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Il procedere della globalizzazione, accelerato negli ultimi decenni dallo sviluppo delle comunicazioni e dei trasporti, ha coinvolto ogni area del pianeta nel ciclo infernale della produzione capitalistica. La produzione, fondata sullo sfruttamento del lavoro salariato e finalizzata esclusivamente al profitto, è un vulcano che senza posa erutta merci, per la maggior parte inutili, in quantità sempre crescenti. Ma ormai il capitalismo, giunto alla sua fase di piena decadenza economica, come anche ideale e morale, cerca di sopravvivere a sé stesso sfruttando ogni risorsa del pianeta, naturale ed umana.
Il potere politico ed economico si è concentrato nei pochi borghesi a capo di grandissime aziende, le quali posseggono o controllano ricchezze paragonabili a quelle di un intero Stato e dominano sulle sorti del mondo intero.
Ma è il Capitale, anonima incontrollabile forza storica, che determina lo scontro permanente fra i diversi capitalisti e gruppi nazionali di capitalisti e li trascina inesorabilmente verso il baratro della catastrofe finanziaria.
L’estrema concentrazione del capitale, se da una parte accresce, raccoglie, rafforza e unifica la classe operaia, dall’altra, assieme alla crisi di sovrapproduzione, rovina spietatamente le classi piccolo-borghesi, mercantili e produttrici, classi prive ormai di forza e di programma storico ed impotenti socialmente, anche quando esprimono il loro rumoroso ribellismo, come recentemente i Gilet Gialli in Francia.
Intanto, sia per il progredire inarrestabile della crisi, sia per l’emergere del nuovo colosso capitalistico della Cina, che sconvolge ogni precedente equilibrio imperialistico, si acutizzano le vecchie e si aggiungono nuove tensioni internazionali. Già i maggiori Stati hanno iniziato la guerra commerciale, a colpi di dazi, di embarghi, di ricatti, e si riaccendono i conflitti armati locali. È ormai provato che il capitalismo non riuscirà mai a mantenere la sua promessa di assicurare uno sviluppo pacifico ed armonico alla specie umana.
Al contrario, le borghesie riarmano i loro eserciti in preparazione di un nuovo generale conflitto imperialista, in cui chiamerebbero decine di milioni di proletari a massacrarsi a vicenda: mentre cresce la miseria dell’umanità che lavora si riversano centinaia di miliardi di dollari nella produzione di armi sempre più letali.
Ma la guerra mondiale, questo terribile colpo di coda del morente mostro capitalista, potrà imporsi solo dopo aver diviso le forze del suo avversario storico, la classe internazionale dei lavoratori, mettendo proletari contro proletari. Già è partita ovunque una nauseante campagna “sovranista”, razzista e di odio per lo straniero, al solo fine di spezzare l’unità del proletariato al di sopra dei confini e prepararlo ad una nuova guerra.
Si prende a pretesto per questa infame propaganda lo spostarsi di milioni di uomini che da sempre lasciano i paesi più poveri, oggi l’Africa, l’Asia, l’America Latina, imposto dal capitalismo che, da un lato, con il rapace sfruttamento imperialista costringe alla miseria una massa crescente di diseredati, dall’altra richiede sempre e ancora forza lavoro, e a basso prezzo.
Altri milioni di disperati sono costretti a fuggire da guerre senza fine, fomentate dalle borghesie imperialiste per accaparrarsi le risorse naturali o per occupare zone di importanza strategica e militare, come in Medio Oriente o in Africa centrale.
Il capitalismo ha trasformato il mondo in un inferno per chi lavora. I proletari vedono ovunque le loro condizioni e presunte sicurezze di giorno in giorno demolite dagli attacchi della classe padronale, animata solo dalla brama di profitto, e che approfitta oggi della debolezza della classe operaia, minacciata dalla crisi economica. Taglio dei salari, aumento dell’orario e dei carichi di lavoro, riduzione di ogni garanzia di impiego, di assistenza nella maternità, nella vecchiaia e nella malattia sono le misure adottate dai borghesi per difendere i loro profitti. La crisi economica, determinata dalla caduta del saggio di profitto e dalla sovrapproduzione di merci, spinge il padronato ad esasperare lo sfruttamento dei lavoratori alla produzione mentre altri, sempre più numerosi, sono condannati alla disoccupazione.
In molti paesi una parte dei lavoratori è costituita da stranieri immigrati, molto spesso costretti all’illegalità e ricattati con la minaccia dell’espulsione; questa turpitudine, che si avvicina allo schiavismo, è mantenuta dallo Stato borghese per aumentare la concorrenza fra lavoratori, avvelenarne i sentimenti e dividerne le forze.
Invece una sola forza storica si erge, oggettivamente, davanti al Capitale: il proletariato internazionale, organizzato in classe, unito al di sopra delle nazionalità e delle razze. Questo proletariato tornerà ad essere classe per sé, non una merce per il Capitale, difenderà le sue condizioni di vita e di lavoro ricostituendo i suoi sindacati di classe, strumento indispensabile ad unire le sue forze contro l’attacco padronale. Imparerà così sia a smascherare i sindacati fedeli al regime borghese e i partiti opportunisti falsamente amici, sia a condurre la guerra contro l’apparato politico, poliziesco e militare che lo protegge.
Sarà guidato in questa vera guerra di classe dalle sue avanguardie, che avranno aderito al Partito Comunista, rivoluzionario e internazionale, al suo programma storico invariante che grida: i proletari non hanno patria! Fratelli di classe essi si ritroveranno uniti nella lotta mondiale per l’abbattimento del regime del capitale, per il comunismo.
La Libia è tornata a far parlare di sé nelle ultime settimane in seguito all’offensiva militare lanciata il 4 aprile dal cosiddetto Esercito Nazionale Libico guidato da Khalifa Haftar volta a conquistare Tripoli. L’intento dichiarato del “feldmaresciallo” (in arabo “mushir”, questo è il grado, superiore a quello di generale, di cui è stato insignito dal governo cirenaico) Haftar è il rovesciamento manu militari del “Governo di Accordo Nazionale” di Tripoli guidato da Fayez al‑Sarraj e arrivare a una riunificazione della Libia sotto la sua egemonia che ponga fine alla frammentazione politica del paese seguita alla caduta, nel 2011, del regime che aveva a capo il colonnello Mu’ammar Gheddafi.
Forti di potenti appoggi internazionali, era prevista una rapida vittoria in una guerra lampo delle forze di Haftar, che invece, dopo alcuni successi, si sono arenate a qualche decina di chilometri dalla capitale.
A complicare la situazione una strenua resistenza delle forze leali al governo di Tripoli, tra cui spiccano per coesione ed efficacia le milizie di Misurata, legate ai Fratelli Musulmani e pertanto forti del sostegno del Qatar e della Turchia.
Il peso di queste milizie nella compagine dei difensori della capitale è notevole, e non è lontana dalla verità la tesi che vuole al‑Sarraj ostaggio delle forze di Misurata. A ciò si deve aggiungere che il premier di Tripoli viene puntualmente screditato dal rivale governo di Tobruk che lo ha accusato di essere un burattino degli interessi dell’Italia in Libia.
Ma, nonostante al‑Sarraj non sembri un astro destinato a brillare di luce propria, le forze che assediano la capitale, nel momento in cui andiamo in stampa, a oltre venti giorni dall’inizio dell’offensiva, non sono ancora riuscite sfondare le linee nemiche, segno questo che anche il governo cirenaico non dispone della forza sufficiente, anche in campo politico, per chiudere la partita libica.
La Blitzkrieg, la guerra lampo, richiede lunghe linee di rifornimento: le distanze che ha dovuto coprire l’Esercito Nazionale Libico per arrivare nei pressi di Tripoli sono enormi. In questi casi, quando la vittoria non arriva in breve tempo, rischia di trasformare quella che doveva essere un’operazione rapida e “chirurgica” in una logorante e sanguinosa guerra di posizione. Un fatto questo che complica enormemente i risvolti internazionali della vicenda dell’attuale conflitto libico.
Nei mesi precedenti, attraverso una lunga campagna militare, le forze cirenaiche avevano esteso la loro sfera di influenza anche nella regione sudoccidentale del Fezzan.
Nel dicembre scorso l’esercito cirenaico aveva puntato alla regione di Sabha, importante crocevia delle migrazioni provenienti dall’Africa subsahariana e di traffici di ogni genere. Nel gennaio di quest’anno avveniva la conquista di questo importante capoluogo, ottenuta in seguito alla sconfitta delle milizie tebu, un’etnia negra che vive a cavallo fra Libia e Ciad. Queste, sfuggendo al controllo del governo ciadiano, appoggiato dalla Francia, erano state prese di mira contemporaneamente dalle truppe cirenaiche e dall’aviazione francese la quale distruggeva una ventina di pick‑up.
Da oltre 30 anni i pick‑up sono il principale mezzo di spostamento per gli eserciti irregolari, la cui efficacia in battaglia si rivelò per la prima volta proprio nella cosiddetta “Guerra delle Toyota” che oppose la Libia al Ciad negli anni 1986‑87.
In seguito, in febbraio, le truppe di Haftar assumevano il controllo del Fezzan occidentale e in particolare della cosiddetta mezzaluna petrolifera dove, nei pressi della città di Murzuq, strappata ancora una volta alle milizie tebu, si trovano i pozzi di el‑Feel, sfruttati dall’Eni insieme con la National Oil Company (NOC) libica. Un fatto che aveva messo sull’allarme i circoli borghesi legati alla compagnia petrolifera italiana, i quali temono che il rafforzamento di Haftar faccia pendere dalla parte del capitale francese la possibilità di impadronirsi dei ricchi giacimenti petroliferi libici (la Libia è il nono paese del mondo per riserve petrolifere).
A rivelare l’appoggio francese alla campagna di Haftar sono stati anche due episodi ai quali è stato dato un certo rilievo, con fini propagandistici, dalla stampa italiana. Il primo è il viaggio di esponenti dell’entourage di Haftar a Parigi poche ore prima dell’offensiva contro Tripoli, per ottenere il via libero dell’Eliseo alla nuova avventura militare. Il secondo risale al 14 aprile quando 13 cittadini francesi armati e con passaporti diplomatici erano stati fermati mentre tentavano di uscire dalla Libia attraverso il valico di Ras Jedir, dove le autorità tunisine li avevano fermati, ma poi liberati per le pressioni di Parigi.
Ed è proprio sul tema del petrolio libico che si incentra una disputa fra Italia e Francia, acuitasi già otto anni fa, al momento dell’intervento militare francese per rovesciare Gheddafi, e tornata a riaccendersi negli ultimi mesi, nonostante un tentativo di salvare le apparenze con l’incontro avvenuto a Roma il 19 aprile fra i capi delle due diplomazie, il ministro degli esteri italiano Enzo Moavero Milanesi e quello francese Jean Yves Le Drian.
A spalleggiare le forze dell’Esercito Nazionale Libico, che fa capo al governo di Tobruk, sono in prima fila, oltre alla Francia, la quale tenta di dissimulare il suo sostegno con appelli al cessate il fuoco, potenze regionali arabe come l’Egitto, incline a una politica espansiva che guarda anche al vicino Sudan, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, acerrimi nemici della Fratellanza Musulmana vista come strumento di Stati nemici.
Ma anche la Russia è interessata a un ruolo di mediazione che ingloba tutta l’area mediorientale, e gli Stati Uniti, come è diventato evidente dopo l’annuncio di due telefonate intercorse dopo la metà di aprile fra il presidente statunitense Donald Trump e lo stesso feldmaresciallo Haftar. A fugare eventuali dubbi circa l’appoggio di Russia e Stati Uniti al feldmaresciallo ci sono anche i veti posti dalle due potenze al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per bloccare ben due risoluzioni che chiedevano un cessate il fuoco fra i belligeranti. Ecco che le ragioni della politica delle potenze imperiali vedono Stati Uniti e Russia puntare sullo stesso cavallo, sia pure in un’opera di mediazione con i rispettivi alleati.
Intanto l’Italia, potenza di secondo rango, sempre pronta ad avventate svolte di politica estera dettate dalla sua debolezza, tiene il piede in due staffe, tentando di ritagliarsi un ruolo anche nel caso che Haftar, una volta sconfitto il premier protetto da Roma, si impossessi dell’intera Libia. Ma, anche se la situazione attuale dovesse protrarsi a lungo, l’Italia non potrà fare a meno di cercare un accordo col governo di Tobruk, che controlla, oltre che gran parte del territorio, anche il grosso dei giacimenti e dei pozzi petroliferi.
Se la guerra della propaganda sui due fronti ha facile gioco nel prendere di mira uomini la cui forza deriva da potenze straniere (come dimenticare che lo stesso Haftar, alto ufficiale dell’esercito libico ai tempi della guerra contro il Ciad del 1987, venne fatto prigioniero nel deserto, ma ricevette presto la protezione negli Stati Uniti, paese di cui ottenne in seguito anche la cittadinanza?), la guerra giocata sul campo appare una tragica sceneggiata in cui le fazioni e le potenze borghesi in lotta appaiono incapaci di prospettare una seria via di uscita da una situazione di anarchia militare che perdura ormai da otto anni.
Noi non sappiamo se la situazione di stallo militare venutasi a creare nelle ultime settimane durerà a lungo. Forse a risolvere la guerra sarà ancora una volta l’intervento di qualche potenza straniera, magari in una “coalizione internazionale”. Intanto sul campo sono già rimasti quasi 300 morti, molti dei quali civili, mentre i feriti si contano a migliaia e gli sfollati a decine di migliaia. Ma cosa potrebbe accadere se Tripoli, una città con circa due milioni di abitanti fra residenti e irregolari, diventasse teatro della battaglia finale? Forse sarebbero centinaia di migliaia pronti a intraprendere la traversata del Mediterraneo per sfuggire alla guerra.
Questo completerebbe il quadro di una “normale” guerra di rapina del capitale internazionale, che in fondo alle sue avventure vede il miraggio della rendita del petrolio e del gas, della quale si appropria e ripartisce il plusvalore proveniente dal lavoro proletario di ogni contrada del suo sistema-mondo.
Il continente africano è stato da secoli terra di saccheggio e di sfruttamento per le potenze capitalistiche. Oggi a queste si è aggiunta la Cina che ha avuto nel giro di due decenni una tale crescita della sua presenza in Africa da diventare il principale partner economico di molti paesi.
Il capitalismo cinese, con tassi di crescita del Pil attestati intorno al 9% annuo dagli anni Ottanta del secolo scorso, è diventato una grande potenza che rivendica un’influenza nella politica internazionale proporzionata alla sua dimensione economica, finanziaria e militare.
Il primo Forum triennale on China-Africa Cooperation (FoCAC) si tenne nel 2000 per sancire l’influenza cinese sul continente. In quello svoltosi a Pechino dal 3 al 4 settembre scorso, alla presenza di oltre 50 capi di Stato e di governo africani, il presidente Xi Jinping ha “offerto” 60 miliardi di dollari in finanziamenti, annunciando anche la cancellazione del debito per alcuni paesi più poveri o in difficoltà. Di questi 60 miliardi, promessi per i prossimi tre anni, 15 saranno di aiuti e prestiti a interessi zero, 20 in linee di credito, 10 per un fondo speciale per lo sviluppo, 5 per sostenere le importazioni cinesi dal continente nero ed altri 10 serviranno da incentivi alle aziende cinesi ad investire nei vari paesi africani. Questi finanziamenti si andranno ad aggiungere a quelli erogati negli anni precedenti, l’aumento degli impegni finanziari cinesi verso l’Africa è stato infatti esponenziale: 5 miliardi nel 2006, 10 nel 2009, 20 nel 2012, 60 nel 2015 e ancora 60 miliardi nel 2018.
Retorica cinese e occidentale
Le relazioni sino-africane, che vantano radici lontane, hanno subìto un’evoluzione nel tempo strettamente collegata alla fase dello sviluppo capitalistico in Cina. Possiamo così individuare due fasi distinte che scandiscono i rapporti tra la Repubblica Popolare Cinese e l’Africa.
Nella prima fase, da quando la Cina, con la vittoria del Partito Comunista nel 1949, aveva conquistato l’indipendenza e l’unità nazionale, il compito principale per la sua borghesia era quello di trasformare un paese quasi esclusivamente agricolo e arretrato in un moderno paese industriale, attraverso una difficile accumulazione del capitale. Nello stesso periodo gran parte dell’Africa era ancora sotto il dominio coloniale e cominciavano le lotte per l’indipendenza nazionale, indispensabile premessa per qualunque progetto di sviluppo economico. In questo contesto nell’aprile del 1955, durante la prima Conferenza afro-asiatica tenutasi a Bandung, il premier cinese Zhou Enlai incontrò il presidente egiziano Nasser, e nel maggio del 1956 l’Egitto fu il primo Stato africano a stabilire relazioni diplomatiche con Pechino.
Un grande passo in avanti in politica estera per la Cina fu la visita di Zhou Enlai a dieci paesi africani tra la fine del 1963 e l’inizio del 1964. Scopo dichiarato del viaggio era esprimere il sostegno ai movimenti di liberazione nazionale e ai giovani governi “socialisti” usciti dalla decolonizzazione, nella ricerca di alleati del cosiddetto Terzo Mondo per rompere l’isolamento diplomatico della Cina. Nove dei paesi visitati istituirono relazioni formali con la Repubblica Popolare. L’avvicinamento politico era sempre accompagnato da piccoli finanziamenti economici, quasi simbolici, impiegati per costruire stadi, palazzi presidenziali e di governo, ma anche infrastrutture come la ferrovia Tanzania-Zambia, oppure investimenti socialmente utili, come ospedali, forniti di competente personale medico cinese, oltre che ideologicamente indirizzati, con borse di studio offerte a studenti africani che divenivano membri influenti delle classi politiche locali. Alla fine del 1978, la Cina aveva stabilito relazioni diplomatiche con 43 paesi africani.
La seconda fase è iniziata alla fine degli anni Settanta e si è protratta sino agli inizi del nuovo millennio. Per sostenere la crescita impetuosa del capitalismo in Cina, che si ha dal 1978 in poi, il pragmatismo in politica economica interna di Deng Xiaoping (il capitalismo è sempre “pragmatico”) esigeva che Pechino indirizzasse anche i rapporti politici con l’estero verso più concrete relazioni economiche e commerciali. Le tappe principali furono: il 1978, quando iniziarono le politiche “di apertura e di riforma” di Pechino; il 1993, quando la Cina divenne un paese importatore di petrolio; il 1995, quando il Consiglio di Stato decretò che gli aiuti, i prestiti commerciali e il finanziamento “allo sviluppo” in Africa fossero legati a interessi commerciali cinesi.
L’ultima tappa si è aperta nel 2000 con la creazione del FoCAC. Con una accelerazione delle relazioni Cina-Africa frutto della necessità cinese di dare sfogo all’estero all’enorme crescita del suo apparato produttivo e finanziario, e si completa la discesa anche della Cina nel girone infernale dell’imperialismo. Era quindi necessaria una sottomissione maggiore alla Cina dei paesi africani, in concorrenza con i vecchi padroni coloniali e imperiali d’Europa, d’America, di Russia.
Nel 2013, la Cina aveva stabilito relazioni diplomatiche con 50 paesi africani, praticamente con tutti. Oggi solo lo Swaziland continua a mantenere rapporti con Taiwan. La Repubblica Popolare Cinese ha sempre preteso il riconoscimento dell’esistenza di un’unica Cina, con Taiwan sua parte integrante, e come unico legittimo governo quello dei Pechino.
Sono anche cambiati i principi che il governo cinese proclamava avrebbero dovuto informare le relazioni con gli Stati africani, principi definiti nel corso del tempo attraverso una numerosa serie di rapporti ufficiali.
Nella prima fase le relazioni della Cina con l’Africa furono basate sui “Cinque Principi” della pacifica coesistenza del 1953 e sugli Otto Principi per gli aiuti stranieri enunciati dal premier Zhou nel corso della sua visita in Africa del 1964. I Cinque Principi proponevano: il rispetto reciproco della sovranità e dell’integrità territoriale; la non aggressione reciproca; la non ingerenza negli affari interni; l’uguaglianza, il reciproco vantaggio e la coesistenza pacifica.
