una strada che solo passa dalle casse dello Stato ma finisce negli stipendi alla sua burocrazia e istituzioni e negli investimenti nei programmi sociali e nelle opere pubbliche. Il restante va alle aziende per il pagamento di servizi e l’acquisto dei beni.
Le misure adottate dal governo venezuelano “contro gli speculatori” hanno fatto sì che le aziende abbiano potuto vendere più del previsto e più accedere alla loro parte di profitti.
Il governo, assimilati i lavoratori salariati a generici “consumatori”, e alla classe media impoverita, ne ha spostato il moto nel senso della conservazione, oltre che in un suo vantaggio elettorale. Si sono avuti alcuni aggiustamenti ai salari, che avrebbero dovuto difendere la capacità di acquisto dei lavoratori, ma subito finiranno nelle tasche dei banchieri e dei commercianti.
Ne è risultata gran folla nei negozi come mai prima. I commercianti hanno scambiato qualche percento di profitto con l’aumento del venduto. Nello stile del venerdì nero negli USA, è arrivata la “grande svendita”: con la parola d’ordine “non una famiglia venezuelana senza schermo piatto”, la massa della classe media impoverita e parte della classe operaia, dimenticata la difficoltà del rifornimento alimentare, è corsa a spendere i risparmi nell’acquisto di elettrodomestici, scarpe, ecc. Anche le banche hanno beneficiato della situazione con l’aumento delle richieste di prestiti. I grandi magazzini ed i negozi hanno venduto le scorte di tre mesi in due settimane con “lanci”, “sconti” e “offerte” di frigoriferi, lavatrici, cucine, televisori, stereo, videoregistratori...
Capitalismo puro e semplice
Forte della ormai inevitabile approvazione parlamentare della legge delega, il presidente Maduro ha annunciato un disegno di legge per “imporre” dei limiti ai margini di profitto che dovrà essere “fra il 10 e il 30 per cento”, a seconda del settore di attività. Impudentemente ha anche detto che con questa spacconata il Venezuela si starebbe incamminando “verso il socialismo”. Nessun obbligo alle aziende però di pagare un certo salario minimo o di non superare una certa giornata lavorativa.
Del resto i prezzi “giusti” imposti ai commercianti erano, nella maggioranza dei casi, quelli di ottobre, che già consentivano larghissimi margini di profitto. Il messaggio è chiaro: le aziende devono fare profitti ma non “speculare”. Sempre nel rispetto del santo profitto capitalista, il governo ha affermato di voler centralizzare le importazioni e la distribuzione degli elettrodomestici, tramite joint venture con multinazionali come Samsung e Mabe. Tutto ciò non costituirebbe altro che un rafforzamento dell’esistente capitalismo di Stato.
Nell’entusiasmo Maduro ha esclamato: «Mi voglio trasformare, e già mi sento, nel presidente operaio, protettore della classe media produttiva, della classe media onesta”. Tutta qui quella caricatura di “rivoluzione” che si chiama “bolivariana”, una amministrazione degli interessi della borghesia sotto le forme di una democrazia populista, atte ad allontanare le masse dei salariati dalle posizioni comuniste. Un politicantismo che vorrebbe guadagnare le simpatie della classe media e dei salariati mentre in realtà serve a rafforzare settori e aziende del capitalismo di Stato.
L’unica vera guerra in atto è quella della borghesia contro il proletariato, in tutto il mondo, con misure che cercano di ridurre il costo del lavoro e aumentare o mantenere il tasso di profitto. Contro la guerra economica della borghesia il proletariato prospetta la rivoluzione, l’unica vera rivoluzione: quella comunista.
La borghesia ed i suoi governi non possono arrestare l’inflazione né alcuno dei processi propri delle crisi capitalistiche. Non serviranno a nulla né le ricette neo liberiste, né keynesiane, né quelle riformiste e opportuniste, perché la crisi di sovrapproduzione e la caduta del saggio di profitto sono inarrestabili.
Barricate
A partire dalla seconda settimana di febbraio è poi iniziata una serie di proteste degli studenti universitari nell’ambito della campagna di mobilitazione “La Salida” (“Uscita”), indetta dai dirigenti dell’opposizione Maria Corina Machado e Leopoldo Lopez del partito Volontà Popolare. I partiti d’opposizione al chavismo hanno infatti una forte influenza fra gli universitari.
Proteste studentesche si sono avute, in città come San Cristobal, Maracaibo, Valencia e Caracas, nelle zone residenziali della piccola borghesia, bloccandone gli accessi e subito passate alla violenza. Sono state subito represse dalla polizia e dalla Guardia Nazionale.
Sul totale dei 335 comuni del paese, si sono avute proteste in 29, e in 17 violenze e barricate. In maggioranza si tratta di zone dove abita la borghesia. Finora le manifestazioni e gli scontri hanno lasciato almeno 18 morti e 261 feriti, secondo un rapporto del procuratore generale. I manifestanti hanno dato alle fiamme e preso a sassate auto, edifici pubblici ed in alcuni casi bruciato e saccheggiato negozi e sequestrato autobus per bloccare strade e viali (presumibilmente organizzati da gruppi militari).
Tra i motivi dichiarati dai dimostranti il malcontento e la violazione dei diritti civili, la cronica carenza dei prodotti di prima necessità, l’alto livello della violenza criminale e le interferenze di Cuba e del castrismo nella politica del Venezuela. La richiesta principale del movimento studentesco, che si dice “di resistenza”, è “cambiare il modello politico ed economico” e le dimissioni del presidente Maduro e del suo governo.
Contro le manifestazioni dell’opposizione il governo ha indetto una dimostrazione a Caracas e in altre città, dichiarando che in Venezuela sono pienamente rispettate le libertà civili e che le proteste sono parte di una strategia di colpo di Stato appoggiata dagli Usa, in alleanza con i settori della destra venezuelana, e accusando di fascismo i manifestanti ed i capi dell’opposizione. Il 21 febbraio il governo ha revocato ai canali internazionali NTN24 e CNN il permesso di trasmettere in spagnolo, restituendo poi le credenziali ai giornalisti della CNN.
La situazione sociale
In Venezuela il malcontento va crescendo tanto fra i lavoratori salariati quanto nei vari settori della piccola borghesia e dei contadini. Nel 2013, sebbene ancora montante, è stato contenuto grazie al controllo del chavismo e degli altri partiti istituzionali sulle masse lavoratrici e sugli strati di emarginati. Controllo che non è assoluto: né il governo né l’opposizione manovrano organizzazioni sindacali di massa con grossa capacità di mobilitazione. La forza di mobilitazione del chavismo si basa principalmente sul potere dello Stato, dei ministeri, sull’assistenza sociale e sulle imprese di Stato, che inquadrano le masse a seconda della contingenza. Il governo ha fondato alcuni sindacati ed associazioni per contrastare l’influenza dell’opposizione, che dirige le vecchie associazioni.
Il controllo dei partiti di opposizione sulle masse si basa sugli stessi strumenti, ma in misura ancora minore, visto che governano in pochi municipi e province. L’opposizione può contare su di una forte influenza fra gli studenti universitari, principalmente delle università private, e sulle politiche delle vecchie associazioni e sindacati, tutti ad orientamento padronale. Trovano il loro fondamentale appoggio nei media e nella finanza nazionale e internazionale.
Governo e opposizione rappresentano fazioni borghesi in lizza per il controllo dello Stato e per spartirsi la rendita del petrolio. E solo in difesa dei propri interessi si contendono il controllo del movimento delle masse. Nel loro scontro per il potere entrambi ricorrono ad una martellante propaganda sui media e cercano di intruppare le masse nei rituali e nel tifo elettoralesco: la droga della democrazia parlamentare funziona ancora per mantenere le masse sottomesse alla multicefala politica borghese.
Entrambi i fronti dispongono di forze paramilitari per provocare o dirigere o soffocare i conflitti. Il chavismo ha usato ed usa gruppi armati per intimidire i media, organizzare il crumiraggio negli scioperi, attaccare o rispondere agli attacchi. L’opposizione ha gruppi armati costituiti in parte da ex guerriglieri, da militari golpisti e, si presume, da paramilitari colombiani. Nel 2014 sono presenti tutti questi elementi, come le opposte bande apertamente dichiarano.
Nel 2013 il chavismo è riuscito ancora a prevalere alle elezioni nella maggior parte dei comuni, scaricando la responsabilità della crisi sui commercianti e sull’opposizione e rinviando una serie di provvedimenti anti-operai.
La popolazione si attendeva che, dopo le elezioni comunali del dicembre 2013, sarebbe cessata la carenza dei prodotti di prima necessità, che invece è continuata insieme ai problemi delle merci importate di contrabbando dalla Colombia, e sono continuate ovviamente le forti tensioni generate dal mercato nero col dollaro sovvenzionato. In questa situazione il governo ha difficoltà a rimandare ancora i necessari impopolari tagli economici.
Per questo, per trovare una via di uscita agli incendi e agli scontri di strada, rivolgendosi a quella classe media influenzata dalla destra radicale, il governo ha proposto l’apertura di uno spazio di trattativa, un “terreno di pace e di dialogo”, con imprenditori ed esponenti dell’opposizione. I chavisti, con la situazione sociale che preme, sono ben consapevoli della necessità della collaborazione delle forze dell’opposizione: il “tavolo per la pace” sarà lo schermo per nascondere le concordate misure antioperaie. La borghesia, che aveva già chiaro il piano delle misure da prendere anche prima della morte di Hugo Chavez, adesso preme per la loro rapida attuazione. Ma i dirigenti chavisti, che temono incontrollabili disordini sociali, insistono a coinvolgervi imprenditori e politici dell’opposizione. Questo patto è già in atto e vi si potrebbero aggiungere anche i settori della destra radicale.
In questo momento le proteste sembrano ridursi a barricate isolate nei quartieri della classe media. Quando debordano bloccando strade principali subito intervengono polizia e Guardia Nazionale. I cortei pacifici non hanno continuità, attuati per lo più dagli studenti (che in parte non ubbidiscono alle direttive dei partiti di opposizione). Pertanto, poiché i dirigenti delle proteste sono al “tavolo della pace”, il movimento è destinato all’impotenza.
Chi ci perde
Nel frattempo i lavoratori in Venezuela vedono i salari insufficienti per vivere, nonostante gli annunciati aumenti e gli sconti nei negozi. Si impone quindi la lotta per l’aumento dei salari, la riduzione dell’orario di lavoro e il miglioramento delle sue condizioni. I lavoratori devono denunciare uniti l’arresto dei dirigenti operai: la polizia, i militari, le carceri ed i tribunali sono sempre pronti a colpire le lotte proletarie, un reato previsto nei loro codici civili e penali. I lavoratori devono affrontare la politica antioperaia, sfruttatrice e repressiva del borghese governo chavista con lo sciopero e la mobilitazione, su posizioni politiche indipendenti da tutti i partiti parlamentari e che lo chiamano al voto una elezione dopo l’altra.
Le lotte rivendicative si trasformeranno in guerra rivoluzionaria, prevista nel programma comunista, la cui attuazione passa per l’intervento del partito nella lotta della classe, per la conquista del potere e l’instaurazione della dittatura del proletariato.
