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Gli attentati del novembre scorso a Parigi e quelli di marzo a Bruxelles, come quelli che hanno colpito nelle ultime settimane Istanbul e Ankara, Baghdad Damasco o Beyruth, si iscrivono nel bagliore dell’incendio che da cinque anni devasta almeno due grandi paesi mediorientali, la Siria e l’Iraq riverberandosi sui paesi confinanti. Decine di morti in Europa, centinaia in Turchia, Iraq, Libano, centinaia di migliaia in Siria, ma si tratta della stessa guerra, in preparazione di uno scontro ancora più esteso e sanguinoso che intende riportare sui fronti di battaglia, nell’interesse dei pescecani capitalisti, anche il proletariato dei paesi economicamente più forti.
Una nuova guerra da preparare non solo materialmente, aumentando la spesa in armamenti, ma nelle coscienze, spingendo i proletari delle diverse nazionalità, razze, religioni a dimenticare i loro legami di classe e a scagliarsi gli uni contro gli altri.
La guerra di Siria è stata preparata a tavolino dagli strateghi militari statunitensi e dai loro più stretti alleati mediorientali, Arabia Saudita, Turchia, Qatar, per eliminare il regime di Assad, e con la sua caduta colpire la Russia e l’Iran, ma anche per mettere la cappa di piombo della guerra su ogni velleità di riscossa del proletariato mediorientale che a quei regimi, dalla Tunisia alla Siria attraverso l’Egitto, si stava ribellando, organizzandosi come classe che lotta per sé.
Il Califfato Islamico, con la sua capitale Raqqa, è potuto sorgere e prosperare grazie alla protezione e all’appoggio della Turchia e dall’Arabia Saudita. Ha potuto diventare punto di riferimento per gli ex militari sunniti dell’esercito iracheno rimasti disoccupati dando loro una paga e una possibilità di rivalsa dal settario governo sciita installato a Baghdad, oltre ad approfittare dei risentimenti dei sunniti di Siria schiacciati dal regime degli Assad.
Il terrorismo che ha colpito negli ultimi mesi a Parigi e a Bruxelles non va contro gli interessi degli Stati europei ma li agevola nella preparazione della loro guerra interna contro il proletariato e della loro guerra esterna contro gli altri Stati borghesi.
È lo stesso cinismo di questi Stati, democratici civili europeisti e pacifisti, che tratta come bestie i fuggitivi dalla guerra e dalla fame, utilizzati come strumento di ricatto fra gli Stati o come l’ennesimo affare per accumulare nuovi profitti.
Dopo gli attentati di Parigi, scrive “Il Manifesto”: «Damasco lancia dure accuse ai Paesi europei che, afferma, per troppo tempo hanno sostenuto gruppi jihadisti spacciandoli per “moderati”. Una politica che si è rivelata un boomerang». Per contro il regime siriano è stato accusato per anni da Israele ma anche dalla Francia, dalla Gran Bretagna, dagli Stati Uniti, di foraggiare gruppi terroristi, soprattutto in Libano. La realtà è che tutti gli Stati borghesi usano il terrorismo, sia direttamente tramite i loro servizi segreti (che quando serve si dicono “deviati”), sia servendosi di gruppi esterni all’apparato statale.
La coalizione che pare aver combattuto con più efficacia lo Stato Islamico e gli altri gruppi sunniti radicali è quella guidata dalla Russia e dall’Iran con l’appoggio dei miliziani Hezbollah libanesi e dei curdi siriani del PYG. Questo fronte si è però schierato anche a difesa del regime di Assad e i risultati che ha ottenuto sul campo, con la riconquista di una parte dei territori occupati dallo Stato Islamico e da altri gruppi armati, sono proprio stati dovuti al fatto che dispone di truppe sul terreno, a partire da quel che resta dell’esercito di Damasco.
Questa coalizione, che in occidente gode del sostegno di alcuni partiti e organizzazioni “di sinistra”, ha gli stessi obbiettivi e interessi imperialisti della coalizione a guida statunitense, a cui si contrappone, e Russia ed Iran sono regimi imperialisti e antiproletari quanto quelli di Turchia e Arabia Saudita.
I curdi del Rojava che hanno sconsideratamente scelto di allearsi alla Russia per cercare di sfuggire alla stretta della Turchia, saranno presto o tardi sacrificati sull’altare della realpolitik, cioè dell’interesse nazionale russo, così come succederà ai curdi d’Irak usati come mercenari dagli Stati Uniti in cambio di una fragile quanto reazionaria autonomia.
Il proletariato siriano e degli altri paesi del Medio Oriente e dell’Asia centrale, devastato da questa guerra infinita, chiuso nelle città sotto assedio, ridotto all’inedia e alla fame nei campi profughi, perseguitato quando chiede asilo e rifugio, non dovrà farsi nuovamente imbrigliare nell’una o nell’altra coalizione imperialista.
La soluzione alla guerra, allo sfruttamento e alla fame, la possibilità di un avvenire per le generazioni future sta solo nel rifiutare la guerra imperialista su tutti i fronti, nella scelta di organizzarsi e lottare per sé, in alleanza col proletariato degli altri paesi, superanta ogni divisione di razza, di nazionalità, di religione, nel nome della rivoluzione comunista internazionale.
Un nostro volantino in Francia
Il
capitale esige di disporre a piacere della forza lavoro
Di fronte alla crisi mondiale del capitalismo e la spietata guerra commerciale, la borghesia di ciascun paese risponde intensificando lo sfruttamento del proprio proletariato: lavoro precario, salari ridotti approfittando dell’elevato tasso di disoccupazione, aumento dell’orario in funzione dei bisogni dell’impresa. E, soprattutto, la possibilità di licenziare con costi minimi: si assume quando c’è una domanda di lavoro, si licenzia appena la domanda si abbassa; in altre parole, si adatta l’impiego della mano d’opera ai bisogni dell’accumulazione del capitale.
Dopo la Grecia, la Spagna e l’Italia, la borghesia francese e il suo governo cercano di far passare le stesse misure modificando nel profondo il Codice del Lavoro. La Germania, dove si può assumere lavoratori a tempo pieno per 500 € al mese, ha già messo in atto queste misure con il governo social-democratico di Gerhard Schröder nel 2003, e l’Inghilterra molto prima con la Thatcher. Queste misure si possono riassumere in tre frasi: liberalizzazione del mercato del lavoro; abbassamento delle prestazioni sociali; riforma delle pensioni, cioè lavorare più a lungo, fino a 67 anni, e prendere meno di pensione.
La Spagna, dove i costi salariali unitari si sono abbassati dell’8% dal 2009, è spesso citata come esempio. La borghesia francese pretende da molto tempo che si applichino le stesse misure in Francia.
Non è che i diversi governi successivi non abbiano tentato di far passare le stesse “riforme”, ma grandi scioperi e manifestazioni hanno costretto questi governi ad arretrare. Si può ricordare i forti scioperi dei ferrovieri del 1986 sotto il governo Chirac e del 1995 sotto il governo Juppé, e le manifestazioni del 2006 anti-CPE sotto il governo Villepin. Ma intanto i successivi governi hanno proceduto a piccoli passi.
Per giustificare queste riforme ci viene detto che permetteranno di diminuire la disoccupazione, particolarmente dei giovani, perché i padroni non avranno più da temere di assumere dei lavoratori fissi quando le condizioni di assunzione di questi si avvicineranno a quella dei precari. Invece i padroni assumono non perché possono licenziare più facilmente, ma perché l’aumento della produzione ha creato una domanda di lavoro supplementare.
Dal 2014 e dal 2015, le imprese europee, in seguito alle misure di ristrutturazione che si sono tradotte in numerosi licenziamenti, hanno recuperato le loro disponibilità finanziarie. Ma non le hanno investite, il tasso di utilizzazione degli impianti resta inferiore del 20% a quello del 2007.
Perché le borghesie dei grandi paesi industriali non investono? Semplicemente perché ci troviamo in una situazione di sovrapproduzione mondiale, che si traduce in una caduta vertiginosa dei prezzi delle materie prime e una guerra commerciale esacerbata. In Francia la produzione industriale è sempre inferiore del 13% in rapporto al massimo del 2007. Nel Regno Unito del 14%, in Italia del 23%, in Spagna del 26% e in Giappone del 14%. In queste condizioni non si prospetta nessuna vera ripresa economica, al contrario si va direttamente verso una peggiore crisi internazionale di sovrapproduzione.
In questo contesto, a parte creare nuove sofferenze per i lavoratori, a cosa servirà questa sedicente riforma? Che farà il padronato di questi nuovi profitti che guadagnerà da questo più vasto sfruttamento dei lavoratori? Investirà per aumentare la produzione ed assumere? No perché non ha alcuna prospettiva seria di vendita. Potranno forse aumentare la loro quota di mercato a detrimento dei concorrenti, facendo lavorare più a lungo i salariati già occupati – 10-12 ore al giorno, con delle settimane di 60 ore, come permetterebbe il nuovo codice del lavoro – ma in nessun caso si metteranno a investire. E i prodotti dove andranno? Nella migliore delle ipotesi serviranno alle imprese a pagare una parte dei loro debiti, ma soprattutto andranno in grassi dividendi a quella cricca di parassiti chiamata azionisti e in generale ad aumentare i profitti del capitale finanziario. Infatti le statistiche dimostrano che i dividendi delle imprese sono in forte crescita.
Il capitalismo è un modo di produzione superato che è sopravvissuto, fino ai nostri giorni, grazie a due guerre mondiali e alla sconfitta del proletariato rivoluzionario negli anni venti.
La seconda guerra mondiale ha permesso al capitalismo di uscire dalla grave crisi degli anni Trenta, ringiovanendo la sua composizione organica permettendogli così di ricominciare tutto un ciclo.
Ma nel capitalismo non può esserci equilibrio tra produzione e consumo: l’accumulazione del capitale esalta le forze produttive, ma queste urtano contro la ristrettezza dei rapporti di proprietà, nei limiti dei delle possibilità di pagare.
Il ciclo si è definitivamente chiuso con la prima grande crisi di sovrapproduzione internazionale del 1975. Da allora il capitalismo mondiale, di ciclo in ciclo, va da una crisi di sovrapproduzione all’altra. Ed oggi ci troviamo alla vigilia d’una crisi più profonda e terribile di quella del 1929.
La Cina, la cui formidabile accumulazione del capitale ha permesso agli Stati Uniti, al Giappone e all’Europa di rinviare di quasi 20 anni l’inevitabile crisi, si trova sull’orlo della recessione. I paesi in via di sviluppo sono o in forte rallentamento o in recessione come il Brasile e la Russia.
La crisi in arrivo colpirà per primi i paesi industriali che hanno conosciuto la più forte accumulazione del capitale in questo dopoguerra. Vale a dire l’Europa, in Asia il Giappone, la Corea del Sud e la Cina, e l’America del nord.
Per uscire da questa crisi la soluzione esiste, ed è nelle vostre mani, compagni: bisogna rovesciare la borghesia e il suo Stato, abolire i rapporti di produzione capitalistici, che sono il lavoro salariato e il capitale, e passare ad una gestione comunista della produzione e della distribuzione.
Per cominciare, bisogna ritrovare la solidarietà e la fraternità tra lavoratori e organizzarsi in veri sindacati di classe, che oggi non esiteranno, per, quando le condizioni sono favorevoli, scendere in duri e lunghi scioperi, i più generali possibile, al fine di far arretrare la borghesia.
Ma per raggiungere l’obiettivo finale, il rovesciamento della borghesia e del suo Stato, per il passaggio al comunismo, dovete unirvi ai ranghi del partito di classe, il Partito Comunista Internazionale.
Negli anni a venire l’alternativa sarà o terza guerra mondiale o rivoluzione comunista internazionale.
L’assassinio di Giulio Regeni, giovane che informava sull’attività dei sindacati indipendenti egiziani, è certamente opera dell’apparato repressivo dello Stato, consapevole della pericolosità che le organizzazioni proletarie rappresentano per gli interessi della borghesia.
Nel suo ultimo articolo, pubblicato da “Il Manifesto” del 5 novembre, Giulio denunciava «una circolare del consiglio dei ministri che raccomanda una stretta collaborazione tra il governo e il sindacato ufficiale ETUF (unica formazione ammessa fino al 2008) con il fine esplicito di contrastare il ruolo dei sindacati indipendenti e marginalizzarli tra i lavoratori».
Dopo la presa del potere con un colpo di Stato, il nuovo regime militare guidato dal generale Al Sisi ha iniziato una spietata guerra contro i Fratelli Musulmani, che difendevano il precedente governo.
I Fratelli erano riusciti ad andare al governo dopo la caduta del regime di Mubarak, approfittando della loro fama di antichi oppositori del vecchio dittatore e facendo demagogiche promesse elettorali al numeroso sottoproletariato, ai contadini poveri, ma anche alle classi medie e alla borghesia, timorosa che i moti di rivolta assumessero i contorni di una ribellione proletaria.
Il loro governo, investito dal ciclone della crisi economica internazionale, ha però ben presto deluso sia le classi meno abbienti che vedevano minacciati i tradizionali aiuti di Stato, sia e soprattutto la media e grande borghesia che, di fronte al crescere delle organizzazioni proletarie e al moltiplicarsi degli scioperi, non aspettava altro che l’occasione per mettersi nuovamente sotto l’ala protettiva dell’esercito.
Il nuovo dittatore, il generale Al Sisi, ottenuta la benedizione degli Stati Uniti, non ha perso tempo nell’organizzare la repressione e instaurare un regime di terrore. A monito contro ogni velleità di rivolta, migliaia di sostenitori del “legittimo” governo dei Fratelli Mussulmani sono stati uccisi durante pacifiche manifestazioni di piazza nel complice silenzio di tutti i governi “democratici” di Occidente; decine di migliaia gli oppositori arrestati, 600, a quanto ora si scrive, gli scomparsi, non solo tra i Fratelli ma anche tra gli organizzatori degli scioperi e dei nuovi sindacati che non hanno voluto piegarsi alle imposizioni del regime militare e tra gli attivisti dei partiti che si richiamano anche vagamente al comunismo.
Naturalmente il regime di Al Sisi gode dell’appoggio degli Stati Uniti, che forniscono ogni anno miliardi di dollari all’esercito egiziano; questo ha recentemente ottenuta la fornitura di alcuni aerei da caccia Rafale da parte del governo “socialista” francese e ha ottimi rapporti con l’Arabia Saudita, ad esempio, con la quale collabora attivamente nella guerra in Yemen.
Se questo è stato il trattamento riservato ad un giovane giornalista straniero possiamo facilmente immaginare cosa non farà la polizia del Cairo contro gli organizzatori egiziani dei sindacati indipendenti, senza che nulla trapeli. Ma, forza della lotta di classe, il proletariato egiziano non è stato piegato da mesi e mesi di dura repressione e il fuoco della rivolta rimane vivo. I sindacati indipendenti continuano la loro attività organizzandosi illegalmente e, come riferisce Giulio nel suo ultimo articolo «proprio in questi giorni, in diverse regioni del Paese, da Asyut a Suez, al Delta, lavoratori di società dei settori del tessile, del cemento, delle costruzioni, sono entrati in sciopero ad oltranza: per lo più le loro rivendicazioni riguardano l’estensione di diritti salariali e indennità riservate alle società pubbliche. Si tratta di benefici di cui questi lavoratori hanno smesso di godere in seguito alla massiccia ondata di privatizzazioni dell’ultimo periodo dell’era Mubarak».
Si tratta di lotte per l’aumento dei magri salari, per imporre la libertà di organizzazione e di sciopero, per difendere l’esistenza del movimento sindacale di classe. Una lotta che accomuna i proletari di tutto il mondo.
Le diverse borghesie usano due metodi per contenere il movimento difensivo dei lavoratori: uno è quello prevalentemente in uso in Occidente, con la corruzione dei sindacati e la loro sottomissione alle necessità del capitale; l’altro è l’aperto clima di terrore, che vige nella grande maggioranza dei paesi del mondo. Ma questa, più sincera, politica ogni borghesia, anche se oggi si ammanta di democrazia, la tiene sempre pronta qualora la prima venisse a dimostrarsi insufficiente a disarmare le lotte operaie.
Le molte facce di una unica crisi storica del capitalismo
L’evoluzione delle crisi economiche, politiche e militari è costantemente monitorata dagli imperialismi tramite i loro migliori studiosi che dispongono di informazioni di prima mano. Ciò nonostante da parecchi mesi, dopo i fallimenti delle operazioni diplomatiche e gli scarsi risultati dei bombardamenti aerei nelle aree più critiche, ammettono quasi in coro che non sono in grado di avanzare alcuna previsione, per il continuo mutare dei rapporti che uniscono e dividono le parti, una situazione fluida in cui i componenti delle varie coalizioni di fatto agiscono per conto proprio, talvolta in contrasto con gli obiettivi comuni, tutti contro tutti. Ammettono la loro impotenza coniando il termine Caoslandia.
Si individuano tre diverse vaste aree geografiche di crisi, che interagiscono sulla politica di molti Stati. Sarebbero: l’Eurozona con i suoi problemi economici e produttivi; il Grande Mediterraneo in generale instabilità dopo cinque anni di guerre diffuse di cui non si riesce ad intravedere soluzione né politica né militare; i Balcani che, nonostante l’apparente calma attuale, sono ancora oggetto di spartizione tra Russia, Germania e Stati Uniti. L’Italia sarebbe nel baricentro di questo “Caos”.
Dei combattimenti che da molti anni devastano vaste aree, provocando la fuga di milioni di profughi, nulla si spiega e se ne confondono e nascondono cause e criticità.
Noi, che non dobbiamo render conto a nessun padrone borghese, partiamo da quanto Lenin spiega ne “L’imperialismo”: è l’economia dei grandi monopoli che domina sulla politica generale e minuta dei vari Stati. «Le alleanze “inter-imperialistiche” o “ultra-imperialiste” non sono altro che un “momento di respiro” tra una guerra e l’altra, qualsiasi forma assumano dette alleanze, e spiega anche sia il costituirsi di una coalizione imperialista contro un’altra, sia la costituzione di una lega generale tra tutte le potenze imperialiste. Le alleanze di pace preparano le guerre e a loro volta nascono da queste; le une e le altre forme si determinano reciprocamente e producono, sull’unico e identico terreno dei nessi imperialistici e dei rapporti dell’economia e della politica mondiale, l’alternarsi della forma pacifica e non pacifica della lotta».
Importante l’avvertimento che il compagno Vladimiro ci manda nella nota alla Prefazione alle edizioni francese e tedesca del 1920: «La dimostrazione del vero carattere sociale o, più esattamente, classista della guerra, non è contenuta naturalmente nella sua storia diplomatica, ma nell’analisi della situazione obiettiva delle classi dominanti in tutti i paesi belligeranti. Per rappresentare la situazione obiettiva non vale citare esempi e addurre dati isolati: i fenomeni della vita sociale sono talmente complessi che si può sempre mettere insieme un bel fascio di esempi e di dati a sostegno di qualsivoglia tesi. È invece necessario prendere il complesso dei dati relativi alle basi della vita economica di tutti gli Stati belligeranti e di tutto il mondo».
