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La guerra in Ucraina e la guerra a Gaza sono sempre più vicine fra loro. Anche se i rispettivi fulcri in cui si concentrano i combattimenti si trovano a distanza di quasi duemila chilometri, si assiste all’infittirsi di nessi che li legano in reciproca interdipendenza. Gli eventi più recenti tendono a mostrare quanto il coinvolgimento di ciascuna delle potenze globali e regionali in gioco vada parallelamente crescendo sullo scenario di entrambi i conflitti, anche allo scopo di rafforzare la propria relativa posizione nell’altro teatro di guerra.
L’esempio più evidente di questa interdipendenza si può osservare in particolare nell’interessamento sempre più bilanciato rispetto a entrambe le aree da parte degli Stati Uniti. Se da una parte la propaganda russa, rivolta soprattutto al mondo extraeuropeo, non fa altro che giustificare la propria proiezione di potenza assegnando ad essa la funzione di levatrice di un “nuovo mondo multipolare”, dall’altra l’amministrazione americana, specialmente negli ultimi tempi, sembra intenta a cercare di riconquistare il ruolo di arbitro nei conflitti presentandosi con l’ingannevole volto benevolo del paciere.
Per quanto le rappresentazioni propagandistiche siano spesso lontane dalla realtà effettuale, questo non significa che non siano rivelatrici di manovre e svolte tattiche inconfessabili, o sintomi del mutare dei rapporti di forza fra le potenze.
Nell’atteggiamento attuale degli Stati Uniti nei confronti dei propri referenti sul campo di battaglia si assiste al tentativo, ormai abbastanza manifesto, di “tirare il freno” e di fare seguire alla politica di sostegno incondizionato dei combattimenti su entrambi i teatri, quella della trattativa, per arrivare a tregue sia pure armatissime e destinate anche nelle intenzioni dei loro fautori a essere decisamente effimere. Si potrebbero chiamare pause di guerra, ma per ora denotano una difficoltà nel proseguire i combattimenti con le modalità attuali.
Su questo tentativo degli Stati Uniti di richiamare i propri alleati sul campo a una pausa tecnica si affastellano varie chiavi di lettura. La stampa più filo-atlantica fa di tutto per avvalorare la tesi delle contrapposizioni interne negli Stati Uniti, in particolare fra democratici e repubblicani, specialmente in vista delle prossime elezioni presidenziali. Si cerca di sostenere che i ritardi nel voto al Congresso per varare i prestiti all’Ucraina per sostenere lo sforzo bellico siano stati il frutto di una divisione politica del tutto legittima nell’ambito di un regime liberal-democratico.
Ma l’enfasi posta sulle beghe in casa della più grande potenza militare del pianeta serve a mettere in secondo piano le conseguenze del fallimento dell’offensiva ucraina e la mancanza di prospettive nella prosecuzione della guerra senza coinvolgere il dispositivo militare della Nato. Dunque appare sempre più evidente il tentativo degli Stati Uniti di trarsi d’impaccio da una guerra che non possono vincere a basso costo e che forse converrebbe sospendere per passare ad affrontare altri dossier di politica internazionale.
Sul versante ucraino si constata come il timore per il crollo del fronte interno, minato dal marasma sociale, dalle forti perdite al fronte e dalle vittorie, per ora soltanto parziali, delle forze russe, ha suscitato evidenti contraccolpi nelle cancellerie europee, orripilate dalla prospettiva di “darla vinta a Putin”, ma anche incapaci di lanciare moniti che vadano al di là di una propaganda bellicista destinata, almeno per il momento, a rivelarsi velleitaria e inconcludente.
Tutti segnali questi che in ogni caso vanno presi in considerazione poiché ci avvertono dell’esigenza sentita da settori sempre più ampli della borghesia del Vecchio Continente di imboccare con decisione il cammino del riarmo. In questo senso sono da leggere le minacce da parte dell’Eliseo di inviare truppe francesi a combattere in Ucraina, o il maldestro tentativo di trovare un accordo per «rilanciare e integrare l’industria europea della difesa» durante l’ultima riunione del Consiglio europeo del 21 e del 22 marzo.
A condensare in poche parole le indecisioni dell’eterogenea Unione Europea, incapace di presentarsi come un insieme coeso di nazioni, ma pure consapevole della sostanziale inevitabilità della guerra borghese, sono le parole dell’Alto Rappresentate per la Politica Estera e di Sicurezza Josep Borrell: «La guerra non è imminente, non spaventiamo i cittadini». Ma subito dopo ribadisce la necessità di «prepararci per il futuro e aumentare le nostre capacità di difesa», lasciando a noi il compito di ricordare quale ignobile eufemismo si nasconda dietro la parola “difesa”.
A vedere tali manifestazioni d’impotenza viene dunque in mente come per gli Stati Uniti la guerra in Ucraina, pur fra vari fallimenti, abbia già raggiunto almeno un risultato di un qualche rilievo: essi hanno ribadito la propria supremazia sulla vecchia Europa, che si rivela sempre più incapace di trasformarsi in una potenza in grado di giocare un proprio ruolo politico autonomo sulla scena internazionale.
Eppure questo non basta agli Stati Uniti per ottenere dalle guerre in corso quello che ciascuna potenza egemone pretende da ogni guerra regionale: ribadire la propria supremazia nella gerarchia imperialista. Questo rivela la massima pericolosità quando si assiste all’esondare delle guerre regionali al di fuori dell’alveo tradizionale. Un aspetto questo che era emerso già con le cospicue forniture di droni iraniani alla Russia, i quali hanno giocato un ruolo importante negli ultimi mesi della guerra, infliggendo molte perdite fra i soldati ucraini.
Poi l’interferenza dei conflitti mediorientali e centro-asiatici (l’Afghanistan risulta tutt’altro che pacificato) sulla guerra in Ucraina si è fatta sentire anche con l’attentato del 22 marzo nella sala da concerto moscovita Crocus City Hall in cui hanno perso la vita circa 140 persone (a parecchi giorni di distanza non si conosce ancora la sorte di numerosi dispersi). Rivendicato dall’Isis del Khorasan, eseguito a quanto pare da miliziani di nazionalità tagika, l’attentato è stato colto al balzo dal governo russo per accusare di complicità con gli assalitori l’Ucraina e indirettamente gli Stati Uniti e il Regno Unito.
Non sappiamo quali saranno le conseguenze dell’attacco e fin dove arriveranno le rappresaglie da parte russa, tuttavia siamo portati a prendere con cautela tanto le accuse di Mosca, quanto la professione di innocenza di Kiev. L’Isis-K aveva dato prova di agire a largo spettro, al di fuori della regione del Khorasan da cui trae il nome, già nel gennaio scorso con un attentato nella città iraniana di Kerman provocando quasi 90 morti. Al di là delle eventuali complicità che potrebbero avere sostenuto l’attacco di Mosca, esso può essere valutato come un ulteriore elemento di interconnessione fra i vari teatri di guerra: gli attentatori hanno voluto colpire la Russia, la quale ha combattuto lo Stato Islamico sul territorio siriano, e ha visto rafforzare la propria rete di alleanze in Medio Oriente, che è a sua volta destinataria di altri attacchi della stessa organizzazione jihadista.
Dunque la guerra in Medio Oriente mostra un caso esemplare del dilagare di un conflitto oltre la propria tradizionale area geostorica bersagliando come una diffusione metastatica altre aree di frizione della contesa imperialista. All’acuirsi dello scontro bellico che vede il suo epicentro nel feroce massacro di Gaza, le onde telluriche si espandono lungo diverse direttrici che sfociano in aree già interessate da acute frizioni fra imperialismi in lotta fra loro.
La via d’accesso al Mar Rosso dall’Oceano Indiano attraverso lo stretto di Bab el-Mandeb è al primo posto per importanza fra i nuovi focolai di guerra. Si tratta di una rotta marittima attraverso la quale transita, a seconda delle oscillazioni stagionali e di mercato, fra il 12 e il 15% dell’intero commercio mondiale. Ogni volta che cresce la tensione sul controllo di certi snodi cruciali da un punto di vista strategico, si acuisce inevitabilmente la contesa fra gli Stati più forti e si inducono le potenze di secondo rango a prendere partito, accelerando il processo di definizione degli schieramenti imperialistici rivali.
L’organizzazione politico-militare degli Huthi yemeniti, espressione della corrente dello sciismo politico che si ispira all’esempio del khomeinismo iraniano, ha colto l’occasione del conflitto di Gaza per tentare di fare sentire il proprio peso sull’arena internazionale minacciando militarmente le navi che dall’Oceano Indiano attraversano il Mar Rosso per poi addentrarsi nel Mediterraneo attraverso il canale di Suez. Non si può non vedere nelle operazioni di intercettazione del traffico marittimo nell’area di Bab el-Mandeb, contrabbandate in senso propagandistico dagli Huthi stessi come azioni di appoggio alla “causa palestinese”, come il tentativo di fare pressione non soltanto su Israele, ma anche sui suoi alleati statunitensi ed europei, per dimostrare come l’ampliamento del sedicente “fronte della resistenza al sionismo” faccia di questo un avversario temibile di cui non sarà facile venire a capo. Gli effetti sono stati già vistosi sul traffico mercantile attraverso il Mar Rosso, che è diminuito drasticamente, comportando da una parte l’aumento dei costi di trasporto per le navi dirette al Mediterraneo, che si trovano a dovere circumnavigare l’Africa, e dall’altra il dimezzamento delle entrare dello Stato egiziano dai passaggi attraverso il Canale.
L’efficacia delle operazioni militari degli Huthi si deve a vari fattori. Il sostegno militare iraniano è stato costante durante i nove anni di guerra interna, in cui la milizia sciita ha dovuto contrastare le forze governative yemenite sostenute dall’Arabia Saudita, la quale è stata direttamente coinvolta nei combattimenti insieme con gli alleati Emirati Arabi Uniti. L’arsenale missilistico degli Huthi, che comprende droni e vettori di fabbricazione iraniana, aveva già dato una prova di notevole efficacia nel settembre del 2019 quando colpì e distrusse gli impianti di prima raffinazione del petrolio della società Aramco ad Abqaiq, costringendo l’Arabia Saudita a ridurre di circa due terzi le proprie esportazioni di greggio per parecchie settimane. In considerazione della distanza di circa 1.300 chilometri che separa il territorio controllato dagli Huthi, i quali rivendicarono l’attacco, e gli impianti di Abqaiq, alcuni osservatori attribuirono l’azione ai pasdaran iraniani o formularono l’ipotesi di un attacco congiunto messo a segno dall’Iran e dai suoi alleati yemeniti.
Resta comunque assodato che le imprese militari degli Huthi, compresi i bombardamenti missilistici effettuati in territorio israeliano, non sarebbero possibili senza un sostanzioso supporto militare iraniano. Inoltre sembra che gli Huthi possano avvalersi anche della collaborazione con gli Hezbollah libanesi, i quali vantano un’ampia rete di informatori nei paesi rivieraschi del Mar Rosso e nel Corno d’Africa. Per quanto riguarda invece le operazioni di disturbo della navigazione sullo stretto di Bab el-Mandeb gli Huthi sono coadiuvati da una flotta dei pasdaran iraniani che offre un efficace supporto logistico.
A rafforzare la posizione degli sciiti yemeniti nella regione sono intervenuti negli ultimi tempi alcuni fatti. L’accordo raggiunto a Pechino nel marzo del 2023 fra Arabia Saudita e Iran dopo otto anni in cui i paesi avevano interrotto le relazioni diplomatiche, ha sancito la funzione della Cina quale mediatore, grazie al fatto che essa è il maggiore partner commerciale di entrambi i paesi.
Questo tiepido riavvicinamento fra le più importanti potenze rivierasche del Golfo Persico e attori di primo piano della politica mediorientale rischiava di naufragare di fronte alla possibilità della stipulazione di un accordo fra Arabia Saudita e Israele sul modello dei “patti di Abramo”, la quale veniva data per imminente fino al momento dell’attacco compiuto il 7 ottobre scorso da Hamas e dai suoi satelliti politici palestinesi in profondità nel territorio israeliano. Le conseguenze di quell’attacco hanno indotto sia Riad sia Teheran a tenere in piedi l’accordo, che ha a sua volta contribuito a rafforzare un processo di de-escalation fra le parti in lotta in Yemen, che già dal marzo del 2022, dopo una trattativa conclusasi con lo scambio di alcune centinaia di prigionieri, avevano limitato gli scontri armati. Gli accordi con gli avversari hanno permesso agli Huthi di tornare in possesso dell’importante porto di Hudaydah, perso nel 2018 dopo una cruenta battaglia, il quale riveste una notevole rilevanza strategica per il controllo del tratto meridionale del Mar Rosso.
Le operazioni militari intraprese finora dagli Stati Uniti e dai loro alleati per contrastare le azioni degli Huthi nel Mar Rosso non hanno ottenuto risultati di rilievo. La capacità militare della milizia sciita yemenita sembra avere conservato un certo livello d’efficienza. Le azioni di disturbo al traffico nautico continuano nonostante i bombardamenti americani sul suolo yemenita. Gli Huthi hanno negato ogni responsabilità nel sabotaggio dei cavi sottomarini attraverso i quali passa il 17% dell’intero traffico Internet del globo, ma, indipendentemente da chi li ha danneggiati, non si può non vedere in questo un altro episodio che annuncia nubi assai fosche all’orizzonte.
Il 23 marzo alcuni missili lanciati dagli Huthi hanno colpito la petroliera cinese Huang Pu mentre navigava nel Mar Rosso. Un fatto questo che andrebbe a smentire la tesi di un perfetto allineamento della milizia sciita yemenita a un saldo fronte russo-cinese. Organi di stampa statunitensi avevano annunciato pochi giorni addietro di essere a conoscenza di un incontro fra Russia e Cina da una parte e Huthi dall’altra in cui questi ultimi avrebbero rassicurato per l’ennesima volta le due grandi potenze di non volere ostacolare in alcun modo i loro trasporti marittimi, chiedendo in cambio un esplicito sostegno politico. Come sempre nel mondo borghese i proxi, come vengono chiamati questi alleati armati nel linguaggio delle relazioni internazionali, devono trattare sul prezzo per la loro subordinazione alle potenze egemoni.
Sul versante libanese gli Hezbollah esitano non poco a entrare in una guerra aperta con Israele, anche se in 6 mesi dall’inizio dell’attuale conflitto nel confine fra i due Stati non si è vista in realtà nessuna pace. Centinaia di missioni aeree israeliane in Libano hanno provocato 250 morti fra i miliziani sciiti libanesi, mentre i razzi lanciati su Israele hanno causato 20 vittime. Le città e i villaggi delle zone confinanti sono stati evacuati sui due lati della frontiera.
La situazione economica in Libano è quella di un paese in bancarotta. Una guerra aperta potrebbe avere conseguenze difficili da valutare sul piano sociale e un partito borghese come gli Hezbollah potrebbe trovarsi a dovere fronteggiare il proletariato libanese sempre più insofferente alla miseria e alle divisioni religiose settarie che tanto influiscono nella vita del paese. Dunque non si possono scambiare neanche gli alleati di una potenza regionale come l’Iran come dei burattini sempre pronti ad ubbidire agli ordini della teocrazia al potere a Teheran. I proxy perseguono comunque i propri interessi e la propria agenda politica.
Tuttavia questo non significa che l’Iran, nonostante la crisi economica attualmente in corso, l’alta inflazione e il serpeggiante malcontento della classe lavoratrice, non stia ampliando le sue proiezioni imperialistiche anche al di fuori della sua tradizionale sfera d’influenza. I contraccolpi del conflitto mediorientale si fanno sentire infatti anche nel cuore dell’Africa, a diverse migliaia di chilometri di distanza e anche laggiù l’Iran si predispone a giocare la sua parte. La giunta militare al potere in Niger dall’ottobre scorso, dopo avere rotto ogni collaborazione militare con la Francia, ha deciso di denunciare anche gli accordi di cooperazione militare con gli Stati Uniti per combattere l’insorgenza jihadista, presente in varie regioni del paese. La virata della giunta di Niamey verso altri attori della politica mondiale appariva già come un fatto compiuto. Ora fonti militari statunitensi ed europee riportate dal New York Times, accusano il governo di Niamey di avere già raggiunto un accordo preliminare per autorizzare Teheran a comprare l’uranio nigerino. Se ciò fosse vero costituirebbe un altro passo in avanti di rilievo per il progetto nucleare iraniano così fortemente osteggiato da Israele e Stati Uniti.
Le operazioni militari israeliane a Gaza hanno dimostrato ancora una volta la ferocia della guerra borghese e l’efficienza della sua macchina per uccidere gli esseri umani. Le giaculatorie sulla democrazia non hanno impedito un esteso massacro, in grande maggioranza di civili. Anche la carestia, indotta dalle operazioni belliche, dalla presenza delle truppe israeliane e dall’isolamento imposto a Gaza, può essere considerata come parte della strategia di guerra. Le stragi di palestinesi in coda per il pane sono anch’esse un elemento di questa strategia, dato che servono a ricordare, qualora ce ne fosse ancora bisogno, come le regole d’ingaggio delle truppe israeliane permettano di dispensare piombo alle masse in grandi quantità al primo cenno di tumulto o di insubordinazione.
Al di là della efferatezza di costringere la popolazione alla fame, e nel caso di molti bambini nei primi mesi di vita addirittura alla morte d’inedia – elementi quasi inevitabili di ogni guerra imperialista – forse c’è da parte israeliana una pianificazione che guarda alla gestione politica della situazione che si verrà a creare dopo l’eventuale cessate il fuoco. In seguito all’inizio delle ostilità la distribuzione degli aiuti è stata fortemente ostacolata dai bombardamenti e dalle ispezioni imposte da Israele, che ha fatto di tutto sin dall’inizio per creare una penuria di carburante, col pretesto che la disponibilità di idrocarburi da trazione avrebbe permesso alle forze di Hamas una maggiore libertà di movimento e dunque di combattere in maniera più efficace.
Il collasso delle forniture dei generi di prima necessità si è verificato durante il mese di febbraio quando a Gaza sono entrati una media di 62 camion al giorno, contro i 200 promessi da Israele. Gli aiuti arrivano in genere nella parte settentrionale di Gaza col Programma alimentare mondiale (Pam) e l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi (Unrwa). Oltre alle accuse, in gran parte strumentali, rivolte all’Unrwa da parte israeliana di collaborare con Hamas, e che hanno di fatto bloccato l’operatività di questa agenzia dell’Onu, c’è la realtà di una collaborazione con l’autorità locale palestinese al fine di scortare le derrate alimentari in un territorio devastato dalla guerra. Dunque la distribuzione degli aiuti deve fare assegnamento sulla polizia di Hamas per impedire che i camion vengano presi d’assalto dalla popolazione affamata o dalle bande che rubano i generi di prima necessità per rivenderli a prezzi esorbitanti alla borsa nera.
Secondo alcune fonti a fine febbraio Israele avrebbe cercato di coinvolgere elementi della borghesia palestinese per effettuare la distribuzione dei viveri. Agli inizi di marzo aveva avanzato la proposta di armare elementi dei clan locali di Gaza per assicurare la sicurezza dei camion, ma doveva fare i conti con le immediate reazioni di Hamas, che aveva equiparato ogni collaborazione con l’occupante al tradimento. Così i capi-clan della parte settentrionale della striscia di Gaza, in cui la presenza militare di Hamas è ancora consistente, sono stati costretti a rifiutare l’invito. Israele ha proposto lo stesso tipo di collaborazione a Fatah assegnando così all’Anp la distribuzione degli aiuti alimentari e prefigurando un ruolo politico per l’Anp nella Gaza del dopoguerra. Alcune fonti affermano che Israele stia valutando di affidare la distribuzione degli aiuti anche a milizie mercenarie, un’ipotesi che non suscita alcun entusiasmo a Washington, anche per la preoccupazione che cittadini americani vengano coinvolti in combattimenti e siano eventualmente presi in ostaggio dalle milizie palestinesi.
Anche da parte dell’Anp è stato ribadito il rifiuto di qualsiasi presenza straniera a Gaza. Anche se il numero medio di camion di aiuti è salito a 150 al giorno dopo la metà di marzo, la carestia data a lungo per imminente è ormai già in corso se si considera che prima dell’ottobre del 2023 i camion che entravano a Gaza con carichi di viveri erano circa 500 al giorno. Sembra dunque che lo Stato di Israele, come di consueto ogni Stato capitalistico in guerra, non arretri neanche di fronte alla prospettiva di condannare una parte della popolazione civile alla morte per fame.
Non si tratta di nulla di inedito, ma è un ulteriore segno del maturare di quella fase della guerra borghese in cui si passa dalla conquista e dal controllo del territorio allo sterminio diretto della popolazione a partire dalla sua componente proletaria. Un monito che deve servire a tutti i lavoratori per farsi un’idea dell’efferatezza con cui la classe dominante gestisce il lato demografico dei conflitti allo scopo di rafforzare il dominio del capitale sui salariati. Il capitale, per noi marxisti, non è un oggetto, una cosa o una macchina priva o anche dotata di cervello. Il capitale ci ricorda Marx «non è una cosa, ma un rapporto sociale fra persone mediato da cose».
Certo è difficile per una potenza in declino relativo come gli Stati Uniti non prendere le distanze dal massacro in corso e dalla reazione asimmetrica e sfrenata di Israele al sanguinario attacco subito il 7 ottobre. La strage di Gaza impensierisce le borghesie mediorientali che vedono in essa un messaggio minatorio. Così, per continuare ad avere un rapporto interlocutorio con Washington, pretendono assicurazioni circa il loro futuro. Il 25 marzo anche gli Stati Uniti hanno dovuto lasciare che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite approvasse una risoluzione che chiedeva il cessate il fuoco per Gaza. La rinuncia a opporre il veto da parte degli Usa ha deluso la pretesa manifestata con insistenza dal premier israeliano Netanyahu che il cessate il fuoco avrebbe impedito la possibilità di raggiungere il velleitario obiettivo militare di distruggere Hamas.