Mentre gli “Otto Principi” sostenevano: l’assistenza ai paesi stranieri secondo il principio di uguaglianza e di reciproco vantaggio; il rispetto per la sovranità dei paesi beneficiari, nessun vincolo e nessun privilegio imposto; la fornitura di prestiti a basso interesse o ad interesse zero; aiuto ai beneficiari per avviare uno sviluppo economico autonomo e indipendente; il raggiungimento di risultati rapidi attraverso piccoli investimenti; la fornitura di attrezzature, beni e materiali cinesi di alta qualità; aiuto per la formazione tecnica e lo stesso trattamento per gli esperti dei paesi beneficiari e per quelli cinesi.
Inoltre in questa prima fase veniva rimarcata la vicinanza di interessi tra la Cina e i paesi africani, con una storia condivisa in quanto nazioni oppresse dal colonialismo e comune “modello” economico e sociale (il “socialismo”) in quanto paesi in via di sviluppo. In questo modo Pechino puntava a differenziarsi sia dall’Occidente sia dalla politica di Mosca.
Dopo il 1978 invece, sull’onda della modernizzazione economica, l’attenzione cinese si spostò dai programmi di aiuto all’Africa a legami commerciali più stretti e proficui: Pechino decise uno sviluppo della politica africana in direzione del “mutuo vantaggio” e della “cooperazione win‑win” (vinci‑vinci), ove si scambiava la realizzazione di infrastrutture con la fornitura alla Cina delle risorse naturali africane. Dalle enunciazioni di principi politici ed ideologici si passò a far leva su comuni interessi economici e su benefici reciproci.
La Cina però – come fanno tutti gli imperialismi – ancora nasconde il volto predatorio dietro la maschera della cooperazione e dei vantaggi che i paesi africani ricaverebbero da stretti legami col gigante asiatico. Anche in occasione del vertice FoCAC la Cina ha nascosto le sue mire predatrici sotto la fraseologia della cooperazione e dello sviluppo: «L’obiettivo delle relazioni sino-africane è il miglioramento delle condizioni di vita delle persone», ha dichiarato Xi Jinping.
Il presidente cinese al Forum ha elencato otto importanti terreni di cooperazione tra la Cina e i paesi africani: promozione industriale, infrastrutture, facilità degli scambi, sviluppo ambientale, sviluppo del know‑how, assistenza sanitaria, scambi interpersonali, pace e sicurezza. I media cinesi scrivono che «la cooperazione fra Cina e Africa è fra due fratelli».
I cinesi opporrebbero alle pratiche degli occidentali una politica basata su “Cinque No”: no all’ingerenza negli affari interni, no all’imposizione dei voleri di Pechino, no alla ricerca di vantaggi politici tramite finanziamenti o investimenti, no a legami finanziari di assistenza, no ad interferenze nel modello di sviluppo, che deve restare in linea con le rispettive condizioni nazionali.
Da parte occidentale la crescente influenza della Cina sul continente africano ha scatenato critiche e reazioni di politici e pennivendoli. In Occidente, ove si esibisce il culto della putrefatta democrazia e della libertà di parola, cioè di imbonimento dei cranii, le critiche all’espansionismo cinese in Africa accomunano tutte le sfumature politiche, dalla “destra” alla “sinistra”. Si accusa Pechino di “neocolonialismo”, di attirare gli africani nella trappola del debito, di mirare esclusivamente allo sfruttamento delle risorse minerarie. Altri, con toni moralistici, rimproverano ai cinesi di non curarsi ovunque del rispetto della democrazia e dei “diritti umani”. Infine c’è chi rimprovera i propri governi di disinteressarsi del continente africano: l’espansione cinese in Africa avrebbe colto l’Occidente “impreparato”, con gli Stati Uniti di Trump che hanno “dimenticato” l’Africa e l’Europa che la vede solo come la fonte del problema migratorio.
Tutta questa retorica, di cinesi ed anti-cinesi, sta solo a nascondere la vera natura dello scontro in atto nel continente africano, che vede il nuovo arrivato, la Cina, farsi spazio, con gli stessi strumenti di forza finanziaria e con le stesse infami e menzognere giustificazioni ideologiche, nelle sfere d’influenza degli altri imperialismi. Una vera guerra che, come tutte le guerre, si risolve solo, almeno temporaneamente, con la vittoria, militare, di uno dei contendenti.
I cinesi in Africa
Dall’inizio del XXI secolo l’interscambio commerciale tra la Cina e il continente africano è aumentato annualmente di circa il 20%. Con un volume di scambi di circa 170 miliardi di dollari, da 9 anni la Cina è il principale partner commerciale dell’Africa, davanti a Stati Uniti e Francia. Parallelamente c’è stata una enorme crescita degli investimenti cinesi. I 60 miliardi promessi recentemente si vanno infatti ad aggiungere a quelli impiegati negli ultimi 17 anni: tra il 2000 e il 2017 il governo cinese, le banche e vari fondi hanno portato in Africa circa 143 miliardi di dollari.
La Cina iniziò ad interessarsi più attivamente del continente africano negli anni Duemila, nel periodo in cui la forte crescita della sua economia richiedeva una quantità sempre maggiore di materie prime. I primi rapporti che i cinesi stabilivano con i paesi africani avevano infatti il chiaro obiettivo di rifornire le fabbriche della madrepatria di petrolio, rame e altri minerali, insomma tutto il necessario per sostenere l’elevata espansione industriale.
Negli ultimi anni la Cina, diventata la fabbrica del mondo, non solo si trova nella necessità di garantire sempre nuovi sbocchi alla sua produzione manifatturiera, ma è alla ricerca di investimento per i suoi capitali in eccesso.
Per far fronte a questa necessità del capitale, i dirigenti cinesi stanno provando ad attuare il grande progetto della Belt and Road Initiative (BRI), la cosiddetta Nuova Via della Seta: diverse rotte commerciali marittime e terrestri che dalla Cina si snodano verso Occidente. L’estensione complessiva del progetto è difficilmente quantificabile trattandosi di una miriade di opere infrastrutturali che attraversano tutta l’Asia per approdare in Europa. Ma anche l’Africa vi è stata inclusa. Ancora più che per le altre regioni interessate, il fronte africano del progetto è costituito da un sistema complesso e stratificato di accordi tra la Cina e i vari paesi africani. In ogni caso il focus è sulle infrastrutture: aprendo cantieri in tutta l’Africa Pechino sta integrando il continente africano nel grande progetto della Nuova Via della Seta.
Le più importanti infrastrutture già realizzate dalla Cina in Africa riguardano sicuramente i collegamenti ferroviari. La Cina negli ultimi dieci anni ha contribuito alla costruzione di oltre 5.700 km di ferrovie. Nell’Africa orientale le infrastrutture cinesi già esistenti possono essere considerate parte di una rete più ampia che dai porti sulla costa si ramifica nell’entroterra. In questa regione i cinesi hanno realizzato due importanti collegamenti su ferro che danno bene l’idea degli ingenti investimenti cinesi. La nuova linea ferroviaria Gibuti-Addis Abeba è la più lunga tratta elettrificata in Africa, 800 chilometri, che permette ai treni merci di percorrerla in meno di 10 ore, rispetto ai tre giorni di strade sterrate che prima dovevano affrontare i camion. È costata 3,4 miliardi di dollari, ed è la prima parte di un progetto che mira a costruire in Etiopia 5.000 chilometri di ferrovie entro il 2020. Quella Mombasa-Nairobi è invece una ferrovia veloce che percorre i 450 chilometri che dividono la capitale del Kenya dalla costa in 4 ore e mezzo. Questa, costata 3,2 miliardi di dollari, ha creato 50 mila posti di lavoro e contribuito a far crescere il Pil nazionale del 2%. Lo sviluppo di questa ferrovia è anche la premessa del collegamento di paesi privi di sbocco sul mare, come Uganda o Rwanda, ai porti sull’oceano Indiano.
Un altro fondamentale settore verso il quale sono diretti gli investimenti cinesi in Africa riguarda l’ammodernamento di porti, come quello di Gibuti, quello di Porto Said in Egitto e di Lagos in Nigeria. In Tanzania grazie ai finanziamenti cinesi è in costruzione il porto di Bagamoyo, che dovrebbe diventare uno dei più importanti scali del continente in grado di gestire mega‑navi. L’importanza di investimenti in installazioni portuali è data dal fatto che circa il 90% delle importazioni e delle esportazioni africane si svolgono via mare. In questo modo, secondo alcuni analisti, la Cina vorrebbe mettere in atto una sorta di accerchiamento del continente africano attraverso il controllo di una decina di porti da essa finanziati.
Oltre ad essere investiti nella costruzione e ammodernamento di ferrovie e porti, i capitali cinesi finora hanno finanziato la realizzazione di oltre 4.300 km di autostrade, 14 aeroporti, 34 centrali elettriche e circa 1.000 piccole centrali idroelettriche. In generale i capitali cinesi sono stati impiegati principalmente in tre settori: i trasporti (38 miliardi), l’energia (30 miliardi) e le attività estrattive (19 miliardi).
La Cina ha una crescente fame di materie prime che l’Africa è in grado di soddisfare, una terra ricca di risorse da depredare. Assicurarsi l’accesso alle sue materie prime, soprattutto al petrolio, rappresenta una priorità fondamentale per Pechino. L’estrazione, la trasformazione e il trasporto delle materie prime africane in molti casi sono possibili solo attraverso la costruzione di nuove infrastrutture. Le importazioni della Cina dall’Africa riguardano per il 75% materie prime. I pagamenti dei prestiti contratti con la Cina sono spesso effettuati con la fornitura di materie prime. Ad esempio negli ultimi 14 anni l’Angola ha contratto con la Cina debiti per oltre 19 miliardi di dollari da ripagarsi, per lo più, con forniture di petrolio.
Infine, va notato che la Cina sta delocalizzando in Africa tutta una serie di produzioni industriali. Secondo alcuni studi operano in Africa più di 10.000 imprese cinesi, il 90% delle quali è posseduto da privati; secondo l’African Development Bank, i cinesi in Africa sono circa 1.300.000. Uno dei principali paesi individuati dai cinesi per la produzione industriale è l’Etiopia. In questo paese con gli investimenti cinesi è stato realizzato il parco industriale di Hawassa che ha attratto decine di industrie per la produzione di abbigliamento. Simili parchi industriali sono in corso di realizzazione anche in Kenya e in Egitto.
Alla fonte di questa strategia ci sono una serie di fattori. Prima di tutto il trasferimento delle produzioni industriali in Africa permette di ridurre i costi di trasporto della materie prime; infatti, essendo queste materie prime disponibili in loco, il loro costo di trasporto verso i centri di produzione in Africa, anche grazie alle infrastrutture costruite dalla Cina, è estremamente basso, aumentando in questo modo il margine di profitto per le aziende. A ciò si aggiunge il fatto che le aziende cinesi che producono direttamente in Africa hanno a disposizione un vasto mercato interno in espansione dove collocare i loro prodotti.
Ma un fattore determinante alla base di questa tendenza a delocalizzare riguarda l’aumento dei salari in Cina. Sono oramai lontani i tempi in cui il capitalismo cinese aveva a disposizione uno sterminato esercito di miserabili disposti a lavorare per salari bassissimi. Nell’ultimo decennio i lavoratori cinesi hanno ottenuto aumenti salariali annui di circa il 12%. D’altra parte, mentre la Cina registra una tendenza al calo della popolazione in seguito alla politica del figlio unico, la popolazione africana è in piena espansione demografica e può fornire giovane manodopera a volontà. È stato calcolato che l’Africa permetterebbe salari inferiori del 45% rispetto a quelli praticati in Cina. Il continente africano diventa, quindi, un serbatoio stracolmo di manodopera da sfruttare, milioni di giovani braccia a disposizione del capitale.
Da questo punto di vista, gli investimenti cinesi in Africa contribuiscono ad irrobustire la classe operaia africana, che viene impiegata nelle costruzioni finanziate dai capitali cinesi e nelle fabbriche. Ma, per il resto, l’espansione del capitalismo cinese in Africa non può avere nulla di positivo da offrire ai proletari africani perché avviene in un contesto internazionale di aspra contesa imperialistica che inevitabilmente porterà a crisi e a guerre sempre più disastrose.
Il “land grabbing”
La Cina e gli altri imperialismi sono in competizione in Africa anche per quanto riguarda il cosiddetto land grabbing, l’accaparramento di terra, la progressiva acquisizione di vasti appezzamenti da parte di Stati e grandi compagnie in paesi stranieri, per lo più poveri.
I pennivendoli occidentali al servizio della propria borghesia arrivano a dipingere in termini isterici l’acquisizione cinese di terre in Africa, con la retorica ipocrita sui miseri contadini cacciati dal podere. Vanno qui evidenziati due importanti aspetti. Primo: anche se non ci sono dei dati precisi, il rapporto del Focsiv “I padroni della Terra” valuta che, fra gli 88 milioni di ettari di terra fertile accaparrata da Stati e aziende multinazionali, i principali di questi risultano ancora essere gli statunitensi col primato di 10 milioni di ettari dal 2000 ad oggi, superando di gran lunga la Cina con i suoi 3 milioni di ettari. Secondo: la metà dei terreni acquisiti dalla Cina all’estero riguarda non l’Africa ma alcuni paesi dell’Asia sud‑orientale, Myanmar, Laos e Cambogia.
Gli eventi del biennio 2007‑2008, con l’esplodere della crisi economico-finanziaria e di quella alimentare, sono alla base di questa “corsa alla terra”, di cui l’Africa è la principale vittima. A partire dall’inizio del 2007 ci fu un vertiginoso aumento dei prezzi dei beni alimentari, che raggiunsero il picco nella primavera dell’anno successivo, con grano e riso che arrivarono a costare anche il 150% in più. Da qui l’interesse ad investire capitali nell’agricoltura, tanto che l’acquisizione di terre all’estero crebbero rapidamente: nel 2008 interessavano 4 milioni di ettari e nel 2009 erano già 56 milioni.
A subire maggiormente gli effetti di questo aumento dei prezzi delle derrate alimentari erano state soprattutto le popolazioni dei Paesi più poveri, dove l’aumento della fame provocò pesanti disordini sociali e rivolte, ad esempio in Egitto. La crisi alimentare divenne così una minaccia per le ben pasciute classi dominanti, e mostrò la fragilità di quegli Stati che, disponendo di limitate risorse interne, dipendono dagli approvvigionamenti dall’estero.
Quello alimentare è stato sempre un fattore critico nella storia della Repubblica Popolare. Milioni di morti furono provocati dal fallimento del Grande balzo in avanti; ancora fino agli anni Ottanta il cibo nel Paese era razionato e la carne si mangiava solo in occasioni speciali.
La Cina, con circa il 20% per cento della popolazione mondiale, dispone appena dell’8‑9% delle terre arabili. Inoltre, secondo le statistiche ufficiali, gran parte delle sue terre, circa il 40%, è progressivamente reso meno fertile dall’erosione del suolo e dall’inquinamento. L’impetuosa crescita industriale ha gravemente danneggiato buona parte delle terre coltivabili e compromesso le risorse idriche per l’inquinamento di falde, fiumi e laghi.
Un cambiamento si ebbe solo con le riforme degli anni Ottanta. Dal 1978 si è registrata una crescita notevole della produzione agricola, circa il 4,6% annuo. L’assunzione totale di calorie per persona al giorno in Cina è cresciuta notevolmente, da 2.163 kcal nel 1980 a 3.102 nel 2014. Se nelle aree rurali la dieta continua a basarsi essenzialmente sul consumo, e autoconsumo, di prodotti vegetali quali cereali (riso al Sud, grano al Nord) e ortaggi, la dieta della popolazione urbana (che gode di un reddito pro‑capite tre volte più alto di quello delle aree rurali) si caratterizza per un consumo significativo di proteine di origine animale. L’aumento del consumo di prodotti animali è stato notevole, tra il 1985 e il 2005 il consumo di carne è quadruplicato, e continuerà poi a crescere.
Il divario tra la capacità produttiva e la necessità di sfamare la popolazione, unita all’abbondante disponibilità di capitali, ha inoltre spinto la Cina, dalla metà degli anni 2000, a prendere in affitto o comprare appezzamenti all’estero. Ha cominciato nei Paesi limitrofi ma presto si è rivolta all’Africa, che dispone di terre di ottima qualità a prezzi bassi e regimi politici ben disposti. Così coltiva riso e altri prodotti alimentari nelle terre africane.
Vani tentativi che poco possono di fronte ad un modo di produzione incapace di soddisfare i bisogni umani più essenziali.
La base di Gibuti
L’esportazione di capitali cinesi in Africa necessita del sostegno dello strumento militare. Ovviamente i cinesi devono coprire la loro espansione militare con la retorica umanitaria, accodandosi anche in questo caso alle luride ipocrisie degli occidentali, che da buoni democratici restano i maestri nel parlare di pace quando si tratta di portare morte e distruzione.
Quindi anche i cinesi partecipano con soldati e mezzi militari alle cosiddette operazioni di “peacekeeping”. Secondo i dati dell’European Council on Foreign Relations, la presenza militare della Cina nel continente africano è di circa 2.500 soldati, che sarebbero impegnati in missioni con il mandato delle Nazioni Unite. Di questi militari, ben 1.051 sono schierati in Sud Sudan, 666 in Liberia, 402 in Mali e gli altri nella Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centrafricana e Sudan. A questi bisogna aggiungere le migliaia di cosiddetti “contractors”, che sono dipendenti di compagnie private, mercenari, ai quali viene delegata tutta una serie di operazioni militari e di sicurezza che non sono gestite direttamente dall’esercito statale. Siamo quindi di fronte a numeri esigui, ma che sono destinati a crescere con l’ulteriore penetrazione cinese nel continente. Negli ultimi anni l’influenza cinese in Africa si ha richiesto sempre più dello strumento militare per proteggere i suoi interessi nel continente e per rafforzare la sua posizione geopolitica; la presenza militare cinese è necessaria a salvaguardare gli ingenti investimenti fatti dalle aziende e dal governo, per proteggere le infrastrutture e le unità produttive.
Ben presto la Cina potrà schierare in Africa altri soldati in seguito all’apertura a Gibuti della prima base militare permanente all’estero che può arrivare ad ospitare fino a 10.000 soldati.
La base a Gibuti, inaugurata lo scorso anno, si trova in una importante posizione strategica. Piccolo Stato del Corno d’Africa con poco più di 900.000 abitanti, si affaccia sullo Stretto di Bab el‑Mandeb, fra il Mar Rosso e il Golfo di Aden nell’Oceano Indiano. Come quello di Hormuz e delle Molucche, riveste una fondamentale importanza per l’economia cinese, sulla rotta per il Canale di Suez; su di essa transita il flusso di petrolio per la Cina e le sue esportazioni per l’Europa, rientrando a pieno nel progetto cinese della Belt and Road Initiative.
La nuova base militare dunque garantisce la sicurezza alla via marittima della Via della Seta, e nello stesso tempo rappresenta un buon punto da cui consolidare ed estendere la penetrazione nel mercato etiope e in generale in tutto il Corno d’Africa. Con Gibuti, la prima base militare all’estero per la RPC, Pechino consolida la sua presenza in Africa, e, in potenza, viene ad aggiungere un nuovo contendente ai gendarmi armati imperialisti nel continente.
Il “modello Gibuti” sarà riprodotto dalla Cina nello sviluppo delle sue basi all’estero, come quella che si profila a Walvis Bay, in Namibia.
Infine, un altro fattore indice del crescente peso che la Cina sta acquisendo in Africa e che la lega ai paesi africani è dato dall’esportazione di armi. Negli ultimi anni la Cina ha superato gli Stati Uniti nella vendita di armi in Africa. Secondo l’ultimo rapporto del SIPRI la Cina è il secondo fornitore di armi dell’Africa dopo la Russia. Nonostante che nel periodo 2013‑17 le importazioni complessive di armi da parte dell’Africa siano diminuite del 22% rispetto al quinquennio precedente, quelle dalla Cina sono aumentate del 55%, raggiungendo il 17% del totale.
Questa espansione dell’imperialismo cinese in Africa, sul piano economico, industriale, militare, preoccupa le altre potenze imperialiste che stanno cercando di reagire aumentando anch’esse la loro presenza militare nel continente, la cui importanza strategica sta crescendo di anno in anno.
I sempre più frequenti episodi di scontri sanguinosi tra milizie guerrigliere ed eserciti regolari, spesso contrabbandati come causati da ragioni etniche o religiose, sono invece provocati da questo scontro sotterraneo tra i maggiori imperialismi mondiali.