Nella nuova raggiunta società comunista non sarà necessario lottare per i “prezzi giusti”, perché verrà abolito il lavoro salariato, la moneta e lo scambio mercantile. La nuova società fornirà a ciascuno beni e servizi a seconda delle necessità senza l’intermediazione del denaro e del mercato.
LAVORATORI !
Zanussi-Electrolux, per decenni il secondo gruppo industriale in Italia per numero di dipendenti, è stata il simbolo di quel sindacalismo concertativo abbracciato definitivamente dalla CGIL dalla fine degli anni ’70 e fondato sul principio che gli interessi di azienda e lavoratori sono comuni e possono essere sempre conciliati a vantaggio di entrambi: il bene dei lavoratori sarebbe il bene dell’azienda e viceversa.
La conseguenza pratica di questo principio è che si dovrebbero condurre azioni di lotta che danneggino il meno possibile l’azienda perché, si sostiene, in caso contrario ne pagherebbero le spese i lavoratori.
In questi anni quindi, Fim, Fiom e Uilm non hanno contrastato i piani di ristrutturazione di Electrolux ma solo cercato di attenuarne l’impatto: li hanno accompagnati, svolgendo un’azione di consulenza all’azienda affinché i suoi piani non fossero brutali al punto da suscitare la reazione operaia.
Così hanno accettato la cessione delle fabbriche dell’indotto nel 2003; non hanno fermato la chiusura di Scandicci nel 2008; arrivata la crisi hanno avallato ulteriori riduzioni del personale a fronte dell’aumento dei ritmi, dei contratti di solidarietà, della cassa integrazione. I lavoratori del gruppo da 13.000 del 2000 sono passati a 3.900, lavorano a ritmi sempre più elevati, guadagnano sempre meno. Ogni accordo a perdere è stato presentato secondo la logica: stare peggio oggi per star meglio domani.
Si è così giunti a questo ultimo capitolo, con l’azienda che lo scorso gennaio ha chiesto altri esuberi, paventando la chiusura di Porcia, nuovi aumenti dei ritmi e il taglio del salario.
Quest’ultima pretesa aziendale ha stupito per la sua arroganza, suscitando la rabbia dei lavoratori, ma è facile capire che era uno spauracchio per ottenere ciò che realmente Electrolux vuole: la riduzione del costo del lavoro pagata dallo Stato, l’ulteriore riduzione dei dipendenti, l’aumento dei ritmi, l’avvio alla chiusura di Porcia.
Questo il senso del Piano B che in realtà è sempre stato il solo unico piano aziendale.
LAVORATORI DELLA ELECTROLUX !
Contro questo nuovo attacco vi siete mobilitati con determinazione in tutti e quattro gli stabilimenti. Fim, Fiom e Uilm hanno diretto e organizzato la vostra lotta coerentemente ai loro principi concertativi, con una azione che creasse disagio all’azienda senza danneggiarla troppo, con scioperi di un’ora e mezza e presidi che facevano uscire solo una quota parte della produzione. Appena Electrolux ha mostrato i denti, minacciando la vostra messa in libertà, i presidi sono stati allentati.
Quando all’incontro a Roma il 17 febbraio – assente il governo nel frattempo saltato – Electrolux si è detta disponibile – bontà sua! – a prendere i soldi dallo Stato per avere un costo del lavoro più basso, Fim, Fiom e Uilm hanno presentato questo come un cedimento dell’azienda e hanno ridotto ulteriormente le azioni. Fatto ancora più grave, hanno rotto la loro condotta unitaria della lotta – già debole – fra i quattro stabilimenti. A Solaro e Susegana sono stati fermati gli scioperi. A Forlì e Porcia sono stati ridotti a mezz’ora giornaliera. I presidi sono stati ulteriormente allentati, essendo aumentata la produzione in conseguenza della riduzione degli scioperi.
Questo, nonostante il millantato Piano B preveda per Porcia una quota di esuberi (432) e di investimenti tali da avviarla alla chiusura, altri esuberi a Susegana (329), Forlì (100) e Solaro (180), aumenti dei ritmi a Forlì e Solaro.
LAVORATORI DELLA ELECTROLUX !
La vostra lotta deve rigettare ogni pretesa aziendale su salario, ritmi ed esuberi, sia perché queste peggiorano le vostre condizioni sia perché accettarle significa indebolire ulteriormente la vostra forza. Electrolux ha in Italia ancora una importante quota della sua produzione e su questa base, con veri scioperi, è ancora possibile fermarla. In questa lotta dovete contare solo sulle vostre forze, non riponendo alcuna fiducia nei governi di ogni colore che sono sempre alleati degli industriali e che, se interverranno in vostro aiuto, sarà solo perché vi saranno costretti dalla vostra lotta.
La storia di Electrolux è emblematica del fallimento del sindacalismo concertativo. Gli effimeri risultati legati all’ottica aziendalista, attraverso i premi di produzione, hanno riguardato una cerchia sempre più ristretta di lavoratori del gruppo, sono stati pagati al prezzo della divisione dal resto della classe lavoratrice e da anni ormai, con l’economia capitalistica mondiale che affonda nella sua crisi storica, sono stati demoliti pezzo dopo pezzo.
La strada per tornare a difendersi efficacemente sta nell’abbandono dei principi e dei metodi del sindacalismo concertativo e nel ritorno al sindacalismo di classe. Questo significa organizzarsi per preparare veri scioperi, che blocchino tutta la produzione, a oltranza, costringendo l’azienda a cedere.
Un vero sindacato di classe prepara i lavoratori alla lotta, propagandandone la necessità e preparando i mezzi finanziari per affrontarla. I soldi del sindacato devono servire a dare un minimo sostegno economico ai lavoratori in sciopero, non a pagare strutture elefantiache.
Un altro aspetto fondamentale è far uscire i lavoratori dalla mentalità aziendale. L’unità dei lavoratori incomincia dentro la fabbrica ma si realizza superando i confini di stabilimento, di azienda e di categoria. La lotta alla Electrolux, per la sua importanza, deve coinvolgere più lavoratori possibile, organizzando per lo meno scioperi estesi a tutti i metalmeccanici nei territori coinvolti.
Invece, di fatto, nemmeno vi è una reale unità d’azione fra gli stabilimenti. La fabbrica di Valloncello non è mai stata coinvolta nella lotta! La manifestazione odierna è stata decisa dai delegati Fim, Fiom, Uilm dei soli stabilimenti di Porcia e Susegana ma boicottata – con l’assenso di Fim, Fiom e Uilm nazionali e territoriali – dalle RSU di Forlì, ad eccezione di una minoranza dei delegati FIOM, e Solaro, dove solo la Flmu CUB ha proclamato lo sciopero per l’intera giornata, organizzato la partecipazione alla manifestazione, unendosi all’iniziativa dei delegati di Fim, Fiom e Uilm di Porcia e Susegana e dimostrando in tal modo di saper guardare all’unità dei lavoratori oltre i confini di sigla sindacale.
LAVORATORI, COMPAGNI !
Alla Electrolux e in ogni altro posto di lavoro sta a voi stessi prendere in mano i vostri destini. Organizzatevi entro l’azienda in Comitati di lotta cui possano aderire tutti i lavoratori a prescindere dalla tessera sindacale e che prendano in mano la direzione della mobilitazione. Prendete contatto con i lavoratori e i delegati più combattivi di tutti gli stabilimenti Electrolux, compreso Valloncello, dell’indotto, delle altre aziende limitrofe in crisi e in lotta, per creare Coordinamenti territoriali dei lavoratori, come nella gloriosa tradizione delle originarie Camere del Lavoro, con l’obiettivo di unificare le lotte con scioperi comuni e di solidarietà il più estesi possibile.
L’UNIONE DEI LAVORATORI non è una formula vuota ma deve significare UNIONE NELLA LOTTA, NELLO SCIOPERO !
La nascita di questi organismi di lotta potrà essere la base di quella ORGANIZZAZIONE SINDACALE DI CLASSE che ancora manca e della quale sempre più hanno bisogno i lavoratori.
VIVA
LA LOTTA DEI LAVORATORI ELECTROLUX !
PER
LA RINASCITA DEL SINDACATO DI CLASSE !
Storia marxista dei modi di produzione | Succession of the forms of production in the Marxist theory |
Corso della crisi economica [ resoconto esteso ] | Course of the economic crisis in the realm of production and finance |
Economia marxista: storia dei modi di produzione | |
La questione militare: guerra russo-turca e guerre coloniali [ resoconto esteso ] | The military question |
Attività sindacale: L’accordo sulla “rappresentanza” | The party’s activity in the Trade Unions |
Fondamenti della questione nazionale | The national question and the history of Ireland |
Origini del movimento operaio in Italia | Origins of the labour movement in Italy |
Impostazione di uno studio sul movimento operaio in Venezuela | History of the labour movement in Venezuela |
Il concetto e la pratica della dittaura - Prima di Marx [ resoconto esteso ] | Concepts of dictatorship before Marx |
Abbiamo organizzato a Firenze, nell’ampia nostra sede locale, la riunione di gennaio del partito. Tutta la predisposizione logistica ha funzionato perfettamente, anche per la disciplina mantenuta da tutti in arrivi partenze eccetera, secondo quanto anticipato. Un’ampia rappresentanza di praticamente tutti i nostri gruppi, in Italia e fuori, di giovani e di anziani, ha potuto così partecipare attivamente a tutte le sedute, seguire comodamente i numerosi rapporti e collaborare alla traduzione sul momento di un sunto di essi in inglese e in spagnolo.
Ma il merito di un così alto fisico rendimento delle nostre poche forze, prima che di efficienza organizzativa, è nel nostro metodo comunista di partito. Infatti, come sappiamo, lo scopo delle riunioni generali è appunto di lavorare insieme. Non ci sono da prendere decisioni, non da stabilire una linea, che è segnata da un secolo e mezzo, non da affermare posizioni, se non quelle scritte nei testi e nelle tesi. Quindi felicemente siamo liberi di ogni fastidioso perditempo e puntiamo sereni alla riscoperta di quello che sappiamo, alla sua sempre più rigorosa definizione formale e al confronto dei fatti del passato con i nuovi avvenimenti di questo borghese mondo in rovina oltre il quale distintamente, inevitabile, si intravvede la società del comunismo, per la quale il partito si batte e della quale è la vivente anticipazione.
Qui inziamo la presentazione dei riassunti delle esposizioni, che proseguirà nel prossimo numero.
Il rapporto sull’intervento del partito nei sindacati appare già qui per esteso nelle pagine del “Sindacato di Classe”.
STORIA MARXISTA DEI MODI DI PRODUZIONE
I rapporti sulla dottrina marxista dei modi di produzione non sono un corso di storia, intesa come fredda analisi di accadimenti stretti da inconoscibili legami, ma una campana a morto per il capitalismo in quanto sistema transitorio di rapporti sociali e nello stesso tempo l’annuncio della necessità storica del comunismo che ricollegherà la Specie all’organicità naturale delle sue origini.
Il compagno ha esordito descrivendo il metodo col quale affrontare lo studio della poderosa dottrina comunista. Qualsiasi rapporto sociale presenta dei caratteri peculiari che gli derivano dall’essere parte di un modo di produzione piuttosto che di un altro. Una forma produttiva va allora definita rispetto alle altre; solo attraverso questo procedimento è possibile cogliere l’aspetto che interessa la dottrina marxista: la dinamica delle transizioni, nelle quali si può rintracciare sia la strada che dal comunismo primitivo conduce al comunismo superiore, sia la persistenza di elementi comunistici nelle varie società di classe, memoria storica delle origini e annuncio del regno della libertà di domani.