Un altro fatto questo che, al di là di ogni trattativa possibile, di ogni tregua armata di breve durata e di appelli alla pace e all’amicizia con le altre nazioni, avvicina l’intero pianeta alla meta nefasta della guerra generale fra potenze imperialiste.
Soltanto i lavoratori possono fermare la marcia macabra verso l’abisso del più
grande massacro della storia cui li conduce la borghesia internazionale. Il
proletariato mondiale, guidato dal suo organo di classe, il partito comunista
internazionale, dovrà lottare per sé stesso e intraprendere la strada della sua
rivoluzione internazionale per rovesciare l’infame regime del capitale
Lo scontro imperialista atto finale della crisi del Capitale
I comunisti condannano storicamente e avversano ogni guerra tra gli imperialismi, che rappresenta il punto più alto della degenerazione del mondo capitalistico.
Nell’imperialismo le guerre tra gli Stati borghesi vedono un solo, unico sconfitto, il proletariato internazionale.
I comunisti non chiamano i lavoratori a schierarsi per la vittoria dell’uno o dell’altro fronte imperialista, entrambi reazionari e antiproletari.
Da sempre attendono e lavorano per la guerra della classe operaia per il comunismo.
Per tutti i partiti borghesi e i falsi comunisti è invece irresistibile sottomettersi a una delle due parti, nessuno riesce ad uscire al di sopra della mischia immane.
Soltanto a chi si mette completamente dalla parte dei proletari – che non hanno patria e non hanno bandiera perché tutte le patrie e tutte le bandiere nazionali sono contro di loro – è dato essere contro ogni parte in guerra.
La soluzione alle guerre imperialiste in corso è: contro la borghesia ucraina e contro la russa; contro la borghesia israeliana e contro la palestinese. Che sul piano pratico significa essere, in ogni paese, contro la propria borghesia.
La macchina micidiale della guerra non si ferma appellandosi alla pace, ma con la lotta del proletariato contro la propria classe dominante. Ciò significa rigettare la “difesa della patria”, diffondendo gli scioperi dalle città all’esercito, unendo nella lotta proletari civili e in divisa, voltando il fucile: non contro i proletari dell’altro paese ma contro il proprio regime borghese. Come in Russia nell’Ottobre rosso del 1917: non contro i proletari tedeschi ma contro il governo borghese di San Pietroburgo e dello Zar.
Solo così i proletari possono trasmettere il contagio del disfattismo rivoluzionario ai proletari degli altri paesi e fermare il massacro fra fratelli della stessa classe sociale, unica e internazionale, dei lavoratori.
Anche di
fronte a un esercito occupante, la lotta da condurre è quella di classe, sono
gli scioperi in difesa del salario e delle condizioni di vita, fino alla rivolta
sociale, appellandosi ai proletari civili e in divisa dell’esercito occupante,
costretti a svolgere funzioni di polizia, affinché si rivoltino contro il loro
regime borghese e solidarizzino con la rivolta proletaria del paese occupato.
Ciò si può fare solo rigettando i richiami dei partiti borghesi alla lotta per “cacciare
l’invasore” e i loro tipici infami metodi terroristici, che seminano morte fra i
proletari del paese occupante, civili e in divisa.
– Per l’unione fra i proletari russi e ucraini
– Per l’unione dei proletari israeliani e palestinesi
– Contro le proprie borghesie nazionali
– Per il disfattismo proletario della guerra imperialista
La stagnazione economica in Germania, tradizionalmente locomotiva dell’economia dell’Europa occidentale, ha dato vita negli ultimi mesi a un malcontento sociale e a un’impennata di consensi per il partito di estrema destra Alternative für Deutschland (AfD), nonché al riemergere di fazioni esplicitamente naziste.
Per contro il fine settimana del 20-21 gennaio ha visto mobilitazioni di massa contro l’estrema destra in molte città tedesche, dopo che è stato rivelato che l’AfD e i suoi alleati si erano incontrati per discutere proposte di deportazione di milioni di migranti e cittadini di origine non tedesca. Per la maggior parte, i manifestanti si sono radunati dietro la bandiera della “difesa della democrazia”.
Come negli anni Trenta questo nuovo fascismo è il prodotto diretto del capitalismo. L’economia della Germania attraversa un lungo periodo di relativo declino. La crescita della produzione industriale non si è completamente ripresa dagli shock della pandemia, dalla debolezza della domanda di esportazioni in altri Paesi, dalle interruzioni delle catene di approvvigionamento, dall’inflazione, dagli alti tassi di interesse e dalla guerra in Ucraina. Nel 2023 la produzione industriale in Germania è diminuita del 1,5%. Rispetto al picco raggiunto nel 2007, è diminuita del 2,5%.
Questa difficoltà nella riproduzione del capitale ha creato scompiglio all’interno del governo federale, guidato dal Partito Socialdemocratico (SPD) sostenuto dal Partito Verde e dai Liberi Democratici (FDP), partito liberale economicamente conservatore: la cosiddetta Ampelkoalition, la “coalizione semaforo”, rosso, verde e giallo. Dopo settimane di litigi tra questi partiti su dove dovesse cadere la scure della spesa pubblica, il 18 gennaio la commissione parlamentare per il bilancio federale l’ha elevato a 476,8 miliardi di euro con nuovi prestiti per 39 miliardi.
Il governo è vincolato dalla Schuldenbremse (freno al debito), in vigore dal 2009 introdotta dal governo di Grande Coalizione di Angela Merkel, che limita il nuovo debito pubblico annuale allo 0,35% del prodotto interno lordo. Il provvedimento obbliga il governo federale a pareggiare i bilanci senza ricorrere a nuovi prestiti e a ridurre il debito nel medio termine. Fu originariamente introdotto per far fronte alla crisi finanziaria globale del 2008 e per mantenere la Germania all’interno delle regole dell’Eurozona. Può essere sospeso solo in situazioni eccezionali, come è avvenuto recentemente durante la pandemia di coronavirus. Ma non erano stati previsti periodi così prolungati di bassa crescita.
Per aggirare le restrizioni, la coalizione ha cercato di riassegnare 60 miliardi di euro non utilizzati per il coronavirus al Fondo per il clima e la trasformazione. Tuttavia nel novembre scorso la Corte costituzionale federale di Karlsruhe ha stabilito che questa riallocazione era incostituzionale e i 60 miliardi sono stati rimossi dal bilancio.
Dopo diversi anni di sospensione la Schuldenbremse tornerà quindi ad avere pieno effetto. Sebbene alcune fazioni della coalizione abbiano parlato di sospenderla nuovamente in determinate circostanze, nel frattempo sono stati imposti tagli drastici e molti appaltatori di lavori pubblici non sono stati pagati. Le misure previste che colpiranno i lavoratori includono l’aumento del prezzo della benzina e del riscaldamento, una tassa sui biglietti dei voli passeggeri e una più severa limitazione dei salari nei servizi finanziati con fondi pubblici, come la rete ferroviaria. Il governo propone inoltre di tagliare ogni anno, dal 2024 al 2027, il sussidio federale al regime di assicurazione pensionistica di 600 milioni di euro.
La misura che finora ha suscitato l’opposizione più accesa è l’abolizione graduale degli sgravi fiscali sul gasolio agricolo. L’aumento dei costi del carburante e dei mangimi importati, dei fertilizzanti ecc. ha messo in pericolo i piccoli agricoltori. In migliaia hanno bloccato i centri urbani con i trattori. Nel frattempo, l’inflazione, anche se ora si sta attenuando, ha ulteriormente eroso la capacità di spesa e il tenore di vita della classe operaia in Germania. L’inflazione sugli alimenti ha raggiunto un massimo del 21,2% nel marzo 2023 e si attesta ancora al 4,6%.
I giovani sono particolarmente colpiti dall’aumento dei prezzi degli affitti. Nel secondo trimestre del 2023, gli affitti degli appartamenti a Berlino erano in media di circa 13,23 euro al metro quadro al mese. Nell’ultimo decennio gli affitti a Berlino sono più che raddoppiati.
Anche se la Schuldenbremse venisse effettivamente sospesa, ciò porterà poco sollievo alla classe operaia: probabilmente ciò avverrà solo per finanziare ulteriormente la guerra in Ucraina, che è già costata allo Stato tedesco oltre 22 miliardi di euro in termini di sussidi e forniture di armi. Il ministro del bilancio della SPD, Dennis Rohde, ha recentemente dichiarato: «Credo che la lotta ucraina per la libertà non debba alla fine fallire a causa di una visione conservatrice delle regole del debito». Il capitalismo tedesco vede infatti enormi opportunità future di sviluppo economico in un’Ucraina sottratta all’influenza russa.
Tuttavia, l’impatto immediato del taglio del gas russo e l’interruzione delle forniture alimentari hanno imposto un costo stimato l’anno scorso dall’Associazione delle Camere di Commercio e Industria tedesche (DIHK) tra i 100 e i 160 miliardi di euro, pari a circa 2.000 euro per abitante.
I lavoratori delle ferrovie guidano la resistenza
In questo nuovo ciclo di austerità i ferrovieri stanno guidando la resistenza alla crescente pressione sui lavoratori affinché facciano di più per meno. Dopo due scioperi di avvertimento di 24 ore a novembre e dicembre, il sindacato dei macchinisti GDL ha indetto una votazione che ha portato a un 97% di voti a favore di uno sciopero a tempo indeterminato. Tuttavia, la dirigenza della GDL si è rifiutata di dare seguito alla volontà dei suoi iscritti. All’inizio di gennaio è stato indetto uno sciopero di tre giorni e un ulteriore sciopero di sei giorni a partire da mercoledì 24 gennaio.
Deutsche Bahn ha offerto un aumento salariale dell’11% in 32 mesi, cioè il 3,7% all’anno, ben al di sotto dell’attuale tasso di inflazione, e quindi una riduzione del potere di acquisto. Tuttavia, lo sciopero non riguarda principalmente la retribuzione, ma le condizioni di lavoro. Gli investimenti insufficienti hanno lasciato la rete ferroviaria tedesca allo sbando e sono i macchinisti a pagarne il prezzo più alto, con lunghi orari di lavoro, cambi di turno con breve preavviso e nessun riconoscimento dello stress mentale e dei danni alla vita familiare che ne derivano. I macchinisti chiedono una riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore con una compensazione salariale completa – una richiesta che si protrae da tempo e sulla quale non si sono registrati progressi.
Il 5 gennaio la Deutsche Bahn (DB), ha fatto un’”offerta” in base alla quale i conducenti sarebbero stati costretti a finanziare da soli la riduzione dell’orario di lavoro – di fatto un taglio del 2,6% dello stipendio per ogni ora di riduzione dell’orario di lavoro. La DB è di proprietà dello Stato e il governo per questa tornata di contrattazioni collettive ha già prefissato il costo per le ferrovie come parte dei suoi tagli selvaggi alla spesa pubblica. L’accordo proposto è stato ovviamente riportato in modo disonesto dai media, provocando ulteriore rabbia tra i macchinisti. Alla fine un accordo è stato raggiunto lo scorso 26 marzo che prevede la riduzione "non obbligatoria" dell’orario di lavoro da 38 a 35 ore. Ne riferiremo più dettagliatamente sul prossimo numero.
Un settore è in piena espansione
Nonostante la crisi economica, il settore è in piena espansione: quello degli armamenti. Nel 2023, la coalizione-semaforo (che include il Partito Verde, un tempo “pacifista”!) ha approvato esportazioni di armi per 12,2 miliardi di euro, con un aumento del 40% rispetto al 2022. Le consegne di armi tedesche all’Ucraina sono quasi raddoppiate nel 2023 e hanno rappresentato la maggior parte delle esportazioni nel secondo anno di guerra, con 4,44 miliardi di euro, secondo i dati diffusi dal Ministero federale dell’Economia.
Altri importanti mercati di esportazione sono la Norvegia (1,2 miliardi di euro), l’Ungheria (1,03 miliardi), il Regno Unito (654,9 milioni), gli Stati Uniti (545,4 milioni) e la Polonia (327,9 milioni). La Germania ha interessi imperialistici anche in Estremo Oriente. Da tempo la Corea del Sud è il maggiore mercato di esportazione per i produttori di armi tedeschi al di fuori della NATO, con 256,4 milioni di euro di vendite nel 2023. A dicembre, Berlino e Seul hanno firmato accordi per migliorare la loro cooperazione in materia di intelligence e militare-industriale.
La Germania ha anche contribuito massicciamente alla guerra di Israele a Gaza, decuplicando il valore delle sue esportazioni a 323,2 milioni di euro. Lo Stato tedesco è uno dei più solidi alleati di Israele e i produttori di armamenti come Rheinmetall ne sono tra i maggiori beneficiari. Il prezzo delle azioni della società è salito di circa il 15% in soli cinque giorni dall’inizio del conflitto a Gaza. Attualmente Rheinmetall sta lavorando con il partner israeliano Elbit Systems a sviluppare un nuovo obice gommato da 155 millimetri e droni da combattimento avanzati. Non si tratta di un traffico a senso unico: nel 2024 la Germania spenderà 25 milioni di euro per la fornitura da Elbit di sistemi missilistici a lancio multiplo all’avanguardia PULS (Precise and Universal Launching System).
In effetti il bilancio militare della Germania è una notevole eccezione ai tagli di spesa, con un aumento di 1,7 miliardi di euro fino alla cifra record di 51,8 miliardi. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha fornito la motivazione per un aumento della quota militare del bilancio, con un fondo di 100 miliardi di euro istituito per modernizzare le forze armate tedesche.
La Germania si è impegnata a rispettare l’obiettivo della NATO di destinare il 2% del PIL alle spese militari o, come la borghesia preferisce chiamarle, alla “difesa”. Fatto è che la borghesia tedesca sta assumendo una posizione più aggressiva sulla scena internazionale.
L’ascesa del nazismo
Le pressioni economiche, unite alla rinascita del militarismo tedesco, hanno determinato un’impennata di consensi per il populismo di estrema destra e per l’AfD in particolare, che, come in altri Paesi, sostiene l’esistenza di una cospirazione tra “l’establishment politico” e gli immigrati contro la popolazione tedesca “autoctona”.
Ha cercato di sfruttare le proteste dei contadini con una retorica che riecheggia la propaganda “Sangue e suolo” con cui i nazisti si rivolgevano alle comunità rurali dopo la catastrofe economica del 1929.
L’AfD fu fondato nel 2013 da economisti e accademici conservatori che si opponevano alla introduzione dell’euro e a una maggiore integrazione politica in Europa. Ma le sue politiche e la sua dirigenza sono cambiate dopo l’arrivo di un milione di rifugiati dal Medio Oriente nel 2015, accolti da Angela Merkel come risposta a una profonda sfida demografica per la Germania: il rapido invecchiamento della popolazione e i bassi tassi di natalità. Oggi, molti capi dell’AfD incolpano di ogni problema sociale ed economico non solo i recenti immigrati, ma anche tutti coloro che non hanno origini tedesche – e si tratta di un quinto della popolazione totale. Prezzi alti? Colpa degli stranieri. Affitti alti? Troppi stranieri. Cattiva assistenza sanitaria? Colpa degli stranieri. ecc.
Tuttavia, l’AfD si è anche affermato come l’unico grande partito politico che si oppone alla guerra in Ucraina. Non che lo faccia per una ragione benevola: vuole che le armi rimangano in patria per essere utilizzate dalle forze armate tedesche piuttosto che esportarle.
Lo slogan dell’estrema destra tedesca è ora passato dal voler fermare o rallentare l’immigrazione a “Re-migrazione”. Nel novembre 2023 rappresentanti di alto livello dell’AfD si sono “discretamente” incontrati a Lehnitzsee, a nord di Potsdam, con altri esponenti di destra e dirigenti di azienda per discutere i piani di espulsione di chi di origine straniera vive in Germania. Vi hanno partecipato anche due membri del Partito Cristiano-Democratico di Centro della Germania (CDU), entrambi facenti parte dell’associazione nel loro partito “Unione dei Valori” (WerteUnion).
Martin Sellner, un esponente austriaco di spicco del “Movimento identitario”, ha presentato piani per esortare o, se necessario, costringere a lasciare il Paese chi non rientra nella definizione “völkisch” (ariana) della società tedesca. Questo includerebbe anche cittadini tedeschi ma che non sono “assimilati”. In una eco della famigerata Conferenza di Wannsee del 1942, ci sono state solo obiezioni sulla “fattibilità” di espulsioni di massa, ma non sono stati sollevati dubbi sull’opportunità di tali piani. Le proposte avanzate includono leggi discriminatorie per sottoporre gli immigrati a “forti pressioni per conformarsi” e per rendere più facile la revoca dei passaporti e della cittadinanza tedesca.
Per altro la democratica Repubblica Federale avrebbe già il potere costituzionale di negare o revocare la cittadinanza a persone che considera indesiderabili o “non assimilate”, o di rendere loro la vita intollerabile in altro modo, come ha fatto con il famigerato Berufsverbot, il divieto di accesso a determinate professioni a chi considera estremista.
L’antifascismo tedesco
La notizia dell’incontro “cospirativo” è stata rivelata per la prima volta il 10 gennaio da Correctiv, un collettivo di media democratici uno dei cui reporter si è infiltrato nell’hotel di Lehnitzsee.
La notizia ha scatenato una serie di manifestazioni, con circa 250.000 persone scese in piazza sabato 20 gennaio a Berlino, Amburgo, Francoforte, Hannover, Stoccarda, Monaco e altre città tedesche. Tuttavia sono state dominate da posizioni moralistiche sulla tolleranza e la diversità, che non hanno alcuna sostanza e poca risonanza per i lavoratori che stanno sopportando il peso degli attacchi del capitale.
L’analisi della “sinistra” antifascista in Germania è, semmai, ancora peggiore. Per loro il problema non è che i partiti tradizionali come la SPD difendono la democrazia capitalista, il sistema politico preferito dalla borghesia, ma che non sono abbastanza democratici. Ad esempio, il partito trotzkista Socialista per l’Uguaglianza scrive che «Quando Scholz e Co. cercano di presentarsi come alternativa “democratica” e oppositori dell’AfD, è pura ipocrisia». Per il Partito della Sinistra (Die Linke) la risposta è «Unità al di sopra delle divisioni di classe, insieme contro la destra», tramite un amalgama di gruppi identitari sui social media senza connotati di classe, del tipo “Nonne contro la destra”.
Per noi comunisti, invece, non c’è resistenza al fascismo senza una lotta contro il sistema capitalista che lo genera. I lavoratori non possono scegliere tra fascismo e democrazia: lungi dall’essere opposti, l’uno scaturisce dall’altra.
Unità nazionale o lotta di classe
Già nel 1924, nel nostro Rapporto sul fascismo, scrivevamo: «Da un punto di vista sociale il fascismo non rappresenta un grande cambiamento; non rappresenta la negazione storica dei vecchi metodi di governo borghesi, ma semplicemente la continuazione completamente logica e dialettica della fase precedente del cosiddetto governo borghese democratico e liberale».
La democrazia ricorrerà a metodi fascisti, e persino metterà i fascisti al potere, a seconda delle esigenze dell’epoca. Viceversa, il fascismo utilizzerà slogan democratici come “la volontà del popolo” e strumenti democratici come i plebisciti.
C’è persino una parola tedesca, emersa per la prima volta durante la Prima guerra mondiale, che esprime perfettamente questo concetto: nella Volksgemeinschaft è radicata l’idea di unire tutto il popolo al di sopra delle divisioni di classe per raggiungere uno scopo nazionale.
L’unico modo per combattere il fascismo e il militarismo è la lotta di classe.
Finché settori chiave della classe operaia come i macchinisti (molti dei
quali sono di origine “non ariana”!) saranno pronti e in grado di alzarsi e
combattere, sarà impossibile per la borghesia dividere la classe operaia e
governarla a piacimento, o perseguire obiettivi imperialisti con mezzi militari.
Spetta alla classe operaia combattere non solo il fascismo, ma il capitalismo
stesso, in Germania e in tutti i paesi!
Il recente movimento degli agricoltori in alcuni paesi europei è stato chiamato la “rivolta dei trattori”, che hanno sfilato sulle strade cercando di rallentare o bloccare la circolazione.
Le proteste, che hanno interessato Spagna, Germania, Francia, Olanda, Polonia, Italia, Romania e Grecia, in generale si oppongono alle politiche europee in materia d’agricoltura. La stampa italiana riporta alcune delle loro richieste. Intendono ostacolare «in particolare “l’ecologia punitiva” del nuovo Green Deal, vista come eccessivamente severa nei confronti del mondo agricolo», poiché prevede una diminuzione dell’uso dei pesticidi. Inoltre le proteste vogliono contrastare «le misure ecologiste nazionali, come il piano per la riduzione dell’azoto prodotto dagli allevamenti in Olanda (…) o le tasse sui carburanti più inquinanti in Germania e Francia. Sono anche contro la Politica Agricola Comune (PAC), che prevede l’obbligo di destinare almeno il 4% dei terreni coltivabili a funzioni non produttive, di effettuare rotazioni delle colture e di ridurre l’uso di fertilizzanti di almeno il 20%».
Le proteste si pongono inoltre contro l’importazione di prodotti a basso costo, come il grano ucraino, esente da tasse e dazi, o la soia dal Brasile (il più grande consumatore di pesticidi al mondo) dal quale arriva l’83% della soia utilizzata negli allevamenti in Italia.