Il proletariato africano, spesso oppresso oltre che dallo sfruttamento del suo lavoro nelle fabbriche, nei campi, nelle miniere, anche dalla guerra, dalla fame, dalle malattie causate da condizioni di vita insostenibili, deve ritrovare la sua unità e la sua forza di classe per opporsi ai fuochi di guerra accesi dall’imperialismo, proclamando la sua guerra, quella contro la classe borghese e i suoi manutengoli, d’Occidente o d’Oriente che siano, e prima di tutto, contro le proprie borghesie nazionali e il proprio padronato.
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Anche se la crisi capitalistica nella regione, provocando inflazione e recessione economica, ha portato all’impoverimento delle masse salariate, la borghesia, i partiti e i movimenti opportunisti, sia da parte del governo sia dell’opposizione democratica borghese, stanno riuscendo a mantenere la classe operaia divisa, dispersa, inattiva e separata dalle rivendicazioni classiste sul piano sindacale.
Nonostante il grave peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro, i sindacati di regime, pur con la loro bassa capacità di mobilitazione, rimangono un elemento fondamentale del fronte borghese per il mantenimento della sottomissione della classe lavoratrice. Ci sono stati alcuni scioperi e proteste che hanno coinvolto principalmente i lavoratori del settore pubblico (istruzione, sanità e altri) ma fino ad ora i sindacati di regime sono riusciti a placare le lotte imponendo accordi conciliatori con governo e padroni.
Di seguito una tabella che mostra il salario minimo percepito nella regione. Ma molti lavoratori che ricevono salari più bassi, sia a causa della loro condizione di immigrati illegali sia del super sfruttamento praticato in molte aziende con il beneplacito dei vari governi.
Paesi dell’America Latina in ordine di salario minimo In Dollari, nel 2019 |
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N° | Paese | Salario minimo |
1° | Uruguay | 463 |
2° | Costa Rica | 432 |
3° | Cile | 422 |
4° | Ecuador | 394 |
5° | Guatemala | 357 |
6° | Paraguay | 354 |
7° | Panama | 318 |
8° | Bolivia | 300 |
9° | Argentina | 300 |
10° | Perù | 277 |
11° | Brasile | 268 |
12° | Colombia | 254 |
13° | Honduras | 251 |
14° | El Salvador | 203 |
15° | Rep.Dominicana | 186 |
16° | Messico | 158 |
17° | Nicaragua | 128 |
18° | Haiti | 83 |
19° | Cuba | 30 |
20° | Venezuela | 6 |
Fonte: Wikipedia |
Il rapporto del compagno è addivenuto a queste conclusioni:
1) I governi della borghesia svolgono perfettamente il loro ruolo di salvaguardia degli interessi della classe che rappresentano.
2) I partiti “di sinistra” in America Latina – alcuni al potere e altri all’opposizione – si uniscono al coro controrivoluzionario per la difesa della patria, dell’indipendenza e dell’economia nazionale, essendo il loro vero ruolo sottomettere la classe operaia ad un programma politico interclassista, cioè borghese.
3) Le principali centrali sindacali dell’America Latina sono sindacati di regime, quindi assumono comportamenti collaborazionisti con il padronato, pubblico e privato, “per il benessere e la crescita del paese”.
4) I sindacati di regime disorganizzano i lavoratori per distoglierli dalle loro proprie rivendicazioni mentre li inquadrano a rimorchio per scopi elettorali, dalle votazioni nazionali e per i governatorati fino a quelle dei sindaci e dei consiglieri comunali, spostandoli sulle rivendicazioni proprie dell’opportunismo.
5) I sindacati, alla base propongono lotte per le rivendicazioni naturali di difesa immediata, mentre i dirigenti nazionali stipulano accordi per la pacificazione sociale.
6) La repressione contro le manifestazioni dei lavoratori aumenta nella misura in cui aumentano le mobilitazioni contro il padronato, pubblico e privato.
7) L’arresto e la incarcerazione dei lavoratori che partecipano alle manifestazioni o agli scioperi da parte dei corpi repressivi degli Stati, con l’aperta collaborazione dei sindacati di regime, ha ridotto la combattività operaia e terrorizzato i lavoratori, che nelle manifestazioni si trovano a scontrarsi con la polizia e l’esercito.
L’attività sindacale del partito
Nei mesi tra la riunione generale di fine settembre a quella di fine gennaio il
Partito è intervenuto in diverse mobilitazioni:
– il 21 ottobre a Genova ad una manifestazione promossa da sindacati e partiti
della “sinistra radicale” contro il cosiddetto Decreto Sicurezza; manifestazione
a carattere interclassista in cui abbiamo portato il nostro indirizzo teorico e
di lotta, proprio della classe operaia;
– sabato 27 ottobre a Roma alla manifestazione nazionale organizzata dal SI
Cobas, a seguito dello sciopero generale di tutte le categorie proclamato da SI
Cobas, Cub, Adl Cobas, Sgb, Usi, Usi Ait e da parte dello Slai Cobas, svoltosi
il giorno precedente;
– sabato 17 novembre a Firenze ad una manifestazione, con carattere analogo a
quella genovese, contro il Decreto Sicurezza;
– sempre sabato 17 novembre a Prato ad una manifestazione del SI Cobas a
sostegno della lotta in una fabbrica tessile, i cui capi operai erano stati
aggrediti fisicamente da picchiatori dell’azienda;
– sabato 15 dicembre a Roma alla manifestazione nazionale dell’USB contro il
Decreto Sicurezza.
A questa attività si è accompagnato, la prosecuzione del lavoro volto a sostegno dell’indirizzo del Fronte Unico Sindacale di Classe, cioè per l’unità d’azione del sindacalismo conflittuale e dei lavoratori.
A settembre avevamo già riferito di una prima riunione del gruppo di militanti
sindacali che condivide questo indirizzo, svoltasi a Firenze il 2 settembre. Da
essa erano scaturite le decisioni di:
– promuovere un appello per una adesione unitaria di tutto il sindacalismo
conflittuale – sindacati di base e opposizioni di sinistra in Cgil – allo
sciopero generale proclamato solo da una parte del sindacalismo di base per il
26 ottobre (non hanno aderito né l’USB né la Confederazione Cobas);
– organizzare una assemblea nazionale a sostegno dell’indirizzo dell’unità
d’azione del sindacalismo di classe.
Dopo lo sciopero del 26 ottobre si è deciso di convocare l’assemblea nazionale per il 2 dicembre a Firenze. Allo scopo di prepararla si è tenuta una seconda riunione di questo gruppo intersindacale il 17 novembre.
L’assemblea del 2 dicembre è andata bene, con una ottantina di partecipanti e circa 25 interventi, in genere di buon livello. Ne è scaturita l’indicazione operativa, auspicata dai nostri compagni, di costituire un organismo permanente, formato da militanti delle varie organizzazioni e correnti sindacali conflittuali, che si batta per l’unità d’azione del sindacalismo di classe.
Dopo l’assemblea si è tenuta una terza riunione nazionale – il 12 gennaio –
nella quale si è stabilito:
– il nome del gruppo in “Coordinamento lavoratrici e lavoratori autoconvocati
per l’unità della classe”;
– di curare la redazione di un bollettino cartaceo e di una pagina facebook
quali strumenti del Coordinamento;
– di redigere: un comunicato di solidarietà coi dirigenti e delegati del SI Cobas
condannati dal Tribunale di Milano per aver partecipato a un picchetto; un
documento di presentazione del coordinamento; un documento sul Decreto
Sicurezza;
– di partecipare allo sciopero internazionale dell’8 marzo contro l’oppressione
sulle donne.
Il principale argomento di discussione all’interno del Coordinamento nei suoi primi passi è stato quello dell’utilità o meno di condurre una battaglia interna alle varie organizzazioni sindacali conflittuali a sostegno dell’indirizzo per cui il Coordinamento si è costituito. Una parte di esso, risultata minoritaria, riteneva infatti questa strada inutile e indicava come l’unità d’azione dovesse essere propagandata solo fra i lavoratori e praticata dal Coordinamento sostenendo gli scioperi, laddove ne avesse le forze.
I nostri compagni invece hanno ribadito come il fine della massima unità d’azione dei lavoratori sia da perseguire seguendo due strade, non in contrapposizione bensì complementari: sia propagandandolo direttamente nella classe sia battendosi per esso all’interno delle organizzazioni sindacali.
Riportiamo qui di seguito ciò che affermavamo nella conferenza “Per l’unificazione delle lotte della classe lavoratrice - Per il fronte unico sindacale di classe” tenuta nell’autunno del 2017 in varie città: «Quello del Fronte Unico Sindacale di Classe è un obiettivo che consideriamo indispensabile al fine di raggiungere la più completa realizzazione dell’unità d’azione dei lavoratori. Il nostro partito non esclude la necessità, e il suo compito, di rivolgersi direttamente alle masse proletarie indicando loro la necessità di unificare le lotte rivendicative e proponendo, oltre l’unità d’azione, anche obiettivi unificanti. Questo andrebbe a rafforzare la battaglia condotta al medesimo scopo entro le organizzazioni sindacali. Ma non ci si deve illudere che l’unificazione delle lotte della classe lavoratrice sia raggiungibile eludendo il compito della battaglia entro le organizzazioni sindacali per l’affermazione del giusto indirizzo d’azione. I sindacati sono i soggetti fondamentali e viventi del movimento operaio. Ignorarne il ruolo ed abdicare alla battaglia al loro interno non può condurre che alla generale dispersione delle forze. Ciò vale non solo in una condizione storica come quella attuale, in cui è manifesta la condizione di debolezza e sbandamento ideale della classe operaia, ma avrà valore anche in situazioni in cui i lavoratori torneranno a lottare duramente, guadagnando un grado di consapevolezza della loro condizione di classe sfruttata molto superiore a quello attuale».
La formazione della nazione indiana
Il compagno continuava la serie dei rapporti sull’India descrivendo gli avvenimenti prima, durante e dopo l’indipendenza indo-pakistana.
Tra la fine del 1945 e la prima parte del 1946, si tennero in India nuove elezioni volute dal Governatore Generale al fine di verificare la consistenza, in ambito elettorale, dei vari partiti. Il tormentone elettorale fu incentrato sulla questione Pakistan. Se era evidente che il Raj britannico fosse “nel suo letto di morte”, non erano affatto chiari i rapporti di forza fra le fazioni borghesi capeggiate dal Congresso e dalla Lega musulmana. I risultati delle elezioni dimostrarono il pressoché assoluto predominio acquisito da questi due partiti che conquistarono rispettivamente la quasi totalità dei seggi “generali”, quelli riservati agli indù, e quelli assegnati ai musulmani.
Il ritornello della storiografia ufficiale, che vede in Nerhu l’artefice della disfatta del piano britannico (16 maggio del 1946), che prevedeva un’Unione Indiana indipendente formata sia dalle province dell’India britannica sia dagli Stati principeschi, è evidentemente superficiale perché non ne coglie le cause reali, non certo da cercare nelle scelte di un singolo.
Il decadente imperialismo britannico da diversi anni aveva appreso, dati alla mano, quanto il “sistema coloniale” non gli fosse più conveniente. Ma la borghesia inglese, anche dopo la guerra ed il nuovo assetto mondiale, aspirava a mantenere una certa influenza in questa parte del mondo.
Allo stesso tempo la vigliacca borghesia indiana, che mai si era dimostrata una classe rivoluzionaria, era dominata da un grande terrore: la rivolta delle classi oppresse e la loro unione. Le era quindi indispensabile che l’indipendenza creasse un nuovo Stato con poteri ben più ampi di quelli prospettati dagli inglesi, un governo centrale solo limitato alla difesa esterna. La possibilità di dividere un così ampio territorio le appariva quindi necessaria.
Nerhu, che per anni aveva aspramente criticato la partizione, accettò la secessione del Pakistan.
La borghesia indiana, per contro, aveva bisogno di un governo centrale forte senza obblighi e limitazioni, per attuare una serie di riforme, attraverso una pianificazione economica e l’intervento dello Stato nell’economia. Uno scenario che, al di la della retorica e dell’ideologia del futuro Primo Ministro indiano (dal 1947 al 1964), poteva avvenire solo con il sostegno dei capitalisti, molti dei quali da tempo sostenitori del Partito del Congresso. Questo non si sarebbe potuto attuare con lo schema proposto dagli inglesi, che sottraeva poteri al governo centrale per concederli alle singole province.
In attesa di una nuova Costituzione si formò un governo sotto la guida di Nerhu, in carica dal 2 settembre 1946. La Lega non esitò ad entrare nell’esecutivo insieme al Congresso ed allo stesso tempo a dichiarare quella azione diretta preludio di un’impressionante serie di massacri che avrebbero accompagnato la nascita separata dell’India e del Pakistan indipendenti.
Il 16 agosto 1946 una manifestazione a Calcutta della Lega era sfociata in quello che sarebbe passato alla storia come il grande massacro di Calcutta. Episodio che per primo segnò la distanza dai disordini “tradizionali”, ed innescò una spirale di numerosi massacri, fra indù e sikh da una parte e musulmani dall’altra, che sfociò nella partizione.
L’odio tra le masse di diversa religione ed etnia esplose in alcune aeree del subcontinente, voluto, pianificato ed alimentato dalle rispettive borghesie, con conseguenze che diventeranno ancor più disastrose dopo l’indipendenza.
Tuttavia in diverse regioni la lotta tra le classi prevalse ed impedì la guerra di religione. Contadini poveri, musulmani ed indù, lottavano uniti contro i padroni. Vi furono numerosi casi di rivolte contadine nel Bengala rurale ed in alcuni Stati principeschi, come il Tranvancore e l’Hyderabad, ed in particolare nella regione della Telengana (territorio situato tra Orissa e Andhra Pradesh) dove dal luglio del 1946 vi fu una vera e propria insurrezione contro i latifondisti indù e musulmani.
Nel 1946 era evidente come il Congresso Nazionale Indiano aveva abbandonato l’obiettivo di una sola India. Anche la Corona inglese, prevedendo così di meglio mantenere i due nuovi Stati nella sua sfera, oramai seguiva questa rotta.
Il piano di separazione fu perfezionato l’11 maggio del 1947, approvato dal governo britannico, accettato dal Partito del Congresso, dai rappresentati dei Sick e dalla Lega Musulmana. Il 18 luglio il Parlamento britannico ratificò l’India Independence Act, anticipando la fine del Raj alla mezzanotte del 14 agosto 1947.
Quando i britannici dopo il 15 agosto 1947 si ritirarono, divisero non soltanto l’India dal Pakistan, ma anche le grandi province del Punjab e del Bengala. Questa la linea di separazione, l’arbitrato Radcliffe, fu rivelata solo all’ultimo momento.
Gandhi, che nei fatti non aveva più alcuna voce nel Partito, si era opposto, a parole, alla divisione del subcontinente, dichiarando come la Gran Bretagna non avesse il diritto di imporre la partizione ad un’ “India temporaneamente impazzita”. Quando però il 2 giugno fu presentato il piano di partizione, ed il vicerè ricevette, da tutti, risposte favorevoli, il monaco indiano decise di osservare un giorno di silenzio.
La partizione fu accolta con favore dai dirigenti del Congresso, la linea Radcliffe seguiva gran parte delle condizioni che il partito aveva posto. La fine della guerra aveva infatti ridotto l’influenza della Lega sulla Corona, ed aumentato il potere del Partito della borghesia indù. Il Congresso poteva dirsi soddisfatto, il Pakistan veniva ridimensionato con la divisione del Punjab e del Bengala, quindi costituito da due entità separate da più di 1.500 chilometri di territorio indiano: il Pakistan Occidentale e quello Orientale, il quale con la guerra indo-pakistana del 1971 diventerà Bangladesh.
In diverse province del Nord scoppiarono violenti disordini che portarono a migrazioni di massa e ad un trasferimento della popolazione secondo linee di demarcazione religiosa, provocando la più grande migrazione forzata nella storia del Novecento. Nel marzo 1948 nel Punjab i rifugiati musulmani provenienti dall’India raggiunsero la cifra di 6 milioni, mentre quelli sikh e indù sul percorso inverso furono 4,5 milioni. Discorso analogo nel Bengala dove si contarono alcuni milioni di profughi.
La partizione non fu un avvelenato dono d’addio del demonio imperiale in partenza, ma il frutto di una precisa volontà di entrambe le borghesie indù e musulmana. La storiografia nazionale pakistana e indiana descrivono le esplosioni di violenza come irrazionali e spontanee, o al massimo ne accusano la borghesia rivale. Invece, prima dell’indipendenza, gli scontri e la violenza intercomunitaria hanno rappresentato la contesa per il potere fra le due borghesie e uno dei tentativi di impedire o influenzare l’arbitrato inglese sui confini. Dopo, raggiunta la sovranità, avevano il preciso scopo di spazzar via i radicati sentimenti di solidarietà e di fraternità di classe.
Fu una violenza programmata ed organizzata con il sostegno, più o meno velato, dei nuovi Stati. Nell’India settentrionale furono schierati nelle città numerosi gruppi paramilitari che reclutavano volontari armati fra le migliaia di soldati smobilitati dalla guerra mondiale Nel solo Punjab gli aderenti al movimento RSS (Rashhttriya Swayam Sevek Sang) erano circa 60 mila.
Le violenze iniziarono prima della partizione e non ne furono una conseguenza ma uno dei principali strumenti per arrivarvi, per rendere irreversibile la decisione di dividere il subcontinente in due Stati e separare, non solo fisicamente, le classi oppresse. L’alba indo-pakistana era macchiata dal sangue di milioni di uomini posti in sacrificio per il trionfo di sua maestà il Capitale.
(Fine del resoconto della riunione)
Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale |
Per la rinascita del sindacato di classe fuori e contro il sindacalismo di regime. Per unificare le rivendicazioni e le lotte operaie, contro la sottomissione all’interesse nazionale. Per l’affermazione dell’indirizzo del partito comunista negli organi di difesa economica del proletariato, al fine della rivoluzionaria emancipazione dei lavoratori dal capitalismo |
Il processo che vede imputato il Coordinatore nazionale del SI Cobas è parte del complessivo attacco che il regime borghese sta portando contro il movimento di lotta che si è sviluppato da ormai dieci anni nella logistica e che il SI Cobas ha saputo organizzare e rappresentare.
Attraverso dure lotte – fatte di veri scioperi, non cronometrati, senza preavviso né termine predefinito, con picchetti per bloccare le merci e combattere il crumiraggio – migliaia di operai hanno ottenuto importanti vittorie, miglioramenti salariali e normativi, andando controcorrente rispetto ad altre categorie che da anni subiscono sconfitte e arretramenti, vedendo peggiorare le proprie condizioni di vita e di lavoro.
L’obiettivo del padronato è quello di impedire l’estensione di questo movimento di lotta oltre i confini del settore della logistica. Questo allargamento del fronte di classe infatti potrebbe portare i lavoratori a risollevarsi dallo stato di rassegnazione in cui li hanno condotti i sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl), spezzando l’egemonia di queste organizzazioni concertative, schierate in difesa dell’economia nazionale, cioè degli interessi del padronato e dello Stato. Questi sindacati di regime hanno mostrato più volte di costituire un ingranaggio fondamentale dell’azione repressiva contro i lavoratori più combattivi. Sono essi che sabotano gli scioperi, firmando accordi al ribasso con le aziende per cercare di fermare la lotta, così offrendo la giustificazione alle forze dell’ordine per attaccare e sgomberare i picchetti.
La repressione contro gli operai in lotta è condotta infatti in primo luogo dai padroni sul posto di lavoro, con richiami disciplinari, sospensioni, trasferimenti ed altre misure che preludono spesso il licenziamento, ma quando questi mezzi ed il gioco sporco del sindacalismo concertativo non bastano, interviene in prima persona il regime borghese, cioè lo Stato, che ormai ad ogni sciopero schiera davanti ai magazzini, alle fabbriche, ai cantieri, carabinieri e poliziotti in assetto di guerra.
Lo scorso dicembre il Parlamento ha convertito in legge il cosiddetto Decreto Sicurezza teso a colpire gli immigrati, che rappresentano una parte rilevante della classe lavoratrice, ma anche ad attaccare i picchetti, la possibilità di manifestare, insomma la libertà di sciopero. Un provvedimento dunque contro tutta la classe lavoratrice, immigrata o meno. Naturalmente anche questo provvedimento di legge non è un fulmine a ciel sereno bensì un ulteriore inasprimento di un processo repressivo contro l’intera classe lavoratrice e le sue espressioni di lotta, portato avanti dal padronato e dai vari governi con continuità nel corso del tempo.