Di qui dobbiamo partire per la nostra analisi, anche se di fronte a noi compare un immenso e apparentemente inestricabile groviglio di situazioni diverse.
Lenin nelle prime righe di quel “Saggio popolare” accenna alla guerra ispano-americana del 1898, che si inquadra nella dottrina Monroe del 1822, “l’America agli americani”. Da manifesto contro il colonialismo britannico, la formula diventa già in occasione dell’annessione del Texas a danno del Messico l’indirizzo di una politica di espansione e di egemonia, che con un movimento a raggiera si espande in cerchi sempre più ampi oltre i confini nell’area caraibica e nel Centro America. Con la guerra del 1898 gli Stati Uniti sottraggono all’impero spagnolo Cuba, Portorico e le Filippine ed iniziano l’espansione nell’Oceano Pacifico dove, al di là del Giappone, c’è l’immenso mercato cinese, meta ambita da tutti i paesi industrializzati per invaderlo con le loro merci e i loro capitali.
Nella impalcatura ideologica il “Manifest destiny” esprime la convinzione che gli Stati Uniti abbiano la missione di diffondere in tutto il mondo la loro forma di libertà e di democrazia. Il presidente americano Truman la rispolverò per giustificare gli interventi politici e militari degli Usa durante la guerra fredda, poi nel sud-est asiatico, nell’America centrale e meridionale ed ovunque come recentemente nel Medio Oriente. I sostenitori ritenevano che l’espansione non fosse solo buona, ma che fosse anche ovvia (“manifesta”) e inevitabile (“destino”), la bandiera dell’imperialismo americano. Oltre che “esportare la democrazia” all’esterno, si tratterebbe di mantenere lo “american way of life” cioè il tenore di vita all’interno, in realtà difendere i profitti imperialistici del grandissimo capitale.
Attualmente la struttura militare statunitense è basata su tre giganteschi e completi sistemi in grado di gestire contemporaneamente altrettanti conflitti in tre aree diverse, con il sostegno di una rete di ben 900 basi dichiarate, sapientemente disposte nei punti chiave del pianeta. Ad essi si aggiunge una struttura dedicata alla guerra informatica e per il controllo del flusso delle informazioni; che è ovviamente ancora da verificare sul campo, soprattutto dopo le ripetute fughe di notizie.
Questo apparato sarebbe predisposto a due principali linee di penetrazione, che vengono definite “di contenimento”: una di accerchiamento dell’attuale Russia, l’altra della Cina, considerate i principali rivali strategici, di cui la prima è ancora ben temibile mentre la seconda, emergente, con un potenziale militare moderno e nucleare ma che non è ancora mai stato visto in azione.
Il contenimento dell’imperialismo russio sul versante europeo è affidato all’alleanza militare della Nato, che dispone di una barriera antimissile contro i temibili missili russi Iskander su rampe di lancio mobili i quali, ben più potenti di quelli per la versione da esportazione, rappresentano una seria minaccia per la gittata di 450 chilometri e carico esplodente anche nucleare.
Questa barriera antimissile viene portato sempre più vicina alle frontiere russe, specialmente nei due punti critici in essere, nei Paesi baltici e nella regione ucraina del Donbass, che al momento è la più instabile. Ovviamente questo implica precisi accordi con i paesi europei prossimi al confine russo, che di fatto si trovano in uno stato di vassallaggio nei confronti degli Usa. Che non giungano notizie da quel settore non significa affatto che siano state superate tutte le gravi difficoltà che hanno infiammato la regione.
Il contenimento della Cina era iniziato subito dopo lo smembramento dell’ex Urss, circondandola con una serie di basi terrestri nel versante delle ex repubbliche sovietiche, ed ha avuto un’accelerazione dal 2012 con lo spostamento dall’Atlantico nel Pacifico di un’intera flotta americana, il rafforzamento di quelle presenti nell’Oceano Indiano e il coinvolgimento in questa politica di tutti i Paesi di quell’area alleati degli USA.
Il punto di maggior crisi si trova nella ristretta zona del mar Giallo attorno alle isole Senkaku, rivendicate anche da Taiwan e dal Giappone sia per la loro importanza strategica per i traffici marittimi sia per le risorse minerarie, petrolio in primis.
In quell’area si sono già avuti attriti, mutue provocazioni e piccoli scontri ben superiori all’abbattimento del Su24 russo nel 2015. Prudentemente la Cina, fino ad ora, non si è lasciata coinvolgere in contrasti armati di una certa importanza perché li ritiene prematuri. La prudenza dei cinesi, cui non manca esperienza storica, è soprattutto legata alla necessità di adeguare il loro intero sistema militare, uomini e mezzi, dall’attuale impostazione di “difesa terrestre interna da invasione esterna” ad una di “attacco verso l’esterno con sistemi aeronavali e missilistici”, che non è questione di poco conto e di poco tempo.
Sicuramente trattati segreti, i più importanti, legano la Cina ad altri paesi.
In Medio Oriente, dove ogni Stato della Coalizione che si proclama anti-Daesh individua i propri bersagli e nemici e li attacca in completa autonomia, si innalza l’instabilità globale portando la lotta al sedicente Stato Islamico in secondo piano rispetto ad un conflitto di dimensioni più ampie.
Per ora il recente episodio del bombardiere russo Su24 abbattuto dalla Turchia non ha portato ad una rottura della eterogenea coalizione anti-Isis in Siria. Nulla conosciamo delle trattative avvenute successivamente, ma alla fine la Francia ha accettato la collaborazione russa e il momentaneo salvataggio del presidente siriano Assad.
In cambio di che? Un segreto via libera per operare in Libia inizialmente con operazioni antiterroristiche nascoste, come riferisce Le Monde, in aggiunta e appoggio a quelle britanniche e americane già presenti? La crisi libica, e dei retrostanti paesi della fascia sub-sahariana, resterebbe gestita da queste tre potenze, relegando gli altri Stati, Italia compresa, ad un ruolo secondario.
Nessuno vuole apertamente schierarsi contro la Russia, soprattutto i paesi europei per gli affari che li legano a Mosca. Appare evidente che si è dovuto accettare la Russia nella guerra siriana sotto il pretesto del contrasto al “terrorismo di Daesh”. I russi operano in Siria con adeguati mezzi operativi, conseguendo i primi concreti risultati, decidendo quali sono i veri “terroristi” da eliminare, soprattutto quelli anti Assad.
La frase riportata dal Finacial Times nel novembre 2015 del defunto principe Saud Al Faysal al segretario di Stato Usa, John Kerry: «Daesh è la nostra risposta sunnita al vostro appoggio in Iraq agli sciiti dopo la caduta di Saddam», spiega molte cose ma non tutte. La “guerra contro l’Isis” assume un mutato e ridotto peso e significato, perché si tratterebbe dello scontro in essere all’interno dei paesi mediorientali e della stessa Arabia Saudita che è rimasta invischiata nella campagna militare intrapresa nello Yemen, la “Decisive Storm”. Sullo sfondo la lunga catena di lucrosi accordi economici e militari con i paesi europei, tra cui l’Italia, prima potenza esperta nel doppio gioco diplomatico.
Lo Stato Islamico, che nonostante il nome non ha una reale struttura di Stato ma solo di bande e di gruppi armati che controllano territori ad economia arretrata, e di cui si ignorano la gerarchia e i comandi, può continuare ad esistere solo grazie ad appoggi esterni, non bastando solo le sue pur consistenti disponibilità economiche. Anche i combattenti volontari stranieri, seppure spinti, dicono, dal fanatismo religioso, vanno pur pagati. Attaccare l’Isis quindi significherebbe attaccare i paesi che lo finanziano, Turchia e Arabia Saudita compresa, nonostante faccia parte della Coalizione, e questo non potrà avvenire fino a quando sarà protetta dagli Usa, che le hanno venduto solo negli ultimi 5 anni sistemi d’arma per 100 miliardi di dollari e 12 solo negli ultimi mesi.
Anche la Turchia gioca un ruolo ambiguo. Membro della Nato, è ben disponibile a ricevere gli aiuti americani per farsi importante baluardo contro la Russia. Per contro, aspirante potenza regionale, appoggia i gruppi armati, Stato Islamico compreso. Importa il suo crescente fabbisogno di petrolio, in modo legale o meno, dal nord dell’Iraq, controllato da una serie di organizzazioni armate di opposti schieramenti. Riscoperta la sua vocazione europeista, ultimamente smarrita, mercanteggia con l’Unione Europea miliardi di euro di “aiuti umanitari” per gli oltre due milioni di profughi siriani rifugiati nel Paesi. Inoltre in Turchia è attiva una diffusa opposizione sociale.
Il recente accordo sul nucleare tra Usa e Iran, unico Stato sciita, accerchiato da sunniti, che aspira a diventare potenza regionale, ha modificato l’assetto e l’equilibrio delle alleanze americane nell’area, in particolare verso l’Arabia Saudita. È di grande importanza per gli Usa controllare tutta la grande area mediorientale gestendo il dualismo Iran-Arabia Saudita.
L’Arabia Saudita è il maggior baluardo della reazione e della repressione del proletariato arabo ovunque esso si sollevi. Per reprimere le rivolte del 2011 nel Bahrein sull’onda delle “primavere arabe” inviò a sostegno della monarchia regnante truppe e aerei da guerra; finanzia generosamente le bande della vasta galassia del fanatismo religioso contro ogni tentativo di riscossa delle masse arabe oppresse dal capitalismo internazionale. Nemmeno i preti iraniani lesinano il carcere e le esecuzioni dei loro oppositori politici.
Fuori dell’area mediorientale, la Germania potrebbe trovare una sponda in un possibile “triangolo geostrategico” con Russia e Cina, di cui oggi emergono solo progetti vari tra cui la linea ferroviaria ad alta velocità Berlino-Mosca-Pechino. Si verrebbe così a formare una alleanza fondata sull’industrialismo più sviluppato d’Europa, sull’immenso bacino di materie prime russe e sul vasto mercato ed esercito di forza lavoro cinese. Anche se al massimo si ridurrebbe ad una temporanea alleanza di guerra fra fradici rivali nazionalismi e non certo in un piano organico di sviluppo euro-asiatico dall’Atlantico al Pacifico, troppo “razionale”, comunistico, un simile fronte militare, potrebbe davvero minacciare il domino del dollaro e degli Usa. Ovviamente questi faranno di tutto per impedirne la realizzazione, ricorrendo ad ogni mezzo, guerra preventiva compresa.
In Libia è fallito il tentativo di pacificarla, o ridurne l’instabilità, dividendola in tre zone: Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, permettendo così agli avvoltoi imperialisti di riprendere i loro affari legati al petrolio con più ridotti gruppi di controllo territoriale. In questi giorni è anche fallito l’ennesimo tentativo di ricreare un’unica entità statale superando le divisioni tra le parti. Questo mentre le truppe del generale Haftar, escluso dagli accordi preliminari per la riunificazione dei due governi libici, con l’aiuto delle forze speciali europee sta riconquistando centri importanti ed autorevolezza.
La nostra scuola nelle analisi degli scontri sia tra le classi sia tra gli imperialismi non si può fermare ad una interpretazione meccanicistica, ma deve cercare la dialettica interrelazione tra i diversi elementi della situazione, fra fenomeni solo in apparenza slegati e lontani, per portare in superficie le sotterranee correnti fondamentali che muovono la storia.
Complessivamente l’attuale situazione ha alcune analogie con lo scenario strategico presente in Europa al momento delle due guerre balcaniche del 1912, quando i principali paesi dei due blocchi di alleanze, l’Intesa e gli Imperi Centrali, non essendo riusciti ad impedirle, cercarono di gestire la crisi dei Balcani, per poi intervenire marginalmente per evitare, o almeno contenere, il propagarsi di una crisi più ampia nel resto di Europa, che fu però solo posticipata di due anni.
L’attuale accordo di “cessazione delle ostilità” raggiunto per la Siria non potrà nascondere a lungo, indipendentemente dai risultati militari sul campo, le profonde divergenze e i contrasti economici tra i principali paesi della Coalizione, che si manterranno e si infiammeranno più intensi. Il loro scioglimento non potrà essere pacifico. La generale crisi economica avanza velocemente, coinvolgendo anche il gigante cinese. Qui, per la caduta della domanda, s-ono annunciati licenziamenti per oltre un milione di lavoratori solo nel settore della produzione di energia.
Appare oggi confermata in pieno la previsione che Engels espresse nel 1894 in merito allo sviluppo economico di quel grande paese. «Ancora un volta ecco la splendida ironia della storia: alla produzione capitalistica restava ancora da conquistare la Cina; nel momento in cui finalmente la conquista, la rende impossibile nella sua madrepatria». La generale crisi storica del capitalismo colpirà per primo e più duramente quello più giovane e dinamico aprendo nuovamente la strada alla prospettiva comunista della rivoluzione internazionale.
Rapporti
esposti alla riunione generale
Parma, 22-23 gennaio 2016
[RG124]
Gli attuali flussi migratori verso l’Europa, parte terza |
La successione dei modi di produzione: La Grecia [ resoconto esteso ] |
Resoconto della sezione in Venezuela |
La crisi delle monete |
Storia dell’India: Marx sul regime coloniale |
Corso dell’economia |
Andamento della guerra in Siria |
La questione militare: La prima guerra mondiale |
Attività sindacale del partito |
Il concetto di dittatura - Prima di Marx |
Storia del movimento operaio in Usa |
Sono convenuti a Parma compagni da Torino, Genova, Lodi, Friuli, Cortona, Bari, Roma, Firenze, Parma, Napoli e, da fuori Italia, Parigi, Inghilterra, Venezuela, Germania. L’accoglienza e la sistemazione si sono dimostrate impeccabili. L’inizio dei lavori è stato anticipato al venerdì pomeriggio, con la riunione organizzativa, che si è protratta a tutto il sabato mattina. Alla esposizione dei rapporti abbiamo dedicato, come di consuetudine, il sabato pomeriggio e la mattina della domenica.
Dei rapporti diamo qui subito un breve riassunto e rimandiamo per lo studio del testo esteso alla loro pubblicazione su Comunismo.
Il partito cerca la risposta alle talvolta gravi domande dell’ora non nella codifica ed applicazione di una particolare forma di relazione interna e di consultazione fra i suoi militanti, ma nel collettivo maneggio della sua propria teoria e nelle conoscenza critica dei precedenti storici e delle trascorse vicende della lotta di classe. Questi gli impersonali strumenti di dottrina e programma che gli sono sufficienti a guidarlo nella interpretazioni dei nuovi casi che gli si pongono davanti e a risolverlo alla giusta politica rivoluzionaria.
A procurargli questa vivace e vitale rispondenza con il suo passato è deputato il continuo lavoro di studio e di collettiva riappropriazione del suo proprio programma. Sono le periodiche e frequenti nostre riunioni il crogiolo dove i contributi provenienti da tutti i gruppi e da tutta la periferia del partito si fondono per dare le condivise chiavi di interpretazione del presente e cercare di spingere luce sul corso avvenire.
Non dispone oggi il partito di militanti della eccezionale energia e capacità di pensiero dei nostri Maestri, ma sa di poterne fare a meno, proseguendone fedele l’opera in un modesto ma disciplinato e talmente molteplice concorso di apporti che, di fatto, non riusciamo a contenerli dentro le ore delle riunioni e nelle colonne del giornale. Da questo non appariscente ma convergente, tenace e fraterno lavoro oggi attendiamo la difesa del grande progetto del comunismo ed il solo indirizzo chiaro che è possibile dare alla classe operaia, in guerra permanente e ovunque con la classe nemica.
Gli attuali flussi migratori verso l’Europa - parte terza
Il fenomeno migratorio è stato in generale giudicato progressivo dal marxismo, fin da Engels nel 1845 nella sua “La situazione della classe operaia in Inghilterra”.
Marx nel Capitale descrive come la borghesia utilizza l’importazione di lavoratori stranieri allo scopo di ingrossare l’esercito industriale di riserva e aumentare la concorrenza fra proletari: «Nella misura in cui il progresso industriale sviluppa la potenza produttiva del lavoro, e fa dunque ottenere più prodotti da meno lavoro, il sistema capitalista sviluppa anche i mezzi per ottenere più lavoro dal salariato, sia prolungando la giornata lavorativa, sia aumentando l’intensità del lavoro, o ancora aumentando in apparenza il numero dei lavoratori impiegati rimpiazzando una forza superiore e più cara con più forze inferiori e meno care, l’uomo con la donna, l’adulto con l’adolescente e il bambino, uno yankee con tre cinesi. Ecco diversi metodi per diminuire la domanda di lavoro e rendere l’offerta sovrabbondante, in una parola per fabbricare una sovrappopolazione. Il troppo lavoro imposto alla parte della classe salariata attiva ingrossa i ranghi della parte di riserva aumentando la pressione che questa esercita sulla prima, forzandola a subire più docilmente il comando del capitale» (I, 7, 25).
Marx descrive poi il fenomeno della concorrenza fra operai indigeni e immigrati, in particolare nel caso degli operai irlandesi in Inghilterra: «L’Irlanda invia la sua sovrabbondanza di popolazione verso il mercato del lavoro inglese, e fa abbassare così i salari degradando la condizione morale e materiale della classe operaia inglese (...) Ogni centro industriale e commerciale in Inghilterra possiede ora una classe operaia divisa in due campi ostili, i proletari inglesi e i proletari irlandesi. L’operaio inglese medio odia l’operaio irlandese come un concorrente che abbassa il suo livello di vita. Rispetto al lavoratore irlandese egli si sente un membro della nazione dominante, e così si fa strumento degli aristocratici e dei capitalisti del suo paese contro l’Irlanda, rafforzando in questo modo il loro dominio su lui stesso. Si nutre di pregiudizi religiosi, sociali e nazionali contro il lavoratore irlandese. La sua attitudine verso di lui è molto simile a quella dei bianchi poveri verso i negri dei vecchi Stati schiavisti degli Stati Uniti d’America. L’irlandese lo ricambia con gli interessi: egli vede nell’operaio inglese il complice e lo stupido strumento del dominio inglese sull’Irlanda».
E nella lettera a S. Meyer e A. Vogt del 1870 Marx scrive: «Questo antagonismo è il segreto dell’impotenza della classe operaia inglese, a dispetto della sua organizzazione. È il segreto grazie al quale la classe capitalista mantiene il suo potere. E questa classe ne è perfettamente cosciente».
Nell’epoca matura del capitalismo, l’imperialismo, assistiamo ad una compiuta divisione del lavoro su scala internazionale con estesi fenomeni migratori tra i continenti. Marx già osserva come lo sviluppo del capitalismo, se da un lato inasprisce lo sfruttamento di una sempre più internazionale classe operaia, dall’altro affretta la rivoluzione poiché l’opposizione fra il lavoro salariato e il capitale si delinea nettamente, tolto ogni ostacolo alla lotta di classe.