A questo si aggiunge la protesta contro i bassi prezzi pagati ai produttori dalla grande distribuzione. La stampa riporta che gli allevatori ricevono 55 centesimi per un litro di latte, venduto al dettaglio a circa 2 euro, e 25 euro per quintale di grano tenero da cui si ottengono 84 kg di pane, posto sul mercato a un prezzo di circa 350 euro.
IrpiMedia, un periodico di “giornalismo d’inchiesta”, evidenzia come i fondi pubblici sono destinati al grosso capitale. FarmSubsidy.org, sito che raccoglie i dati sui beneficiari dei fondi PAC nei 27 Stati membri dell’Unione europea (più il Regno Unito), scrive: «Negli ultimi otto anni, l’1% delle aziende agricole europee ha incassato 150 miliardi di euro in fondi messi a disposizione dalla (PAC)», cioè un terzo dell’intera torta dei finanziamenti. Nel periodo dal 2014 al 2021 «tra i maggiori beneficiari comparivano rampolli della famiglia reale inglese ed ereditieri di famiglie nobili europee (…) Oggi si leggono anche nomi di grandi gruppi agroindustriali, aziende chimiche ed energetiche, enti pubblici e religiosi».
La PAC fu varata per la prima volta nel 1962, e anche se il suo peso è andato diminuendo nel corso degli anni, risulta ancora la voce maggiore dell’intero bilancio dell’Unione Europea. «Nel periodo 2014-2020 la dotazione era di 408 miliardi di euro, mentre in quello attuale, 2021-2027, l’ammontare è sceso a 378 miliardi, che valgono comunque più del 30% del budget complessivo dell’Unione».
Scopo della politica agricola comunitaria è il sostegno dei redditi degli agricoltori: «La PAC interviene con integrazioni al reddito degli agricoltori (i cosiddetti “pagamenti diretti”), con misure di tutela del mercato e stanziamenti per lo sviluppo rurale. Il 94% delle risorse stanziate nel 2019 sono andate ad aiutare direttamente gli agricoltori. Inoltre, la maggior parte dei pagamenti sono stati di piccola entità (inferiori a cinquemila euro), mentre solo l’1,93% dei beneficiari ha ricevuto più di 50 mila euro (…) La PAC ha avuto un ruolo importante perché i redditi dei settori extra-agricoli sono molto più alti di quelli agricoli, lo dicono i dati UE: extra agricoli 29 mila euro per lavoratore, agricoli 18 mila euro. Sarebbero stati 14 mila senza la PAC. L’integrazione al reddito ha favorito la permanenza degli imprenditori e dei lavoratori in agricoltura (…) Negli ultimi dieci anni, le aziende familiari e individuali in Italia sono le uniche ad essere drasticamente diminuite».
Ma sono i grossi capitali con le loro multinazionali a beneficiare dei soldi pubblici, l’articolo di IrpiMedia prosegue: «Le multinazionali alimentari Südzucker AG e FrieslandCampina, per esempio, ricevono decine di milioni di euro in sussidi PAC in tutta l’UE mentre, in Germania, tra i beneficiari dei fondi ci sono anche grandi aziende chimiche come BASF e Bayer, il gigante dell’energia RWE o le holding di alcuni dei tedeschi più ricchi, come la fondazione degli eredi della catena di discount ALDI. In Austria, una buona parte dei sussidi va alla Chiesa cattolica e agli aristocratici che hanno ereditato grandi possedimenti terrieri (…) In Polonia a ricevere la maggior parte dei sussidi sono istituzioni statali e locali. E, anche in questo caso, la Chiesa cattolica: 2.600 parrocchie hanno ricevuto un totale di oltre 160 milioni di euro nel corso degli ultimi anni. Tra i beneficiari, anche monasteri, fattorie appartenenti alle arcidiocesi e uno dei più importanti vescovi del Paese (…) In Grecia, infine, nell’ultimo decennio sono emersi gravi problemi sistemici relativi ai criteri di distribuzione dei sussidi agricoli. Infatti, i principali beneficiari nella stragrande maggioranza dei casi sono stati istituzioni pubbliche, enti di diritto privato e talvolta aziende, ma raramente agricoltori. Anche il primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis ha ricevuto sovvenzioni per terreni che, a Creta, sono storicamente proprietà della sua famiglia».
Insomma in Europa solo: «il 20% dei beneficiari PAC ottiene l’80% del sostegno (…) Per quanto riguarda l’Italia, nel 2021, il 20% dei beneficiari ha ricevuto il 77% dei pagamenti diretti».
Quindi solo le briciole restano per i piccoli agricoltori, sempre più spinti nella proletarizzazione. Queste sono le “leggi di mercato” del modo di produzione capitalistico, che gli stessi piccoli contadini difendono, anche se vorrebbero riceverne i vantaggi, come contributi a fondo perduto, defiscalizzazione, carburante a basso costo ecc. Questi benefici sono appannaggio quasi esclusivo delle grandi aziende agricole, che ne traggono un ulteriore vantaggio competitivo, che si aggiunge alle economie di scala di lavorare su grandi estensioni di terreno, e hanno gioco facile nello schiacciare i piccoli proprietari agricoli.
L’attuale compagine governativa italica ha voluto dare un contentino agli agricoltori, in vista delle scadenze elettorali prossime. Nell’ultimo decreto Milleproroghe, così riferisce “Il Punto Coldiretti” del 23 febbraio, il settimanale della Coldiretti (che rappresenta più di un milione di agricoltori, con aziende agricole mediamente piccole, cioè di 11,1 ettari, rispetto alla Spagna con 26,1, la Germania 62,1 e la Francia 68,7): «Sono 387.000 le aziende agricole italiane che beneficeranno dell’esonero totale dell’Irpef, il 90% di quelle soggette al pagamento dell’imposta sui redditi dominicali e agrari. Sul resto della platea l’esenzione verrà calcolata in forma progressiva e riguarderà il totale delle 430.000 imprese agricole professionali e coltivatori diretti».
Questo decreto prevede anche la proroga per il termine della revisione delle macchine agricole immatricolate prima del 1984 e la proroga al 30 giugno 2024 per l’obbligo di assicurazione RCA sulle macchine agricole che non circolano sul suolo pubblico (si stimano 2 milioni i mezzi presenti in Italia). È incrementato inoltre di 4 milioni di euro il fondo triennale (2022-2024) della pesca e dell’acquacoltura.
La Coldiretti si scaglia anche contro «l’obbligo di destinare almeno il 4% dei terreni coltivabili a funzioni non produttive» previsto dalla PAC, affermando che in cinquant’anni in Italia i terreni coltivati si sono ridotti oggi a 12,8 milioni di ettari, ovvero un terreno su tre è divenuto incolto. Sono le dure leggi del modo di produzione che stridono contro la sopravvivenza delle specie viventi.
L’Europa, nel frattempo, ha fatto un passo indietro rispetto all’attuazione di quanto prevedeva la PAC: «La Commissione europea ha fatto una serie di concessioni nel tentativo di allentare la tensione (...) e ha accantonato il progetto di tagliare l’uso dei pesticidi. A gennaio, inoltre, Bruxelles aveva annunciato un “freno d’emergenza” all’importazione di alcuni prodotti ucraini e rinviato l’introduzione dell’obbligatorietà del maggese. La Commissione ha anche fatto concessioni sul taglio delle emissioni di gas serra diversi dalla CO2».
Altri governi oltre a quello italico hanno fatto alcune concessioni agli agricoltori: «Berlino ha ridimensionato i piani sul taglio dei sussidi per il gasolio (…) Parigi ha cancellato un aumento della tassa sul carburante e ha promesso 400 milioni di euro di aiuti e 200 milioni di finanziamenti», scrive la rivista “Internazionale” del 16 febbraio. Il prossimo baraccone elettorale europeo deve aver favorito queste misure a favore degli agricoltori, che contano sempre un numero considerevole di elettori.
Tutto questo sempre e solo sulla pelle dei proletari, come sono i braccianti che ricevono un salario da miseria, quando vengono pagati, quando non muoiono bruciati dal sole e dalla fatica!
La concentrazione del capitale, come prevedono le dure leggi del mercato, ha fatto sì che in Italia le aziende agricole, segnala l’Istat, negli ultimi 40 anni, siano passate da 3 milioni a 1 milione di unità. Due milioni di famiglie di piccoli agricoltori hanno abbandonato o ceduto ad aziende più grandi i loro terreni e impianti. Se da un lato la meccanizzazione dei processi produttivi aumenta la produttività e riduce in modo sensibile la forza lavoro alla produzione, dall’altra aumenta la percentuale dei salariati rispetto ai familiari occupati interamente o quasi nella propria azienda.
Sempre in Italia, nel giro di un decennio si è registrato un crollo del 30% della forza lavoro occupata, scrive il Manifesto del 10 febbraio, mentre al tempo stesso abbiamo avuto il raddoppio dei lavoratori salariati, dal 25% a quasi il 50% del totale degli addetti all’agricoltura. Nei paesi a maggior concentrazione del capitale agricolo si registra anche un forte aumento dei salariati occupati nel settore.
Questo, se ce ne fosse ancora il bisogno, non è altro che la conferma di quanto da noi da sempre affermato, ovvero che le mezze classi, la piccola borghesia bottegaia e il contadiname, inesorabilmente schiacciati dal grande capitale, tendono con il tempo a trasformarsi in proletari. A tale proposito avevamo scritto sul nostro giornale n.333 del 2009: «Il fallimento generale del capitalismo mondiale avrà conseguenze sconvolgenti su tutte le classi sociali, per prima sulla piccola borghesia, produttrice o rentier, piccolo industriale, artigiana e contadina, e sulle aristocrazie del lavoro; su questi fragili quanto vasti strati la crisi si abbatterà come tempesta e vi provocherà panico e reazioni scomposte».
Occorre ricordare che già nel 2012 in Italia si ebbe un’altra protesta del settore, che venne chiamata “Movimento dei Forconi”. Le richieste vertevano su la defiscalizzazione dei carburanti, la diminuzione del costo dell’energia, il congelamento delle procedure di riscossione dei tributi e la destinazione di alcuni fondi europei al settore agricolo. Tutte misure invocate per ritardare l’inesorabile processo storico che vede la proletarizzazione delle mezze classi, comprese quelle rurali.
Noi comunisti siamo al fianco di tutti i proletari sfruttati del mondo e siamo per l’abbattimento violento di questo infame e disumano modo di produzione, che fra tanti altri disastri devasta la biosfera con l’intenso sfruttamento delle colture, l’uso massiccio di pesticidi e fertilizzanti che, impiegati irrazionalmente, isteriliscono la terra, inquinano e distruggono al solo fine di vedere aumentati i profitti. Certamente non siamo schierati con questi strati intermedi piccolo borghesi, i quali non esprimono la lotta fra una classe e l’altra, ma cercano invano di difendere i propri interessi di piccoli capitalisti contro i grandi.
Sarà solo la dura lotta di classe del proletariato industriale e agricolo
unito, e la conseguente rivoluzione comunista guidata dal suo Partito, che potrà
permettere di abbattere il modo di produzione capitalistico e realizzare la
società comunistica che vede al centro l’umanità intera finalmente libera dal
mercantilismo.
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La società di classe ha assolto storicamente alla funzione di sviluppare la dotazione di forze produttive della specie umana. Oggi il persistere anacronistico delle classi sociali e delle categorie mercantili intrinseche al mondo borghese determina ogni aspetto della vita umana. Quel rapporto fra esseri umani che va sotto il nome di capitalismo porta dentro di sé le sedimentazioni del divenire delle società di classe attraverso la successione dei diversi modi di produzione e riproduce incessantemente il Behemoth del patriarcato che incatena la donna al ruolo di mero strumento della produzione materiale e della riproduzione della specie, non per la vita della specie stessa, ma per dare vita al capitale.
La donna attraverso decine di secoli ha subito una crescente deformazione del suo essere sociale rispetto quale esso era nell’ambiente delle comunità primitive, in cui ancora non esisteva quella frattura che l’ha imprigionata, attraverso condizionamenti sempre più stringenti, a un ruolo di avvilente subalternità.
La donna, a partire dal neolitico, con lo stabilirsi delle prime società agricole, ha subito la progressiva amputazione del carattere multilaterale della sua esistenza e ha incanalato ogni aspetto della sua vita nell’ambito angusto delle attività legate alla cura della famiglia e della prole.
Quando gli ingranaggi della macchina capitalista hanno iniziato a girare, la donna, che era già stata ricostruita a immagine dell’ideologia patriarcale, è stata anch’essa ridotta dalla borghesia alla condizione di proletaria, cioè di forza lavoro generica per fronteggiare la crescente richiesta di capitale variabile, braccia atte alla produzione. Questa condizione di proletaria ha permesso alla donna, a caro prezzo, di uscire dall’ambito familiare per trasformarsi in appendice della macchina.
La formazione degli eserciti femminili di forza lavoro per l’industria del capitale è avvenuto storicamente nelle forme più atroci e ancora oggi vede centinaia di milioni di donne incatenate alla produzione di merci nelle sordide galere del lavoro salariato, dalle quali escono sfinite dalla loro giornata di lavoro per dovere fronteggiare i compiti tradizionali che anche la società borghese assegna loro quali quelli della cura della casa e della prole.
Non inganni le proletarie il fatto che in alcune parti del mondo una parte delle donne abbiano visto un temporaneo miglioramento delle proprie condizioni e abbiano potuto mettere il naso fuori dal “nido” domestico. Tutto quello che le donne proletarie hanno ottenuto, attraverso lotte che soltanto in particolari momenti storici le hanno viste schierate contro entrambi i lati della loro oppressione, che è a un tempo di classe e di genere, nella società borghese continuerà a essere una conquista precaria che non le metterà al riparo dalle minacce di un futuro quanto mai incerto.
Le donne proletarie di ogni paese, oggi come sempre nella storia plurisecolare del capitalismo, devono fare fronte alla miseria, allo sfruttamento, a ritmi di lavoro frenetici, alla disoccupazione. Quante di loro vengono costrette dalla disoccupazione e dalla miseria alla degradante pratica della prostituzione che le priva, in cambio di pochi denari, dell’intimità col proprio corpo e a vedere svanire i sogni di amore fra esseri reciprocamente desideranti. Una possibilità che viene negata anche dal matrimonio che spesso si manifesta come una forma appena più ingentilita di prostituzione.
La nostra condanna dell’oppressione della donna in tutte le sue forme trova il suo apice di fronte alla prostituzione. Come non crediamo nella possibilità di superare la prostituzione con metodi esclusivamente coercitivi. In una società collettivista, non di classe e non mercantile, diverrà semplicemente impossibile. La prostituzione si estinguerà come accadrà all’economia mercantile, alle classi sociali e allo Stato politico.
Fondamentale quando si tratta dell’oppressione femminile la funzione della donna nella riproduzione della specie e del suo ruolo nella cura dei figli e della casa. Le tradizioni sedimentate storicamente attraverso la millenaria vicenda storica del patriarcato fanno sì che la gravidanza e la cura dei neonati siano considerate nella maggior parte delle culture come “cose da donne”. La donna lavoratrice soltanto di rado ha la possibilità di restare a riposo a ridosso del parto per un per un periodo di tempo sufficiente per recuperare le forze e accudire in maniera adeguata ai figli nei primi mesi di vita. Per molte donne, nella maggior parte dei casi, la gravidanza viene considerata come una malattia, così come da molti padroni è considerata una colpa che si riflette sulla produttività aziendale. In tali condizioni i sentimenti per le donne sono di enorme ambivalenza dato che si trovano dilaniate fra i propri bisogni di maternità e i condizionamenti sociali che alternano il richiamo al “dovere di dare figli alla patria”, e un senso di colpa per il fatto di venir meno al proprio impegno lavorativo. Dal punto di vista dell’ideologia dominante è come se le donne, pure considerate come “fabbriche d’uomini”, non lavorassero abbastanza nelle fabbriche per produrre merci di ogni genere.
Anche sul lavoro domestico il peso che grava sulle donne è allo stesso tempo fisico e psicologico. La donna proletaria una volta che ha venduto la propria forza lavoro per massacrarsi di fatica nelle galere del lavoro salariato, dovrà conservare una parte delle energie per fare fronte alle esigenze della famiglia, che prevedono la spesa, la preparazione dei pranzi e le pulizie domestiche. Tali fatiche non sono remunerate, anche se richiedono tempo e zelo.
Nessuno nella società di classe e patriarcale ammetterà che le energie elargite dalle donne sono essenziali alla produzione e riproduzione della specie, la linfa vitale della società umana.
La strada per superare l’oppressione domestica delle donne è stata già delineata in pieno Ottocento dai fondatori del socialismo scientifico: trasformare il lavoro domestico in un servizio pubblico.
Ma la catena, intrecciata di miseria, sudiciume e solitudine cui è condannata la donna, trova la sua massima espressione nel divampare delle guerre borghesi, che in parecchie parti del mondo sono già una tragica realtà. La guerra moderna uccide le donne nelle fabbriche e nelle case, dilania i corpi dei loro figli sotto le bombe, la mitraglia ed il cannone, che mai un giorno tacciono in tutto il pianeta, rinunciando solo per brevi interludi a sopprimere vite umane in gran numero.
In molte parti del mondo milioni di donne, sospinte dalla miseria e dalle guerre, si ammassano alle frontiere e sulle rotte di migrazioni infernali, portando con sé i figli e quel poco del loro che non ha distrutto la ferocia borghese. La borghesia, peggio di una catastrofe naturale, dilania intere regioni nelle sue guerre, anticipo del conflitto generale del capitale che avvolgerà l’intero pianeta in un mortale sudario.
Per molte delle proletarie sfuggite ai massacri e alla miseria si apre la prospettiva di sradicate dal proprio ambiente e di lavorare in un paese straniero nelle peggiori condizioni, soggette all’emarginazione, alla solitudine e all’esclusione. Le terre verso cui fuggono con la speranza di una vita migliore, o costrette per sopravvivere, offrono discriminazioni e salari più bassi per le donne immigrate.
Profughe e straniere in terre sconosciute sono condannate a partorire e crescere i figli in un nuovo inospitale paese: dopo essere state costrette a sopportare la vecchia dominazione di classe e di genere nei paesi d’origine, si trovano di nuovo a fare i conti con le minacce e le violenze del potere e della società borghese.
Le proletarie si trovano sole a lottare contro i traumi, lo stress e le malattie indotte dalla malnutrizione, da cibi scadenti e da condizioni igieniche precarie. Lo scarso salario guadagnato col duro lavoro è spesso appena sufficiente per sopravvivere in condizioni pietose, con ogni piacere e desiderio negato e sogni infranti, condannate a un’esistenza senza speranze. Nel caos malsano e distruttivo del capitalismo non potranno mai godere di aria pulita, acqua pulita, cibo sano e di un rifugio sicuro. Né spesso potranno vivere liberamente i loro affetti. In questo stato di cose appare in tutta la sua impotenza l’inganno riformista, progressista e socialdemocratico, la predicazione dei circoli femministi borghesi e dei sindacati di regime, chiacchiere che non soddisfano le più essenziali necessità umane.
In questo mondo in cui si produce solo per valorizzare i capitali si schiacciano i sogni e i bisogni e dove sempre scarso è quanto resta a disposizione dei proletari. Per soddisfare i bisogni umani bisogna sottrarre i mezzi di produzione al loro utilizzo ai fini del profitto, cioè alle borghesia. Essa dispone di tutti i mezzi di lavoro che sono orientati nella follia di una produzione finalizzata alla produzione stessa.
Gli Stati borghesi, oltre e costringere le donne a lavorare, strappano loro i figli, per farne gli operai e i soldati di domani, a riempire i vuoti lasciati dai lavoratori sfiniti e dai morti nelle guerre. Esposte allo sfruttamento, alla propaganda nazionalista, le donne, sotto la morsa del patriarcato, vengono spinte così a un doppio martirio.
Le donne proletarie devono riprendere in mano il loro destino. Fra di loro, oltre che insieme ai lavoratori maschi, devono trovare il modo di discutere delle loro condizioni e darsi il coraggio per cercare soluzioni ai loro problemi. Solo lotte sincere, in un clima di fraterno sostegno reciproco, possono fare maturare relazioni basate sulla fiducia e sulla solidarietà. Le lavoratrici in lotta davvero non saranno sole!
La solitudine della donna anche nelle più moderne delle società si capovolge nella loro degradante rappresentazione commerciale. Nella realtà della crisi economica e della mancanza di lotta di classe, un’incessante raffica di stimoli le intorpidisce e illude. Nel falso desiderio di merci reclamizzate, molte imitano lo stile di vita dei privilegiati e si massacrano di lavoro per dimenticare la loro miseria nell’inseguire quei falsi miti mercantili.
Per le lavoratrici, l’unico modo per difendersi è lottare per migliori salari, orari più brevi e ritmi meno frenetici. L’educazione alle lotte sindacali progressivamente sostituirà nelle menti quei falsi bisogni e quel ciarpame con l’aspirazione a soddisfare gli autentici bisogni umani, al di sopra del rumore costante della società borghese, che distrae le donne dalla coscienza delle loro grandi potenzialità di felicità e di vita.
Per secoli le donne si sono ritirate nelle loro stanzette, soffrendo in silenzio in case che spesso non erano che squallidi abituri. Hanno cercato una consolazione nel sostegno e nella commiserazione di altre donne con cui condividevano la stessa condizione, senza poter risolvere la loro dura condizione.
Come arriveranno le donne alla loro emancipazione?
Le operaie troveranno una prima base nella lotta e nella organizzazione sindacale, che resiste, collettivamente, allo sfruttamento capitalista e, assieme ad altre donne, alla sottomissione patriarcale.
