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Lo sviluppo industriale e lo sfruttamento del lavoro salariato portano inevitabilmente allo sviluppo di grandi insediamenti industriali e di servizi. Qui il processo produttivo concentra masse umane da cui trae quella forza lavoro che sola genera il plusvalore. Si vengono così a separare nelle città i quartieri dove vivono le famiglie proletarie, composte di lavoratori attivi, pensionati, e disoccupati: in tutte le metropoli del mondo la divisione fra classe borghese e operaia si esprime anche nell’occupazione del territorio. I quartieri residenziali dei borghesi si oppongono ai quartieri popolari e alle baraccopoli dove sono alloggiati i disoccupati, chi vive di lavori irregolari e i sottoproletari. Talvolta si formano quartieri di immigrati, divisi per paese di origine: negli Stati Uniti i ghetti di asiatici, irlandesi, latinos, negri. Ma spesso nei quartieri proletari si affiancano famiglie con le pelle di diverso colore o di diversa nazionalità.
In America Latina la separazione del proletariato in base alla razza non è la regola come in Nord America. Le differenze di razza hanno il loro peso sociale tra la borghesia e parte della piccola borghesia ma nel proletariato contano poco poiché si tratta in maggioranza di una popolazione meticcia con una significativa presenza di negri e nativi. Nei Caraibi molta popolazione è nera, ad Haiti, Trinidad e Tobago, Curaçao, Grenada, Guyana, così come in alcune regioni del Brasile, Colombia e Venezuela. In America centrale e meridionale è numerosa anche la presenza di incroci di bianchi, negri e indigeni. In Paesi come Ecuador, Perù, Bolivia e Paraguay è significativa la popolazione indigena.
Nella maggior parte del continente americano l’offerta di forza lavoro supera significativamente la domanda. Oltre alla disoccupazione misurata dalle statistiche c’è quella nascosta, dei lavoratori della “economia informale”. Per questo i salari sono bassi: la borghesia ha in America immensi eserciti di riserva che le permettono di pagare il “salario minimo” e anche molto meno. Qui la concorrenza sorge piuttosto per tra i salariati autoctoni e gli immigrati. Anche i lavoratori di regioni diverse dello stesso paese si contendono a volte i posti di lavoro.
Ogni merce il suo prezzo
Questo contrasto tra proletari occupati e disoccupati è una componente strutturale nel funzionamento del capitalismo, che permette alla borghesia di mantenere bassi i salari e difendere i suoi profitti. Tutto serve a dividere il mercato dell’offerta di lavoro opponendo fratelli e sorelle di classe: il sesso, la razza, la nazionalità, la fede religiosa, l’età, l’opinione politica... La borghesia incoraggia ed esaspera ogni minima differenza nella merce forza-lavoro. Applica salari e condizioni di lavoro disuguali risparmiando sui costi. Inoltre così ritarda la organizzazione unitaria e la lotta sindacale.
I media borghesi non mancano mai, per altro, di sovrapporre una motivazione particolare non di classe ad ogni lotta proletaria. Se i lavoratori agricoli del Messico settentrionale scioperano per salari migliori, la stampa li dipinge come indigeni in rivolta. I partiti opportunisti, gli attuali sindacati di regime, i media, la chiesa, l’industria cinematografica, l’intera sovrastruttura capitalistica impongono una ideologia che spinge alla divisione del proletariato e alla sua sottomissione economica e sociale.
Le differenze razziali hanno la loro origine nella storia delle etnie e delle diverse nazionalità. Ma nella sempre più interconnessa società capitalista queste determinazioni razziali e culturali tenderebbero a perdere sempre più di importanza. Se questo non accade, e al contrario spesso si esaspera costringendoci al penoso rivivere “un passato che non passa”, è per precisi interessi di classe, per motivazioni sociali.
Se il capitale avesse interesse a trattare gli uomini con i capelli rossi, che è una caratteristica ereditaria, come i negri negli Stati Uniti o come i rohingya in Birmania, esisterebbe la razza dei rosso-crinati.
Questo anche se per il funzionamento del modo di produzione e per l’accumulo di capitale la razza e la nazionalità sono ben poco rilevanti. Ciò che è rilevante è che una classe sociale ha il controllo del capitale e dei mezzi di produzione, e un’altra possiede solo la forza lavoro da affittare in cambio di un salario.
I lavoratori, maschi o femmine, bambini o adulti, di pelle nera, bianca, gialla o mista, della sua etnia o nazionalità, sono tutti portatori della stessa merce, ma per il capitale ognuno ha “il suo prezzo”.
Quale la risposta di classe
Contro questa mostruosità che riduce l’uomo a una merce, deve imporsi la rivolta, ideale e materiale, della classe operaia, che infine, in una comunistica società non più salariale, libererà la banale evidenza di un uomo senza mediazioni.
Oggi invece i partiti borghesi e falsamente operai e i sindacati di regime nulla fanno, se non recriminazioni, per superare queste divisioni del proletariato.
Più volte nella storia del movimento operaio, nelle fasi di debolezza e dispersione delle organizzazioni generali di classe, sono sorti movimenti volti alla difesa degli operai solo di una certa razza o nazionalità, per opporsi ai maltrattamenti, alle vessazioni e allo sfruttamento da parte dei borghesi e del loro Stato. Oltre alla difesa strettamente sindacale si hanno associazioni, di tipo interclassista, per la protezione dalle angherie poliziesche o la difesa degli interessi e dei diritti, per esempio, delle comunità negre negli Stati Uniti, o dei nativi americani, o delle colonie di immigrati.
Evidentemente un sindacato che così sorge separatamente per gruppo etnico, come per azienda, per ramo industriale, per mestiere, è del tutto inadeguato a confrontarsi con la generale classe dei padroni, come potrebbe esserlo anche un sindacato che lasci fuori i pensionati e i disoccupati. Un sindacato di classe tende a raggruppare tutti i lavoratori senza distinzione di razza, nazionalità, occupazione, sesso, fede religiosa o opinione politica. Ed è organizzato per località e non per azienda, in modo da abbracciare l’intera classe dei lavoratori.
Il Partito Comunista al suo interno, fra i suoi militanti e nella sua compagine organizzata a scala mondiale, non conosce alcuna distinzione ed è composto da comunisti senza alcuna altra specificazione.
Il Partito promuove l’azione contro la borghesia del proletariato unito al di sopra di ogni confine, e tende a risolvere i motivi di divisione nei ranghi della classe operaia, dalle lotte economiche alla lotta politica per la presa del potere. Il Partito denuncia come opportunista e controrivoluzionario qualsiasi altro partito che si dica operaio o comunista ma che ammette lo scontro tra i salariati per differenze religiose o razziali, o nazionali per la difesa della patria.
Dobbiamo forse noi comunisti essere indifferenti alle mobilitazioni dei negri, degli immigrati, degli indigeni di fronte alla repressione e alle manifestazioni di oppressione da parte dei governi borghesi? La risposta è certo no; non siamo indifferenti a queste espressioni di resistenza contro vili e odiose discriminazioni, sempre funzionali alla conservazione del regime presente.
Nel caso si tratti di movimenti di salariati, anche se guidati dall’opportunismo e utilizzati per dare ossigeno a ideologie pacifiste, democratiche, interclassiste, il Partito ci si deve impegnare con i suoi militanti ed impartire il suo chiaro indirizzo che, senza negare alcuna lotta, anche debole e parziale, la apra alla prospettiva della mobilitazione e della organizzazione sindacale generale di classe. In questo ci scontreremo con tutte le posizioni che distorcono la lotta del proletariato e la tengono intrappolata in azioni disperse distogliendo i lavoratori dal confronto centrale con i padroni capitalisti e i loro governi.
Di fronte, invece, a effettivi movimenti, di tipo interclassista, contro soggezioni reali, come quella dei negri negli Stati Uniti – che si limitano alla richiesta di diritti civili e di rispetto della costituzione, e della democrazia contro il razzismo, di qualche riforma giuridica o elettorale o di un diverso presidente o parlamento – il Partito, secondo le circostanze, può ritenere di non doverli avversare e combattere, quando mobilitazioni realmente dirette contro le vessazioni del regime presente.
Ma il Partito se ne tiene rigorosamente fuori, nelle sue strutture ben distinte e visibili, e invita i lavoratori a non aderirvi, e quelli in esso presenti ad uscirne, per organizzarsi indipendentemente in formazioni esclusivamente proletarie.
Questo atteggiamento del Partito deriva dalla sua secolare esperienza: i partiti e i gruppi politici interclassisti, anche se apparentemente radicali e violenti, alla fine non si affiancheranno mai al punto di vista e alle necessità del proletariato e, quando di fronte alla decisione da quale parte della lotta schierarsi inevitabilmente sceglieranno quella borghese. Questa, del resto, la funzione storica dell’opportunismo.
Il Partito deve quindi predisporsi ad orientare verso il comunismo e a scagliare contro il regime borghese, al fianco della classe operaia, ogni movimento reale, anche di natura interclassista, ma espressione di una vera sottomissione sociale, per esempio, quella delle donne o delle minoranze nazionali o razziali.
Solo con la ripresa della lotta difensiva di classe ci si potrà opporre, nell’ambiente operaio, al razzismo, alla xenofobia e a tutte le espressioni e moti di divisione e diffidenza reciproca.
Ma solo con l’abbattimento del potere politico della classe borghese e del suo Stato, e nella società comunista che ne potrà uscire, sarà definitivamente vinta ogni prevaricazione e sentimento ostile dell’uomo sull’uomo.
Ansa: «Secondo il britannico National Cyber Security Centre, hacker collegati al governo russo avrebbero attaccato organizzazioni britanniche, statunitensi e canadesi per rubare informazioni sulla sperimentazione di un vaccino contro il coronavirus».
Washington Post: «Il dipartimento di Stato ha annunciato di aver ottenuto l’incriminazione di due presunti hacker cinesi accusati di aver rubato informazioni sulla ricerca per il vaccino contro il coronavirus».
Quando l’intera umanità è in angoscia e sofferente per il propagarsi di una epidemia della quale è impossibile prevedere gli sviluppi e le cui conseguenze potrebbero rivelarsi catastrofiche, per la morale approvata e condivisa del Capitale è del tutto giusto e legittimo che il mantenimento dei segreti aziendali vengano a ostacolare e ritardare l’approntamento di un vaccino.
Ogni scoperta seppure parziale, ogni risultanza di difficili esperimenti e di raccolta e analisi di dati, frutto del lavoro di un esercito di tecnici e di scienziati impegnati al difficile studio, non è proprietà loro, proletari salariati come sono, ma del padrone capitale. E se si arrischiano a parlarne fuori dell’ambiente aziendale sono passibili di denuncia penale, a norma di legge, e per danni, alla stregua di ladri, come l’operaia che si mettesse in tasca un paio di calzini dell’enormità che giornalmente confeziona.
Le verifiche cliniche anche sono tenute segrete, moltiplicando all’infinito il numero dei poveretti che devono essere sottoposti alla prova di efficacia e di tollerabilità.
Ogni “ditta” procede contro le altre, fa tutto quello che è in suo potere per danneggiarle, deviarle, ritardarle.
La sua fretta non è per arrivar prima a salvare vite da una orribile morte per asfissia, ma per vincere gli appalti. Il vaccino non deve essere il più efficace e il più sicuro, ma quello che prima degli altri arriva sul mercato. E parlano dai 40 (Reuters) ai 210 (Bloomberg) dollari a dose!
Certo non confonderemo gli hacker russi e cinesi per nuovi Robin‑Hood, che anch’essi rubano per vendere.
L’umanità, ormai pienamente mondiale, ha bisogno di liberare la scienza e la tecnica dall’angustia, dall’arbitrio e dal demente egoismo del capitale, che ormai tiranneggia il mondo dei vivi come una mostruosa forza aliena.
Liberare sì, ma non per decampare dal materialismo e dal metodo scientifico, per ripiegare sulla ignoranza, gli irrazionalismi, il rifiuto dell’unità del sapere e del metodo sperimentale. Non per tornare indietro dalla scienza borghese, ma per andare oltre, per superarla nello studio diligente, verso una conoscenza e una pratica per la prima volta veramente disinteressate, aperte e, semplicemente, umane.
È la fame l’eresia
Il Libano è un esempio di quello che la borghesia sta preparando per tutto il mondo: le banche proibiscono i prelievi, con il debito che aumenta rapidamente, con la moneta che perde l’80% del suo valore, i prezzi degli alimenti di base aumentati del 53%, con migliaia di famiglie disperate che cercano avanzi nella spazzatura.
I gruppi e i partiti politici sono in realtà scomparsi, c’è un fronte unico della borghesia, il suo Partito Unico a fronteggiare la rivolta dei diseredati.
Banche incendiate, strade invase dalla folla, il coronavirus che minaccia l’intero sistema sanitario, le masse popolari sull’orlo dell’inedia: la ribellione si è imposta come una necessità della classe proletaria. I giovani proletari scendono in piazza per rivendicare la loro esistenza, quando il loro salario è stato ridotto di tre quarti, per i pochi che mantengono il lavoro, quando non è assicurata neanche la sopravvivenza.
Ciò li porta in situazioni estreme e dolorose. Uno fra i tanti che si sono tolti la vita, un 61enne che ad Hamra si è suicidato (proibito dall’islam), ha lasciato un messaggio drammatico: “Non faccio eresia - È la fame l’eresia”.
Il caso ha provocato una nuova esplosione di rabbia di migliaia di giovani proletari che sono scesi in piazza. Né la minaccia della morte per il virus che si sta diffondendo in tutto il Medio Oriente né la violenta repressione può oggi mettere a tacere la rabbia dei nostri fratelli di classe. Noi diciamo loro che la loro lotta è la nostra lotta, i loro morti sono i nostri morti, la loro vendetta sarà la nostra vendetta.
Un vecchio adagio arabo dice “ogni cane ha il suo giorno”. Verrà quel giorno, saremo noi a seppellire questo mondo putrescente per liberarne uno nuovo. Questa speranza è ciò che seminiamo anche nella difficile situazione che stanno attraversando i proletari in Libano e in tutto il mondo. Si, l’eresia è il capitalismo!
La crisi globale
La crisi economica del sistema capitalistico, accelerata dalla diffusione del Covid‑19, ha fatto il giro del pianeta. Le condizioni delle classi oppresse peggiorano ovunque, anche nei cosiddetti paesi del Primo Mondo, in Europa, in Nord America o nell’Asia più sviluppata, così come nei paesi esportatori di petrolio del Medio Oriente.
Se qui la crisi si è mostrata con la diminuzione della domanda, con il ridursi della crescita, con la disoccupazione, con l’indebitamento pubblico per salvare le imprese capitalistiche, e anche con la crescita della povertà e persino dell’indigenza fra gli strati inferiori della società, nei paesi arrivati in ritardo allo sviluppo del capitalismo i proletari soffrono addirittura della fame. Qui le rivolte di classe e la violenza e i massacri contro le organizzazioni proletarie mostrano il percorso spietato verso il quale ovunque il regime dell’anarchia capitalista si sta drammaticamente avviando.
Le “civili” e “democratiche” borghesie europee, americane o asiatiche, che parlano di diritti umani e di benessere, rapinano il proletariato nella periferia del globo, nello sfruttamento senza regole, nella repressione armata dei movimenti sindacali e nella eliminazione fisica di ogni dissidente. In quest’opera il capitale ha alleate le borghesie dei paesi poveri, alcune delle quali declamano le logore formule del nazionalismo, altre si aggrappano alla rinascita di un retrogrado idealismo religioso, altre ancora addirittura si definiscono esempi di un “socialismo del 21° secolo”.
Tutto sembra lontano nel tempo e nello spazio alle aristocrazie delle metropoli occidentali, corrotte dalle briciole del banchetto dell’imperialismo, è invece la prospettiva del Libano che attende anche i paesi più ricchi e potenti in un futuro non lontano. Questo futuro, che i comunisti hanno sempre anticipato, sta prendendo forma nelle condizioni di vita e di lavoro e nelle relazioni sociali anche in quelle società “ricche” che si paludano del loro bugiardo benessere sociale.
Medio Oriente campo di battaglia
Nella storia il Medio Oriente è sempre stato campo di battaglia per le potenze imperialiste a causa della sua posizione strategica, snodo di tre continenti, fra Oriente e Occidente e fra Nord e Sud del mondo.
Varco vitale per i traffici e gli scambi, è critica fonte del petrolio arabo, che ha qui costi di produzione molto minori che altrove e che quindi offre enormi rendite alle classi dominanti locali. Esso è quindi l’alimento costante di continue guerre fra gli imperialismi per contendersene il dominio: il conflitto arabo-israeliano, la guerra tra Iran‑Iraq, le due guerre del Golfo con l’invasione del Kuwait e dell’Iraq, la colonizzazione della Palestina, la guerra civile siriana e, infine, le guerre in Libano.
Libano termometro delle tensioni imperialistiche
Il Libano, che accoglie numerosi gruppi religiosi e diverse etnie, ha visto nella sua storia recente una serie di conflitti di cui l’imperialismo ha approfittato per stringere la sua morsa sul paese.
Alle divisioni interne di carattere religioso si è aggiunta, dopo la prima guerra arabo-israeliana del 1948, la presenza di 450.000 rifugiati palestinesi, su un totale di oltre 5.150.000 in tutto il Medio Oriente. Questo ha dato vita in passato a diverse ondate di una sanguinosa guerra civile alimentata dagli imperialisti occidentali e dal loro satellite, lo Stato israeliano.
Attualmente il Libano è contesa terra di scontro tra l’espansionismo israeliano e quello iraniano.
Piccolo paese, da sempre centro della finanza e del commercio globali, ha svolto la funzione di termometro delle contraddizioni politiche nell’area. Non ha mai dato vita a un’entità statale stabile e la sua storia è segnata da guerre, scontri settari, assassini politici e governi caratterizzati da un labile sostegno da parte delle diverse componenti di classe della società.
La crisi attuale
Dal novembre dello scorso anno in Libano si è avuto un repentino aggravarsi della crisi. L’economia è devastata dal debito, che raggiunge il 176% del PIL, la disoccupazione sfiora il 30% della forza lavoro, il 37% per i giovani, e in rapida crescita. La fame minaccia da presso per il rapido declino dei salari reali.
Di fronte al peggioramento delle condizioni delle classi povere, la locale classe borghese si è arricchita in modo straordinario, tanto che si stima che l’1% della borghesia detenga quasi il 25% del PIL del paese, mentre lo 0,1% dei borghesi abbia lo stesso reddito del 50% dei più poveri.
Le banche, legate agli interessi degli imperialismi francese, americano e cinese, hanno controllato l’economia del paese per decenni e accumulato immensi profitti, mentre con i prestiti indebitavano l’intera economia e lo Stato.
Una serie di ampie proteste di massa ha preso avvio già a metà ottobre dell’anno scorso provocando le dimissioni dell’ex premier Saad Hariri e la formazione di un nuovo governo.
Abbiamo scritto degli avvenimenti di novembre: «Le misure di austerità, come il taglio delle pensioni, agli stipendi dei dipendenti pubblici e, ultima goccia che ha fatto traboccare il vaso, la tassa su WhatsApp di 6 dollari mensili, hanno spinto alla rivolta. In un paese dove la maggior parte della classe operaia non guadagna più di 300 dollari al mese e la disoccupazione tra i giovani è così grande, l’esplosione era solo una questione di tempo e di occasione».
La furia dei proletari e delle classi medie infine si è diretta verso il settore finanziario, che ostentatamente si arricchiva nel generale deterioramento delle condizioni di vita dei lavoratori. L’11 giugno la Banca centrale del Libano è stata incendiata dai manifestanti.
Questo movimento, innescato dalla minaccia di aumenti delle tasse e sviluppatosi senza la partecipazione dei partiti politici tradizionali, ha una direzione piccolo-borghese, si ammanta dei colori dell’interclassismo e della democrazia, della lotta alla corruzione, propone la necessità di un nuovo governo di tecnocrati.
Ma questa direzione, di fronte al peggiorare delle condizioni di vita e di salario, è stata gradualmente scavalcata dalla rabbia della massa proletaria. Questa ha attaccato le istituzioni economiche del capitale, ponendosi faccia a faccia con la borghesia senza far distinzione fra i suoi partiti, superando tutte le diffidenze imposte dal settarismo delle confessioni religiose.
Inevitabilmente, a causa della mancanza di una direzione chiara che solo il Partito comunista può dare, questo movimento ha fallito e non è stato in grado di superare i propri limiti, di essere consapevole della necessità per la classe proletaria di organizzarsi nella prospettiva di impadronirsi del potere politico.
Sindacalismo di regime
Queste esplosioni di disperazione, questo risveglio dal letargo del proletariato in una reazione violenta di massa, come un movimento naturale di fronte alle delle terribili condizioni a cui sono costrette le famiglie proletarie, e il rancore generale contro lo Stato borghese, sono senza una guida, senza una direzione di classe, che sola può portare la protesta contro le condizioni economiche a svilupparsi in un vero scontro politico. La rivolta è arrivata nel momento della crisi, ma mancano ancora le condizioni internazionali per lo sviluppo di un movimento generale di classe.
Vi sono varie ragioni storiche per questo, che ben conosciamo, e approfondiremo riguardo alle vicende particolari del proletariato libanese. Una delle principali di questa situazione sfavorevole, da molti decenni, in Libano come nel resto del mondo, e ormai non più sorprendente, è la insignificante partecipazione delle organizzazioni sindacali attuali alle lotte del proletariato e la loro totale dedizione alla salvaguardia dell’economia nazionale.