Il ruolo che l’immigrazione gioca per la lotta proletaria e per il suo internazionalismo è sottolineato anche da Lenin:
«Il capitalismo ha creato un tipo particolare di migrazione di popoli. I paesi che si sviluppano industrialmente in fretta, introducendo più macchine e soppiantando i paesi arretrati nel mercato mondiale, elevano il salario al di sopra della media e attirano gli operai salariati di quei paesi.
«Centinaia di migliaia di operai si spostano in questo modo per centinaia e migliaia di chilometri. Il capitalismo avanzato li assorbe violentemente nel suo vortice, li strappa dalle località sperdute, li fa partecipare al movimento storico mondiale, li mette faccia a faccia con la possente, unita classe internazionale degli industriali.
«Non c’è dubbio che solo l’estrema povertà costringe gli uomini ad abbandonare la patria e che i capitalisti sfruttano nella maniera più disonesta gli operai immigrati. Ma solo i reazionari possono chiudere gli occhi sul significato progressivo di questa migrazione moderna dei popoli. La liberazione dall’oppressione del capitale non avviene e non può avvenire senza un ulteriore sviluppo del capitalismo, senza la lotta di classe sul terreno del capitalismo stesso. E proprio a questa lotta il capitalismo trascina le masse lavoratrici di tutto il mondo, spezzando il ristagno e l’arretratezza della vita locale, distruggendo le barriere e i pregiudizi nazionali, unendo gli operai di tutti i paesi nelle più grandi fabbriche e miniere dell’America, della Germania, ecc.» (“Il capitalismo e l’immigrazione operaia”, 1913).
Lenin mette in piena luce come una necessità del capitalismo, la migrazione, generi i presupposti per la lotta operaia: è lo stesso capitalismo, specie nella sua fase imperialista, che contribuisce dapprima a sradicare i proletari dalla propria patria e a metterli in concorrenza con i proletari dei paesi di arrivo, per sottometterli entrambi alle stesse brutali condizioni, poi ad unificare la forza che gli si rivolterà contro, oltrepassati i limiti dei confini nazionali e col fraternizzare degli operai di diversa origine, superato l’incessante tentativo della borghesia di metterli gli uni contro gli altri. È il capitale stesso che, fin dalle sue origini, ha materialmente determinato il carattere internazionale sia del suo modo di produzione, sia della classe proletaria e del suo movimento, sia del suo partito e programma storico.
Anche lo spostarsi di grandi masse umane cui assistiamo in questi ultimi anni, se si presenta sovente come deportazioni di guerra, è mosso da un fatto economico: ci si sposta da paesi sì distrutti dalla guerra, ma spesso economicamente arretrati, verso un’Europa in declino ma ancora grande industriale e con un capitale avido di braccia.
La controrivoluzione internazionale ha sedato il proletariato per molto tempo; l’imperialismo ancora, nella sua fase senile e putrescente, cerca la sua sopravvivenza tra nuove guerre ed i giochi di prestigio del capitale fittizio.
La forza della classe operaia mondiale sta nel suo numero. Ma i numeri contano se sono legati insieme dall’organizzazione ed illuminati da un coerente e storicamente adeguato programma di rivoluzione sociale.
La
successione dei modi di produzione
La variante antico-classica - La Grecia
Il relatore ha concluso la serie dei rapporti dedicati alla Grecia classica affrontando l’analisi delle soprastrutture generate dalla divisione in classi della società. Ricordato come la forma comunistica primitiva cadesse in lotte sanguinose, è passato a descrivere le impalcature ormai giuridiche caratterizzanti in particolare la città di Atene.
In una società diversificata la classe dominante ha necessità di appositi strumenti, di una macchina specifica per mantenere la sottomissione delle classi inferiori.
Per Engels dell’Origine della famiglia della proprietà privata e dello Stato (elencati nel giusto ordine storico) le contraddizioni si generano dapprima nei legami di sangue per successivamente investire le relazioni comunitarie. Il trapasso da una società matrilineare al patriarcato e la famiglia monogamica sanciscono l’assoggettamento delle donne. Per altro, le società della forma di produzione primaria non possono definirsi matriarcali, ovvero a dominio femminile: esse presentarono rapporti comunitari, e anche fra i sessi, organici e non di prevaricazione. Già nella Grecia antica l’istituto matrimoniale è atto di compravendita della sposa che tutela il maschio in caso di rottura del vincolo.
La soggezione della femmina è sancita anche dal nuovo diritto ereditario e dalla discendenza per linea paterna. Il culmine del processo può considerarsi la legge del 450 a.C promulgata da Pericle secondo la quale l’eredità include non soltanto la terra ma anche i beni mobili, i crediti e i debiti, a tanto essendosi già affermata la proprietà privata. L’istituto della primogenitura impedì la suddivisione del patrimonio.
Tra le merci di cui abbondava l’agorà era la merce umana ridotta in schiavitù. Nell’Atene presoloniana era comune che uomini liberi cadessero per debiti nello stato di schivitù. Lo stesso Stato era proprietario di schiavi. Solone, con il provvedimento sulla remissione dei debiti, dimostrò come poco può la volontà degli uomini e nemmeno degli Stati contro le forze che trovano alimento nella struttura economica!
A questo punto il compagno ha svolto alcune considerazioni sulle origini del pensiero filosofico greco arcaico e classico, nato materialistico e dialettico, caratteristiche sue sempre negate dalla storiografia ufficiale. Pensiero scientifico nel quale lo studio della natura si accompagnava all’indagine sull’uomo e sulla società. Grandi scienziati furono gli esponenti della cosiddetta scuola ionica. Nella prima metà del V sec. a.C. Parmenide di Elea, presentato come il fondatore della metafisica occidentale, fu invece studioso della natura e per primo delineò i due metodi di approccio che oggi chiameremmo matematico e fisico. Il suo famoso “Essere”, che ha fatto versare fiumi di inchiostro agli amanti della metafisica, era semplicemente materia che occupa spazio, in un universo finito ma illimitato perché sferico. Dopo aver passato in rassegna i semi materialistici del pensiero di Zenone, Eraclito ed Empedocle nonché la teoria atomistica di Democrito, vero lampo di luce che ha attraversato secoli di storia del pensiero, il rapporto si è soffermato sulla figura di Platone.
La filosofia accademica ha contribuito grandemente a deformare la filosofia platonica definendola la madre dell’idealismo occidentale. Vi sono dei concetti del complesso pensiero platonico che a buon diritto possiamo rivendicare nello stesso spirito con cui rivendichiamo il comunismo primitivo, o le prime riflessioni materialistiche e socialistiche di un La Mettrie, di un Babeuf o di un Buonarroti, o del socialismo utopistico. La democrazia è considerata la peggiore forma di costituzione per la città (leggasi società), perché produce ricchezza e povertà in maniera smisurate e dà luogo alle peggiori tendenze dell’uomo. La critica si scaglia contro i due pilastri della società dell’epoca, la proprietà privata e la famiglia, terreno che nutre i peggiori mali per la comunità umana.
Col preconizzato governo dei filosofi Platone l’intendeva di uomini aventi a cuore non l’interesse personale ma quello della città. E quando i filosofi avranno raggiunto il potere, come faranno a convincere gli altri della bontà della loro costituzione? Nella Repubblica si sostiene che ciò avverrà con la persuasione e con la forza. Vogliamo noi intenderlo come un germe della necessità del partito e della dittatura del partito, della propaganda e della violenza rivoluzionaria. Lo conferma il fatto che l’Accademia fu, oltre che centro di studi, una scuola di vita etico-politica, un “partito”.
Netta la contrapposizione col suo maggiore discepolo, Aristotele. Lo Stagirita, considerato a torto il fondatore del pensiero scientifico moderno, è in realtà il teorico della conservazione, il descrittore della realtà come appare alla vista immediata, teorizzatore di strutture logiche fisse e perciò prive del collegamento vivo alla materia di cui sono il riflesso.
La relazione infine si è conclusa accennando ad un possibile studio marxista della mitologia e della letteratura più antica di tutti i popoli, libero dai pregiudizi scientisti che inficiano la moderna ricerca storica borghese. La nostra dottrina vi rintraccia lo sfumato ricordo dell’originario modo di vita comunistico e la trasfigurazione di vere guerre tra gruppi umani portatori di forme di produzione successive. Gli eroi delle epopee e il nuovo pantheon imposto dai vincitori sono immagine di conflitti, urti e battaglie fra generi, popoli e classi, conclusisi con la vittoria della civiltà. Quello degli Dei sconfitti è il sangue reale del comunismo originario. I vincitori saranno a loro volta sconfitti da nuovi vincitori in un grandioso ciclo millenario di riapproriazione della specie a se stessa.
Storia dell’India - Marx sul regime coloniale
In questo capitolo del rapporto il compagno ha descritto le vicende politiche, economiche e sociali nel periodo dalla fine del Settecento alla grande rivolta del 1857 e alla fine della Compagnia delle Indie.
Numerose potenze europee dominavano direttamente o indirettamente su cospicue aree dell’Asia che poi nel corso dell’Ottocento si estesero all’Africa mediterranea, poi a quella sub-sahariana. Mutava anche il rapporto di forza fra Stati per il ripiegare dell’impero Ottomano che fin dal Quattrocento era considerato il nemico extra europeo più pericoloso, sotto la spinta degli imperi austriaco ed in particolare russo, benché solo minimamente influenzati dalla rivoluzione industriale.
Se nell’era della rivoluzione industriale la superiorità politica e militare dell’Europa devastò larghe parti dell’Asia e dell’Africa, le necessità del funzionamento del nuovo sistema sociale fondato sul capitale indusse le potenze europee ad esportare in almeno alcune delle colonie le loro sovrastrutture ideologiche ed organizzative e le medesime tecnologie che erano alla base del nuovo modo di produrre e di commerciare.
Marx, con le sue osservazioni sull’India per il New York Daily Tribune, aveva evidenziato con molta chiarezza la missione progressiva dell’Inghilterra: «L’Inghilterra in India ha da compiere una duplice missione: distruttiva da un lato, rigeneratrice dall’altro, dissolvere l’organizzazione sociale asiatica e insieme gettare le fondamenta materiali di una società di tipo occidentale». Ma aveva altresì messo in guardia gli indiani che «non raccoglieranno i frutti dei nuovi elementi sociali gettati tra loro dalla borghesia britannica finché nella stessa Gran Bretagna le attuali classi dominanti non saranno soppiantate dal proletariato industriale, o finché gli stessi indiani non saranno diventati abbastanza forti da spezzare il giogo britannico».
La fase di trasformazione economica e sociale fu drammatica e il regime coloniale fu responsabile, nella prima metà dell’Ottocento, di una forte recessione economica: una inversione di rotta rispetto a quanto avvenuto nei secoli precedenti. Marx, nel suo articolo “la dominazione britannica in India” scriveva: “Non vi è dubbio che le sciagure inflitte all’Indostan dalla Gran Bretagna sono di un genere essenzialmente diverso e mille volte più concentrate di tutto ciò che il paese ha dovuto soffrire in epoche precedenti» (Londra, 10 giugno 1853).
Nei primi decenni dell’Ottocento i privilegi della Compagnia furono osteggiati dalla crescente ostilità della maggioranza della classe dominante inglese, fino alla decisione della Corona di abolire il monopolio della Compagnia sui commerci fra Inghilterra e Asia nel 1813, e nel 1833 fra India e Cina. Il ridimensionamento della Compagnia ebbe come conseguenza una politica d’espansione militare che durò fino alla rivolta del 1857. L’obiettivo inglese era di incrementare il gettito dell’imposta terriera, forti del formidabile apparato militare, molto costoso ma praticamente invincibile. Così Marx commentava «Fra il 1838 e il 1849, nelle guerre contro i sikh e gli afgani, la potenza britannica si assicurò definitivamente le frontiere etniche, politiche e militari del continente indiano, con l’annessione forzata del Punjab e del Sind. Erano queste regioni indispensabili per respingere qualsiasi invasione proveniente dall’Asia centrale e contrastare l’avanzata russa verso le frontiere della Persia (...) L’India è ormai completa. È soltanto dal 1849 che esiste il grande impero anglo-indiano unito» (“La Compagnia delle Indie orientali: storia e risultati”, New-York Daily Tribune, 11 luglio 1853).
La prima metà dell’Ottocento vide, oltre alle numerose guerre di conquista, un susseguirsi pressoché ininterrotto di ribellioni. Questa politica di espansionismo finì per aggravare, come avvenuto per l’impero Moghul al tempo d’Aurangzeb, i problemi finanziari che si intendevano risolvere. Quando la Compagnia fu abolita nel 1858 la Corona ereditò un cospicuo deficit, essenzialmente legato a questa politica di conquista. Un debito il cui pagamento fu scaricato sui contribuenti indiani, che finirono per pagare i debiti contratti dagli inglesi per conquistare l’India.
Se il mondo contadino subiva una netta recessione, in linea di massima tutto il sistema del villaggio indiano vacillava e l’artigianato tradizionale stava per soccombere sotto i colpi del capitale britannico. Marx: «Fu l’invasore inglese a spezzare il telaio e il filatoio a mano. Inondando l’India di suoi manufatti cotonieri l’Inghilterra aveva decretato la morte delle tessiture indiane e sradicato quella combinazione fra industria agricola e manifatturiera che era una delle caratteristiche peculiari del sistema di villaggio indiano. Inoltre, gli stessi rapporti di proprietà della terra erano stati profondamente trasformati mediante i sistemi zamindari».
Sebbene l’apparato militare fosse solido e ben strutturato nella prima metà dell’Ottocento i rapporti fra le truppe indiane e il corpo degli ufficiali inglesi si deteriorarono progressivamente, soprattutto nell’esercito di stanza nel Nord del subcontinente, dal Punjab al Bengala.
Nella regione divampò una gigantesca rivolta, un ammutinamento delle truppe indiane della Compagnia presto coinvolse consistenti strati della popolazione, urbana e rurale. Nonostante i successi iniziali il fallimento di questa grande rivolta era scontato dall’inizio. Anche nelle aree dove ebbe maggior seguito la scelta di schierarsi contro gli inglesi non fu unanime. Coloro che in qualche modo avevano guadagnato dalla politica economica della Compagnia, mercanti e finanzieri, si schierarono attivamente dalla parte degli inglesi ed in particolar modo molti zamindar i quali si erano trasformati da funzionari Moghul, incaricati dell’esazione delle imposte, in veri e propri proprietari terrieri ereditari.
Un’altra causa del fallimento della rivolta fu l’incapacità degli insorti a darsi un comando unico. A formare il nucleo centrale delle forze ribelli erano i battaglioni dei sepoys ma, dal momento che tutti gli ufficiali superiori degli ammutinati erano inglesi, ad inquadrarli ora vi erano ex ufficiali subordinati ed ex sottufficiali senza alcuna preparazione per compiti di stato maggiore.
La controffensiva britannica riconquistò Delhi fra il 14 e il 21 settembre del 1857 ed entro la fine dell’anno vennero espugnate le altre principali basi dell’insurrezione, in particolare le città di Kampur e di Lucknow. Resistettero bande di disperati in fuga incalzati dalle truppe della Compagnia. Molti degli ultimi ribelli trovarono rifugio nelle aree ancora coperte da foreste vergini, specie alle falde dell’Himalaya, dove la maggior parte di loro perì di fame e malattie.
Marx ed Engels seguirono con attenzione l’evolversi della rivolta esprimendo pubblicamente le loro riflessioni in molti articoli. Marx oltre a descrivere il grande ammutinamento militare intravvide un principio di carattere nazionale riconoscibile dal fatto che «musulmani ed indù, mettendo da parte le loro mutue rivalità, si erano uniti contro i loro comuni padroni».
Questi avvenimenti provocarono la completa estinzione della dinastia imperiale Timur e la definitiva eliminazione della Compagnia delle Indie in quanto istituzione. Con l’atto del 1858 la Corona assunse la diretta responsabilità del governo del subcontinente. Il Governatore Generale aggiunse al titolo quello di Viceré e la Commissione di Controllo divenne l’India Office, in pratica un ministero per l’India presieduto da un Segretario di Stato con rango di ministro. Le azioni e i debiti della Compagnia furono riscattati dalla Corona e trasformati nel nucleo iniziale di quel debito dell’India nei confronti dell’Inghilterra che rimarrà una costante dei rapporti economici fra i due paesi fino alla vigilia della Seconda Guerra mondiale.
«Gli inglesi furono i primi conquistatori superiori, e quindi impermeabili alla civiltà Indù. Essi la distrussero polverizzando le comunità indigene, sradicandone l’industria (...) Le pagine di storia del loro dominio in India registrano quasi soltanto distruzioni. L’opera di rigenerazione non emana da un mucchio di rovine, eppure, è già cominciata». (Marx, “I risultati futuri della dominazione britannica in India”, Londra, 22 luglio 1853).
La questione militare: La prima guerra mondiale
Il rapporto è iniziato con un richiamo alla grave crisi delle guerre balcaniche del 1912/13. Abbiamo elencato i contrasti che preparano la guerra.
a) Un grafico sull’esportazione di acciaio ha mostrato che la quota tedesca è ben superiore alla somma di quella francese e britannica, significando la necessità per la Germania di approntare nuove vie commerciali, soprattutto marittime da sempre controllate dall’Inghilterra, la cui flotta militare è di gran lunga superiore a quella tedesca.
b) L’imperialismo francese è schiacciato tra i due colossi europei; con la ripresa economica dopo la sconfitta nella guerra del 1871 si diffonde un nuovo nazionalismo tendente a riprendersi i territori dell’Alsazia e della Lorena.
c) Gli Usa sono già la maggiore potenza industriale con il 32% della produzione mondiale.
d) L’Austria-Ungheria tende a risolvere definitivamente la questione della Serbia per il controllo dei Balcani.
e) L’imperialismo italiano, dopo la conquista della Libia in cui provò il suo moderno esercito, ambisce al controllo dell’Adriatico in contrasto con l’alleata Austria.
f) La Russia zarista, pesantemente sconfitta nella guerra col Giappone del 1904/1905, cerca una rivincita e di espandersi nel Mediterraneo a scapito dell’Impero Ottomano in grave crisi.
g) Il movimento dei Giovani Turchi è alla ricerca di un successo politico e militare per consolidare il suo nuovo governo.
h) Gli Stati balcanici sono insoddisfatti dei risultati ottenuti con le due guerre balcaniche; fra di essi la Grecia cerca di espandersi a nord di Salonicco.
i) Nel lontano Oriente il Giappone è ormai una potenza regionale che cerca di espandere il suo dominio.
l) Il complesso sistema delle alleanze tra la Triplice Intesa (Francia, Inghilterra e Russia) e la Triplice Alleanza (Germania, Austria-Ungheria e Italia), anche se di carattere difensivo, nasconde nei vari cavilli le volontà aggressive dei vari paesi.