Questa classificazione ci permetterà di arrivare a tracciare uno schema delle successive forme di produzione, applicabile al mondo intero e a tutto il quadro storico senza eccezioni, da cui apparirà che il cammino dell’umanità nel suo complesso ha avuto un’orbita storica determinata da precise condizioni, che alcuni popoli hanno percorso per intero fino ad arrivare alla tappa più mostruosa di tutte, il capitalismo, il quale con la sua tendenza alla creazione del mercato mondiale implica già in sé la necessità che gli possa succedere soltanto un modo di produzione che abbracci l’umanità nella sua interezza.
Un secolo quasi di controrivoluzione ha offuscato a tal punto le menti proletarie da rendere questi concetti basilari ostici quando non surreali. Un lavoro del Partito, appena ricostituitosi su coerenti basi di classe, I fattori di razza e nazione nella teoria marxista, ci fornirà allora un dizionario dei termini, di cui daremo la definizione nel prossimo rapporto.
Per rappresentare questo grandioso disegno ad una generazione di lavoratori assuefatta alle lodi dell’attuale società, il relatore ha quindi fornito dei riferimenti al trascorso lavoro di Partito in materia.
Come sottolineato nel precedente rapporto, in questo viaggio sopra i millenni saremo guidati dai “Grundrisse”, in particolare ci avvarremo del capitolo sulle “Forme che precedono la produzione capitalistica”. Questo grandioso corso storico non lo leggiamo come una tendenza “naturale” al dispiegarsi progressivo dell’Idea di libertà individuale; al contrario si assiste ad una separazione violenta delle condizioni del lavoro dal lavoratore, culminante nella società presente, fino a quando – nel comunismo – i due poli non torneranno uniti.
Quando la specie umana si separò dal resto del regno animale la produzione e lo scambio non avvenivano tra individui isolati perché le prime comunità umane erano caratterizzate da una comunanza integrale. Engels nella sua “Origine” descrive perfettamente il passaggio della specie dallo stato selvaggio alla civiltà, passando per la barbarie; testo poi ripreso da una serie di rapporti apparsi su questo giornale quale sintesi di relazioni in sezione a Genova.
Lo sviluppo delle forze di produzione è accompagnato da una sempre maggiore divisione del lavoro, il che porterà con sé la prima divisione in classi della società. A questo punto dovrà essere inventato uno strumento in grado di sancire il dominio degli sfruttatori, lo Stato, la cui natura di classe venne da Lenin ribadita in “Stato e Rivoluzione”.
Il processo di riproduzione della specie non è raffigurabile esclusivamente come produzione dei mezzi di sussistenza ma è prima di tutto produzione dei produttori. La borghesia ancora oggi si affida alla pseudo scienza del reverendo reazionario Malthus secondo cui, mentre le risorse crescerebbero in progressione aritmetica la popolazione aumenterebbe in progressione geometrica. Il marxismo al contrario dimostra che ogni modo di produzione ha la propria legge della popolazione e pertanto quella propria del capitalismo (creazione di una sovrappopolazione relativa) è totalmente diversa da quella specifica di altre forme di produzione; il nostro “Capitale e popolazione” ci permetterà, così, di confutare l’ideologia dominante.
Nelle fasi di transizione tra una forma e la successiva un ruolo di primo piano è sempre svolto dalla violenza “levatrice della storia”; su questa funzione rivoluzionaria ci avvarremo dei numerosi rapporti su Marxismo e questione militare esposti alle riunioni generali ed apparsi prima sul giornale del partito di allora, “Il Programma Comunista”, poi su “Comunismo”. Ma la violenza di per sé non è in grado di spiegare i salti dialettici che letteralmente costringono la specie ad un trapasso nei rapporti sociali. Passi significativi per descrivere la proiezione dei rapporti di produzione nelle corrispondenti forme teoriche saranno estrapolati sia dalla “Origine” di Engels sia dal più recente “Cristianesimo, da religione di oppressi a Chiesa di Stato e mistificazione della sottomissione di classe”.
Corrisponde al capitalismo la famiglia monogamica, forma recente dei rapporti tra maschio e femmina. Caratterizzati per millenni da una organicità naturale, quei rapporti mutano col mutare del modo di produzione, sono anch’essi transitori, come dimostra il lavoro sulla “Famiglia nelle forme di produzione”. Come la famiglia proprietaria monogamica perirà con il capitalismo, perirà con esso anche lo sfruttamento fra maschio e femmina.
La questione militare
LA GUERRA RUSSO-TURCA E LE GUERRE COLONIALI
IN AFRICA
Dopo l’unificazione tedesca, avvenuta con la guerra franco prussiana del 1870-71, in Europa rimangono aperte le questioni di unificazione nazionale dell’Italia e di molti paesi compresi nell’Impero austro-ungarico, in quello russo e in quello ottomano. La situazione economica e politica è caratterizzata dalla lunga crisi economica che così Lenin descrive nel famoso “saggio popolare” su l’imperialismo: «Il grande rivolgimento ebbe inizio col crac del 1873 o più esattamente con la depressione che gli tenne dietro; la quale, tranne una interruzione appena sensibile all’inizio degli anni ottanta e lo slancio poderosissimo, ma di breve durata, verso il 1889, per circa 22 anni riempie la storia dell’economia europea».
Nella nostra teoria le crisi, e ancor più le guerre, svolgono la funzione di accelerazione del processo di centralizzazione capitalistica formando entità economiche, produttive e finanziarie sempre più grandi per vincere la concorrenza di quelle più piccole.
La guerra russo-turca del 1877-78 si inserisce in questo processo, riprendendo le due questioni più importanti e non risolte dalla guerra di Crimea del 1854-55: l’espansionismo russo verso il Mediterraneo e l’Asia e la spartizione dei territori europei del decadente Impero ottomano. Inghilterra e Austria-Ungheria qui sono le due potenze maggiormente interessate.
Le rivolte in Bosnia, Erzegovina e Bulgaria per l’indipendenza dall’Impero turco, sono represse duramente nel sangue mentre la Russia studia nuove alleanze per cercare di riprendere quanto perso nella precedente guerra. L’Inghilterra, attraverso Costantinopoli e il mar Nero verso la Persia, l’India e l’Asia, inoltra l’enorme quantità di merci che la sua potente industria produce. La Russia stringe alleanze con gli Stati balcanici che a vario titolo sono soggetti all’Impero ottomano, promettendo loro la completa indipendenza.
Il 27 aprile 1877 le truppe russe attraversano la Romania, che le ha concesso il permesso di transito in cambio di acquisizioni territoriali, e dirigono verso Costantinopoli con un grande piano strategico. La rapida avanzata è fermata dai turchi presso la fortezza di Pleven. Dopo un assedio di 5 mesi e la resa della fortezza i russi dirigono verso Costantinopoli e si fermano a 12 chilometri dalla capitale. Intanto era arrivata la flotta inglese a protezione della città.
Il Sultano propose un trattato di pace, poi firmato con le prime grandi modifiche dei confini nei Balcani. La principale richiesta russa di creare la Grande Bulgaria, dal Danubio fino al Mar Egeo, fu respinta dall’Inghilterra perché non voleva che la Russia, tramite questo nuovo Stato suo vassallo, arrivasse al Mediterraneo circondando Costantinopoli. La successiva Conferenza di Berlino del 1878 concesse alla Russia la Bessarabia, parte dell’Armenia e alcune importanti fortezze nel Caucaso; la Bulgaria rimase un principato autonomo, soggetto però a un tributo al Sultano e perse la Macedonia, ceduta alla Turchia per tagliare il passaggio alla Russia. Serbia, Montenegro e Romania furono indipendenti. La Rumelia orientale ottenne l’indipendenza amministrativa. L’Inghilterra tenne Cipro, invaso durante la guerra col permesso del Sultano come risarcimento dell’appoggio militare. A Vienna fu affidata l’amministrazione militare di Bosnia ed Erzegovina, che non ottennero l’indipendenza ma cambiarono solo padrone.
Questa situazione dopo pochi anni produsse nei Balcani forti contrasti territoriali tra i nuovi Stati; la “polveriera balcanica” esploderà nella prima guerra mondiale.
Il veloce sviluppo del capitalismo europeo aveva bisogno di una grande quantità di materie prime industriali e alimentari che si trovavano in enorme quantità nella vicina Africa. In meno di 30 anni essa sarà completamente spartita, eccetto l’Etiopia e la Liberia, tra le potenze europee.
Ma le aspettative di una facile conquista incontrano forti resistenze degli eserciti degli Stati africani più sviluppati, che impegnarono gli europei in lunghe rivolte durate alcune decine d’anni, come quella dell’Algeria contro i francesi. Furono tutte guerre “asimmetriche”, combattute dai moderni eserciti europei contro quelli africani armati prevalentemente in modo tradizionale. Molte le sconfitte subite dagli europei: le più importanti e clamorose quella di Isandlavana (1879) vinta dagli zulu contro gli inglesi e quella di Adua (1896) vinta dagli etiopi contro gli italiani.
La colonizzazione dell’Africa era partita dalle antiche stazioni commerciali per dirigersi verso il centro del continente. Ogni Stato europeo essendosi mosso in modo autonomo, per evitare contrasti, anche militari, tra loro per le ricchezze africane, si tenne a Berlino nel 1884 una Conferenza allo scopo di pianificare le future conquiste. Si temeva che una guerra tra i paesi europei per le colonie africane potesse scatenare nella madrepatria delle rivolte proletarie o addirittura la rivoluzione.
L’impero inglese fu il più esteso di tutta la storia dell’umanità: i territori sottomessi erano 94 volte quelli della madrepatria, il 20% della superficie dell’intero pianeta, con una popolazione coloniale 7,7 volte quella inglese e il 23% della popolazione mondiale. Un’enorme massa di forza lavoro e materie prime a bassissimo prezzo!
La colonizzazione inglese parte dall’estremo Sud per dirigersi verso l’estremo Nord nel tentativo di realizzare una continuità territoriale lungo il continente. Nella antica Colonia del Capo vivevano tribù bantu, prevalentemente pastori seminomadi ma con una radicata organizzazione militare; alcune piccole tribù stanziali dedite a un’arretrata agricoltura; i boeri, discendenti dei primi colonizzatori, che ormai si consideravano africani bianchi, con un’agricoltura moderna impiegando manodopera locale ma prevalentemente schiavi importati dall’Indonesia e dall’Africa stessa. Vi erano poi gli inglesi che si occupavano dei commerci, delle industrie e dell’amministrazione.
La scoperta dei diamanti sul fiume Orange nel 1867 richiamò circa 40.000 cercatori, in maggior parte inglesi; vicino alle miniere sorsero nuove città, officine e società finanziarie legate all’estrazione mineraria. Per i grandi investimenti nel settore era necessario risolvere la questione degli zulu, sempre in forte agitazione tra loro. Il cartello minerario inglese temeva che gli zulu vendessero le concessioni minerarie ai concorrenti e spingeva per una soluzione militare. Era diffusa opinione che le forze zulu fossero disorganizzate e senza armi da fuoco; invece re Shaka aveva organizzato un vero esercito con reparti fissi e accampamenti stabili, i soldati, anche donne, erano sottoposti a un costante allenamento a lunghe marce forzate e addestrati all’uso della “zagaglia”, una lancia con asta corta e lama lunga, molto efficace nei combattimenti ravvicinati corpo a corpo. Erano anche dotati di piccoli reparti di fucilieri ma scarseggiavano di munizioni.