La storia delle organizzazioni sindacali libanesi è caratterizzata, come quella della loro stragrande maggioranza nel mondo arabo, dalla totale sottomissione agli interessi nazionali e dalla divisione settaria dei lavoratori, elemento di deviazione della lotta di classe verso obiettivi borghesi.
La Confederazione generale dei lavoratori libanesi (CGTL), sprofondata nell’impotenza della politica riformista, della democrazia e della salvaguardia dell’interesse nazionale, ha condizionato le lotte e lo sviluppo della rivolta verso le rivendicazioni di una maggiore democrazia e di un governo riformista, tessendo alleanze con i diversi gruppi politici e con le milizie, alla ricerca di accordi, evitando gli scioperi indipendentemente dal peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori, senza dare alcun segno di solidarietà di classe.
Mentre anche i suoi più ottusi difensori ammettono ormai che il capitalismo si sta ovunque disgregando, il rifiuto dei sindacati di difendere i lavoratori dall’attacco montante della borghesia, la convivenza con le diverse atrocità del sistema schiavistico nei confronti dei proletari immigrati, e la loro totale sottomissione e impotenza, anche dovuta alla legislazione del lavoro, hanno vanificato gli sforzi dei lavoratori.
Lo sfruttamento degli stranieri, chiamato “kafala”, sta avendo un’influenza primaria nello incarognirsi del movimento sindacale in Libano. Si presenta come la più sfacciata forma di sfruttamento, dove il razzismo più grossolano delle classi dominanti cerca di mettere gli uni contro gli altri i proletari autoctoni e immigrati. È questa una tendenza a livello globale. Ma sono proprio questi proletari che indicano il futuro per il proletariato del mondo intero. Le condizioni in cui vive il proletariato immigrato sono semplicemente quelle del moderno salariato: la costante tendenza di ogni borghesia ad estrarre il massimo di plusvalore, i salari da fame, la concorrenza fra proletari, la totale mancanza di diritti.
Ma tutto questo genera una reazione, nel contesto globale. Anche in Libano diversi gruppi di lavoratori immigrati hanno iniziato a organizzare sindacati, invertendo la tendenza alla perdita del senso di appartenenza di classe propria dei nativi. Ciò è dimostrato dai vari scioperi di stranieri che rispondono in maniera totalmente inaspettata alla situazione precaria in cui si trovano e affrontano le misure più severe di repressione e di sfruttamento.
Uno sciopero coraggioso
Il fatto più significativo è lo sciopero alla Ramco, un’azienda di gestione dei rifiuti che impiega 400 lavoratori, provenienti principalmente dal Bangladesh e dall’India, pagati con salari di 350 dollari al mese. In seguito al deprezzamento della lira libanese, l’azienda ha deciso di passare a pagare i salari in valuta locale. Questo, che ha comportato la riduzione repentina di quasi un terzo del valore dei salari, insieme a un caso di sevizie nei confronti di un lavoratore, ha scatenato la rabbia. Il 2 aprile è iniziato lo sciopero che si è svolto con picchetti violenti che non hanno esitato ad affrontare la brutalità della polizia. Dopo quasi un mese e mezzo di sciopero ininterrotto i lavoratori sono riusciti a migliorare, seppure leggermente, le loro condizioni
L’organizzazione al di fuori dei sindacati legati al settarismo religioso – che ha preso nelle proprie mani la lotta anche nelle condizioni più difficili, con i metodi di classe, compresi i picchetti, e gli scioperi senza limiti di tempo, basandosi soprattutto sull’unità proletaria e la solidarietà tra i lavoratori con nazionalità e culture diverse – è un risultato storico in Medio Oriente. Il sistema “kafala”, che sfrutta e schiavizza gli immigrati generando malcontento e competizione fra i lavoratori, viene sopraffatto dall’unità di interessi tra i proletari di razze diverse, e questa unità di classe vince sui tentativi di diversione del malcontento orchestrati dalla borghesia.
Il bisogno di sindacati di classe
Questo sciopero, importante per il Libano, è stato seguito da tentativi di organizzazione dei lavoratori immigrati del settore domestico con diverse proteste, il 5 maggio e il 20 maggio. L’internazionalismo implicito in queste lotte sul proletariato nativo è che a sua volta si sta organizzando al di fuori dei sindacati associati al regime. Questo è senza dubbio il fatto di maggiore importanza negli ultimi decenni in Libano, un successo in mezzo a così tante sventure.
Certo, se questo movimento restasse orfano di una chiara direzione di classe, sarebbe dolorosamente destinato alla sconfitta. Per contro la crescita della sua influenza potrebbe essere l’inizio di un risveglio in tutta la regione mediorientale provando che in un paese segnato per decenni da una guerra civile settaria, alimentata dal razzismo e dalle divisioni religiose, da potenti milizie armate e con una aperta persecuzione antisindacale, è possibile superare ogni divisione nel proletariato.
Forse in Medio Oriente potremmo vedere anticipato il dramma storico che ci attende: in Siria come sarà la guerra futura, in Libano i tratti della futura crisi economica e sociale, una crisi del debito, una, dapprima confusa, ribellione generale, una repressione feroce, il superamento di ogni artificiale divisione fra i lavoratori, la rovina sociale e l’annientamento politico delle impotenti classi medie, il risveglio dei proletari, in parte disoccupati.
Ci troviamo di fronte alla necessità storica oggettiva del Partito. Da materialisti sappiamo che i mezzi sono imposti dai bisogni. Il difficile passaggio sarà superato dal bisogno stesso di sopravvivenza, non solo del proletariato ma della specie tutta.
Da parte nostra, di fronte alla crisi mortale del capitalismo, alziamo la bandiera del Comunismo, del Partito, della Rivoluzione. È il desiderio nostro, è il bisogno dell’uomo, è la ragione del cuore, è la certezza del futuro della comunità umana.
E intanto oggi esprimiamo la nostra solidarietà con i fratelli proletari in Libano!
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Nell’insieme del quadro mediorientale molte spiegazioni degli assetti attuali vengono dal parziale e probabilmente temporaneo ritiro degli Stati Uniti dalla regione, fatto che ha avuto già effetti di rilievo.
La cogestione irano-statunitense dell’Iraq
In Iraq le forze statunitensi si sono concentrate in due basi principali dopo una riduzione degli effettivi.
Nell’attacco con droni che agli inizi di gennaio aveva provocato la morte del generale iraniano Qassem Soleimani, il capo della milizia Qods dei pasdaran, gli Usa non puntavano alla guerra con l’Iran e non ci siamo sbagliati in questa lettura e previsione dei fatti, mentre gran parte dell’informazione parlava di guerra inevitabile. In realtà si è avuto soltanto un attacco missilistico dimostrativo iraniano, concordato col nemico, contro due basi Usa in Iraq.
L’eliminazione di Soleimani è stato un avvertimento: l’Iran non si illuda di trarre soverchio vantaggio dal parziale ritiro statunitense, dacché la sua potenza militare, integra e ben oliata, può colpirvi in ogni momento, da ogni parte e su ogni obiettivo. Si è ottenuto con un minimo dispendio di energie la dissuasione alle mire regionali dell’Iran. Ma si pensa anche agli equilibri interni del regime di Teheran.
Per altro il regime iraniano continua a utilizzare l’eliminazione di Soleimani a scopi propagandistici interni: per suscitare la percezione di accerchiamento e compattare il fronte interno i media iraniani denunciano complotti orditi dagli Stati Uniti. A luglio sono stati giustiziati due iraniani con l’accusa di spionaggio a favore della Cia e del Mossad.
Questa tendenza, non contingente, della politica di Washington risponde non certo ai tratti spettacolari del “capo” della Casa Bianca ma alla necessità di fare i conti con la spartizione della rendita petrolifera.
Per altro, dietro la parvenza dello scontro a oltranza fra Iran e Stati Uniti, non mancano gli scambi sottobanco. Così si spiega la brutale cogestione congiunta dell’Iraq a partire dagli anni immediatamente successivi alla seconda guerra del Golfo. La designazione del nuovo primo ministro iracheno Mustafa al‑Kadhimi il 7 maggio scorso è un successo per la politica statunitense nell’area. Vecchio oppositore del regime di Saddam Hussein, è stato allevato dall’establishment atlantico. A partire dal 2016 è stato a capo dei servizi segreti iracheni. Dopo il suo insediamento al‑Kadhimi ha fatto passi per stringere migliori relazioni con l’Arabia Saudita e il ministro delle finanze iracheno Ali Allawi ha già raggiunto un accordo per la fornitura di energia elettrica dal potente vicino.
Allo stesso tempo gli Usa hanno offerto qualcosa in cambio all’Iran: le sanzioni economiche sono state attenuate, con la motivazione ufficiale dell’emergenza del Covid‑19, e un tribunale lussemburghese ha sbloccato i conti iraniani congelati in seguito alle sanzioni imposte dal 2018.
Ma qualunque politica del governo iracheno non può liberare il paese dall’influenza iraniana. Ci sono in ballo grandi interessi economici e un interscambio commerciale notevole: nel primo trimestre del 2020 l’Iraq ha importato dal paese vicino per un valore 1,45 miliardi di dollari. Inoltre nella torrida estate in corso l’Iraq sta soffrendo una carenza di energia elettrica a causa del calo della produzione per mille megawatt rispetto all’anno scorso dovuto alla carente manutenzione di alcune centrali elettriche. Ecco allora che il premier iracheno è volato a Teheran a fine luglio dove ha firmato due importanti contratti nel campo energetico: l’Iran si occuperà della riparazione della rete di distribuzione elettrica delle città sante sciite di Najaf e Karbala e di una cospicua fornitura di trasformatori.
Intanto il malcontento continua a serpeggiare nel proletariato e negli strati semiproletari della società irachena. Le manifestazioni di protesta, dopo una parziale pausa dovuta al Covid‑19, hanno riconquistato il centro urbano delle principali città. Domenica 26 luglio a Baghdad le forze di sicurezza sono tornate a sparare e a uccidere i manifestanti, due o tre a seconda delle fonti. E dire che poco tempo prima al‑Kadhami, per stornare dalle forze di sicurezza governative la responsabilità nelle stragi (i morti sono circa 600 dal primo ottobre del 2019, momento di esordio delle proteste di piazza) aveva affermato che erano state opera delle milizie iraniane e aveva minacciato per questo di assaltare la sede delle milizie sciite filoiraniane Kataib Hezbollah. Evidentemente si trattava di un cinico diversivo per la piazza, senza dare neanche troppo fastidio all’Iran. D’altronde dei massacri sono stati responsabili tanto l’apparato di sicurezza iracheno quanto le milizie filoiraniane e le accuse reciproche di avere versato il sangue dei proletari iracheni non è reputato un motivo di ignominia da nessuna delle delinquenziali fazioni borghesi coinvolte.
Parziale ripiegamento
La persistente contesa fra gli Stati Uniti e gli altri maggiori paesi petroliferi, ossia la Russia e l’Arabia Saudita, ha imposto per ora una politica volta a eludere urti eccessivi suscettibili di sbocchi militari. Certo questo non ha escluso le proxy war con l’impegno diretto e indiretto in esse delle potenze produttrici di greggio per la spartizione della rendita. Ma se ogni guerra, in qualsiasi parte del mondo si svolga, ridefinisce in qualche misura o ribadisce la gerarchia fra gli Stati, l’ultimo decennio ha segnato l’indebolimento dell’influenza degli Stati Uniti in Medio Oriente, mentre è assai aumentata quella della Russia. A congiurare alla definizione di nuovi equilibri ha contribuito il palesarsi dei persistenti elementi di ambiguità che caratterizzano il legame fra la Turchia e la Nato.
La cosiddetta guerra dei prezzi del petrolio fra Russia e Arabia Saudita che ha caratterizzato i primi mesi di quest’anno sembra ormai una cosa lontana anche grazie al crollo della domanda dovuta al Covid‑19. Tutti i grandi produttori hanno rinunciato a una parte della produzione. Quella dell’Arabia Saudita è di 7,5 milioni di barili al giorno, 4,8 in meno rispetto alla produzione dell’ultimo anno e al minimo degli ultimi 20 anni. Così Riad per fare fronte al calo di introiti ha deciso di aumentare l’Iva dal 5 al 15%. Un fatto che potrebbe avere serie ripercussioni interne.
Le ragioni del parziale ripiegamento degli Stati Uniti dallo scenario mediorientale sono legate anche all’incedere del ciclo economico, con la cronicizzazione degli effetti della crisi del 2008. La produzione manifatturiera degli Stati Uniti è ancora sensibilmente al di sotto del picco massimo raggiunto nel 2007. Da allora il capitale statunitense ha cercato una compensazione alla stagnazione nella produzione petrolifera interna, dallo sfruttamento del petrolio e del gas dagli scisti bituminosi, che ha contribuito a un aumento della produzione di quattro milioni di barili giornalieri negli ultimi quattro anni. Ma, nel momento in cui si sviluppava la produzione interna, gli Stati Uniti, in un contesto di sostanziale stagnazione della domanda mondiale, dovevano cercare di limitare la produzione di paesi che sono stati messi ai margini del mercato da guerre, come nel caso dell’Iraq e della Libia, o dell’Iran, che sconta una nuova fase di isolamento internazionale, mitigato in parte dalle relazioni politiche economiche con la Russia e la Cina. Ma anche questo non è bastato a tenere a galla l’economia statunitense.
Intanto Teheran, in seguito alla rottura unilaterale del patto sul nucleare da parte di Trump e all’atteggiamento di acquiescente assoggettamento dei paesi dell’Unione Europea alle sanzioni imposte dagli Stati Uniti, appare sempre più incline a sviluppare rapporti con la Cina, che già da alcuni anni è il primo partner commerciale dell’Iran con un volume di interscambio che si attesta sui 52 miliardi di dollari. Ora si prospetta un accordo di partenariato strategico per i prossimi 25 anni. Il documento è circolato lo scorso mese e, pur senza una sanzione ufficiale, fornisce un quadro significativo dello stato di avanzamento delle relazioni bilaterali fra Cina e Iran. I settori maggiormente interessati dalla cooperazione saranno da una parte l’energetico e il petrolchimico, con la Cina che diverrebbe il principale acquirente del petrolio iraniano, e dall’altra le infrastrutture che vedrà l’Iran prendere parte ai progetti cinesi nel contesto della Via della Seta.
L’accordo prevede anche una collaborazione militare, anche se almeno per ora non si parla di basi cinesi lungo le coste iraniane del Golfo Persico e dell’Oman. Probabilmente Pechino non vuole turbare le relazioni economiche con l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi, nemici giurati dell’Iran ma ottimi partner commerciali della Cina, che da essi acquista petrolio.
L’influenza sul Medio Oriente della Cina, primo importatore del mondo di petrolio, non potrà che continuare ad accrescersi. Nello stesso tempo l’Iran guarda anche a Mosca, tanto che alcuni partigiani dell’atlantismo europeo, preoccupati dal declino dell’influenza statunitense della regione, sono convinti della nascita di un’alleanza anche militare integrata fra Iran, Cina e Russia, volta a ridisegnare gli assetti politici del Medio Oriente. Per ora questa possibilità non sembra così vicina, più un bisogno della propaganda. Come la Cina anche la Russia si propone di mantenere buone relazioni anche con le petromonarchie del Golfo, arcirivali di Teheran.
La partita diplomatica e politica del Medio Oriente per ora si combatte più sul mantenimento di precari equilibri che non sulla preparazione dello scontro armato aperto fra fronti imperialisti rivali.
Il pieno dispiegarsi della crisi economica globale ha già avuto effetti vistosi nel peggioramento delle relazioni fra gli Stati anche nell’area mediterranea.
L’assetto ormai secolare dei confini marittimi fra Turchia e Grecia, sancito dai trattati successivi alla prima guerra mondiale, sta per essere rimesso in discussione in conseguenza di vistosi mutamenti nei rapporti di forza fra queste due potenze. Se Atene ha potuto mantenere così a lungo un equilibrio favorevole – molte isole che sembra si possano toccare passeggiando sulla costa turca fanno parte dello Stato greco – è potuto avvenire in virtù della rete di alleanze internazionali che, attraverso la comune appartenenza dei due paesi alla Nato, hanno cristallizzato nel tempo un disegno dei confini politici innaturali.
Come sempre avviene alla fine di una guerra, le borghesie vincitrici che tornano a spartirsi le sfere di influenza, seminano le faglie dei confini geostorici di trappole e di ordigni a orologeria atti a fornire pretesti per nuovi conflitti. Fra questi ordigni a tempo è da annoverare il confine marino delle Zone Economiche Esclusive che hanno fatto dell’Egeo un mare essenzialmente greco e una camicia di forza per le esigenze di espansione della sempre più potente e aggressiva Turchia.
Oltre che per l’impossibilità del pacifico sviluppo della cooperazione fra Stati capitalisti, diventa sempre più evidente che di materiale incendiario ce n’è abbastanza per provocare nuove esplosioni e, se il boato di una nuova guerra non è probabile in tempi brevi, si stanno preparando tutti gli ingredienti per una gigantesca deflagrazione.
Nelle scorse settimane la tensione fra Atene e Ankara è tornata a salire dopo la decisione del governo di Erdoğan di autorizzare la compagnia petrolifera statale turca a compiere esplorazioni di petrolio e gas nel Mediterraneo in acque di pertinenza della Zona Economica Esclusiva greca. Il governo di Atene ha reagito mettendo in stato d’allerta le sue forze armate e ritirando le licenze ai militari in servizio. I media greci hanno gridato all’aggressione da parte del potente vicino, animato da uno spirito “revisionista” e hanno parlato diffusamente del dislocamento di sottomarini a protezione delle acque territoriali. Questi dovrebbero impedire alle trivelle turche di sondare la piattaforma continentale nei pressi dell’Isola di Castellorizo, nota anche col nome italiano di Castelrosso, uno scoglio con meno di 500 abitanti a ridosso delle coste turche in posizione molto discosta dal resto delle Sporadi greche.
I proclami dei media e del governo greci ai toni bellicosi alternano comunicati rassicuranti, per non compromettere la stagione turistica, già fortemente penalizzata dalla pandemia.
Certamente l’intervento degli Stati Uniti, che hanno spostato a sud‑est di Cipro la portaerei Eisenhower, ha rassicurato lo stato maggiore greco.
Le azioni turche, apertamente “revisioniste”, richiedono la rimessa in discussione del Trattato di Losanna e degli altri trattati internazionali che negli anni ’20 del Novecento hanno penalizzato la Turchia.
Quello che non è del tutto chiaro è come il governo turco, nonostante la crisi economica che attanaglia il paese e le tensioni interne legate alla questione curda, possa pensare di tenere aperti contemporaneamente tanti fronti di guerra e diplomatici, dalla Siria, dove Ankara continua la sua pressione contro il Rojava e contro il regime di Damasco, alla Libia, dove forse si prepara la battaglia per Sirte e lo scontro con l’esercito egiziano per il quale al Cairo fervono i preparativi, al confine orientale con l’Azerbaigian e l’Armenia, che si sono scambiati colpi di artiglieria con una ventina di morti, fino alla questione del Mediterraneo orientale e di Cipro. Intanto le alleanze della Turchia diventano sempre più traballanti, e le relazioni con la Russia, con gli USA e con la Germania sono caratterizzate dalla massima ambivalenza.
Allora ecco che Erdoğan si aggrappa ad una miscela di Islam religioso e vecchio sciovinismo ottomano per compattare il fronte interno e prepararlo ad altre avventure militari: Istanbul val bene cantare una sura, in una Santa Sofia riconsacrata.
Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale |
Teatrino mediatico e sponda istituzionale nel falso
sindacalismo di classe dei dirigenti di Usb
Mano a mano che l’epidemia da Covid‑19 sembra allentare la morsa i sindacati di base hanno cercato di promuovere mobilitazioni dei lavoratori della sanità. Ma, al solito, lo hanno fatto ciascuno per sé, dividendo le azioni di lotta.
Contro questa prassi antioperaia i compagni del Collettivo Usb Ics Maugeri Tradate per il Sindacato di Classe, che aderisce al Coordinamento Lavoratori e Lavoratrici Autoconvocati per l’Unità della Classe, ha promosso alcune iniziative.
Oltre al comunicato in solidarietà coi lavoratori in lotta dell’istituto “La Nostra Famiglia” di Bosisio Parini (Lecco), a cui abbiamo accennato nel resoconto pubblicato in queste pagine, il 12 giugno hanno redatto un comunicato in solidarietà con la lotta all’ospedale San Raffaele di Milano (“San Raffaele, una lotta esemplare contro il sistema sanitario privato in Lombardia - La vostra lotta è la nostra”).
In questo ospedale la maggior parte dei lavoratori è organizzata in due sindacati di base, l’Sgb – che ha subìto una scissione e sta vedendo la sua parte lombarda e veneta confluire nella Cub – e l’Usi. Da parte dei compagni della Maugeri di Tradate, dunque, cercare di gettare un ponte con i militanti del sindacalismo di base di quella struttura ospedaliera ha il valore di un passo per rompere le divisioni prodotte dalle dirigenze di Usb e Sgb, che hanno coinvolto anche diversi delegati.
La lotta al San Raffaele era contro l’applicazione di uno dei contratti collettivi nazionali della sanità privata, quello Aris Aiop. Le categorie del settore di Cgil Cisl e Uil hanno firmato una cosiddetta “ipotesi di rinnovo” pochi giorni prima dello sciopero al San Raffaele, sostenendo di aver ottenuto la parificazione delle condizioni con quelle del contratto collettivo della sanità pubblica.