L’insieme combinato di queste principali contraddizioni portarono allo scoppio della guerra.
Già dalle due crisi del Marocco (1905 e 1911) Germania e Francia avevano dato il via a forti investimenti militari con lo sviluppo dei settori industriali collegati. Sono stati esposti due grafici, il primo sull’andamento delle spese militari dei sei principali Paesi europei dal 1890 al 1913, da cui abbiamo visto chiaramente la forte accelerazione di quegli investimenti, ed il secondo raggruppato per le due alleanze da cui emerge che quelli dell’Intesa erano circa il doppio di quelli dell’Alleanza.
La Germania doveva risolvere due importanti situazioni strategiche: rompere la morsa di Russia e Francia e opporsi con una adeguata flotta allo strapotere inglese; mise in cantiere navi moderne ma non riuscì nel poco tempo a colmare il forte distacco.
Lo Stato maggiore tedesco aveva previsto di attaccare e sconfiggere prima la Francia (piano Schlieffen) e successivamente la Russia, non potendo gestire un attacco contemporaneo su due fronti. Una gigantesca operazione a ventaglio ruotante attorno alla fortezza di Metz, dal Belgio e dall’Olanda, invasi anche se neutrali, in sole sei settimane avrebbe spinto l’esercito francese in una sacca a sud di Parigi. Qui ridotte forze tedesche lo avrebbero controllato mentre le rimanenti avrebbero rinforzato il lungo fronte orientale. Il piano assegnava ad ogni unità compiti e tempi da rispettare ma non teneva conto di imprevisti, anche di ordine logistico. Considerava di sei settimane il tempo del lento schieramento dell’esercito russo, una debole difesa belga e il non massiccio intervento dell’Inghilterra, all’epoca impegnata nella repressione dei moti in Irlanda e col suo lento sistema di arruolamento e addestramento su base volontaria.
Von Moltke modificò il piano originale: rinforzò i contingenti d’attacco, decise di non invadere l’Olanda dai cui porti sarebbero dovuti arrivati i rifornimenti necessari ad una guerra di quelle dimensioni e decise di dichiarare guerra prima alla Russia e poi alla Francia.
Il piano francese era un compromesso tra un attacco volto a riconquistare l’Alsazia e la Lorena e, visto il forte divario tecnico e numerico con i tedeschi, uno spostamento a nord della maggior parte dell’armata nell’attesa di conoscere i piani del nemico. L’ala nazionalista sosteneva una tattica di offensiva con ripetuti attacchi alla baionetta; ma ormai la Germania disponeva di forti batterie di artiglieria da campagna per battere le linee francesi prima di passare all’attacco della fanteria. Il piano inglese prevedeva il sostegno all’esiguo esercito belga con un ridotto contingente di terra mentre intendeva rafforzare il suo già consistente controllo dei mari. Il piano russo originalmente era rivolto verso l’Austria-Ungheria, ma per gli accordi bilaterali con la Francia era impegnata a schierare ben 800.000 uomini alla frontiera con la Germania entro 15 giorni dalla dichiarazione di guerra. Il piano fu completato in soli 10 giorni obbligando il comando tedesco a spostare consistenti truppe dal fronte di Francia.
L’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914 dà il via al consueto ipocrita balletto diplomatico. Per il comando tedesco è imperativo agire in fretta, “Ora o mai più” dice Guglielmo II: l’iniziale favorevole rapporto di forze si sarebbe presto invertito per cui è necessaria una rapida e risolutiva “guerra lampo”. Il governo tedesco aumenta le pressioni su quello austroungarico e invia ai vari governi avversari e a quello del neutrale Belgio un insieme di provocatori ultimatum. Il 2 agosto 1914 le truppe tedesche invadono il Belgio e danno inizio al piano Schlieffen.
Mentre gli imperialismi si mobilitano sul nostro fronte di classe dobbiamo assistere alla vile disfatta della Seconda Internazionale che consegnò il proletariato europeo ai cannoni e alle baionette della borghesia. Dopo un rapido accenno sulla nascita della Seconda Internazionale, al ruolo egemonico della Socialdemocrazia tedesca e ai contrasti al suo interno, è seguito un richiamo al Congresso di Basilea del 1912 e alle sue posizioni contro la prevista imminente guerra. Si è ricordato il testo di Lenin “Il fallimento della Seconda internazionale” e lette alcune citazioni: «questa guerra non si può giustificare col minimo pretesto di un qualsiasi interesse dei popoli». Si è accennato ai tradimenti dei vari partiti socialisti che in poco tempo si allearono coi partiti di governo e votarono i crediti di guerra.
Il conflitto già dalle prime operazioni militari fu di grandi dimensioni contrapponendo 6,2 milioni di soldati dell’Intesa contro 3,6 della Germania e dell’Austria-Ungheria. Fu chiamato dei sei fronti perché si sviluppò in diverse aree. Il primo fu tra Germania e Francia per il dominio nell’Europa centrale, il secondo tra Germania e Inghilterra per il controllo delle vie marittime, il terzo tra Austria e Russia per i Balcani, il quarto sarà tra Italia e Austria per il predominio dell’Adriatico e dell’Albania, il quinto tra Russia e Turchia per il controllo del Bosforo, il sesto tra Giappone e Germania per la creazione dell’impero nipponico nell’oceano Pacifico.
Il rapporto è proseguito con l’esposizione degli sviluppi più importanti sul fronte occidentale col fallimento del piano Schlieffen che, dopo un iniziale rapido sviluppo, si scontra con l’imprevista reazione belga e col contingente inglese. L’avanzata tedesca è inoltre ritardata da difficoltà di rifornimento per le cinque armate, concentrate in una zona ristretta, e dalle truppe più esterne che non riescono a rispettare i tempi assegnati. L’avanzata rallenta e in alcuni punti si ferma.
Lo scontro tra i due eserciti coinvolge tutto il fronte; alcune battaglie nei primi due mesi di guerra provocano perdite incredibili senza guadagni strategici per nessuno. I due blocchi cercano di aggirarsi a vicenda in quella che fu chiamata la “corsa al mare”. Solo ad Ypres, ultima battaglia “di movimento”, durata 3 settimane, con la quale gli alleati riescono ad evitare lo sfondamento dei tedeschi, si hanno perdite di oltre 200.000 uomini.
Dopo questa serie di battaglie la guerra cambia strategia e diventa di posizione, dalla costa belga fino alla neutrale Svizzera c’è un contrapposto sistema di trincee e camminamenti, distanti tra loro poche centinaia di metri, ad Ypres in alcuni tratti solo di 50 metri. Furono scavati solo su questo fronte ben 25.000 chilometri di trincee e camminamenti. I soldati vi morivano al ritmo di 6.000 al giorno anche per le terribili condizioni igieniche, tra cui il temuto “piede da trincea” che provocò centinaia di migliaia di gravi infezioni ed amputazioni. La breve distanza tra le trincee favorì la fraternizzazione tra i soldati delle opposte linee tra cui la spontanea “tregua di Natale” del 1914. Si è fornivo ai compagni un anticipo sulle fraternizzazioni e gli ammutinamenti che sarebbero avvenuti.
(Fine del resoconto al prossimo numero)
27
e 28 febbraio
Riuscita
riunione regionale in Venezuela
Con entusiasmo rivoluzionario si è tenuta la riunione regionale del partito.
Vi abbiamo dapprima riferito dei lavori alla scorsa riunione generale di Parma, alla quale ha assistito un compagno venezuelano, per poi esporre un rapporto sul corso della economia in Venezuela ed altro sulle lotte dei lavoratori in America Latina nell’anno passato. Una sintesi di entrambi i rapporti sarà pubblicata sulla stampa.
Abbiamo quindi affrontato in dettaglio i compiti organizzativi del partito, il piano per la propaganda, degli studi da continuare ed intraprendere, delle traduzioni più urgenti, e, infine, del finanziamento delle nostre attività.
Nel difficile contesto sociale imposto dallo strapotere della controrivoluzione il partito continua nel suo lavoro rivoluzionario, seguendo la strada già usata e da tutti conosciuta, senza cedere alle debolezze dell’attivismo o del volontarismo, premessa, il più delle volte, di sconci scivoloni nel pantano dell’opportunismo.
Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale | |
Per la rinascita del sindacato di classe fuori e contro il sindacalismo di regime. Per unificare le rivendicazioni e le lotte operaie, contro la sottomissione all’interesse nazionale. Per l’affermazione dell’indirizzo del partito comunista negli organi di difesa economica del proletariato, al fine della rivoluzionaria emancipazione dei lavoratori dal capitalismo |
Contro
il fronte unico antioperaio di Stato borghese, padroni e sindacati di regime
Per
l’unità delle lotte
Per
il sindacato di classe
Di seguito riportiamo il volantino che i nostri compagni hanno distribuito, anche in lingua francese e spagnola, sabato 30 gennaio a Parma nella manifestazione nazionale del SI Cobas a sostegno della lotta dei facchini dello stabilimento Bormioli.
Lo sciopero era iniziato il 23 dicembre, per il mantenimento degli organici e delle condizioni di lavoro nel cambio di appalto che aveva riguardato la cooperativa che svolgeva dentro la fabbrica le operazioni di magazzino, proseguendo a oltranza durante tutto il periodo delle vacanze natalizie.
Per fermare la lotta, il 30 dicembre la Bormioli aveva siglato un accordo con CGIL e CISL, peggiorativo, che il SI Cobas non ha accettato. Il fronte operaio è stato solo parzialmente indebolito da questa operazione ma l’azienda si è sentita sufficientemente forte per passare al contrattacco, licenziando tutti i facchini che non avevano accettato l’accordo.
La lotta è così divenuta in difesa del posto di lavoro ed ha assunto una durezza estrema. Dall’8 gennaio quotidianamente la polizia ha schierato decine di uomini davanti ai cancelli della fabbrica, aggredito e sgombrato il picchetto, in lunghi fronteggiamenti. Gli operai hanno dimostrato coraggio, determinazione e tenacia esemplari, presentandosi giorno dopo giorno davanti ai cancelli nonostante la repressione poliziesca, svolgendo anche cortei che hanno percorso il centro di Fidenza al grido di “Bormioli Rocco, domani un altro blocco”. Il SI Cobas ha organizzato bene la solidarietà operaia, schierando a sostegno del picchetto, in numerose giornate, operai di Desenzano, Brescia, Milano, Piacenza e Bologna.
La CGIL provinciale è giunta ad organizzare una manifestazione contro lo sciopero e in difesa dell’azienda, il 23 gennaio a Fidenza, insieme alla CISL, contrapponendo i dipendenti diretti della Bormioli – irretiti con lo spauracchio della chiusura dell’impresa – ai lavoratori della cooperativa, dando una nuova prova esemplare della sua natura di sindacato di regime.
Per rispondere all’infamia di questi falsi sindacati e dare forza alla lotta, il SI Cobas ha prontamente organizzato, sette giorni dopo, la manifestazione nazionale del 30 gennaio. Il corteo è riuscito, con la presenza di circa mille manifestanti, quasi tutti lavoratori provenienti da Parma, Modena, Reggio Emilia, Bologna, Milano, Bergamo, Brescia, Piacenza, Genova, Roma e Torino. Presenti anche delegazioni del sindacato ADL Cobas e della CUB.
La sinistra CGIL ha denunciato l’azione antioperaia della sua dirigenza ma non ha portato in piazza i suoi militanti. L’USB non solo non ha partecipato alla manifestazione ma ne ha organizzata un’altra, di fatto in concorrenza, il giorno successivo nella vicina Piacenza, a sostegno di un gruppo di operai, ex iscritti CGIL, licenziati dalla GLS di Piacenza, per aver violentemente aggredito alcuni loro compagni di lavoro in quanto iscritti al SI Cobas. Il Coordinamento Iscritti USB per il Sindacato di Classe, con un comunicato intitolato “Unire le lotte”, ha dato adesione alla manifestazione di Parma e ha denunciato la condotta della dirigenza del proprio sindacato.
Il quotidiano cittadino di Parma non ha ritenuto degno di menzionato il fatto che mille operai da mezza Italia avessero percorso per un pomeriggio le vie del centro, non dedicandovi nemmeno un rigo. Fatto di cui noi comunisti non ci lamentiamo né di cui ci stupiamo ma che facciamo notare ai lavoratori perché conferma la necessità che il movimento operaio si doti di suoi organi d’informazione e rafforzi quelli esistenti.
Dopo la manifestazione la lotta è proseguita, coi picchetti e i blocchi dei camion condotti a giorni alterni.
Il fronte padronale non ha alleviato la sua intransigenza, rifiutando il reintegro dei lavoratori nonostante l’ingente danno economico provocato dai picchetti e mantenendo i cancelli militarizzati. Giovedì 18 febbraio si sono verificati gli scontri forse più duri di tutta la lunga battaglia, con cariche e lacrimogeni sparati contro gli operai, inseguiti lungo la tangenziale. Dopo questa ennesimo scontro i lavoratori hanno ridotto i picchetti. L’ultimo si è tenuto il giorno dello sciopero generale, venerdì 18 marzo. Nonostante questa generosità le speranze di vincere questa battaglia sono ridotte.
Tanta durezza da parte padronale evidentemente non si spiega con ragioni d’ordine economico, relative al costo delle rivendicazioni dei lavoratori, ma con la volontà di eliminare un sindacato davvero combattivo da una delle più importanti fabbriche del territorio. Il SI Cobas, nonostante i tanti sforzi e la disponibilità a non tirarsi indietro anche di fronte al più duro scontro, non ha avuto la forza per piegare l’azienda e il fronte padronale a suo sostegno. Non è la prima sconfitta, ma il movimento, in questi anni, ha continuato a rafforzarsi.
La lotta di classe però diverrà sempre più dura. Le ultime battaglie alla Bormioli, alla Penny Market di Desenzano sul Garda, alla Prix di Grisignano, alla Motive di Brescia, come pure l’azione dei sindacati di regime a Parma e in Veneto, dove si sono accordati con padroni e prefetture per prevenire gli scioperi cosiddetti “selvaggi”, sono già un indizio in tal senso. L’attacco del capo del governo ai sindacati promotori dello sciopero generale del 18 marzo, la sera stessa della mobilitazione, nel quale ha invocato una legge sulla rappresentanza e sulla limitazione della libertà di sciopero, ne è un’ulteriore conferma.
Affinché la forza e l’organizzazione operaia sin qui faticosamente costruite reggano e vincano lo scontro, la strada obbligata è rafforzare l’unità operaia. Va perseguita, oltre che migliorando la partecipazione degli operai alle lotte delle altre aziende, cercando il coinvolgimento nelle lotte degli altri sindacati, nell’ottica del fronte unico proletario, ossia dal basso, sindacale.
La combattività degli operai della logistica, frutto delle loro dure condizioni e della impostazione di classe del sindacato nel quale si sono organizzati, il SI Cobas, non può che giovare ai militanti e ai lavoratori degli altri sindacati, chiamati alla comune battaglia, superati i confini di categoria, ove si dimostri nei fatti l’unità della classe operaia, un movimento necessariamente al di sopra delle ideologie che si dividono le coscienze e il seguito del lavoratori.
Parma, 30 gennaio
Nel cupo panorama di sconfitte e pace sociale che ha segnato la vita della classe lavoratrice negli ultimi decenni, un piccolo ma vitale movimento operaio, dai primi passi sei anni fa, si è alzato in piedi ed ha iniziato a camminare.
Va dato merito ai lavoratori della logistica, fra i più sfruttati della classe operaia, e ai due sindacati – il SI Cobas e l’ADL Cobas – che sono stati capaci e disposti ad organizzarli e a condurre la loro battaglia finalmente coi metodi della lotta di classe: scioperi senza preavviso, a oltranza, coi picchetti che bloccano merci e crumiri.
Questo primo segnale di riscossa della classe operaia non poteva che preoccupare gli industriali e il regime politico borghese, a maggior ragione con l’avanzare della crisi mondiale del capitalismo. E infatti, fin dal principio, organizzatori ed operai hanno dovuto affrontare discriminazioni, licenziamenti di rappresaglia, crumiraggio, agguati degli scagnozzi padronali, attacchi polizieschi ai picchetti, denunce, fogli di via. Insomma, tutto il classico armamentario padronale di cui si può leggere fin dalle origini della lotta fra proletariato e borghesia, a dimostrazione di come la democrazia non abbia cambiato il capitalismo ma solo mascherato la sua dittatura sulla classe sfruttata, che torna a manifestarsi quando questa finalmente si ribella all’oppressione.
Nonostante questa reazione padronale, il movimento è cresciuto, per la caparbietà e le capacità dei lavoratori e dei militanti sindacali, che hanno portato ad importanti vittorie, migliorando la condizione dei lavoratori in diversi magazzini, siglando accordi nazionali migliorativi del contratto nazionale in alcune delle più grandi aziende del settore, raggiungendo la capacità di dispiegare scioperi nazionali che colpiscono effettivamente i profitti del settore.
Questi successi non hanno moderato la volontà né i metodi di lotta del SI Cobas e dell’ADL Cobas e le ultime settimane li hanno visti organizzare le dure battaglie ad oltranza ai magazzini del Penny Market di Desenzano (Brescia), della Bormioli di Fidenza (Parma), del Prix di Grisignano (Vicenza), nella cooperativa MG nel Veneto, e altri scioperi a Roma, nei macelli modenesi, nel milanese.
La reazione degli industriali e del loro regime a questi ultimi scioperi è stata più risoluta e coordinata. Venerdì 8 gennaio, la polizia ha attaccato contemporaneamente i picchetti di Brescia e Fidenza. Alla Bormioli la lotta va avanti da settimane fronteggiando quotidianamente uno schieramento militare a difesa dell’azienda.
All’accresciuta determinazione dello Stato borghese si è affiancata la maggior spregiudicatezza dei sindacati tricolore (Cgil, Cisl, Uil) che a Fidenza hanno organizzato una manifestazione contro lo sciopero ed in Veneto hanno siglato un accordo con industriali e istituzioni per prevenire gli scioperi che costoro considerano “illegali”, ossia quelli che danneggiano i profitti aziendali e ottengono miglioramenti per i lavoratori.
Lo Stato, coi suoi corpi armati e le sue istituzioni, gli industriali e i grandi sindacati ufficiali costituiscono una alleanza antioperaia che ha l’obiettivo di impedire alla classe lavoratrice di tornare a lottare e che cerca di scongiurare il pericolo che il movimento di lotta nella logistica travalichi i limiti della categoria, contagiando il resto della classe.
I lavoratori possono battersi e vincere contro questo fronte unico borghese solo superando le tante divisioni che esso alimenta al loro interno coi mezzi più subdoli e vili, unendo le lotte al di sopra dei confini fra aziende, categorie, razze, nazioni, religioni.