A tutto ciò si è aggiunta la magistratura che a gennaio ha condannato delegati e dirigenti del SI Cobas, ed alcuni solidali, per aver partecipato ad un picchetto alla DHL di Settala (Milano) nel 2015 ed ora conduce il processo contro Aldo Milani. Il potere legislativo, quello esecutivo e quello giudiziario fanno fronte comune nella difesa del regime borghese.
Il proletariato contro questo schieramento avversario può e deve contare solo sulle sue forze. L’unica solidarietà che costituisca una difesa lungimirante, non effimera, che sia di premessa al passaggio all’offensiva futura contro il capitalismo ed il suo regime politico, è quella dell’estensione della lotta operaia e del rafforzamento del sindacalismo di classe, delle sue correnti e delle sue organizzazioni.
La solidarietà proveniente dal vago mondo dei “sinceri democratici”, dalle “personalità” degli ambienti della cultura, della giurisprudenza, degli accademici non deve illudere i lavoratori in merito alla natura della democrazia che, alla prova della crisi economica e della ripresa della lotta proletaria, sta rivelando, oggi come ieri, il suo vero volto: quello della dittatura del capitale sulla classe lavoratrice.
Occorre invece lavorare alla ricerca dell’unità d’azione delle organizzazioni e delle correnti del sindacalismo conflittuale quale via maestra per sconfiggere l’opportunismo sindacale che oggi domina nei sindacati di base i quali, per la loro frammentazione e per gli indirizzi e i metodi di lotta delle maggioranza delle attuali dirigenze, non sono in grado di sconfiggere i sindacati di regime.
Un delegato della CUB Trasporti Alitalia si è preso cura di una intervista al capo del sindacato metalmeccanico, nella città brasiliana di São José dos Campos, aderente alla “Rete sindacale internazionale di solidarietà e di lotta”, costituitasi nel marzo 2013 in Francia e che in Italia ha quali organizzazioni aderenti la Cub, il SI Cobas, l’ORSA, il CAT, l’Usi ed il Sial Cobas.
Questo tentativo di imbastire una organizzazione internazionale del sindacalismo conflittuale soffre, inevitabilmente, della debolezza generale della classe operaia, ma anche della ideologia delle dirigenze delle organizzazioni aderenti, nella gran parte dei casi ascrivibile al radicalismo borghese di sinistra, fattore che aggrava le difficoltà.
Parte dell’indirizzo sindacale tuttavia è corretto. Ad esempio è da notare che riguardo a quanto accade in Sud Africa questo organismo ha preso posizione contro la confederazione di regime del COSATU (Congress of South African Trade Unions) nel merito della espulsione dal suo seno della federazione metalmeccanica, il NUMSA (National Union of Metalworkers of South Africa), posizionandosi dal lato opposto della barricata rispetto a quanto fatto da altra internazionale sindacale che si accredita come conflittuale, la Federazione Sindacale Mondiale (la World Federation of Trade Unions), di cui il COSATU fa parte, e di cui abbiamo scritto nel numero scorso di questo giornale (“L’ “internazionalismo” anti‑operaio della Federazione Sindacale Mondiale”).
São José dos Campos si trova nello Stato (in Italia diremmo regione) di San Paolo, il più industrializzato del Brasile. È una città di circa 600 mila abitanti, sede di un importante polo industriale di cui fa parte il maggiore complesso aerospaziale dell’America Latina.
Vi si trova infatti una delle sei fabbriche, nonché la sede centrale, della Embraer, la Empresa Brasileira de Aeronáutica, azienda che nel 2018 è stata il terzo produttore mondiale di aerei civili e che produce anche velivoli militari.
Embraer fu fondata nel 1969 dal borghese Stato brasiliano, nel periodo della dittatura militare da poco iniziata (1964), con l’obiettivo di dare lustro e la forza di una industria aeronautica al capitalismo nazionale. Nel 1981 iniziò una collaborazione italo-brasiliana per la produzione dell’AMX, aereo militare per il cosiddetto “attacco al suolo”, ancora in attività, che ebbe il battesimo del fuoco in Kosovo durante l’Operazione Allied Force, la campagna di attacchi aerei della NATO contro la Repubblica Federale di Jugoslavia nel 1999. Nel 1987 Embraer acquisì un’altra azienda aeronautica brasiliana, la Aerotec. Poi iniziò un periodo di declino – reale o provocato – che condusse nel 1994 alla sua privatizzazione. Nel 2017 la Bombardier, azienda canadese concorrente che opera anche nel settore aeronautico, annunciò un’alleanza con l’europea Airbus. Pare in risposta a questa mossa di mercato, nel luglio 2018 veniva annunciata una join-venture fra l’americana Boeing e la Embraer, che appare più essere un’acquisizione della seconda da parte della prima.
L’intervista al capo del sindacato metalmeccanico di São José dos Campos tratta di questo ultimo accadimento ed è apparsa, oltre che su una pagina internet della CUB (Cublog), su quella di un organismo denominato “Fronte di lotta no austerity”, di cui fa parte il militante sindacale che ha curato l’intervista.
Questo “Fronte”, coordinamento di organismi di natura non solo sindacale, ha per scopo dichiarato “unire le lotte”, includendo in questa definizione, appositamente generica, non quelle per le rivendicazioni proprie della classe lavoratrice, ma anche per le questioni ambientali, abitative, studentesche, contro il fascismo, l’oppressione femminile e le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale. È un organismo quindi aperto non solo ai lavoratori – occupati e disoccupati – ma interclassista, popolare. Abbiamo già avuto modo di scrivere, ad esempio in merito al secondo congresso dell’USB, come questi calderoni, in cui si mescola l’organizzazione di lotta dei lavoratori con organizzazioni di altra natura – le chiamano, con termine il più indefinito possibile, “realtà” – siano utili alle dirigenze, che approfittano di tale “apertura” per inserirvi elementi non impegnati nella lotta sindacale, emananti e rispondenti alla classe lavoratrice, ma loro politicamente affini, così da garantire al loro partito o gruppo politico il controllo dell’organizzazione.
Il Fronte No Austerity è controllato da militanti di correnti e organizzazioni trozkiste, al pari del sindacato CSP Conlutas, che anch’esso include nell’organizzazione non solo lavoratori, come si deduce sin dal nome: “Central Sindical e Popular Conlutas”. Ciò naturalmente fa sì che vi sia un certo legame fra i due organismi, per quanto non paragonabile sia la loro consistenza numerica.
Questo preambolo che può apparire fine a sé stesso si spiega entrando finalmente nel merito dell’intervista al sindacalista brasiliano.
Il delegato della Cub Trasporti Alitalia introduce il tema spiegando come il sindacato metalmeccanico aderente alla CSP Conlutas stia «portando avanti una dura lotta contro la vendita dell’Embraer all’americana Boeing, rivendicando la nazionalizzazione con lo scopo di difendere i posti di lavoro e la sovranità di una società e attività strategica per il proprio paese. Questa lotta potrebbe essere paragonata ad alcune battaglie operaie che si stanno svolgendo in Italia con ad esempio la battaglia per la nazionalizzazione della compagnia di bandiera Alitalia».
Gli fa eco il sindacalista brasiliano: «Siamo contrari alla vendita per diversi aspetti. Uno riguarda la sovranità nazionale. Riteniamo che sia un crimine contro il nostro paese che la più grande compagnia di tecnologia aeronautica e aerospaziale venga consegnata ai nord-americani (...) Un altro aspetto è il futuro dell’industria aeronautica e dei posti di lavoro in Brasile (...) [Bisogna] lottare per la ri-nazionalizzazione di Embraer sotto il controllo dei lavoratori. Solo in questo modo l’azienda può svolgere un ruolo strategico per l’economia e la popolazione brasiliana».
L’intervista è lunga ma a noi bastano questi pochi stralci per rendere conto della gravità delle posizioni in essa espresse e che, presentate come confacenti a un sindacalismo conflittuale, stanno invece pienamente nel campo del sindacalismo di regime.
Della questione della nazionalizzazione abbiamo avuto modo di scrivere recentemente, ricollegandoci anche alla vertenza in Alitalia (“Le crisi aziendali e la richiesta delle nazionalizzazioni”). Per i lavoratori di questa azienda la parola d’ordine della nazionalizzazione appare facilmente come una allettante sirena. La debolezza generale della classe operaia, anni di pace sociale, fanno sembrare troppo ardua una lotta della durezza necessaria contro i licenziamenti e i lavoratori sperano di trovare nell’arco politico istituzionale, borghese, forze che facciano propria questa parola d’ordine.
Da anni i lavoratori sono stati abituati dai sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl) a contare su questi mezzi, non sulla forza della lotta della propria classe. Queste organizzazioni sindacali portano avanti ogni lotta per crisi aziendali isolatamente dalle altre, chiedendo aiuto alla “politica” – così la chiamano, senza aggettivi – cioè ai partiti borghesi tutti, affinché intercedano in qualche maniera, con la sottintesa promessa che ciò porterebbe in cambio un po’ di voti.
Non confidando i lavoratori nelle loro forze, per il reale stato attuale di debolezza della classe lavoratrice, si affidano a questo tipo di scorciatoia, in cui trovano pronti a condurli i pastori del sindacalismo concertativo.
Il sindacalismo di base, nel caso Alitalia, con l’impugnare la parola d’ordine della nazionalizzazione, sia dal lato della Cub che da quello dell’USB, poco si è discostato da questa pratica. Invece di lavorare per cercare di emancipare i lavoratori dalle illusioni abilmente coltivate dal regime padronale – siano esse la speranza che il Movimento 5 Stelle si dimostri conseguente ai proclami in merito di nazionalizzazione o il vacuo orgoglio aziendalista per la compagnia di bandiera – su di esse ha imperniato la sua azione.
Quale sarebbe mai il vantaggio per la classe operaia di un qualsiasi paese che il suo Stato disponga di una sua compagnia aerea di bandiera?
Se la scelta di far leva su tali argomenti da parte della Cub Trasporti può essere benevolmente letta, ma non per questo giustificata, come frutto di un opportunismo indotto dalla debolezza attuale del movimento, in questa intervista si va purtroppo ben oltre e la nazionalizzazione è invocata non quale soluzione di comodo per i lavoratori di un’azienda, ma come il giusto indirizzo generale, necessario per difendere niente meno che la “sovranità nazionale”!
È di rilievo osservare come il trozkismo, dal Brasile all’Italia, cada nella stessa fossa in cui razzola lo stalinismo che, ad esempio qui in Italia per voce della dirigenza dell’USB, agita un preteso “sovranismo di sinistra” col quale vorrebbe sconfiggere quello “di destra”.
È un inganno tipico dell’opportunismo far credere di poter impugnare obiettivi nazionali tardo-borghesi per svolgerli a vantaggio della classe lavoratrice. La storia della lotta di classe mostra come in questo modo non si sia affatto scavalcata e astutamente sconfitta la borghesia, bensì la si sia sempre aiutata a far crescere in seno alla classe operaia la pianta della sua mendace e ipocrita ideologia, preparando il terreno all’incatenamento dei lavoratori agli interessi del capitalismo.
Orgoglio aziendale e nazionale, lotta contro il nemico esterno, che in Brasile sarebbero gli Stati Uniti e in Italia l’Europa a guida franco-tedesca, aprono le porte al trionfo del solo vero sovranismo, che è quello “di destra”, fascista, militarista e, sopra e prima d’ogni altra cosa, anticomunista.
Il sindacalismo di classe chiama i lavoratori alla lotta solo appellandosi ai loro bisogni e ne ricerca la soluzione non imboccando inesistenti strade in comune con la borghesia, o con sue frazioni considerate “progressive”, ma ricercando la formazione della più larga unione di lotta dei lavoratori, al di sopra delle aziende, delle categorie, delle nazionalità e, domani, dei confini nazionali.
Qui sopra pubblichiamo il volantino a firma del partito che i nostri compagni hanno diffuso alla manifestazione nazionale del SI Cobas tenutasi a Modena sabato 6 aprile, in difesa delle libertà sindacali e del capo del sindacato, sotto processo. La manifestazione, alla presenza di oltre un migliaio di lavoratori, è ben riuscita, in modo analogo alle precedenti organizzate da questo sindacato in tutti questi ultimi anni.
La mobilitazione è stata preparata, oltre che con assemblee sui posti di lavoro, dalla diffusione di un appello dei quel sindacato, “Lo sciopero e la libertà di iniziativa sindacale non sono materia di diritto penale”, rivolto “a tutti gli esponenti del mondo giuridico, accademico, dell’arte, della cultura e dello spettacolo, e a tutti gli attivisti che sul piano sindacale, politico e sociale ne condividono il testo e le finalità” che così concludeva: «Chiediamo a tutte le forze politiche, sociali e sindacali sinceramente democratiche, agli esponenti del mondo giuridico, accademico, dell’arte, della cultura e dello spettacolo di sottoscrivere questo appello per la piena assoluzione di Aldo Milani dalle accuse intentate e di avviare una campagna per la depenalizzazione totale del reato di “blocco stradale” per ragioni sociali o sindacali e per sancire il divieto dell’utilizzo dei reparti-celere in occasione di agitazioni sindacali all’esterno dei luoghi di lavoro».
Se l’intento propagandistico e l’obiettivo dell’appello sono condivisibili non lo è il rivolgersi indistintamente alle “forze sinceramente democratiche” in quanto può far credere ai lavoratori di avere movimenti politici alleati al di fuori della propria classe, fra cui alcuni dei partiti borghesi, e su cui poter fare affidamento.
La democrazia, inoltre, è una delle ideologie della borghesia, la quale non si è mai dimostrata realmente meno antioperaia di altre solo all’apparenza opposte.
L’obiettivo di portare dalla nostra parte forze e ceti sociali intermedi ed indecisi si potrà fare non facendo concessioni verso le loro credenze e diluendo la nostra identità di classe (il che sortisce l’effetto opposto) ma, al contrario, mostrando il nostro movimento sindacale irrobustito e socialmente risoluto, al che ben si avvierebbe promuovendo una mobilitazione che coinvolga tutto il sindacalismo conflittuale, i militanti sindacali ed i lavoratori in difesa delle libertà sindacali.
Per queste ragioni i nostri compagni lavoratori individualmente non lo hanno firmato.
E, al suo interno, abbiamo proposto che non lo sottoscrivesse il Coordinamento lavoratrici e lavoratori per l’unità della classe, e di redarre invece un suo comunicato di solidarietà con contenuti conformi a quanto qui detto. All’interno di questo gruppo di lavoro gli argomenti da noi sollevati sono stati condivisi anche da militanti sindacali non aderenti al nostro partito; altri hanno sostenuto che l’adesione del Coordinamento all’appello del SI Cobas, al di là del merito delle questioni da noi sollevate, aveva il valore di ribadire la necessità dell’unione del sindacalismo conflittuale al di sopra delle divisioni fra le sigle; i militanti del SI Cobas hanno ritenuto corretto l’appello del loro sindacato. Valutando non priva di fondamento la seconda considerazione e la questione non di grande importanza, i nostri compagni hanno deciso di disciplinarsi alla decisione della maggioranza di sottoscrivere l’appello del SI Cobas. Il Coordinamento però ne ha pubblicato anche uno proprio, che si legge qui.
Nel SI Cobas
Se l’appello promosso dal SI Cobas era criticabile per le ragioni sopra esposte, non di meno non si può negare il fatto che questo sindacato è stato quello che più di ogni altro in Italia ha saputo difendere l’arma dello sciopero nel solo modo corretto, impiegandola. Proprio in questi ultimi mesi il SI Cobas è stato impegnato in lotte molto dure all’Italpizza di Modena, alla Toncar di Muggiò, alla Tintoria DL di Prato, per citare gli esempi principali.
Ciò in cui difetta la dirigenza del SI Cobas è la sfiducia verso l’unità d’azione del sindacalismo conflittuale e dei lavoratori quale strada maestra per rafforzare il sindacalismo di classe e sconfiggere l’opportunismo all’interno delle sue organizzazioni e correnti. Questa strada aiuterebbe il SI Cobas a superare l’isolamento in cui lo vogliono mantenere il padronato ed il sindacalismo di regime ed aumenterebbe il suo prestigio fra i lavoratori.
Nella USB
Anche l’Unione Sindacale di Base ha promosso una campagna in difesa delle libertà sindacali, ma con una condotta e con argomenti quasi del tutto estranei al sindacalismo di classe. Ha promosso, in assoluta solitudine, uno sciopero di tutte le categorie della classe lavoratrice per il 12 aprile scorso. Contro questa decisione i nostri compagni e altri militanti sindacali iscritti all’USB hanno redatto un appello a favore di uno sciopero generale unitario di tutto il sindacalismo conflittuale, pubblicato il 20 marzo. Nel frattempo la Commissione di garanzia ha deliberato la revoca dello sciopero. La reazione della dirigenza dell’USB è stata a tal punto contraddittoria e pasticciata da far seriamente dubitare che vi fosse davvero la volontà di organizzare lo sciopero. Il che non fa che confermare l’ipotesi che questo sindacato stia sempre più puntando ad essere riconosciuto, al pari dei sindacati confederali, dalle forze politiche del governo in carica, allontanandosi ulteriormente dal sindacalismo conflittuale.
A seguito dell’intervento della Commissione di garanzia infatti i dirigenti della USB hanno rinunciato alla proclamazione dello sciopero generale, sostituendolo con degli scioperi divisi per categorie. Su queste decisioni il Coordinamento Iscritti USB per il Sindacato di Classe ha redatto, con la collaborazione dei nostri compagni, un documento che spiega bene la gravità della condotta della dirigenza di questo sindacato.
Il Sudan è stato scosso da un massiccio movimento di protesta dal dicembre scorso, innescato dall’aumento del prezzo del pane. Vi si grida: “Siamo in strada per protestare contro chi ha rubato il nostro sudore”, “Libertà, pace e giustizia”, “Vogliamo la rivoluzione”. Si è fatta sentire anche l’opposizione al genocidio del Darfur: “Razzisti arroganti, siamo tutti del Darfur”.
Come di consueto nelle proteste in Sudan le donne vi svolgono un ruolo preponderante, tanto che i partecipanti l’hanno definita una “rivoluzione femminile”.
Il Sudan ha un’antica tradizione di lotte operaie che risale addirittura al 1903. Le prime proteste si sono avute nelle aree rurali e in città come Atbara, dove esiste una robusta tradizione sindacale. Una delle forze trainanti del movimento è uno di questi sindacati, l’”Associazione dei professionisti sudanesi” (che includeva il settore agricolo, i geologi, i dentisti, i farmacisti, le associazioni mediche specializzate) che è stato la spina dorsale del movimento. Il regime ha risposto con arresti di massa di quadri e dirigenti sindacali.
Il 28 dicembre i sindacati e le associazioni di categoria hanno lanciato un appello a un’astensione dal lavoro a livello nazionale e subito dopo sono iniziate le proteste contro gli aumenti dei prezzi e il peggioramento delle condizioni economiche, mentre i medici hanno dichiarato di voler continuare il loro sciopero a tempo indeterminato.
Il movimento ha scandito slogan contro Omar al‑Bashir, il tiranno genocida sostenuto dai Fratelli Musulmani che governa il paese dal 1989, quando conquistò il potere con un colpo di Stato.
Il movimento si è esteso agli operai. I portuali sono scesi in sciopero contro la privatizzazione, sono rimaste paralizzate tutte le attività nei tre porti di Porto Sudan (il Meridionale, il Settentrionale e il Verde) e nel Porto Osman Digna, nella città di Suakin. Altri lavoratori hanno scioperato in solidarietà in diverse parti del paese.
Un importante centro di attività sindacale all’interno delle proteste sembra essere l’”Alleanza per la ricostruzione dei sindacati dei lavoratori sudanesi”, che nei primi di marzo ha anche aderito formalmente alla “rivoluzione” invitando tutti i “sindacati messi al bando” ad unire le forze nella protesta. Tuttavia pare che i sindacati e le categorie professionali non siano così presenti nel movimento come lo erano stati negli anni ‘80.