Ciò nonostante lo sciopero al San Raffaele è riuscito, il che dimostra che i lavoratori hanno fiducia nelle indicazioni dei delegati dei sindacati di base, che hanno rigettato la lettura positiva data dai sindacati di regime del nuovo contratto. Una critica molto ben impostata del rinnovo del contratto Aris Aiop è stata fatta dai compagni della Maugeri di Tradate che hanno pubblicato a luglio un numero del loro bollettino “USBandati” dedicato alla questione e apprezzato da diversi lavoratori della struttura sanitaria dove è stato distribuito.
Oltre a ciò si sono battuti dentro l’Usb – nel Coordinamento Nazionale Usb Ics Maugeri e nel Coordinamento Nazionale Usb Sanità Privata – affinché si promuovesse una giornata di lotta unitaria col resto del sindacalismo di base.
Infine, fra tante tergiversazioni e “finte”, i dirigenti Usb hanno proclamato un ennesimo sciopero in “beata solitudine”, il 2 luglio, dei lavoratori della sanità pubblica, privata e del terzo settore. Come se ciò non bastasse, hanno deciso di organizzare, invece che iniziative locali, solo un presidio nazionale a Roma, sotto la Camera dei deputati (Montecitorio). Ciò non ha potuto che influire negativamente sulla partecipazione dei lavoratori, poco disposti alla sfacchinata di un viaggio in una sola giornata fino a Roma, in piena estate e a sostegno di uno sciopero che già si sapeva non essere una vera prova di forza. Della scelta ci sono giunte lamentele di alcuni delegati. Ma alla dirigenza di Usb non è sul terreno dei rapporti di forza che interessa agire. Il loro lavoro sindacale non è impostato alla costruzione di un sano coinvolgimento dei lavoratori nelle lotte e nell’organizzare, ma quello, estraneo al sindacalismo di classe e fondato sulla sfiducia verso i lavoratori, della costruzione di un “evento mediatico” e della ricerca di una “sponda istituzionale”. Sarebbe manovrando queste due leve che i lavoratori potrebbero riuscire a difendersi, secondo i dirigenti Usb.
A questo scopo sono state messe a disposizione le risorse economiche del sindacato. Siccome i numeri dei vari territori non erano sufficienti a riempire i pullman, hanno garantito il pagamento, evidentemente costoso, dei biglietti del treno.
A coronamento della messa in scena, una delegazione del piccolo presidio romano è stata ricevuta a palazzo, come prontamente riportato dal trionfante comunicato nazionale: “Sanità, uno sciopero di successo: USB presenta alla Camera la piattaforma per il ritorno in mani pubbliche di tutto il settore”.
Invece di costruire una mobilitazione unitaria con il resto del sindacalismo conflittuale, che mostri ai lavoratori la loro forza e li impegni, i dirigenti di Usb credono, e vogliono far credere agli iscritti, che sarebbe sufficiente presentare una piattaforma in parlamento e sperare nei loro rapporti e contatti con questo o quel parlamentare.
Sono anche queste condotte a portare i lavoratori a rivolgersi a iniziative di natura corporativa, come quella del Coordinamento Infermieri, nato in diverse città italiane, che ha organizzato svariati presidi, ben più partecipati di quello dell’Usb, rivendicando miglioramenti nelle condizioni d’impiego solo per la categoria degli infermieri, escludendo tutte le altre figure professionali che operano nelle strutture sanitarie.
II compagni della Maugeri di Tradate hanno così redatto un comunicato, che è stato fatto proprio dal CLA e che qui riproduciamo. Vi sono avanzate una serie di rivendicazioni aderenti ai bisogni dei lavoratori, senza scivolare – cosa assai facile in questo come in altri settori dei servizi sociali, ad esempio la scuola – in rivendicazioni di carattere programmatico-politico inevitabilmente di natura riformistica.
Infatti la “riforma della sanità” per farla tornare “pubblica” è un obiettivo incompleto e fuorviante, benché agitato da tutti i sindacati di base. Ciò che realmente interessa la classe operaia è la gratuità e la disponibilità delle prestazioni sanitarie, uniforme per tutti i proletari. E per i lavoratori del settore la perfetta unicità di trattamento contrattuale, da conseguirsi con una organizzazione e con una battaglia comune.
Una autentica riforma del sistema sanitario invece, che non sia incompleta e sempre revocabile, sarà possibile solo dopo la conquista rivoluzionaria del potere politico.
Sullo sciopero della sanità del 2 luglio
Nelle ultime settimane si sono moltiplicate le iniziative per tentare di dar vita a mobilitazioni nel settore della sanità ma a nostro avviso c’è il rischio concreto che l’autoreferenzialità delle singole organizzazioni sindacali e delle rispettive aree politiche di appartenenza produca una controproducente dispersione delle energie.
Oggi più che mai, dopo la crisi sanitaria messa in evidenza dalla pandemia del sars cov2 e la conseguente accelerazione della crisi economica e sociale, è necessario mettere in campo l’unità d’azione dei lavoratori in lotta e impegnarci per la costruzione dal basso di un fronte sindacale unitario, contro le microburocrazie sindacali che mettono in primo piano i propri interessi organizzativi rispetto alla necessità di unire le forze dei lavoratori e delle lavoratrici.
Perché la morte di 200 operatori sanitari non sia avvenuta invano e gli “eroi” di ieri non abbiano rischiato la pelle perché tutto continui come prima, in attesa della prossima pandemia con un nuovo carico di caduti sul campo, ci auguriamo che questa giornata di mobilitazione, organizzata separatamente da tutte le altre organizzazioni del sindacalismo conflittuale e quindi intrinsecamente debole e sbagliata, non sia fine a se stessa ma rappresenti un primo passo per costruire un percorso di lotta che unisca i lavoratori più combattivi al di là delle sigle di appartenenza o non appartenenti ad alcuna sigla sindacale. Solo l’unità d’azione dei lavoratori in lotta sarà in grado di mettere in campo quella massa critica necessaria a difenderne gli interessi contro il tentativo della borghesia, in veste pubblica o privata, di fare pagare la crisi al proletariato. E proprio con l’obiettivo di mettere fine all’autoreferenzialità delle varie sigle sindacali di base si è costituito il Coordinamento autoconvocati.
Solo un fronte unitario del sindacalismo conflittuale costruito dal basso saprà dare forma e forza a un programma di rivendicazioni immediate sulla sanità.
– Per consistenti aumenti salariali uguali per tutti – Per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario – Per la reale parificazione della contrattazione pubblica e privata – Per l’assorbimento dei lavoratori sospesi nel limbo delle graduatorie concorsuali e la stabilizzazione del personale precario – Per l’internalizzazione dei lavoratori in appalto o subappalto – Per consentire a chi opera nella sanità di lavorare in sicurezza con i dispositivi indispensabili – Per l’abolizione dell’obbligo di fedeltà aziendale che tenta di mettere a tacere ogni possibile critica con il licenziamento – Per una sanità gratuita e immediatamente disponibile a tutti i lavoratori e ai proletari.
A partire da queste rivendicazioni concrete crediamo sia possibile avviare una discussione per costruire azioni comuni sulla sanità che mettano in primo piano gli interessi dei lavoratori del settore e di tutti i proletari.
Coordinamento lavoratori/trici autoconvocati per l’unità della classe
Dopo l’assemblea nazionale in videoconferenza del 31 maggio, il Coordinamento Lavoratori e Lavoratrici Autoconvocati per l’Unità della Classe (CLA) ha promosso una nuova assemblea, questa volta in presenza fisica, presso il CPA Firenze Sud, sabato 27 giugno. L’incontro ha avuto un esito soddisfacente – considerato che era il primo in presenza fisica dopo la quarantena e nel periodo estivo – con una cinquantina di lavoratori, alcuni per la prima volta avvicinatisi al CLA.
L’intervento introduttivo, a nome del Coordinamento, è stato esposto da un nostro compagno, e qui di seguito lo riportiamo. In esso sono delineati i caratteri in base ai quali solo è raggiungibile un’effettiva unità d’azione dei lavoratori, sintetizzabili con l’affermazione secondo cui il Fronte Unico di Classe può esistere alla condizione che sia un Fronte Unico Sindacale di Classe, e non un fronte coinvolgente organizzazioni partitiche, il che lo trasforma in un fronte politico.
I concetti espressi sono di grande importanza, anche perché all’esterno del CLA sono sorte diverse iniziative volte a promuovere “fronti unici di classe”, volutamente indefiniti, in modo da poterci infilare le organizzazioni politiche.
Questi concetti sono stati ripetuti dal nostro compagno, intervenuto ancora a nome del CLA in una assemblea “dei delegati e lavoratori combattivi” tenutasi nella sede bolognese del SI Cobas domenica 12 luglio, convocata da un “Patto d’Azione per un Fronte di Classe Anticapitalista”. Tale “Patto d’Azione” null’altro è che il nuovo nome dato ad una iniziativa che la dirigenza del SI Cobas cerca di promuovere da oltre 3 anni, a loro dire utile a portare i lavoratori dal “terreno della lotta sindacale” a quello della “lotta politica”.
Come la classe operaia, che nella sua larga maggioranza oggi non si solleva nemmeno alla lotta economica, possa elevarsi al “terreno” di quella “politica”, è questione che i dirigenti del SI Cobas risolvono solo con roboanti affermazioni, riferendosi alle lotte condotte in questi anni dal loro sindacato, principalmente nella logistica, certo ragguardevoli ma del tutto insufficienti a ribaltare il quadro presente.
Il giorno precedente, sabato 11 luglio, si era svolta una riunione del Patto d’Azione, preparatoria dell’assemblea del giorno dopo. Si è palesata la debolezza dell’iniziativa per lo scarso numero di presenti, in sala e collegati in videoconferenza; ciò nonostante alle spalle vi sia una organizzazione sindacale che vanta oltre 20 mila iscritti. È evidente che internamente al sindacato non sono in pochi a dissentire da questa impresa a cui la dirigenza dedica tante energie. O semplicemente non vi trovava interesse.
Lo conferma che delle forze sindacali questo patto non raggruppa che il SI Cobas e il piccolo Slai Cobas per il Sindacato di Classe. Per il resto, si tratta di gruppi politici che pensano di poter mettere in moto la classe lavoratrice agendo direttamente su di essa, senza la cinghia di trasmissione dei sindacati. Infatti non si fa alcuna menzione, nei documenti e negli incontri, della lotta da condurre entro le altre organizzazioni sindacali per portarle all’unità d’azione del sindacalismo conflittuale. Si pensa invece che il “Patto” debba appellarsi direttamente ai lavoratori per mobilitarli, ignorando le direttive dei loro sindacati.
Le organizzazioni del sindacalismo conflittuale – che pur deboli organizzano un numero di lavoratori naturalmente di gran lunga superiore a tutti i gruppi politici aderenti al Patto messi insieme (anche perché parte di questi sono composti da studenti) – non si sono avvicinate a questa iniziativa, e persino l’Adl Cobas, che ha sempre scioperato insieme al SI Cobas e inizialmente partecipava alle riunioni, se ne è defilato, motivando la decisione proprio col non condividerne il fine politico-partitico.
È vero che una parte dei gruppi politici che aderiscono al Patto possono dare una mano partecipando ai picchetti. La cosa può essere di aiuto ma non può certo sostituire lo sviluppo del sindacalismo di classe fra i lavoratori, e se è il risultato di un lavoro che va a detrimento della costruzione di un fronte sindacale di classe è ben più dannosa che utile.
L’assemblea di domenica 12 doveva servire a dare una verniciata sindacale ad un fronte di gruppi partitici ma l’apporto di militanti e forze sindacali è stato modesto.
A parte gli interventi di esponenti del SI Cobas – va da sé in linea coi proposti dei promotori dell’assemblea – e di alcuni della Opposizione in Cgil – per lo più partecipi al Patto d’Azione in qualità di membri dei gruppi politici che vi aderiscono – gli altri interventi, di due delegati dell’Usb, del capo dello Sgb, di Sergio Bellavita – da poco uscito dall’Usb – e del nostro compagno a nome del CLA, hanno indicato una strada che, anche se per ragioni fra loro diverse, diverge da quella proposta dai dirigenti del SI Cobas.
Non vi erano esponenti né della Cub né della Confederazione Cobas, oltre che dei piccoli Adl Cobas, Usi Ait, Adl Varese, Sial Cobas, Cobas Sanità Università Ricerca, Cat.
All’assemblea del CLA del 27 giugno a Firenze – di dimensioni poco inferiori – vi era stata invece una presenza più eterogenea, con militanti della Opposizione Cgil, dell’Usb, della Cub, della Confederazione Cobas, dei Cobas SUR, del CAT e dell’ADL di Varese. Vi erano inoltre esponenti di gruppi operai di Vicenza e Sesto S. Giovanni (Milano). Non erano presenti militanti né del SI Cobas né dell’ADL Cobas.
Dall’assemblea del 12 luglio è scaturita una mozione finale che nel paragrafo finale afferma: «A partire da queste basi e da queste proposte intendiamo lanciare un percorso di confronto con tutte le realtà di lotta, sindacali e non, al fine di giungere a una vera assemblea nazionale dei lavoratori combattivi». Si noti, “sindacali e non”, a conferma del rifiuto a mantenere nel campo sindacale il loro “fronte unico”.
Così conclude la mozione: «... con l’obiettivo di aprire una vera agenda di lotta per il prossimo autunno, capace di ... portare in tempi brevi a un vero sciopero generale e a una grande manifestazione nazionale che porti la voce e la rabbia di migliaia di sfruttati sotto i palazzi del governo». Col che sembra che nelle intenzioni dei dirigenti del SI Cobas vi sia ripetere, per la terza volta, in occasione del cosiddetto sciopero generale, una manifestazione nazionale a Roma – dopo quella riuscita di due anni fa e quella andata male dell’anno scorso, con enorme dispendio di risorse umane ed economiche – a detrimento della riuscita dello sciopero stesso, separatamente da tutte le altre organizzazioni sindacali che mai vi hanno partecipato, compreso l’Adl Cobas, ma insieme a gruppi politici opportunisti che non riescono o non vogliono comprendere la necessità di mantenere distinti – sebbene non scollegati – l’ambito sindacale da quello partitico.
Per l’autunno che viene il fronte del sindacalismo conflittuale sembra presentarsi ancora più diviso che negli anni passati, quando le dirigenze di SI Cobas, Cub, Sgb, Adl Cobas e Usi Ait, si incontravano a luglio per proclamare con larghissimo anticipo lo sciopero generale per ottobre, escludendo Usb e Confederazione Cobas.
È fallito il processo di unificazione fra Sgb e Cub, proclamato fin dal primo congresso dello Sgb (febbraio 2017). Ma la maggioranza delle strutture lombarde, e parte di quelle venete e romana hanno deciso di aderire ugualmente alla Cub e di fatto è già in atto una scissione che coinvolge quasi la metà del piccolo sindacato, che aveva baricentro in Emilia Romagna e che era nato da una scissione dall’Usb nel febbraio 2016. I rapporti fra Sgb e Cub sono divenuti quindi pessimi e la seconda ha pensato bene di proclamare, il 14 luglio, uno sciopero generale da sola per il 23 ottobre.
È interessante notare come alcuni dirigenti lombardi dello Sgb quando erano nell’Usb avevano sostenuto la scelta di aderire al Testo Unico sulla Rappresentanza e osteggiato l’azione dei nostri compagni volta a far revocare quella decisione. Oggi si apprestano a entrare in un sindacato – la Cub – che certo li accoglierà ma che ha fatto della firma della dirigenza Usb del TUR la ragione per condurre una sorta di guerra di religione a quel sindacato, escludendo “senza se e senza ma” ogni azione unitaria con esso. A conferma di come l’uso della questione del TUR per almeno una parte della dirigenza della Cub fosse solo strumentale.
Quindi, attualmente i fronti nel sindacalismo di base sarebbero non più due bensì almeno tre: da un lato il SI Cobas, la cui dirigenza marcia dritta col suo irrinunciabile progetto sindacal-politico; poi la Cub la cui dirigenza ha già proclamato lo “sciopero generale”; infine l’Usb, i cui capi si distinguono per pervicacia nell’ignorare le altre organizzazioni sindacali conflittuali. Sarà da vedere cosa faranno la Confederazione Cobas ed i sindacati più piccoli, come Sgb e Adl Cobas.
In questo quadro disarmante e a fronte dell’ulteriore passo indietro delle dirigenze del sindacalismo conflittuale, la strada indicata dal Coordinamento Lavoratori e Lavoratrici Autoconvocati emerge in modo ancor più nitido come quella necessaria e corretta. Occorre cioè unire i militanti di tutte le organizzazioni e aree del sindacalismo conflittuale che vogliono battersi contro l’azione di divisione della maggioranza delle dirigenze per imporre l’unità d’azione ad un ventaglio il più ampio possibile di organismi.
A questo scopo, fatto il bilancio della situazione, il CLA ha lanciato un “Appello per l’unità di classe - Per uno sciopero generale unitario e unico di tutto il sindacalismo di base e conflittuale!”.
Assemblea CLA
CPA - Fi Sud sabato 27 giugno
Intervento introduttivo
[mp3]
Vogliamo iniziare questa assemblea tornando a parlare un poco del Coordinamento.
La nostra non è l’unica iniziativa che si richiama all’unità. E non è certo nostra intenzione muoverci su un piano concorrenziale con altre iniziative simili alla nostra, la qual cosa sarebbe in palese contraddizione con la nostra ragion d’essere.
Vi sono però dei caratteri che noi crediamo distinguano il nostro Coordinamento da gran parte delle altre iniziative simili. A noi preme sottolineare e spiegare tali differenze non per un gusto fine a sé stesso di distinguerci ma in quanto crediamo che in esse risieda la giusta strada per raggiungere quel comune obiettivo da tutti rivendicato: l’unità dei lavoratori.
Intanto è il caso di dire che la parola “unità” sia una fra le più abusate e per questo pericolose. Bisogna sempre chiarire bene di quale unità si parli.
Tipicamente il padronato, di fronte alla crisi della sua economia, chiama all’unità nazionale, cioè all’unità fra i lavoratori ed i loro sfruttatori, per scaricarne sui primi gli effetti e difendere il proprio privilegio sociale e dominio politico.
L’unità nazionale è anche il dogma del sindacalismo collaborazionista: ne è il più recente esempio il richiamo a un “contratto sociale” da parte del segretario generale della Cgil. Dagli anni della ricostruzione postbellica al preteso rilancio post‑Covid 19, passando per la svolta dell’EUR – che poi appunto non era una svolta ma uno svelare la continuità mai abbandonata da parte della dirigenza Cgil – la litania è sempre stata quella del “patto sociale” fra lavoratori e padroni in “difesa dell’economia nazionale”.
Ma il sindacalismo collaborazionista evoca anche un altro tipo di unità: quella sindacale, intendendo con essa l’unità fra i tre grandi sindacati di regime: Cgil, Cisl e Uil. Questa unità ha come obiettivo il riconoscimento da parte del padronato della esclusiva a trattare riservata a questi sindacati e porta in pegno la pace sociale, cioè il controllo che questi sindacati riescono ad avere sui lavoratori impedendone la lotta.
Il sindacalismo di classe promuove l’unità della classe lavoratrice sul piano della lotta, una lotta che, essendo rivolta contro la classe padronale ed contro il suo regime politico, spezza l’unità nazionale.
Anche per questo il nostro Coordinamento parla non di mera e semplice “unità dei lavoratori” ma di “unità d’azione dei lavoratori e del sindacalismo conflittuale”. “Unità d’azione dei lavoratori” perché, ad esempio, crediamo che – in linea generale pur se non assoluta – questa vada perseguita anche con quei lavoratori che ancora seguono le mobilitazioni promosse dai sindacati di regime, per rapportarci con essi e portarli sul terreno della vera lotta.
“Unità d’azione del sindacalismo conflittuale” quale strumento non unico ma indispensabile per raggiungere il più elevato grado di unità d’azione dei lavoratori. Non attraverso una mera sommatoria di sigle – secondo una critica debole che più volte ci è stata rivolta – bensì battendoci per questo obiettivo “dal basso”, nella consapevolezza, dataci da decenni di milizia nel sindacalismo di base, che la maggioranza delle sue dirigenze si oppone ad essa.
E qui arriviamo all’ultimo importante distinguo necessario quando si parla di unità e che caratterizza il nostro Coordinamento e la strada che proponiamo. Noi sosteniamo infatti che tale unità d’azione vada ricercata fra i lavoratori e fra le forze del sindacalismo conflittuale, di classe, e non sul terreno partitico. Riteniamo cioè che un Coordinamento, un Fronte, un Patto d’Azione, debba essere di natura sindacale e non sindacal-partitica. Questo non perché sosteniamo la apoliticità dell’azione sindacale e del sindacato. Nient’affatto. Al contrario ogni azione sindacale ha un senso ed un valore politico. Ma la capacità del militanti politici che sono anche lavoratori attivi nella lotta sindacale dev’essere quella di dimostrare la validità del proprio orientamento politico ad indicare i mezzi pratici più idonei alla lotta per gli obiettivi immediati che interessano ai lavoratori, cioè appunto nella lotta sindacale che non si nutre di programmi politici ma di obiettivi economici e di condizioni di lavoro e di vita “a corto raggio”.
Se invece, in un fascio di forze sindacali si inserisce un partito o una alleanza di partiti, il risultato è da un lato inibire i lavoratori di diverso orientamento politico, o senza ancora un orientamento politico, dall’avvicinarvisi; dall’altro provocare il boicottaggio dell’iniziativa da parte di quelle forze sindacali dirette da forze politiche avverse a quelle inserite nel fronte o coordinamento sindacal-partitico.