All’interno della logistica, il SI Cobas e l’ADL Cobas lavorano già bene a questo obiettivo, facendo partecipare ai picchetti i lavoratori delle altre aziende per rafforzare lo sciopero e sconfiggere l’aziendalismo.
Per rompere l’isolamento nella categoria, invece, un ruolo importante può essere svolto dalle organizzazioni e dalle correnti del sindacalismo anticoncertativo che hanno il dovere di riconoscere l’importanza che il movimento operaio nella logistica ha per tutta la classe lavoratrice e di apportarvi il necessario sostegno pratico. Per questi organismi sindacali questo è un cruciale banco di prova per dimostrare il loro autentico valore, la capacità – o meno – di essere coerenti coi principi di lotta enunciati, superando le misere divisioni fra sigle e facendo finalmente i conti con le proprie dirigenze opportuniste.
Perché è dall’unità delle lotte che rinascerà il Sindacato di Classe necessario alla riscossa di tutto il proletariato.
Infine, la lotta sindacale è necessaria per difendersi dallo sfruttamento capitalista ma non è sufficiente per eliminarlo. A questo è necessario il partito, disposto e capace di prendere il potere con la rivoluzione per distruggere il capitalismo, per liberare i lavoratori dalla schiavitù del lavoro salariato, riorganizzando la produzione al fine dei bisogni sociali e non del profitto. Per questo chiamiamo i lavoratori alla milizia nel Partito Comunista Internazionale.
Parma, samedi 30 janvier 2016
Contre le front unique
anti-ouvrier
de l’État bourgeois, du patronat et des syndicats de régime
Pour l’unité des luttes des travailleurs
Pour le
syndicat de classe
Le mérite en revient aux travailleurs de la logistique, qui sont parmi les plus exploités, et à deux syndicats – le Si Cobas et l’ADL Cobas – au moyen desquels les travailleurs se sont organisés et ont été capables de conduire la bataille avec des méthodes propres à la lutte de classe: grèves sans préavis, à outrance et avec la formation de piquets qui bloquent l’entrée des marchandises et des collabos.
Ce premier signe de réveil de la classe ouvrière ne peut que préoccuper les industriels et le régime politique bourgeois, et ce d’autant plus que la crise mondiale du capitalisme continue de s’aggraver. Et effectivement, depuis le début, les ouvriers, tant les militants que les sympathisants, ont dû affronter les discriminations, les licenciements comme mesures de rétorsion, les collabos, les guet-apens des hommes de main patronaux et les violences policières contre les piquets de grève. En somme, tout l’arsenal classique des mesures de rétorsion patronale, qui sont utilisées depuis l’origine de la lutte entre prolétariat et bourgeoisie. Ce qui est une démonstration de plus, que la démocratie n’a en rien changé le capitalisme, mais seulement masqué sa dictature sur la classe des exploités. La violence et la dictature de classe de la bourgeoisie resurgit ouvertement, lorsque le prolétariat se rebelle contre son exploitation.
Malgré la répression patronale, le mouvement a continué à croître, grâce à la persévérance et à la résistance des travailleurs et des militants syndicaux. Ce qui a conduit à d’importantes victoires qui ont permis l’amélioration des conditions de vie et de travail des travailleurs. En atteignant la capacité de déployer des grèves nationales capables de provoquer des pertes importantes dans les profits des entreprises, ces luttes ont permis d’arracher des accords améliorant nettement le contrat national parmi les plus grandes entreprises du secteur.
Ces succès n’ont en rien entamé la volonté et les méthodes de lutte du Si Cobas et de l’ADL Cobas. Ces dernières semaines les ont vus organiser les dures batailles à outrance dans les magasins du Penny Market de Desenzano (Brescia), de la Bormioli de Fidenza (Parma), du Prix de Grisignano (Vicenza), à la coopérative MG du Veneto, et bien d’autres grèves à Rome, dans les abattoirs Modenesi dans le milanese, etc.
La réaction des industriels et de leur régime à ces dernières grèves a été encore plus résolue et mieux coordonnée. Vendredi 8 Janvier la police a attaqué simultanément les piquets de Brescia et de Fidenza. A Bormioli, la lutte continue depuis des semaines, affrontant quotidiennement un déploiement militaire mis en place pour la défense de l’entreprise.
A la détermination accrue de l’État bourgeois s’est ajoutée l’absence de scrupules des syndicats tricolores (Cgil, Cisl, Uil) qui ont organisé à Fidenza une manifestation contre la grève, et dans le Veneto ils ont signé un accord avec le patronat pour prévenir toute grève, considérée alors comme illégale, c’est-à-dire toute lutte qui entamerait les profits d’entreprise et permettrait d’obtenir des améliorations pour les travailleurs.
L’État, avec ses corps armés et ses institutions, les industriels et les grands syndicats officiels constituent une Sainte Alliance anti-ouvrière qui a pour objectif d’empêcher que toute la classe travailleuse entre en lutte, et pour ce faire cherche a éviter que la lutte des travailleurs de la logistique ne sorte des limites de la catégorie et ne viennent contaminer les autres travailleurs.
Les travailleurs peuvent se battre et vaincre ce front unique bourgeois, seulement en dépassant les multiples divisions entretenues en leur sein par des moyens sournois et lâches, en unifiant les luttes par delà les limites d’entreprises, de catégorie, de race, de nation et de religion.
A l’intérieur de la logistique, le Si Cobas et l’ADL Cobas travaillent déjà très bien pour cet objectif, en faisant participer aux piquets de grève les travailleurs des autres entreprises en vue de renforcer la grève et dépasser les limites d’entreprise. Les organisations et les courants syndicaux opposés à la concertation ont le devoir de reconnaître l’importance que ce mouvement ouvrier a pour toute la classe prolétarienne. Ils doivent pour ce faire apporter leur soutien pratique afin que son isolement catégoriel soit enfin rompu. Comme organisme syndical, ce soutien est un test crucial pour démontrer leur vraie valeur comme organisation combative de classe, leur capacité, au moins, d’être cohérent avec les principes de lutte énoncés, en dépassant les misérables divisions de sigle ou en faisant finalement les comptes avec leurs dirigeants opportunistes. C’est seulement de l’unité des luttes que renaîtra le syndicat de classe nécessaire au chemin d’émancipation du prolétariat.
Enfin, la lutte syndicale est nécessaire pour se défendre contre l’exploitation capitaliste, mais elle n’est pas suffisante pour l’éliminer. Pour réaliser ce but, il faut le Parti Communiste, qui vise au renversement de la bourgeoisie et à la prise du pouvoir par la Révolution en vue d’abolir les rapports de production capitalistes, c’est-à-dire le salariat et le capital, afin de permettre le libre développement d’une société, non plus basée sur l’exploitation des travailleurs salariés et l’accumulation du profit, mais sur la satisfaction des besoins de l’humanité, en réorganisant la production sur une base communiste. Dans ce but, nous appelons les travailleurs à rejoindre les rangs du Parti Communiste International.
Parma, sabado 30 enero 2016
Ha dado valor a los trabajadores del sector de la logística, unos de los más explotados de la clase obrera, en este terreno dos sindicatos – el SI Cobas y el ADL Cobas – han sido capaces de organizar y conducir la batalla, con métodos de la lucha de clase: Huelgas indefinidas y sin preaviso, piquetes que bloquean las mercancías y enfrentar los esquiroles.
Estas primeras señales de revanchas de la clase obrera no han dejado de preocupar a los industriales y al régimen burgués, sobre todo por el actual avance de la crisis capitalista mundial. Por eso desde el principio organizadores y trabajadores han debido afrontar, discriminaciones, represalias de despidos, esquirolaje, emboscadas de los secuaces patronales, ataques policiales a los piquetes, denuncias, “destierros legales”. En resumidas cuentas todo el clásico arsenal patronal, donde se puede ver el origen y el fin de la lucha entre el proletariado y la burguesía, una demostración de como la democracia no ha cambiado el capitalismo, solo enmascara su dictadura sobre la clase explotada, la cual se manifiesta cuando la clase se rebela contra la opresión.
A pesar de esta reacción patronal, el movimiento ha crecido gracias a la constancia y la capacidad de los trabajadores y militantes sindicales, que han conseguido importantes victorias, mejorando las condiciones laborales de los trabajadores en diversos almacenes, llegando a acuerdos nacionales que mejoran el contrato colectivo nacional en algunas de las empresas más grandes del sector, consiguen tener la capacidad de desplegar huelgas nacionales que golpean efectivamente las ganancias del sector.
Estos sucesos no han moderado la voluntad ni los métodos de lucha del SI Cobas e dell’ADL Cobas, en las últimas semanas ellos han tenido que organizar las duras batallas a ultranza en los almacenes del Penny Market de Desenzano (Brescia), en la Bormioli di Fidenza (Parma), del Prix de Grisignano (Vicenza), en la cooperativa MG en el Veneto y otras huelgas en Roma, en Milan y en las beneficiadoras porcinas de Modena.
Las reacciones de los industriales y su régimen a estas últimas huelgas han sido más resueltas y coordinadas. El viernes 8 de enero la policía ha reprimido coordinadamente los piquetes de Brescha y Fidenza. En Bormioli la lucha sigue adelante desde hace semanas enfrentando diariamente a un destacamento militar que defiende la empresa.
A la creciente determinación de estado burgués se suman las acciones antiobreras de los sindicatos tricolores (Cgil, Cisl, Uil), que en Fidenza han organizado una manifestación contra la huelga, y en el Veneto han firmado un acuerdo con industriales e instituciones para prevenir las huelgas que consideran “ilegales”, es decir aquellas que atentan contra la ganancia empresarial y den beneficios a los trabajadores.
El estado, con sus cuerpos armados y sus instituciones, los industriales y los grades sindicatos oficiales, constituyen una Santa alianza antiobrera que tiene el objetivo de impedir que toda la clase trabajadora empiece a luchar, y busca de conjurar el peligro que el movimiento de lucha en la logística rebase los límites de la categoría, contagiando al resto de la clase.
Los trabajadores pueden pelear y vencer a este frente único burgués, solo superando sus divisiones que ellos alimentan internamente, con los medios más perversos y viles. Uniendo la lucha por encima de las fronteras entre empresas, categorías, raza, nación y religiones.
Dentro de la logística, el SI Cobas y I’ADL Cobas trabajan en este objetivo, haciendo participar en los piquetes a los trabajadores de las otras empresas, para así reforzar la huelga y derrotar la falta de solidaridad obrera. Para romper el aislamiento en la categoría, en cambio, un rol importante puede ser el desarrollo de las organizaciones y de las corrientes del sindicalismo clasista que tienen el deber de reconocer la importancia que tiene el movimiento obrero en la logística para toda la clase trabajadora, y así aportar el necesario sostén práctico. Para estos organismos sindicales esto es una crucial prueba para demostrar su auténtico valor, la capacidad de ser coherente con los principios de lucha enunciados, superando las miserables divisiones entre siglas o finalmente saldando cuentas con la propia dirigencia oportunista. Porque es de la unidad de la lucha que renacerá el sindicato de clase, necesario para la revancha de todo el proletariado.
Finalmente, la lucha sindical es necesaria para defenderse de la explotación capitalista, pero no es suficiente para eliminarla. Para esto es necesario el partido, dispuesto y capaz de tomar el poder y con la revolución destruir el capitalismo, para liberar a los trabajadores de la esclavitud del trabajo asalariado, reorganizando la producción con el fin de resolver las necesidades sociales y no la ganancia. Por esto llamamos a los trabajadores a la militancia en el partido comunista internacional.
18
marzo 2016
Per
la lotta unitaria e internazionale della classe operaia
contro il regime del capitale
Oggi SI COBAS, CUB e USI-AIT hanno proclamato lo sciopero generale di tutti i lavoratori contro i provvedimenti antioperai del governo, contro la guerra imperialista e gli interventi dell’esercito italiano, per gli aumenti del salario, la riduzione dell’orario di lavoro e la libertà di sciopero, per la libertà di circolazione degli emigranti.
Un MOVIMENTO GENERALE DI LOTTA DELLA CLASSE LAVORATRICE è necessario per fronteggiare l’offensiva padronale in atto da anni e destinata ad aggravarsi ulteriormente, in quanto determinata dall’avanzata ineluttabile della crisi economica.
Il capitalismo non può evitare né fermare la crisi, può solo rallentarne l’avanzata ma per farlo ha a disposizione un unico strumento: AUMENTARE LO SFRUTTAMENTO DELLA CLASSE LAVORATRICE. Per questo i governi di tutti i paesi, a prescindere dalla loro colorazione politica, adottano le stesse misure antioperaie. Se si accetta il capitalismo se ne subiscono le leggi e si opprimono i lavoratori.
Per
battersi contro lo sfruttamento serve un vero SINDACATO DI CLASSE:
–
che difenda intransigentemente gli interessi della classe
operaia senza subordinarli al cosiddetto bene dell’azienda o del
paese, che altro non sono che il bene del capitalismo, cioè della
classe dominante;
–
che organizzi veri scioperi: senza preavviso, ad oltranza, con
picchetti che blocchino merci e crumiri;
–
che unifichi le lotte operaie in un movimento per gli obiettivi
comuni, primi fra tutti la difesa del salario e la riduzione
dell’orario di lavoro.
L’azione sindacale che il SI Cobas sta conducendo da sei anni nella logistica – e più recentemente anche nel settore della macellazione delle carni e in alcune aziende di trasporto – è quella che più e meglio si è attenuta a questo indirizzo sindacale di classe e tutti i sindacati di base devono lavorare per estenderla alle altre categorie della classe lavoratrice in cui sono presenti.
Un duro ostacolo a questo lavoro sono la paura, la passività, l’individualismo di tanti lavoratori. Sentimenti che sono incoraggiati – oltre che dalla scontata azione corruttrice, intimidatoria e repressiva del padronato – da quella dei sindacalismo di regime (in Italia rappresentato da Cgil, Cisl, Uil, Ugl) che, anche se in difficoltà, conservano ancora una forte influenza nelle maggioranza delle categorie.
Per
superare queste difficoltà il sindacalismo di base deve
attenersi al principio dell’UNITÀ D’AZIONE DEI LAVORATORI:
–
ponendo fine alla pratica della azioni di lotta separate fra sigle,
sostenendo gli scioperi a prescindere dalla organizzazione sindacale
che li proclama, cercando sempre il coinvolgimento nell’azione di
tutti i sindacati di base, anche di quelli le cui dirigenze hanno
dimostrato, come nel caso dell’USB, il loro opportunismo;
–
aderendo anche agli scioperi promossi dai sindacati di regime, quando
mobilitano effettivamente i lavoratori, come ha fatto il SI Cobas
quando è sceso in piazza insieme ai metalmeccanici organizzati dalla
FIOM.
Bisogna avere fiducia nel fatto che il rafforzamento del movimento di sciopero giova al sindacalismo che davvero crede nella lotta di classe e va a discapito dei sindacati che la ripudiano e di quelli che la proclamano a parole ma non sono disposti a metterla in pratica.
LAVORATORI, COMPAGNI !
Per quanto la borghesia riesca a imporre sacrifici alla classe lavoratrice per tenere ancora un po’ in piedi la sua economia moribonda, la crisi è come un cancro che continua a crescere nel corpo del capitalismo, con periodiche esplosioni e balzi in avanti, spingendo da un lato il proletariato nella povertà e dall’altro gli Stati nel vortice della guerra, l’unica soluzione che ha la classe dominante al fallimento della sua economia.
A causa della crisi la concorrenza commerciale si acuisce e tende a diventare confronto militare. I lavoratori, che oggi sono chiamati in nome del “bene dell’azienda e del paese” ad accettare i sacrifici per vincere nella concorrenza contro altre aziende ed altri paesi, spingendo al ribasso il salario e le condizioni di lavoro di tutta la classe, domani saranno chiamati, per le stesse ragioni, al massacro fratricida sui fronti di battaglia.
Tutti i regimi capitalisti – le massime potenze come quelle piccole e medie – sono complici, interessati e coinvolti nella preparazione della guerra: nascondono le sue vere ragioni economiche dietro la cortina fumogena di motivazioni razziali o religiose e si servono del terrorismo – contro la propria stessa popolazione o contro quella delle potenze avversarie – per accrescere l’odio e la paura, utilizzando e foraggiando bande mercenarie come lo Stato Islamico, ad esempio.
LAVORATORI, COMPAGNI !
Oggi centinaia di migliaia di profughi fuggono dalla Siria, distrutta da cinque anni di conflitto fra le potenze mondiali e regionali per contendersi il controllo di quell’area. Questa guerra iniziò all’indomani delle grandi rivolte scoppiate in Egitto e in Tunisia – le cosiddette primavere arabe – in cui la classe lavoratrice ebbe un ruolo fondamentale. In Siria la rivolta, che iniziava a gettare radici, è stata soffocata con la guerra ma in molti dei paesi vicini la classe operaia continua la lotta. Importanti scioperi hanno attraversato negli ultimi mesi l’Iran e il Kurdistan iracheno (l’Iraq settentrionale). In Turchia continua la lotta nelle fabbriche automobilistiche, dopo lo sciopero del maggio scorso che per dodici giorni ha squassato l’intera industria del settore, la quinta d’Europa, coinvolgendo decine di migliaia di operai, molti dei quali hanno abbandonato il principale sindacato che si è schierato contro la lotta. Nei Territori Occupati Palestinesi gli insegnanti hanno terminato in questi giorni uno sciopero ad oltranza durato tre settimane, fronteggiando gli arresti della polizia palestinese e organizzandosi fuori e contro il locale sindacato di regime. In Tunisia a gennaio è tornata ad infiammarsi la rivolta, con scioperi e manifestazioni dei disoccupati a cui il governo ha risposto imponendo per diversi giorni il coprifuoco. In Egitto sono centinaia i militanti operai in carcere per aver organizzato scioperi ed è in piedi un movimento sindacale fuori e contro il sindacato di regime locale che fronteggia la dura repressione dello Stato borghese, di cui il brutale assassinio di Giulio Regeni e solo uno fra i tanti.
L’UNIONE INTERNAZIONALE DEI LAVORATORI è possibile, è lo sbocco naturale di queste lotte ed è la sola forza che può impedire la guerra o fermarla, capovolgendola in guerra tra le classi, in rivoluzione.
Come le aziende vogliono legare a sé i lavoratori con la favola della “grande famiglia”, per meglio sfruttarli, mettendoli in concorrenza coi lavoratori delle altre aziende, così i regimi borghesi cercano di tenerli ingabbiati nell’orizzonte politico nazionale, per incatenarli ai loro obiettivi e poterli mandare domani al massacro fratricida sui fronti di guerra. Azienda e patria sono le galere della lotta, sindacale e politica, dei lavoratori.
Per questo, oltre al Sindacato di Classe, ai lavoratori occorre il Partito Comunista Rivoluzionario, un partito che si batta CONTRO OGNI NAZIONALISMO, in special modo contro quelli dipinti di rosso, dei falsi partiti “marxisti”, il cui internazionalismo è solo di facciata mentre continuano a predicare il mito di una impossibile “patria socialista” limitata ad un solo paese, come il governo chavista in Venezuela.