Oltre ai sindacati sono coinvolti nel movimento le organizzazioni femminili e giovanili e i partiti della borghesia di sinistra, come il Partito Comunista Sudanese, che insieme ad altri partiti borghesi fa parte dell’Alleanza delle Forze del Consenso Nazionale. L’orientamento generale di questo partito “comunista”, non sorprende, è a favore di un ritorno alla democrazia, insieme agli altri, come il resto dei firmatari della Dichiarazione per la Libertà e il Cambiamento, che comprendono l’Associazione dei professionisti sudanesi e l’Alleanza per il ripristino dei sindacati sudanesi. Questi sindacati sono pronti a trasformarsi in sindacati di regime non appena venga istituito un regime democratico.
Le proteste del 2018‑2019 in Sudan sono simili a due altri episodi della storia del paese. Il primo, nel 1964, venne innescato da scontri tra studenti e polizia presso l’Università di Khartum. Gli scontri si moltiplicarono in un movimento di protesta molto più ampio che sfociò nell’abbattimento della dittatura militare di Ibrahim Abboud. Il secondo episodio, nel 1985, si è verificato dopo anni di disordini economici e, come le proteste di oggi, è stato innescato da un aumento dei costi dei beni di prima necessità, sfociando dunque in un esteso movimento che ha costrinse Jafa’ar Nimeiri a dimettersi.
In entrambi i casi, nel 1964 e nel 1985, l’esercito sudanese intervenne per sostenere la transizione alla democrazia multipartitica. Lo fece sotto la pressione di ufficiali di grado medio‑basso, presenza determinante per il rovesciamento del governo.
Anche questa volta, dopo le prime segnalazioni che i soldati erano intervenuti per proteggere i manifestanti dalla violenza della polizia, l’esercito sudanese ha rovesciato Omar al Bashir e ha dichiarato che ci saranno due anni di governo militare, seguiti da elezioni “libere ed eque”. Il ministro della Difesa nel governo di Bashir, Awad Ibn Auf, è divenuto per pochi giorni il volto del colpo di Stato, per poi essere sostituito dopo le sue dimissioni del tenente generale Abdel Fattah Adelrahman Burhan, capo del Consiglio militare. Burhan, a differenza di Ibn Auf, non è accusato di crimini di guerra nel Darfur.
L’Associazione dei Professionisti Sudanesi insieme a molte altre organizzazioni ha denunciato la transizione come un colpo di Stato militare e ha promesso di organizzare ulteriori dimostrazioni per chiedere «la consegna del potere a un governo di transizione civile che rifletta le forze della rivoluzione».
Il sindacato professionale ha quindi invitato a protestare nonostante il coprifuoco imposto dai militari perché «rispettare il coprifuoco significherebbe riconoscere il salvataggio dei cloni al governo». Benché l’Associazione Professionisti dichiari che la sostituzione di Ibn Auf con Burhan è «una vittoria della volontà delle masse», mantiene l’invito a continuare le proteste davanti alle guarnigioni dell’esercito.
I lavoratori, in particolare quelli professionalizzati, stanno svolgendo un ruolo importante nel movimento sudanese, ma la direzione sindacale democratica, alleata ai partiti borghesi, ne ha il controllo politico. Non vi sono quindi le condizioni per l’affermarsi di una dittatura del proletariato, in una situazione e in un’area geografica in cui non è presente un vero Partito comunista internazionale.
Per 35 giorni, dal 22 dicembre al 25 gennaio molte della attività federali sono state inattive, tranne i servizi essenziali, in primis l’apparato di sicurezza. Il problema si è complicato per la debolezza del Congresso dominato dai democratici, la cui “ondata azzurra” elettorale si è risolta in ben poco ma confermando il servilismo dei democratici ai comandi della borghesia.
Come è finito il bisticcio dimostra due cose: l’impotenza e la cialtroneria del politicantume borghese e la forza potenziale della classe operaia.
Nessuno dei due partitoni borghesi è riuscito a raggiungere i suoi obiettivi. All’inizio di gennaio, prima del formarsi del nuovo Congresso, il presidente Donald Trump aveva bloccato ogni attività minacciando di porre il veto a qualsiasi spesa che non includesse i fondi per il “suo” muro di confine. Nemmeno il Congresso, dominato dai repubblicani, ha voluto accontentarlo. Quando il 3 gennaio è entrato in carica il nuovo Congresso, i repubblicani hanno perso il controllo della Camera e l’hanno mantenuto a malapena sul Senato, oltre ad essere profondamente divisi. I democratici al Senato, tuttavia, non hanno cercato di trarre profitto dall’impopolarità dello shutdown temendo che suscitare rivalità interne ai repubblicani ne scatenassero delle altre fra di loro. Molto più interessati sono al mantenimento dei vantaggi e privilegi delle loro cariche e del profitto che traggono dalla miseria dei loro elettori proletari.
Nonostante le pressioni della stampa su Nancy Pelosi, capo dei democratici alla Camera, i suoi ripetuti tentativi di “trattare” con Trump sono stati poco più che una messa in scena. Infatti i democratici, tradizionalmente considerati il partito dei poveri urbani e dei lavoratori del pubblico impiego, difensori dello Stato sociale, non potevano tradire questa finzione, ma, in quanto membri del comitato esecutivo della classe dominante, altrettanto non potevano permettersi di smentire la potente macchina dei media che la borghesia mette su ad ogni accenno di indisciplina dei suoi agenti a Washington.
Quindi hanno continuato la serrata.
Alla fine, passato un mese senza stipendio, molti lavoratori “essenziali”, pur non facendo parte delle agenzie di sicurezza a servizio della borghesia, ne hanno avuto abbastanza. Quando i controllori del traffico aereo, i piloti delle linee aeree e gli assistenti di volo hanno minacciato di cessare il lavoro, mettendo così a rischio le arterie del commercio aereo, Washington si è risvegliata ed ha approvato alla svelta la legge di spesa. È stato lo spavento di una possibile mobilitazione operaia, e non il teatrino dei politicanti, a far presto concludere la vicenda. La fine dello shutdown è stata imposta dalla classe operaia.
La costituzione delle Corporazioni fasciste è venuta ad arricchire di un nuovo colore la policroma gradazione dei Sindacati italiani; ai neri anarchici, ai rossi social-comunisti, ai bianchi cattolici essi si sono aggiunti agitando freneticamente il tricolore nazionale.
Le organizzazioni preesistenti hanno dovuto rapidamente orientare il proprio atteggiamento di fronte a quelle sorgenti; e ciò esse fecero in dipendenza delle proprie attività e delle proprie tradizioni.
Ogni sindacato dipende in Italia direttamente da un partito politico; più ancora, ogni sindacato è sorto per opera e per emanazione di un partito il quale ha teso così a costituirsi un inquadramento di aderenti che, se pure meno saldo e fedele del partito, desse però una certa garanzia di sottomissione. Il partito socialista fu il fondatore delle organizzazioni che, riunite poi nella Confederazione Generale del Lavoro, gli offrirono le grandi masse di manovra per le sue battaglie e le sue azioni; gli anarchici dettero vita e dominano l’Unione Sindacale; il partito repubblicano dirige l’Unione Italiana del Lavoro; il popolare (cattolico) muove a sua volontà l’Unione del Lavoro; le Corporazioni nazionali sono le esecutrici degli ordini del partito fascista. Si può notare a questo proposito che il solo partito Comunista, fra i partiti proletari, non ha proceduto ad organizzarsi un proprio movimento sindacale ma, con tattica opportuna e saggia, è mosso alla conquista per mezzo del noyautage nei Sindacati sovversivi esistenti.
Il fatto di questa stretta dipendenza fa sì che ove i partiti che dirigono i Sindacati sono in lotta fra di loro, anche questi assumono reciprocamente un atteggiamento di profonda avversione; quando invece rapporti ed intese sono possibili e si realizzino fra i partiti, anche i sindacati unificano la loro azione su un comune programma.
Il primo caso si è verificato sempre, per il passato, rispettivamente fra cattolici e socialisti e fra Confederazione Generale del Lavoro ed Unione del Lavoro. Per parecchi anni in Italia vere grandi lotte furono combattute fra queste due diverse forze che si opponevano sia nel campo delle competizioni strettamente politiche che su quello dell’azione sindacale, e gli odii più feroci si accendevano nelle masse organizzate sotto le due bandiere ed esplodevano in violenti e sanguinosi conflitti. Solo da un anno a questa parte, e successivamente alle tacite alleanze parlamentari dei due partiti, i sindacati socialisti e cattolici hanno segnata la tregua e l’accordo, ed uniscono le loro schiere, sia pure saltuariamente ed in forma contingente, per la difesa di alcuni diritti elementari dei lavoratori.
Si comprende facilmente come la norma costante suaccennata, regolante i reciproci rapporti vigenti tra organismi sindacali, applicata alle nuove Corporazioni fasciste non potesse che imporre il loro schieramento in ostilità aperta e dichiarata di fronte ai Sindacati sovversivi. I partiti proletari infatti, sia pure variamente atteggiando la loro tattica verso il fascismo, gli si dichiarano nemici decisi senza possibilità di pace; così i comunisti che organizzano e conducono la lotta armata contro i fascisti, come i socialisti che, pure firmando i patti di pacificazione, dichiarano di soggiacere facendo in tal modo alle dure necessità della guerra che li obbligano a piegarsi di fronte agli avversari più forti; così i repubblicani, anche se in alcune provincie agrarie, dove il loro partito recluta quasi esclusivamente contingenti borghesi, copiano contro i lavoratori i sistemi e la tattica fascista; così i popolari nonostante che il loro gruppo parlamentare abbia dato ministri a tutti i Ministeri che protessero e favorirono lo svilupparsi del fascismo. Tutte le organizzazioni sindacali popolari, repubblicane, social-comuniste ed anarchiche, rispecchiando in sé e riflettendo l’azione dei loro partiti si sono di conseguenza schierati nettamente contro le Corporazioni Nazionali.
Ma se anche fosse mancata questa causa ad un atteggiamento antifascista sul terreno sindacale da parte delle organizzazioni rosse, esso sarebbe stato provocato ed imposto da un’altra ragione: dal contenuto antitetico del loro programma e della loro tattica. Tutti i sindacati sovversivi (social-comunisti, anarchici e repubblicani) seguono le direttive della lotta di classe e sanciscono nelle loro affermazioni di principio l’abolizione della proprietà privata ed il mutamento del regime. Anche i Sindacati cattolici, pure mancando naturalmente di questo contenuto programmatico di carattere rivoluzionario, seguono nella loro attività quotidiana una tattica schiettamente classista la quale assume a volte aspetti veramente rivoluzionari: le lotte eroiche dei contadini cremonesi guidati dal deputato popolare Miglioli che giunsero fino all’occupazione armata delle terre ed alla costituzione di specie di Soviet rurali ne sono un esempio, ammirevole e recente.
Abbiamo già reso noto lo spirito animatore e gl’intenti delle Corporazioni fasciste le quali, fondandosi sul principio della collaborazione di classe, tentano riunire su di un piede di parità e nello stesso organismo i salariati ed i datori di lavoro. Un’intesa sia pure transitoria, per la risoluzione di una situazione contingente, è perciò assolutamente impossibile fra sindacati e corporazioni le quali interdicono e vietano ogni forma di azione diretta e di massa. È noto, infatti, che la risoluzione delle controversie che sorgono fra imprenditori e lavoratori viene raggiunta dalle corporazioni con una specie di arbitrato interno (ed ognuno comprende quanto imparziale ed a favore di chi) in quei luoghi in cui la unione di costoro si è verificata nelle file dell’organizzazione fascista; ovvero con l’entrata in funzione delle squadre armate fasciste contro agrari ed industriali, ove questi, per caso, non accettino gli ordini del partito fascista. I lavoratori, secondo la concezione che regge la vita delle corporazioni, non hanno alcun diritto di perseguire direttamente, coll’uso delle loro forze, il raggiungimento delle loro conquiste; ma ogni vantaggio che essi ottengono deve giungere loro in forma di concessione deliberata di chi per capacità e privilegio ha nelle mani le redini della società. È questo il concetto della gerarchia che si precisa ogni giorno più come il credo politico e sociale del partito fascista e che annulla quindi anche il principio asserito della collaborazione sostituendolo con l’altra della sottomissione di classe.
Ogni possibilità di accordo fra Corporazioni Nazionali e Sindacati si presenta dunque illusoria ed impossibile: e la guerra aspra e senza tregua è l’unica legge che possa regolare i rapporti fra le due diverse specie di organizzazioni.
Come si realizza questa lotta? Essa non può assolutamente assomigliare alle normali e tradizionali battaglie fra sindacati di opposte tendenze, condotte per mezzo di una ampia propaganda a favore del proprio programma e della propria capacità di azione e di una critica aspra del programma e dell’azione avversaria; e neppure può tendere alla graduale e progressiva attrazione nei proprii quadri degli operai già militanti nelle file contrarie da esse strappate colla persuasione e l’incitamento. Che simile metodo di lotta sottintende la contemporanea esistenza nello stesso luogo delle due organizzazioni avversarie e concorrenti le quali si contendono l’influenza sulla maggioranza dei lavoratori nonché una relativa libertà di riunione, di parola e di stampa; ciò è impossibile a verificarsi nell’attuale situazione creata in Italia dal fascismo, nella quale la lotta fra Corporazioni e Sindacati Rossi si riduce all’applicazione di questa formula elementare, «O l’uno o l’altra».
La Lega fascista non sorge infatti che nel paese già conquistato, armata mano, dalle squadre fasciste: essa è veramente come l’erbaccia parassita che cresce e prospera sulle macerie delle case diroccate. Non vi è dubbio che un concentramento in una città è seguito dall’incendio e dalla distruzione della Camera del Lavoro e dall’uccisione o dal bando dei capi sindacali locali; e non vi è da esitare nell’affermare che questa razzia costituisce l’atto pregiudiziale e necessario per la fondazione di una sezione della Corporazione alla quale col bastone e col revolver si fanno iscrivere tutti già aderenti alla distrutta organizzazione rossa. Questo sistema di organizzazione sindacale si è fino ad oggi metodicamente ripetuto ovunque il fascismo ha vinto; il che significa ovunque la Corporazione Nazionale è sorta e costituisce una forza che i Sindacati rossi devono valutare e tenere in considerazione. Tutte le sezioni delle corporazioni che sono nate in altro modo, cioè senza battesimo di sangue e di fuoco (e ciò si è verificato nei centri ancora liberi dalla dominazione terroristica del fascismo) sono miserande e senza importanza, tali per cui l’unica tattica da usare nei loro confronti è la beffa e la noncuranza.
Come deve dunque condursi la lotta contro le Corporazioni fasciste? Combattendo l’organizzazione armata del fascismo e cercando di liberare dal terrore e dalla dominazione violenta le regioni ch’esso ha invase. Le masse proletarie spinte a forza, come mandrie terrorizzate, nelle organizzazioni sindacali tricolori non possono altrimenti essere riconquistate al movimento classista; esse restano nei quadri nazionalisti sotto la minaccia spaventosa del “manganello” fracassatore di crani; ma certamente non appena sentissero allontanarsi la minaccia, esse abbandonerebbero la forzata milizia che costa loro rinunce di libertà, di salari e di diritti.
Bisogna escludere senz’altro la possibilità di una vittoria indiretta sulle Corporazioni fasciste da raggiungersi con un’azione interna di conquista della maggioranza e quindi dei posti di dirigenza. In realtà non la maggioranza, ma la unanimità dei loro iscritti è contraria fin da oggi alle loro direttive; così come lo schiavo è contrario naturalmente agli scopi ed ai progetti del suo padrone; ma nessuno può, pena la sua sicurezza personale, azzardarsi ad esporre od a fare valere i proprii concetti e le proprie opinioni. Un progetto di noyautage nei Sindacati fascisti significherebbe la condanna a morte di coloro che tentassero tradurlo nella pratica. E tutto quanto già esponemmo del modo di formazione e di funzionamento delle Corporazioni deve fare ognuno convinto della verità di questo asserto.
Nei Sindacati fascisti vi è certamente grande numero di comunisti, di anarchici, di socialisti, di repubblicani lavoratori di paesi colonizzati dalla guardia bianca e nell’impossibilità di sottrarsi alla leva forzata ordinata dagl’invasori, ma essi devono bene evitare di cercare di informare l’azione dell’organizzazione alle loro convinzioni, essi non possono costituire delle frazioni o delle tendenze sia pure soltanto differenziantesi su problemi sindacali. Il giorno in cui nei sindacati fascisti sarà possibile il formarsi di questi raggruppamenti ed il manifestarsi di affermazioni collettive di carattere classista, in tale giorno il fascismo come movimento reazionario armato sarebbe in pieno declivio ed i suoi organismi sindacali crollerebbero di per sé senza più necessità di lotte dall’esterno o di conquiste dall’interno.
I sovversivi iscritti violentemente nelle file delle corporazioni devono limitarsi in tale loro veste ad attendere il maturarsi di una situazione simile che solo permetterà la loro liberazione.
Il partito comunista ha dato ai proprii aderenti e simpatizzanti delle singole località disposizioni dettate dalle precedenti valutazioni: cercare di mantenere in vita fino all’estremo possibile il sindacato rosso; al momento dell’arruolamento generale nel Sindacato Nazionale non esporre la vita per sottrarsi all’imposizione ma eseguirla solo quando la lega sovversiva sia sciolta e scomparsa; raggrupparsi immediatamente nell’interno del Sindacato fascista in gruppi costituiti esclusivamente di compagni fidati e sicuri dato l’enorme pericolo di una delazione o della scoperta del gruppo e delle sicure terribili conseguenze di un tale fatto.
Questi gruppi devono esclusivamente curare la creazione di una rete di collegamenti in quelle regioni in cui il dominio fascista ha distrutto e resa impossibile l’esistenza dì una rete organizzativa del partito comunista e devono rappresentare i primi nuclei pronti a riformare la tessitura del partito al momento in cui una tale ricostruzione si presenterà come possibile.
L’esecuzione di questo piano elementare di lavoro è già stata pagata colla vita da molti lavoratori e militanti comunisti ma esso ciononostante va realizzandosi con sicurezza, se pure lentamente ovunque, e con esso si compie il massimo di ciò che i partiti ed i Sindacati rossi possono fare oggi giorno nei confronti dei Sindacati fascisti.
Questo articolo non potette trovar posto nel numero precedente della rivista, sicché viene ad essere un po’ superato dagli avvenimenti che si sono svolti nei giorni scorsi; specie la parte ultima che riguarda la tattica del P.C. di fronte al fenomeno dei sindacalismo fascista, ma quello che e l’esame obbiettivo del fenomeno, le sue cause e il corso del suo sviluppo, e il pensiero comunista in merito restano immutati.
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Scorrono sui mezzi di comunicazione le immagini di folle affamate che in Venezuela cercano di forzare i posti di blocco che impediscono l’arrivo dalla frontiera colombiana di “aiuti umanitari”.
Lo spiegano con lo scontro tra il “dittatore” Maduro e il presidente Guaidò. Non entriamo qui nella questione che oppone in Venezuela la “democrazia” al “socialismo chiavista”, nella corruzione del sistema venezuelano, ecc. ma proponiamo la cruda realtà dei dati economici, necessari per orientarsi nell’argomento.
Occorre premettere l’importante ruolo in Venezuela dell’esercito la cui casta dirigente detiene il potere reale e controlla i settori chiave dell’economia, i porti e i giacimenti petroliferi e minerari. Al momento appoggia Maduro, forse in attesa di nuovi accordi con le grandi potenze imperialiste. Trump preme per un loro cambiamento di fronte: con il suo stile diretto, li ha avvertiti: “sappiamo dove gli ufficiali hanno nascosto i soldi in giro per il mondo”.
La base economica
Nella caotica profusione di dati statistici parziali, non sempre concordi tra loro, anche per i metodi diversi adottati, qui ci riferiamo prevalentemente ai recenti aggiornamenti degli articolati annuari statistici De Agostini, con integrazioni da altre fonti.
Il Venezuela è grande circa 3 volte l’Italia, con una popolazione stimata in circa 31 milioni, la metà di quella italiana, prevalentemente distribuita su una fascia costiera profonda al massimo un centinaio di chilometri, che si affaccia a nord sul Mar dei Caraibi, mentre a sud c’è la lunga e tortuosa frontiera nelle terre amazzoniche. Le aree più popolate si trovano quindi nella gradevole fascia climatica mediana tra l’equatore e il tropico del Cancro.