In estrema sintesi:
- Se tutti i militanti politici che sono lavoratori compiono lo sforzo di
tradurre in termini pratici di lotta sindacale i rispettivi orientamenti
politici, e per questa via – certamente dura e faticosa – cercano di guadagnarsi
la fiducia dei lavoratori, allora, da un lato una unione di forze sindacali è
possibile, certo non escludendo il dibattito e il confronto fra i vari indirizzi
di lotta immediata che si propongono, dall’altro si garantiscono le condizioni
affinché ci si possa rivolgere a una platea più ampia di lavoratori;
- Se invece si sceglie la strada di coordinamenti, patti, fronti misti
sindacal-partitici, ciò che si rifletterà in essi saranno le inevitabili
divisioni sul piano partitico, col risultato di generare tanti coordinamenti,
fronti, patti “per l’unità dei lavoratori” quanti sono i fronti partitici.
Questa nostra impostazione determina anche le modalità del nostro rapporto con altre iniziative che si richiamano all’obiettivo dell’unità d’azione dei lavoratori ma che pensano di perseguirlo non attenendosi solo al terreno sindacale bensì di coinvolgere anche quello partitico. Noi abbiamo affermato e confermiamo la nostra disponibilità a collaborare con queste iniziative laddove e fintanto esse agiscano in campo sindacale.
Come i compagni dopo di me racconteranno in modo più completo il nostro Coordinamento si muove sostanzialmente – nei limiti e nel rispetto delle proprie forze, evitando cioè responsabilmente di fare il passo più lungo della gamba, di farsi carico di impegni che non è in grado di onorare – su due binari.
Da un lato ci facciamo promotori di un lavoro su due argomenti specifici e di iniziative relative, alle quali invitare delegati del sindacalismo conflittuale e lavoratori iscritti o non iscritti ai sindacati. Questi settori di intervento sono la sicurezza e la salute sul posto di lavoro e nel territorio e la questione della sanità.
Dall’altro i compagni promuovono e si battono all’interno delle rispettive organizzazioni sindacali per l’unità d’azione del sindacalismo conflittuale.
Piccoli risultati ai quali ci ispiriamo, che sosteniamo e che in alcuni casi, in piccola misura, abbiamo contribuito a favorire, sono il cartello unitario del sindacalismo di base fra i postali, i comunicati unitari fra i ferrovieri, quelli dei militanti del sindacalismo di base di diverse fabbriche FIAT, il coordinamento intersindacale nato a Milano per i lavoratori del settore turistico-alberghiero.
I compagni iscritti all’Usb – di cui faccio parte – della sanità privata e aderenti al CLA hanno portato solidarietà in questi mesi alle lotte all’Istituto Sacra Famiglia di Lecco, pur controllata dai sindacati collaborazionisti, e a quelle dell’ospedale San Raffale di Milano, dove operano altri sindacati di base. Si sono battuti internamente al sindacato nella direzione della costruzione di una mobilitazione unitaria del sindacalismo di base per i lavoratori della sanità pubblica e privata – non essendo riusciti a impedire lo sciopero in assoluta solitudine del prossimo 2 luglio, in cui comunque come CLA interverremo portando solidarietà ma denunciando i limiti di tale azione.
Lascio la parola ai compagni e alle compagne per riempire di contenuti e precisazioni questi indirizzi di azione del CLA qui accennati.
(continua)
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I braccianti nello Stato di Washington contro l’esposizione al Covid‑19
Yakima, nello stato del Washington, è stata teatro di una grande ondata di scioperi di lavoratori agricoli. La contea è la maggiore produttrice di mele degli Stati Uniti, con oltre 22.000 ettari di meleti.
Gli scioperi hanno avuto inizio nella giornata del 7 maggio alla “Allan Bros Fruit Co.”, dove 50 lavoratori hanno sospeso le attività preoccupati circa le misure dell’azienda rispetto al Covid‑19.
Il 13 maggio sono entrati in sciopero anche i braccianti della “Mason Fruit Company” a Saleh. I lavoratori hanno protestato contro le malsane condizioni lavorative a cui sono costretti, in assenza di dispositivi di protezione, sanificazione e distanziamento. Hanno lamentato di dover lavorare in prossimità gli uni agli altri e di non essere stati informati dai proprietari quando uno dei loro compagni è stato trovato positivo al coronavirus.
In un breve arco di tempo, lavoratori di altre tre aziende, di proprietà di un’impresa nel settore dell’imballaggio frutticolo, sono entrati in sciopero per le stesse motivazioni.
Jon Devaney, presidente della padronale “Washington State Tree Fruit Association”, ha affermato che l’associazione “ha chiesto l’aiuto dello Stato per i dispositivi di protezione” e ha attaccato i lavoratori che, mentre lamentano l’assenza di distanziamento sociale all’interno delle strutture lavorative, al di fuori di esse si sarebbero avvicinati fra loro durante le proteste!
Il 28 maggio il governatore dello stato di Washington, Jay Inslee, ha emesso un Ordine Esecutivo relativo alla questione dei lavoratori agricoli in presenza del Covid‑19, non affrontando però la condizione degli stabilimenti di trasformazione agroalimentare e di stoccaggio delle carni, quando questi ultimi, su scala nazionale, hanno probabilmente visto il più alto numero di lavoratori positivi al virus.
Il proletariato trova la sua forza nell’unione e nell’organizzazione. Questo il messaggio che arriva dai braccianti di Yakima.
Lo sciopero di Portland in una associata Amazon contro la minaccia Covid
Il 3 luglio, i lavoratori del “Whole Foods Market” del Pearl District di Portland, Oregon, hanno scioperato contro le proprie condizioni di lavoro durante l’emergenza Covid‑19, che hanno portato alla morte di un loro collega.
Lo sciopero è stato organizzato dai lavoratori stessi, senza l’aiuto di sindacati, dimostrando un buon grado di combattività. Gli scioperanti, tra cui quelli di servizio nel turno successivo, che una volta arrivati sul luogo di lavoro si sono anch’essi uniti al picchetto, hanno affermato in un documento: «La Whole Foods e la sua azienda madre Amazon hanno ripetutamente dimostrato di avere più a cuore i loro profitti che i lavoratori i quali, turno dopo turno, mettono la propria vita in pericolo: è a ciò che noi lavoratori ci opponiamo.
Le denunce degli addetti ai servizi della Whole Foods riflettono la condizione della classe lavoratrice nella sua interezza. Per le aziende anche in tempi di pandemia globale osserviamo che mantenere un alto numero di clienti è più importante della salute dei lavoratori. Veniamo trattati come strumenti “usa e getta”, anche dopo che è morto uno dei nostri».
A differenza di molte “campagne di sostegno” presso i negozi delle catene Walmart o Target, fortemente promosse dalla sinistra del capitale, questi lavoratori hanno loro stessi avanzato rivendicazioni alla direzione aziendale. «In seguito al decesso del nostro amico e collega – hanno scritto – abbiamo assistito ad una tiepida reazione alle preoccupazioni che abbiamo espresso in termini di salute e sicurezza sul lavoro, e chiediamo ora che sia fatta giustizia».
Le rivendicazioni sono:
– «ripristino e aumento dell’indennità di rischio, poiché la nostra salute viene
messa sempre più in pericolo con l’inesorabile aumentare dei contagi da Covid;
– «obbligo per tutti i clienti di indossare la mascherina protettiva, o affidare
il compito della spesa ad uno degli addetti;
– «indipendentemente dal numero di lavoratori presenti severo rispetto dei
limiti di capienza stabiliti e la segnaletica;
– «libertà di esprimere il nostro sostegno alle comunità emarginate, attraverso
distintivi, spille, accessori ed altri elementi di abbigliamento;
– «solidarietà a tutti i dipendenti di Whole Foods Market del paese che sono
stati allontanati dal turno di lavoro o sono stati sospesi per aver manifestato
il loro sostegno per Black Lives Matter».
Azioni di base dei tecnici delle American Airlines
La notizia delle compagnie aeree che mettono a repentaglio la salute dei dipendenti è arrivata perfino nei notiziari. Tutti loro si trovano in prima linea: gli addetti alle biglietterie, ai gate e alle rampe, i piloti e gli assistenti di volo, fino ai tecnici incaricati di far volare sicuri gli aerei.
Negli Stati Uniti nel gennaio 2019 il sindacato dei tecnici del sindacato TWU‑IAM aveva raggiunto un accordo provvisorio del costo di 4,2 miliardi di dollari, un accordo risultato di una grande lotta, con danni alle compagnie di milioni di dollari per voli ritardati e cancellati. Ma ne ha fatto le spese un lavoratore finito agli arresti.
Lo scorso maggio 2019 i meccanici dell’American Airlines avevano minacciato quella che sarebbe stata la “battaglia più sanguinosa e dura” della storia del lavoro. Ci sarebbero voluti sette mesi per raggiungere l’accordo secondo il piano di lotta stabilito dai meccanici.
L’American Airlines ha accusato i sindacati dei meccanici di rallentare intenzionalmente le operazioni di manutenzione per costringere la compagnia a sottomettersi. Ne sono risultate oltre 900 cancellazioni di voli e innumeri ritardi nel corso di soli due mesi. Oltre a lavorare lentamente i meccanici avrebbero scritto nei rapporti che non avrebbero effettuato i controlli fino a quando non fosse stata effettuata una revisione approfondita dell’aereo come condizione per poter effettuare le riparazioni. Questo avveniva in un momento in cui i jet Boeing 737 MAX erano a terra e le compagnie effettuavano i voli con il restante della loro flotta. In un’istanza al tribunale hanno sostenuto che i sindacati avevano causato loro “enormi perdite finanziarie e danni inestimabili per la perdita della fiducia dei clienti”.
* * *
Successivamente, in epoca di Covid‑19, un tecnico del Wisconsin, riguardo la continuazione del lavoro ha esclamato: «Se ai dirigenti è permesso di lavorare al sicuro da casa perché non agli operai? Non aspettatevi che i capi‑reparto o i vostri rappresentanti sindacali si preoccupino del vostro benessere, e la vostra vita in pericolo».
Quando ad uno sciopero “generale” nessuno aderisce
Gemeva la montagna in travaglio, alla fine ha partorito un topolino. Negli Stati Uniti, in linea con quanto accaduto in passato, anche quest’anno è stato indetto uno “sciopero generale” per il 1° Maggio, che laggiù, giustamente, non è giorno “di festa” come in Europa. Molti gruppi “di sinistra” si sono così rivolti ai lavoratori di varie aziende, come Target e Amazon. Ma pochi lavoratori hanno aderito.
Cos’è successo? Perché non vi è stata alcuna significativa azione? Chi sono i responsabili del fallimento? I lavoratori non si meritano l’impegno dei promotori? O i media borghesi ne hanno nascosto il reale successo?
La risposta è molto più semplice. Il cosiddetto “sciopero generale” altro non era che un tentativo da parte di organizzazioni borghesi e dei sindacati di regime di approfittare del crescente malessere dei lavoratori, facendosi pubblicità e magari attirando qualche finanziamento sotto forma di iscrizioni e donazioni. Una truffa in cui la classe operaia non è caduta sapendo di non avervi nulla da guadagnare.
Questi diversivi borghesi e interclassisti ritardano lo sviluppo delle organizzazioni sindacali necessarie per combattere davvero le manovre, sempre più disperate, della borghesia, atte ad aumentare il tasso di sfruttamento.
La pandemia di Covid‑19 ha messo in evidenza la debolezza dell’economia statunitense, che non si è mai veramente ripresa dalla crisi economica del 2008. Anzi, l’emergenza sanitaria ha interrotto i lenti progressi verso il ritorno ai tassi di profitto precedenti la crisi. Temporaneamente la caduta libera è stata ritardata da un pesante aumento del debito e da altri artifici finanziari, le cui conseguenze, come i repubblicani hanno ripetutamente rimproverato ai democratici, il governo degli Stati Uniti deve ora affrontare, dando luogo a misure di disciplina del lavoro sempre più draconiane, tagliando quei servizi sociali vitali che spesso sono serviti ad alleggerire il peso dello sfruttamento. I tagli alla sanità pubblica hanno fatto sì che quella che poteva essere solo una forma più grave dell’epidemia SARS 2002‑2004 si è trasformata in una pandemia globale.
Secondo un copione che è andato avanti dalla crisi economica degli anni ‘70, i democratici e le ONG loro alleate, così come i sindacati del regime, continuano a legittimare questi peggioramenti.
I sindacati del regime e organismi come la Nation of Change, insieme alla sinistra borghese, moderata o radicale, e a quella opportunista, cercano di trarre vantaggio dalle preoccupazioni dei lavoratori durante la crisi. Così, per guadagnare influenza all’interno della classe lavoratrice, adottano alla situazione attuale, anche con metodi obliqui, vecchie parole d’ordine utopistiche.
Né loro né la cosiddetta “sinistra rivoluzionaria”, opportunista, si sono mai sognati di propagandare l’unica tattica che effettivamente potrebbe produrre risultati reali, cioè il difficile compito di preparare l’unità di lotta della classe operaia.
Invece, a freddo, per il 1° Maggio hanno “indetto” lo sciopero, e nessun lavoratore vi ha aderito, nessun calo significativo delle presenze sul lavoro e gli affari dei padroni non hanno avuto alcun danno. Nessuno degli obiettivi che si erano prefissati ha potuto così essere ottenuto.
La tattica giusta è quella di preparare davvero uno sciopero generale, per la riduzione dell’orario a parità di salario, per dispositivi di protezione a spese del padrone e altro, questo sì sarebbe davvero necessario. Ciò di cui il proletariato ha bisogno è organizzarsi: non accettando la falsa tutela o addirittura la direzione delle ONG borghesi, dei partiti dell’opportunismo di sinistra, il cui solo scopo è contenere e non espandere la lotta.
Solo organizzandosi in sindacati sempre più estesi e combattivi il proletariato potrà migliorare le sue condizioni di vita e di lavoro e porre le basi per distruggere il capitalismo.
Il salario dei minatori della Repubblica Popolare di Lugansk, territorio conteso fra Russia e Ucraina, supera a malapena i 20 mila rubli russi poco più di 250 euro, ma, come dimostrano i fatti, non sempre ne è garantito il pagamento.
Il Donbass è ricco di risorse minerarie, sulle quali si è basato il suo sviluppo fin dal periodo sovietico, che ha favorito la sua industrializzazione. Anche dopo il crollo dell’URSS il Donbass ha continuato a fornire di risorse minerarie all’Ucraina. Ma la guerra in corso ormai da sei anni e la presenza di miniere ormai obsolete e non più redditizie stanno determinando il crollo del settore. Nelle miniere che rischiano la chiusura i minatori sono licenziati o costretti ad andarsene non pagandogli il salario: sono lasciati senza paga anche per mesi. E’ inevitabile lo scoppio di scioperi, sempre duramente repressi dalle autorità delle repubbliche separatiste, a dimostrare che le cosiddette “repubbliche popolari” di Lugansk e di Doneck sono antioperaie come qualunque stato borghese.
Anche l’ultimo sciopero è il frutto della grave situazione in cui versano i minatori. Il 5 giugno i lavoratori della miniera Komsomolskaja, ad Antratsyt, hanno scioperato e si sono rifiutati di risalire dal fondo. Questa non è stata la loro prima azione: non ricevendo il salario da aprile, già allora hanno fatto lo stesso. In quell’occasione, come riportano i testimoni, il denaro fu letteralmente calato al fondo dei pozzi.
Ma la direzione della miniera, statale, non ha poi continuato a pagare i dipendenti. I lavoratori hanno fermato di nuovo la produzione.
Ciò ha determinato l’inizio della repressione da parte delle autorità, che la sera del 7 giugno, per cercare di impedire l’estensione dello sciopero ad altre miniere, hanno dato il via ai primi arresti dei lavoratori più combattivi. L’arresto e la detenzione sono avvenuti al di fuori di ogni legalità. I detenuti non avevano nemmeno avvocati, che, comunque, hanno paura di essere coinvolti nell’affare. In 22 erano scomparsi; tra loro anche tre delle loro mogli. Alcune fonti hanno riferito di maltrattamenti ai minatori detenuti.
Dopo aver appreso della detenzione dei compagni i minatori hanno aggiunto alle loro richieste il rilascio degli arrestati e la analoga garanzia per loro stessi.
Non appena è apparsa chiara la determinazione dello sciopero ad Antratsyt è stata dichiarata la quarantena anti Covid‑19, con l’obbiettivo di isolare gli scioperanti. Con quel pretesto l’ingresso e l’uscita della città erano fortemente limitati e fermato il servizio degli autobus. La città ha subito interruzioni di internet e dei telefoni, l’accesso alle fonti di informazioni è stato bloccato, in particolare i siti che pubblicavano notizie sullo sciopero. Non è stato permesso di portare cibo e acqua ai minatori. Le autorità della repubblica separatista minacciavano gli scioperanti di multe e decurtazioni dei salari.
Ma, nonostante queste drastiche misure, si sono uniti allo sciopero anche i lavoratori delle miniere limitrofe.
Lo sciopero si è concluso dopo una settimana, sabato 13 giugno, con i 119 minatori della Komsomolskaja risaliti in superficie. E’ stato loro pagato lo stipendio di aprile e promossa una soluzione per gli altri arrestati.
Resta ancora da accertare la situazione di almeno sette lavoratori di cui non si hanno notizie. Ma tutti hanno subito intimidazioni da parte delle forze di sicurezza.
Lo sciopero del Donbass costituisce un fatto importante perché riuscito ad imporsi nonostante la guerra che, sebbene di minore intensità rispetto agli anni scorsi, continua ancora. La loro lotta deve essere di esempio per tutta la classe operaia della regione che, martoriata dalla guerra, non ha alcuna altra possibilità di difesa, né nelle repubbliche separatiste, né sotto lo Stato ucraino, né sotto quello russo
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L’aggravarsi della crisi del capitalismo mondiale determina una crescita delle tensioni tra le due principali potenze imperialistiche: Cina e Stati Uniti, oltre alla guerra commerciale non cessata con l’accorso siglato lo scorso gennaio, si trovano schierati in armi nelle acque dell’Oceano Pacifico. Il confronto si snoda in una zona che comprende i Mari Cinese Orientale e Meridionale, dei quali è conteso il controllo degli stretti e di minuscole isole, diventate importanti posizioni strategiche.
Nell’area si trova anche la grande isola di Taiwan, che riveste un ruolo cruciale.
L’isola, a seguito delle vicende della guerra civile combattuta alla fine della seconda guerra mondiale tra gli eserciti del Partito Comunista Cinese e del Kuomintang, si proclama ancora la “vera Cina”, in contrapposizione alla Repubblica Popolare. Ma il suo attuale status, del tutto particolare, non va considerato in base a diritti storici o diplomatici, con tutto l’armamentario ideologico conseguente, ma come il prodotto di un rapporto di forze, e non tra Pechino e Taipei ma tra le due maggiori centrali dell’imperialismo mondiale, Repubblica Popolare e Stati Uniti. La questione di Taiwan rappresenta una frattura aperta nello scontro tra le due potenze e le schermaglie in corso nell’area fanno intravedere la feroce lotta per determinarne la sorte, che potrà essere sciolta solo dalla forza, nel generale scontro tra gli Stati borghesi.
Il ruolo di Taiwan
Benché a soli 150 chilometri dalle coste cinesi, Taiwan ha sviluppato tardivamente relazioni stabili con il continente. Abitata da circa 30mila anni da popolazioni austronesiane, restò per secoli ai margini del potere imperiale cinese, unitario fin dal 221 a.C., il quale non si interessò di questa grande isola, invece utilizzata dai mercanti e dai pirati continentali come rifugio contro il potere centrale e base dei propri traffici nella vasta area fino al Sud‑Est asiatico. L’impero cinese, che basava la sua economia su una produzione agricola ben organizzata, non aveva rilevanti interessi nel commercio marittimo, tanto meno mire di espansione verso le terre aldilà dei mari circostanti: con la sua forza politica aveva stabilito l’assoggettamento dei popoli vicini a un sistema di tributi. Invece aveva da temere da nord la minaccia di invasioni di popoli nomadi.
L’importanza di Taiwan emerse con l’inizio dell’espansione marittima e commerciale delle potenze europee. Mercanti olandesi vi arrivarono nel 1623, vi costruirono fortificazioni e tentarono di assoggettare le popolazioni locali. Il nascente capitalismo europeo necessitava di basi commerciali in Estremo Oriente, ma non era ancora in grado di scalfire un potere solido e ben organizzato come quello dell’impero cinese. Infatti la permanenza olandese a Taiwan durò meno di quarant’anni: nel 1662, dopo nove mesi di assedio, gli olandesi furono cacciati dalle forze di Koxinga, un capo militare proveniente da una ricca famiglia di mercanti dediti anche alla pirateria. Ne nacque un regno che durò fino al 1683, quando la dinastia mancese dei Qing, ormai padrona della Cina, sottomise l’isola di Taiwan.
Il dominio imperiale su Taiwan durò due secoli, ma instabile, anche per la presenza di fiere popolazioni indigene nei monti dell’entroterra, che mai si riuscì a far pagare le tasse.
Quando la pressione imperialistica verso la Cina imperiale sfociò in guerre Taiwan fu invasa: nel 1840 dai britannici durante la prima guerra dell’oppio, dai francesi nel 1884 nella guerra franco-cinese. Tra il 1894 e il 1895 fu combattuta la guerra sino‑giapponese: con l’ennesimo “trattato ineguale”, il Trattato di Shimonoseki, la Cina, oltre a dover rinunciare a qualunque rivendicazione sulla Corea, cedeva al Giappone la penisola di Liaotung, le Isole Pescadores e anche Taiwan.