Anche la lotta del Partito dei Lavoratori Curdi (PKK) – e del suo alleato in Siria, il Partito dell’Unione Democratica (PYD) – non a caso di origine stalinista, per l’indipendenza nazionale del popolo curdo va contro la classe operaia perché ne sottomette gli interessi di classe a quelli generali del “popolo curdo” e rinfocola le divisioni tra proletari curdi e turchi. Questi partiti borghesi sono pedine nelle mani degli imperialisti e contribuiscono ad alimentarne le guerre. L’interesse dei lavoratori curdi è al contrario quello di spezzare il legame con la propria borghesia ed unirsi alla lotta degli operai turchi contro lo sfruttamento e l’oppressione borghese. La autodeterminazione nazionale della minoranza curda all’interno dei confini dei vari Stati in cui è diviso quel popolo, si rivelerà ben presto un nuovo inganno ai danni del proletariato.
Organizzarsi e lottare contro lo sfruttamento, contro la volontà padronale di far pagare la crisi del capitalismo alla classe lavoratrice, significa camminare già sulla strada che condurrà alla sua soluzione nell’interesse dei lavoratori: la RIVOLUZIONE OPERAIA INTERNAZIONALE.
Per questo grandioso quanto vitale compito chiamiamo alla milizia nel nostro partito, erede della Sinistra Comunista italiana, la corrente che fondò il Partito Comunista d’Italia a Livorno nel 1921 e che lottò dalla prima ora contro l’ondata opportunista dello stalinismo e la menzogna del falso socialismo “in un solo paese”.
Proletari di tutti i paesi unitevi !
Prigioniera della fabbrica la lotta all’Ilva
Per decreto la italiana Ilva, in difficoltà finanziarie, insieme ad altre sette aziende, entro quattro anni sarà ceduta.
Il 25 gennaio la Fiom Ilva di Genova Cornigliano ha chiamato in assemblea i lavoratori, che sono scesi in sciopero bloccando il traffico nel ponente cittadino e occupando la fabbrica. L’agitazione, che è andata avanti per tre giorni, chiedeva al governo di inserire nella procedura di cessione l’Accordo di Programma firmato nel 2005, che prevedeva, a fronte della chiusura dell’attività a caldo dello stabilimento, una continuità occupazionale e salariale. I lavoratori interessati dall’accordo, tra cassa integrazione e lavori socialmente utili, sono circa 1.650.
L’Accordo del 2005, modifica del precedente del 1999, è stato firmato da vari ministeri, azienda, regione, provincia, comune, società per Cornigliano, autorità portuale, aeroporto e sindacati: tanto è grosso il giro di affari che ci sta dietro. Ma a noi interessa cosa comporta per gli operai. Nonostante abbia permesso un, momentaneo, mantenimento del salario e dell’occupazione, avrebbe dovuto essere occasione per organizzare un coordinamento di lavoratori degli altri siti italiani; al contrario ha contrapposto i lavoratori di Genova da quelli degli altri stabilimenti, e così oggi prosegue.
Se va apprezzato lo sciopero dei tre giorni a Genova, va altrettanto denunciato che la la FIOM genovese non ha tentato in alcun modo di estenderlo agli altri stabilimenti, promuovendo una rivendicazione comune, e che, quando lo sciopero è stato indetto nelle fabbriche di Taranto, Novi, Racconigi e Marghera, i lavoratori di Cornigliano non sono stati fatti scioperare. Uno sciopero importante, quindi, che però, invece di rafforzare la classe lavoratrice ne aggrava le divisioni.
La chiusura della lotta degli operai dell’ILVA di Cornigliano nei confini nemmeno di azienda ma di fabbrica e nel localismo è stata confermata dai demagogici manifesti 6x3 metri della Fiom provinciale affissi in tutta la città: “ILVA: una lotta di Genova per difendere l’industria a Genova. Grazie Genova”.
Proletari palestinesi contro borghesi palestinesi
Il salario medio di un insegnante abitante nei Territori Occupati, governati dall’Autorità Palestinese, è di 700 euro. La spesa mensile media per una famiglia operaia è di 1.200 euro.
Il 9 febbraio quegli insegnanti sono scesi in sciopero rivendicando il rispetto di un accordo con il governo palestinese del 2013 che prevedeva aumenti salariali, un miglioramento delle pensioni e l’adeguamento degli scatti di anzianità.
Per settimane la maggior parte delle scuole dei Territori è rimasta chiusa, mentre altre strutture sono rimaste aperte solo poche ore. Diverse manifestazioni si sono tenute nelle città della Cisgiordania, le maggiori a Ramallah, dove i cortei hanno raggiunto i ventimila manifestanti.
Emulando i metodi dell’esercito israeliano, le forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese hanno eretto numerosi posti di blocco per impedire agli autobus che trasportavano gli scioperanti di raggiungere la città. I lavoratori sono stati schedati, minacciati e arrestati. Ai tassisti che trasportavano gli insegnanti a Ramallah è stata minacciata la revoca della licenza.
In diversi paesi gli altoparlanti delle moschee invitavano i lavoratori a smettere di scioperare. Ovunque il nazionalismo – anche quello dei popoli oppressi come i palestinesi o i curdi – e la religione sono armi della borghesia contro la classe lavoratrice. I veri oppressi sono i lavoratori e i veri oppressori le borghesie, di tutto il mondo, anche quelle a cui, per ora, non è riconosciuto, dal concilio internazionale dei grandi e piccoli briganti imperialisti il diritto ad avere un loro Stato, di cui giovarsi per meglio sfruttare la forza lavoro locale.
Il 16 febbraio la polizia palestinese ha arrestato 22 insegnanti e un dirigente sindacale che si era esposto parlando a favore dello sciopero. L’azione repressiva ha ottenuto l’effetto opposto a quello desiderato dal locale regime borghese, spingendo altri lavoratori nella lotta e rafforzando lo sciopero che è divenuto ad oltranza ed ha rilanciato la richiesta d’aumento del salario dal 2,5% iniziale fino al 10%.
Anche in Palestina gli insegnanti hanno incontrato nel sindacato ufficiale un ostacolo contro cui si sono scontrati, trovandosi costretti ad organizzarsi autonomamente in un “comitato di coordinamento degli insegnanti”. Il sindacato di regime della categoria, l’Unione Generale degli Insegnanti Palestinesi, è stato apertamente contestato dai lavoratori in lotta, che hanno richiesto le dimissioni del segretario generale e la elezione di nuovi delegati.
Gli insegnanti palestinesi sono un limpido esempio per tutti i proletari dell’area che mostra come il primo nemico contro cui organizzarsi e combattere sia il proprio governo borghese. Solo attraverso l’unione dei lavoratori dell’intera area, rompendo il legame col nazionalismo, anche i proletari palestinesi potranno alleviare le loro sofferenze, lottando a fianco dei loro fratelli di classe contro l’internazionale borghesia di ogni colore e nazionalità che da decenni li inchioda, svenandoli, in un combattimento nazionalista che non è il suo e mai lo sarà.
Non si ferma nella democratica Tunisia la rivolta dei disoccupati
Le conseguenze della crisi economica mondiale, l’instabilità politica seguita al rovescio del regime di Ben Ali, i venti di guerra libici, il terrorismo e la crisi del settore turistico hanno messo in ginocchio la società tunisina. Su una popolazione di circa 11 milioni la Tunisia conta circa 630 mila disoccupati; la crescita economica del 3%, prevista per il 2016 potrà al massimo coprire 90 mila domande di impiego. I due pilastri su cui il governo cerca di ricostruire l’economia nazionale, il mercato interno e l’iniziativa privata, restano molto deboli.
La crisi economica ha inevitabilmente sortito effetti pesanti nei paesi della periferia del mondo. La recessione in Europa ha portato ad un crollo delle esportazioni dalla Tunisia, delle quali oltre tre quarti sono dirette verso l’U.E. Altro importatore di prodotti tunisini è la Libia, ma lo stato di guerra in cui versa quel Paese ha provocato un calo del commercio, specialmente da quando lo Stato Islamico ha preso possesso della città di Sabrata, a metà strada fra il confine tunisino e la capitale libica.
È dai primi anni del regime di Ben Ali che ha avuto inizio una politica, imposta dal FMI, di drastiche privatizzazioni e liberalizzazioni e di tagli dei servizi pubblici. Questa puntava al turismo, all’esportazione di prodotti alimentari e alla produzione manifatturiera. Tuttavia una politica economica fondata sulle esportazioni è naturalmente in balìa del caotico fluttuare del mercato mondiale e fortemente dipendente dall’importazione di beni di consumo primari.
L’inserimento negli ultimi due decenni dell’economia tunisina nel mercato mondiale ha determinato una acuta polarizzazione sociale e una differenza di condizioni fra le città e la campagna: come in Marocco, le industrie e il turismo sono andate ad occupare le regioni costiere, mentre l’entroterra è rimasto nella miseria; ugualmente in Egitto sono stati investiti capitali soprattutto nel delta del Nilo fortemente urbanizzato abbandonando il resto del Paese.
Questa prolungata indigenza e la mancanza di prospettive ha reso protagonista di dure lotte il proletariato, e non tanto le mezze classi, comparse sulla scena solo quando il regime era sul punto di cedere.
Nel 2010 la famiglia di Ben Ali controllava quasi un terzo dell’economia tunisina. Le maglie del potere si estendevano nei settori strategici: banche, telecomunicazioni, import-export, settore automobilistico, agricolo e della grande distribuzione alimentare. Quindi buona parte del proletariato e dei ceti che hanno dato vita alla rivolta identificavano nel clan della famiglia presidenziale il nemico da abbattere. Il lusso ostentato da Ben Ali e dai suoi congiunti era quanto di più detestato dal proletariato, che spesso non riusciva neppure a soddisfare i bisogni primari.
Dopo il rovesciamento del regime i tunisini si attendevano quindi un miglioramento delle loro condizioni di vita. Ma l’illusione, divulgata dai partiti del nuovo ordine democratico, che le ricchezze accumulate dal regime potessero essere ridistribuite o utilizzate per politiche popolari è ben presto svanita. Dopo cinque anni le condizioni del proletariato sono spesso peggiorate e il nuovo governo democratico non ha fatto nulla per porvi rimedio.
Parte da Kasserine la rivolta
Alla stazione di Kasserine, città della Tunisia centro-occidentale, ai piedi del Djebel Chambi, la più alta montagna del Paese, si legge una scritta murale risalente alla rivoluzione del 2011: «qui la rabbia è antica». Ed è proprio vero, per un proletario di Kasserine lo Stato ha sempre rappresentato solo il manganello del poliziotto.
Già il governo di Bourghiba, seguendo le indicazioni del FMI, negli anni Ottanta aveva puntato sullo sviluppo del turismo e sulle esportazioni, trascurando le regioni interne. Per questo, in seguito al grande aumento del prezzo dei cereali, la città fu protagonista delle rivolte del pane del 1984, durante le quali ben 184 proletari furono uccisi. Ma la regione ha continuato ad essere trascurata anche durante il successivo ventennio del governo di Ben Ali.
La città ha pagato il suo tributo di sangue anche durante i trenta giorni della rivoluzione del 2011 (“dei gelsomini”). A Kasserine furono più di 50 i caduti sotto i colpi dei cecchini del regime appostati sui tetti.
I crimini commessi dal passato regime a Kasserine non sono mai stati veramente riconosciuti dal nuovo ordine democratico, alimentando la sfiducia della popolazione.
In base alle ultime statistiche ufficiali il tasso di disoccupazione nella città, che conta circa 90 mila abitanti, è del 26% contro il 17% della media nazionale; la speranza di vita non supera i 70 anni, contro i 77 nelle città costiere. A Kasserine solo la metà delle famiglie dispone di acqua potabile a fronte del 90% a livello nazionale.
Il 12 gennaio gli studenti delle scuole superiori hanno inscenato una rivolta e dato fuoco alla scuola. Il 14 gennaio, anniversario della cosiddetta rivoluzione tunisina, un neolaureato di 28 anni, Ridha Yahyaoui, durante il presidio di una organizzazione di giovani disoccupati contro la loro esclusione da un un concorso pubblico, si è arrampicato su un palo della luce dove è rimasto folgorato ed è morto due giorni dopo.
Un suicidio aveva smosso le masse contro il regime di un Ben Ali nel 2010 e uno stesso tragico evento ha trascinato oggi nelle strade decine di migliaia di proletari contro il regime, ora in involucro democratico ma ugualmente spietato e classista. All’alba del giorno 17 gennaio 500 giovani disoccupati hanno preso a sassate la sede del governatorato di Kasserine dando il via ad una nuova rivolta. La polizia ha risposto con gas lacrimogeni, ma un imponente corteo ha attraversato le vie della città aggregando migliaia di giovani proletari e respingendo le cariche della gendarmeria. Nel giro di poche ore la rivolta aveva già contagiato le vicine città di Zouhour e Ennour.
La crisi del turismo ha abbassato le condizioni dei proletari anche delle città costiere e questo ha favorito il dilagare della rivolta, contrariamente a quanto è successo altre volte dal 2010.
I metodi terroristici del regime di Ben Ali contro chi lottava per migliorare le proprie condizioni continuano ad essere praticati dal nuovo governo democratico. Nelle prigioni, nelle caserme e nelle gendarmerie della Guardia Nazionale si continua sistematicamente a torturare. Il terrore rimane l’unico mezzo a disposizione di una borghesia incapace di soddisfare i bisogni essenziali delle classi inferiori. I proletari tunisini, conosciuto in cosa consistano le nuove libertà costituzionali, hanno presto appreso quanto illusoria sia la soluzione democratica dei loro problemi.
Anche per questo la rivolta dilaga in tutto il paese e migliaia di giovani proletari affrontano a viso aperto le forze dell’ordine a Sfax, Siliana, Mdhilla, Meknassi, Tahla, Fernana, Meknassi, Béja, Jendouba, Sidi Bouzid, Kebilli e Redeyeff. A soli due giorni dalla morte di Ridha Yahyaoui, 14 dei 24 governatorati della Tunisia sono attraversati dalla rivolta. Il 18 gennaio un piccolo corteo raggiunge anche la capitale.
Intanto i sindacati di base indicono uno sciopero di tre giorni nel complesso ospedaliero di Ben Arous.
Il 19 gennaio, quinto giorno di scontri a Kasserine, è decretato il coprifuoco dalle ore 18 alle 5 del mattino. Il 20 gennaio si hanno scontri notturni in tutto il paese: il bilancio ufficiale del Ministero degli Interni è di 80 feriti gravi fra le forze dell’ordine e un morto.
Lo stesso giorno la sede del governatorato di Tunisi è occupata dal sindacato studentesco UGET, che rivendica un posto di lavoro per ogni famiglia. Gli scontri si spingono fino a Cartagine, a poche centinaia di metri dal palazzo presidenziale e durante la notte si susseguono in diversi quartieri periferici. In quasi tutti i governatorati per motivi di sicurezza sono chiusi gli uffici pubblici.
Il 20 gennaio si hanno scontri nelle città di Tozeur, Medenine, Gafsa, Sidi Bouzid, Kairouan, Sfax e Enfidha.
Fra il 20 e il 21 gennaio a Kébili la folla dà fuoco ad alcuni uffici della Guardia Nazionale e, stando a quanto viene riportato da una emittente radiofonica locale, polizia e gendarmeria abbandonano la città. Deve intervenire direttamente l’esercito per riportare l’ordine. Il 23 e il 24 gennaio altri episodi minori.
Ma la situazione sta tornando alla calma. Il governo tunisino alleggerisce il coprifuoco notturno, ora imposto dalle 22 alle 5. Il 30 gennaio a Thala, una delle città del governatorato di Kasserine dove si sono verificati i maggiori scontri e una delle ultime località riportata all’ordine, sono riconquistati i locali della polizia.
Tuttavia il fatto che le violenze siano terminate non implica affatto che si sia tornati alla pace sociale.
Contro imam, sindacati di regime e stalinisti
Nei paesi a maggioranza musulmana il movimento islamico riesce a organizzare e mobilitare le masse, a partire dalle moschee. Lo abbiamo visto nel corso della crisi algerina agli inizi degli anni Novanta e durante la rivolta egiziana contro il regime di Hosni Mubarak. Nulla di simile è accaduto in Tunisia dove non vi è stato alcun legame fra la rivolta e gli islamici né sono riportati episodi in cui questi siano riusciti a egemonizzare la piazza.
Nella cittadina di Mahdia alcuni gruppi politici del populismo islamico “moderato” hanno tentato di indire uno sciopero generale cittadino, non per chiedere aumenti salariali ma per opporsi alla riapertura di un negozio che vende alcolici. Il tentativo è stato ignorato dai proletari.
Nel gennaio di quest’anno la storica Unione Generale dei Lavoratori Tunisini (UGTT) ha indetto uno sciopero generale nei governatorati della Grande Tunisi, ma solo per cercare di recuperare fiducia fra i propri iscritti e per disorientare e dividere il proletariato. La “lotta” si è infatti presto risolta con un accordo con l’Unione Tunisina dell’Industria, Commercio e Artigianato per un aumento salariale del 6% per il settore privato. Ma la trattativa era già in corso a dicembre, quindi si è soltanto formalizzato un accordo già preso.
Inoltre l’UGTT nei giorni della rivolta ha invitato i propri iscritti a mettersi a difesa dei palazzi governativi minacciati da “anarchici, teppisti e ladri”, si è contrapposta ai giovani disoccupati e ha chiesto ai propri iscritti di dissociarsi dalle iniziative che minacciano le “libertà democratiche della rivoluzione”.
Il 4 gennaio l’UGTT aveva indetto uno sciopero generale della scuola per il 27 del mese: questo sciopero è stato revocato assieme allo sciopero generale dei lavoratori del settore culturale. Anche lo sciopero generale dei trasportatori di carburante previsto per tre giorni dal 21 al 23 di gennaio è stato annullato. Si è trattato di un tradimento della classe operaia in nome del borghese interesse nazionale.
A Enfidha, in seguito agli scontri del 20 gennaio, l’UGTT ha proclamato lo sciopero generale regionale per il 26 gennaio; benché il 25 abbia tentato di rimandarlo, ha incontrato la pronta risposta del proletariato della città che ha marciato contro la sede dell’organizzazione sindacale e dato battaglia contro le forze dell’ordine fino a sera. Sempre a Enfidha l’UGTT ha revocato il 26 gennaio anche lo sciopero programmato all’aeroporto, spiegando che la revoca era per creare un “clima pacifico” con la controparte turca che gestisce la struttura e con il Ministero dei Trasporti.