Senza attendere la scadenza dell’insolente ultimatum inviato al capo Cetshwayo, che avrebbe preferito la trattativa, le truppe inglesi entrarono nello Zululand. La prima grande battaglia avvenne il 22 gennaio 1879: durò 3 ore con una forte superiorità zulu armati all’arma bianca contro gli inglesi con la fucileria; solo 50 sopravvissero e riuscirono a fuggire. Dopo la vittoria, il re zulu propose delle trattative di pace, che furono respinte, anche da Londra, che inviò forti rinforzi in uomini, cavalleria e artiglieria comprese le nuove mitragliatrici Gatling. L’offensiva inglese sbaragliò ogni resistenza: quando gli zulu attaccarono non riuscirono nemmeno ad avvicinarsi alla linea dei fucilieri; i 12 cannoni e le 2 Gatling li sterminarono a migliaia. Il regno zulu fu poi suddiviso e successivamente annesso dagli inglesi nel Natal.
I boeri non approfittarono della guerra contro gli zulu per attaccare gli inglesi e solo dopo iniziarono una serie di rivolte e nel dicembre 1880 autoproclamarono l’indipendenza della repubblica del Transvaal. La sconfitta inglese decisiva avvenne nella battaglia di Majuba Hill quando 3.000 boeri sconfissero duramente 1.200 inglesi. In seguito a ciò ai boeri fu accordata maggiore autonomia ma non l’indipendenza.
L’occupazione dell’Egitto, appartenente all’Impero ottomano, è un chiaro esempio di dominazione economica e successivamente militare e coloniale.
Dopo il crack finanziario del 1873, gli inglesi si organizzarono per controllare il Canale di Suez, aperto al traffico nel 1869, e l’intero Egitto. Il principale finanziatore del Canale era lo Stato egiziano, che per effetto del crack economico era ora schiacciato dai debiti e dagli interessi che assorbivano quasi tutto il bilancio statale. Il governo inglese, tramite i banchieri Rothschild, convinse il viceré egiziano a vendergli la sua quota del Canale; francesi e inglesi poi costituirono una “Commissione del debito egiziano” con lo scopo di gestire tutte le entrate egiziane per proteggere i loro investimenti. Aumentarono le tasse, ridussero le spese del governo e smobilitarono una consistente parte dell’esercito egiziano. Seguirono molte ribellioni degli egiziani. Fu poi convocata una Conferenza tra i maggiori Stati europei per stabilire il futuro dell’Egitto e dichiarare il Canale zona militare neutrale.
Gli inglesi senza attendere la fine della Conferenza, inviarono al viceré un provocatorio ultimatum; prima della sua scadenza la flotta militare inglese iniziò un forte bombardamento di Alessandria con i nuovi potenti cannoni navali che permise lo sbarco in città. La occuparono facilmente usando le mitragliatrici Gatling, molto efficaci nel combattimento ravvicinato strada per strada. L’esercito egiziano, ben armato, era stato diviso sulle tre probabili direttrici d’attacco inglese: Alessandria, Il Cairo e sulla ferrovia di servizio del Canale. Ma furono commessi due gravi errori: primo, non furono rafforzate le difese sul Canale, contando che gli inglesi ne rispettassero la neutralità; questi invece occuparono la città di Ismailia, sede tecnica per la costruzione del Canale e dei suoi uffici, con i molti rinforzi arrivati dall’India. Il secondo fu di affidare le difese di alcuni importanti punti strategici del Canale ai capi tribù beduini, alcuni dei quali erano stati corrotti dagli inglesi. Gli inglesi li attaccarono nella notte tra il 13 e 14 settembre 1882 e all’alba raggiunsero indisturbati le trincee egiziane: dopo breve battaglia gli egiziani fuggirono abbandonando tutte le artiglierie.
L’Egitto, pur sempre parte dell’Impero ottomano, fu da allora amministrato dall’Inghilterra fino al 1956.
In queste guerre si affermò l’uso delle mitragliatrici, prevalentemente di fabbricazione americana, che da pesanti e con due uomini a servizio, diventarono sempre più leggere fino all’introduzione nel 1885 della mitragliatrice Maxim che, montata su un leggero treppiede, poteva essere manovrata da un solo artigliere.
(Fine
del resoconto al prossimo numero)
Lettera dalla Germania
Fra crisi economica e caroselli elettorali
Scritta nell’immediato secondo dopoguerra, sotto dettatura americana, la Costituzione della Repubblica Federale Tedesca del 1949 è un vantato “modello di democrazia”, cioè, nei nostri termini, ben funzionale ad escludere ogni opposizione anche soltanto formale della vera sinistra di classe.
Da quel lontano battesimo solo in una occasione un partito è riuscito a formare un governo senza doversi coalizzare, il gabinetto del 1957 presieduto da Konrad Adenauer, che si presentò alle elezioni con lo slogan “Niente esperimenti”, un rifiuto esplicito di tutto ciò che – anche negli angusti confini democratici borghesi – avrebbe potuto apparire “radicale”. A parte questa eccezione il governo federale è sempre stato formato da coalizioni comprendenti uno dei due maggiori partiti ed uno minore (in genere i liberali del FDP), oppure dalla cosiddetta Grande Coalizione costituita dal partito di centro-destra (la CDU-CSU) e il partito di centro-sinistra (la SPD).
Ma la campagna elettorale del 2013 è riuscita ad essere ancora più scialba. Nessun significativo disaccordo divideva i due candidati alla Cancelleria, Angela Merkel e Per Steinbrück. Per sollevare un po’ di rumore sulle elezioni, Angela Merkel – dimostrando il cinismo e poco senso del grottesco proprio dei borghesi – ha visitato l’ex campo di concentramento di Dachau, fingendo la minaccia alla democrazia borghese di un’estrema destra che ha ottenuto soltanto l’1,3% dei suffragi.
Alla fine ne è uscita un’altra Große Koalition. “Sconfitto” è stato il partito liberale (FDP), membro dell’ultimo governo Merkel, il cui programma di tagli fiscali a favore dei ricchi troppo stona con l’austerità per gli operai: per la prima volta i liberali non hanno raggiunto la soglia del 5% per avere seggi in parlamento. Alla Merkel sono andati la metà dei quattro milioni di voti persi dal FDP. Una nuova formazione elettorale, Alternativa per la Germania, composta da “professori” di economia condotti dai propri studi alla brillante conclusione che la soluzione della crisi sarebbe l’uscita dalla Zona Euro, ha convogliato su di sé un ulteriore mezzo milione di voti.
Gli altri tradizionali partiti elettorali, la Sinistra (Die Linke) ed i Verdi, hanno subito anch’essi una battuta d’arresto. La Sinistra – nata da una fusione dell’ex partito di governo (SED) della Germania dell’Est con elementi di sinistra della socialdemocrazia – si è presentata alle urne con lo slogan “Rivoluzione? No!”, con il chiaro obiettivo di marcare, se ancora ce ne fosse bisogno, la sua collocazione agli antipodi dell’Ottobre. L’attuale dirigenza ostenta un partito salottiero, presentabile agli occhi del filisteo borghese. Ha inoltre tenuto a precisare che non opporrà ostacoli alle future guerre imperialiste in cui certamente sarà coinvolta la Germania, e lascia intravvedere un maggiore appoggio alla Nato. Lo sbracamento è però stato vano: la Sinistra ha perso 12 dei suoi seggi.
La sommatoria dei seggi avrebbe permesso una coalizione di centro-sinistra, ma la SPD ha preferito diventare il “socio di minoranza” della Grande Coalizione con la CDU piuttosto che il partito di maggioranza in una alleanza di centro-sinistra.
Anche i Verdi hanno mostra un calo rispetto ai risultati precedenti, gonfiati dalle paure suscitate dal disastro nucleare di Fukushima. Il loro programma inoltre mal si adatta all’attuale congiuntura economica: sulle industrie pesano troppo i costi dalla cosiddetta “economia verde”.
La crisi economica
Dietro la formazione della Grande Coalizione di centro ci sono evidenti determinazioni economiche: la necessità di sacrifici ulteriori sull’altare del profitto, che tuttavia sono difficili da far digerire ad una forza-lavoro già molto sfruttata.
Vista da paesi caratterizzati da un tasso di disoccupazione a due cifre, l’economia tedesca può apparire in buona salute. In realtà molte delle sue principali concentrazioni industriali accusano un calo nel saggio del profitto e hanno già richiesto un ulteriore taglio dei costi di produzione.
La Lanxess, industria chimica, ha registrato un calo del 95% dell’utile netto nel secondo quadrimestre del 2013 e ha cancellato le previsioni di profitti per il 2014. La Salzgitter, un’acciaieria, ha stimato perdite nell’ordine di 400 milioni di euro “in considerazione della perdurante crisi della siderurgia europea”. In luglio la Siemens, la più grande società di ingegneria della Germania quanto a fatturato, ha rivisto anch’essa le precedenti previsioni sulla gestione operativa; la Basf, la più grande industria chimica mondiale, ha preannunciato che il raggiungimento degli utili prefissati sarà “più impegnativo del previsto”. La Volkswagen, una delle tre più grandi case automobilistiche del mondo (proprietaria dei marchi Audi, Seat, Porsche e Skoda e delle industrie produttrici di camion MAN e Scania) ha registrato nel terzo trimestre del 2013 vendite in linea con le previsioni, ma gli analisti dubitano che possa raggiungere le precedenti previsioni per i profitti. Anche le maggiori aziende del settore dei servizi bancari e dell’informatica sono in difficoltà; il produttore di televisori Loewe ha recentemente avanzato istanza di fallimento e licenziato un terzo degli operai.
Danno la colpa al rallentamento dell’economia mondiale, benché ancora gli ordini alle industrie tedesche siano in crescita e i grandi gruppi industriali stiano investendo massicciamente nelle nuove tecniche di produzione al fine di vincere la concorrenza del mercato mondiale. La Volkswagen sta investendo miliardi di euro in un nuova produzione modulare che dovrebbe ridurre del 30% il tempo di assemblaggio di un’auto. Ma solo il lavoro vivo produce plusvalore, così, se dapprima queste tecniche potranno aiutare le aziende tedesche ad aumentare le vendite, alla lunga, quando si saranno diffuse, ridurranno i margini di profitto per tutti. Questa è la contraddizione fondamentale del sistema capitalistico!
Nel continuo rivoluzionamento delle forze di produzione, poiché i grande gruppi industriali controllano i partiti e godono della collaborazione dei sindacati, in questo processo la classe operaia subirà di certo una serie di attacchi. Ma il grande capitale cercherà anche di spremere a fondo la piccola borghesia e le piccole e medie imprese (in Germania sono considerate tali quelle con un fatturato fino a 50 milioni di euro e fino a 500 dipendenti), le imprese fornitrici dei cartelli industriali e quelle nate da processi di esternalizzazione o comunque legate ai cartelli. Queste aziende piccole e medie occupano il 70% della forza lavoro tedesca pur contribuendo solo per il 50% al prodotto interno lordo.