I giapponesi governarono Taiwan per 50 anni, fino alla fine della seconda guerra mondiale. La resistenza taiwanese mostrava due tendenze: il nazionalismo cinese e il movimento per l’autodeterminazione taiwanese. Ma il forte apparato militare giapponese riuscì a schiacciare qualunque ribellione. Sotto il Giappone a Taiwan furono costruite industrie ed infrastrutture: verso la fine del suo dominio la produzione industriale aveva superato quella agricola.
La protezione Usa
Con la sconfitta nella seconda guerra mondiale del Giappone, Taiwan ritornò alla Cina, allora governata del Kuomintang. Ben presto riprese la guerra civile tra il PCC e il Kuomintang, che avevano combattuto insieme in funzione antigiapponese. Il governo nazionalista del Kuomintang, dopo la sconfitta contro le armate guidate dal PCC, che il primo ottobre del 1949 proclamava la nascita della Repubblica Popolare, si ritirò a Taiwan insieme a ciò che restava del suo esercito, dell’apparato burocratico e di molti esponenti della borghesia cinese. Taiwan, governata dal Kuomintang, divenne uno Stato indipendente col nome di Repubblica di Cina. Dal 1949 Taipei rivendica il territorio della Cina continentale e della Mongolia, mentre Pechino considera l’isola di Taiwan una sua provincia ribelle. La RPC concede relazioni diplomatiche solo agli Stati che non riconoscono la sovranità di Taiwan.
In questa contrapposizione si è inserita Washington, che ha garantito l’esistenza di Taiwan contro la altrimenti sicura aggressione e annessione alla RPC. Le vicende dal 1949 ad oggi dimostrano che solo l’ombrello protettivo dell’imperialismo americano ha impedito alla RPC di estendere il suo controllo su Taiwan.
Il Kuomintang, ritirandosi, aveva occupato e lasciato forze armate sulle isole di Hainan, Kinmen (o Quemoy) e Matsu, a pochi chilometri dalla costa cinese. Pochi mesi più tardi, tra il marzo e il maggio del 1950, Pechino lanciò un’operazione militare contro l’isola di Hainan. Nonostante lo sbarco fosse effettuato mediante dei pescherecci – la Cina maoista non possedeva ancora una vera marina militare – l’operazione ebbe successo e Hainan fu strappata ai nazionalisti, azione resa possibile dal non intervento americano.
Ma, con lo scoppio della guerra in Corea, nel giugno del 1950, gli Stati Uniti rafforzarono la loro posizione individuando nell’isola di Taiwan una base fondamentale per le operazioni in Asia, “una portaerei inaffondabile”, nelle parole del generale MacArthur. Gli Stati Uniti imposero la “neutralizzazione” dello Stretto di Formosa e vi inviarono la Settima Flotta. Oltre alle garanzie di protezione gli USA iniziarono a fornire Taiwan di armamenti. Fin dai suoi primi mesi di vita la sopravvivenza della Taiwan nazionalista dipese dalla protezione dell’imperialismo americano.
Tale condizione fu confermata tra il 1954 e il 1955 durante la cosiddetta Prima Crisi dello Stretto di Formosa quando, in risposta a un massiccio spostamento di truppe nazionaliste sugli arcipelaghi di Kinmen e Matsu, la Repubblica Popolare rispose bombardandole. La protezione degli Stati Uniti si concretizzò in un Patto di Mutua Sicurezza, che fece intravedere anche la possibilità di una guerra totale con la Cina maoista, fino all’uso dell’arma atomica. Di fronte una tale minaccia Pechino cessò i bombardamenti.
La tregua durò tre anni: nell’agosto del 1958 l’esercito cinese riprese a colpire con l’artiglieria Quemoy, iniziando una Seconda Crisi nello Stretto. Insieme ai massicci bombardamenti iniziarono anche i preparativi per uno sbarco. Ma, oltre alla strenua resistenza dell’esercito nazionalista, gli americani risposero rafforzando la Settima Flotta nelle acque dello Stretto. Armi, munizioni e rifornimenti arrivarono all’esercito taiwanese. Già verso la fine di settembre Pechino fu costretta a negoziare una tregua e il 6 ottobre dichiarò un cessate il fuoco unilaterale.
Le ostilità tra Pechino e Taipei continuarono fino al 1979, ma gli scontri armati erano sostituiti da una guerra di propaganda tra i due governi. Intanto, nel 1971, la Repubblica Popolare aveva ottenuto una importante vittoria a livello diplomatico, con l’approvazione da parte dell’Assemblea Generale dell’ONU di una risoluzione che ritirava il riconoscimento di Taiwan e riconosceva la Repubblica Popolare come unico governo legittimo della Cina.
Negli anni Settanta si stabilizzano le relazioni tra Pechino e Washington, sulla base di tre condizioni imposte dalla Repubblica Popolare: rispetto del principio di “una sola Cina”, che vieta a qualsiasi Paese di avere contemporaneamente rapporti diplomatici con Pechino e con Taipei; cassare il precedente trattato di reciproca difesa tra Stati Uniti e Taiwan; ritiro delle truppe americane dall’isola. Dopo l’ulteriore riavvicinamento avvenuto nel 1972, si arrivò nel 1979 al Comunicato di Normalizzazione delle relazioni bilaterali tra Stati Uniti e Cina continentale.
Ma nello stesso anno Washington emanava il Taiwan Relation Act, una serie di rapporti bilateri – formalmente “con il popolo di Taiwan”, non con lo Stato della Repubblica di Cina – che ne garantiva la sicurezza impegnandosi alla fornitura di armamenti. La chiara ambiguità degli Stati Uniti era determinata dalla volontà di utilizzare Pechino contro Mosca, senza però abbandonare Taiwan, pedina fondamentale per le manovre nell’Estremo Oriente: una postazione a ridosso delle coste cinesi.
In ogni caso, verso la fine degli anni Settanta ha inizio in Cina una nuova fase che la porta gradualmente ad integrarsi con l’economia mondiale. La giovane Cina borghese mette da parte gli ardori dei primi anni, bisognosa di relazioni commerciali per dare sfogo allo sviluppo del capitalismo nazionale. Rispetto a Taiwan ci si impegna con gli Stati Uniti a una riunificazione pacifica e a lungo termine, in cambio della riduzione di forniture di armi all’isola. Ovviamente i proclami della diplomazia servono solo a celare i reali interessi degli Stati, e i loro accordi sono pronti a essere stracciati per le esigenze del capitale e non appena muta il loro rapporto di forza.
Che non sia possibile la pacificazione nell’area lo dimostra una Terza Crisi dello stretto a metà degli anni Novanta, originata da una serie di test missilistici cinesi tra il 1995 e il 1996 al fin di influenzare le prime elezioni presidenziali di Taiwan. Anche in questa occasione gli Stati Uniti intervennero inviando in quelle acque due portaerei: ancora una volta la Cina dovette tornare sui propri passi. I tempi per uno scontro non erano ancora maturi, troppo grande il divario che la separava dall’enorme potenza bellica degli Stati Uniti.
Ma la Cina ha continuato la sua crescita economica a ritmi vertiginosi, e parallelamente ha potuto investire grandi risorse nell’ammodernamento dell’esercito e della marina, raggiungendo, anche se non una forza paragonabile a quelle statunitense, un riarmo capace di contendere al rivale l’influenza sul Pacifico occidentale. Il controllo sui “suoi” mari e sulle isole è possibile solo contrastando la presenza militare degli Stati Uniti. In questo contesto Taiwan rappresenta il principale obiettivo dell’espansionismo cinese: annettere Taiwan significa strappare agli Stati Uniti quella “portaerei inaffondabile” di fronte alle proprie coste, aprendosi la via al pieno controllo dei Mari Cinesi prima, alla espansione nel Pacifico poi.
Per cui la Cina, benché ufficialmente miri a una riunificazione pacifica con Taiwan, proponendo la formula di “un paese due sistemi”, vi sono documenti nei quali afferma che uno degli scopi principali del suo riarmo è sviluppare un apparato sufficiente a prendere Taiwan con la forza. E negli ultimi tempi anche i toni ufficiali mostrano maggiore aggressività, paragonando Taiwan alle regioni separatiste, come lo Xinjiang, e denunciandola come una minaccia alla sicurezza nazionale. L’ultimo “Libro Bianco” della difesa, del luglio 2019, afferma che è divenuto necessario opporsi all’“indipendentismo di Taiwan”. Lo stesso Xi Jinping al XIX Congresso del PCC ha fatto riferimento a Taiwan in toni particolarmente duri: «Gli sforzi separatisti saranno condannati dal popolo cinese e puniti dalla storia [...] ogni centimetro del territorio della nostra grande patria non può e non deve rimanere separato dalla Cina». Se il “risorgimento della Nazione” dei falsi comunisti cinesi passa per il compimento dell’unificazione nazionale, nei circoli nazionalistici, delle “sei guerre” che la Cina dovrà combattere per riconquistare i territori “irredenti”, quella per Taiwan è la prima.
Ma una guerra per Taiwan non potrà essere confinata a guerra locale, per la natura dei luoghi, per la dimensione degli Stati coinvolti, perché combattere per Taiwan vuol dire mettere in discussione il dominio sul Pacifico: si avrebbe non solo l’intervento degli Stati Uniti ma di tutte le altre forze dell’area interessate a contrastare l’egemonia cinese.
Rumori di guerra nel Pacifico
La pandemia non ha smorzato il confronto fra Cina e Stati Uniti nelle acque di fronte alla coste cinesi.
Il virus diffuso tra i marinai statunitensi di stanza nel Pacifico ha limitato le capacità operative delle loro unità permettendo un aumento dell’attività degli apparati militari rivali. Caso significativo quello della portaerei Roosevelt, che con oltre 800 infettati è rimasta bloccata nella base di Guam, ma sono state ben quattro le portaerei con equipaggi contagiati, tra cui l’altra portaerei nel Pacifico, la Ronald Reagan, che opera dal Giappone.
La momentanea difficoltà statunitense è stata utilizzata dalla Cina per conquistare posizioni strategiche nelle aree contese, ha condotto diverse operazioni per dimostrare la sua forza, muovendovi mezzi aerei e navali. Negli ultimi mesi navi cinesi hanno solcato le acque dello Stretto di Formosa e con azioni nelle acque del Mar cinese, fino all’affondamento di un peschereccio vietnamita, e conducendo ai primi di luglio una grande esercitazione militare attorno alle isole Paracel. Lo scorso aprile la Cina si è spinta fino a formalizzare il suo controllo sulle Paracel e le Spratly con la creazione di due strutture amministrative, i distretti di Xisha e Nansha, facenti parte della provincia di Hainan.
L’attivismo militare di Pechino nei mari si è accompagnato con la stretta su Hong Kong, nonostante le numerose e prolungate proteste del movimento autonomista, duramente represso dalle autorità cinesi. La recente legge sulla sicurezza nazionale che Pechino ha imposto ad Hong Kong mira a ricondurre l’ex colonia britannica saldamente sotto il controllo del potere centrale e porre fine alle contestazioni, utilizzate dalle potenze occidentali, in primis dall’imperialismo americano, per impegnare la Cina su uno scomodo fronte interno.
Di fatto l’imperialismo cinese, prima di potersi impegnare a mettere in discussione l’attuale spartizione mondiale, ha bisogno di compattare il fronte interno, facendo i conti con quelle aree in cui sono presenti tendenze centrifughe, come ad Hong Kong, nello Xinjiang e appunto Taiwan.
Proprio verso Taiwan la Cina ha aumentato la pressione militare, negli ultimi mesi con un numero crescente di operazioni nello Stretto, esercitazioni navali e di sbarco, in diverse occasioni con sconfinamenti e provocazioni nella zona di identificazione di difesa aerea di Taiwan. Solo nel mese di aprile la portaerei Liaotung e il suo gruppo di attacco avrebbe attraversato lo stretto in due circostanze, costringendo l’esercito taiwanese a mandare aerei e navi da guerra in osservazione.
Né è mancata la risposta degli Stati Uniti: navi militari USA hanno attraversato lo Stretto in almeno sette occasioni nel corso di quest’anno, a chiaro monito per Pechino. Altro avvertimento è stato la recente vendita di armi dagli Stati Uniti a Taiwan, non tanto per la quantità, perché si parla di forniture per soli 180 milioni di dollari, poca roba rispetto agli oltre due miliardi di armamenti venduti lo scorso anno, ma perché l’annuncio della vendita è avvenuto lo stesso giorno in cui la presidente di Taiwan, Tsai Ing‑wen, vincitrice delle elezioni lo scorso gennaio, a capo di un partito fieramente ostile a Pechino, ha prestato giuramento per il suo secondo mandato. Un’altra fornitura militare per Taiwan dal valore totale di 620 milioni di dollari è stata approvata dal Dipartimento di Stato a luglio. Essendo la Lockheed Martin il principale fornitore di armi a Taiwan la Cina ha deciso di imporre sanzioni contro la società statunitense. Sempre a luglio, a sostegno delle posizioni di Taiwan e degli altri Stati coinvolti nelle dispute territoriali con la Cina, gli Stati Uniti hanno schierato nel Mar delle Filippine due portaerei e i rispettivi gruppi di combattimento.
La Repubblica Popolare non è pronta a rischiare una guerra con gli Stati Uniti per Taiwan, nonostante il rapido sviluppo del capitalismo nazionale stia alimentando e richiedendo un consistente riarmo, con investimenti in forze aeree, navali, missilistiche, informatiche e quant’altro. Al momento i giochi in corso non spostano più di tanto gli equilibri delle forze. I due imperialismi hanno stazza diversa. Da una parte c’è un giovane imperialismo che pretende della spartizione imperialistica la parte corrispondente al suo peso economico. La sua potenza politica e militare ha da imporsi nelle regioni circostanti prima di lanciarsi nei mari aperti. Già contende isole e isolotti agli Stati dell’area, di minore stazza ma appoggiati dagli Stati Uniti. Dall’altra parte ci sono gli Stati Uniti che, benché potenza in declino, incalzata dall’ascesa di nuove grandi e medie potenze, rappresentano ancora l’unico vero gendarme mondiale, capace di imporre la sua presenza militare in tutti gli angoli del mondo e che ancora mantiene la superiorità nel Pacifico.
Le schermaglie attuali ai due lati della linea geografica del cambiamento di data si inseriscono nel contesto di una profonda crisi che fa vacillare il modo di produzione capitalistico, la cui unica soluzione non può che essere una immane distruzione di uomini e merci per permettere un nuovo ciclo di accumulazione del capitale. Il prossimo macello mondiale che il capitale sta preparando vedrà, come già avvenuto nella seconda guerra mondiale, l’area del Pacifico tra i principali teatri di scontro tra le potenze imperialistiche.
Ma, mentre ai tempi della seconda carneficina mondiale l’Estremo Oriente era ancora un’area geografica con un’enorme popolazione prevalentemente contadina, oggi la diffusione del modo di produzione capitalistico ha ammassato nelle metropoli asiatiche centinaia di milioni di proletari che, sfruttati da borghesi nazionali e stranieri, non hanno patria alcuna e, uniti ai proletari delle altre metropoli capitalistiche, formano il grande esercito proletario mondiale che affosserà per sempre questo decrepito e infame mondo borghese.
A metà luglio il governo italiano ha varato il “decreto semplificazioni” e il
piano “Italia Veloce”. Il capo del governo l’ha definito “un trampolino per il
lancio del paese”.
Infatti, cos’è che blocca la riproduzione del capitale “in Italia”, si domandano
maggioranza e opposizione? Forse la sovrapproduzione e la caduta storica del
tasso del profitto? Ma no! è evidente: è la burocrazia! Infatti, lo sanno tutti,
nel resto del mondo il capitale, con meno burocrazia, prospera eccome!
Come è mai possibile intraprendere le Grandi Opere, di cui il Capitale ha
bisogno per sopravvivere, se si vuol indire un concorso per individuare
l’impresa più adatta, o se preventivamente si pretende di controllare che il
progetto sia compatibile con le reali necessità e con la natura dei luoghi?
E perché invitare alla gare anche le imprese degli altri paesi europei?
Costruiamo, costruiamo, questo è l’importante! Cosa e dove per il Capitale non è
di nessun rilievo. Del resto, come nelle sue guerre, per il Capitale quel che
conta è distruggere, a qualsiasi costo.
Qui riproduciamo un passo illuminante di un nostro articolo del lontano 1952:
“Specie umana e crosta terrestre” in “Il programma comunista” n. 6.
«L’iniziativa, la scelta, la decisione sulla opportunità di questa o quella attuazione (strada, ferrovia, opera idraulica, opera edilizia pubblica, bonifica di zone della città o della campagna, lavoro marittimo e via via) e la priorità dell’una rispetto all’altra sembrano, ma non sono, dettate da un centro che abbia quella suprema visione del pubblico interesse. Sono invece, sempre, ideate, immaginate, lanciate, sospinte, fatte passare innanzi e condotte in porto, o come oggi suol dirsi senza eufemismo “varate” – si varano in senso proprio le navi, e in senso economico i classici “carrozzoni” – da un gruppo privato che ha fatto i suoi calcoli e ha preveduto un altissimo lucro.
«Anzi – mentre per l’impresa privata, in senso assoluto, è oneroso il finanziamento ed elevato il rischio che sorta effetto sfavorevole, la probabilità che al posto dell’utile sorga una perdita – nel caso delle opere ed imprese che recano le sacre stimmate del pubblico bene, è molto più agevole ottenere a buone condizioni la finanza da anticipare ed è quasi matematicamente escluso che vi sia rischio di benefizio, non diciamo negativo, ma limitato. Interessi passivi ed eventuali aumenti della spesa prevista vi è infatti, in tali casi, mezzo di riversarli sul bilancio del non meno classico Pantalone: andrebbe dunque bene la dizione: opera di privata utilità e pubblica fregatura».
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Distinguiamo tre ambiti nel lavoro sindacale dei compagni di partito: la stampa, l’intervento negli scioperi e nelle manifestazioni operaie, l’attività entro il movimento sindacale organizzato.
In Italia il terzo ambito si sviluppa ad oggi su due piani fra loro collegati: l’attività nel “Coordinamento Lavoratori e Lavoratici Autoconvocati per l’Unità della Classe” (CLA) e quella di opposizione interna al sindacato di base Usb.
SSulla stampa italiana del partito sono da mettere in rilievo due lavori pubblicati: la traduzione dal francese dell’analisi del movimento di lotta di dicembre-gennaio contro la riforma del sistema pensionistico (“Il movimento contro la riforma delle pensioni in in Francia”); un’analisi della condotta del padronato, del regime politico borghese, dei sindacati tricolore, di quelli di base e della classe operaia di fronte allo sviluppo della pandemia del Covid‑19 (“Come la classe operaia resiste in Italia agli industriali che vorrebbero trascinarla nel turbine mortale della loro crisi”).
Quanto alle manifestazioni operaie siamo intervenuti a quella del 18 gennaio a Prato, convocata a sostegno della lotta dei lavoratori della lavanderia Superlativa, con un volantino tradotto anche in inglese e in francese (“Per un Fronte Unico Sindacale di Classe - Contro padroni, Stato borghese e sindacalismo di regime”), e il 29 febbraio a Roma a quella a sostegno della lotta dei lavoratori della Peroni (“Con i lavoratori della Peroni: Unire ed estendere le lotte”).
Sulla stampa di partito in lingua inglese, spagnola e francese, in diversi articoli e note è stata descritta la reazione dei lavoratori a fronte della crisi sanitaria e sono state date le indicazioni di lotta del partito. L’attività nel CLA è proseguita intensa.
Con uno striscione e un volantino con una ventina di aderenti ha partecipato alla manifestazione a Prato del 18 gennaio (“La solidarietà è un’arma: usiamola!”). Il 27 gennaio ha diffuso un altro volantino ad una manifestazione dei vigili del fuoco di Genova (“Al fianco dei vigili del fuoco”).
Il 1° febbraio si è tenuto un presidio di fronte al tribunale di Firenze, in occasione della inaugurazione dell’anno giudiziario, per denunciare le condizioni di salute e sicurezza sui posti di lavoro, causa di centinaia di vittime ogni anno. Si è poi tenuta nel pomeriggio una riunione del gruppo di lavoro del CLA nella quale si era stabilito di organizzare una iniziativa a Ravenna, il 13 marzo, per l’anniversario della strage alla Mecnavi (“13 marzo: 33° anniversario della strage della Mecnavi”), analoga a quella tenuta a Torino il 7 dicembre precedente (“Nel 12° anniversario della strage alla Thyssen di Torino”). Tutto era stato predisposto ma l’epidemia ha impedito il dar seguito a questo e ad altri impegni.
Precedentemente, il 6 febbraio, il CLA aveva redatto un comunicato per l’incidente ferroviario a Livraga (“Oggi sono stati due ferrovieri a portare il quotidiano tributo di sangue operaio sull’altare del profitto”) e due volantini, distruibuiti alle operaie della Piaggio di Pontedera in lotta, organizzate dall’Usb: il 25 febbraio (“Con le lavoratrici Piaggio - Fino alla vittoria!”, e “Otto Marzo: a fianco delle operaie sul ‘Palazzo blu’”).
Il 7 marzo il CLA ha pubblicato un comunicato sui primi effetti in fabbrica dell’epidemia (“Fabbriche aperte, scioperi ed assemblee vietati - Col pretesto del coronavirus il governo sospende le libertà sindacali”).