Più combattivo dell’UGTT è stato nientemeno che il sindacato della polizia: lunedì 25 gennaio hanno scioperato anche i poliziotti, che si sono dati appuntamento in migliaia sotto al palazzo presidenziale presso Cartagine, chiedendo forti aumenti salariali, per un costo totale di circa 450 milioni di euro annui.
Le reazioni dei partiti al governo e di quelli all’opposizione sono state le stesse, dal momento che identica è la natura di classe delle forze politiche che si contendono l’amministrazione dello Stato. Tutto il parlamento si è pronunciato unanime contro un fantomatico Stato Islamico che starebbe accerchiando la Capitale. Si tratta ovviamente di un allarme del tutto infondato ma comodo per legittimare l’uso della forza.
Sarà poi questa la chiave interpretativa adottata da buona parte della stampa anche all’estero: gruppi di integralisti islamici starebbero cavalcando la protesta dei disoccupati nel tentativo di destabilizzare il paese. Qualche giornalista si spinge addirittura a paventare la possibilità che lo Stato Islamico stia creando disordini per penetrare in Tunisia dalla Libia.
Alcuni partiti dell’opposizione di destra hanno accusato il Fronte Popolare, aggregazione controrivoluzionaria di relitti socialdemocratici e stalinisti, di aver inviato provocatori fra i disoccupati. Ma la borghesia tunisina sa bene che il Fronte Popolare non rappresenta un nemico. Esso funziona solo come cinghia di trasmissione fra la borghesia e il movimento dei disoccupati. Sono stati dei parlamentari del Fronte Popolare a condurre i negoziati con il Governo, e l’organo ufficiale dell’Associazione dei Dirigenti Tunisini ne ha difeso l’operato per essersi sempre «opposto alla infiltrazione di elementi criminali anarchici e reazionari che hanno provato ad insinuarsi nel movimento sociale per allontanarlo dai suoi nobili obiettivi». Inoltre il Fronte Popolare «non ha mai cessato di difendere le strutture dello Stato e ha sempre rifiutato l’idea di far cadere il governo», tanto è vero che è stato persino ricevuto dal presidente tunisino per consultazioni. Esso fa parte a pieno titolo di quella “opposizione costruttiva” al governo utile alla borghesia per mantenere l’ordine sociale.
Il movimento proletario deve guardarsi da tutti questi falsi amici che sono addirittura più pericolosi dei nemici dichiarati. Esso deve cercare la sua indipendenza politica dalla borghesia e dall’opportunismo dandosi un vero sindacato di classe, indipendente dallo Stato e dal padronato. I suoi elementi più combattivi e risoluti dovranno riallacciarsi alla tradizione del comunismo rivoluzionario e internazionalista, al Partito Comunista Internazionale. Solo così potranno sfidare il capitalismo, la miseria e il terrore borghese.
Il sindacalismo indipendente
Dopo la rivolta di gennaio, il movimento dei giovani disoccupati ha iniziato a maturare rapporti con il sindacalismo di base.
Uno sciopero generale è stato organizzato a Sfax il 29 gennaio, fortemente voluto dai lavoratori in risposta all’appello dei disoccupati, dimostrando la possibilità di una alleanza fra occupati e disoccupati, premessa indispensabile per la lotta di classe in Tunisia.
Il 1° febbraio i sindacati di base hanno proclamato uno sciopero generale nelle cittadine di Al Ayoun, Bel Abbes, Feriana e Jedlian nel governatorato di Kasserine. Il 2 febbraio anche i lavoratori della cittadina vicina di Sebiba hanno risposto all’appello alla mobilitazione dei sindacati di base e del movimento dei giovani disoccupati. Hanno partecipato agli scioperi anche le locali organizzazioni sindacali di base degli insegnanti e degli edili.
Il 4 febbraio il movimento dei disoccupati del governatorato di Al Gafsa ha annunciato che stava organizzando una marcia verso il confine con l’Algeria.
Lo stesso giorno hanno scioperato i lavoratori degli asili nido del governatorato di Nabeul, gli operai delle fabbriche di Le Kef per difendere il salario e gli ospedalieri di Kasserine. Inoltre i portuali della STAM a Rades (Porto di Tunisi) hanno cominciato uno sciopero di due giorni, illegale secondo il Ministero dei Trasporti.
L’8 febbraio l’UGTT con il sostegno delle organizzazioni sindacali locali ha proclamato lo sciopero generale a Enfidha al quale ha dichiarato un tasso di adesione del 100% sia per il pubblico sia per il privato.
Per lo stesso giorno a Kalaat el Andalus i marinai hanno scioperato per chiedere la riapertura del porto, trovando il sostegno di tutti i lavoratori della località. Sono stati bloccati gli accessi alla cittadina con barricate di pneumatici incendiati. Presto è stato raggiunto un accordo con il Ministero dell’Agricoltura per la riapertura del porto entro due mesi, e lo sciopero è stato revocato. In solidarietà sono state ugualmente bloccate le strade nel resto del governatorato di Ariana a nord della capitale. Lo stesso è successo anche a Jendouba sull’arteria che collega la cittadina al porto di Tabarka per rivendicare il diritto all’acqua potabile e un servizio di irrigazione gratuito.
Dal 14 febbraio la cittadina di Le Kef è stata trascinata dagli operai verso uno sciopero generale a oltranza, che l’ha completamente bloccata. Il 17 febbraio la città era ancora in sciopero. Sempre il 14 febbraio è stato proclamato uno sciopero di tre giorni dei lavoratori municipali nel governatorato di Nabeul per rivendicazioni salariali.
Tutti questi scioperi generali indetti dalle organizzazioni di base a livello cittadino, assieme al movimento dei disoccupati, chiedono che la propria regione venga riconosciuta dal Governo centrale come depressa, perché possa accedere ai fondi di sostegno governativi.
Questo movimento non potra certo risolvere la crisi che interessa quelle regioni. Non basta un mosaico di organizzazioni sindacali di base, spesso influenti solo a livello locale, ad organizzare il proletariato tunisino per una lotta generale di classe contro classe. Ma queste lotte preparano il terreno perché i diverse embrioni di difesa economica, spesso ancora deboli, crescano e si coagulino in un unico sindacato in grado di mobilitare il proletariato in una lotta nazionale aperta contro la classe borghese.
L’errore dell’unità proletaria
Ripubblichiamo il testo con questo titolo da Il Soviet del 1919, organo dell’allora Frazione Comunista Astensionista in seno al P.S.I., per ribattere un concetto fondamentale del programma del comunismo rivoluzionario. Qui la prima parte, apparsa nel numero 24 dell’1 giugno; pubblicheremo la seconda, che portava il titolo “Il ‘fronte unico rivoluzionario’?”, tratta dal numero 25, nel prossimo Per il Sindacato di Classe.
Vi era stato allora, come è una costante e come si sta ripetendo anche oggi, un tentativo di formazione di un comitato delle “forze di sinistra”, che avvicinasse i maggiori sindacati, la Confederazione Generale del Lavoro, la Unione Sindacale e il Sindacato Ferrovieri, al Partito Socialista e agli anarchici. I promotori pretendevano presentare l’iniziativa come un passo verso la “unità proletaria”, da cui il titolo dell’articolo.
La breve nota si rivolgeva evidentemente non ai lavoratori in genere, ma ai socialisti di sinistra, ai quali intendeva dimostrare, in polemica con destri e con sinistri sindacali, la impossibilità per un partito rivoluzionario di venire ad alleanza con altri partiti, anche per scopi limitati e nel solo campo della difesa e dell’azione immediata.
È difficile per i lettori di oggi tenere in mano il filo rosso della dottrina emancipatrice della classe operaia, tanto più in tempi di imperante confusione teorica, alimentata dalla borghesia saldamente al potere. Superato il lettore questo arduo scoglio, l’articolo espone in maniera analitica i motivi che rendono impossibile al partito comunista stringersi ad un fronte unico politico con un supposto “campo rivoluzionario”.
Il partito si presenta come un blocco monolitico, chiuso, nella dottrina e nell’organizzazione, che nulla può avere in comune con altri partiti, falsamente comunisti e falsamente rivoluzionari. Per contro i comunisti lottano al fianco di tutti gli operai, a prescindere da ogni loro credo politico e fede religiosa, negli organismi intermedi difensivi, fondamentali per la vittoria finale del socialismo. E spingono alla loro unificazione organizzativa e di movimento. La ibridazione invece di quegli organi immediati al fine di dar vita ad un soggetto deforme, a metà strada tra il partito ed il sindacato, è operazione che danneggia la faticosa opera di costruzione dei entrambi gli organi necessari alla vittoria rivoluzionaria, e il sindacato e il partito.
Polemica a più fronti
Il
Soviet, n. 24 dell’1 giugno 1919
Una convinzione molto diffusa, perché rivestita dalle ingannevoli apparenze del solito buon senso, è quella che l’unità delle organizzazioni economiche del proletariato sia una condizione favorevole o addirittura indispensabile per il successo della Rivoluzione. Si persegue quindi da molte parti la fusione dei grandi organismi sindacali esistenti in Italia.
Noi vogliamo esprimere il nostro pensiero al proposito, anche se ben differente dalle opinioni di molti compagni.
Vediamo in questa questione una questione essenzialmente politica.
L’auspicata unità corrisponderebbe alla fusione, al “blocco” di molte tendenze politiche che noi possiamo ridurre almeno a tre, contraddistinte da tale contenuto programmatico e tattico che la loro confusione è non solo poco probabile, ma anche non desiderabile per la causa dell’emancipazione proletaria.
Un fascio delle forze sindacali del proletariato al di fuori dei dissensi politici sarebbe un fattore di nessuna efficacia rivoluzionaria, perché la dinamica della rivoluzione sociale esorbita dai limiti del sindacato professionale.
Le crisi di sviluppo della società, si presentino sotto l’aspetto evolutivo o rivoluzionario, hanno per attori i partiti politici nei quali si riflettono le classi sociali.
Negli organismi sindacali si riflettono invece solo le categorie professionali. L’uomo partecipa alla vita sociale entro limiti assai più larghi di quelli della sua opera professionale, ed anche i suoi rapporti strettamente economici non si limitano alla sua posizione di produttore, ma si estendono alle altre sue attività di consumatore, direttamente interessato a tutti gli altri rami della produzione e dell’amministrazione sociale.
Specie nei momenti di convulsione sociale, l’uomo fa valere con la sua azione politica i suoi interessi non quale membro di una categoria di produttori, ma di una classe sociale.
La classe deve considerarsi non come un semplice aggregato di categorie produttrici, ma come un insieme omogeneo di uomini le cui condizioni di vita economica presentano analogie fondamentali.
Il proletario non è il produttore che esercita dati mestieri, ma è l’individuo contraddistinto dal nessun possesso di strumenti di produzione, e dalla necessità di vendere per vivere l’opera propria. Potremmo anche avere un operaio regolarmente organizzato nella sua categoria, che sia contemporaneamente un piccolo proprietario agrario o capitalista; e questi non sarebbe più un membro della classe proletaria. Tal caso è più frequente che non si creda.
Non le confederazioni di organizzazioni di mestiere, ma i partiti socialisti comprendono dunque e rappresentano l’insieme di interessi e di tendenze storiche della classe lavoratrice.
La tendenza a sopravalutare l’azione dei sindacati è comune ai riformisti ed agli anarchici sindacalisti. Tale tendenza avrebbe voluto avvalorarsi dalle contemporanee esperienze di rivoluzioni comuniste. Ma oggi siamo abbastanza informati per provare quanto più volte abbiamo asserito: che cioè l’azione rivoluzionaria è diretta da un partito politico, e il nuovo regime di rappresentanza proletaria è essenzialmente politico.
Dalla storia delle recenti rivoluzioni risulta che esse hanno trionfato mediante l’affermazione su tutti gli altri partiti avversari del Partito Socialista Comunista, che, appoggiato da grandi masse proletarie, ha conquistato il potere ed ha formato i nuovi governi prima provvisori, poi definitivamente designati dal suffragio delle nuove rappresentanze.
Dai documenti sulle costituzioni delle repubbliche socialiste si rileva che queste rappresentanze non si fondano sul sindacato, la categoria professionale, la fabbrica, come molti si ostinano a rimasticare, bensì su circoscrizioni territoriali, che eleggono i propri delegati indipendentemente dalla professione degli elettori e degli eletti.
Nel nuovo assetto economico la proprietà e l’amministrazione di essa passano alla collettività, e non alle categorie produttrici.
I sindacati e le unioni professionali hanno un compito affatto secondario: possono far proposte sulla disciplina del lavoro e le trasformazioni tecniche, sottoponendo tali proposte alla sanzione del sistema politico rappresentativo ed esecutivo. Essi sono molto meno arbitri delle proprie aziende che non lo siano in regime capitalistico le cooperative di produttori – ed è notevolissimo che il Governo dei Soviet russi ha stabilito in linea di principio la socializzazione della stessa proprietà delle cooperative di lavoro.
Caratteristica essenziale del regime dei Soviet non é dunque quella di essere un governo delle categorie operaie, ma un governo della classe operaia, i membri della quale hanno l’esclusività del diritto politico negato invece ai borghesi. Quel tale operaio organizzato che fosse al tempo stesso un piccolo proprietario o un piccolo rentier non sarebbe elettore.
Questo concetto del governo di classe, della dittatura del proletariato, é la chiave di volta di tutta la visione marxistica del processo rivoluzionario.
Ridotta così alla sua vera importanza la funzione dei sindacati operai, il problema dell’unità proletaria si trasforma in quello della fusione delle correnti politiche, che reclutano i loro seguaci tra gli organizzatori e gli organizzati.
Ogni unificazione sindacale che non importasse questo blocco politico sarebbe assurda e fittizia.
La unificazione politica é poi un fatto ancor più difficile ed antitetico allo sviluppo delle condizioni favorevoli ad un’azione rivoluzionaria.
Le tre correnti fondamentali cui ci riferiamo sono: l’operaismo riformista; il sindacalismo anarchico; il socialismo massimalista.
Un tentativo di affasciamento di queste tre correnti l’abbiamo avuto a Bologna con la formazione di un comitato rivoluzionario nel quale entrano la Confederazione del lavoro, l’Unione Sindacale, il Partito Socialista Italiano, il Sindacato Ferrovieri e gli anarchici; e a questi comitati ci dichiariamo contrarissimi.
In un prossimo articolo svolgeremo le ragioni per cui riteniamo antirivoluzionaria la unione non solo di tutte e tre, ma anche di due sole di quelle tre tendenze politiche, di cui mostreremo l’inconciliabilità dei programmi.
È appunto nel periodo rivoluzionario che le differenze di programmi non possono e non devono essere superate da transitorie coincidenze in alcuni postulati di azione.
Ogni blocco ha valore negativo e tende ad attenuare l’azione dei movimenti che lo compongono. La dinamica dello sforzo rivoluzionario è invece opposta: in essa il Partito, che ha nelle sue concezioni e nel suo programma le vie delle effettive grandi determinazioni storiche, precisa la sua via di azione e di realizzazione, raccogliendo intorno a sé tutte le energie della classe che deve compiere la rivoluzione.
(Segue al prossimo numero)
PAGINA 5
Le migrazioni di una classe di senza patria
Parte seconda
Gli immigrati e il mercato del lavoro
Secondo il “Rapporto annuale immigrati in Italia 2014” del Ministero del Lavoro, nonostante la contrazione del numero di assunzioni di cittadini comunitari ed extracomunitari nel 2013, su un arco di tempo più ampio la presenza degli immigrati nel mercato del lavoro cresce sempre.
A partire dal 2000 sino al 2007 gli stranieri hanno assorbito buona parte della crescita dell’occupazione e compensato la caduta di quella italiana. Dal 2007 (anno di massima occupazione) al 2013, a fronte di un calo superiore a 1,6 milioni di italiani (di cui 1,162 sotto i 30 anni), l’occupazione degli stranieri è aumentata di ben 853 mila unità. Nel periodo è quindi aumentata la quota di stranieri. Ha assunto valori rilevanti sia a livello aggregato – toccando nel 2013 quota 10,5% del totale degli occupati – sia a livello settoriale, in particolare nei servizi collettivi e alla persona (37%), nelle costruzioni (19,2%), in agricoltura (13%), nei trasporti (11,7%) (da: Osservatorio sull’immigrazione Ires-CGIL).
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Da notare come le quote siano cresciute nell’ultimo quinquennio specialmente in agricoltura e nei trasporti, dove sono quasi raddoppiate, e nei servizi alla persona. Si tratta prevalentemente di qualifiche di basso livello.
La quasi totalità dei lavoratori stranieri svolge un lavoro dipendente e quasi per l’80% ha la qualifica di operaio.
La percentuale di lavoratori che dichiara di aver svolto lavori in orari disagiati, a turni o nei fine settimana è sempre più alta della corrispondente percentuale stimata per gli italiani.
L’Osservatorio sull’Immigrazione Ires-CGIL ci dice che la differenza tra la retribuzione media di un dipendente immigrato e quella di un dipendente italiano è complessivamente -344 euro (-26,2%). In particolare: -90 euro nei trasporto, -133 nelle costruzioni, -209 nell’industria, -223 nei servivi collettivi e personali. In settori come quello industriale e delle costruzioni il differenziale risulta quindi molto elevato: in questo caso contano il livello e la qualifica nonché le mansioni assegnate.
Come prevedibile, per gli immigrati il lavoro stagionale e a tempo determinato ha molto maggiore incidenza. Nel 2013 fra i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato, 11.425.208 in tutto, gli extracomunitari erano 871.092, il 7,6%, in linea con gli anni precedenti: 7,5% nel 2011, 7,7% nel 2012. Dal 2011 al 2013 si osserva una diminuzione dell’1,7% nel numero dei lavoratori extracomunitari dipendenti a tempo indeterminato, ma più contenuta rispetto alla variazione negativa, -3,0%, del totale dei lavoratori a tempo indeterminato.
L’incidenza degli extracomunitari sul totale dei dipendenti a tempo determinato è il 9,2%, in diminuzione rispetto agli anni precedenti, rispettivamente 9,6% e 9,5% nel 2011 e 2012.
Sempre nel 2013 gli stagionali extracomunitari ammontavano a 36.270, il 10,4% del totale degli stagionali (348.067). Per questa tipo di contratto si registra tra il 2011 e il 2013 un incremento di più del doppio, sia tra gli extracomunitari sia nel complesso: le variazione è dovuta alla prevista esclusione dei lavoratori stagionali dal contributo addizionale dell’1,4% che grava sui lavoratori a tempo determinato. E proprio a partire dal 2013 sono state introdotte nuove tipologie di lavoro stagionale che in precedenza potevano essere genericamente dichiarate come a tempo determinato.
Edilizia
In un settore caratterizzato da fenomeni di irregolarità e illegalità, oltre ai problemi legati alla forma contrattuale, al nero, precaria e ad orario ridotto, gli stranieri sono maggiormente vittime della dequalificazione professionale, dei differenziali retributivi e degli infortuni.