Il Partito Liberale storicamente è stato il loro rappresentante politico, come dimostra il suo programma di tagli alle tasse, riduzione di lacci burocratici e “flessibilizzazione” del rapporto di lavoro.
Saranno ovviamente i lavoratori di queste aziende i primi a risentire della crisi, con blocco dei salari, riduzione dell’orario di lavoro e del salario, licenziamenti di massa: insomma un aumento del tasso di sfruttamento. Ma per colpire anche i lavoratori dipendenti delle grandi concentrazioni e del settore pubblico la borghesia tedesca richiede misure d’austerità che prevedano aumenti salariali minori dell’inflazione ed una riduzione del salario indiretto, cioè ciò che rimane del welfare state.
Uno degli obiettivi della Grande Coalizione è la riduzione del debito pubblico (ormai arrivato all’80% del PIL). La CDU-CSU ha anticipatamente bocciato qualsiasi aumento delle tasse ai ricchi e alle grandi imprese, è quindi inevitabile che la SPD metta da parte le sue già modeste promesse elettorali, come la rivalutazione delle pensioni d’anzianità e la fine delle disparità tra maschi e femmine nei luoghi di lavoro. Probabilmente rimarrà invece ferma nell’impegno di aumentare il salario minimo garantito, formula propagandistica per la sua ala sinistra, perché in realtà rappresenterà soltanto un punto di riferimento al ribasso per i salari. In tutto questo la SPD potrà contare sui sindacati di regime; lo dimostra l’appoggio elettorale alla Grande Coalizione della DGB, la più grande organizzazione sindacale di Germania.
Questa ha sottoscritto un accordo che renderà precario il contratto di quasi un milione di lavoratori, rinnegando le precedenti dichiarazioni in favore della parità di salario a parità di orario. Non c’è da stupirsi che i lavoratori tedeschi siano più sfruttati che in passato, anche a causa di una forte pressione per aumenti di produttività. Un sondaggio condotto da una compagnia pubblica di assicurazione sanitaria ha rivelato che quasi il 60% dei tedeschi soffre di sindromi da stress, dovute nella maggior parte dei casi al logorio lavorativo, con massimo nella fascia tra i 36 ed i 45 anni d’età.
La Grande Coalizione, i richiami ad un presunto “realismo” e la convergenza di tutti i partiti politici attorno a programmi con differenze insignificanti, tutti tendenti a far recuperare alle imprese i margini di profitto perduti, mostreranno sempre più chiaramente ai lavoratori che nessuno di essi rappresenta gli interessi della classe operaia e che l’alternativa che si presenta ai lavorator tedeschi e di tutto il mondo è sempre e solo una: Capitalismo o Comunismo!
Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale | |
Per la rinascita del sindacato di classe fuori e contro il sindacalismo di regime. Per unificare le rivendicazioni e le lotte operaie, contro la sottomissione all’interesse nazionale. Per l’affermazione dell’indirizzo del partito comunista negli organi di difesa economica del proletariato, al fine della rivoluzionaria emancipazione dei lavoratori dal capitalismo |
Bologna - 1
febbraio
Per
l’unione delle lotte dei lavoratori e del sindacalismo
di base
Il peggioramento delle condizioni di vita della classe lavoratrice si fa sempre più grave: licenziamenti, cassa integrazione, taglio dei salari, aumento dei ritmi, demolizione del contratto nazionale, smantellamento dell’assistenza e dei servizi sociali, innalzamento dell’età pensionabile.
Al Ministero per lo Sviluppo Economico sono aperti 159 “tavoli di crisi” per grandi aziende che impiegano 120 mila lavoratori. Fra questi quello della Electrolux, per decenni secondo gruppo industriale in Italia e modello delle relazioni sindacali concertative – negatrici cioè della lotta di classe – che il 27 gennaio scorso ha annunciato di volere il dimezzamento dei salari, un ennesimo aumento dei ritmi e la chiusura della fabbrica di Porcia (Pordenone). Tutto intorno alle grandi imprese, in migliaia di piccole e medie aziende, centinaia di migliaia di lavoratori subiscono attacchi analoghi e anche peggiori.
Di fronte a questa offensiva i lavoratori non sono riusciti sinora a difendersi perché sono in una condizione peggiore della disorganizzazione: sono diretti da sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl) che impediscono loro di lottare efficacemente e li conducono di sconfitta in sconfitta.
L’azione di questi falsi sindacati infatti è fondata sul principio della collaborazione fra le classi secondo cui sarebbe possibile conciliare, in linea generale, gli interessi dei lavoratori con quelli del Capitale: i proletari possono stare bene solo se l’economia capitalista cresce, e viceversa.
Costoro vorrebbero dare a bere che sarebbe un errore sia l’organizzazione di lotte da parte dei lavoratori che, in difesa dei loro interessi, danneggino l’azienda e il capitalismo nazionale, sia l’attacco alle loro condizioni di vita da parte di industriali e governi, ai quali mancherebbe la consapevolezza che agire in senso opposto gioverebbe anche al Capitale.
A dimostrare come queste siano chiacchiere per illudere e imbonire i lavoratori sono i fatti perché questi sindacati sono i primi a non rivendicare miglioramenti e a firmare soltanto accordi peggiorativi sempre più gravi!
Non si tratta affatto, quindi, di errori di gestione – delle imprese e del capitalismo – ma di leggi di funzionamento di questo modo di produzione che determinano la sua inevitabile crisi e la inconciliabilità degli interessi della classe dei lavoratori salariati con quelli del Capitale.
Il collaborazionismo di classe dei sindacati di regime e di tutto il riformismo pretende che le sorti della classe proletaria siano legate a quelle dell’azienda e del capitalismo nazionale e che quindi, per salvarsi dalla crisi, i lavoratori debbano necessariamente essere pronti ad ogni sacrificio, perché da essi dipenderebbe la loro esistenza.
Il riformismo inginocchia i lavoratori davanti al dogma della borghesia: o capitalismo o morte.
Noi comunisti, dinanzi alla crisi di questa società morente, gridiamo alla nostra classe sfruttata: Muore il capitalismo? Morte al capitalismo! Perché la salvezza dei lavoratori passa solo sul suo cadavere.
Il più grave danno causato dall’azione dei sindacati di regime è la divisione della classe proletaria perché, legando i lavoratori all’azienda, ogni lotta è condotta a sé, isolata dalle altre con mobilitazioni e rivendicazioni distinte. Di fronte alla crisi del capitalismo, che continua la sua avanzata inesorabile, i sindacati di regime mandano i lavoratori allo sbaraglio, come una miriade di piccoli gruppi slegati fra loro lanciati contro il muro di un esercito armato e diretto in modo centralizzato, quale è il regime borghese costituito da padronato, Stato e governo.
I lavoratori devono liberarsi di questi sindacati e ricostruire il loro Sindacato di classe fondato sui metodi e principi della grande tradizione del movimento operaio:
– vivere sul lavoro gratuito e volontario dei suoi militanti lavoratori, riducendo al minimo indispensabile il ricorso a funzionari stipendiati;
– organizzare veri scioperi: senza preavviso, a oltranza, che cerchino sempre di estendersi alle altre aziende, con picchetti per impedire l’ingresso a merci e crumiri;
– difendere intransigentemente gli interessi dei lavoratori rifiutando ogni sottomissione a quelli dell’azienda e del cosiddetto “bene del paese” che altro non è che il bene del capitalismo nazionale;
– avere quale centro organizzativo la sua struttura territoriale, come nelle originarie Camere del Lavoro, dove i lavoratori si riuniscono in quanto tali, appartenenti a una stessa classe sociale, non in quanto dipendenti di una determinata azienda, così da rafforzare e sviluppare il legame di fratellanza. L’azione sindacale nasce dentro l’azienda ma deve mirare a spostare il suo centro di gravità fuori da essa, conducendo lotte che uniscano i lavoratori, nelle mobilitazioni e negli obiettivi, in modo sempre più esteso, al di sopra delle divisioni fra stabilimento, azienda, categoria, razza e fra occupati e disoccupati;
– rifiutare il metodo della delega per il pagamento della quota sindacale, ossia con il prelievo automatico dal salario da parte dell’azienda, che mette nelle mani del padrone i soldi dell’organizzazione dei lavoratori e la lista dei suoi iscritti ed è la base materiale della collaborazione fra sindacati e azienda; le quote sindacali vanno raccolte dai militanti del sindacato, mantenendo anche per questa via vivo il rapporto fra organizzazione e suoi iscritti;
– perseguire quale obiettivo finale la mobilitazione di tutta la classe lavoratrice nello sciopero generale a oltranza per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.
Il SI Cobas ha intrapreso questa strada e lo dimostra la durezza della reazione padronale contro i suoi militanti ed operai – con licenziamenti, denunce, fogli di via, arresti, cariche della polizia e aggressioni – perché la borghesia sa che questa è la via per la quale i lavoratori possono ritrovare la loro forza.
Tutto il sindacalismo di base deve unirsi attorno ad esso, per permettergli la vittoria nelle prossime decisive battaglie, ritrovando nella lotta le energie per la sua unificazione in un grande Sindacato di Classe, passo fondamentale e necessario per sconfiggere i sindacati di regime.
Rapporto alla riunione generale di gennaio
L’accordo sulla “rappresentanza” ancora
un chiavistello che la lotta operaia
farà saltare e spingerà alla sua riorganizzazione
di classe
Il 10 gennaio scorso è stato firmato da Cgil, Cisl, Uil, Ugl e Confindustria il “Testo Unico sulla Rappresentanza” che mette in pratica i due precedenti accordi del 28 giugno 2011 e del 31 maggio 2013 definendone i particolari operativi. L’accordo ha importanza soprattutto per quanto riguarda gli organismi rappresentativi dei lavoratori all’interno delle aziende, modificando il precedente accordo sulle RSU del 1993.
Elenchiamo e commentiamo i suoi punti essenziali.
1) Alle trattative per i contratti nazionali di categoria saranno accettati solo i sindacati firmatari di questo accordo, e, fra questi, quelli che hanno una “rappresentatività” di almeno il 5% dei lavoratori della categoria, misurata come media fra gli iscritti e i voti ricevuti da ciascuna organizzazione sindacale nelle RSU.
I sindacati di base, che non hanno firmato né questo né i due precedenti accordi, sono quindi esclusi sia dalla trattativa nazionale sia dalla misurazione della rappresentatività. Questa, va chiarito, è la sanzione di un dato di fatto, giacché gli industriali, liberi di trattare con chi vogliono, si sono sempre guardati bene dal farlo con i sindacati di base. E, negli ultimi due rinnovi del Ccnl metalmeccanico, Federmeccanica ha escluso dalla trattativa anche la Fiom.
La questione è legata ai rapporti di forza. Il padronato può essere costretto a trattare con una vera organizzazione sindacale di classe solo con la forza della mobilitazione dei lavoratori. Il presente accordo è finalizzato proprio a ostacolare la costruzione di tale forza sindacale di classe.