È diviso in 23 Stati federali. La popolazione è ben inurbata, per l’85% del totale, con 5 città che superano il milione di abitanti, tra cui Caracas, la capitale federale, il cui agglomerato urbano conta oltre 3 milioni “ufficiali”.
Il gruppo etnico predominante è il mestizo, risultato della mescolanza tra europei, indi e africani, che comprende il 70% della popolazione, a cui si aggiungono il 20% di bianchi e il 9% di negri. Minima la percentuale della razza indigena.
Il Venezuela ha avuto una forte immigrazione europea legata allo sviluppo dell’industria petrolifera dopo la seconda guerra mondiale, specialmente di italiani, portoghesi e spagnoli.
Per anni ha avuto un’immigrazione dai paesi confinanti ma ora il ciclo si è invertito con circa 3 milioni di venezuelani che sono emigrati, specialmente nella vicina Colombia, per trovarvi lavoro. Con quelle rimesse monetarie sostengono i familiari in patria, poiché il salario mensile di un lavoratore venezuelano è sceso a 3 dollari, azzerato da una iperinflazione fuori controllo che nel 2016 è stata la più alta al mondo. Molti lavoratori non vanno al lavoro o si licenziano perché il salario non copre nemmeno il costo dell’autobus. Il sostentamento dei lavoratori è coperto dal governo tramite un paniere di beni di prima necessità. Dal 2013 il Venezuela ha il più alto indice di miseria al mondo
La forza lavoro è complessivamente di 14,8 milioni, di cui il 60% maschi.
Il settore primario della sua economia, ovvero: agricoltura, allevamento, pesca e foreste, secondo i dati riferiti al 2016, nel mezzo della grave crisi economica e alimentare, contribuisce per il 5,6% del Pil e assorbe il 10,3% della forza lavoro. L’uso del suolo è molto ridotto con il 3,8% di arativo; il 20,7% a prati; il 22,6% incolto e il 53% di foreste.
Nonostante la riforma agraria del 1960, volta ad ampliare e diversificare la produzione, non si sono mai raggiunti grandi risultati con mais, riso, patate, manioca e banane, alimenti base della loro parca cucina. Le principali esportazioni riguardano: caffè, canna da zucchero e cacao. L’allevamento bovino, dopo un forte progresso fino agli anni ‘90, ha iniziato a decadere progressivamente nonostante gli incentivi governativi. Nel 2016 il numero dei bovini è indicato in 16,5 milioni di capi, i suini in 3,5 milioni di capi, caprini e ovini in 2,2 milioni di capi più 1 milione di equini vari e 1,5 milioni di volatili. La produzione di derivati della carne è indicata in 1,2 milioni di tonnellate. Sempre secondo i dati del 2016 la pesca è un settore marginale con 61mila tonnellate di crostacei e molluschi allevati e 311 mila tonnellate di pescato.
Sulla carta ci sarebbe quindi cibo sufficiente per tutti e molto altro terreno fertile da mettere a coltura.
Il settore secondario con il 23,3% della forza lavoro totale assicura il 39,2% del Pil. La risorsa principale è il petrolio, la cui estrazione è gestita dalla società statale PDVSA in vari bacini con un’importante produzione di gas naturale. Le riserve petrolifere del Venezuela sono attualmente stimate in 300 miliardi di barili, superiori ai 264 miliardi dell’Arabia Saudita. Il campo Bolivar Coastal Field presso il lago Maracaibo è il maggiore del Sud America con i suoi 7.000 pozzi. In 8 grandi raffinerie si hanno tutte le lavorazioni necessarie. Immense sono le riserve di gas naturale stimate in svariati trilioni di metri cubi.
Tra le altre significative risorse minerarie ci sono diamanti, oro (le riserve stimate sono intorno alle 15 tonnellate), carbone, bauxite, fosfati, asfalto, magnesite.
Recentemente sono stati scoperti importanti giacimenti di coltan, columbite-tantalite, ossidi cristallini di ferro, manganese, niobio e tantalio, necessari alla produzione di semiconduttori e di accumulatori. Nell’ottobre scorso Maduro ha inaugurato a Ciudad Piar il più grande stabilimento per la lavorazione del coltan di tutta l’America Latina: nell’entusiasmo della cerimonia ha prospettato ricavi per ben 7,8 milioni di dollari al giorno! Altri importanti giacimenti di coltan si trovano in Congo, nel Rwanda-Burundi e recentemente scoperti anche in Afghanistan, dove l’imperialismo di Cina e Stati Uniti maneggiano per accordi con gli instabili governi locali. A questa nuova corsa all’oro è partito ora anche il Venezuela.
Gli impianti idroelettrici garantirebbero il 70% del fabbisogno di elettricità ma sono fortemente condizionati dalle mutevoli precipitazioni, la cui recente prolungata carenza ha inasprito la crisi industriale. Gli impianti termoelettrici dovrebbero fornire quanto manca ma recentemente vi sono state prolungate interruzioni di energia elettrica nel settore privato.
Oltre al comparto petrolchimico sono presenti impianti siderurgici e metallurgici, di montaggio di autoveicoli e 3 cementifici. A Moron c’è un impianto per la produzione di fertilizzanti azotati. Sono presenti vetrerie, cartiere, cotonifici e fabbriche di filati sintetici.
Ma l’insieme della produzione manifatturiera, non legata al petrolio, non copre il fabbisogno interno per cui la composizione delle esportazioni al 2013 indica: carburanti 97,7%; manufatti 1,8%; minerali e metalli 0,4%; prodotti alimentari:0,04%.
Il settore terziario con il 66,5% della forza lavoro contribuisce al 55,3% del PIL. Il turismo nel 2016 ha registrato 601mila ingressi con entrate per 546 milioni di dollari.
La bilancia dei pagamenti
Le principali esportazioni nel 2013 erano destinate agli Stati Uniti con 550 milioni di dollari, seguite dalla Cina con 248 milioni, la Colombia con 234 milioni, i Paesi Bassi con 189. Più in basso nella graduatoria di 21 paesi troviamo l’Italia con 34,1 milioni, la Germania con 20 milioni e la Francia con 13,2 milioni. Ultimo il Giappone con 1,1 milioni di dollari.
Le importazioni sempre del 2013 sono dagli Stati uniti per 10.757 milioni di dollari, dalla Cina con 7.758 milioni, dal Brasile con 4.613 milioni, dal Messico con 2.302 milioni, e più oltre dalla Germania per 1.321 milioni, dall’Italia per 1.153 milioni, dalla Francia per 577 milioni e dal Giappone per 456 milioni di dollari.
È chiaro che il Paese importa molto più di quanto esporti e il disavanzo si trasforma in debiti crescenti, con relativi interessi. L’andamento delle esportazioni è fortemente segnato dalla quotazione del greggio e del dollaro americano che ne regola il commercio internazionale.
Esportazioni milioni di dollari |
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2008 | 95.021 | 2013 | 88.753 | |
2009 | 57.603 | 2014 | 74.714 | |
2010 | 65.745 | 2015 | 37.309 | |
2011 | 92.811 | 2016 | 26.700 | |
2012 | 97.350 | 2017 | 31.600 |
Dall’inizio della crisi del 2008 le esportazioni si riducono fortemente nel 2009, nel 2010, nel 2011 e nel 2012 crescono. Poi nel 2013 inizia la caduta fino al 2016, per risalire debolmente nel 2017.
In particolare nel 2017 il petrolio greggio assicurava 24.689 milioni di dollari Usa più altri 3.415 milioni di dollari di derivati del petrolio, ovvero i ricavi si sono ridotti di circa 4 volte esasperando la posizione debitoria del Paese.
La Cina è la maggior creditrice del Venezuela con una linea di credito di 50 miliardi di dollari. Maduro a Pechino nel 2016 ha ricevuto altri 5 miliardi di prestiti firmando ben 20 accordi commerciali. In cambio la Cina ha preteso 800mila barili di petrolio al giorno.
Sempre nel 2016, nella continua ricerca di prestiti, Maduro ha trasferito alla russa Rosneft il 49,9% di una sussidiaria americana della PDVSA dietro il modesto prestito di 1,5 miliardi di dollari e ha aperto a compagnie russe l’estrazione di minerali preziosi e strategici ambìti anche da Cina e Usa.
Le difficoltà nel petrolio
Per comprendere meglio dove va a finire quell’impetuoso fiume carsico di dollari occorre prendere in considerazione due aspetti dell’ ingarbugliata questione: il blocco economico americano, col conseguente embargo sul petrolio venezuelano, e le questioni interne legate alle recenti vicende della PDVSA, gravata da 13 miliardi di dollari di debito e che non riesce a garantirne l’estrazione per l’inadeguata manutenzione degli impianti.
Infatti la maggior parte degli apparati estrattivi venezuelani sono vecchi e di vecchia concezione e necessitano quindi di specifici accorgimenti per poter continuare a pompare, o di esser sostituiti per estrarre a maggiori profondità. Questo richiede continui onerosi investimenti, che sarebbero possibili vista la grande produzione.
I dati forniti dalla PDVSA, nonostante discordino molto da quelli dell’Opec, dichiarano un potenziale produttivo teorico, non continuativo, di 2,5 milioni di barili al giorno. Ma già prima di Chavez si producevano oltre 3 milioni di barili, con 45mila dipendenti, mentre lo scorso anno se ne sono estratti la metà con il triplo di dipendenti.
La nazionalizzazione del petrolio venezuelano risale al 1976; fu subito gestito dalla PDVSA che ben presto divenne uno Stato nello Stato per il suo forte potere economico e le varie clientele che se ne spartivano il controllo. Con l’affermarsi del regime bolivarista nel 1999 la corruzione e la già pessima organizzazione e la gestione peggiorarono ulteriormente divenendo il solito carrozzone di inutili assunzioni per facili consensi politici, pratica ben nota in tutti i capitalismi parassitari.
Nel dicembre 2002, molti manager e ingegneri dipendenti della PDVSA organizzarono uno strano “sciopero-serrata”, sostenuti dal sindacato di centro CTV, impedendo l’accesso agli impianti e ai pozzi, per premere sul presidente Chavez e indurlo ad istituire nuove elezioni al di là delle condizioni poste dalla nuova costituzione. La produzione di petrolio cessò completamente per due mesi. In più l’accesso al sistema informatico della società, gestito da una ditta americana, il cui personale aveva aderito in blocco allo “sciopero”, fu fortemente limitato. In seguito ripreso il controllo della situazione, riparati i vari danni tecnici e informatici, furono licenziati in tronco 19mila impiegati sostituiti da tecnici provenienti dall’esercito e da rami del governo. L’azione produsse un vistoso danno macroeconomico spingendo la disoccupazione al 20% nel 2003. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) chiese l’apertura di un’inchiesta sui casi di detenzione e tortura dei lavoratori.
Si rafforzò nella PDVSA la gestione chavista, anche con azioni volte a mostrare il suo lato “buono”. Nel 2005 inviò in Argentina 50 milioni di tonnellate di olio combustibile per sopperire una momentanea crisi energetica. Sempre nel 2005, tramite una sua sussidiaria americana, fornì gasolio per riscaldamento per le famiglie a basso reddito di Boston con uno sconto del 40% sul prezzo di mercato. Analoghe forniture per altri 50 milioni di galloni di olio da riscaldamento furono venduti sotto costo a vari Stati e città del Nord‑Est americane, tra cui il Bronx a New York.
Ma si estendeva una generalizzata corruzione che ora, a comando, emerge. Un ex dirigente di una banca svizzera nel 2016 si è dichiarato colpevole di aver dato vita nel 2014 ad un sistema illecito di trasferimento e riciclaggio di fondi della PDVSA a favore dell’esteso clan Maduro per 600 milioni di dollari, che negli anni successivi ha raggiunto 1,2 miliardi sottratti alla Compagnia. Queste tardive conversioni morali, e non solo del tipo svizzero, destano qualche sospetto ma sta di fatto che si moltiplicano gli arresti di funzionari a tutti i livelli e in molti impianti per episodi di corruzione e di sottrazione di fondi e materie prime. Emergono ora anche conti svizzeri sui quali il defunto presidente Chavez aveva accumulato un tesoretto frutto di tangenti ed altri sistemi poco legali. Ma questo non ci sorprende né ci turba: è una prassi congenita di questo putrido imperialismo.
L’intervento statunitense
L’attacco combinato americano al petrolio del Venezuela e al suo regime politico è iniziato decenni fa; oggi si è solo ingigantito.
Ma ha anche risvolti negativi per l’economia degli Usa visti i bassi prezzi del petrolio pesante venezuelano che importa.
In ballo ci sarebbe il tentativo di un paese esportatore, qui il Venezuela, di sganciarsi dal dollaro per regolare la vendita delle sue merci. Ad oggi il dollaro rappresenta tra il 40 e il 60% delle transazioni mondiali. La continua richiesta di dollari ha portato all’emissione, dopo l’eliminazione degli accordi di Bretton Woods, di una massa di biglietti verdi pari ad oltre 7 volte le reali riserve americane, forse ancora di più considerando la crescita del volume degli affari internazionali. È il caso di dire che anche questa moneta è solo carta, ma è garantita e difesa da un immenso apparato militare. La questione non è nuova, ricordiamo l’Irak di Saddam Hussein, la Libia di Gheddafi e l’Iran. Ma anche Cina e India, Russia e Turchia, che insieme rappresentano circa il 60% del Pil mondiale e 4 miliardi di abitanti, stanno cercando di svincolarsi dal dollaro nelle loro transazioni commerciali eliminando così una sottomissione economica al capitale americano, che approfitta delle relative commissioni di cambio, che su quei volumi di transazioni sono cifre notevoli.
Il blocco totale imposto al Venezuela lo esclude da ogni traffico commerciale e finanziario sul mercato mondiale, ancor peggiore di quello imposto a Cuba negli anni passati. Poiché la sua moneta nazionale non è accettata da nessun paese, sarebbero possibili solo transazioni in oro o in petrolio. Ma la maggior parte delle riserve auree dello Stato furono depositate da Chavez, durante il periodo di vacche grasse, nella Bank of England, con una clausola capestro che dava facoltà alla banca londinese di rifiutare il ritorno di circa 2 miliardi di dollari a sua completa discrezione in caso di instabilità politica e sociale, cosa che ha recentemente comunicato e fatto.
È di questi giorni la notizia che alcune petroliere, cariche con 8,6 milioni di barili di greggio del valore di circa mezzo miliardo di dollari, sono ferme lungo le coste venezuelane in attesa di trovare un compratore dopo il blocco americano. Cina e India ne hanno approfittato. L’India dalla prima metà di febbraio importa 620mila barili al giorno su un totale di petrolio estratto di 1,12 milioni. PDVSA ha dovuto però rallentare sensibilmente l’estrazione per mancanza di depositi in cui stoccare il greggio.
Nel tentativo di svincolarsi dal blocco, il governo del Venezuela ha creato il Petro, una criptovaluta garantita dai giacimenti di petrolio, gas, oro e diamanti di cui è ricco il Paese, ma Trump ha subito vietato ogni transazione in Petro negli Usa, come pure quelle in oro. L’Unione Europea sta tentennando e al momento ha solo e ipocritamente rinnovato l’embargo sulle forniture militari, accusando il governo di Maduro di violazione dei “diritti umani”. In realtà i vari imperialismi non si interessano affatto delle condizioni di vita dei venezuelani.
Il blocco con il bolivar venezuelano sta quindi funzionando. Ma che cosa succederà con il renminbi cinese?
Abbiamo già scritto su queste colonne che per noi antipopulismo e antifascismo sono forme diverse di populismo e di fascismo.
Tutto serve a demonizzare chi odia la società del denaro, dei rapporti mercantili, la galera del lavoro a salario, l’alienazione generalizzata della specie umana sotto il dominio del capitale.
Le contorsioni di chi pretende di combattere le mortifere infezioni dell’antisemitismo e del razzismo, difendendo nello stesso tempo il capitalismo, sono destinate a sostenere l’antisemitismo, il razzismo e il capitalismo, apportando a loro favore inconsistenti argomenti, purtuttavia capaci di sedurre le deboli menti dei piccolo-borghesi rimbecilliti dalla ben orchestrata propaganda dello Stato grande-borghese.
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Cento anni fa, nel marzo del 1919 in Ungheria il proletariato proclamava la Repubblica Sovietica, la dittatura del proletariato, il potere statale della classe operaia. A dirigerla vi erano i comunisti, per lo più ex prigionieri di guerra in Russia, che avevano combattuto a fianco dei bolscevichi nella Rivoluzione del ’17.
In Ungheria, alla fine della guerra, la classe operaia, organizzata e ribelle, appoggiata dai contadini poveri, durante la fase borghese della rivoluzione, aveva rovesciato la monarchia. Ma aveva rinunciato al potere perché la sua coscienza di classe non era ancora sufficientemente sviluppata per prendere il potere da sola.
Ma, forte di una grande energia sovversiva, il proletariato ungherese si andava avvicinando al suo giovane Partito comunista e alle sue adeguate e nette parole d’ordine del potere sovietico e dell’insurrezione armata. Queste trovavano terreno fertile e presto si radicavano fra gli operai.
In seguito alla sconfitta nella guerra e alla disgregazione delle forze armate l’agitazione e l’attività organizzatrice del PCU invitarono all’armamento degli operai. La crisi precipitava. In breve gli operai dell’industria occuparono con le armi in pugno le fabbriche e le grandi proprietà agricole, cacciandone i proprietari.
Ma nella maggior parte dei casi quelle armi non spararono: la borghesia aveva cercato protezione e salvezza dalla rivoluzione nel Partito Socialdemocratico Ungherese, ma questo, non avendo il controllo delle masse, non poté svolgere apertamente la infame parte di Noske.
I socialdemocratici, reggicoda della vigliacca borghesia al potere, finsero di venire a patti con il Partito Comunista Ungherese, mostrando di accettarne il programma.
Solo quattro mesi prima, il 1° novembre 1918, quando ormai era palese il crollo dell’Impero Austro-Ungherese, i ministri designati dal PSDU, Kunfi e Böhm, nella nuova coalizione “democratica” del governo borghese, avevano giurato fedeltà nelle mani dell’arciduca Giuseppe, governo che, per conquistarsi l’appoggio dell’Intesa vittoriosa, aveva acconsentito che l’Ungheria servisse da base militare per l’intervento armato contro la Russia sovietica da parte dell’Intesa.
Kunfi nel suo discorso al giuramento aveva dichiarato: «È un pesante compito, a me convinto socialdemocratico, quello che mi tocca, dire, ma tuttavia lo dico, che noi non vogliamo agire col metodo dell’odio di classe e della lotta di classe. Noi rivolgiamo appello a tutti affinché, eliminando gli interessi di classe, mettendo in seconda linea le vedute confessionali, ci vogliano aiutare nel grande compito».
Lo stesso Kunfi, con la rivoluzione che premeva, a marzo 1919 si presentava assieme agli altri socialtraditori nelle carceri dove erano imprigionati i comunisti, perseguitati dal loro governo, per simulare di accettare il programma del Partito Comunista, che prevedeva la dittatura del proletariato.
Tuttavia in Ungheria la rivoluzione vince. La classe operaia armata, diretta di fatto dal solo partito comunista, prende tutto il potere nelle sue mani. La borghesia cede il potere senza che sia necessario versare una goccia di sangue.
Al posto dei ministri del governo, dimissionario, sono nominati dei Commissari del Popolo. Il 21 marzo si costituisce il Consiglio governativo rivoluzionario, che dichiara subito la Repubblica dei Consigli e dà esecuzione con la massima energia al programma politico ed economico immediato del proletariato.
In breve tempo svolse un complesso potente, profondo ed esteso lavoro di espropriazione e riorganizzazione economica.
Distruzione immediata degli organi di rappresentanza politica della borghesia.
Quindi si iniziò subito alla istituzione degli organi per il controllo della produzione e della distribuzione, iniziando dalle grandi fabbriche e dalle banche.
Furono presi subito provvedimenti a difesa della classe operaia: giornata lavorativa di 8 ore, 6 per i giovani, unificazione dei salari, ferie pagate. Ville padronali assegnate ai Consigli contadini e nazionalizzazione delle terre. Per mezzo dell’espropriazione delle case in affitto decine di migliaia di operai e di famiglie proletarie ottennero abitazioni adeguate. Nei palazzi aristocratici furono ospitati asili per lavoratori invalidi e anziani e nelle dimore di lusso sul lago Balaton alloggiati migliaia di bambini malati o abbandonati.