Nei sindacati di classe le donne susciteranno l’attenzione sulle questioni femminili. Dei lavoratori maschi attireranno mogli e figlie nella lotta per far superare a mariti e padri gli atteggiamenti maschilisti e patriarcali. Dobbiamo dire ai proletari maschi che niente guadagnano dalla conservazione del cadavere del patriarcato, se non avvelenare le loro relazioni con mogli, sorelle, amiche e figlie.
Unendo i lavoratori del mondo in fronti sindacali di classe, le donne troveranno finalmente la condizione propizia per combattere la loro battaglia anche contro il patriarcato. È in questa lotta che maschi e femmine del proletariato potranno marciare uniti. La vittoria della rivoluzione e la sua conservazione dipendono da questa comunità di battaglia.
Una parte delle proletarie troverà anche la spiegazione delle cause storiche della servitù delle donne, e la strada per il loro riscatto sociale nel partito comunista e nella prospettiva della distruzione del capitalismo, e con esso del patriarcato.
Perché il metodo marxista del partito spiega come la eliminazione delle classi porrà fine all’oppressione di genere, chiudendo la lunga era della preistoria umana. Non possiamo abbattere un mostro antico come la sottomissione delle donne senza una guerra a tutto il mondo della borghesia e del capitale. Solo il comunismo sradicherà i semi che il patriarcato ha piantato nei nostri cervelli.
Sulla strada del comunismo, i compagni di ogni genere e orientamento sessuale marceranno fianco a fianco e insieme attaccheranno il comune nemico.
Mentre il capitalismo minaccia l’intera la vita sulla Terra, spetta alla maggioranza dell’umanità fermare il massacro creato dalla tirannide a due volti del capitale e del patriarcato. Il Partito Comunista Internazionale è l’unica formazione politica che conserva la teoria comunista sedimentata dalle lotte storiche e filtrata alla luce della teoria marxista.
Esso soltanto è in grado di proporre al proletariato gli indirizzi pratici
corretti ed efficaci per sviluppare la lotta di classe volta all’annientamento
dello sfruttamento. Di questa è parte la lotta contro ogni oppressione: contro
il patriarcato, quella su base della razza o l’orientamento sessuale e contro
tutto un retaggio ormai odioso del millenario percorso umano.
Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale |
Negli ultimi mesi si sono riscontrati alcuni segnali positivi sul piano della combattività dei lavoratori. Ciò si è verificato nel quadro di vertenze nazionali di categoria o aziendali. Le lotte di cui qui di seguito brevemente riferiamo hanno avuto tutte alcuni elementi in comune: 1) una buona partecipazione agli scioperi; 2) sono avvenute organizzandosi i lavoratori fuori e contro i sindacati di regime, o nei sindacati di base o in assemblee autoconvocate sostenute dai sindacati di base; 3) sono state promosse o sostenute dai sindacati di base in modo unitario.
È presto per dire se si tratti di una inversione di tendenza, in cui si assista finalmente a un ritorno alla lotta, più o meno rapido, della classe lavoratrice in Italia, al pari di quanto sta accadendo in diversi altri paesi, come negli Stati Uniti, in Francia, nel Regno Unito. Ma questi parziali successi dell’azione sindacale potrebbero essere sintomo del fatto che il peggioramento delle condizioni materiali di vita – un dato oggettivo e certo – inizia, come previsto dal marxismo, a determinare i lavoratori all’azione collettiva.
Lo sciopero del 24 gennaio degli autoferrotranvieri
Come riferito nello scorso numero, negli ultimi mesi i sindacati di base presenti negli autoferrotranvieri hanno proclamato tre scioperi nazionali in modo unitario. Per due volte il ministro dei trasporti e delle infrastrutture è intervenuto precettando i lavoratori, riducendo lo sciopero da 24 a sole 4 ore. Questo intervento del ministro è possibile in ragione della legge anti-sciopero 146 del 1990, voluta da Cgil Cisl e Uil e votata da DC, PSI e PCI.
Il TAR del Lazio, su ricorso dei sindacati di base, ha poi sentenziato il 28 marzo che il Ministro ha fatto ricorso a questa facoltà in modo improprio. Ma il problema di una legge che vieta di scioperare in modo adeguato rimane.
Il primo sciopero precettato è stato quello del 27 novembre. I sindacati di base hanno reagito spostandolo al 15 dicembre. Nuovamente il ministro è intervenuto con la precettazione. Questa volta i sindacati di base hanno deciso di mantenere lo sciopero, ridotto a 4 ore, ma si sono divisi su come reagire alla precettazione. Lo sciopero è andato male (“Precettazioni e leggi antisciopero”).
Il terzo sciopero unitario è stato proclamato dai sindacati di base per il 24 gennaio. Questa volta non vi è stata precettazione sicché è stato di 24 ore, il massimo consentito dalla legge 146/1990. Pochi giorni prima il Coordinamento Lavoratori Autoconvocati (CLA) ha redatto un comunicato in sostegno dello sciopero e che svolgeva alcune considerazioni sulle precettazioni, le leggi anti-sciopero e come il sindacalismo di base dovrebbe reagire (“Scioperi degli autoferrotranvieri: un contributo alla discussione su come opporsi a precettazioni e leggi antisciopero”).
Lo sciopero è andato molto bene, sia relativamente alle precedenti analoghe mobilitazioni nella categoria del sindacalismo di base, da molti anni a questa parte, sia in termini assoluti. A Roma e a Milano l’adesione è stata fra il 60% e il 70%, il che è sufficiente a implicare il blocco quasi totale del servizio.
Il diverso andamento degli scioperi del 15 dicembre e del 24 gennaio mostra come i tranvieri considerino inutile lo sciopero di 4 ore e siano invece disponibili a lottare se l’azione dispiegata è più radicale. Inoltre è sintomatico della cresciuta insofferenza per le condizioni di lavoro. A Roma e a Milano le aziende di trasporto pubblico locale (TPL) hanno sempre maggiori difficoltà a reperire lavoratori e non sono più rari i casi di tranvieri che si licenziano. Quello che è sempre stato un lavoro duro ma un tempo ambito perché ben retribuito, sta perdendo questo richiamo per i lavoratori.
Dopo lo sciopero sono stati pubblicati dai sindacati di base tre comunicati separati – uno di ADL Cobas, Cobas LP, Cub e Sgb, uno dell’AL Cobas, uno dell’Usb – segno che l’unità d’azione è ancora fragile. Eppure è evidente quanto sia necessaria, e come anzi dovrebbe essere consolidata, con la definizione di una piattaforma contrattuale unitaria, al pari di quanto fatto da Cub, Sgb e Usb nei ferrovieri.
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Venerdì 22 e sabato 23 marzo si sono svolti due scioperi locali dei tranvieri con una altissima adesione, proclamati da due diversi sindacati di base.
Il primo alla ATM di Milano, di grande importanza trattandosi della prima azienda di trasporto pubblico locale in Italia per numero di dipendenti, praticamente al pari dell’ATAC di Roma. Lo sciopero proclamato dall’AL Cobas, ha avuto un’adesione media in superficie del 60% nel turno mattutino, ancora più alta nel turno serale e ha portato alla totale chiusura di 4 linee della metropolitana su 5.
Il secondo sciopero si è svolto in Umbria e ha visto un’adesione molto alta a Terni e a Perugia. Lo ha promosso l’Usb. A Perugia nel turno del mattino nelle rimesse non c’erano più posti per parcheggiare gli autobus degli scioperanti. Nel turno del pomeriggio hanno aderito anche diversi giovani neoassunti.
Gli scioperi del 12 febbraio e del 23-24 marzo dei ferrovieri
Incoraggianti anche le ultime mobilitazioni organizzate fra i ferrovieri. Nello scorso numero abbiamo riferito dello sciopero a seguito dell’incidente di Thurio, riuscitissimo, come non si vedeva da molti anni (“I ferrovieri dopo l’incidente di Thurio”).
Anche in questo caso un fattore del successo è l’essere stato percepito come un’azione di una robustezza adeguata: non una fermata di 4 ore, infatti, e nemmeno di 8, bensì di 35. Inoltre è stato proclamato con solo 24 ore di preavviso, immediatamente dopo l’incidente. Ciò in virtù dell’unica scappatoia che la legge capestro dello sciopero consente al limite di 10 giorni di preavviso: quando si tratti di uno sciopero convocato a seguito di un grave evento legato alla sicurezza sul lavoro.
L’effetto positivo della durata dello sciopero e della sua pronta proclamazione ed esecuzione sono una conferma che quanto più si tratta di uno sciopero vero, libero dai vincoli imposti da padronato e sindacati di regime, tanto più è sentito come un’arma utile e da impiegare.
Fra i macchinisti e i capitreno – Personale di macchina (PdM) e Personale di bordo (PdB) – da alcuni mesi si è costituita una Assemblea Nazionale PdM-PdB. Da tre anni si è invece formato il Coordinamento Macchinisti Cargo (CMC), cioè dei treni merci. L’Assemblea dei PdM-PdB, il CMC, e i sindacati di base Cub, Sgb e Usb, hanno definito una piattaforma contrattuale il cui nucleo centrale riguarda la riduzione dell’orario di lavoro, l’aumento delle pause, una diversa organizzazione dei riposi fuori sede, il tutto finalizzato alla salute e alla sicurezza dei lavoratori. Oltre a ciò, vi sono le rivendicazioni salariali per un recupero reale dell’inflazione.
Il 12 gennaio è stato proclamato dall’Assemblea e dai sindacati di base (a esclusione del CAT) il primo sciopero per la vertenza del rinnovo contrattuale, che per la legge antisciopero (146/1990) non può superare le 8 ore. Nonostante in questo caso lo sciopero non fosse sostenuto dalla reazione emotiva a seguito di un fatto grave come l’incidente mortale di Thurio, l’adesione è stata la maggiore registrata da anni nelle analoghe mobilitazione promosse dal sindacalismo di base nei ferrovieri, con una percentuale di treni regionali bloccati compresa fra il 50% e 75%. Un successo e un segno di rafforzamento del sindacalismo conflittuale fra i ferrovieri.
Un secondo sciopero nazionale è stato indetto dall’Assemblea PdM-PdB e dai sindacati di base, per il 23 marzo, questa volta di 24 ore. In preparazione dello sciopero si è svolta, on-line, un’assemblea nazionale, la mattina del 29 febbraio, cui hanno partecipato circa 130 lavoratori. Lo sciopero questa volta ha visto associato il CAT, anche se questo sindacato di base non partecipa alle assemblee unitarie dell’Assemblea PdM PdB e di Cub, Sgb e Usb.
Lo sciopero si è svolto dalle 21 di sabato 23 alle 21 di domenica 24 marzo. Assemblea e sindacati di base hanno deciso di proclamare uno sciopero in un giorno feriale e uno la domenica, alternativamente. La domenica, giorno lavorativo per il personale viaggiante, offre il vantaggio di avere un numero minore di treni cosiddetti “garantiti”, ossia che i ferrovieri sono obbligati a far marciare.
Lo sciopero è andato ancora meglio di quello già riuscito del 12 febbraio. È aumentata la percentuale dei treni regionali cancellati e finalmente sono stati bloccati anche molti intercity e l’alta velocità. Numeri di adesione “straordinari”, ha affermato il comunicato unitario di fine sciopero di Cub, Sgb e Usb; “uno sciopero storico”, secondo il comunicato dell’Assemblea nazionale PdM-PdB.
Si tratta quindi del terzo sciopero consecutivo in quattro mesi, proclamato in modo unitario dai sindacati di base e dall’assemblea, ad avere adesioni come non si registravano da molti anni. Ciò che sembra iniziare a non poter essere definito un fatto incidentale.
La promettente mobilitazione degli operai delle manutenzioni ferroviarie (RFI)
Un positiva novità ha segnato gli ultimi tempi della vita sindacale del settore delle ferrovie: da gennaio sono entrati in agitazione i lavoratori di RFI, l’azienda di Stato che esegue la manutenzione della infrastruttura. Nelle ferrovie, protagonisti delle lotte sindacali, almeno negli ultimi decenni, erano sempre stati, fra alti e bassi, i macchinisti e il personale viaggiante. Questo dimostra che anche settori della classe operaia che finora apparivano poco propensi o estranei alla lotta, quando assistono al peggioramento delle loro condizioni riscoprono la conflittualità sfatando il pregiudizio che li vuole “pacificati”. La lotta di classe è un fatto materiale e non ideologico, così come lo è anche il suo rovescio, cioè il metodo della collaborazione sindacale, anche detto concertazione.
RFI conta in tutto 32.000 dipendenti, di cui circa 22.000 operai. La ragione che ha provocato la loro recente mobilitazione è un accordo firmato il 10 gennaio scorso dai sindacati di regime (Filt-Cgil, Fit-Cisl, Uiltrasporti, Ugl) e da quelli autonomi (Fast e Orsa), senza svolgere alcuna preliminare assemblea, il quale comporta un peggioramento sostanziale delle condizioni di lavoro: abolisce tutti i limiti finora vigenti sul ricorso ai turni di notte, al sabato e alla domenica. Sino a oggi l’orario di lavoro era organizzato sul singolo turno diurno dalle 8 alle 16, dal lunedì al venerdì; il ricorso al turno notturno era consentito in modo limitato e soltanto dal lunedì al giovedì. Questi operai si sono ribellati contro questa intensificazione del loro sfruttamento, che comporterebbe serie ripercussioni sulla loro salute e sicurezza.
Questo peggioramento dei ritmi di lavoro avviene dopo il tragico incidente di Brandizzo (Torino) nel quale, la notte del 30 agosto, 5 operai persero la vita. Questi non erano dipendenti di RFI, ma operavano per un ditta di manutenzione della rete.
Al pari di macchinisti e capitreno, anche gli operai di RFI si sono organizzati in una assemblea autoconvocata, denominatasi Assemblea Nazionale Lavoratori Manutenzione RFI (ANLM). Hanno aperto un gruppo Telegram di cui oggi fanno parte più di 3.000 lavoratori. Hanno già svolto 6 assemblee nazionali on-line con una partecipazione media fra i 200 e i 300 lavoratori.
Sono infuriati coi sindacati firmatari dell’accordo peggiorativo. Alla loro prima esperienza di lotta mostrano un sano entusiasmo, già prima di non avere maturato, nel loro complesso, la consapevolezza della necessità di costruire un nuovo sindacato di classe, fuori e contro i sindacati di regime e autonomi firmatari dell’accordo capestro del 10 gennaio. Tuttavia è probabile e auspicabile che, al di là dell’esito di questa battaglia, una parte di questi lavoratori aderisca ai sindacati di base che stanno sostenendo la lotta, oppure dia all’ANLM il carattere organizzativo di un sindacato.
Il 12 febbraio l’ANLM, insieme a Usb e Cobas, hanno proclamato il primo sciopero degli operai RFI, che è andato in tal modo a convergere e a unirsi a quello dei macchinisti e dei capitreno, in una mobilitazione che segna così una tappa assai significativa, diremmo addirittura storica per la lotta sindacale del settore ferroviario. L’adesione è stata ottima, intorno al 70%,
Sette giorni dopo, il 19 febbraio, l’ANLM ha proclamato un nuovo sciopero per il 13 marzo, con una manifestazione nazionale a Roma. Lo sciopero è andato meglio ancora di quello precedente, con un’adesione del 73%. Uno schiaffone ai sindacati firmatari e all’azienda. I dati di adesione sono precisi perché l’ANLM attraverso il suo canale Telegram ha ricevuto i dati dalle centinaia di Unità Manutentive distribuite sul territorio nazionale.
Anche la manifestazione è andata bene, con oltre 400 operai che, riunitisi a Termini, si sono mossi in corteo fino al palazzo delle Ferrovie dello Stato. Il clima era molto combattivo e i lavoratori, fra cui molti giovani, hanno letto volentieri sia il volantino del partito, qui di seguito riprodotto, sia quello del Coordinamento 20 ottobre, costituito da organismi del sindacalismo conflittuale e associazioni dei familiari delle vittime da stragi sul lavoro, di cui fanno parte i nostri compagni.
Una nuova assemblea nazionale è stata indetta per la settimana successiva, già con l’intenzione di proclamare un terzo sciopero, questa volta non più di 8 ma di 24 ore.
Lo sciopero a oltranza a Malpensa Cargo
Lo sciopero che ha espresso la maggiore combattività non è stato di categoria bensì in una singola azienda, la Milano Logistica Europa (Mle), che compie le operazioni di carico e scarico merci – il cosiddetto servizio handling – presso l’aeroporto di Malpensa, nella sua parte cargo, dedicata cioè al traffico merci e non a quello passeggeri.
Nel 2023 il sindacalismo di base ha proclamato 11 scioperi per il rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro del settore handling (assistenza passeggeri, bagagli, pista, carico scarico, merci) che impiega circa 10.000 lavoratori in Italia.
L’11 dicembre Filt-Cgil, Fit-Cisl, Uiltrasport e Ugl-Trasporto Aereo hanno firmato il nuovo contratto con l’associazione padronale Assohandler, aderente a Confetra. Il precedente era scaduto da ben 7 anni. Il rinnovo prevede 100 euro medi di aumento suddivisi in tre tranche e 500 euro di cosiddetta una tantum come arretrati per i 7 anni di ritardo nel rinnovo. I sindacati di base hanno calcolato che la cifra per gli arretrati avrebbe dovuto aggirarsi intorno ai 4.000 euro. Il salario medio di un “operatore unico aeroportuale” è di circa 1.200 euro. I salari bassi sono una delle ragioni per cui molti lavoratori, appena possono, abbandonano questo lavoro, che un tempo era ambito, come tutte le attività che si svolgevano in ambito aeroportuale.
Ma già nei giorni successivi i sindacati di base presenti agli aeroporti di Malpensa e Linate – Adl, Cub e Usb – hanno iniziato, insieme al sindacato autonomo Flai, trattative con due aziende di handling – la Alha Airport e la Wfs – al fine di ottenere contatti integrativi aziendali migliorativi rispetto al CCNL appena rinnovato, ottenendo degli accordi preliminari a fine dicembre che prevedevano: ricezione dei 100 euro di aumento del rinnovo del CCNL in un’unica tranche a partire dal 1° gennaio 2024; calcolo dell’aumento delle indennità sulla base del salario attuale e non di quello del 2016, come previsto dal rinnovo del CCNL firmato dai sindacati di regime. Ciò ha garantito in media un aumento aggiuntivo di 100 euro mensili rispetto a quello stabilito dal contratto nazionale firmato da Cgil Cisl e Uil.
Per l’8 gennaio Adl, Cub, Usb e Flai hanno proclamato uno sciopero a Malpensa e Linate per i lavoratori di tutte le altre aziende di handling: Airpot Handling, Aviapartner, Ags, Mle, Sea, Swissport. Ma ricevuta la convocazione da parte della prefettura di Varese a un incontro con le aziende, i sindacati di base e Flai hanno deciso di rinviarlo al 9 febbraio.
Il 26 gennaio è stato concluso nella sua forma definitiva il contatto aziendale integrativo con l’azienda Alha Airport. La conclusione di due accordi aziendali migliorativi del contratto nazionale ha comportato un riconoscimento formale dei sindacati di base. Per questo la Ahla Airport è stata espulsa dall’associazione padronale Assohandler.
Non avendo la trattativa in prefettura prodotto risultati, il 9 febbraio è iniziato lo sciopero per la singola giornata dei lavoratori di Airpot Handling, Aviapartner, Ags, Mle, Sea, Swissport. Ma a sera oltre 200 operai della Mle, di fronte al rifiuto dell’azienda a trattare, hanno deciso di proseguire lo sciopero a oltranza, in aperta violazione delle leggi antisciopero (146/1990 e 83/2000) per le quali l’astensione dal lavoro nei servizi considerati essenziali non può durare più di 24 ore.
I lavoratori delle altre aziende di handling non li hanno seguiti e hanno terminato lo sciopero come previsto, nei limiti di legge. Alla Mle lavorano in quasi 500. La maggior parte dei lavoratori che non hanno scioperato sono precari o somministrati, assunti cioè attraverso agenzie interinali, e pertanto estremamente ricattabili.
La Mle gestisce anche il magazzino di Amazon. Gli operai hanno stabilito due picchetti, uno dal terminal l’altro dal magazzino Amazon. L’intervento della polizia ha fatto desistere e ritirare il picchetto nel magazzino Amazon, mentre quello al terminal è continuato compatto per tutti i 5 giorni in cui è durato lo sciopero.
Al secondo giorno di sciopero l’azienda ha inviato contestazioni disciplinari a tutti i 200 operai e il giorno dopo i sindacati di regime hanno iniziato a suggerire ai lavoratori che se avessero interrotto lo sciopero l’azienda avrebbe ritirato le contestazioni. I lavoratori invece sono andati avanti, sostenuti unitariamente dai sindacati di base Adl, Cub e Usb e da quello autonomo Flai, fino a che il quinto giorno l’azienda è scesa a patti e ha proposto: un aumento del ticket mensa da 5 a 8 euro, la revoca di tutte le contestazioni e l’apertura di una trattativa. I lavoratori in assemblea hanno accettato all’unanimità l’accordo e hanno interrotto lo sciopero.
Nella Mle, fra i sindacati che hanno sostenuto lo sciopero, il primo per numero di iscritti è la Cub, cui segue la Flai, poi l’Usb e infine l’Adl. I sindacati di base inquadrano circa la metà dei lavoratori. Nonostante ciò, l’azienda si è rifiutata di convocare i sindacati di base nella trattativa avviata dopo lo sciopero, e si è confrontata solo con la Flai. È probabile che queste indicazioni siano imposte dalla associazione padronale di categoria Assohandler, che, espellendo l’azienda Alha Airport, ha messo in riga le altre.