In questi anni i sindacati di base sono stati accettati alle trattative solo in pochi casi a livello aziendale. Ciò è stato possibile – non sempre ma spesso – non tanto sulla base di una reale forza, ma appoggiandosi alla regolamentazione della rappresentanza come stabilita dall’accordo del 1993 sulle RSU: i sindacati di base presentavano alle elezioni per le RSU liste con propri candidati, riuscendo in taluni casi a farne eleggere alcuni. Ma si ritrovavano sempre in minoranza rispetto ai sindacati confederali, anche quando, come alla Electrolux di Solaro, ottenevano la maggioranza dei voti, perché l’accordo del 1993 riservava un terzo dei seggi RSU ai sindacati firmatari del Ccnl. In ogni caso il riconoscimento ricevuto col voto dei lavoratori non corrisponde alla reale forza del sindacato di base, che si misura con la capacità di scioperare e non col voto, segreto, che non costa alcun sacrificio.
2) Il nuovo accordo del 10 gennaio, non solo sancisce l’esclusione del sindacalismo di base dalla trattativa nazionale, ma tende a eliminare la sua presenza nelle aziende attraverso la modifica del regolamento per le elezioni delle RSU. La possibilità di trattare a livello aziendale si riduce quindi per i sindacati di base a una questione di mera forza, come già lo era sul piano nazionale.
Infatti, «...all’elezione della RSU possono concorrere liste elettorali presentate dalle organizzazioni sindacali [firmatarie] dell’accordo oppure dalle organizzazioni sindacali di categoria firmatarie del contratto collettivo nazionale di lavoro applicato nell’unità produttiva». I sindacati di base sono perciò esclusi dalle future elezioni per il rinnovo della RSU. Ad esempio, la Flmu-CUB alla Electrolux di Solaro, che alle ultime elezioni RSU del luglio 2011 è risultata il primo sindacato fra gli operai, alle prossime elezioni, che dovrebbero svolgersi a luglio di quest’anno, potrebbe vedersi negata da Fim, Fiom, Uilm ed azienda la possibilità di partecipare.
3) «Ai fini dell’elezione dei componenti della RSU, il numero dei seggi sarà ripartito, secondo il criterio proporzionale». Viene quindi soppressa la quota di 1/3 dei seggi riservata alle organizzazioni sindacali firmatarie del Ccnl, un modo con cui le federazioni di mestiere di Cgil, Cisl e Uil si garantivano la maggioranza nella RSU, ponendo un ostacolo quasi insormontabile ai sindacati di base. Ora che il nuovo accordo esclude i sindacati di base dalla partecipazione alle elezioni RSU, questa quota riservata non è più necessaria.
4) Tornando alla contrattazione collettiva nazionale, «le Organizzazioni Sindacali [quelle firmatarie dell’accordo, le uniche – ripetiamo – ammesse a tale contrattazione] favoriranno, in ogni categoria, la presentazione di piattaforme unitarie». Quest’ultimo accordo e i due precedenti sono stati presentati dalla Cgil come favorevoli ai lavoratori anche perché rappresenterebbero un argine alla firma di contratti separati, come nel caso gli ultimi due rinnovi per i metalmeccanici. Premesso che i contratti firmati unitariamente da Cgil, Cisl e Uil non sono affatto in difesa dei lavoratori e che oggi un contratto non peggiorativo potrebbe essere conquistato solo da una organizzazione sindacale di classe, contro, e quindi separatamente, Cgil, Cisl e Uil, va precisato che l’accordo non obbliga alla firma di contratti unitari ma “auspica” solo un comportamento che li favorisca.
5) «Ai fini del riconoscimento dei diritti sindacali previsti dalla legge [lo Statuto dei lavoratori]... si intendono partecipanti alla negoziazione le organizzazioni che abbiano raggiunto il 5% di rappresentanza, secondo i criteri concordati nel presente accordo, e che abbiano partecipato alla negoziazione in quanto hanno contribuito alla definizione della piattaforma e hanno fatto parte della delegazione trattante l’ultimo rinnovo del c.c.n.l. definito secondo le regole del presente accordo». Ciò significa che i sindacati non firmatari dell’accordo sono esclusi dai cosiddetti diritti – o prerogative – sindacali. Queste prerogative, si badi bene, non riguardano il diritto di sciopero bensì quelle regole che hanno permesso il consolidamento del cosiddetto “sindacato in fabbrica”: permessi sindacali, assemblea sul posto di lavoro, referendum sul posto di lavoro, affissione dei documenti sindacali, versamento della quota mensile del lavoratore al sindacato da parte dell’azienda (cosiddetta delega).
6) «I contratti collettivi aziendali possono [...] definire [...] specifiche intese modificative delle regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro nei limiti e con le procedure previste dagli stessi contratti collettivi nazionali di lavoro». Si tratta delle famose deroghe al contratto nazionale. È previsto che sia il nuovo contratto nazionale a stabilire come e dove sia possibile derogare ad esso. Tuttavia, «ove non previste [le deroghe al Ccnl come detto sopra]... i contratti collettivi aziendali conclusi con le rappresentanze sindacali operanti in azienda d’intesa con le relative organizzazioni sindacali territoriali... firmatarie del presente accordo... al fine di gestire situazioni di crisi o in presenza di investimenti significativi per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale dell’impresa, possono definire intese modificative con riferimento agli istituti del contratto collettivo nazionale che disciplinano la prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro». È la conferma di quanto già scritto nell’accordo del 28 giugno 2011. Un giro di parole per non dire chiaro e tondo che si può derogare al contratto nazionale subito, senza attendere il suo rinnovo e anche se il contratto rinnovato non lo prevede. L’unica materia esclusa dalle deroghe sono i minimi retributivi. In questo modo Cgil, Cisl, Uil, Ugl e Confindustria già tre anni fa hanno terminato di scavare la fossa al contratto nazionale.
7) Sia i contratti nazionali sia quelli aziendali sono “efficaci ed esigibili”. Significa che, una volta siglati da organizzazioni sindacali che rappresentino, secondo la misurazione certificata, il 50% + 1 dei lavoratori iscritti ai sindacati firmatari dell’accordo, valgono per tutti i lavoratori e debbono essere rispettati da tutti i sindacati firmatari dell’accordo del 10 gennaio. Se, ad esempio, Fim, Uilm, Uglm a livello nazionale detenessero il 50% + 1 della rappresentatività, potrebbero firmare un nuovo Ccnl che la Fiom si troverebbe costretta ad accettare. Lo stesso sul piano aziendale.
8) A tal fine i sindacati firmatari e Confindustria «convengono sulla necessità di definire disposizioni volte a prevenire e a sanzionare eventuali azioni di contrasto di ogni natura, finalizzate a compromettere il regolare svolgimento dei processi negoziali [...] nonché l’esigibilità e l’efficacia dei contratti collettivi stipulati». Sono definite quindi clausole di raffreddamento, ossia periodi in cui non si possono indire scioperi, e sanzioni. Entrambe riguardano solo i sindacati firmatari e ne sono esclusi quindi i sindacati di base.
9) Le sanzioni saranno stabilite dai contratti collettivi nazionali di categoria e avranno «effetti pecuniari, ovvero che comportino la temporanea sospensione di diritti sindacali di fonte contrattuale». Sono esclusi dalle sanzioni i diritti sindacali derivanti dalla legge, sopra indicati, negati comunque ai non firmatari dell’accordo.
10) Infine, è prevista «la costituzione di un collegio di conciliazione e arbitrato composto, pariteticamente, da un rappresentante delle organizzazioni sindacali confederali interessate e da altrettanti rappresentanti della Confindustria, nonché da un ulteriore membro [...] individuato di comune accordo» che giudichi «eventuali comportamenti non conformi» all’accordo.
Il XVII Congresso della Cgil
La firma dell’accordo del 10 gennaio cade nel mezzo dei lavori del nuovo congresso della Cgil, il diciassettesimo. Sinora si sono svolte le assemblee degli iscritti nelle aziende e nelle camere del lavoro e quelle dei delegati provinciali, confederali e di categoria, da cui sono stati eletti i delegati per i congressi regionali e, a salire, lo saranno quelli per i congressi nazionali di categoria e per quello generale confederale.
Nel precedente congresso, conclusosi a maggio 2010, furono presentati due documenti contrapposti da parte di due “Aree congressuali”: quella di maggioranza, con a capo l’allora segretario generale confederale Epifani, e quella denominata “La Cgil che vogliamo”, in cui erano confluite le diverse correnti di sinistra, fra cui “Lavoro e Società”, la maggioranza della Fiom e la “Rete 28 Aprile”.
Le gravi questioni che la classe lavoratrice e il movimento sindacale hanno affrontato in questi ultimi tre anni – il nuovo contratto Fiat, fuori da quello metalmeccanico e firmato solo da Fim e Uilm con l’esclusione della Fiom; gli ultimi due contratti metalmeccanici anch’essi separati; la controriforma delle pensioni; gli accordi interconfederali di riforma della contrattazione e della rappresentanza del 28 giugno 2011, del 31 maggio 2013 e del 10 gennaio 2014 – hanno inasprito la contrapposizione fra maggioranza e minoranza ma anche diviso quest’ultima. Lavoro e Società ha avuto atteggiamento favorevole verso tutti e tre gli accordi sulla rappresentanza, contrariamente alla Fiom. La Rete 28 Aprile, che si è scontrata con la maggioranza Fiom per la sua incoerente opposizione ai primi due accordi e per la linea rinunciataria nel rinnovo dell’ultimo Ccnl metalmeccanico, è uscita da La Cgil che Vogliamo, ricostituendosi formalmente come corrente interna alla Cgil nel settembre 2012, subendo il mese successivo l’estromissione del suo rappresentante dalla segreteria nazionale Fiom.
Al nuovo congresso la maggioranza de La Cgil che Vogliamo – fra cui la maggioranza Fiom con a capo il suo segretario generale Landini e l’area programmatica Lavoro e Società – ha aderito al documento della segreteria confederale, limitandosi ad apporvi cinque emendamenti. Solo la Rete 28 Aprile ha presentato un documento contrapposto intitolato “Il sindacato è un’altra cosa”.
Il finto scontro Fiom-Cgil
La firma dell’accordo del 10 gennaio scorso ha riacceso lo scontro interno nella Cgil fra la segreteria confederale e la Fiom. Questo confronto è emblematico oltre che della natura borghese della Cgil – di cui davvero non si capisce perché ancora ci si dovrebbe stupire – soprattutto della incoerenza della sua minoranza di sinistra, la cui azione si riduce a un inconcludente e ambiguo manovrismo.
Come abbiamo già avuto occasione di scrivere, all’atto della sua firma la Fiom si oppose all’accordo del 28 giugno del 2011. Il Comitato Direttivo Cgil del 5 luglio successivo stabilì una consultazione degli iscritti delle varie federazioni di categoria. Il 16 settembre l’accordo fu ratificato, senza attendere l’esito della consultazione fra gli iscritti Fiom, che giunse il 25 ottobre e vide la vittoria dei contrari all’accordo con il 77% dei voti. Tutte le altre categorie invece lo approvarono.
Queste consultazioni interne alla Cgil, comprese quelle congressuali, hanno sempre un esito prestabilito che coincide col peso delle varie correnti interne e non vi è da attendersi da esse alcuna sorpresa. Si tratta di un vuoto formalismo per dare una veste democratica a decisioni prese dalle segreterie e fra i vertici delle correnti per la spartizione dei posti di comando.