Requisizioni energiche di alimenti si fecero dove i contadini ricchi avevano organizzato controrivoluzioni armate, le quali, sempre più frequenti, erano facilmente represse.
Ma i rapporti di forza fra i due partiti, comunista e socialdemocratico, sono nettamente a favore del secondo, che si commette l’errore di non escludere dal potere, a cui vanno la presidenza del Consiglio di Governo (Sándor Garbai) e ben undici sui tredici Commissariati istituiti; ai comunisti solo due Commissariati: quello degli Esteri (Béla Kun) e quello dell’Agricoltura (Károly Vántus) e la carica di vice-commissari.
Presto si palesa il ruolo dei socialdemocratici, che svelano il loro vero volto di traditori e stampelle della borghesia contro il potere dei Soviet. I borghesi espropriati, l’aristocrazia e il pretume tramano per la controrivoluzione e si armano contro la Repubblica dei Soviet. Le forze dell’Intesa accerchiano militarmente l’Ungheria e la invadono. I predoni imperialisti radunati a Versailles con il blocco economico ne decretano la morte per fame.
I socialdemocratici adottano una politica vacillante e debole contro le classi aristocratiche e borghesi. Col pretesto di doversi ritenere la religione una questione privata, impediscono il disciplinamento del clero, tanto che i preti nei villaggi possono eccitare indisturbati i contadini ad affamare le città e alla controrivoluzione. Gli aristocratici, gli ufficiali ed ogni borghese di sentimento reazionario si aggirano liberi per il paese perché il Commissario alla giustizia, un socialdemocratico, si oppone ad ogni offesa della “libertà personale”.
In conseguenza dell’applicazione “moderata” della dittatura imposta dai socialdemocratici, gli elementi avidi della borghesia e soprattutto della piccola borghesia s’infiltrano nelle istituzioni sovietiche. I socialdemocratici trovano troppo radicali anche le disposizioni economiche e le sabotano dove è loro possibile, grazie anche alla massa di ex impiegati di Stato e di parassiti borghesi, lasciati nell’apparato dell’amministrazione per “ragioni umanitarie”. Provvedere di viveri la capitale diviene sempre più difficoltoso. Le superstizioni dell’ideologia democratica impediscono l’applicazione dei provvedimenti decisi contro il contadiname renitente.
I socialdemocratici di destra e di centro tramano dall’interno per l’indebolimento della Repubblica dei Consigli e per il suo rovesciamento. Convocano riunioni segrete, spesso si recano a Vienna per trattare con le autorità socialdemocratiche austriache e con i diplomatici degli Stati dell’Intesa.
Sia Lenin sia Béla Kun ammetteranno poi che l’alleanza con la socialdemocrazia fu un errore.
Il 24 giugno con alcuni navi fluviali corazzate sul Danubio circa 300 allievi ufficiali dell’ex-Accademia militare tentarono di prendere Budapest, e cominciarono a cannoneggiare l’Hotel Hungaria, quartier generale del governo dei Consigli. La ribellione, preparata in grande stile con l’aiuto delle Missioni dell’Intesa, venne facilmente respinta. Ma la debole ritorsione ebbe per conseguenza una recrudescenza dell’agitazione controrivoluzionaria, specialmente in provincia: il Consiglio governante graziò i 300 allievi ufficiali ribelli; condannò a morte i tredici organizzatori della rivolta, ma anche questi furono graziati per l’intromissione delle Missioni.
Ma la rivoluzione ungherese, isolata ed accerchiata da ogni lato, non poteva resistere.
Ad agosto l’esercito romeno entrava a Budapest e occupava militarmente l’Ungheria. Tutti i provvedimenti economici della dittatura furono revocati.
Siccome la borghesia voleva vendicarsi e, come da sua tradizione, in maniera cruenta ed esemplare. In poche settimane la controrivoluzione trasformò l’Ungheria in un cimitero di proletari. Assassinarono decine di migliaia dei loro migliori, ne stiparono altrettante decine di migliaia nelle carceri e in campi di internamento, per torturarli a morte con le bastonature e la fame.
I fatti la dicono lunga su quanto sia capace di perpetrare la borghesia per ripristinare il suo dominio. Di contro la dittatura del proletariato, accusata dai borghesi di orrori infiniti, in quattro mesi non aveva che causato poco più di duecento vittime, e il gran numero di queste si ebbe in scontri armati.
Lenin tira la lezione della sconfitta della dittatura del proletariato in
Ungheria.
«Una serie di articoli, nell’organo centrale del Partito comunista austriaco,
La
Bandiera Rossa (Die Rote Fahne, di Vienna), ha rivelato una delle cause
fondamentali di questo crollo [la caduta della dittatura del proletariato]: il
tradimento dei “socialisti”, che a parole sono passati dalla parte di Béla Kun e
si sono dichiarati comunisti, ma di fatto non hanno attuato una politica
corrispondente alla dittatura del proletariato, ma hanno tentennato, esitato,
sono ricorsi alla borghesia, e in parte hanno sabotato direttamente la
rivoluzione proletaria e l’hanno tradita.
«I briganti dell’imperialismo (cioè i governi dell’Inghilterra, della Francia
ecc.) che con la loro potenza mondiale avevano accerchiato la Repubblica
sovietica ungherese, schiacciano selvaggiamente, per mezzo dei carnefici romeni,
il governo sovietico ungherese approfittando naturalmente delle incertezze che
si verificano nel suo seno».
Lezione che sarà dal nostro partito nettamente formulata: la dittatura del
proletariato non potrà che coincidere con la dittatura esclusiva del partito
comunista. Scriveremo in “Dittatura proletaria e partito di classe”:
«Lo Stato proletario non può essere animato che da un solo partito, e non ha
alcun senso che vada oltre la congiuntura concreta la condizione ch’esso
organizzi nei suoi ranghi e riceva nelle “consultazioni popolari”, vecchia
trappola borghese, l’appoggio di una maggioranza statistica. Fra le possibilità
storiche c’è l’esistenza di partiti politici che sembrano composti di proletari
ma che subiscono l’influenza delle tradizioni controrivoluzionarie o dei
capitalismi esterni (...) Sarà anche questa una crisi da liquidare sul terreno
del rapporto di forza (...) Il partito comunista governerà solo, e non
abbandonerà mai il potere senza combattere materialmente».
Il tentativo rivoluzionario ungherese, come quello contemporaneo in Germania e come quello di mezzo secolo precedente della Comune di Parigi, finì in una sconfitta. Furono degli “assalti al cielo”, contro le forze preponderanti, scaltre e spietate dalla internazionale conservazione borghese. Non ne facciamo una questione di responsabilità di uomini ma di una immaturità storica oggettiva. La rivoluzione comunista di domani, grazie al loro sacrificio, procederà sicura e inflessibile alla definitiva vittoria ovunque della classe operaia.
La guerra fredda fra Stati Uniti e Iran compie un nuovo salto di qualità.
Dopo le sanzioni economiche imposte al paese mediorientale in seguito alla denuncia da parte americana dell’accordo sul nucleare, avvenuta nel maggio del 2018, sono arrivati altre due decisioni ricche di implicazioni nelle relazioni politiche globali.
Nelle scorse settimane era arrivato l’inserimento dei Pasdaran iraniani nella lista nera delle organizzazioni terroristiche; un atto di particolare rilevanza, alla luce dell’attività delle milizie sciite nel quadro della guerra siriana e della loro radicata presenza in Iraq.
Nei giorni scorsi poi è arrivata la decisione dell’amministrazione statunitense di non rinnovare le esenzioni alle sanzioni per le importazioni di greggio dall’Iran che dal maggio scorso, per la durata di 180 giorni, aveva “concesso” ad otto paesi: Cina, India, Giappone, Corea del Sud, Grecia, Italia, Turchia e Taiwan.
Interessante rilevare, di passata, come da parte italiana, il “sovranista” governo di Roma si fosse già adeguato in anticipo alle direttive statunitensi interrompendo le importazioni di greggio iraniano già da molti mesi. Una politica di estrema codardia se raffrontata all’atteggiamento dell’Eni guidata da Enrico Mattei che nel 1957 sottoscrisse un accordo con la National Iranian Oil Company che per lo sfruttamento del petrolio iraniano attribuiva al paese produttore il 75% degli utili, riservando all’ente energetico italiano il 25%, sfidando così le compagnie petrolifere anglo-americane, le famose Sette Sorelle, che imponevano la formula del 50%. Gli Stanlio ed Ollio al governo in Italia evidentemente non vogliono fare la fine di Mattei.
La rinnovata pressione statunitense sull’Iran, almeno nelle parole di Donald Trump, sarebbe finalizzata a un cambio di regime politico, prendendo di mira il regime teocratico della Repubblica Islamica in un momento in cui questo deve affrontare una difficile crisi economica e sociale.
Oltre all’alta inflazione e alla recessione l’Iran si trova alle prese con le conseguenze di un’ondata di catastrofiche alluvioni che nelle ultime settimane hanno investito una porzione consistente della popolazione e provocato oltre a mezzo milione di sfollati. Una calamità fronteggiata dal governo con mezzi insufficienti e con ritardi che non hanno fatto altro che accrescere il malcontento sociale, segnato, a partire dalla fine del 2017, da una certa ripresa delle lotte dei lavoratori e dagli scioperi.
Ma la borghesia internazionale manovra per spostare su obiettivi loro estranei il malcontento degli operai, sempre più stanchi di sopportare il continuo peggioramento delle loro condizioni: il cambiamento del regime politico nell’ambito della dominazione borghese e la contrapposizione tra laici e religiosi.
La fine dell’esenzione statunitense alle importazioni iraniane potrebbe provocare notevoli contraccolpi a livello internazionale. In primo luogo ci saranno effetti diretti sulle economie di Cina, India e Turchia che sono i principali importatori di petrolio iraniano. Ci si domanda come questi paesi reagiranno a un diktat americano che danneggia i loro interessi. La Cina dipende dal greggio iraniano per il 6% del suo fabbisogno (cioè mezzo milione di barili). Si dice che potrebbe pagare le sue importazioni in Renminbi, rendendo così più opache le transazioni. Ma dovrebbe comunque fare i conti con le pressioni imposte dalla trattativa con gli Usa sui dazi: mantenere lo sbocco delle sue merci sul mercato Usa potrebbe valere la pena di scontare un rallentamento delle sue proiezioni di potenza in direzione del Golfo Persico nell’ambito della Belt and Road Initiative.
In quanto all’India è difficile aspettarsi che rinunci a importare petrolio da un paese col quale vanta buone relazioni economiche e politiche. Incognita ulteriore riguarda la Turchia, paese che ha rivelato la sua ambiguità, tramutandosi nell’anello debole della Nato, grazie al ritrovato rapporto interlocutorio con la Russia, il quale, nonostante le divergenze sul dossier siriano, con l’Iran ha mantenuto solidi rapporti commerciali e relazioni politiche di buon vicinato.
Anche sulla guerra attualmente in corso in Libia, la Turchia, che appoggia le milizie di Misurata e dunque il governo di Tripoli guidato da al‑Sarraj, si trova schierata contro l’Arabia Saudita, arcinemico regionale dell’Iran, che appoggia le forze cirenaiche del feldmaresciallo Haftar che assediano la capitale libica.
Ma anche su scala mondiale le ripercussioni potrebbero essere assai gravi: se non compensata da un aumento tempestivo della produzione in altri paesi, il calo dell’estrazione di greggio iraniano potrebbe tramutarsi in un rincaro dei prezzi del barile tale da rallentare ulteriormente la già stentata crescita dell’economia globale.
Ma questo aspetto non preoccupa il governo americano: la penuria di greggio e il conseguente rincaro dei prezzi assicura maggiori margini di guadagno allo sfruttamento del gas di scisto, i cui costi di estrazione sono anche quindici volte maggiori di quelli del greggio provenienti dai pozzi tradizionali nel Golfo Persico. Se la crescita economica degli Stati Uniti è la più rilevante in termini di Pil fra i paesi di più antica industrializzazione, questo non si deve tanto al recupero della produzione manifatturiera, ma in gran parte alla rendita petrolifera, sortilegio indecifrabile per l’ideologia dominante a giustificazione di quello che Marx chiamava “mondo stregato, deformato e capovolto in cui si aggirano i fantasmi di Monsieur le Capital e Madame la Terre”.
L’8 marzo è iniziata una delle peggiori carenze nella distribuzione dell’acqua nelle Filippine, colpendo 6,8 milioni di abitanti nella sola città di Manila. Manila Water Corporation, l’azienda che rifornisce la capitale, ha informato i residenti della necessità di imminenti restrizioni al fine di conservare l’acqua per la stagione secca provocata da El Nino. L’ha motivato con i bassi livelli dell’acqua nel bacino della diga di La Mesa, una delle due principali, l’altra è la diga di Angit, che sarebbero insufficienti a fornire acqua a gran parte della città.
La distribuzione sarà così limitata a determinate ore del giorno, a rotazione nei diversi quartieri.
Ma l’avviso è stato dato solo con poche ore di preavviso. Nelle ultime settimane nel quartiere Mandaluyong, per esempio, l’acqua è stata tagliata per due settimane consecutive senza alcuna previsione di quando sarebbe stata ripristinata: i residenti sono stati costretti a raccogliere acqua dalle piscine della zona o attingerla dai camion dei pompieri appositamente inviati; ma i serbatoi di questi camion possono contenere sostanze chimiche ignifughe che rendono l’acqua non potabile. Inoltre nei serbatoi già alla temperatura di 21° si formano delle muffe e le Filippine sono uno dei paesi tropicali più caldi al mondo, dove è comune superare i 38°.
Niente ha fatto la Manila Water Corporation durante questa crisi per alleviare la situazione.
Ma la vera storia inizia a venir fuori. Intanto il motivo ufficiale addotto, l’eccezionalità di El Nino è smentita dalle misurazioni storiche: confrontati i dati di come El Nino ha influenzato le Filippine in oltre 35 anni risulta evidente che questi attuali non si avvicinano nemmeno agli eventi critici del 2015, quando non furono segnalate carenze d’acqua, nonostante livelli inferiori alla media sia a La Mesa sia ad Angit.
L’attuale livello dell’acqua nella diga di Angit è normale e nella diga di La Mesa, sebbene leggermente inferiore alla media, molto al di sopra della soglia critica. Il livello in entrambi i bacini è di gran lunga superiore a quello tra il 2015 e il 2016 durante la peggiore stagione di El Nino che ha colpito le Filippine da molti anni.
Fatto sta che questa carenza idrica arriva proprio nel momento in cui Manila Water Corporation sta invocando la necessità di ulteriori finanziamenti per numerosi progetti, fra i quali una nuova diga, la Kaliwa.
La diga di Kaliwa ha incontrato un’estrema resistenza da parte dei residenti del luogo, Infanta Quezon, la valle che verrebbe inondata.
La nuova diga, con un costo previsto di costruzione di 410 milioni di dollari, richiederebbe un investimento proveniente dalla Cina nell’ambito del loro dogma “costruisci, costruisci e ancora costruisci” e sarebbe appaltata alla società giapponese Global Utility Development. Il progetto richiederebbe inoltre un ampio finanziamento pubblico.
La Manila Water Corporation sta così provocando una fittizia penuria d’acqua per assicurarsi il sostegno del popolo filippino e fargli accettare maggiori tasse. Come sempre il regime “di emergenza” giova al capitale e allo sbrigativo finanziamento dei suoi folli progetti, distruttivi più che costruttivi.
Ne subiscono le conseguenza i poveracci, costretti al razionamento in lunghe file per ore mentre si avvicinano i giorni più caldi dell’anno. Nell’attuale regime, inevitabilmente corrotto, diventa sempre più difficile per i lavoratori sopravvivere in una società impoverita ed in balia dei folli interessi del capitale la cui unica legge è l’interesse aziendale.
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Giacobino e sostenitore di Robespierre fino all’ultimo fu Saint‑Just, di origine plebea, nato nel Bourbonnais nel 1767 da un militare di carriera dell’esercito. Ma vive in una famiglia agiata, studia presso gli Oratoriani e si laurea in legge nel 1788. Il 3 giugno 1790 è nominato colonnello della guardia nazionale di Blérancourt.
Il 19 agosto dello stesso anno scrive a Robespierre: «Io non vi conosco ma voi siete un grande uomo; non siete solo il deputato di una provincia, siete il deputato dell’umanità e della repubblica».
Il 5 novembre 1792 era stato eletto alla Convenzione, all’età di 25 anni. Il 13 parla alla Convenzione per chiedere l’esecuzione del re come nemico pubblico. In un discorso alla Convenzione dello stesso mese sostiene la libertà di commercio. Nel febbraio 1793 sostiene la necessità di sottrarre l’esercito alla direzione dell’esecutivo in favore della Convenzione, che esprime la sovranità popolare. Il 30 maggio entra a far parte del Comitato di Salute Pubblica
Il 10 ottobre presenta alla Convenzione, a nome del Comitato di Salute Pubblica, il “Rapporto sulla necessità di dichiarare il governo rivoluzionario fino alla pace”. Tale centralizzazione della direzione rivoluzionaria era indispensabile per salvare la repubblica, come già detto minacciata dalla Vandea, dall’insurrezione federalista e dagli eserciti di Coblenza. Era indispensabile anche per l’applicazione, molto problematica, del maximum dei prezzi e dei salari.
Leggiamo: «La repubblica sarà fondata soltanto quando la volontà del popolo sovrano comprimerà la minoranza monarchica, e regnerà su di essa per diritto di conquista (...) Tra il popolo e i suoi nemici non c’è più niente in comune fuorché la spada. Bisogna governare col ferro coloro che non possono essere governati con la giustizia; bisogna opprimere i tiranni (...) Nella situazione in cui si trova la repubblica, la Costituzione non può essere applicata; si distruggerebbe da se stessa. Diverrebbe la garanzia degli attentati contro la libertà perché sarebbe priva della forza necessaria per reprimerli (...) È certo che nelle rivoluzioni (...) il nuovo governo si afferma con difficoltà, e solo con fatica può formare i suoi piani e i suoi principi; esso resta a lungo senza risoluzioni ben decise: la libertà ha la sua infanzia; non si osa governare né con vigore né con debolezza, perché la libertà viene attraverso una salutare anarchia e la schiavitù viene spesso insieme all’ordine assoluto».
Le misure di governo approvate erano disposte in 14 articoli. Leggiamo i primi due: «Art. 1 – Il governo provvisorio della Francia è rivoluzionario fino alla pace. Art. 2 – Il Consiglio esecutivo provvisorio, i ministri, i generali, i corpi costituiti sono posti sotto la sorveglianza del Comitato di Salute Pubblica, che renderà conto ogni otto giorni alla Convenzione».
Dal “Rapporto sulle persone incarcerate” del 26 febbraio 1794 (8 ventoso) leggiamo: «Ciò che costituisce una repubblica è la distruzione totale di quanto le è contrario. Ci si lamenta delle misure rivoluzionarie! Ma noi siamo dei moderati in confronto a tutti gli altri governi (...) In realtà la forza delle cose ci conduce forse a risultati ai quali non avevamo pensato (...) Quelli che fanno le rivoluzioni a metà non fanno che scavarsi la fossa».
Dai decreti di ventoso leggiamo: «Art. 2. Le proprietà dei patrioti sono inviolabili e sacre. I beni delle persone riconosciute nemiche della rivoluzione saranno sequestrati a profitto della repubblica: queste persone resteranno detenute fino alla pace e poi esiliate per sempre».
Da un suo rapporto del 15 aprile 1794: «Una rivoluzione come la nostra non è un processo, bensì un colpo di tuono su tutti i perversi. Non si tratta più di dar loro lezioni: bisogna reprimerli e annientarli».
L’organizzazione del Terrore viene ora centralizzata e i tribunali rivoluzionari dei dipartimenti soppressi a vantaggio di quello di Parigi. Dopo questa data Saint‑Just viene inviato dal Comitato di Salute Pubblica in missione presso la armate del Nord, da cui tornò, a parte un breve intervallo, dopo la vittoria di Fleurus, il 26 giugno.
Il 9 termidoro tentò di pronunciare un discorso alla Convenzione, ma venne interrotto. Rimase quindi in silenzio, come anche il giorno successivo sulla ghigliottina.