Il 28 febbraio la Corte d’Appello di Milano ha confermato la condanna di Mle per attività antisindacale contro la Cub, nel quadro di uno sciopero nel 2021. Il giorno dopo è stato siglato un accordo in prefettura in cui l’azienda ha confermato di revocare le contestazioni e i sindacati di base e la Flai si sono impegnati per 90 giorni a non intraprendere azioni di sciopero, nel mentre si porteranno avanti le trattative. I lavoratori quindi non subiranno sanzioni ma ma potrebbero essere colpite invece le organizzazioni sindacali. La Mle, nonostante la condanna in Corte d’Appello e l’accordo siglato in Prefettura, ha ribadito che non tratterà coi sindacati di base.
Questa lotta conferma l’importanza dell’unità d’azione del sindacalismo di base, che all’aeroporto di Malpensa è una strada imboccata da tempo e che sta dando i suoi frutti. Inoltre mostra come i lavoratori, se hanno un grado sufficiente di unità e determinazione, possono di fatto rendere nulla la legislazione antisciopero. Naturalmente si è trattato di un compromesso, ma il cui contenuto mostra questa forza che i lavoratori hanno in potenza nel loro seno.
La lotta delle lavoratrici OEPAC e delle maestre ed educatrici a Roma
Un’altra lotta caratterizzata da una forte partecipazione e dall’unità d’azione del sindacalismo di base, che anche in questo caso la ha diretta, è quella in corso a Roma delle lavoratrici OEPAC – sigla che sta per “Operatore educativo per l’autonomia e la comunicazione”, una figura istituita dalla legge 104 del 1992 – che forniscono il servizio di inclusione scolastica per gli alunni disabili. Sul piano nazionale si tratta di ben 70.000 lavoratrici. Il servizio da una ventina di anni è assegnato in appalto dagli enti locali alle cosiddette cooperative sociali.
A Roma le lavoratrici OEPAC sono circa 4.000, impiegate da 50 cooperative. Quelle in lotta si sono organizzate nel Comitato Romano AEC-OEPA (AEC, cioè “Assistenti Educatori Culturali”, la precedente denominazione degli OEPAC), nella Cub e nell’Usb, tre organizzazioni sindacali che agiscono congiuntamente.
Il Comitato AEC-OEPA si è costituito nel 2018 per battersi per la reinternalizzazione del servizio e, quindi, dei lavoratori.
A seguito dell’approvazione della nuova delibera della giunta comunale capitolina del 19 ottobre scorso, diverse cooperative hanno iniziato a ridurre le ore di lavoro alle lavoratrici part-time, la larga maggioranza, e, in caso di assenza imprevista del bambino, a non pagarle. Lavorando 35 ore la settimana, il salario di una giovane lavoratrice si aggira sui 700 euro. Una lavoratrice con 23 anni di anzianità e 38 ore settimanali ne guadagna 1.100. Le lavoratrici più anziane a tempo pieno arrivano nei casi migliori a 1.300 euro. Se l’assenza del bambino si prolunga oltre i tre giorni, le lavoratrici non vengono pagate.
Da un questionario promosso a Roma dai sindacati di base è risultato che la riduzione dell’orario, e quindi del salario, ha interessato il 25% delle lavoratrici, il 12% non si vede retribuiti i primi tre giorni di malattia, in violazione di quanto disposto dal Contratto Nazionale e il 32,8% lavora più ore di quanto accordato senza che queste vengano retribuite con la maggiorazione prevista per lo straordinario.
Il 19 ottobre Comitato AEC-OEPA, Cub e Usb hanno indetto un’assemblea in orario di lavoro dalle 8 alle 14,30 e hanno riunito i lavoratori dinanzi al Campidoglio, sede del Comune di Roma. Hanno partecipato oltre 200 lavoratrici. L’assemblea è in orario di lavoro ma la maggior parte delle cooperative riescono a evitare di retribuirla, sicché corrisponde a uno sciopero.
Il 27 novembre, il Comune, le centrali cooperative e i sindacati di regime (Cgil, Cisl e Uil) hanno sottoscritto un accordo che prevede il trasferimento degli OEPAC nel servizio di assistenza domiciliare (SAISH). In questo modo si opera una riduzione del salario, perché gli assistenti domiciliari sono inquadrati al livello C1 del CCNL delle cooperative sociali, mentre per gli OEPAC il livello è il D1.
L’Assessore Claudia Pratelli si è ostinata a non voler incontrare i sindacati di base e a trattare solo con Cgil, Cisl e Uil. Così i sindacati di base hanno indetto una nuova assemblea in orario di lavoro, dalle 14 alle 19 del 12 dicembre, presso la Sala della Protomoteca in Campidoglio, che è stata riempita da un centinaio di lavoratrici, e poi uno sciopero il 19 dicembre, con una manifestazione che ha riunito circa 200 lavoratrici. Il 19 gennaio una nuova assemblea ha deciso uno terzo sciopero, questa volta di due giorni, il 30 e 31 gennaio.
Pochi giorni prima dello sciopero, Comune e Cgil, Cisl e Uil hanno siglato un verbale d’intesa cercando di fare delle minime concessioni, che i sindacati di base hanno giudicato insufficienti.
Nonostante il tentativo del Comune e dei sindacati di regime di indebolire lo sciopero questo è andato meglio dei procedenti. Il 30 gennaio i lavoratori hanno manifestato sotto la sede della LegaCoop in oltre 300. Quasi tutte donne, di cui molte giovani. Il giorno dopo hanno manifestato di fronte al palazzo dei gruppi consiliari in oltre 500, per poi partire in corteo. Anche qui una conferma che lo sciopero se dura più di un giorno, in condizioni favorevoli cresce di forza.
Il primo febbraio una Circolare del Dipartimento Scuola, Formazione e Lavoro del Comune di Roma ha chiarito alcuni punti in favore dei lavoratori, fra cui il pagamento delle ore di lavoro in caso di assenza imprevista del bambino assistito. Inoltre l’Assessore Pratelli ha finalmente accettato di convocare per un incontro Cub, Usb e Comitato AEC-OEPA, fissato per l’8 febbraio.
Ma nonostante la circolare del 1° febbraio e l’incontro dell’8, che ha confermato i punti positivi della circolare, le Cooperative hanno continuato ad accampare scuse per non ottemperare a quanto conquistato con la lotta, ma per ora ancora solo sulla carta. Inoltre rimangono questioni importanti fra cui: eliminare i contratti da 12 ore settimanali, per poi far lavorare anche il triplo, senza pagare le maggiorazioni dovute; pagare i primi tre giorni di malattia del lavoratore.
Sicché i sindacati di base hanno convocato una nuova assemblea dei lavoratori in orario di lavoro, dalle 13,30 a fine turno, per il 7 marzo, sotto la sede di Confcooperative, cui aderiscono la maggior parte delle cooperative sociali appaltanti, e un nuovo sciopero, l’8 marzo, per la giornata internazionale della donna, per la quale i sindacati di base hanno proclamato lo sciopero generale, cui si è unita anche la Flc-Cgil, la federazione dei lavoratori della conoscenza, cioè di scuola e università, della Cgil.
Intanto, il 27 febbraio, si sono mobilitate le lavoratrici – educatrici e maestre – delle scuole dell’infanzia, cioè per i bambini da zero a 6 anni, in questo caso organizzate coi sindacati di base Adl Cobas, Cobas Scuola e Usb, che anche in questa lotta agiscono unitariamente, insieme al Coordinamento Precari Inside.
In 200 hanno occupato per alcune ore, la sera, la sala della Protomoteca. Le lavoratrici rivendicano sostanzialmente l’assunzione a tempo indeterminato. I sindacati di base hanno chiamato anche queste lavoratrici allo sciopero per l’8 Marzo.
Questi scioperi, delle lavoratrici OEPAC e delle scuole dell’infanzia, ridanno alla giornata dell’8 Marzo il suo originario e autentico valore e contenuto di classe, quale giornata di lotta delle donne lavoratrici, contro la doppia oppressione di classe e di genere, e danno un autentico contenuto di lotta allo sciopero proclamato dai sindacati di base, che ancora nella maggior parte dei casi si riduce invece alla partecipazione alle manifestazioni serali del movimentismo femminista aclassista.
La mattina dell’8 Marzo maestre ed educatrici insieme alle lavoratrici OEPAC si sono ritrovate davanti al ministero dell’istruzione, in oltre 200, organizzando una riuscita manifestazione.
La lotta delle lavoratrici OEPAC di Roma è d’esempio per tutta la categoria a livello nazionale. Per il 10 aprile tutti i sindacati di base hanno proclamato uno sciopero nazionale delle lavoratrici delle cooperative sociali: operatrici sociali, educatrici, assistenti all’autonomia e alla comunicazione, OEPAC, Operatori sociosanitari (OSS).
Il 22 marzo si è svolta un’assemblea nazionale on-line a cui hanno partecipato tutti i sindacati di base tranne l’Usb, e quindi: Adl Cobas, Camere del Lavoro Autonomo e Precario (Clap), Cobas Lavoro Privato, Comitato Aec-Oepac, Cub, Sgb, Sial Cobas, SI Cobas. Hanno seguito l’assemblea oltre cento lavoratori.
La vittoria del SI Cobas a Mondo Convenienza
Due vittorie sono state recentemente ottenute da lavoratori organizzati nel SI Cobas. In quanto dirette da un unico sindacato ne riferiamo separatamente dalle altre, tutte contraddistinte da una unità d’azione fra sindacati di base. Nondimeno si è trattato di lotte e successi estremamente importanti.
La più importante fra queste due lotte è stata senza dubbio quella dei facchini e montatori di Mondo Convenienza. Lo sciopero, iniziato a fine maggio dello scorso anno da 20 lavoratori nel magazzino di Campi Bisenzio e poi rafforzatosi all’interno, estesosi per un breve periodo a cavallo fra giugno e luglio ad altri magazzini nel territorio nazionale, è proseguito a oltranza per cinque mesi, ben 161 giorni, e ha portato a un miglioramento per i 5.000 lavoratori degli appalti del gruppo a livello nazionale, definito in un accordo nazionale siglato da Cgil Cisl e Uil il 17 gennaio.
I lavoratori rivendicavano l’installazione di un marca tempo in azienda, una trasferta giornaliera e gli straordinari, il passaggio dal contratto nazionale Multiservizi a quello della Logistica.
Hanno subito aggressioni fisiche degli sgherri padronali e dalle forze di polizia che venti volte hanno sgomberato il picchetto. Hanno potuto resistere grazie alla cassa di resistenza, che ha raccolto fondi da tutta Italia e anche dall’estero. Sono stati sostenuti da diversi gruppi e organismi di lavoratori, a cominciare dal Collettivo della ex Gkn, nel cui stabilimento occupato, anch’esso a Campi Bisenzio, spesso gli operai di Mondo Convenienza si sono recati per mangiare nella mensa. Anche il Collettivo Lavoratori Autoconvocati ha sostenuto questa lotta, con comunicati, partecipando alle assemblee, raccogliendo fondi per la cassa di resistenza.
Gli operai sono stati licenziati per aver scioperato ma proseguendo lo sciopero hanno imposto il ritiro dei licenziamenti.
I sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil) non hanno alcun iscritto fra gli scioperanti e non hanno mai sostenuto in alcun modo lo sciopero, però si sono subito prestati a partecipare alla trattativa nazionale, che ha escluso il SI Cobas.
Lo stesso SI Cobas, d’altronde, è stato deficitario nel modo in cui ha condotto la lotta a livello nazionale. La lotta degli operi del magazzino di Campi Bisenzio, per quanto esemplare per determinazione e che poteva preludere a una sua espansione sul piano nazionale nei magazzini di Mondo Convenienza, ha ricevuto un debole sostegno dalla struttura nazionale del sindacato, diversamente da quanto fatto in passato con altre vertenze.
Il SI Cobas è presente anche nei magazzini Mondo Convenienza di Torino, Bologna e Roma, dove sono stati organizzati scioperi per estendere la lotta da Campi Bisenzio. A Bologna un operaio è stato gravemente ferito da uno sgherro aziendale. Ma dopo pochi giorni a Torino e a Bologna il SI Cobas ha siglato degli accordi locali, offrendo in cambio un periodo di pace sindacale, isolando così la lotta di Campi Bisenzio e vanificando ogni tentativo di elevarla a livello nazionale. Questi accordi locali sono stati seccamente criticati dal comunicato del SI Cobas di Prato del 18 gennaio: «Avremmo avuto un accordo migliore (…) se a luglio l’organizzazione nazionale Si Cobas, invece di firmare gli “accordi separati” e al ribasso di Bologna e di Torino, avesse sostenuto la generalizzazione della lotta in tutta la filiera (che tra giugno e luglio era diventata una possibilità concreta)».
L’8 novembre, dopo 161 giorni, è finito lo sciopero. Gli operai sono rientrati al lavoro senza che fosse stato siglato un accordo, ma con una trattativa nazionale in corso, condotta da Cgil Cisl e Uil, che ha portato all’accordo siglato il 17 gennaio, due mesi dopo, a voler marcare il distacco con lo sciopero e col sindacato che lo ha condotto. Ma è evidente che senza la lotta dei lavoratori di Campo Bisenzio il risultato non sarebbe stato ottenuto e che l’accordo è un tentativo di impedire l’espansione del SI Cobas nei magazzini di Mondo Convenienza a livello nazionale, rafforzando i sindacati di regime.
L’azienda ha dichiarato che il passaggio dal CCNL Multiservizi a quello della Logistica avrà un costo aggiuntiva per essa di 100 milioni di euro in due anni. Si consideri che Mondo Convenienza in Italia ha superato per ricavi l’IKEA. Giustamente il SI Cobas di Prato ha commentato: «È la misura di un nuovo rapporto di forza costruito con 161 giorni di lotta».
Il SI Cobas di Prato ha scritto: «L’accordo firmato dai sindacati confederali prevede “gradazioni”, deroghe e “progressioni”. Le retribuzioni piene previste dal CCNL Logistica si vedranno tra 2 anni. Poteva andare diversamente? Sì. Avremmo avuto oggi un accordo migliore se la Cgil non avesse “occupato” il posto al tavolo delle contrattazione senza nessuna rappresentanza dei lavoratori in sciopero, sganciando inoltre colpevolmente il tempo e il ritmo della trattativa dai tempi e dai ritmi della lotta».
Contro una grande e potente azienda, contro i sindacati di regime, nonostante gli opportunismi e le debolezze nello stesso sindacato di base, gli operai e il sindacato di base hanno ottenuto una vittoria, che li rafforza.
Una piccola ma importante vittoria è stata ottenuta dai lavoratori organizzati
col SI Cobas alla Welletex, azienda tessile di Prato. Anche qui si è ricorsi
allo sciopero a oltranza, autentico metodo di lotta del sindacalismo di classe,
che è durato 7 giorni. Lo sciopero ha coinvolto tutti i lavoratori e alla fine
ha imposto la stabilizzazione a tempo pieno e indeterminato di tutti gli operai,
turni di otto ore per cinque giorni la settimana e l’applicazione integrale del
CCNL Tessile Industria, il pagamento di arretrati entro l’8 marzo. Continua in
questo modo il rafforzamento del SI Cobas di Prato nel settore tessile, che
appare il più consistente settore di sviluppo di questo sindacato al di fuori
della categoria della logistica.
La mattina di venerdì 16 febbraio un crollo strutturale nel cantiere per la costruzione di un grande supermercato a Firenze ha causato una strage: 8 operai sono stati coinvolti, di cui 5 hanno perso la vita e 3 gravemente feriti.
Risale solo al 30 agosto scorso la strage alla stazione di Brandizzo (Torino), in cui persero la vita altrettanti lavoratori, addetti alla manutenzione ferroviaria, dipendenti di una ditta che aveva preso in appalto lavorazioni dalla RFI, l’azienda statale per la manutenzione della infrastruttura ferroviaria.
I lavoratori di RFI, per inciso, da settimane sono in agitazione, fuori e contro i sindacati di regime e autonomi, che hanno firmato il 10 gennaio un accordo che modifica l’orario e i turni di lavoro, e si sono organizzati in una Assemblea Nazionale Lavoratori Manutenzione (ANLM), sostenuta dall’Unione Sindacale di Base e dai Cobas, che ha prodotto un comunicato in solidarietà con i compagni di lavoro e i familiari degli operai morti a Firenze. Ne riferiremo in altro articolo su questo stesso numero del giornale.
Muoiono, in Italia, fra i 3 e i 4 lavoratori al giorno, a seconda se si considerano o meno coloro che perdono la vita nel tragitto casa-lavoro, cosiddetti infortuni in itinere, e i lavoratori non iscritti all’INAIL, fra cui naturalmente quelli in nero, numerosi in edilizia e in agricoltura.
Questo è il prezzo in termini di vite umane che il proletariato paga alla follia produttiva del capitalismo, fondata sulla ricerca del massimo profitto sotto la scure del mors tua vita mea, cioè della concorrenza, che implica la ricerca spasmodica del risparmio sui costi.
Quello della catena di appalti e subappalti è un sistema infernale per i lavoratori, efficacissimo a dividerli in tante aziende nello stesso posto di lavoro, spesso con contratti e trattamenti diversi, al fine di ostacolarne la sindacalizzazione e la lotta, e quindi in ultima istanza per poterli sfruttare al massimo grado. Merita così alle grandi aziende committenti cedere una fetta del plusvalore a dei padroncini, irresponsabili finanziariamente, che si assumono ogni responsabilità penale per le illegalità contro i loro operai.
Poco dopo il crollo, Cgil Cisl e Uil della Toscana hanno proclamato uno sciopero generale regionale di 2 ore a fine turno; le rispettive federazioni metalmeccaniche provinciali di Firenze – Fiom, Fim e Uilm – hanno proclamato invece uno sciopero, provinciale di 4 ore, ed è stato indetto un presidio davanti alla Prefettura per le ore 17.
Nel pomeriggio, le federazioni nazionali degli edili e dei metalmeccanici di Cgil e Uil hanno proclamato per mercoledì 21 uno sciopero nazionale di 2 ore a fine turno.
Il giorno dopo, sabato 17, i sindacati di base di Firenze hanno proclamato unitariamente uno sciopero generale provinciale per l’intera giornata di lunedì 19. L’azione unitaria è un elemento molto importante cui il sindacalismo di base fiorentino sta cercando di attenersi.
Nonostante ciò, il presidio del lunedì mattina ha raccolto appena un centinaio di militanti sindacali. La debolezza del sindacalismo di base, la stato di passività della classe lavoratrice, il fatto che si è deciso il sabato di indire lo sciopero per il lunedì, quindi senza la possibilità di propagandarlo nei posti di lavoro, il fatto infine che il sindacalismo di base è più presente nei settori sottoposti alle leggi anti-sciopero (136/1990 e 83/2000), che quindi erano esclusi dallo sciopero, non permetteva di aspettarsi molto di più. A peggiorare il risultato vi è stata la decisione del SI Cobas locale, che pur aveva promosso l’azione unitaria, di chiamare a un presidio separato a Prato.
Va rimarcata anche l’assenza delle aree conflittuali in Cgil, che invece in passato, almeno in parte, avevano partecipato alle azioni di lotta promosse unitariamente dal sindacalismo di base a Firenze.
L’unità d’azione del sindacalismo conflittuale non è un fine in sé ma uno strumento volto a ottenere l’unità d’azione della classe operaia. Se i sindacati di base agiscono unitariamente al loro interno, ma si rifiutano di unire nello sciopero i lavoratori da essi inquadrati con quelli mobilitati dai sindacati di regime, il risultato è dividere i lavoratori nella loro lotta, indebolendola. Il che giova al sindacalismo collaborazionista, che più facilmente può mantenere il controllo delle sue mobilitazioni, che vuole che riescano deboli.
Avendo le federazioni nazionali degli edili e dei metalmeccanici di Cgil e Uil proclamato uno sciopero nazionale di 2 ore per mercoledì 21, i sindacati di base non avrebbero dovuto ignorare questa mobilitazione, bensì completarla, proclamando il loro sciopero generale provinciale per lo stesso giorno. E avrebbero dovuto apertamente rivolgersi alle aree conflittuali in Cgil affinché aderissero e sostenessero lo sciopero promosso dal sindacalismo conflittuale.
Lunedì 19, nel pomeriggio, la Fiom e la Uilm di Firenze, Prato e Pistoia hanno comunicato di estendere lo sciopero nazionale di mercoledì da 2 ore a 4 ore, e di organizzare nel pomeriggio una manifestazione di fronte al cantiere Esselunga, alla presenza dei segretari nazionali confederali Landini e Bombardieri.
L’organizzazione di una manifestazione sindacale il pomeriggio, con uno sciopero di metà giornata per i soli metalmeccanici e di due ore per gli edili, certo non poteva aiutare la partecipazione.
Quello che sarebbe stato necessario era uno sciopero generale cittadino, con manifestazione mattutina e arrivo al cantiere dove tenere il comizio con gli interventi dei capi e dei militanti sindacali.
I dirigenti dei sindacati di base avrebbero dovuto estendere lo sciopero di Cgil e Uil a tutte le categorie e per l’intera giornata, proporre ai capi dei due sindacati di regime una manifestazione comune, accordandosi per gli interventi dal palco, e, di fronte all’eventuale rifiuto, denunciare ai lavoratori chi divide la loro lotta e chi la vuole unire.
Invece, con la loro condotta, hanno fatto apparire il sindacalismo di base come responsabile della divisione degli scioperi.
Questi sindacati, inoltre, invece di puntare all’unità dei lavoratori nell’azione, cercano un seguito nei movimenti interclassisti, che, ad esempio sulla questione della strage al cantiere Esselunga, annacquano la lotta contro lo sfruttamento della classe operaia, in difesa della salute e della vita dei proletari, con le denunce contro la speculazione edilizia e perfino con richiami alla difesa dei bottegai schiacciati dalla diffusione dei centri commerciali!