Soli sei mesi dopo la firma dell’accordo, con gli strali contro di esso, in buona parte corretti, del segretario generale Landini, il documento di maggioranza del Comitato centrale Fiom del gennaio 2012, in riferimento all’offensiva Fiat volta a estendere a tutto il gruppo il cosiddetto accordo di Pomigliano, recitava: «... tale intesa, firmata anche da Fim-Cisl e Uilm-Uil, si pone al di fuori e in contrasto con l’accordo unitario del 28 giugno 2011». Nonostante il pronunciamento dei suoi iscritti, la Fiom, invece di limitarsi a subire l’accordo per doverosa disciplina interna alla Confederazione, mantenendo però la battaglia politica contro di esso, passava ad impugnarlo nella lotta sindacale quale preteso strumento utile alla difesa dei lavoratori, accreditandone perciò i contenuti.
Questo sul piano nazionale. Su quello aziendale la prassi era ben peggiore, con accordi firmati dai delegati RSU e dalla Fiom territoriale già a luglio 2011, alla Honda e alla Sevel di Atessa (Chieti), che davano piena applicazione alle deroghe al contratto nazionale. Cui sono seguiti, ad esempio, quelli per Fincantieri a Castellammare e Genova, da noi ampiamente commentati.
Il 31 maggio 2013 veniva siglato un “Protocollo d’Intesa” che segnava un passo in avanti nell’applicazione dell’accordo del 28 giugno 2011, riprendendone per intero i contenuti. Il titolo del comunicato della segretaria Fiom era chiaro: «Giudizio positivo sull’accordo interconfederale. Ora si applichi a partire dai metalmeccanici».
Ma alla firma del Testo Unico del 10 gennaio la Fiom è tornata al suo atteggiamento iniziale con toni e atteggiamenti più aspri: ha sospeso i lavori congressuali, procederà a una consultazione fra i metalmeccanici con regole diverse da quelle stabilite dal Direttivo Cgil del 26 febbraio, certamente truffaldine, e, nel caso in cui, come per la consultazione dell’accordo del 28 giugno, i lavoratori dovessero bocciare l’accordo, ha dichiarato che si rifiuterà di applicarlo.
Ma i lavori congressuali sono stati ripresi pochi giorni dopo la loro sospensione e al congresso la Fiom appoggerà il documento di maggioranza, limitandosi a sostenere cinque emendamenti ad esso. Un comportamento ben poco coerente con la denuncia di una “grave crisi democratica” dentro la Cgil.
La “democrazia” in Cgil
La democrazia, in un organismo sindacale dei lavoratori, è un fatto sostanziale solo se esso si mantiene sui binari di una politica sindacale classista, altrimenti diviene una prassi formale con cui dissimulare l’azione anti-operaia. Il meccanismo democratico non basta in sé a tenere su quei binari un sindacato. Esso è una conseguenza della forza dell’indirizzo sindacale classista entro l’organizzazione di lotta dei lavoratori. A rovescio, in un sindacato dominato da correnti politiche borghesi non è partendo dalla corretta applicazione del meccanismo democratico che si può ribaltare questa situazione.
La Cgil, dalla sua ricostituzione dall’alto col Patto di Roma del 1944, nacque di regime, cioè votata a subordinare i lavoratori alle esigenze del capitalismo, chiamato economia nazionale, bene del paese, ecc. Il nostro partito indicò una doppia prospettiva: o la riconquista della Cgil a un indirizzo classista o la rinascita del sindacato di classe fuori e contro di essa. All’interno di questa duplice possibilità, per oltre trentanni, indicammo ai lavoratori e ai militanti del partito l’indirizzo immediato di lavorare al suo interno per ricondurla su posizioni classiste. Lo ritenevamo possibile perché nei primi decenni del secondo dopoguerra in quel sindacato militava la parte più combattiva della classe operaia, che portava con sé ancora vive le tradizioni delle gloriose lotte proletarie del primo dopoguerra. Tuttavia, escludemmo sempre la riconquista per via “congressuale”, cioè solo sfruttando il meccanismo democratico. Indicammo possibile solo una riconquista che chiamammo “a legnate”, ossia sull’onda di un potente movimento di lotta dei lavoratori che avrebbe dovuto cacciare la dirigenza nazionale e territoriale, coi suoi bonzi e pompieri della lotta di classe, scontrandosi violentemente con essa.
Le battaglie operaie del secondo dopoguerra, per quanto importanti, non giunsero a una intensità tale da disarcionare l’opportunismo sindacale dalla Cgil, che riuscì, nell’arco di un trentennio, favorito dalla fase di crescita dell’economia capitalista, a sradicare dai cuori e dalle teste dei lavoratori le sane tradizioni classiste che ancora vi erano all’atto della sua ricostituzione. Ritenemmo compiuto e irreversibile questo processo al finire degli anni ‘70, quando primi gruppi di lavoratori per lottare dovettero farlo, per necessità, fuori e contro la Cgil, e ai militanti del nostro partito veniva preclusa ogni sostanziale possibilità di battersi per l’affermazione al suo interno dell’indirizzo sindacale comunista. Giudicammo cioè tramontata la possibilità della riconquista di quel sindacato, e da allora il nostro indirizzo immediato è: per la rinascita del sindacato di classe fuori e contro la Cgil e gli altri sindacati di regime. La correttezza di questo indirizzo è stata confermata negli anni successivi dalla nascita degli organismi sindacali di base.
Denunciare una “grave crisi democratica” nella Cgil, dal 1945 a fine anni ‘70, significava travisare la vera natura del problema, che era politica, indicando di conseguenza vie fallimentari per la sua soluzione. Farlo oggi, come Landini e la Rete 28 Aprile, significa solo nascondere l’evidenza di un organismo sindacale irreversibilmente anti-operaio, puntellandolo con l’illusione di una sua impossibile riconversione in organismo di lotta dei lavoratori.
L’azione di opposizione della maggioranza Fiom alla pretesa crisi democratica della Cgil è fatta di manovrismi e atteggiamenti altalenanti perché rientra nei giochi di potere di questo sindacato di regime, da cui è esclusa una reale mobilitazione, chiara e trasparente, dei lavoratori al suo esterno come al suo interno.
Tutto ciò dà ragione di credere che anche su questo ultimo accordo si giungerà a una riconciliazione entro la Cgil e sarà applicato in tutte le categorie, metalmeccanici compresi, con tutte le sue conseguenze.
Il sindacalismo di base e la rinascita del sindacato di classe
Incalzata dalla crisi la borghesia sa di dover andare a fondo con gli attacchi contro i lavoratori, aumentando lo sfruttamento e riducendo i salari. I lavoratori saranno spinti dal capitalismo nella miseria e nella povertà e non potranno che reagire lottando. Questa prospettiva è chiara agli industriali come ai sindacati di regime. Questi ultimi non hanno altra scelta che prepararsi a questo processo irrigidendo le barriere contro la lotta di classe. Ma non possono che adottare palliativi che in realtà ricreano nuove debolezze.
Questo è il senso dell’accordo sulla rappresentanza: inizialmente rafforzerà i sindacati di regime, ma finirà per favorire la rinascita del sindacato di classe. Questo per due ragioni, fra loro collegate.
In primo luogo, quando i lavoratori vorranno battersi contro un accordo peggiorativo votato a maggioranza dalla RSU, non potranno rivolgersi a nessuno dei sindacati vincolati dall’accordo del 10 gennaio. Dovranno guardare ai sindacati estranei ad esso, oppure organizzarsi da sé. L’accordo, ad esempio, impedirà alla Fiom di svolgere quella minima azione sindacale in contrapposizione a Fim e Uilm, valida non a fermare i contratti peggiorativi ma ad accreditarla fra i lavoratori quale alternativa ad esse. Tranne nelle poche aziende in cui detiene la maggioranza assoluta dei delegati RSU, la Fiom dovrà scegliere se subire accordi separati o stilare piattaforme unitarie avendo ben poco potere contrattuale. Il sindacalismo di regime si troverà quindi più fragile perché meno in grado di contenere lotta, fingendo di assecondarla con azioni deboli e che mirano a dissiparne le energie.
Il sindacalismo di base, quindi, non vincolato all’accordo, avrà la possibilità di rafforzarsi. Questa prospettiva non è immediata e deve fare i conti con l’esclusione dalle RSU e la privazione delle prerogative sindacali in fabbrica: permessi e distacchi sindacali, possibilità di richiedere assemblee sul posto di lavoro, diritto di affissione, pagamento delle quote sindacali col metodo della delega.
Ma questa, a dispetto delle apparenze, è la seconda ragione che potrà favorire il processo di rinascita del sindacato di classe. Il sindacalismo di base, con pochissime eccezioni, ha sempre considerato i diritti sindacali, di cui ora lo si vuole privare, utili alla lotta dei lavoratori. I militanti sindacali del nostro partito, quasi soli, li hanno invece sempre denunciati quali strumenti di corruzione e di sviamento della lotta.
Per questi motivi.
– Col consentire e “regolare” il “sindacato in fabbrica” tendono a chiudere i lavoratori entro un orizzonte aziendale. L’origine della lotta operaia è, quasi sempre, sul posto di lavoro, ma l’ossigeno per crescere è fuori dalla fabbrica, nell’unità dei lavoratori al di sopra delle aziende e delle categorie. Compito di un sindacato di classe è perseguire l’unità della classe lavoratrice e ciò va fatto, oltre che sostenendo azioni e rivendicazioni comuni che uniscono i lavoratori, ponendo quale centro organizzativo del sindacato non la struttura aziendale ma quella territoriale, come nella tradizione delle originarie Camere del lavoro. Questo significa, ad esempio, organizzare le assemblee fuori dal posto di lavoro, nella sede territoriale del sindacato, al riparo dalle spie aziendali, dove le decisioni sono prese da chi dedica parte del suo tempo libero a partecipare all’assemblea, dove i lavoratori si riuniscono in quanto membri di una unica classe, rafforzando i legami di fratellanza non in quanto dipendenti di una singola unità produttiva capitalista. Inoltre l’organizzazione territoriale del sindacato è la sola in grado abbracciare i lavoratori delle tante piccole e medie imprese, nonché dei disoccupati. Il sindacalismo di regime, non a caso, ha ribaltato la tradizione della originaria CGL “rossa” (1906-1926), svalutando il ruolo delle camere del lavoro, svuotate di compiti e ridotte a strutture burocratiche e parastatali, e incentrando la vita sindacale dentro l’azienda, fingendo di dar peso e ruolo agli organismi aziendali.
– Privilegiare la struttura territoriale del sindacato non significa negare la possibilità di una organizzazione dei lavoratori all’interno dell’azienda, se questa effettivamente si manifesta, ma riportarla al giusto rango nel complesso del movimento di lotta della classe operaia e del sindacato. Nelle sezioni sindacali aziendali occorre lavorare a chiarirne i limiti e l’importanza delle questioni generali della classe, tendendo a rompere il ghetto aziendale nel quale il padronato la vuole divisa. Gli organi sindacali aziendali devono difendersi dai tentativi di interferenze del padrone, come invece è stato con l’accordo per le RSU del 1993 e con il Testo Unico sulla Rappresentanza del 10 gennaio scorso. Le RSU, nate sui binari del collaborazionismo, sono ora diventate definitivamente inservibili ai fini della lotta. I lavoratori dovranno costituire altri organismi rappresentativi, paralleli e contro di esse, svuotandole di ogni valore.