Il 13 altro comunicato di sostegno agli scioperi per chiudere le fabbriche a fronte dell’inasprirsi drammatico dell’epidemia nel Nord Italia (“Solidarietà alla classe operaia che lotta!”).
Il 5 aprile è stato diffuso un comunicato di denuncia sulla situazione dei lavoratori ospedalieri duramente colpiti dall’epidemia (“Non è possibile tornare indietro - I morti pesano come montagne!”).
Il 10 aprile si è tenuta una nuova riunione del Gruppo di Lavoro del CLA, in videoconferenza. Il 16 aprile è stato pubblicato un comunicato di solidarietà con un lavoratore di una cooperativa di servizi ambientali, delegato sindacale, licenziato per aver denunciato l’assenza dei dispositivi di protezione (“Con Gabriele Sarti contro l’arroganza aziendale! Contro ogni forma di rappresaglia padronale!”).
Il 21 aprile è stata inviata allo Slai Cobas per il Sindacato di Classe un’ottima nota di commento alla questione dell’attacco padronale alle libertà di azione sindacali (“Contributo alla discussione sulla libertà e il ‘diritto’ di sciopero”), per la quale questo sindacato chiedeva un lavoro comune con il CLA.
Il 1° maggio sono stati pubblicati due comunicati che hanno riscosso buoni apprezzamenti fra i militanti sindacali: il primo sulla sanità: “Per il diritto alla salute e sicurezza - Per la difesa di lavoratori e lavoratrici della sanità”, il secondo rinnovava l’appello all’unità d’azione del sindacalismo conflittuale, proponendo un’assemblea a fine mese (“Primo Maggio 2020 - Di fronte alla crisi sanitaria ed economica contro la triplice alleanza padroni-governo-sindacati di regime costruiamo l’unità d’azione del sindacalismo conflittuale”).
Tutta questa attività ha contribuito a far meglio conoscere ed apprezzare il CLA. Ma si deve fare i conti con uno stuolo di iniziative solo apparentemente convergenti e che in realtà ostacolano sia lo sviluppo organizzativo del CLA sia l’obiettivo per il quale esso si è costituito, cioè l’unità d’azione dei lavoratori e del sindacalismo conflittuale. Si propone infatti la costituzione di diversi generici “fronti unitari” di lavoratori, fra loro accomunati dal mescolare l’ambito sindacale con quello partitico. Ciò ha un effetto di divisione, giacché ciascuno gruppo politico boicotta i fronti sindacal-partitici, anch’essi pretesi “unitari”, degli avversari, non solo non aderendovi come organizzazione politica, ma tenendone fuori i propri militanti sindacali e le organizzazioni sindacali che dirigono.
Ciò si riflette inoltre sul piano delle rivendicazioni, giacché queste iniziative, volte a strumentalizzare la grande lotta operaia per i piccoli interessi di piccole sètte, inseriscono, accanto ad alcuni obiettivi effettivamente in difesa dei bisogni immediati dei proletari – salario, orario, intensità e condizioni del lavoro – finalità proprie e caratteristiche solo dei loro programmi politici, per lo più opportunistici e riformistici, quali ad esempio le nazionalizzazioni e la patrimoniale, appunto per distinguersi gli uni dagli altri, frazionando, confondendo, distogliendo e indebolendo il movimento difensivo degli operai (si legga sul numero passato “La ‘Patrimoniale’”).
Questi tentativi “intergruppi” sono evidentemente del tutto instabili e destinati a misero fallimento, come in taluni casi i fatti già dimostrano. Ma nel frattempo hanno arrecato danno allo sviluppo del movimento sindacale di classe. Nonostante la confusione sollevata da questo clamore di politicanti il CLA continua nella sua attività.
Il 20 maggio è stato pubblicato il comunicato di convocazione della sua assemblea nazionale (“Assemblea nazionale - Per non far pagare la crisi ai lavoratori - Contro governi, padroni e sindacati di regime - Costruiamo l’unità d’azione del sindacalismo conflittuale”), già proposta nel documento del Primo Maggio, prevista in videoconferenza per domenica 31 maggio, in coincidenza con l’ultima giornata della riunione generale del partito.
Tutti i comunicati sopra elencati esprimono, nella loro parte maggiore, posizioni politico-sindacali condivise dal nostro partito, pur essendo il CLA un organismo in cui i nostri compagni collaborano con militanti sindacali di diversi orientamenti politici. Ciò a conferma del fatto che il corretto indirizzo sindacale – espresso dalla frazione sindacale del partito – non può non trovare il consenso dei lavoratori, aderiscano essi ad altri partiti o senza partito. È questo che renderà possibile al partito comunista di domani far funzionare quella “cinghia di trasmissione” fra sé, i lavoratori comunisti e l’intera classe proletaria.
Quanto all’attività di opposizione interna all’Usb ne abbiamo largamente reso conto nel numero scorso di questo giornale nell’articolo “Per una vera opposizione di classe all’interno di Usb”.
Qui aggiungiamo solo che il 7 febbraio i nostri compagni che lavorano alla Maugeri di Tradate hanno contribuito a pubblicare, a nome del “Collettivo Usb Ics Maugeri Tradate per il sindacato di classe aderente al CLA”, un comunicato di solidarietà coi lavoratori in lotta, pur se organizzati dai sindacati di regime, dell’istituto Sacra Famiglia di Bosisio Parini (Lecco), intitolato “Solidarietà coi lavoratori de “La Nostra Famiglia”! Basta contratti a perdere! Per l’unità delle lotte della sanità pubblica e privata!”.
La guerra civile in Italia nel primo dopoguerra
Continuando la serie delle relazioni sulla guerra civile in Italia è stato illustrato, anche se in modo estremamente succinto, il terrore fascista abbattutosi sulla provincia di Arezzo tra il marzo e l’aprile 1921, che incontrò però una eroica resistenza armata da parte del proletariato.
Il proletariato aretino aveva sempre avuto una connotazione spiccatamente di estrema sinistra, tanto che al congresso di Livorno la maggioranza dei socialisti aretini aderì al Partito Comunista d’Italia, mantenendo pure il giornale locale “La Falce”.
Il 20 febbraio, giorno in cui il PCd’I svolse manifestazioni in tutta Italia, nella provincia di Arezzo se ne tennero due: una nel capoluogo, l’altra nel centro industriale di San Giovanni Valdarno.
Ma nei centri industriali del Valdarno aretino le industrie chiudevano mentre aumentava a dismisura l’esercito dei proletari disoccupati. A Castelnuovo dei Sabbioni, la Società Mineraria prospettava la chiusura delle miniere e della centrale elettrica, con il licenziamento di circa 3.600 lavoratori, tra minatori ed operai.
Il 23 marzo tre camion di camicie nere partivano da Firenze alla volta di Perugia per dare man forte ai fascisti umbri nella loro opera di assassinio. Ma a Perugia, quel giorno non arrivarono.
Lo stesso giorno i minatori di Castelnuovo dovevano ricevere la paga della seconda quindicina, e di 4 mensilità arretrate di indennità di carovita. Ma la Società Mineraria rifiutò di pagare e annunciò il licenziamento in tronco di 430 operai, scelti tra i più combattivi.
Al clima di eccitazione che serpeggiava tra la massa dei minatori si aggiunse l’allarme per l’arrivo dei fascisti.
Castelnuovo dei Sabbioni era un centro minerario di lignite, che andava ad alimentare una potente centrale elettrica. I minatori vi avevano una lunga tradizione di lotte e di conquiste sindacali: primi al mondo avevano imposto un orario di lavoro giornaliero di 6 ore e mezza.
Essendosi anche dotati di un certo armamento, quando giunse la notizia dei fascisti in arrivo si disposero alla difesa prendendo possesso manu militari dell’intera area mineraria. Sbarrarono le vie d’accesso, eressero barricate presidiate da lavoratori armati di fucili e candelotti di dinamite; occuparono gli uffici della direzione e il centralino telefonico isolando gli uffici dall’esterno.
Il paventato arrivo dei fascisti, la decimazione per i licenziamenti, il rifiuto della corresponsione del salario dovuto, tutto questo fece sì che ben presto gli animi si surriscaldassero, scoppiò la rissa, qualche impiegato e il direttore furono feriti, anche con arma da fuoco, mentre un ingegnere per caso presente, scambiato per un commissario di polizia, era ucciso dalla folla.
A San Giovanni Valdarno i primi fascisti partiti da Firenze furono accolti con una fitta gragnola di sassate e scariche di fucile, tanto che dovettero rifugiarsi dentro la caserma dei carabinieri e rimanervi rintanati fino a sera, ossia fino a che non arrivarono altri camion di squadristi da Firenze e una folta squadra di soldati e poliziotti da Arezzo, che davano l’assalto alla Camera del Lavoro e ai Circoli operai. Ma il proletariato continuò a combattere e gli spari, gli scontri e gli assalti continuarono ininterrotti tutta la notte.
Nei giorni successivi seguì una ferocissima repressione antiproletaria con rastrellamenti, arresti in massa e bastonature indiscriminate. Ma più feroce ancora fu quella subita dai minatori. La mattina del 24 i carabinieri del battaglione mobile di Firenze giunsero con le autoblinde e con camion di fascisti al loro seguito. Nel distretto minerario i lavoratori tentarono, in una ultima battaglia, di opporsi alle autoblinde, ma dovettero arrendersi di fronte ad una forza di gran lunga superiore.
Mentre soldati e carabinieri procedevano al rastrellamento dei minatori in fuga nei boschi, i fascisti, fino a quel momento rimasti a guardare, assalivano ed incendiavano la casa del popolo e la cooperativa di consumo, dopo averla saccheggiata.
La feroce reazione scatenata da carabinieri e fascisti in tutto il territorio del Valdarno veniva descritta dai giornali borghesi con minuziose entusiastiche relazioni.
Dal canto suo la Società Mineraria offrì una taglia di cinquemila lire su ogni latitante catturato. Inoltre licenziò in tronco tutto il personale, circa 3.600 lavoratori, trattenendo i salari e le indennità dovute. Dopo due mesi di serrata fu riassunta la metà della forza lavoro, ma a condizioni capestro: salari ridotti dalla metà a un quarto; perdita di tutti i benefici previsti dai concordati; aumento dell’orario di lavoro; trattenuta della metà degli arretrati dovuti, a titolo di risarcimento danni.
Al terrore scatenato da fascisti e forza pubblica si aggiunse la reazione della magistratura: il processo a danno dei minatori condannava 55 proletari per un totale di 425 anni di galera. Restavano impuniti gli assassini ed incendiari fascisti.
Conquistato il Valdarno ed instaurato un regime di terrore, l’offensiva fascista, attesa con impazienza dalla borghesia locale, si spostò sulla città di Arezzo.
La domenica del 10 aprile si verificarono degli scontri, molti operai furono aggrediti e bastonati in strada e un giovane comunista venne ucciso a colpi di pistola. Più tardi forti nuclei di carabinieri ed agenti operarono numerosi arresti di comunisti e di semplici proletari.
A notte arrivarono da Firenze camion carichi di fascisti che devastarono la Camera del lavoro ed il Circolo ferrovieri. Irruppero nelle abitazioni degli esponenti di sinistra che, sequestrati e sotto la minaccia delle armi, furono costretti a firmare sconfessioni e ritrattazioni.
Poi fascisti e carabinieri lanciarono il loro attacco al quartiere operaio di Colcitrone. Ma qui il fuoco proletario non fu da meno di quello degli assalitori; la battaglia durò tutta la notte e gli attaccanti vennero respinti.
I fascisti furono quindi inviati a portare il terrore e la distruzione borghese nelle rosse campagne della Valdichiana, e soprattutto nel centro agricolo di Foiano, vera roccaforte rivoluzionaria. Lì, oltre alle forti organizzazioni politiche comunista e anarchica esistevano quelle di classe: Camera del lavoro, Società operaia, Lega colonica, Cooperativa badilanti, e quella di consumo. Il sindaco era comunista così come la maggioranza del consiglio comunale.
Da Arezzo la mattina del 12 aprile 150 fascisti accompagnati da decine di militari in divisa partivano alla volta di Foiano. Giunti in paese iniziarono la loro opera vandalica devastando il municipio, le sedi politiche, la Camera del lavoro e le Cooperative. Poi, dopo avere bastonato gli esponenti politici del paese e devastato le loro abitazioni, se ne tornarono alle rispettive sedi sotto l’occhio benevolo delle forze dell’ordine. Lo stesso prefetto di Arezzo ammise la partecipazione di militari alla “gita di propaganda” fascista.
La domenica successiva, il 17 aprile, nuovamente da Arezzo partiva un camion con una ventina di fascisti armati comandati da un capitano dell’esercito. Giunti a Foiano invasero e devastarono nuovamente gli uffici comunali. Poi irruppero nelle case degli esponenti politici che furono trascinati in strada e brutalmente malmenati. Dopodiché si diressero verso i paesini limitrofi portando anche in questi terrore e morte.
Nel pomeriggio, dopo un’ultima scorribanda per le strade del paese, riprendevano la via del ritorno. I contadini in pochissimo tempo organizzarono una imboscata. Armati di fucili da caccia, nascosti dietro le siepi al passaggio dei fascisti aprirono il fuoco. Venne colpito l’autista, il camion sbandò rovesciandosi. Tre fascisti rimasero uccisi, alcuni per salvarsi si finsero morti, chi non fu ferito si diede alla fuga per i campi.
Anche in questo caso la rappresaglia congiunta di carabinieri e fascisti fu immediata e spietata. Piombarono sul paese i fascisti di tutta la Toscana, dell’Umbria, ma anche dell’Emilia e di Roma. Il quotidiano fiorentino giustifica la brutalità fascista «conseguenza della viltà e della ferocia così praticamente e criminalmente dimostrate dai comunisti». Raccapriccianti furono gli episodi di violenza. Lungo sarebbe narrare la ferocia – questa sì – borghese. Sono stati letti alcuni brani de “Il Comunista”, quotidiano del partito che a distanza di un anno dai fatti ricordava la carneficina.
A carico degli assassini fascisti non ci fu nessuna condanna, nessuna denuncia, nessuna indagine. Al contrario 107 furono i contadini e gli operai denunciati per l’agguato di Foiano e secoli di galera saranno inflitti dal tribunale borghese ai ritenuti colpevoli della morte dei tre fascisti.
La stessa guerra di classe ogni giorno si combatteva in ogni luogo d’Italia.
Per fare un quadro completo della situazione abbiamo dovuto evidenziare anche quale fu l’atteggiamento di quel partito, socialista di nome, di fronte a questo terrore dispiegato e quali le sue direttive al proletariato. Per brevità di tempo ci si è limitati a riportare alcune citazioni del grande santone Filippo Turati, che non cessava di condannare ogni tipo di violenza, perché «Tutti i morti di questa incivilissima guerra civile, qual che sia la loro coccarda, sono tutti innocenti, sono tutti vittime di pari grado. E gli assassini, tutti assassini ad un modo». Il socialista, il comunista, l’organizzatore sindacale, il comune operaio o il povero contadino prelevato in piena notte nella sua abitazione per ucciderlo davanti ai suoi figli, e il sicario armato, pagato e protetto dai borghesi fatto fuori nel pieno della sua azione criminale, per il Partito Socialista erano al pari “vittime innocenti”.
Però dobbiamo dare atto a Filippo Turati di non aver mai ipocritamente nascosto il suo pensiero, a differenza degli altri dirigenti del socialismo massimalista, rivoluzionari a parole e complici della borghesia di fatto.
Corso della crisi mondiale del capitale
Gli ultimi avvenimenti economici confermano la nostra analisi: l’economia capitalistica non è uscita dalla crisi del 2008‑2009. A parte la Cina, la Corea del Sud e la Germania, tutti i grandi paesi vedono la produzione industriale al di sotto del massimo raggiunto nel 2007, e non di poco.
Il capitalismo mondiale è mantenuto artificialmente in stato di sopravvivenza grazie agli interventi delle banche centrali e degli Stati. Se le banche centrali cessassero di comprare i buoni del tesoro e le obbligazioni delle imprese tutto collasserebbe.
Dopo la recessione del 2008‑2009, grazie al pesante intervento delle banche centrali e degli Stati, nel 2010‑2011 c’è stata una vivace ripresa, che però non ha colmato il vuoto causato dalla caduta precedente e dai numerosi fallimenti di aziende che ne sono seguiti. Questa ripresa è stata seguita da una seconda recessione nel 2012‑2014, principalmente in Europa e da un forte rallentamento negli Stati Uniti nel 2015‑2016. Poi abbiamo avuto una lentissima ripresa in Europa, e una recessione in Asia: Cina, Giappone, Corea... Infine c’è stata una crescita sostenuta della produzione industriale, vale a dire dell’accumulazione del capitale, in tutto il mondo negli anni 2017‑2018.
Questa crescita ha portato all’illusione che finalmente si stesse uscendo dalla crisi e che a poco a poco le banche centrali avrebbero potuto disimpegnarsi e consentire ai tassi di interesse di salire e sgonfiare gradualmente i loro smisurati bilanci.
Per questa ragione, il 2018, nella sua maggior parte è stato brillante per le borse e gli speculatori: il valore dei titoli è salito alle stelle.
Ma dal terzo e quarto trimestre la crescita della produzione industriale ha rallentato bruscamente e nel corso del 2019 è tornata a diminuire nella maggior parte dei grandi paesi imperialisti. La FED ha dovuto fare marcia indietro bloccando l’aumento dei tassi di interesse. Alla fine del 2019 la FED e la BCE hanno annunciato all’unisono che erano pronte ad utilizzare nuovamente il quantitative easing.
Abbiamo esposto due grafici relativi agli Stati Uniti: della produzione industriale e della produzione manifatturiera. La crescita della produzione raggiunge un massimo nell’agosto-settembre 2018, per poi rallentare fortemente e diventare negativa alla fine del 2019.
La differenza tra gli indici della produzione manifatturiera e quelli dell’industria è dovuta al fatto che i secondi comprendono la produzione di petrolio e del gas di scisto. Infatti la caduta nel 2009 è stata maggiore per la manifattura: quasi -18% contro -14,5% per l’industria. Poi abbiamo una ripresa nel 2017 e 2018: +4,0% per l’industria ma -3,7% per la manifattura. Infine nel 2019 l’indice passa a +4,8% per l’industria mentre ricade ancora a -3,9% per la manifattura.
Passando al Giappone, è molto chiaro sul grafico il rallentamento delle produzioni a partire da aprile-maggio 2018 e la recessione che ne segue. Il Giappone, come la maggioranza degli Stati imperialisti, non è mai ritornato al suo massimo del 2007. Mentre nel 2019 la produzione industriale stava a quasi meno 14%.
La Germania fa parte dei pochi paesi imperialisti, con la Cina, la Corea del Sud e il Belgio, che hanno superato il massimo raggiunto prima della crisi. Calata del 17,4%, la produzione è risalita e nel 2018 ha superato dell’8,2% il massimo pre‑crisi. Ma con la recessione del 2019 questo aumento si è ridotto al 3,2%. E prima della fine del 2020 sarà azzerato.
Le esportazioni tedesche rappresentano il 40% del PIL. È l’unica economia al mondo a realizzare tale impresa: gli altri esportano tra il 10 e il 20% del PIL. Perciò la Germania rappresenta un termometro del corso del capitalismo mondiale. Il calo del 16% a marzo è dovuto alle misure per il contenimento per la pandemia. Tuttavia, il virus non ha causato la crisi, ha solo peggiorato la situazione.
Gli altri paesi europei, Inghilterra, Francia, Italia, Spagna e Portogallo, tutti mostrano la stessa curva: forte rallentamento dalla seconda metà del 2018, recessione nel 2019‑2020.
Per la Cina non abbiamo usato gli indici di produzione industriale, molto sopravvalutati, ma gli indici relativi alle produzioni fisiche.
Sulla curva della produzione di energia totale, si vede la recessione del 1998, dovuta alla “crisi asiatica” che ha colpito anche la Russia e diversi paesi dell’America latina. Poi la curva cresce fino al 2000, e cala fino al 2008, che collima con un fortissimo afflusso di capitali dal Giappone, Stati-Uniti, Germania, Inghilterra e Francia. E per il 2008‑2009 abbiamo non una recessione ma un forte rallentamento. Poi la recessione del 2015‑2016, seguita da una ripresa nel 2017‑2018.
L’incremento annuo medio percentuale in Cina della produzione di elettricità passa dal’11,5% del 1966, che corrisponde ad un capitalismo ancora giovane, per finire con un 3,9% nel 2019, proprio di un capitalismo maturo. L’incremento della Corea del Sud per il suo ultimo ciclo è di 2,9%.
La Cina è stata in recessione per tutto il 2019, quindi già prima della diffusione dell’epidemia. Ciò è confermato dalle vendite di auto, per le quali è il primo mercato mondiale: in un anno sono scese del 13%. Nel resto del mondo le vendite sono diminuite del 6%.
Siamo quindi passati alle esportazioni mondiali. Le curve mostrano, da settembre 2018 fino agli ultimi dati, una diminuzione delle esportazioni che arriva fino al -11% per la Germania a giugno 2019.
Tra il 2000 e il 2007 l’accumulo frenetico di capitale si è avuto a spese di un debito elevato, sia privato sia pubblico. Il debito privato è generalmente più grande del debito pubblico. Dopo la crisi la montagna del debito ha continuato a crescere, tanto che oggi è più che triplicato dal 2000.