Il comportamento più divisivo lo ha avuto la dirigenza nazionale dell’Usb, che da sola ha proclamato uno sciopero nazionale del settore privato per martedì 20, di cui nessuno si è accorto, e che per il 2 marzo ha calato dall’alto una manifestazione nazionale a Firenze, senza accordarsi previamente con gli altri sindacati di base, né a livello nazionale né locale. Ciò ha provocato la rottura dell’unità d’azione del sindacalismo di base fiorentino, con l’adesione del solo SI Cobas.
La manifestazione di Cgil e Uil del pomeriggio di mercoledì 21 dinanzi al cantiere Esselunga ha avuto una partecipazione di circa 3 mila persone. Non un gran risultato, considerata la vasta struttura della Cgil in Toscana, dove resiste meglio che altrove al declino in corso da anni e dove la presenza dei segretari confederali ha comportato la massima mobilitazione delle forze. Ma dal punto di vista del puntellamento del sindacalismo di regime, del suo controllo sulla classe lavoratrice si è certamente trattato di un’operazione ben riuscita, con le telecamere dei telegiornali regionali e nazionali ad amplificare la vuota demagogia dei grandi capi in bella posa.
Ma dalla demagogia, almeno in parte, non è esente nemmeno il sindacalismo di base. L’Usb ha inforcato il cavallo di battaglia della altisonante richiesta di introduzione del reato di “omicidio sul lavoro”. Il ministro della giustizia Nordio si è detto contrario, considerandolo uno strumento poco efficacie, al pari del reato di “omicidio stradale”. Certo fa sorridere tale affermazione da parte di un ministro di giustizia di un governo che si è distinto per l’introduzione di numerose nuove fattispecie di reati penali, a cominciare da quello contro i “rave party”! Ma i dirigenti dell’Usb mostrano di ragionare con la stessa logica del governo Meloni: illudono i lavoratori che gli incidenti sul lavoro possano essere ridotti dall’effetto deterrente di una nuova norma penale.
Il problema degli infortuni, gravi e mortali, e delle malattie contratte sul lavoro è legato al grado di sfruttamento della classe operaia, quindi ai rapporti di forza fra le classi. In ultima istanza, non sono leggi e regole che difendono i lavoratori, ma solo la loro forza organizzata in sindacati di classe. Un’organizzazione del lavoro che tuteli i salariati sarà possibile solo una volta liberata la società, e l’attività lavorativa, dalla dittatura delle leggi economiche del profitto, del capitale. Finché vige il capitalismo ci si può solo difendere, limitare il danno, e questo non lo fanno le leggi e le regole, se nei posti di lavoro gli operai non hanno la forza di farle rispettare.
Quanto è accaduto a Firenze è indicativo. La strage è avvenuta in una città con una forte tradizione della sinistra borghese nelle istituzioni e dove il maggior sindacato di regime d’Italia, la Cgil, resiste al suo declino come non avviene nella gran maggioranza delle altre città d’Italia. Questi due fattori non hanno impedito che in un cantiere grande e importante come quello per la costruzione della Esselunga vigessero condizioni tali da aver determinato la strage.
La classe operaia permane ancora incapace di reagire come dovrebbe a simili tragedie, stretta fra la forza del capitalismo, in declino ma ancora in piedi, quella del sindacalismo di regime e l’incapacità delle dirigenze del sindacalismo di base a intraprendere in modo deciso e compiuto la giusta linea sindacale di classe, alternando passi nella giusta direzione ad altri che affondano nel solito pantano opportunista.
Qui di seguito il volantino che i nostri compagni hanno distribuito al presidio del sindacalismo di base lunedì 19 e alla manifestazione di Cgil e Uil il mercoledì successivo.
Solo la lotta, l’organizzazione e l’unità d’azione del sindacalismo di classe possono difendere la vita dei lavoratori
Firenze,
lunedì 19 - mercoledì 21 febbraio
Cinque morti e tre feriti gravi è il bilancio di questa ennesima strage di operai, un nuovo sacrificio di sangue versato dalla classe lavoratrice sull’altare del Profitto Una strage che certamente avrebbe potuto essere evitata se non vigesse la regola di risparmiare su tutto, in primis sulla sicurezza.
Ben sette degli otto lavoratori coinvolti nel crollo erano immigrati, a conferma di come i proletari siano una classe internazionale, e al contempo di quanto sia utile alla classe padronale dividere e contrapporre lavoratori italiani e stranieri per sfruttare meglio l’intera classe lavoratrice.
A differenza dello stillicidio quotidiano di proletari che muoiono sul lavoro – almeno tre al giorno – questa strage avrebbe potuto commuovere e smuovere le masse, ridotte alla rassegnazione e all’indifferenza da decenni di sconfitte, frutto della politica rinunciataria e traditrice dei sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil). È per questo che la stampa, in mano ai grandi gruppi industriali, ha svolto un’opera d’infame disinformazione, cercando più a lungo possibile di nascondere e ridurre il numero degli operai coinvolti e delle vittime.
Di fronte a questa tragedia i sindacati di regime hanno ancora una volta agito per smorzare la rabbia operaia. Oltre lo sciopero rituale non sono andati, evitando qualsiasi manifestazione in cui i lavoratori delle diverse categorie potessero radunarsi nelle ore immediatamente successive alla strage di operai.
Un atteggiamento assai diverso è stato quello del sindacalismo di base di Firenze, che ha reagito nel modo migliore di fronte a questa nuova drammatica manifestazione dello sfruttamento e dell’oppressione della classe operaia, proclamando unitariamente uno sciopero generale provinciale di 24 ore per lo scorso lunedì e una manifestazione davanti alla Prefettura di Firenze.
Questa azione del sindacalismo di base e conflittuale va rafforzata perché è la strada necessaria per ridare fiducia ai lavoratori nella loro capacità di lottare e difendersi collettivamente, per rimettere in piedi il movimento operaio e ricostruire un vero sindacato di classe, cosa che potrà avvenire in Italia solo fuori e contro i sindacati di regime, che sottomettono ormai da decenni la loro politica alle esigenze dell’economia capitalistica e alle compatibilità imposte da questo regime economico.
Questa unità d’azione dei sindacati di base è uno dei fattori che ha permesso i recenti successi dello sciopero nazionale degli autoferrotranvieri del 15 gennaio, di quello dei ferrovieri del 12 febbraio e dello sciopero a oltranza di 5 giorni degli oltre 200 operai della MLE all’aeroporto di Malpensa, che sono riusciti a imporre la rinuncia a ogni sanzione contro di loro per aver violato la legge antisciopero.
I sindacati denunciano il sistema degli appalti e subappalti, e invocano leggi più severe per punire i dirigenti aziendali colpevoli, oltre a maggiori controlli degli enti preposti alla sicurezza. Ma non è sul piano giudiziario che si risolve il problema, con i padroni che possono schierare stuoli di avvocati strapagati e un sistema che è intrinsecamente contro i lavoratori. L’effetto deterrente di una legislazione più severa, se forse può aiutare, non è risolutivo laddove il regime politico, con la sua macchina statale, solo maschera con la democrazia la sua natura di strumento dei padroni: efficientissimo a mandare la polizia contro i picchetti degli scioperanti, tanto quanto inefficiente a effettuare i controlli per la sicurezza nelle aziende.
È sul posto di lavoro, nei rapporti fra operai e padroni, e quindi nei rapporti di forza generali fra le classi, il cuore del problema. È in un clima di pace sociale, cioè di oppressione della classe lavoratrice, di rassegnazione, di individualismo, che gli operai sono costretti ad accettare ogni condizione di lavoro, o, peggio, pensano di tutelare sé stessi da soli, correndo di più e mettendo a rischio la propria vita e salute.
I sindacati confederali si limitano a denunciare ipocritamente l’ennesima strage, senza mai organizzare una lotta decisa in difesa delle condizioni di lavoro, come è il caso dello sciopero nazionale di oggi, limitato a due ore e solo per le categorie degli edili e dei metalmeccanici!
Solo estendendo la lotta a tutte le categorie, del pubblico e del privato, solo riappropriandosi dei metodi della lotta di classe, dello sciopero generale, solo rifiutando la dannata regolamentazione dello sciopero, i lavoratori potranno ritrovare la loro forza e la loro unità, cioè le condizioni indispensabili per porre un argine allo sfruttamento capitalistico.
Ma ad impedirgli di imboccare questa strada essi trovano spesso schierati proprio quei dirigenti sindacali che dovrebbero invece guidarli e difenderli.
È solo col rafforzamento della lotta di classe, col rafforzamento del sindacalismo conflittuale che i lavoratori potranno trovare gli strumenti e il coraggio per porre, contro la tracotanza padronale e statale, la propria vita dinanzi alle esigenze del profitto!
E da queste lotte, sempre più forti ed estese, arriverà anche la reale tutela della vita e della salute, possibile solo con la liberazione del lavoro dalle leggi economiche del profitto, con l’abbattimento rivoluzionario del capitalismo.
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Lavoratori RFI!
L’accordo del 10 gennaio ha aperto gli occhi a sempre più di voi sulla natura dei sindacati che lo hanno firmato. Cgil, Cisl, Uil, Ugl, Fast e Orsa non difendono i lavoratori mai i profitti. Sono sindacati filo-aziendali, collaborazionisti, di regime. Per aumentare la produttività, per ridurre il costo del lavoro, assecondano i piani aziendali, stravolgendo l’organizzazione dei turni, peggiorando la vostra vita e mettendo a repentaglio la vostra salute e la vostra sicurezza.
Anche voi vi siete così uniti a quei settori di lavoratori che hanno già maturato la consapevolezza che per difendere le proprie condizioni d’impiego e di vita è necessario lottare e che per lottare è necessario organizzarsi fuori e contro questi sindacati di regime. La vostra organizzazione nella Assemblea Nazionale Lavoratori Manutenzioni (ANLM) è un esempio per tutti quelli che ancora non hanno compiuto questo passo necessario.
L’altro fattore importate è il sostegno che avete ricevuto dai sindacati di base (Cobas e Usb) che stanno agendo in modo unitario. Lo stesso processo sta svolgendosi fra i macchinisti e i capitreno che anch’essi si sono organizzati in una Assemblea Nazionale PdM/PdB e sono sostenuti unitariamente dai sindacati di base Cub, Sgb e Usb.
La partecipazione in prima persona dei lavoratori alla lotta, all’organizzazione della lotta, e l’unità d’azione dei sindacati conflittuale e dei lavoratori, sono i fattori necessari e fondamentali per vincere le battaglie di difesa della classe lavoratrice contro i peggioramenti che aziende e governi cercano con sempre maggiore insistenza di imporre.
I lavoratori sono una classe sociale che ha interessi diversi e contrapposti a quelli dei dirigenti delle aziende, dei gruppi industrial-finanziari e dei loro rappresentanti politici in Parlamento, in ogni sua parte. Gli interessi dei lavoratori sono salari più alti, ritmi di lavoro meno intensi, ridurre la giornata e la vita lavorativa. Quelli del Profitto sono diametralmente opposti. Dietro il cosiddetto “bene del Paese”, o “della Nazione” – a seconda sia invocato da politicanti borghesi di sinistra o di destra – non si nasconde altro che il “bene dei profitti”.
L’interesse dei lavoratori è unirsi nella lotta a cominciare dal posto di lavoro, poi fra le diverse aziende e categorie, infine a livello internazionale, per difendersi oggi dallo sfruttamento e sostituire domani la società del profitto, dell’azienda, della patria, con la società internazionale del lavoro libero dal profitto, organizzato e finalizzato ai bisogni sociali.
L’economia del profitto – il capitalismo – è in crisi irreversibile, per le sue insanabili contraddizioni che la condurranno al crollo e che genereranno sempre più conflitti militari in cui mandare al massacro fratricida lavoratori di diversi paesi per interessi dei borghesi.
Per tenere in piedi questo sistema moribondo alla classe lavoratrice sono richiesti sempre più sacrifici, sempre più sfruttamento. Politicanti padronali e sindacalisti di regime sono i burattini dei gruppi industriali e finanziari che si affidano a loro affinché pieghino i lavoratori ad accettare ogni genere di sacrificio.
Cgil Cisl Uil Ugl e sindacati autonomi subordinano il bene dei lavoratori a quello dell’azienda e del paese. Per questo sono sindacati collaborazionisti e di regime, non sindacati di classe!
Lo sciopero di oggi, il secondo dopo quello del 12 febbraio, e la manifestazione nazionale, sono un fondamentale passo in avanti nella vostra lotta per far rimangiare l’accordo del 10 gennaio ai sindacati collaborazionisti e all’azienda. Altre assemblee, sempre più organizzazione, altre manifestazioni e soprattutto altri scioperi saranno sicuramente necessari!
La partecipazione diretta dei lavoratori e i giusti metodi organizzativi – come il rifiuto del pagamento delle quote sindacali col sistema della delega voluto dai sindacati di regime, che mette in mano all’azienda i soldi del sindacato e i nomi degli iscritti – sono i fattori fondamentali per la rinascita del sindacato di classe.
Occorrerà rafforzare l’unità al vostro interno – fra gli operai RFI – e quella con gli altri ferrovieri e con gli altri lavoratori in lotta. Questo percorso di rafforzamento della vostra lotta dovrà arrivare a mettere in discussione le leggi anti-sciopero (146/1990 e 83/2000) volute da Cgil Cisl e Uil per impedire la lotta operaia e fermare il rafforzamento dei sindacati di base, così da poter dispiegare scioperi più forti, di più giorni, in grado di piegare ogni resistenza dei padroni e dei loro governi!
Da anni sono stati costantemente aumentati i requisiti per accedere al pensionamento ed è peggiorato il metodo di calcolo, con conseguente diminuzione degli importi.
Il 30 dicembre è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale la Legge di Bilancio per l’anno 2024. Le modifiche normative sono contenute in un unico articolo avente il titolo: “Risultati differenziali. Norme in materia di entrata e di spesa e altre disposizioni. Fondi speciali”. Nulla che faccia pensare al salario differito di milioni di lavoratori: un chiaro messaggio ai proletari, siete semplicemente una “spesa” per lo Stato del capitale, alla faccia di tutti i discorsi sulla democrazia, la libertà e l’uguaglianza. Principi questi che si devono genuflettere di fronte a sua Maestà il Capitale!
Non facciamo qui l’analisi dei vari commi che trattano di previdenza o assistenza: i proletari la trovano nella stampa borghese sufficientemente chiara. È necessario piuttosto collocare la manovra nel solco degli attacchi alle condizioni della classe operaia che si sono succeduti a ritmo crescente a partire almeno dall’inizio degli anni ’90 del secolo scorso.
Se dovessimo cercare un filo nella storia degli ultimi 30 anni in grado di legare tra loro i vari provvedimenti legislativi che hanno sconvolto il già fragile sistema pensionistico italiano questo sarebbe il suddividere in settori sempre più piccoli la forza lavoro così da cucirgli addosso un vestito su misura e sempre più stretto in modo da farle perdere anche il ricordo della propria unità di fronte al padronato e al suo Stato.
Si è cominciato a colpevolizzare i lavoratori iscritti a regimi cosiddetti speciali (dipendenti pubblici, ferrovie, poste, telecomunicazioni, aziende elettriche, autoferrotranvieri, ecc.) i cui migliori trattamenti erano stati conquistati in anni di lotte, facendo valere le propria maggiore forza contrattuale.
Si è passati poi a creare un muro invalicabile tra lavoratori aventi una determinata anzianità (i famigerati 18 anni di contributi al 31 dicembre del 1995) e i giovani, i primi essendo lo zoccolo duro di un sindacato di regime, che non era il caso di colpire a fondo; la Legge 335 del 1995 ha scavato un solco tra “vecchi” e “giovani”, con questi ultimi sospinti nel regime contributivo, che prevede regole completamente diverse e peggiori rispetto al retributivo.
Nel 2005 è stata riformata totalmente la previdenza complementare, col pretesto di sopperire alla esiguità delle future pensioni, quella povertà che era stata preparata dagli stessi attori. Si nascose che la riforma era imposta dalla grossa sotto-capitalizzazione del mercato borsistico, per cui si convogliavano i contributi dei lavoratori nei fondi pensione.
Socialmente tale provvedimento è andato a ulteriormente dividere il proletariato a seconda del settore contrattuale di appartenenza, con esigui strati della classe in grado di strappare condizioni migliori in contrapposizione a milioni di lavoratori costretti ad aderire a fondi di settore a dir poco vergognosi.
Nel 2010 si è arrivati a distruggere con la Legge 122 le relazioni tra i fondi pensionistici, le cosiddette ricongiunzioni, che permettevano di sanare lo spezzettamento della posizione assicurativa del lavoratore.
La degna conclusione del percorso non poteva che essere la tanto disprezzata, a parole, Legge 214 del 2011, cosiddetta “Fornero”, che ha confermato e perfezionato il meccanismo che lega il requisito per accedere al pensionamento all’aspettativa di vita e ha esteso il metodo di calcolo contributivo a tutti i lavoratori indipendentemente dall’anzianità contributiva.
Anche questa Finanziaria del 2024 si colloca sul terreno della distruzione dell’unità di classe. Anticipata da una propaganda martellante contro i “privilegiati” dipendenti pubblici, che sarebbero la causa principale dell’aumento della spesa pensionistica, si va a modificare un parametro per il calcolo fino al 31 dicembre del 1995 della quota retributiva degli iscritti ad alcune Casse confluite nell’INPS.
A questo punto però la occhiuta borghesia italica si è accorta che in tal modo rischiava di mobilitare una grande fetta della forza lavoro attorno a un semplice e unificante obiettivo. Decide di correre ai ripari con l’oramai ben sperimentata arma del divide et impera: con una elegante virata concede ai lavoratori della sanità una penalizzazione inferiore nell’importo della futura pensione.
In un secolo il sistema pubblico previdenziale è passato da un carattere
tendenzialmente universalistico a un’assicurazione individuale come le altre. Ai
lavoratori il compito di ritrovare la forza nell’unità della propria classe.
Oltre alle riunioni settimanali, a un anno dalla sua costituzione si è svolta a Portland la riunione del Comitato organizzativo della Rete d’azione per la lotta di classe (CSAN, Class Struggle Action Network), durata due giorni.
Alla riunione si sono ricordati i numerosi interventi in occasione degli scioperi, la presenza quotidiana all’interno dei sindacati e nei luoghi di lavoro, i tanti volantinaggi, la ricerca di contatti e molto altro, che hanno portato il CSAN ad apprezzabili risultati.
Sono stati descritti i seguenti ostacoli allo sviluppo del movimento sindacale
negli Stati Uniti:
- le storiche divisioni razziali, che sono ancora un ostacolo alla costruzione
di veri sindacati di classe, dividendo ampie fasce di lavoratori e frenandone la
cooperazione;
- il tenere all’oscuro della storia del movimento operaio, che serve alla
borghesia per evitare che i lavoratori abbiano consapevolezza di ciò che essi
possono ottenere con la lotta;
- spionaggio e intimidazioni padronali;
- utilizzo di piccole concessioni al fine di contenere i salari e come
manipolazione padronale contro la naturale propensione alla solidarietà sociale.
Sono stati poi discussi i seguenti punti:
- La necessità di un maggiore impegno nell’organizzare i lavoratori non
sindacalizzati e non qualificati della “gig economy”. L’organizzazione del
lavoro attraverso applicazioni sui telefoni disorganizza i lavoratori e ostacola
la formazione di sindacati. Si vuole procedere a identificare i punti in cui
questi lavoratori si fermano e fanno volantinaggio, costruendo con loro comitati
organizzativi, come già fatto altrove con successo.
- Come dare sostegno ai compagni del CSAN coinvolti nei caucus (comitati alla
base dei sindacati che in genere si costituiscono al fine di modificarne
l’indirizzo), al di fuori di Portland, nelle sezioni locali dell’UFCW (United
Food and Commercial Workers, Lavoratori dell’Alimentare e del Commercio Uniti,
il principale sindacato dei lavoratori della ristorazione negli USA. Conta
1.300.000 iscritti, affiliato alla confederazione sindacale di regime Afl-Cio).
- Come sostenere la crescita del CSAN nel Midwest e nel Sud attraverso
l’organizzazione di eventi in presenza locali.
Riflessioni dei compagni del partito sull’attività nel CSAN
Noi militanti del Partito lottiamo come lavoratori comunisti all’interno del movimento operaio, direttamente al fianco di altri lavoratori. Veniamo a conoscere la realtà concreta delle loro lotte, giorno per giorno, e vi interveniamo coi metodi della scienza rivoluzionaria marxista, rafforzandole col dar loro un indirizzo pratico adeguato.
Di questa attività della nostra frazione sindacale teniamo informato costantemente il Centro del partito e l’intero partito nelle periodiche riunioni locali, regionali, generali. Una loro sintesi è poi riportata negli organi di stampa nelle diverse lingue e sul sito del partito, che servono da strumento organizzativo per tutta la nostra rete internazionale, in linea con la nostra tradizione storica e col metodo di funzionamento del partito del centralismo organico.
Il lavoro nel Csan si dà il compito di favorire il ritorno del movimento operaio sul terreno della lotta di classe, collegando e rafforzando le correnti sindacali di classe negli attuali sindacati.
In poco meno di un anno questo lavoro ha dato diversi frutti e, nelle naturali oscillazioni della lotta di classe, già abbiamo conquistato alcune posizioni nemiche, scansando il cadavere di vecchi dirigenti opportunisti.