– Il pagamento della quota sindacale per mezzo della delega è base e sanzione del collaborazionismo sindacale. Per i conti dell’azienda passano i soldi del sindacato e le è consegnata la lista degli iscritti, cosa che un organismo in lotta contro di essa dovrebbe avere massima cura di evitare, per non facilitarne l’azione repressiva. Nella storia del movimento operaio un fondamentale collegamento fra lavoratori e sindacato era la rete dei collettori, ossia dei militanti che mese per mese raccoglievano le quote degli iscritti, svolgendo così un costante lavoro di propaganda e di confronto mantenendo vivo il rapporto fra l’organizzazione gli associati. La Cgil iniziò lo smantellamento di questa rete dagli anni ‘50, presentando il pagamento con delega come una “conquista”, e lo completò negli anni ‘70. La lotta contro la delega fu una delle principali battaglie dei nostri compagni entro la Cgil; l’affermarsi di questa prassi collaborazionista fu una delle ragioni che ci portarono a considerare quel sindacato definitivamente di regime. È chiaro che l’autonomia del sindacato dal padronato passa sia per la sua linea sindacale sia per i suoi metodi organizzativi.
Il sindacalismo di base potrà superare l’ostacolo posto dall’accordo del 10 gennaio, con l’esclusione dalle RSU e dalle prerogative sindacali in azienda, e cogliere la possibilità da esso offerta per il suo rafforzarsi, solo se saprà senza indugi porsi sulla strada del sindacalismo di classe, abbandonando ogni inconseguente illusione di garanzia di sopravvivenza e sviluppo al di fuori di un indirizzo intransigente di classe, della sua forza organizzata e della sempre più estesa lotta operaia.
La ribellione anti-nazionale di operai e disoccupati in Bosnia
La Bosnia attuale, a seguito degli accordi di Dayton del 1995, è uno Stato suddiviso in Repubblica Serba Srpska, che è il territorio dei serbo-bosniaci, e la Federazione Croato Musulmana, dove vivono in maggioranza bosniaci musulmani e croato-bosniaci, a sua volta composta di dieci cantoni con i propri governi locali. Prima della guerra era conosciuta per le numerose e fiorenti fabbriche, ma oggi quel quadro produttivo è radicalmente cambiato e, a venti anni dalla fine del macello iugoslavo, la deindustrializzazione è compiuta. Diverse industrie sono state privatizzate, poi smantellate, in un processo che è ancora in corso, facendo svanire i sogni borghesi di un aumento del numero dei posti di lavoro. La realtà è quella di un Paese dove la produzione industriale è in netto calo e in caduta libera le esportazioni.
I devastanti effetti della guerra hanno inoltre compromesso le infrastrutture, che a stento vengono rimodernate, frenando ulteriormente l’economia. Nelle poche fabbriche sopravvissute non è un’eccezione che gli operai lavorino senza esser pagati. Il paese ha una disoccupazione tra le maggiori d’Europa: l’agenzia nazionale di statistica ne valuta un tasso di oltre il 40% e in alcuni cantoni gli occupati sono meno dei disoccupati; però molti proletari sono costretti a lavorare in nero. Anche le rimesse degli emigrati (oltre il 15% dei bosniaci vive all’estero), salvagente fondamentale per il Paese, risentono della recessione e negli ultimi anni sono diminuite sensibilmente.
Dal 2008 i prezzi delle materie prime sono crollati mettendo in ginocchio l’economia basata principalmente sull’esportazione di legname, metalli e derivati. Il resto lo ha fatto il calo della domanda in Germania, Serbia e Croazia, partner commerciali storici di Sarajevo.
Queste difficoltà economiche pesano sempre più su una popolazione ormai priva di riserve. Le statistiche inseriscono la Bosnia Erzegovina tra i paesi più poveri del pianeta: tra la striscia di Gaza e lo Yemen.
In questo contesto la fedele arma della classe dominante, il nazionalismo, ha per decenni tarpato le ali ad un proletariato sempre più alla fame, ad una classe lavoratrice chiusa nei recinti delle fabbriche dalle complici organizzazioni sindacali e indebolita nella lurida divisione in razze, religioni, cantoni.
Ma le prime crepe di questa odiosa impalcatura del capitale iniziano a scorgersi e i fatti ne sono una testimonianza. Infatti nel 2013 il paese è stato teatro di numerosi scioperi e manifestazioni di protesta. Ad aprile, uno sciopero di otto giorni ha paralizzato la città di Sarajevo coinvolgendo tutto il cantone. I lavoratori dell’impresa pubblica di trasporti sono entrati in sciopero contro il mancato pagamento degli arretrati. Per più di una settimana non sono circolati autobus e tram. Lo sciopero ad oltranza dei lavoratori ha scavalcato i sindacati di categoria che hanno avuto in principio un ruolo marginale e poi sono passati alla difesa dell’azienda. Come a Genova e a Seoul i lavoratori sono stati accusati di oltraggio al fantomatico bene comune dei cittadini. Gli autisti percepiscono circa 800 marchi mensili, neanche 400 euro, in media con la classe lavoratrice del Paese.
Ma questo è stato solo il più significativo di una lunga serie di scioperi, alcuni sostenuti da vari sindacati, che si sono protratti per tutto il 2013, come quello dei ferrovieri, sia della Federazione Bosniaca sia della Repubblica Srpska, che chiedevano il pagamento degli arretrati. Contro i mancati pagamenti hanno scioperato anche i vigili del fuoco e le scuole materne di Mostar, gli impiegati della BIRA, un’impresa a Bihaæ, i comunali di Sanski Most, etc. etc.
Scoppia la rabbia proletaria
Il 5 febbraio scorso a Tuzla, che era una città industriale nel Nord del paese, sono scesi in piazza migliaia di lavoratori licenziati o non pagati di diverse aziende privatizzate, tra cui la serba Dita, che produce detersivi, il mobilificio Konjuh, la Polihem e la Resod-Gumingsono. La manifestazione in poche ore si è ingrossata: in migliaia, in maggioranza proletari disoccupati, molti dei quali giovani, hanno affiancato e sostenuto i lavoratori. La tensione è cresciuta e gli scontri con le forze dell’ordine, a difesa dei palazzi del potere, sono stati inevitabili. L’eco della protesta si è diffusa in tutto il paese e due giorni dopo, il 7 febbraio, la scintilla di Tuzla ha innescato la rabbia di un proletariato in miseria che è esplosa imprevista e simultanea in decine di città.
Diverse sedi cantonali sono state prese d’assalto e quattro finite in fiamme: a Tuzla, Zenica, Mostar e Sarajevo. Nella maggior parte dei casi le manifestazioni sono state a guida operaia, e le parole più gridate contro la cattiva gestione e la chiusura delle fabbriche. In realtà la chiusura delle fabbriche a Tuzla è effetto della crisi internazionale, non certo arginabile dai governi borghesi che in questi anni si sono avvicendati nel piccolo Paese. Manifestazioni e scontri con la polizia si sono protratte per giorni, in particolare nella Federazione Croato-musulmana.
Nella capitale Sarajevo la polizia è intervenuta con proiettili di gomma e gas lacrimogeni, che non sono bastati a fermare la rabbia proletaria. A Mostar solo dopo giorni di scontri è tornata la calma e diversi organizzatori delle manifestazioni sono stati arrestati compreso un sindacalista.
I governanti dei cantoni di Sarajevo, Zenica e Tuzla si sono dimessi, così come il capo della polizia di Mostar. Le proteste si sono placate con le dimissioni di quattro governi cantonali - Tuzla, Mostar, Sarajevo e Bihaæ - e il rilascio di numerosi dimostranti arrestati.
È stata concessa la costituzione dei “Plenum”, generiche assemblee di cittadini incaricate di elaborare delle proposte economiche e sociali per il bene del Paese. Sappiamo che questo bene generico equivale al bene della classe dominante. Queste assemblee interclassiste, anche nel caso di buona volontà dei partecipanti e di forte presenza di lavoratori in esse, non potranno mai scalfire il potere e la struttura del capitale, e quindi contrastare efficacemente gli effetti della sua crisi sui lavoratori. La classe operaia dovrà mettersi in moto ed agire autonomamente dalle altre classi e cercare la solidarietà, non delle mezze classi in rovina nel proprio cantone, ma della classe lavoratrice di tutto il proprio paese e, tendenzialmente, di tutto il mondo. I “Plenum” sono sicuramente una trappola dei borghesi; se i lavoratori vi entreranno dimostreranno solo la loro debolezza ed inesperienza, privi come oggi sono, anche in Bosnia. di una sincera organizzazione economica in grado di organizzarli in fabbrica e fuori per difendersi dagli attacchi del capitale e di un partito di classe che indichi loro per tempo i pericoli a cui vanno incontro.
Il 9 febbraio, senza perder tempo, il primo ministro croato Zoran Milanoviæ si è incontrato a Mostar, città con una numerosa popolazione croata, con i leader locali, mentre il presidente della Repubblica Srpska - Milorad Dodik - si è recato in Serbia incontrando Aleksandar Vuèiæ primo vicepremier della Serbia. La paura delle borghesie croata e serba sono evidenti. Mentre le manifestazioni, salvo alcuni casi isolati, non hanno avuto alcuna connotazione né divisione etnica, i capi borghesi dei due Stati non hanno tardato a gettare benzina sul fuoco del nazionalismo fingendo di accusarsi a vicenda di tutta una serie di complotti contro la propria patria.
Contro il nazionalismo
La genuina rabbia che i proletari di Bosnia hanno riversato sui simboli del potere è stata priva di alcuna connotazione e divisione etnica, religiosa o nazionale, un esempio per tutti i lavoratori d’Europa in un periodo di crisi dove i venti di guerra si fanno sempre più intensi. E in diversi casi la rivolta ha assunto connotati esplicitamente antinazionali. A Tuzla, mentre l’edificio del governo andava in fiamme, una scritta su di un muro intimava: dimettetevi tutti - morte al nazionalismo, in un paese dove il nazionalismo, pochi anni or sono, è stato invocato per macellare migliaia di proletari su fronti opposti. In diverse città come a Monstar sia croati sia bosniaci si sono lanciati insieme all’attacco alle sedi centrali di entrambi i maggiori partiti nazionalisti, HDZ e SDA. Manifestanti di etnia croata hanno protestato anche a Livno e Orašje, mentre altri di etnia serba hanno organizzato manifestazioni, seppur in forma ridotta, a Prijedor, Banja Luka, Bijeljina e Zvornik. A Drvar, una piccola città al confine con la Croazia, un sindacato la cui maggioranza dei membri è di nazionalità serba ha appoggiato i manifestanti per la maggior parte croati.
È questa la strada che i proletari di tutto il mondo dovranno percorrere, superando le artificiali barriere della classe dominante, costruendosi una vera organizzazione di lotta per la difesa dei loro interessi, ineluttabilmente in collisione con quelli dei borghesi. La rivolta dei proletari di Bosnia, gli stessi che furono costretti dal capitale mondiale a massacrarsi a vicenda col pretesto di antistoriche superstizioni sub e pre-nazionali, hanno dimostrato come è possibile travolgerle quando monta la genuina lotta di classe. È su questa traiettoria che la classe operaia mondiale arriverà ad opporre alla guerra fra le nazioni dei borghesi la sua propria guerra fra le classi, dentro e fuori i confini del proprio paese.
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La prosecuzione della pubblicazione dello studio su Imperialismo e Petrolio per motivi di spazio dobbiamo rimandarla al prossimo numero.