Se è vero che il solo Marat ha teorizzato apertamente la dittatura rivoluzionaria, è innegabile che Robespierre, Saint‑Just e gli altri giacobini l’abbiano anch’essi teorizzata e soprattutto praticata. L’hanno vista nascere sotto i loro occhi prima ancora di comprenderla. La loro teorizzazione non poteva che essere parziale e contraddittoria, dato che non esisteva ancora il soggetto di tale dittatura, cioè il partito rivoluzionario. Il club dei giacobini aveva soltanto alcuni degli aspetti di un moderno partito, e sicuramente non possiamo definirlo tale.
I limiti dell’ideologia giacobina erano i limiti dello sviluppo economico, dei rapporti di produzione e dei rapporti di classe della Francia e del mondo di allora.
Scrive Marx ne “La Sacra famiglia”: «Robespierre, Saint‑Just e il loro partito caddero perché scambiarono l’antica comunità realisticamente democratica, che poggiava sulla schiavitù reale, col moderno Stato rappresentativo spiritualmente democratico, che poggia sulla schiavitù emancipata, sulla società civile. Che colossale illusione dover riconoscere e sanzionare nei diritti dell’uomo la moderna società civile, la società dell’industria, della concorrenza universale, degli interessi privati che perseguono liberamente i loro fini, la società dell’anarchia, dell’individualità naturale e spirituale estraniata a se stessa, e al tempo stesso voler poi annullare le manifestazioni vitali di questa società nel singolo individuo, modellare il vertice politico di questa società alla maniera antica».
9. La Cresta, Germinale e Pratile
Lo storico russo Evgheni V. Tarlé nel 1937 pubblicò “Germinale e Pratile”, opera basata su un’ampia documentazione e che, nonostante i molti anni trascorsi, resta forse la migliore sui fatti del 1795: su questa si basa in gran parte questo capitolo.
Tarlé parla dei “termidoriani di sinistra”, termine con cui indica dei nemici di Robespierre, autori insieme ad altri della sua caduta, ma non assimilabili ai controrivoluzionari.
Scrive Tarlé: « “I termidoriani di sinistra, che i contemporanei distinsero con la qualifica di “La Crete” (cresta, sommità), simpatizzarono e cooperarono con quanti vollero la rovina di Robespierre, considerato “tiranno”, “Catilina” e via dicendo. Ma mano a mano compresero il vero significato di quanto era avvenuto si allontanarono da coloro che avevano organizzato e diretto la tragedia termidoriana».
Engels, in un articolo titolato “La festa dei popoli a Londra”, rende omaggio a questi ultimi montagnardi: «Devo ancora menzionare gli eroici deputati Romme, Soubrany, Duroy, Duquesnoy e i loro compagni condannati a morte dai traditori aristocratici della Convenzione; essi, in presenza dei loro assassini e a loro dispetto, si tolsero la vita con un solo pugnale, passandoselo di mano in mano».
Questi ultimi montagnardi erano convinti che con il 9 termidoro la lotta non fosse ancora finita, ma con la chiusura del club dei giacobini alla fine del 1794 perdevano i contatti con quegli strati di piccola borghesia rivoluzionaria che essi rappresentavano. Della Cresta faceva parte il convenzionale Levasseur de la Sarthe che nelle sue memorie scrive che egli e i suoi compagni volevano l’insurrezione e si preparavano a guidarla una volta scoppiata ma non la preparavano e non la organizzavano.
Scrive Tarlé che né a Romme né agli altri venne in mente di formulare un qualsiasi programma economico suscettibile di attrarre i sobborghi. Secondo Levasseur il solo Goujon aveva qualche contatto con i sobborghi e forse anche tentò di dare una qualche direzione all’insurrezione, il che conferma il fatto che i membri della Cresta fossero presi del tutto alla sprovvista, e che fossero sconosciuti a quelle plebi urbane delle quali avrebbero dovuto essere i capi.
Scrive Tarlé: «Nel Germinale e nel Pratile 1795 vi erano, nella Cresta della Convenzione, uomini di forte tempra, atti a essere dei capi; e nei sobborghi Antoine e Marceau, nel rione del Temple e in rue Mouffetard vi erano masse pronte a decise azioni rivoluzionarie. Ma questi capi e queste masse non si conoscevano, non si capivano e non si incontrarono».
Il 12 germinale alcune sezioni popolari, la prima delle quali era situata nel Faubourg Saint Antoine, andarono alla Convenzione per presentare una petizione che chiedeva «Pane, ristabilimento della Costituzione del 1793 e liberazione dei patrioti arrestati il 9 termidoro». I termidoriani temettero il peggio ma il tutto si risolse in un nulla di fatto e il giorno dopo poterono cominciare gli arresti e le deportazioni. La “gioventù dorata” e i moscardini in genere, sorta di squadracce al servizio della reazione che affiancavano l’esercito ligio alle direttive della Convenzione termidoriana, cominciano la caccia ai giacobini e agli operai per poi arrivare anche ai termidoriani considerati troppo moderati nella repressione. Jullian, uno dei capi della “gioventù dorata” scriverà in seguito: «la nostra causa era quella di tutti i proprietari, di tutta la gente dabbene.”
«Mentre facevano arrestare i montagnardi della Cresta, la maggioranza vittoriosa della Convenzione e i comitati governativi si accinsero a un altro compito, per essi ancor più vitale: il disarmo dei cittadini sospetti e la consegna di armi a quelli fidati (...) Veniva disarmata la parte indigente e proletaria della popolazione e venivano armati i possidenti (...) Questa consegna di armi “ai degni di fiducia” dimostra quanto fosse avanzata la coscienza di classe delle forze impegnate nella lotta»
Tale disarmo nel mese di germinale era solo iniziato. Il 1° pratile e i giorni seguenti si ebbe un altro tentativo insurrezionale.
Il termidoriano Thibaudeau scriverà poi di tre categorie di persone accorse in aiuto alla Convenzione: «Onesti repubblicani, per amore della libertà; gente che aveva qualcosa da perdere, per tema del saccheggio; e realisti... per salvare le loro teste».
Il membro della Convenzione Rovère scrive in una sua lettera: «La Convenzione non aveva mai corso un pericolo così grande come nei giorni di pratile. Essa fu salvata dai “buoni cittadini, scelti uno per uno in ogni sezione” e chiamati in sua difesa».
Al riguardo scrive Tarlé: «Se le sezioni fossero state mobilitate in massa tutto sarebbe stato perduto, poiché dovunque predominavano gli “scellerati”, mentre la gente per bene si vergognava di mischiarsi con essi. “Fortunatamente” questa circostanza non sfuggì all’attenzione della Convenzione. Fu dato l’allarme soltanto “ai buoni cittadini, che avevano un patrimonio” e che quindi avevano qualcosa da difendere».
Rovère parla di un esercito così costituito di 50.000 uomini insieme alle truppe di linea. In realtà sembra che fossero la metà, ma sempre sufficienti per l’opera di repressione.
«I membri del tribunale criminale del dipartimento dell’Hérault, in un indirizzo mandato alla Convenzione, promettono di inviare in suo aiuto intere “falangi di repubblicani-proprietari” (...) Ma la Convenzione non ebbe bisogno del loro aiuto: la lotta fu infatti decisa la sera del 4 pratile dalle forze dell’esercito regolare e delle sezioni borghesi della capitale».
Levasseur, che il 1° pratile si trovava in prigione, scrive che gli insorti si lamentavano dell’armamento molto insufficiente e dell’inesperienza dei capi, e parla di rivolta della “classe operaia” contro l’”aristocrazia borghese”. Secondo Levasseur c’era un embrione di organizzazione di “vari arditi giovani” che volevano restaurare “il dominio dei patrioti” e per questo si erano accostati ad alcuni deputati montagnardi. Goujon e Bourbotte avrebbero dovuto essere i capi dell’insurrezione avente per scopo il ristabilimento della Costituzione del 1793 e, fino alla sua instaurazione, la “dittatura di alcuni energici patrioti”. Per Levasseur la forza materiale era indubbiamente dalla parte del popolo, ma ad esso mancava una direzione unita, una giusta disciplina, ed esso fu vinto.
Vi fu sicuramente un comitato insurrezionale ma con risultati praticamente nulli. «Vi furono anche ripetuti tentativi di costituire, il 1° pratile, un nucleo insurrezionale organizzativo e strategico, ma essi non diedero alcun tangibile risultato».
Levasseur, Jullian e gli altri testimoni dei fatti sono concordi nel dire che per l’intera giornata del 1° pratile non vi fu alcuna direzione accentrata. Quando le plebi parigine, spinte dalla miseria feroce e dalla carestia, il 9 termidoro arrivarono alla Convenzione per chiedere pane, la Costituzione del 1793 e la liberazione degli arrestati, i deputati pensarono che fosse arrivata la loro ultima ora. Ancora Tarlé: «Per un certo tempo la Convenzione rimase in potere degli insorti. Ma essi persero varie ore in modo del tutto improduttivo dal punto di vista dei loro interessi. Fu proprio in questa circostanza che apparve evidente l’assenza di una meditata direzione centrale, l’assenza di capi idonei all’insurrezione».
Dalle deposizioni di Jullian alla commissione militare conosciamo gli interventi alla Convenzione dei deputati della Cresta, in accordo sostanziale con le richieste dei sanculotti lì penetrati. Romme chiese la liberazione dei patrioti arrestati dopo termidoro e dopo germinale, e la seduta in permanenza delle sezioni parigine. Goujon chiese l’istituzione di una commissione che sostituisse tutti i comitati. Duquesnoy propose l’abolizione del Comitato di Sicurezza Generale. Soubrany propose di costituire una commissione di 4 membri in sostituzione di tutte le altre, e in tale commissione furono eletti Duroy, Bourbotte, Prieur de la Marne e Duquesnoy. Bourbotte, esortando a non dimenticare le giornate del 12, 13 e 14 germinale, sosteneva l’indispensabilità dell’immediato cambiamento del potere esecutivo, come anche Soubrany che chiedeva l’immediata operatività della nuova commissione di 4 membri.
Ma Soubrany, Duquesnoy e Goujon solo a tarda sera proposero di arrestare i membri dei vecchi comitati, quando il momento favorevole agli insorti era passato. L’antigiacobino Louvet in un discorso alla Convenzione pronunciato il 14 pratile conferma che se gli insorti si fossero impadroniti dei Comitati di Salute Pubblica e di Sicurezza Generale tutto sarebbe finito e il centro del governo sarebbe stato distrutto. La pensava allo stesso modo il convinto giacobino Brutus Magnier, che si doleva che gli insorti non avessero immediatamente arrestato i membri dei comitati governativi, i capi termidoriani della Convenzione “e tutti gli assassini di Robespierre”. Anche il moscardino Jullian dirà poi che se gli insorti avessero avuto capi migliori ed avessero arrestato subito i membri dei comitati governativi “il governo sarebbe stato disperso e il Terrore ristabilito”.
Torniamo a Tarlé: «Il fatale e imperdonabile errore degli insorti fu in realtà quello di avere completamente obliato l’esistenza dei comitati governativi e specialmente del Comitato di Sicurezza Generale, che dirigeva l’organizzazione amministrativa e poliziesca della capitale. Quando, a sera, i montagnardi presero la parola e tentarono di costituire un nuovo potere nella forma di una commissione di 4 membri, era già tardi».
L’esercito, che si cercava di epurare dai popolani, e le sezioni borghesi di Parigi si trovavano a fronteggiare le sezioni popolari, il cui perno erano i sobborghi Antoine e Marceau. Particolarmente significative queste righe di Tarlé: «Un battaglione di una delle sezioni del sobborgo Antoine si avvicina con i cannoni alla Convenzione; un battaglione della sezione borghese dei Campi Elisi prende posizione di fronte ad esso, in difesa della Convenzione. Ben presto si radunano cittadini di altre sezioni borghesi e si avviano verso il punto strategico loro indicato, per impedire il congiungimento dei distaccamenti dei sobborghi Marceau e Antoine. Mai forse, durante l’intero corso della rivoluzione, si posero militarmente gli uni contro gli altri, non in senso figurato, ma nel significato letterale della parola, i possidenti e i non possidenti, la borghesia e la massa plebea, e mai ciò venne riconosciuto in modo così preciso e inequivocabile dai testimoni e dai protagonisti».
Il 2 pratile l’esito era ancora incerto, anche per il passaggio agli insorti di interi battaglioni della Guardia Nazionale dei sobborghi, come anche di una parte degli artiglieri al grido “non vogliamo sparare sui nostri fratelli”.
Il 3 pratile gli insorti si indebolivano a mano a mano per la propria inattività, mentre la Convenzione al contrario si andava rafforzando, anche per l’arrivo da fuori città delle truppe chiamate nei giorni precedenti. Levasseur de la Sarthe dice il vero quando afferma che il 2 e il 3 pratile si susseguivano gli scontri tra i battaglioni della Guardia Nazionale delle sezioni centrali e i battaglioni dei sobborghi, tra la borghesia e le masse plebee, e che queste ultime ebbero il sopravvento. Il 3 pratile «gli insorti furono quasi padroni di Parigi», al loro apparire la guardia «delle sezioni termidoriane» si dava alla fuga; vi furono ore in cui i loro cannoni minacciarono di nuovo la Convenzione. Ma non c’erano capi, continua Levasseur, non c’era organizzazione, non vi era un piano lungimirante, adatto alla situazione nuova, e «la gigantesca forza dei sobborghi avanzò invano per spostamenti inutili e per dimostrazioni senza scopo».
La mattina del 4 nel sobborgo Antoine le masse armate erano disposte in ordine di guerra, con i cannoni caricati a mitraglia. Le truppe di linea e la Guardia nazionale, forti di 25.000 uomini, avevano circondato il sobborgo, che però venne disarmato solo alle 10 di sera. Leggiamo Tarlé: «Secondo quanto risulta dai nostri documenti, in quel critico momento “i buoni cittadini”, all’interno dello stesso sobborgo, esercitarono una forte pressione sugli insorti. Ciò è pienamente comprensibile: poiché assieme agli operai vivevano colà anche i fabbricanti, i mercanti, i padroni di numerose botteghe artigiane, di negozi, ecc.».
Fin dal 1 pratile i moscardini e le sezioni centrali, a prevalenza borghese, avevano chiesto il disarmo del sobborgo Antoine, vale a dire un attacco armato. Il giornalista termidoriano Lacretelle ricorda con gioia come il 4 pratile i boulevards fossero percorsi «non più dalle picche degli insorti, ma da decine di migliaia di uomini, mandati a disarmare il cosiddetto popolo sovrano».
Aubry, nella propria relazione alla Convenzione afferma che fin dall’inizio si pensava di consegnare le armi sequestrate “al grandissimo numero di sinceri repubblicani, che vivevano in questo sobborgo».
Quando le truppe dei generali Menou e Kilmaine entrarono nel sobborgo, il rapporto di forze a loro favore era così evidente che gli insorti non poterono che arrendersi. Se alle 10 di sera l’opera di “pacificazione” era conclusa, gli arresti e il disarmo continuarono per molti giorni. Venne istituita una commissione militare per giudicare gli insorti e i gendarmi che avevano fatto causa comune con essi.
Per il Comitato di Sicurezza il 4 pratile è il giorno in cui «per poco non perì la repubblica», è la vittoria «della proprietà contro il brigantaggio», a cui segue la necessità di «organizzare la vittoria», ovvero la repressione.
I moscardini dissero che la repubblica era stata fondata il 4 pratile, poiché tale giorno conciliò con la forma di governo repubblicana milioni di francesi. In effetti i proprietari di Parigi e delle province si resero conto che il governo repubblicano ora voleva e poteva difendere i loro interessi contro la plebe.
Un altro testimone dei fatti, Fain, dice: «Così la plebaglia parigina depose le armi che le avevano dato i trionfi del 6 ottobre 1789, del 10 agosto 1792 e del 31 marzo 1793 e che ancora alla vigilia ponevano alla sua mercé chiunque avesse la testa sul collo. Le conseguenze di questo disarmo sono importanti. Questa è una rivoluzione che ha strappato la forza delle armi al proletariato e l’ha consegnata ai quartieri ricchi».
Levasseur scrisse che dal 4 pratile, da quando i cannoni furono sottratti al sobborgo Antoine, alla rivoluzione del luglio 1830 «sembrò che il popolo avesse dato le dimissioni».
Con un decreto del 6 pratile tre divisioni di gendarmeria con sede a Parigi vennero sciolte, e coloro che ne facevano parte poterono rientrare nei ranghi della polizia dopo un giudizio di epurazione.
La commissione militare funzionava come un tribunale militare da campo che arrestava e condannava tutti i possibili responsabili e i sospetti; ben presto fu arrestato chiunque fosse denunciato da chicchessia. In poche parole la commissione militare aveva un potere illimitato di giudicare e fucilare tutti coloro che avevano avuto una qualsiasi parte nell’insurrezione o che facevano propaganda sovversiva. Il 4 pratile la Convenzione emanò il decreto sul disarmo, ed il 5 i Comitati unificati di Salute Pubblica, Sicurezza e Militare, stabilirono che le sezioni parigine si riunissero quotidianamente «per procedere al disarmo dei cattivi cittadini». Ovviamente era altrettanto importante armare i “buoni”, e il Comitato di Salute Pubblica l’8 pratile chiese a tutte le sezioni l’invio entro tre giorni di un elenco dei “buoni cittadini” e informazioni sul numero dei fucili in loro possesso.
Torniamo a Tarlé: «Quando, in seguito, si discusse dell’abolizione della Commissione Militare, il relatore fece rilevare come una simile istituzione non fosse esistita neppure nel momento culminante del Terrore, all’epoca di Robespierre, e che nell’interesse della buona reputazione storica della Convenzione bisognava al più presto mettervi un velo sopra».
Secondo dati ufficiali la Commissione militare pronunciò 36 condanne a morte, tra cui di sei membri della Convenzione, i principali esponenti della Cresta, Romme, Duquesnoy, Bourbotte, Duroy, Soubrany e Goujon, che si suicidarono. Tre di essi non vi riuscirono: furono soccorsi in fretta, portati al patibolo e ghigliottinati. Vi furono poi 11 condanne alla deportazione in Caienna, 7 al carcere duro e 34 alla detenzione, oltre a 60 assoluzioni. I numeri veri furono sicuramente superiori, dato che la Commissione non doveva rendere conto a nessuno della propria opera, e nessuno andò ad interessarsene. Tra le altre cose è bene ricordare che in tali giudizi la difesa non era ammessa, ed erano ascoltati solo i testimoni ritenuti utili. È significativo che neanche questa Commissione, con i suoi poteri illimitati, riuscì a dimostrare un collegamento tra i deputati della Cresta e l’insurrezione.
Venti anni dopo uno dei loro più grandi nemici, Jullian, non riuscirà a celare la sua ammirazione per questi uomini che definisce “eroi del fanatismo rivoluzionario”.
In Germinale e Pratile le plebi parigine, a differenza delle giornate del 1789, del 1792 e 1793, non ebbero alcun alleato tra la media borghesia e pochissimi tra la piccola borghesia. Leggiamo Tarlé: «A Parigi la borghesia possidente e la macchina governativa, con la Convenzione alla testa, accettarono la lotta e la vinsero. Parteggiarono pienamente per essa, in questo conflitto, anche i grandi e medi proprietari rurali, al pari di tutti coloro che vivevano dei proventi di attività mediatrici tra i produttori agricoli e i consumatori urbani. Più che in qualsiasi altro momento della precedente epoca rivoluzionaria, le insurrezioni di germinale e di pratile vennero comprese sia dall’uno sia dall’altro campo e furono considerate dai contemporanei come la lotta degli indigenti contro gli abbienti».
Probabilmente ha ragione Tarlé nel sostenere che nel 1795 esistesse un gruppo dirigente, un embrione di organizzazione, non individuato dopo il 4 pratile, che tentò di dirigere l’insurrezione. Ma anche se questo comitato insurrezionale esisté, non seppe e non riuscì a svolgere il proprio compito. L’assenza di legami tra i deputati montagnardi e le plebi dei sobborghi ci fa concludere che la Cresta non ha avuto alcun ruolo nelle insurrezioni di germinale e di pratile. Concludiamo qui ancora con Tarlé: «La coalizione dei diversi strati abbienti della città e delle campagne fu il vero vincitore di Germinale e di Pratile e si impadronì di tutti i frutti della vittoria».
(Continua al prossimo numero)