Se esaminiamo il debito totale del settore non finanziario, che comprende il debito delle imprese, delle famiglie e degli Stati, in percentuale del PIL dei principali Paesi imperialisti, abbiamo tre gruppi: in testa c’è il Giappone con il 381% del PIL, poi viene la Francia con il 327% e più dietro abbiamo l’Inghilterra, l’Italia, gli Stati-Uniti, la Corea, e la Cina con circa il 260%, e infine, come ci si poteva aspettare, la Germania con il 180%.
In valore assoluto ovviamente tutto cambia: gli Stati Uniti sono in testa con un debito di 54.000 miliardi di dollari, seguito dalla Cina con 37.000 miliardi e dal Giappone con 19.000. Il debito di queste tre nazioni rappresenta più della metà del debito mondiale, cioè una quota superiore al loro peso nella produzione mondiale. Dato l’affanno nell’accumulazione di capitale è impossibile che queste nazioni possano sperare di essere mai in grado di rimborsare il loro debito, tanto più che esso continua a crescere e che con la crisi esploderà.
Vistoso l’incremento del debito della Cina dal 2007 in poi. Tra il 2000 e il 2007 è aumentato del 228% e dal 2007 al 2019 del 583%. È a questo prezzo che il capitalismo cinese ha potuto continuare ad accumulare e ad evitare una grave recessione.
Per il debito pubblico in testa c’è il Giappone col 204%, poi l’Italia col 135%. Seguono Inghilterra, Stati Uniti, Belgio con un po’ meno del 100%. Infine la Germania col 60%. Lo Stato russo, costretto a dichiararsi in fallimento nel 1999, è sceso fino al 14,5% grazie alle esportazioni di petrolio e di gas. Ma con la crisi che fa scendere i prezzi delle materie prime, e in particolare quello del petrolio, il debito non può che aumentare.
Concludendo: tutto ha un limite e tutto una fine, anche le banche centrali. L’approfondirsi della crisi porterà a una esplosione di fallimenti aziendali, disoccupazione e fatture non pagate. Le banche si troveranno con una montagna di titoli senza valore e sull’orlo della bancarotta.
Già dopo la crisi del 2008‑2009 le banche europee sono rimaste con 900 miliardi di euro di titoli inesigibili, di cui 360 solo in Italia. Oggi questa montagna si è un poco ridotta, ma rimane tuttavia alta. E il tornado che si sta avvicinando porterà altre centinaia di miliardi di insolvenze.
Inevitabilmente il rischio di fallimento aumenterà, e con esso i tassi di interesse saliranno di nuovo. Le banche centrali non possono essere onnipotenti. Quelle americane ed europee, la FED e la BCE, detengono già ciascuna 1/5 del debito degli Stati. Ogni anno la BCE acquista sul mercato secondario circa 1/3 delle emissioni di debito degli Stati europei, ovvero circa 300 miliardi di euro. Ma i 2/3 rimanenti devono essere comprati da enti finanziari privati: banche, assicurazioni, fondi di investimenti, fondi pensioni, ecc. Con l’aumento del rischio, queste istituzioni internazionali diventeranno sempre più riluttanti a prestare e, inizialmente, chiederanno un tasso di interesse in linea con il rischio, prima di fuggire dagli Stati troppo rischiosi che vedranno degradare il loro rating. E la BCE sarà impotente. Già la FED e la BCE si stanno assumendo dei rischi accettando titoli insicuri. E il loro bilancio mostruoso, che supera già i 4.500 miliardi di dollari, salirà alla fine dell’anno più di 5.500 miliardi.
Inevitabilmente andiamo verso il fallimento di una grande banca e di un grande Stato. Allora tutte le dighe saranno travolte, le stesse banche centrali saranno allora investite e con esse crollerà l’intero sistema finanziario. Nulla sarà in grado di trattenere la crisi e la deflazione: avremo la caduta di tutti i prezzi e del valore di tutti i beni immobili e mobili, come negli anni Trenta del Novecento.
Questa crisi porterà alla rovina di quella odiosa palude che sono le mezze classi e di una parte della grande borghesia. Una porzione della società verrà proletarizzata. E il proletariato sarà costretto a scontrarsi direttamente con la borghesia. Allora un soffio di speranza e di vita passerà sul mondo.
La rivolta delle comunità negre in Usa -
Cronaca da tre città
A Minneapolis
La risposta all’uccisione di George Floyd lunedì 25 maggio a Minneapolis da parte della polizia è iniziata con la trasformazione del sito in un memoriale spontaneo. I manifestanti si sono radunati sul posto, poi in centinaia hanno marciato verso il distretto di polizia. Un piccolo gruppo si è staccato dal corteo per vandalizzare l’edificio e le auto della polizia lì parcheggiate. La polizia ha sparato gas lacrimogeni, proiettili “non letali” e granate stordenti.
Mercoledì si è svolto un grande raduno. Quando la polizia l’ha interrotto con la forza, numerosi negozi sono stati saccheggiati, una banca e degli uffici. 30 edifici sono stati incendiati. I manifestanti hanno usato quanto saccheggiato per costruire barricate. Giovedì sera il terzo distretto di polizia, dopo che era stato evacuato, è stato dato alle fiamme.
Sono stati inviati 500 soldati della Guardia Nazionale del Minnesota.
Interrotto il servizio di autobus locale. Molti autisti, con il sostegno del loro sindacato, si sono rifiutati di guidare gli autobus per trasportare gli arrestati dalla polizia.
È stato imposto il coprifuoco in tutta l’area metropolitana e l’insieme della Guardia Nazionale del Minnesota è stata mobilitata.
Da allora i disordini si sono diffusi in molte altre città degli Stati Uniti.
La azioni di distruzione sono diminuite nel fine settimana, col dispiegamento della Guardia Nazionale, ma le proteste pacifiche sono continuate, anche in violazione del coprifuoco.
Lunedì 2 giugno gli agenti che hanno ucciso Floyd, licenziati, sono stati incriminati e, in teoria, rischiano fino a 40 anni di carcere, fatto questo quasi senza precedenti. Il comportamento della polizia è la conseguenza delle sue funzioni sociali, condizioni oggettive che impongono una mentalità e atteggiamenti predatori e violenti. Finché esisterà una società divisa in due grandi classi antagoniste quella dominante avrà sempre bisogno di un apparato di forza per costringere la sottomessa a farsi sfruttare ed evitare la sua reazione con mezzi sempre più violenti.
Nei sindacati si discute ora sull’opportunità di fare pressione sull’AFL‑CIO per l’espulsione dei sindacati dei poliziotti (anche se quello di Minneapolis non è membro della Federazione regionale).
Lo sfondo di questi eventi è la debolezza dell’economia statunitense, e del Midwest in particolare. Sebbene la crescita del reddito medio abbia superato l’aumento medio del costo degli alloggi, la maggior parte delle minoranze etniche e razziali continua a spendere la gran parte di quanto guadagna per l’affitto. Ma anche il reddito medio dei bianchi non ispanici, la categoria più benestante, è al di sotto della media del 2018.
Altrettanto importante per spiegare l’origine dei disordini è la diffusione del Covid‑19. Benché a Minneapolis il maggiore campo di impiego per i diplomati negri sia l’assistenza sanitaria, molti degli altri lavorano in imprese di settori che impongono la chiusura o soggetti a restrizioni: anche George Floyd aveva perso il lavoro in conseguenza del virus.
L’occupazione nell’area di Minneapolis è stata in aprile inferiore dell’11,7% rispetto a marzo, con la ristorazione e l’alberghiero che hanno registrato il più forte calo: -53,6%.
Mentre l’arrivo ad aprile dei 1.200 dollari “di stimolo” è stato una manna, la maggior parte delle altre misure di sollievo, come l’assicurazione contro la disoccupazione prolungata, le cui prestazioni sono commisurate al reddito dell’anno precedente, sono molto minori ed è improbabile che arrivino altri “stimoli”.
In Nord Carolina
Sabato 30 maggio si è avuta a Raleigh la prima di una serie di proteste, poi continuate ogni giorno. Nel tardo pomeriggio in alcune centinaia si sono radunati fuori dal Palazzo di Giustizia. Alcuni hanno preso la parola; qualcuno si è espresso in modo appassionato contro il capitalismo ma, inevitabilmente, tutto è stato molto dispersivo né si andati oltre la superficie dell’orribile situazione delle classi inferiori né se ne è potuto individuare le cause o le necessarie risposte. Perfino al capo della polizia locale è stato permesso di parlare.
La protesta è poi divenuta un corteo, rumoroso ma pacifico, per un’ora o due. Le forze dell’ordine sono subito uscite in tenuta antisommossa e hanno sparato granate stordenti e gas lacrimogeni. I manifestanti hanno lanciato qualche bottiglia vuota e inveito contro la polizia, che ha aggredito la folla. La gente ha allora cominciato a lanciare ogni tipo di proiettili. L’assalto delle forze dell’ordine è continuato in crescendo per il resto della notte. Presente qualche migliaio di manifestanti, in gran parte nel centro città ma che si estendeva anche alle periferie. Rotte le vetrine praticamente di tutti i negozi e tentativo di un gruppo di irrompere nel dipartimento di polizia. Vandalizzato il monumento ai Confederati. Dalle finestre del carcere i reclusi salutavano in segno di solidarietà. Saccheggiati e in fiamme numerosi edifici commerciali.
Domenica sera praticamente la stessa cosa.
La Guardia Nazionale è stata attivata nella notte. Rotti i vetri alle finestre del Palazzo di giustizia e dell’Archivio di Stato. Il coprifuoco è stato istituito lunedì mattina, con la Guardia Nazionale ormai schierata. Le proteste sono proseguite nei giorni successivi, con partecipazione in calo. Decine gli arrestati.
La direzione delle proteste è quanto mai inconsistente, per lo più esprime rivendicazioni riformistiche, il riparo dei torti e delle ingiustizie sociali, o soluzioni elettorali, del tutto all’interno dell’ordine attuale e allo Stato.
A Portland
Si sono avute proteste e disordini in tutti gli Stati Uniti, ma maggiori e prolungati nella città più “bianca”, Portland. Al momento in cui scriviamo, il 30 luglio – e possiamo aggiornare il rapporto tenuto alla riunione – tra 4 e 15.000 hanno partecipato alle proteste notturne e ai disordini.
L’amministrazione Trump ha deciso di utilizzare Portland – una città portuale di quasi 700.000 abitanti – per ostentare l’applicazione del suo motto “legge e ordine”.
A prelevare direttamente dalle strade i presunti dirigenti delle proteste sono stati gli agenti delle polizie di frontiera e doganale, che sembrano le uniche a disposizione di Trump. Le altre restano di riserva. L’esercito non è stato ritenuto affidabile e lo Stato Maggiore si è rifiutato di impiegarlo come forza di polizia interna.
Ovviamente questo ha spostato l’interesse sul piano legalitario, elettorale e della democrazia, con l’accusa di fascismo per Trump. Ma hanno fatto notare che si è solo limitato ad applicare un decreto del 2011, firmato da Barack Obama, che ha legalizzato l’arresto per le spicce di sospettati di “terrorismo”.
Nel movimento c’è di tutto, dalle chiese e dalle famiglie che escono di casa nelle serate estive, a chi si fa scalmanato e distruttivo a tarda notte. Il Black Lives Matter è praticamente un insieme di ONG per la raccolta di fondi, in concorrenza con le tradizionali chiese e i movimenti per i diritti civili, per il sostegno economico alle comunità nere, per la difesa della loro cultura, ecc. I piccolo borghesi chiedono sostegno economico alle imprese di proprietà dei negri.
Sono apparsi effimeri embrioni di organizzazioni, i “blocchi”: degli operatori sanitari, dei lavoratori dei birrifici, dei disoccupati, così come un fronte fra i sindacati. A questi aderiscono anche i padroni, benché a dirigerli sarebbero i lavoratori.
Ma 50 notti di proteste non hanno soffocato la propaganda dell’inganno democratico: da una parte le roboanti sparate di Trump dall’altra le espressioni di “solidarietà” del sindaco di Portland, accompagnate dai gas lacrimogeni. Mentre la borghesia, tutta, come classe, esercita la sua dittatura, a chi protesta nelle strade appaiono schierati solo Trump, i poliziotti, il partito repubblicano, e non gli altri figuranti della classe dominante. Il “bravo ragazzo” Obama ha autorizzato le detenzioni arbitrarie, Biden ha avanzato progetti di legge per l’incarcerazione di massa, fino ai socialdemocratici alla Sanders tutti fanno parte dell’apparato di inganno e repressione della classe dominante. Non è stato il “sinistro” Kshama Sawant a far passare nuovi stanziamenti per la polizia?
Lo sciopero dei trasporti in Francia
La compagna ha tirato le conclusione della lunga mobilitazione dei lavoratori francesi, integrando quanto pubblicato nei numeri scorsi di questo giornale.
Il 17 gennaio, dicevamo, la maggior parte degli autisti della metropolitana Ratp ha votato per riprendere il lavoro: tutte le assemblee, tranne tre, hanno deciso di riprendere il lavoro lunedì 20. Le assemblee alle ferrovie, la Sncf, fanno lo stesso. Nei trasporti e altri settori alcuni gruppi minoritari si oppongono alla ripresa del lavoro e continueranno fino al 24 gennaio, effettuando varie azioni spettacolari presso la sede CFDT, interruzioni nell’erogazione di elettricità, ecc. Il ritorno al traffico normale Ratp‑Sncf sarà completo il 27 gennaio.
L’Intersindacale promuoverà ancora manifestazioni a febbraio, ma poco seguite.
Su proposta della CFDT il governo sposta la vertenza verso una conferenza fra i sindacati e il padronato “su come finanziare le pensioni a seguito della riforma”. Vi aderiscono CFDT, UNSA, CFE‑CGC e CGT. Quest’ultima il 21 gennaio, dopo aver consultato le sue federazioni: solo 9 su 60 saranno contrarie! Se la conferenza non raggiungesse un accordo è stabilito che deciderebbe il governo.
L’intersindacale chiamerà a qualche altro giorno di sciopero a gennaio, febbraio e per l’8 Marzo, “Festa della donna”, ma il riflusso è evidente.
Il 2 febbraio, il progetto di riforma è discusso in parlamento; l’opposizione chiede oltre 40.000 emendamenti; ma il 29 il governo ne impone l’approvazione ricorrendo all’articolo 49‑3 della costituzione.
Infine a marzo il generoso movimento degli lavoratori finirà nella nebbia dell’epidemia di coronavirus, che il governo userà per fare passare decreti e ordini per la “sanità e la sicurezza”.
Questi gli insegnamenti da trarne.
– I lavoratori, impegnati in una dura battaglia, iscritti o no a un sindacato,
si sono organizzati in assemblee generali, coordinamenti e altre forme, le cui
evidenti caratteristiche erano l’assenza di chiusura nella categoria e nella
qualifica, la combattività, la riconosciuta necessità di superare le divisioni
sindacali in un fronte unico.
– I lavoratori, nonostante una lotta risoluta, si sono scontrati con
l’irriducibilità del regime borghese, a causa della crisi economica che affligge
il sistema capitalista dal 2008. Un attacco ancora più acuto li attende nei
prossimi mesi.
– Ancora una volta hanno sperimentato la mancanza di spirito combattivo dei loro
capi sindacali. Questi, pur partecipando al fronte inter-sindacale, essenziale
per l’efficacia della lotta, non hanno voluto organizzare e centralizzare gli
scioperi; l’hanno sospeso per la “tregua natalizia” richiesta dal governo mentre
continuavano le trattative ottenendo delle briciole per confondere gli animi ed
evitare disordini sociali!
Si pone ora la domanda: i lavoratori riusciranno a riconquistare – “democraticamente” o “a bastonate” – queste direzioni confederali, ancora così abili nel manipolarli, o dovranno uscirne per riorganizzarsi in lotta contro di esse!
Nella guerra per distruggere il modo di produzione capitalista, che dona solo sofferenza e sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, i due strumenti fondamentali della lotta di classe rivoluzionaria sono il Partito Comunista Internazionale, fattore di coscienza e volontà della classe, e le organizzazioni economiche di classe, unite in un fronte unico sindacale, in cui il partito riesca a guadagnarsi un’influenza decisiva.
Che si saldi il fronte unico di sindacati che rappresentino autenticamente la classe operaia! Possa il Partito Comunista Internazionale svilupparsi, fuori da ogni fronte unico politico, grazie al vigore della lotta di classe a scala nazionale e internazionale! La via della emancipazione passa per questo unico percorso rivoluzionario!
(Fine del resoconto al prossimo numero)
PAGINA 7
La causa immediata delle rivolte che nei primi giorni di luglio hanno interessato Belgrado, Novi Sad e alcune altre città della Serbia è che il governo ha mentito riguardo al decorso della pandemia da Covid 19. Come ha scritto “Il Manifesto” del 9 luglio scorso «La Serbia è uno dei Paesi che ha imposto le misure più restrittive per contenere il contagio: oltre alla proclamazione dello stato di emergenza, che ha consentito tra l’altro il rinvio delle elezioni inizialmente previste il 26 aprile, anche l’imposizione di un coprifuoco durante i fine settimana e il dispiegamento dell’esercito (...) Il 6 maggio però le autorità hanno revocato lo stato di emergenza e allentato le misure. La situazione epidemiologica era sotto controllo, il virus debellato, tanto che viene autorizzata la partita Partizan - Stella Rossa a porte aperte davanti a 25mila tifosi. Il 21 giugno poi si sono svolte le elezioni che hanno visto il partito di Vučić trionfare con una maggioranza schiacciante. Elezioni farsa, segnate dal boicottaggio delle opposizioni, dal crollo dell’affluenza e dai numerosi casi di brogli elettorali (...) Pochi giorni dopo si comincia a registrare un aumento dei contagi e poi si viene a scoprire che il governo aveva diffuso dati falsi riguardo al diffondersi dell’infezione».
Infatti all’inizio di luglio in Serbia i casi di coronavirus sono repentinamente aumentati. È risultato chiaro che il Governo aveva falsato i dati sull’infezione allo scopo di far svolgere le elezioni a condizioni favorevoli al partito al potere.
Quando il governo, considerato irresponsabile, pieno di minorati, con “esperti” prezzolati e con un presidente autoritario, di fronte alla ripresa del contagio ha preteso di imporre nuovamente il coprifuoco, in migliaia sono scesi nelle strade a Belgrado. Se era ben visibile una componente ben organizzata legata all’estrema destra, contraria alle misure di prevenzione contro il virus, come la destra statunitense o brasiliana, la maggior parte dei partecipanti intendeva manifestare contro l’inefficienza e la superficialità dimostrata dal governo e non contro le misure di prevenzione.
La polizia ha risposto con una violenza apparentemente sproporzionata, col pretesto delle azioni violente di provocatori, reclutati tra le tifoserie di calcio e gli estremisti di destra, che ancora una volta hanno dimostrato apertamente di costituire il braccio destro dell’apparato repressivo dello Stato. Pare che a Novi Sad un dimostrante sia stato ucciso. Si è cercato di creare una situazione di confusione e di terrore per giustificare la brutalità della polizia e rafforzare il governo.
In queste proteste, a differenza di quelle degli anni scorsi mosse soprattutto dalla classe media, benché a partecipazione interclassista, si sono espressi anche gli interessi del proletariato. Quelle manifestazioni erano liberal-democratiche, incentrate sulla richiesta di maggiore democrazia, di elezioni giuste, delle dimissioni di governanti corrotti, sulla difesa della libera stampa, ecc. Oggi, se qualcuno si fa avanti con questo tipo di pretese la gente gli risponde “ma chi se ne frega di queste cose, i problemi reali sono quelli legati alla nostra esistenza quotidiana!”.
Le rivendicazioni che circolano e raccolgono un certo seguito sono: 1) ridurre i finanziamenti alla polizia per volgerli alla spesa sanitaria; 2) trasparenza e accesso alle informazioni di pubblico interesse; 3) restrizioni all’uso della forza da parte della polizia e abolizione della polizia di quartiere; 4) protezione dei lavoratori nei luoghi di lavoro e assistenza a chi ha perso il lavoro a causa della pandemia.
Questi disordini hanno la loro specificità serba, ma sono i primi legati alla pandemia scoppiati in Europa. In tutto il mondo i tempi potrebbero diventare molto difficili. I proletari, al lavoro e fuori, soffrono e muoiono a causa di decisioni e atteggiamenti precisi che mettono in pericolo intere popolazioni rivelando la totale incapacità della borghesia di proteggere la salute degli uomini. Non esiste una soluzione, se non tragica, all’interno del capitalismo per uscire da questa crisi, che non è solo sanitaria, ma economica, sociale, ambientale. Morale, potremmo anche aggiungere.
Il proletariato di Serbia ha una grande storia e non cadrà nella trappola del nazionalismo. Esso non ha nulla da difendere nella patria, nella religione ortodossa e nel falso mito reazionario dello Stato di una sola etnia, ritenuta superiore alle altre. Non ha da lottare per la democrazia contro l’autoritarismo dello Stato perché oggi non esistono Stati “democratici”. Neppure cederà a chi gli chiede di schierarsi tra Unione Europea, Russia, Cina o Stati Uniti.
Si separerà da ogni organizzazione, ideologia e partito borghese, per formare proprie organizzazioni di classe, i propri sindacati indipendenti, e ritroverà la tradizione del proprio partito, comunista e internazionalista. La classe operaia infatti non ha alleati né a Oriente né ad Occidente, i suoi alleati, i suoi fratelli, sono i proletari di ogni paese, sottoposti allo stesso sfruttamento da parte del capitale. Uno è il nemico, il regime del capitale; una la lotta, quella per l’emancipazione del proletariato con la rivoluzione proletaria e l’instaurazione della sua dittatura di classe sotto la guida del Partito Comunista Internazionale.