Abbiamo contribuito alla formazione di un caucus, legato al CSAN, in uno dei principali sindacati di regime del paese. È impostato esplicitamente secondo i principi del sindacato di classe, è presente in due fabbriche e ha stretto un fronte unito con un altro caucus combattivo, a livello nazionale, nella UFCW.
Il Partito potrà crescere solo grazie alla connessione con le organizzazioni di difesa dei lavoratori organizzate su basi di classe e al loro sviluppo in organizzazioni comprendenti grande numero di proletari.
Il nostro Partito è l’unico che custodisce nel suo cuore e nel suo cervello
collettivo la luce del marxismo rivoluzionario. Ciò si esprime nel corretto
metodo con cui sa indirizzare le nuove forze che a esso approdano. Queste non
sono né esclusivamente limitate allo studio della teoria né sperperate in un
attivismo isterico, ma integrate in un lavoro organico, nel rispetto del motto
comunista “da ciascuno secondo le sue capacità”. La cui seconda parte – “a
ciascuno secondo i suoi bisogni” – nel partito comunista, che è prefigurazione
della futura società comunista, significa la soddisfazione del bisogno di essere,
cioè di agire, comunista. Nell’unico modo possibile, lavorando impersonalmente
per la rivoluzione.
In Germania l’opposizione alla guerra è stata soffocata e ogni seppure timida critica allo Stato di Israele è denunciata come antisemitismo. Ci sono state alcune proteste di pacifisti, contrapposte a dimostrazioni pro-Israele. Ma – in una rigorosa applicazione del “Burgfrieden”, la pace sociale stabilita tra il capitale, i sindacati operai e la socialdemocrazia già nella Prima guerra mondiale – i sindacati e i partiti politici tedeschi sono – per il momento – ben allineati nel sostegno a Israele, o più precisamente al capitale tedesco-israeliano.
Le banche e le industrie tedesche sono infatti fra i fornitori più affidabili delle forze armate israeliane (IDF) di armi, carri armati e veicoli blindati. Il padronato tedesco sa di poter contare sul sostegno incondizionato dei dirigenti della principale confederazione sindacale, il DGB e della burocrazia sindacale. L’IG Metall, il più grande sindacato affiliato al DGB, appoggia sempre le industrie perché ottengano nuove commissioni di armi da Israele. Questi sindacati sono quindi complici e approvano la distruzione di Gaza.
Infatti un comunicato stampa del DGB del 10 ottobre, quando i bombardamenti su Gaza erano già iniziati, ha ribadito chiara la sua posizione: «Israele sta affrontando una situazione difficile e siamo lieti che il nostro governo sia intervenuto rapidamente e abbia espresso il suo sostegno incondizionato al popolo israeliano sotto attacco».
In Germania i sindacati giustificano il loro sostegno al capitale tedesco-israeliano con l’antifascismo, il rigetto dell’antisemitismo, una risposta “morale” alle colpe storiche “del Paese”. In una lettera aperta alla federazione sindacale del regime israeliano, l’Histadrut, l’esecutivo della DGB ha scritto: «Ci uniamo ai nostri sindacati federati nell’esprimere la nostra solidarietà con Israele alla luce dei brutali attacchi compiuti da Hamas negli ultimi giorni». Si noti: solidarietà con Israele, non con i lavoratori israeliani. Prosegue il DGB: «Come sindacati, siamo impegnati per la pace, la libertà, la democrazia e una società multietnica e ci opponiamo a tutte le forme di terrorismo. Combattiamo l’antisemitismo, in Germania e nel mondo». Il DGB non ha espresso alcuna solidarietà né con i lavoratori palestinesi, che, oltre a essere sfruttati dalla loro stessa borghesia, sono sotto costante assedio e bombardamento, né con i lavoratori in Israele, costretti dal loro Stato militarista e razzista a una permanente guerra fratricida.
I sindacati della DGB e le associazioni padronali BDA e BDI, insieme a tutti i partiti del Bundestag (ad eccezione dell’AfD, cioè dell’estrema destra), alle chiese protestanti e cattoliche, alle comunità ebraiche e a molte altre organizzazioni, hanno firmato l’appello per una manifestazione a sostegno di Israele davanti alla Porta di Brandeburgo il 22 ottobre. Il partito di sinistra (Die Linke) ha annunciato più volte il suo sostegno alla guerra. Ha firmato non solo come partito, ma anche come “Fondazione Rosa Luxemburg” (la grande internazionalista e instancabile oppositrice del Burgfrieden). Prendendo spunto dall’85° anniversario della “Kristallnacht”, il DGB si è spinto oltre, equiparando qualsiasi opposizione alla guerra israeliana a Gaza a quel pogrom nazista del 9 novembre 1938. Gridando “Ancora mai più!” ha invitato a proibire le proteste sull’altro fronte di guerra: «È assolutamente inaccettabile che gli islamici scendano in piazza in Germania e abusino del diritto di manifestare o lo violino apertamente celebrando il massacro di Hamas e glorificandolo come un atto di liberazione».
Il DGB giustifica il suo aperto sostegno all’imperialismo tedesco-israeliano facendo riferimento ai “valori democratici”: «La coesistenza pacifica e la coesione nella nostra società multietnica dipendono dal fatto che i valori della Costituzione siano accettati da tutti e che la nostra convivenza sia caratterizzata da tolleranza e rispetto. Questo vale per tutte le persone che vivono in Germania, indipendentemente dalla loro origine o religione».
Noi comunisti internazionalisti diciamo ai lavoratori tedeschi: i “valori
tedeschi”, la “democrazia” e il “rispetto” sono solo una maschera per condurvi a
una micidiale guerra imperialista. Che lo Stato dei vostri padroni si schieri da
un lato o dall’altro del fronte mondiale, i vostri interessi non sono allineati
né con Israele né con Hamas, ma con il proletariato di tutti i Paesi.
PAGINE 6 e 7
Un’ampia rappresentanza dei nostri militanti si è raccolta per la riunione generale del partito nei giorni 26-28 gennaio.
Come d’uso, la seduta del venerdì è stata riservata ai compagni mentre le ore finali del venerdì, il sabato e la domenica, nelle quali si sono esposte le relazioni dei gruppi di studio, sono state aperte anche a quei candidati al partito che hanno dimostrato serietà e impegno.
La maggior parte dei partecipanti era di provenienza italiana e statunitense, più piccoli gruppi o singoli militanti da altri 14 paesi, di Europa e di America.
Per le traduzioni abbiamo mantenuto la modalità delle precedenti riunioni, che si è dimostrata molto efficace, facendo trovare già ai compagni il testo dei rapporti nella loro lingua. Questo, ovviamente, comporta negli ultimi giorni e nelle ultime ore precedenti la riunione uno stretto coordinamento fra i compagni e un notevole lavorio organizzativo ed editoriale.
Questo il piano delle esposizioni:
Venerdì 26
- Democrazia e fascismo Giano bifronte della borghesia
- La guerra Russia-Ucraina
Sabato 27
- La questione agraria
- Sollevamenti armati nella Germania del 1918-19
- Per la storia del PC Internazionale
- La situazione sociale in America Latina
- La crisi economica in Giappone
- La teoria marxista delle crisi
- Il socialismo nell’impero ottomano
- La nascita del Partito Comunista di Cina
Domenica 28
- Corso della crisi economica mondiale
- La sovrapproduzione di petrolio e gas
- La guerra in Palestina
- Nostra attività sindacale negli Usa
- La questione militare: La guerra civile in Russia
- Storia del movimento operaio americano
Solo per motivi di tempo abbiamo dovuto rimandare alla nostra stampa la presentazione del rapporto sulla attività nei sindacati in Italia.
In questo numero del giornale e nel prossimo anticipiamo un riassunto dei rapporti: la pubblicazione estesa apparirà nei prossimi numeri di “Comunismo”.
La riunione si è aperta con un resoconto e bilancio del centro internazionale sulla attività del nostro partito nell’anno appena trascorso.
Abbiamo ricordato che, nonostante le nostre minime forze, almeno in termini numerici, noi lavoriamo a prefigurare il partito comunista mondiale. Non siamo una federazione di sezioni nazionali. Non ci limitiamo a tenerci periodicamente informati di quello che facciamo. Pretendiamo molto di più, di costituire e di comportarci come un unico organismo internazionale.
Questa fu l’aspirazione, e la realtà, della Associazione Internazionale dei Lavoratori, nella quale militarono Marx ed Engels. Oggi, a distanza di un secolo e mezzo, quella generosa prima aspirazione è a maggior ragione possibile, per maturità della storia e per l’accresciuta esperienza del partito.
Siamo un unico partito internazionale non perché c’è un centro mondiale che comanda a tutti, ma, prima di tutto, per il nostro istinto e bisogno di comunismo, e per la nostra volontà cosciente di una attività solidale tendente a quel fine condiviso. Attività che sappiamo essere, fuori da ogni volontarismo, necessaria e urgente.
Cerchiamo una intesa e una disciplina internazionale comune, che è possibile perché ci informiamo alla stessa comprovata e definitiva dottrina marxista, allo stesso programma politico, agli stessi moduli di relazione fra di noi.
Il compito di ricostruire il partito mondiale della rivoluzione sarebbe evidentemente velleitario e irrealistico se fossimo noi soli, se dovessimo contare solo su noi piccoli uomini di oggi, e non potessimo salire sulle spalle dei nostri maestri, dei grandi comunisti che ci hanno preceduto. Basta leggere, studiare, perché tutto è scritto. Nessuno di noi certo individualmente ha l’energia e le capacità di un Marx o di un Lenin, ma Marx e Lenin soccorrono ad aiutarci, sempre con noi, ormai ovunque a distanza, per chi li vuol cercare, di pochi click.
Il partito comunista non si fonda su una gerarchia formale ma su una rete di lavoro, su uno scambio continuo interno di contributi di studio da tutte le direzioni, teso a rintracciare il raccordo fra passato e presente. Un centro internazionale e una corrispondenza fitta e regolare fra compagni bastano a costituire l’apparato organizzativo-amministrativo del partito e a tenerci tutti assieme sulla giusta strada.
Sappiamo che la forza del partito è nella sua qualità di comunista e non nella quantità. Sono i partiti foraggiati dagli Stati che ostentano milioni di iscritti. Ma ugualmente noi ci possiamo vantare che, pochi come siamo, nell’anno trascorso ci siamo tenuti in stretto e quotidiano contatto epistolare, tramite molte migliaia di missive, con il centro e direttamente fra i compagni impegnati nella stessa attività. Lo scopo della corrispondenza non è aprire dibattiti fra opinioni, far critiche o polemiche, ma solo proporre, organizzare e farsi carico del lavoro.
È invece demandato alla stampa periodica fornire a tutto il partito un panorama aggiornato della sua attività internazionale, la sua interpretazione degli avvenimenti, le sue direttive di azione.
Le nostre frequenti riunioni integrano la corrispondenza epistolare. Abbiamo tenuto nel 2023 tre riunioni generali e tre intercalari con funzione organizzativa. A queste si sono aggiunte la riunione quindicinale in inglese, quella settimanale in italiano e in spagnolo, le settimanali di sezione a Genova e a Firenze, la periodica riunione di studi asiatici. Altre riunioni regionali si sono tenute senza periodicità fissa.
Siamo usciti regolarmente con la stampa, con sei numeri ciascuno dei nostri organi in italiano, spagnolo, inglese e turco; più due numeri della rivista “Comunismo”, con la bella storia della rivoluzione ungherese, e un numero della “Communist Left”.
La casa editrice del partito sta provvedendo alla pubblicazione a stampa dei nostri testi fondamentali in lingua inglese e in turco.
Particolare mole di lavoro di più compagni – ben coordinati, affiatati, e ormai allenati – è stata dedicata ad alimentare il sito internazionale del partito e a mantenerlo efficiente. Arriva oggi a contare più di 2.500 pagine. Oltre a presentare il partito all’esterno, costituisce l’Arca che custodisce la nostra Bibbia. Ben strutturato secondo percorsi cronologici e tematici, grazie anche a un apparato di Indici via via aggiornati, è una efficiente macchina ad uso dei compagni, ed è già un nuovo e ormai indispensabile “organizzatore collettivo”.
Che si va sempre arricchendo. Nel corso del 2023 abbiamo aggiunto 219 pagine, fra testi classici del marxismo, della Sinistra e del partito fino ad oggi, divisi in una struttura logico-storica, e nuovi contributi di approfondimento, di interpretazione, di propaganda, di polemica con nemici e falsi amici. Sono pagine in 13 lingue diverse.
La nostra propaganda si è avvalsa anche di alcune conferenze pubbliche, tenute in Italia e negli Stati Uniti, su temi attuali come la guerra, la rinascita sindacale, la storia del partito.
Certo, come sempre diciamo da materialisti, tutto è nello stesso tempo perfetto e perfettibile, nell’organico crescere e maturare del partito. E nella verifica e interpretazione dei fatti nuovi.
Di sicuro, non c’è motivo per non essere orgogliosi di tutto questo.
L’economia volgare e il capitale produttivo d’interesse
Con questa riunione si è conclusa la serie dei rapporti incentrati sullo studio delle Teorie sul Plusvalore di Marx. L’esposizione si è concentrata sui capitoli dedicati alla cosiddetta economia volgare, stadio finale della decadente scienza borghese, tappa nella quale il mondo appare completamente capovolto, fedele immagine della superficie del modo di produzione capitalistico. In questo specchio la terra diventa la fonte della rendita fondiaria, il capitale del profitto e il lavoro del salario. Gli economisti volgari traducono le rappresentazioni di coloro su cui poggia la produzione capitalistica dal punto di vista della classe dominante, ne fanno l’apologia.
Di tutte queste forme, il feticcio più compiuto è il capitale produttivo d’interesse. Qui abbiamo il punto di partenza originario del capitale – il denaro – la formula D-M-D’ ridotta ai suoi due estremi D-D’, denaro che crea più denaro. Il capitale in un determinato periodo di tempo frutta un determinato profitto, senza la mediazione del processo di produzione e circolazione; il feticcio automatico si completa, è il valore che valorizza sé stesso, e in questa forma non porta più i segni della sua origine. Il rapporto sociale viene rappresentato come rapporto della cosa con sé stessa.
Poiché, in base ai rapporti di produzione capitalistici, una determinata somma di valore conferisce il potere di estrarre gratuitamente dagli operai una determinata quantità di lavoro, il denaro stesso può esser venduto come capitale, ma come una merce sui generis. Col denaro io permetto a un altro di appropriarsi di plusvalore. È dunque consequenziale che io riceva una parte di tale plusvalore.
Poiché nel processo capitalistico di produzione il valore del capitale si perpetua, è logico che, se si vende il denaro come capitale, esso dopo un certo periodo di tempo ritorni al venditore e che egli non lo alieni mai come fa con la merce, ma ne conservi la proprietà. Lo spostamento del denaro, quando è prestato come capitale, e quindi non viene trasformato in capitale reale ma entra come capitale nella circolazione, non esprime altro che trasferimento del medesimo denaro da una mano all’altra. Il titolo di proprietà resta nelle mani del prestatore, ma il possesso passa nelle mani del capitalista industriale.
Il periodo di rotazione dipende dal processo reale di produzione. Nel capitale produttivo d’interesse invece il suo ritorno come capitale pare dipendere unicamente dalla convenzione fra colui che presta e colui che prende in prestito, di modo che, per effetto di questa transazione, il ritorno del capitale non appare più come un risultato determinato dal processo di produzione, ma è come se il capitale non perdesse neppure per un istante la forma di denaro. L’interesse, in quanto distinto dal profitto, rappresenta il valore della mera proprietà del capitale.
L’interesse non è che una parte del profitto classificata sotto un nome a sé. L’interesse appare qui come ciò che è inerente al capitale come tale, indipendentemente dal processo di produzione, e quindi alla mera proprietà del capitale, indipendentemente dai rapporti che danno a questa proprietà il carattere della proprietà capitalistica, contrapposto al lavoro.
Se l’interesse appare come una creazione di plusvalore inerente alla mera proprietà del capitale, il profitto industriale appare invece come una mera aggiunta che colui che prende in prestito il capitale realizza con l’impiego produttivo che ne fa. È l’interesse e non il profitto che appare come la creazione di valore del capitale, che scaturisce dal capitale come tale, quindi come il reddito particolare creato dal capitale. È in questa forma, perciò, che lo concepiscono anche gli economisti volgari. In questa forma è cancellata ogni mediazione, e la figura di feticcio è compiuta.
Al saggio generale del profitto corrisponde un saggio generale dell’interesse. Il saggio generale del profitto appare come un fatto incomparabilmente meno solido che il saggio dell’interesse. Per alcuni anni il saggio del profitto in determinate sfere è più alto, negli anni seguenti è più basso. Considerando gli anni nel loro insieme ne risulterà il saggio di profitto medio. In questo modo, però, esso non si manifesta mai come un dato immediato, ma solo come la risultante di oscillazioni contraddittorie.
Per il tasso d’interesse le cose stanno diversamente. Nella sua generalità è un fatto fissato quotidianamente, che al capitalista industriale serve perfino come un elemento di calcolo. Un tasso d’interesse determinato e fisso esiste non soltanto in media, ma anche di fatto, mentre sono piuttosto le deviazioni che appaiono come eccezioni motivate da circostanze particolari.
Per il capitale monetario si contrappongono solo due specie di compratori e venditori. Da un lato la classe di capitalisti che prestano, dall’altro quella dei capitalisti che prendono a prestito. La merce ha la medesima forma: denaro. Tutte le forme particolari che il capitale assume a seconda della particolare sfera di produzione o di circolazione, in cui è investito, sono qui cancellate. La concorrenza delle sfere particolari qui cessa: sono tutte raggruppate in quanto tutte prendono a prestito. Il capitale si contrappone ad esse nella forma in cui è ancora indifferente alle forme del suo impiego.
A ciò si aggiunge il fatto che con lo sviluppo della grande industria il capitale monetario è sempre meno rappresentato dal singolo capitalista, ma si concentra e si presenta come il controllo dei banchieri che rappresentano il capitale. Di modo che, per quanto riguarda la forma della domanda, gli si contrappone il peso di una classe, ma in pari tempo, per ciò che riguarda l’offerta, si rappresenta come capitale prestabile en masse.
Il denaro come la forma modificata della merce era ciò da cui siamo partiti. Il denaro come la forma modificata del capitale è ciò a cui perveniamo.
In conclusione si sono affrontate le differenze essenziali tra l’economia classica e la volgare, in quanto la prima cerca di ricondurre analiticamente le differenti forme della ricchezza alla loro intima unità e di spogliarle della figura di indifferente giustapposizione. Vuol comprendere il nesso interiore a differenza della molteplicità delle forme di manifestazione. Perciò riduce la rendita a sovrapprofitto. Allo stesso modo spoglia l’interesse della sua forma autonoma e rivela che è una parte del profitto. Questo si risolve in plusvalore, poiché il valore dell’intera merce si risolve in lavoro; la quantità pagata del lavoro in essa contenuto si risolve in salario, e quindi l’eccedenza si risolve in lavoro non pagato.
Diversamente stanno le cose per l’economia volgare, la quale si fa largo solo quando l’economia con la sua analisi ha già dissolto i propri presupposti. Solo quando l’economia politica ha raggiunto una certa ampiezza di sviluppo e si è data forme stabili la sua componente volgare se ne stacca come esposizione particolare dell’economia.
L’ultima forma è la forma professorale, che procede “storicamente” e, con saggia moderazione, raccoglie qua e là il “meglio”, senza badare a contraddizioni. Lavori di questo genere appaiono però solo quando si chiude il cerchio dell’economia politica come scienza e, pertanto, sono nello stesso tempo le tombe di questa scienza.
Mentre la forma dell’estraniazione dà da fare agli economisti classici, ed essi tentano di disfarsene con l’analisi, l’economia volgare si sente invece a suo agio soltanto nell’estraneità in cui si contrappongono le differenti partecipazioni al valore. Come uno scolastico si trova a suo agio in Dio-Padre, Dio-Figlio e Dio-Spirito Santo, così l’economista volgare in terra-rendita, capitale-interesse e lavoro-salario. È questa la forma in cui tali rapporti sembrano immediatamente connessi nella manifestazione, ed è in questa forma che vivono nelle idee degli agenti della produzione capitalistica.
Gli agenti della produzione capitalistica vivono in un mondo stregato in cui le sue relazioni appaiono loro come proprietà delle cose. Il capitale produttivo d’interesse è personificato nel capitalista monetario, quello industriale nel capitalista, il capitale produttivo di rendita nel proprietario fondiario e il lavoro nell’operaio salariato. Con quest’aspetto, come figure fisse che appaiono come meri rappresentanti di oggetti personificati, entrano nella concorrenza e nel reale processo di produzione. La concorrenza presuppone questa esteriorizzazione. Sono le forme che le sono consone, naturali e storiche, e nella loro manifestazione superficiale è il movimento di questo mondo capovolto.
La questione agraria in Kautsky
Il rapporto sulla questione agraria ha affrontato i rapporti di produzione e il cosiddetto “sistema a tre campi” che caratterizzava l’economia rurale nel medioevo. In questa parte del lavoro si è utilizzato il testo La questione agraria di Kautsky, che ha analizzato in maniera chiara, da un punto di vista marxista, questa determinata fase del modo di produzione feudale.
I rapporti di proprietà e i modi di conduzione che si erano sviluppati nelle campagne dopo le tempestose migrazioni dei popoli nei paesi occupati dai Germani, si conservarono, con poche eccezioni, fino al XVIII secolo inoltrato. Vi si trovava un coesistere della proprietà comune della terra, richiesto per lo sfruttamento dei pascoli, e la proprietà privata, con sfruttamento dei campi da parte della famiglia contadina. Se ogni famiglia contadina formava una comunità domestica, ogni villaggio era una comunità economica chiusa, autosufficiente, la cosiddetta comunità di marca. Con il sistema a tre campi produceva dalla terra quanto serviva al suo fabbisogno, senza gli inconvenienti dello sfruttamento intensivo adottato in seguito dal modo di produzione capitalistico, che ha isterilito enormi estensioni di territorio rurale.