Nel settore gli stranieri guadagnano in media 133 euro mensili meno dei loro compagni italiani. Nel corso della crisi si è ampliato il differenziale retributivo passando dal 4,1% del I semestre 2009 al 10,5% del I semestre 2012.
I lavoratori del settore sono, inoltre, esposti a molteplici rischi per la salute. È importante notare come, mentre nel complesso dei lavoratori italiani gli infortuni tendono a diminuire, per gli extracomunitari la tendenza è inversa. Agli infortuni denunciati bisogna aggiungere il numero sconosciuto di quelli che si fanno passare per malattia, nelle assunzioni in nero, numero sicuramente rilevante per gli stranieri.
Inoltre, dopo l’introduzione della legge 30 che lega il permesso di soggiorno all’esistenza di un contratto di lavoro, il lavoratore immigrato può diventare facilmente ricattabile da parte del datore di lavoro e non espone denuncia in caso di infortunio.
Accanto ai lavoratori completamente sprovvisti di un regolare contratto troviamo un universo di situazioni di irregolarità: sottoinquadramento, svolgimento di mansioni non previste dalla qualifica, pagamenti fuori busta o mancato pagamento del salario, irregolarità contributive, mancata corrispondenza del TFR, appropriazione da parte del datore di lavoro dell’indennità di disoccupazione erogata dalla Cassa Edile, straordinari non pagati...
Per gli stranieri soggiornanti illegalmente la via del lavoro nero è l’unica percorribile. Anzi la presenza di un’economia sommersa radicata costituisce un fattore determinante di attrazione per l’immigrato clandestino che sopporta i costi e i rischi di un viaggio avventuroso contando di trovare lavoro nell’edilizia. Spesso il visto turistico è utilizzato per entrare in Italia e trovare lavoro: una volta scaduto si è alla mercé del padrone.
Agricoltura
Intere filiere agricole sopravvivono grazie allo sfruttamento del lavoro. È in queste condizioni che l’Europa mediterranea produce gli ortaggi destinati in gran parte ai mercati del Nord. Il modello si sta estendendo e non risparmia regioni apparentemente immuni come ad esempio il Piemonte. Il fenomeno, ormai strutturale, ne scarica i costi sui braccianti, spesso di origine africana o dell’Est Europa.
È un sistema che in gran parte dell’Europa del Sud ha le stesse caratteristiche: uso intensivo di manodopera immigrata altamente ricattabile a causa di status giuridici precari e assenza di diritti; situazioni abitative al di sotto della dignità umana, tuguri fatiscenti, tendopoli, senza riscaldamento, baracche, container; alta intensità di lavoro; orari molto flessibili, specie nelle raccolte (pomodoro, frutta, vendemmia) e per brevi periodi di tempo; luoghi di lavoro estremi, serre, campagne isolate, spesso in stato di vera segregazione. A questo si aggiungono mancati pagamenti e minacce, aggressioni fisiche, sfruttamento sessuale.
La manodopera è organizzata e fornita in squadre dai caporali. Il caporalato deriva dalla necessità di forza lavoro molto flessibile, specie quando il prodotto è deperibile (pomodoro, frutta). I capisquadra diventano gli interlocutori unici per i pagamenti e il dispiegamento dei lavoratori nei campi. Per un padrone è molto più semplice trattare con un caporale che con dieci o venti braccianti stranieri. I caporali possono affiancare o sostituire cooperative formalmente legali, che però finiscono per svolgere una funzione analoga.
Le aziende più grandi si rivolgono in genere a cooperative senza terra, che non producono ma offrono servizi: potatura, raccolta, etc. Spesso non sono che forme di caporalato mascherato: dietro un regolare contratto con l’azienda committente possono nascondersi lavoro nero, decurtazione delle buste paga, evasione contributiva. I produttori di media dimensione in genere ricorrono direttamente ai caporali, i maggiori a strutture formalmente legali.
Eurispes parla di paghe nei campi di raccolta ben al di sotto di quanto previsto dai contratti nazionali. Si parte da 20 euro al giorno, in nero, per 12 ore nei campi dall’alba al tramonto, un quinto del minimo sindacale, a 1,90 euro l’ora dalle 5 della sera alle 5 del mattino. Si arriva però a 35 euro al giorno per raccogliere le ciliegie o 38-40 come bracciante nei campi.
Sindacalisti e politici ritraggono queste forme di lavoro nelle campagne come un ritardo storico, in contrasto con la modernità del restante mondo produttivo. Invece questa precarietà assoluta, ricattabilità e ipersfruttamento non rappresentano altro che il funzionamento proprio del mercato del lavoro capitalista, e le istituzioni lo sanciscono. Parlare di schiavitù è una meschina mistificazione: la manodopera straniera impiegata nella produzione agro-industriale è salariata, non schiava. Il bracciante non è proprietà di chi lo sfrutta, gli affitta la sua forza-lavoro. Il proprietario di uno schiavo, investito denaro nel suo acquisto, avrebbe interesse alla sua sopravvivenza, cosa che non accade con la merce forza lavoro. Quando un datore di lavoro ingaggia manodopera straniera a giornata ha a disposizione un bacino mondiale di forza lavoro precaria e ricattabile, da cui può attingere a piacimento, e che può abbandonare e ignorare del tutto quando non gli occorre più.
Invece la campagna mediatica in corso tende a ridurre la responsabilità dello sfruttamento dei braccianti al caporalato, che distorcerebbe un sistema altrimenti sano. In realtà il caporalato è solo un anello della catena di sfruttamento del settore agro-industriale, che passa dalla grande distribuzione organizzata passando per le industrie di trasformazione e i commercianti, i quali di solito hanno il controllo delle organizzazioni dei produttori. Accusare i caporali, come altrimenti gli “scafisti”, serve a nascondere le responsabilità della classe borghese che si arricchisce grazie al loro servizio.
Trasporti
Nel settore dei trasporti gli occupati sono quasi 1.050.000, 5.000 in meno rispetto al I semestre 2012; ma la componente immigrata è aumentata di quasi 8.000 unità. Gli stranieri occupati nel settore risultano circa 110.000 e il loro peso sul totale degli occupati è del 10,5%. Nello specifico del comparto logistico, invece, il numero dei lavoratori stranieri è il 16% del totale.
Anche nel settore dei trasporti gli immigrati sono oggetto di “segregazione occupazionale”, cioè concentrati in attività non qualificate, di elevato sforzo fisico e più alti rischi per la salute. I conduttori di veicoli e il personale non qualificato addetto allo spostamento e alla consegna delle merci occupano oltre l’80% dei lavoratori immigrati del settore. Secondo Filt-Cgil il 70% dei lavoratori nei trasporti, sia gli autoctoni, sia i comunitari, sia i non comunitari, è occupato con un contratto stabile e a tempo pieno. I dati restano simili se si prende in considerazione il solo comparto della logistica.
I salari dei lavoratori stranieri, concentrati nelle attività meno qualificate sono più bassi di quelli medi. Nel complesso del settore dei trasporti la differenza tra quanto guadagna un lavoratore non comunitario e un lavoratore italiano è di -169 euro se impiegati a tempo pieno e di -163 euro se a tempo parziale. La differenza tra il lavoratore comunitario e l’autoctono è minore: -44 euro per il tempo pieno, -127 euro per il tempo parziale.
Nel primo trimestre del 2013 la retribuzione netta mensile dei dipendenti dei trasporti occupati a tempo pieno è per gli italiani di 1.457 euro, 1.288 per i non comuitari. Nel comparto logistico queste differenze si allargano: il differenziale retributivo tra non comunitari e italiani è di -345 euro nel caso di lavoro a tempo pieno e -217 per l’orario ridotto; anche per i comunitari la forbice si fa più ampia: nel primo caso -206 euro, nel secondo -220. Nella logistica un italiano in media guadagna 1.494 euro netti, un non comunistario 1.149.
Domestiche e badanti
È un settore occupato prevalentemente dalle donne ed è sempre più prerogativa delle straniere. Tre collaboratori familiari su quattro non sono italiani. Si tratta al 90% di donne, soprattutto dell’Est Europa, con un buon grado di istruzione. Sono partite spesso da sole, lasciando a casa marito, figli e uno stipendio insufficiente per mandare avanti la famiglia. L’età media supera i 35 anni. Difficile calcolare con esattezza il numero totale. Tante lavorano in nero. Molte dichiarano un numero di ore lavorate inferiore alla realtà. Alcune hanno versato solo i contributi necessari per mettersi in regola.
La richiesta di assistenza per gli anziani è in crescita. Se ne è accorta anche la politica: le quote di ingresso per domestiche e badanti sono molto cresciute e divenute meno rigide negli ultimi anni. Solo una minima percentuale degli anziani bisognosi di assistenza si rivolge alle case di cura, soprattutto per via dei costi elevati: una badante con regolare contratto costa la metà.
Una classe di migranti
«È la fanteria leggera del capitale, che la getta ora in un punto e ora in un altro a seconda del suo fabbisogno», Marx, “Il Capitale”, volume primo, capitolo XXIII
Quello degli immigrati è un mercato del lavoro caratterizzato spesso da occupazione irregolare e mobilità elevata. Gli stranieri disoccupati infatti sono costretti ad accettare il primo lavoro che trovano dall’esigenza di mantenere se stessi, e i familiari rimasti nel paese di origine, e di rinnovare il permesso di soggiorno. È una mobilità prevalentemente all’interno di questo mercato del lavoro secondario.
Le statistiche confermano che gli immigrati sono più mobili degli italiani da una occupazione all’altra e in particolare transitano dalla disoccupazione all’occupazione più spesso degli italiani. Il 29,2% degli stranieri in cerca di lavoro lo trova entro un anno, a fronte del 23,1% degli italiani; il 6,1% degli stranieri transita dall’occupazione alla disoccupazione, contro il 2,8% degli italiani. Ma la capacità di trovare più rapidamente occupazione deriva da una maggiore disponibilità a svolgere qualunque lavoro. Per altro quello del lavoro manuale non qualificato è l’unico caso in cui il tasso di permanenza nell’occupazione degli stranieri è più alto di quello degli italiani (88,4% contro 83,9%).
Di fronte a questa situazione il problema che la borghesia si troverà ad affrontare è duplice. Leggiamo dal “Rapporto Annuale”: «La penalizzazione, sia sotto il profilo retributivo che di sviluppo delle carriere e delle qualifiche professionali, unitamente al mancato riconoscimento dei titoli di studio e ad una progressiva crescita del salario di riserva, non potrà non sfociare in tensioni che di certo diverranno il principale problema del mercato del lavoro degli stranieri.
«È inoltre importante la relazione esistente, all’interno del mercato del lavoro tra la componente italiana e straniera; valutare se gli occupati comunitari ed extracomunitari si pongono in una condizione di concorrenzialità o di complementarità con la forza lavoro italiana, ovvero se è possibile cogliere indizi di un possibile “effetto sostituzione” in determinati settori economici».
Si preoccupa la borghesia che il suo gioco vada alla lunga a scontentare sia i proletari immigrati sia gli autoctoni e vi scorge, superato il senso di concorrenza, la possibilità di coalizione tra lavoratori e un rinnovato inizio della lotta di classe. Allora i sindacati padronali, confermato il loro interesse ad ingaggiare gli immigrati, al contempo rassicurano gli italiani che saranno rispettati i loro “diritti” e “privilegi” in quanto tali.
Leggiamo da “Il mercato del lavoro immigrato negli anni della crisi” a cura dell’Osservatorio Ires-CGIL 2013:
«I lavoratori immigrati costituiscono ormai una componente strutturale del mercato del lavoro, la necessità di definire una specifica attenzione alla loro condizione è data dalla particolare vulnerabilità e ricattabilità nelle condizioni di lavoro e nelle modalità di accesso al sistema di welfare. Muovendo da questa considerazione, il nostro contributo non può che partire proprio dai diritti di cittadinanza: come è scritto nell’ultimo Rapporto Annuale sull’Economia dell’Immigrazione a cura della Fondazione Leone Moressa “l’effettiva valorizzazione del capitale sociale dei migranti, che in questo senso è in antitesi con lo sfruttamento, presuppone invece un investimento prolungato nel tempo, che può essere realizzato solo all’interno di un quadro normativo e istituzionale coerente ed armonico” (...).
«La componente immigrata non comunitaria della popolazione non può esprimere alcuna rappresentanza politica diretta: la mancanza del requisito di cittadinanza interdice il diritto di voto sia attivo che passivo. In questo modo poco meno di 4 milioni di persone che vivono e lavorano nel nostro paese non possono concorrere alla definizione delle regole comuni, creando un grave vulnus per la democrazia».
La CGIL, con gli altri sindacati di regime, mentre indica anche ai proletari immigrati l’inganno del voto e della democrazia per la difesa dei loro interessi, da lunghi decenni ha diseducato i lavoratori a lottare e li ha convinti che solo attraverso la “concertazione” e la “collaborazione” con i padroni sia possibile ottenere almeno un effimero “benessere”. I sindacati di regime sono al soldo della borghesia, che li alterna come carota al suo bastone, poliziotti e tribunali pronti ad intervenire nei casi in cui i lavoratori si mostrino più combattivi.
Per il padronato è vitale mantenere divisi i lavoratori, perché più impedisce e ritarda la reazione organizzata della classe operaia, più è libero di peggiorarne le condizioni a vantaggio dei profitti aziendali e del capitalismo in generale. Non è la malvagità o l’incapacità del singolo padrone ma la crescente crisi mondiale del capitalismo che lo spinge in tutti i paesi a misure contro i lavoratori. Così, al di là dei casi singoli, l’obbiettivo che unisce tutti i lavoratori, quelli che temono per il loro posto di lavoro e i già licenziati, i precari e i fissi, i vecchi e i giovani, è la difesa del loro salario, indispensabile per vivere in questa società.
Gli immigrati, che come abbiamo dimostrato costituiscono ormai una parte notevole della classe operaia in tutti i paesi occidentali, devono essere integrati appieno e in tutta parità nell’esercito del lavoro, non solo ai fini e negli interessi della borghesia ma per quelli della internazionale classe operaia, che è e si vuole opposta alla classe dei capitalisti e nemica di tutto il suo mondo e dei suoi steccati e partizioni, ormai in gran parte sopravvissuti a sé stesso.
Questi nostri fratelli di classe vivono materialmente una condizione di doppia oppressione, come venditori di forza lavoro salariata e come stranieri. In quanto operai, seppure ove i trattamenti contrattuali siano in tutto uguali agli italiani, permangono aree di discriminazione di fatto per quanto riguarda per esempio, e come abbiamo visto, i versamenti previdenziali, che vanno perduti ed incamerati dallo Stato borghese quando lo straniero ritorni nel suo paese.
Ma la disuguaglianza è mantenuta artificialmente dallo Stato borghese anche, e maggiormente, al di fuori del rapporto di lavoro, nella vita sociale. In particolare la concessione e il rinnovo del permesso di soggiorno, i vincoli alla residenza, le umilianti pratiche in questura, ecc. Il movimento operaio non può ignorare queste forme di discriminazione civile e deve farsi carico, nelle sue lotte, anche di rivendicazioni del tipo, per esempio, di concessione automatica e immediata del permesso di soggiorno a tutti i lavoratori stranieri e a chi fra essi è in cerca di lavoro. Uno dei primi provvedimenti della rivoluzione comunista in Russia, già “prigione dei popoli”, fu la concessione della cittadinanza a tutti i lavoratori presenti a qualsiasi titolo all’interno dei suoi confini.
È evidente invece che la richiesta del diritto di voto è oggi solo un mostruoso imbroglio, manovra difensiva e tentativo di impaludamento borghese delle energie proletarie.
Il capitalismo ha sempre maggiore difficoltà a mantenere in funzione la sua struttura produttiva. I lavoratori devono quindi lottare in difesa della propria vita noncuranti della sopravvivenza del capitalismo stesso e della sua cellula produttiva, l’azienda. La classe operaia deve tornare a rendersi irresponsabile e nemica di questo regime economico. Sempre più si dimostra che la vita della classe operaia, in realtà, è possibile solo distruggendo il Capitale.
Per uscire da questa grave contraddizione è necessario intraprendere un percorso tendente alla ricostruzione dell’organizzazione sindacale di classe. Sarà questo rinato combattivo sindacato, correttamente influenzato e diretto dal partito comunista rivoluzionario, a farsi carico di tutte le rivendicazioni della classe, da quelle degli stranieri a quelle dei disoccupati, e a dirigerne le lotte.
La detronizzata sua Maestà l’Acciaio
La siderurgia, produzione simbolo e gran vanto del capitalismo in ascesa, è in crisi. Sul “Sole 24 Ore” del 26 febbraio leggiamo: «Il mondo non è in recessione, ma nel 2015 ha prodotto meno acciaio. Un brutto segnale per la salute dell’economia globale che non si osservava dal 2009. L’industria siderurgica è in contrazione in tutte le aree geografiche. A trainare la discesa, che nel complesso è stata del 2,8%, a 1,6 miliardi di tonnellate, è stata la Cina».
Anche gli Stati Uniti hanno accusato un pesante calo di produzione, superiore al 10%, mentre l’Italia è scesa del 7,1% calando a 22 milioni di tonnellate. La Cina, con i suoi 803 milioni, rimane di gran lunga il primo produttore mondiale di acciaio, sfornandone ben la metà, il 49,5%. Non essendo però riuscita a consumarlo ha cercato di esportarne gran parte, più di 110 milioni di tonnellate, a prezzo di realizzo, spingendo i prezzi dell’acciaio ai minimi dal 2003 e complicando ulteriormente la situazione dei concorrenti di tutto il mondo.
Anche nell’importante settore della siderurgia è quindi difficile prevedere l’agognata crescita invocata dai borghesi di tutti i paesi, se non in una futura economia di guerra: di acciaio si costruiscono bombe, portaerei, cannoni, carri armati...
In Italia nel 2014 la produzione di acciaio grezzo è stata pari a 23,7 milioni di tonnellate, con una caduta rispetto al picco pre-crisi del 25%. Il tasso di utilizzo della capacità produttiva si conferma in diminuzione, arrivando al 53% nel 2014, quasi 20 punti percentuali in meno rispetto a quello mondiale.
A fine 2014 gli occupati nella siderurgia primaria in Italia sono passati a 35.154 con un calo di oltre 890 unità sull’anno precedente e di oltre 4.000 sul pre-crisi.
Il modo di produzione capitalistico ciclicamente s’inceppa nella trappola della sovrapproduzione: il capitale viene investito in macchinari sempre più produttivi, che sfornano sempre più merci impiegando minore forza lavoro. L’unica strada che ha da percorrere il proletariato internazionale per difendere le proprie condizioni è rivendicando un abbassamento dell’orario di lavoro a parità di salario. Questa storica rivendicazione, insieme a quella del salario pieno ai disoccupati, valida a qualsiasi latitudine del globo, tende ad unire tutto il proletariato. Non esistono scorciatoie e i lavoratori devono organizzarsi e battersi per questo obiettivo.