Ma per arrivare a questo, per incamminarsi su questa strada, bisogna ogni giorno lottare per rafforzare le organizzazioni proletarie, unire le forze dei lavoratori per la difesa delle loro condizioni immediate, di vita e di lavoro. Alle rivendicazioni delle manifestazioni future, in Serbia e ovunque, si aggiungeranno: riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario, salario integrale ai disoccupati, un salario che permetta di vivere decentemente!
PAGINA 8
Nel 1846 vi fu una grave crisi economica, in cui gli aspetti di una economia pre‑capitalistica ancora presenti, con un cattivo raccolto di cereali e una malattia delle patate, si sommavano ad una crisi, anche finanziaria, del giovane capitalismo francese. I borghesi allora, come oggi, si affannavano a negare – ammesso che lo avessero compreso – il carattere di necessità delle crisi del capitalismo con gli annessi problemi di sovrapproduzione.
Il “Journal des economistes” del febbraio 1847 scrive: «Il carattere specifico della crisi attuale è d’essere puramente finanziaria. Non si tratta, come in altri momenti difficili, di accumulo di certi prodotti manifatturieri; i soli sintomi apparenti sono stati dapprima la rarità dei capitali, conseguentemente la difficoltà di sconto e in seguito la sparizione di una parte importante del numerario effettivo».
Osserviamo qui che i borghesi, sostenitori del nuovo e del moderno per antonomasia, ripetono da circa 200 anni le stesse sciocchezze, a volte non comprendendo e a volte facendo finta di non capire.
Indubbiamente la crisi finanziaria, accompagnata come sempre da numerose speculazioni, fu molto forte: nel solo settore ferroviario vi furono 750.000 disoccupati. A ciò si univa, anche qui come sempre, una serie di scandali e ruberie da parte degli esponenti del regime.
Nel 1847 l’opposizione costituzionale organizzò dei banchetti per chiedere una riforma elettorale, ma ben presto furono sommersi dalle rivendicazioni operaie: il 22 febbraio 1848 a Parigi furono assaltate numerose armerie, il 24 febbraio su più di 1.500 barricate e vi furono 200 morti.
In questa Parigi con più di 200.000 disoccupati e una piccola e media borghesia in grave crisi, si installò un governo provvisorio presieduto da Jacques-Charles Dupont de l’Eure, già monarchico costituzionale e ora repubblicano conservatore. Ministro degli Interni era Alexandre-Auguste Ledru-Rollin, unico uomo del partito della Réforme, repubblicano moderato che, come disse Adolphe Crémieux ministro della Giustizia, venne inserito perché serviva agli Interni qualcuno che avesse la fiducia del movimento rivoluzionario. Unici socialisti di questo governo, ma senza ministeri, furono Louis Blanc e l’operaio Alexandre Martin detto Albert.
Blanqui arriva nella capitale il 25 febbraio mostrando subito di vedere più lontano degli altri. A dei vecchi democratici che incontra, ora sostenitori del nuovo governo, dice: «I vostri nemici (...) si impadroniranno di tutti i vostri errori (...) In ciò sono più abili di voi, non dubitatene; si serviranno di voi per colpire gli uni con gli altri; dapprima si alleeranno ai rivoluzionari della Réforme contro i socialisti, poi ai politici del National contro i rivoluzionari della Réforme; i liberali del Siècle gli serviranno allora contro i girondini del National, finché trascineranno anche questi ultimi nel fiume di tutti gli odi assolutisti».
Definisce la rivoluzione una “piacevole sorpresa”, ma dice che c’è ancora tutto da fare, e non si fida per nulla della guardia nazionale: «È composta di bottegai paurosi che, domani, potrebbero benissimo disfare quel che ieri hanno lasciato fare al grido di “Viva la Repubblica”».
Quello stesso 25 febbraio Blanqui fonda la Société Républicaine Centrale. Il 27 febbraio il governo crea gli ateliers nationaux, una scadente imitazione degli ateliers sociaux di cui parlava Blanc nel suo testo del 1839 “L’Organisation du travail”. Scrive lo storico Danvier: «Questi nacquero semplicemente come limitato intervento statale per il compimento dei lavori pubblici che già erano in corso, in particolare lavori di sterramento. Le compagnie ferroviarie private non reclamavano da tempo un aiuto da parte dello Stato, vista la latitanza delle banche? Lo Stato fornì loro non del denaro a fondo perduto, che del resto non aveva, visto il pauroso deficit lasciato dai governi di Luigi Filippo, bensì manodopera che avrebbe pagato con un salario medio pari alla metà del salario normale». Furono assunti «117.000 disoccupati organizzati militarmente attraverso capigruppo reclutati tra gli allievi dell’École Centrale. Quelli che nel 1848 furono chiamati ateliers nationaux in realtà altro non erano che i vecchi ateliers de charité con l’aggiunta di un perfido disegno politico (...) Si trattava di strappare alla piazza 100.000 operai finché il governo non si fosse rafforzato contro i rossi».
Blanc, con l’appoggio di Albert, chiedeva al governo l’istituzione di un Ministero del Lavoro, rifiutato da tutti gli altri membri del governo in quanto ritenuto pericoloso per l’iniziativa privata, e in particolare da Alphonse de Lamartine, ministro degli Esteri, repubblicano conservatore e in passato legittimista ed ammiratore del teorico controrivoluzionario De Maistre. Il ministro della Marina, François Arago, ebbe l’idea di affidare a Blanc, che accettò subito, la presidenza di una Commissione per i Lavoratori con sede al palazzo del Lussemburgo, divenuta poi proverbiale per la sua totale inutilità. Renard, nella sua “Histoire socialiste de la révolution de 1848”, nel 1906 scrive: «Un convegno sulla fame davanti agli affamati, un chiacchiericcio davanti a una marmitta vuota; Blanc aveva cento motivi per rifiutare. Ce ne furono di più forti che lo spinsero ad accettare. Paura di riaprire l’epoca delle sommosse? Gloria di presiedere un Parlamento del Lavoro?».
A partire da febbraio sorsero oltre cento club solo a Parigi, centro e motore della rivoluzione non solo per Blanqui. I più importanti erano la “Società Repubblicana Centrale” di Blanqui, il “Club des Amis du Peuple” di Raspail, la “Société Fraternelle Centrale” di Cabet, il “Club de la Révolution” di Barbès, e il “Club des Montagnards” di Ledru-Rollin.
Il 5 marzo il governo provvisorio fissava la data delle elezioni al 9 aprile. Blanqui si oppose subito chiedendo un aggiornamento indefinito delle elezioni, mostrando di non avere nessuna fiducia nel suffragio universale. Questo non poteva che portare alla vittoria della reazione, in un popolo abbruttito da decenni di propaganda borghese, notabile e clericale.
Blanqui, in una prima petizione per il rinvio delle elezioni, scrive il 7 marzo: «Da sessant’anni solo la controrivoluzione parla alla Francia (...) Chi sono gli uomini che chiedono a gran voce l’immediata convocazione dei comizi? I nemici accertati della Repubblica, quelli che l’hanno sempre combattuta con accanimento, che la subiscono come un affronto e contano sulla sua eccessiva ingenuità per soffocarla in fasce (...) Il voto di oggi sarebbe una sorpresa e una menzogna. Diventerà verità solo attraverso la libera discussione, e questa non può essere opera di un giorno. Chiediamo pertanto l’aggiornamento indefinito delle elezioni, e l’invio nei dipartimenti di cittadini incaricati di portarvi la luce della democrazia».
In una seconda petizione per il rinvio delle elezioni, datata 14 marzo, Blanqui scrive: «Cittadini, noi chiediamo il rinvio delle elezioni della Assemblea Costituente e della Guardia Nazionale. Tali elezioni sarebbero una farsa. A Parigi solo un piccolo numero di operai è iscritto nelle liste elettorali. L’urna riceverebbe solamente i suffragi della borghesia. Nelle città la classe dei lavoratori, abituata al giogo da lunghi anni di oppressione e di miseria, non prenderebbe parte alcuna allo scrutinio, o meglio, vi sarebbe condotta dai suoi padroni come bestiame cieco. Nelle campagne, tutte le influenze sono in mano ai preti e agli aristocratici. Una astuta tirannia ha soffocato col suo sistema di isolamento individuale ogni spontaneità nel cuore delle masse. Gli sventurati contadini, ridotti al rango di servi, diventerebbero il marciapiede dei nemici che li opprimono e li sfruttano. Il nostro animo s’indigna al pensiero che gli oppressori possano così raccogliere il beneficio del loro crimine; è un sacrilegio far mentire a proprio vantaggio 10 milioni di uomini, strappare alla loro inesperienza la sanzione della loro schiavitù (...) Il popolo non sa; bisogna che sappia. Non è questa opera di un giorno o di un mese».
Una ventina di club seguirono Blanqui su queste posizioni, tra cui quello di Raspail e quello di Cabet, chiedendo però non un aggiornamento indefinito ma solo un posticipo delle elezioni al 31 maggio, cosa che non cambiava certamente lo scenario.
Il 14 marzo, su invito della Società Repubblicana Centrale, 15 società si unirono in un Comitato Centrale, a cui aderirono subito circa 300 organizzazioni operaie. Il governo provvisorio organizzò una manifestazione di 30.000 guardie nazionali borghesi, alla quale rispose una manifestazione di 200.000 repubblicani, proletari e non.
Torniamo allo storico Danvier: «Assieme agli operai, ai democratici di Parigi, sfilarono migliaia di rifugiati politici: polacchi, italiani, irlandesi, tedeschi, russi. Il Comitato voluto da Blanqui era alla testa della manifestazione, portatore di una petizione redatta da Cabet, che avanzava tre richieste: allontanamento delle truppe da Parigi, rinvio delle elezioni della guardia nazionale al 5 aprile, le altre al 31 maggio».
Blanqui, pur rendendosi conto dell’insensatezza di quest’ultima richiesta, partecipò alla manifestazione del 17 marzo per non rompere il fronte rivoluzionario, e perché capì, e ancor prima sentì, che il suo posto era accanto ai proletari. Blanqui aveva compreso molto bene la situazione, che sarà descritta poi magistralmente da Marx ne “Le lotte di classe in Francia”: «Il 17 marzo rivelò la situazione equivoca del proletariato che non permetteva nessuna azione decisiva. Lo scopo originario della manifestazione era di risospingere il governo provvisorio sulla via della rivoluzione, di ottenere, secondo le circostanze, l’esclusione dei suoi membri borghesi e di strappare la proroga delle elezioni per l’Assemblea Nazionale e per la Guardia Nazionale. Ma il 16 marzo la borghesia, rappresentata dalla Guardia Nazionale, aveva fatto una dimostrazione ostile al governo provvisorio. Al grido “Abbasso Ledru-Rollin!” si era mossa verso l’Hotel de Ville. E il popolo si trovò costretto, il 17 marzo, a gridare: “Viva Ledru-Rollin! Viva il governo provvisorio”. Fu costretto a prendere, contro la borghesia, la difesa della repubblica borghese che gli sembrava in pericolo. Consolidò il governo provvisorio, invece di sottometterselo. Il 17 marzo si risolse in una scena da melodramma, e se in quel giorno il proletariato parigino mise ancora una volta in mostra il suo corpo di gigante, tanto più aumentò nella borghesia, dentro e fuori il governo provvisorio, la decisione di abbatterlo».
Ovviamente il governo provvisorio comprendeva bene la minaccia consistente nell’attività di Blanqui, del suo club e del suo tentativo di unire le forze rivoluzionarie e proletarie. Ancora Danvier: «Per prima cosa fu creato in tutta fretta un Club des Clubs proprio all’indomani del 17 marzo, al fine di costruire una federazione di club in grado di contrastare ogni altro tentativo d’aggregazione. Attingendo a fondi segreti del Ministero degli Interni, Ledru-Rollin riuscì a far promesse monetarie e a distribuire incarichi che gli dovevano tornare utili nelle elezioni. La sera del 26 riuscì così a raccogliere oltre 70 club. Obiettivo fondamentale non era l’allargamento delle basi politiche della neonata Repubblica, ma la lotta contro il socialismo, il comunismo, Blanqui. Grazie ai denari del Ministro degli Interni, il 21 era sorto improvvisamente, dopo quattro settimane di dormitorio, il Club de la Révolution, ossia il Club Barbès. Il 2 aprile il Club des Clubs ebbe il suo presidente: Aloysius Hubert, da anni “agent de police” infiltrato nelle file repubblicane e socialiste. Dal 3 aprile al 9 maggio il Club des Clubs ricevette dal Ministero degli Interni ben 173.000 franchi; una somma di tutto rispetto per l’epoca».
Per screditare Blanqui e dividere i rivoluzionari fu pubblicato un documento, il 31 marzo, in cui si diceva che Blanqui nel 1839, al tempo della fallita insurrezione della “Società delle Stagioni”, aveva fatto delle confidenze alla polizia: era quindi un delatore ed un venduto. Il documento era un falso, ma ottenne l’effetto desiderato seminando lo scompiglio e il sospetto tra i rivoluzionari, che pure conoscevano bene Blanqui: la calunnia è un venticello che si acquieta con molta difficoltà. Barbès sostenne subito l’autenticità del documento, a differenza di Raspail ed altri. Il 15 marzo 1857 Victor Bouton, funzionario del Ministero dell’Interno, scrive una lettera alla madre di Blanqui, da cui leggiamo: «So da un vecchio prefetto di Polizia che l’autore del rapporto Tascherau, incriminato da Tascherau e attribuito a Blanqui, non è Blanqui. È stato redatto, mi ha detto questo prefetto, negli uffici della Prefettura di Polizia, per i bisogni del processo del 12 maggio grazie alle note giornaliere di un agente che si era unito a Blanqui e Barbès e condivideva con loro la direzione delle società segrete: Lamieussens. Tutto quello che abbiamo di Blanqui – mi ha detto questo prefetto – sono due lettere di sua moglie che implora la grazia di non morire senza dire addio a suo marito».
Anche Barbès finì in prigione dopo i fatti del 1848, ma fu poi graziato il 5 ottobre 1854. Ancora Danvier: «Una sua calorosa lettera patriottica a G. Sand, relativa alla guerra di Crimea, comunicata a Napoleone III, fu sufficiente per indurre quest’ultimo a concedere la libertà». Scrive Marx sul Daily Tribune del 21 ottobre 1854: «Barbès non ha mai cessato di calunniare e di gettare il dubbio su Blanqui, come se avesse agito in connivenza con il governo. L’affare della sua lettera e del perdono di Bonaparte risolve definitivamente il problema di sapere chi è l’uomo della Rivoluzione e chi non lo è».
È interessante ascoltare il discorso fatto da Lamartine all’Assemblea Nazionale quando Blanqui è ormai in prigione: «Non crediate che abbiamo proclamato la repubblica solo nell’interesse della libertà (...) Abbiamo proclamato la repubblica perché abbiamo riconosciuto che questa forma di governo era la più adatta a fronteggiare con la forza più tenace tutti i pericoli, non solo per il governo ma per l’ordine sociale; i principi sacri della famiglia, dello Stato, della proprietà (...) Ho cospirato con quegli uomini, ho cospirato con Sobrier, ho cospirato con Blanqui, ho cospirato con molti altri. Sapete come? Ho cospirato come il parafulmine cospira con la folgore!».
Il 16 aprile ci fu una manifestazione organizzata da Ledru-Rollin che mobilitò 40 o 50.000 uomini della Guardia Nazionale contro un’inesistente congiura comunista. Scrive Danvier: «Barbès, alla testa della 12° Legione, attese in armi gli operai che giungevano all’Hotel de Ville, pronto a schiacciare l’insurrezione “comunista”».
Gustave Lefrançais nei suoi “Ricordi di un rivoluzionario” scrive: «La testa della manifestazione giunge al Pont d’Arcole e si appresta ad attraversarlo. Là si trovano le guardie nazionali del XII arrondissement; il colonnello Barbès dichiara ai manifestanti che non li lascerà passare. È bastato che Arago evocasse il nome di Blanqui per ottenere il concorso di questo troppo sentimentale rivoluzionario che, a sua volta, abusando della sua popolarità, mette il suo stupido odio al servizio della reazione. Davanti a questo atteggiamento inatteso, la colonna esita e rifluisce. Le guardie nazionali, formando una siepe, si gettano allora, baionetta sul fucile, sui manifestanti disarmati e sorpresi. La colonna è tagliata in tutti i punti e ben presto dispersa al grido di: “Morte ai comunisti! Morte a Blanqui! Morte a Cabet!”».
In un resoconto del Club repubblicano centrale del 16 aprile leggiamo: «Un altro oratore ha terminato il suo discorso dicendo che l’insegnamento da trarre dalla giornata era il seguente: il popolo non dovrà mai più scendere nella strada senza armi. Un altro chiede la creazione di una organizzazione come le vecchie società segrete, quella dei Droits de l’Homme, per esempio. Il cittadino presidente Blanqui fa notare che non vi si era ricorsi perché quegli allori ricordavano troppo il tempo della tirannia, che si era sperato poter agire senza tali mezzi, sotto il regno della libertà. Visto che la controrivoluzione si organizza in questo modo, propone per l’indomani di nominare i capi sezione e di organizzare, in una parola, la Società Repubblicana Centrale sulla base delle vecchie società segrete. La proposta è adottata».
Le condizioni della classe operaia erano terribili: solo a Rouen c’erano 30.000 disoccupati. Il fratello di Blanqui, ormai da tempo divenuto liberale, nel 1849 pubblicò una inchiesta sulla situazione della classe operaia francese nell’anno precedente, dandone un quadro estremamente preciso, così come avevano fatto, in maniera diversa, Engels e Dickens per il proletariato inglese. Scrive Adolphe Blanqui: «Lo stato veramente deplorevole degli alloggi operai nella città di Rouen reclama una riforma radicale, energica, immediata, in nome del pudore e della umanità (...) Esistono a Rouen delle tane ingiustamente onorate del nome di abitazioni, in cui la specie umana respira un’aria viziata che uccide invece di far vivere, che avvelena i bambini al seno della madre e li conduce ad una decrepitezza precoce, attraverso le più tristi malattie, la scrofola, i reumatismi, la tisi. I bambini che in queste tombe sfuggono al vizio finiscono per cadere nell’idiozia. Quando raggiungono i 20 anni neanche 10 su 100 sono in grado di fare il servizio militare: la miseria, le privazioni, il freddo, l’aria viziata, il cattivo esempio li hanno smagriti, atrofizzati, corrotti, demoralizzati.
«Perfino i nomi di questi quartieri maledetti ispirano il disgusto: rue de la Bassesse, La Cloacque e altri simili il cui interno è conosciuto solo da alcuni che fanno beneficenza e che per penetrarvi affrontano la più viva ripugnanza. Si entra in quelle case attraverso anditi bassi, stretti e oscuri, dove spesso un uomo non può stare in piedi (...) Il focolare domestico degli infelici abitanti di queste stamberghe è composto di una lettiera di paglia sconnessa, senza lenzuola né coperte; le stoviglie consistono in un vaso di legno o di terracotta sbrecciata che serve a tutti gli usi. I figli minori dormono in un sacco di cenere (...) È necessario che nessuno in Francia ignori che esistono tra noi migliaia di uomini in una situazione peggiore di quella dei selvaggi, perché quelli hanno l’aria, mentre gli abitanti del quartiere Saint-Vivien non ne hanno (...) Non vi sono quasi mai vetri alle finestre e i piani terreni sono così umidi che le pareti sono tappezzate di muffa (...) Il dipartimento del Nord, popolato da un milione di abitanti, presenta lo spettacolo più sorprendente delle miserie del nostro stato sociale, così come da mezzo secolo si è andato trasformando sotto l’influenza del regime manifatturiero e delle vicissitudini industriali che ne sono conseguite».
Il 23 aprile si tennero le elezioni con il risultato previsto da Blanqui: su 900 deputati ce ne furono 100 dei repubblicani moderati della Réforme, 100 della più accesa controrivoluzione cattolica, e 200 monarchici conservatori del Thiers. Non vennero eletti Raspail con 47.000 voti, Considérant con 28.000 e Cabet con 20.000. Blanqui, grazie anche alla campagna di calunnie menzionata, ebbe poco più di 5.400 voti. A questi risultati seguirono gravi disordini. A Rouen la Guardia Nazionale sparò su una manifestazione di operai. Il giorno dopo intervenne l’esercito con i cannoni, con 34 operai morti, oltre ai feriti e agli arrestati.
Il 2 maggio la Società Repubblicana Centrale diffuse un manifesto nella forma di un messaggio al governo provvisorio: «Non è mancato nulla a queste nuove scene d’aprile! Né la mitraglia, né le palle da cannone, né le case distrutte, né lo stato d’assedio, né la ferocia della soldataglia, né l’oltraggio ai morti, l’insulto unanime dei giornali, questi vigliacchi adoratori della forza! (...) Sono sempre gli stessi i boia e le stesse le vittime! Da una parte borghesi forsennati che spingono al massacro, soldati idioti rimpinzati di vino e di odio; dall’altra disgraziati operai che cadono indifesi sotto le pallottole e le baionette degli assassini! (...) Non si è combattuto, lo sapete bene! Si è sgozzato!».
Alcune sezioni di alcuni club si preparavano alla lotta armata. Blanqui era contrario a salti nel buio che non tenevano conto dei reali rapporti di forza. Il 4 maggio nasceva ufficialmente la Repubblica.
(continua al prossimo numero)