Leggiamo Kautsky: «Il punto di partenza dell’azienda contadina fu la masseria divenuta proprietà privata. Essa comprendeva, oltre la casa e gli edifici aziendali necessari, un recinto di terra attorno al fabbricato. La recinzione comprendeva l’orto nel quale si trovavano gli erbaggi più necessari, con legumi, lino, alberi da frutta ecc. Il villaggio era composto da un numero più o meno grande di simili masserie. Al di fuori del villaggio si trovava il territorio suddiviso, i campi da coltivare. Questo territorio, dove dominava la coltura a tre campi, nella maggior parte dei casi si divideva in tre Fluren o Zelgen. Ogni Zelge si divideva a sua volta in vari Gewanne o Kampe, cioè in superfici coltivabili che differivano tra loro per esposizione e qualità del suolo. In ciascun Kampe ogni masseria possedeva un lotto di terra in proprio.
«Al di fuori del territorio suddiviso vi era un territorio non suddiviso (Allmende, territorio comune), cioè la foresta e i pascoli. Il territorio non suddiviso veniva sfruttato in comune dalla comunità. Sulla terra arabile ogni famiglia coltivava per sé stessa i lotti di sua proprietà, ma non secondo il suo arbitrio. Nei campi si coltivavano i cereali per l’alimentazione umana. Ma l’allevamento, lo sfruttamento dei pascoli, dominava ancora tutta l’economia agricola. E se la coltivazione della terra era divenuto affare privato delle diverse famiglie, lo sfruttamento dei pascoli rimaneva affare di tutta la comunità.
«Questa forma di economia reagì sui rapporti di proprietà. Come terra arabile il suolo era proprietà privata, come pascolo proprietà comune. Ogni campo dopo il raccolto era abbandonato al pascolo, e come tale a disposizione della comunità per il pascolo in comune. Anche le terre incolte erano utilizzate come pascolo comune per tutto il bestiame del villaggio. Ciò sarebbe stato impossibile se ogni famiglia del villaggio avesse coltivato il proprio lotto di terra a suo arbitrio. Così esisteva un obbligo di coltura all’interno di ogni Flur o Zelge. Ogni anno una delle tre sezioni di terra arabile restava non coltivata, una seconda era destinata alla coltivazione dei prodotti seminati in autunno, una terza alla coltivazione dei grani primaverili. Ogni anno si ruotava la cultura delle sezioni...
«Questo sistema di conduzione agricola dominò dovunque si erano stabiliti popoli germani. Che i contadini fossero in condizioni di conservare completamente la loro libertà, che vi fossero stabiliti censitari del dominio di un signore, che avessero rinunciato alla loro indipendenza per mettersi sotto la protezione di un potente padrone o che fossero stati asserviti con la forza, tutto ciò non faceva, da questo punto di vista, nessuna differenza.
«Era un sistema di conduzione di una efficacia e di resistenza considerevoli, veramente conservatore, nel senso migliore della parola. Il benessere e la sicurezza dell’esistenza del contadino si fondavano sull’organizzazione della comunità di marca, oltre che sull’artigianato domestico. Il sistema a tre campi, con la foresta e il pascolo, non aveva bisogno di rifornimenti dall’esterno, producendo da sé il bestiame e i concimi necessari per coltivare la terra e impedire l’esaurimento del suolo. D’altra parte la comunanza dei pascoli e dei campi coltivati creava fra i membri del villaggio una solida coesione che li difendeva efficacemente da uno sfruttamento eccessivo da parte di forze esterne».
Kautsky così conclude con l’inesorabile avvento del modo di produzione capitalistico: «Ma per quanto solido fosse questo sistema di economia, lo sviluppo dell’industria urbana, e correlativamente del commercio, lo colpì a morte, così come colpì l’artigianato contadino».
L’esposizione è proseguita illustrando le varie fasi e le modalità di questa produzione, compresi i cosiddetti diritti banali, che trassero origine in molte marche dei villaggi dall’imposizione di consumare tutto quanto si produceva all’interno della marca stessa. Le restrizioni imposte dai diritti banali stridevano nettamente con ciò che il divenire del mercato imponeva al contadino e alla produzione agricola. L’equilibrio economico della marca fu presto turbato: i prodotti della terra divennero merci e ricevettero un valore di mercato, anche il suolo stesso divenne merce e acquisì un prezzo. Quanto più, all’inizio dell’epoca moderna, la produzione mercantile agricola si espandeva, tanto minore diventava quella sovrabbondanza di terra che avevano trovato i germani, in regioni dove aveva dominato l’economia pastorale nomade, completata da un’estesa caccia e una limitata e primitiva coltivazione dei campi.
Il rapporto dava ancora la parola a Kautsky: «All’inizio del XV secolo le guerre degli Ussiti in Boemia e il rovesciamento della potenza dell’Ordine teutonico in Polonia posero fine all’ulteriore avanzata della colonizzazione tedesca verso Oriente. Ma nella stessa epoca la popolazione dell’Europa centrale, se non aveva ancora raggiunto il massimo reso possibile dal suo modo di produzione, aveva tuttavia raggiunto uno sviluppo sufficiente a far sì che cessasse la sovrabbondanza della terra. Così sorse la possibilità nonché l’aspirazione di monopolizzare quello che è il più importante dei mezzi di produzione. Per questo si sprigionarono le lotte più accanite e violente fra i contadini e la nobiltà, lotte che sono durate fino ai nostri tempi e che, a dire il vero, non hanno mai cessato del tutto, ma le cui battaglie decisive si sono combattute in Germania fin dal XVI secolo. I loro risultati furono quasi dappertutto favorevoli alla nobiltà feudale, che si sottometteva alla potenza crescente dello Stato ed otteneva così il suo aiuto contro i contadini.
«La nobiltà vittoriosa cominciò essa stessa a produrre merci in un modo che costituisce una singolare mescolanza di capitalismo e di feudalesimo. Essa cominciò a produrre plusvalore in grandi aziende, non impiegando però ordinariamente lavoro salariato, ma lavoro forzato di tipo feudale. La sua politica forestale così come il suo sfruttamento dei pascoli e della terra riduceva il territorio dei contadini e minava l’equilibrio del sistema a tre campi.
«Quello che conveniva di più all’azienda feudale-capitalistica, alla produzione mercantile in grandi aziende nella campagna, era la silvicoltura. Da quando lo sviluppo delle città aveva fatto del legname una merce ricercata – e allora non era ancora stato sostituito dal carbone e dal ferro, ed era quindi assai più usato che non al giorno d’oggi come combustibile e come materiale da costruzione – i signori feudali cercarono di impadronirsi della foresta prendendola alla comunità della marca che la possedeva, o, nel caso che fosse già di loro proprietà, limitando il più possibile i diritti di uso dei membri della marca per quanto riguardava i rifornimenti di legname e di paglia, e l’utilizzazione dei pascoli (…)
«L’esclusione dei contadini dall’uso della foresta fu favorito dallo sviluppo della caccia. Le armi da caccia erano originariamente anche armi da guerra e la caccia stessa era la scuola preparatoria alla guerra. Finché la caccia fu necessaria per sopperire ai bisogni dell’uomo libero, questi fu anche un guerriero. Quando la caccia passò in secondo piano rispetto alla coltivazione del suolo come fonte dei mezzi di sussistenza, ciò portò a una divisione del lavoro tra “ceto produttore di mezzi di sussistenza” e “ceto guerriero”, che in verità aveva anche altre cause. Viceversa quanto più la guerra toccava esclusivamente alla nobiltà, tanto più la caccia divenne uno sport esclusivamente nobile».
La ricostruzione di questa fase storica è stata approfondita con la lettura di un paragrafo dei Grundrisse di Marx dal titolo “Agricoltura domestica all’inizio del XIV secolo” circa la produzione degli utensili di lavoro da parte degli stessi farmers. Si è poi ricordato come lo sviluppo della produzione mercantile avesse l’effetto di una limitazione crescente della terra coltivabile a disposizione dei contadini, in particolare di prati e boschi. Questo avvenne molto prima che si presentasse una effettiva sovrappopolazione, ovvero prima ancora che si superasse quella quota di popolazione che potesse essere comunque nutrita dal sistema predominante di sfruttamento della terra. Di conseguenza «l’esistenza del contadino fu così colpita alle fondamenta».
Il terzo congresso del Partito Comunista di Cina
Nel maggio del 1923, con le “Istruzioni dell’Esecutivo al terzo Congresso del PCdC” i vertici dell’Internazionale chiarivano alcuni aspetti relativi alla rivoluzione nazionale in Cina.
Innanzitutto sulla questione contadina si affermava: «la rivoluzione nazionale in Cina e la creazione di un fronte antimperialista coincideranno necessariamente con la rivoluzione agraria dei contadini contro le sopravvivenze del feudalesimo. La rivoluzione sarà vittoriosa soltanto se il movimento riuscirà ad attrarre la componente fondamentale della popolazione cinese, i contadini (...) Di conseguenza il partito comunista, come partito della classe operaia, deve tendere a stabilire l’unità fra gli operai e i contadini».
Parole d’ordine della rivoluzione agraria dovevano essere: «la confisca delle terre dei grandi proprietari fondiari, dei monasteri e della Chiesa, il loro trasferimento senza indennizzo ai contadini (...) l’abolizione del canone di locazione (...) la soppressione dell’attuale sistema tributario».
Il documento continuava con importanti dichiarazioni sull’atteggiamento del Partito nella rivoluzione in Cina: «È superfluo sottolineare che la direzione deve appartenere al partito della classe operaia (...) Rafforzare il partito comunista facendone un partito di massa del proletariato, riunire le forze della classe operaia in sindacati, questo è il compito che incombe ai comunisti».
Era però nella delicata questione dei rapporti con il Kuomintang che iniziava ad essere smarrita la corretta strada rivoluzionaria, sia illudendosi di potere utilizzare tale partito come strumento della rivoluzione nelle campagne, ma soprattutto confermando la pericolosa politica di lavorare al suo interno: «Il partito comunista deve costantemente spingere il Kuomintang dalla parte della rivoluzione agraria (...) Confisca della terra in favore dei contadini poveri, e attuare tutta una serie di altre misure rivoluzionarie» nelle zone occupate da Sun Yat-Sen, per «garantirgli l’appoggio dei contadini e allargare la base della rivoluzione antimperialista».
«D’altra parte dobbiamo lottare con ogni mezzo all’interno del Kuomintang contro qualsiasi accordo militare fra Sun Yat-Sen e i signori della guerra».
Se da un lato si poneva correttamente la questione contadina alla base della rivoluzione in Cina, ponendo la classe operaia alla testa delle masse contadine, dall’altro lato si pensava di potere spingere il Kuomintang a sostenere la rivoluzione nelle campagne, nonostante l’orientamento di questo partito nei confronti della questione agraria fosse già stato criticato al Congresso dei Toilers dell’anno precedente.
Mancava una sufficiente chiarezza circa la natura sociale del partito nazionalista e della situazione nelle campagne cinesi, dove, accanto alle sopravvivenze feudali, vi era una grande borghesia legata da stretti vincoli alla vecchia proprietà fondiaria, in un complicato intreccio fatto di percettori di affitto, usurai, mercanti, funzionari statali, proprietari di fabbrica, e personaggi che univano due o più di queste funzioni, interessati gli uni come gli altri a spremere il contadiname e mantenerlo in soggezione.
Tale mancanza di chiarezza portava ad omettere la conclusione, che la grande borghesia cinese, legata da interessi economici alla vecchia proprietà feudale, sarebbe stata disposta a fare blocco comune con le rimanenze della Cina preborghese per difendere i propri privilegi contro gli operai e i contadini, il cui movimento rivoluzionario avrebbe mandato all’aria l’intera struttura politica e sociale della Cina di allora.
Il terzo Congresso del Partito Comunista di Cina fu convocato a Canton per il giugno del 1923, sotto la supervisione di Maring, con la partecipazione di 17 delegati in rappresentanza di oltre 400 membri (l’anno precedente erano stati circa 200). Il principale risultato del Congresso fu l’approvazione da parte della maggioranza dei delegati della linea dell’ingresso dei comunisti nel Kuomintang. Ma la discussione fu ampia e aspra, con un gruppo di delegati che si opposero apertamente e nettamente, e molti altri che votarono a favore con riluttanza.
La questione al centro della disputa al terzo Congresso era una continuazione di quanto già emerso l’agosto dell’anno prima, subito dopo il secondo Congresso del PCdC, che aveva affermato la centralità della rivoluzione nazionale e la necessità della cooperazione tra il PCdC e il Kuomintang. La questione che venne discussa era la forma che doveva assumere questa cooperazione, e se, dopo che era stato stabilito di lavorare al suo interno nel Plenum dell’agosto del 1922, tutti i membri del PCdC o solo un limitato numero di essi dovessero entrare nel Kuomintang.
L’interpretazione che Maring dava delle istruzioni ricevute da Mosca era che tutti i membri del PCdC, senza nessuna eccezione, dovessero unirsi al Kuomintang e partecipare attivamente al lavoro all’interno del partito nazionalista. Si escludeva pertanto la possibilità di limitare la partecipazione per tenere in vita un campo rivoluzionario con diversi partiti e gruppi politici. Dato che il compito centrale in Cina era rappresentato dalla rivoluzione nazionale, tutto il lavoro avrebbe dovuto essere fatto dal Kuomintang.
Restava l’indipendenza organizzativa del PCdC e la sua libertà di critica, ma essendo il movimento operaio, benché indipendente, parte della rivoluzione nazionale, il PCdC avrebbe dovuto reclutare un gran numero di lavoratori per il Kuomintang, accettandone la guida nella rivoluzione nazionale.
Alla base della posizione di Maring era una valutazione piuttosto riduttiva della forza del Partito Comunista di Cina. «Il nostro gruppo è ancora tale che non si può chiamare Partito» scriveva Maring nel suo rapporto all’ECCI del 31 maggio 1923, mentre in una lettera a Bucharin dello stesso giorno scriveva: «La Cina è molto arretrata rispetto all’India e alle Indie olandesi. La situazione economica è tale che parlare di partito comunista nella fase attuale è un’utopia. Avrà origine in un ulteriore sviluppo del movimento nazionalista». Tale valutazione negativa della situazione cinese portava a vedere nel Kuomintang il protagonista e l’unica guida possibile della rivoluzione in Cina, in cui far confluire le già esigue forze comuniste.
Il terzo Congresso del PCdC accolse la linea promossa da Maring e sostenuta dall’Internazionale e adottò nuove risoluzioni per riorientare la politica del partito rispetto alle decisioni che erano state prese al congresso dell’anno precedente.
Ciò è quanto veniva espresso nella “Risoluzione sul movimento nazionalista e la questione del Kuomintang”: «Dal momento che la classe operaia non è diventata potente, naturalmente non è possibile sviluppare un PC forte, un grande partito di massa, per soddisfare le esigenze dell’attuale rivoluzione. Pertanto l’ECCI ha approvato una risoluzione secondo cui il PCdC deve cooperare con il KMT cinese. I membri del PC devono aderire al KMT».
I punti fondamentali dei documenti congressuali furono poi riportati nel Manifesto del Congresso, che affermava perentorio: «Il KMT dovrebbe essere la forza centrale della rivoluzione nazionale e assumerne la guida».
Quindi al terzo Congresso furono prese decisioni sul tema dell’indipendenza politica e organizzativa del Partito Comunista di Cina, il quale, abdicando al ruolo di guida della rivoluzione in Cina in favore del partito della borghesia cinese, veniva fatto scivolare nel pantano del menscevismo.
Anzi, la strada che si stava per intraprendere in Cina era anche peggiore di quella percorsa dal menscevismo russo, in quanto, mentre i menscevichi russi avevano potuto mantenere la loro indipendenza organizzativa, separati dal partito della borghesia russa, i comunisti cinesi furono spinti all’interno del partito della borghesia cinese, e vi restarono intrappolati fino al sanguinoso epilogo nel 1927.
Questo sconfinamento nel pantano dell’opportunismo ha certamente per protagonisti degli interpreti che si sono fatti portavoce di clamorosi errori rispetto alla teoria rivoluzionaria restaurata dalla Terza Internazionale nei suoi primi due Congressi. Ma lo stravolgimento della corretta prospettiva rivoluzionaria affonda le sue radici nell’andamento della rivoluzione mondiale che, se aveva portato alla conquista del potere in Russia, ritardava ad estendersi nei paesi capitalisticamente sviluppati d’Europa.
Le esigenze della sopravvivenza dello Stato sovietico premevano sulla sua politica estera, che veniva orientata alla ricerca di alleati, temporanei, nel resto del mondo borghese e anche preborghese, per poter far leva sui contrasti dei principali imperialismi e indebolirli. Gli interessi diplomatici dello Stato sovietico, isolato in seguito al riflusso della rivoluzione mondiale, richiedevano un governo amico in Cina. Tale ricerca di un alleato in Oriente, fece individuare nel Kuomintang, col suo centro di potere nella Cina del Sud, l’alleato su cui puntare in Cina. Da quel momento, la politica estera sovietica in Cina si focalizzò sul mantenimento della cooperazione con la fazione liberale della borghesia.
Fu da questa esigenza che scaturì l’ordine al PCdC di unirsi al KMT fin dall’estate del 1922, tattica che veniva definitivamente approvata al terzo Congresso. Il prezzo pagato fu la consegna del PCdC al Kuomintang, la sua subordinazione al partito della borghesia cinese e la perdita della sua indipendenza politica ed organizzativa.
FINE DEL RESOCONTO AL PROSSIMO NUMERO
I media croati di recente hanno riferito di diverse aggressioni ai danni di lavoratori immigrati a Zagabria. Il primo caso risale al 3 gennaio, quando un lavoratore nepalese è stato aggredito davanti al suo posto di lavoro, un supermercato nella parte orientale della città. Pochi giorni dopo una donna filippina è stata minacciata nel centro cittadino.
Questi sono sintomi di come in Croazia negli ultimi anni sia cresciuto il sentimento razzista e xenofobo in seguito al forte incremento di lavoratori stranieri, provenienti prevalentemente dal Nepal, dall’India e dalle Filippine. I social media sono infestati da pagine di odio, diffuso attivamente dai politici nazionalisti nell’intento di seminare la discordia tra i lavoratori locali e gli stranieri. Purtroppo, in mancanza di un forte movimento operaio e di un forte partito comunista, questo tipo di retorica indegna sta prendendo piede tra gli elementi più arretrati del proletariato croato.
La Croazia è stata per secoli una terra di emigrazione e lo è tuttora. Se nel 2022 ha registrato un saldo migratorio positivo – per la prima volta dopo decenni – ciò è stato possibile solo grazie al grande afflusso di rifugiati ucraini, in seguito alla guerra con la Russia.
Per contro i croati che hanno lasciato il paese in modo più o meno permanente nel 2022 sono stati 46.287, il secondo numero più alto degli ultimi dieci anni, dato che il record si era avuto nel 2017 con 47.352 emigrati. Questo significa che negli ultimi anni la tendenza dei lavoratori croati a trasferirsi negli Stati dell’Europa occidentale – in particolare la Germania e l’Irlanda – è rimasta praticamente invariata.
Tuttavia, questo esodo di lavoratori dalla Croazia ha lasciato diversi settori economici – in particolare il turismo, i servizi e l’edilizia – in una situazione di carenza di manodopera. Onde evitare di offrire salari più alti, la borghesia croata ha fatto pressione sul governo affinché allentasse i requisiti necessari per ottenere i permessi di lavoro. Il risultato è stato un aumento vertiginoso del numero di lavoratori immigrati: nel 2022 sono stati rilasciati circa 109.000 permessi di lavoro temporanei a lavoratori extracomunitari, e il numero ha probabilmente superato i 150.000 nel 2023, anche se le statistiche esatte non sono ancora disponibili. Mentre molti di questi lavoratori provengono ancora dai “tradizionali” paesi di origine nei Balcani (Bosnia, Serbia, Macedonia…), ora un numero crescente di lavoratori arriva dall’Asia.
I lavoratori asiatici in Croazia sono generalmente trattati in modo vessatorio e disumano dai loro padroni. Sono diffusi in tutto il paese i racconti dell’orrore sugli alloggi sovraffollati in cui al disagio abitativo si uniscono pessime condizioni igieniche, sui salari non pagati e sugli abusi sul posto di lavoro. I salari dei lavoratori immigrati sono spesso mantenuti al minimo legale, se non al di sotto, attraverso una miriade di espedienti truffaldini. Le ore di lavoro spesso superano il massimo legale e le agenzie che li impiegano “in somministrazione” li sottopongono a costanti ricatti.
Qualsiasi tipo di organizzazione sindacale per difendere i loro interessi, o anche soltanto la denuncia delle orribili condizioni di vita, possono portare alla revoca del permesso di lavoro, che li costringerebbe a lasciare il Paese “volontariamente” o tramite deportazione da parte dello Stato. Questi rimpatri forzati significano per loro la completa rovina, dal momento che per arrivare in Europa hanno dovuto contrarre debiti fra i 3.000 e i 10.000 euro, cifre che non potrebbero in alcun modo restituire con i salari che guadagnerebbero in Asia. Spesso devono lavorare per anni in Europa per ripagare questi debiti mentre su di loro grava, oltre al proprio sostentamento, anche il mantenimento delle famiglie rimaste in patria.
Fortunatamente, non tutte le notizie sono negative. Mentre i politici di destra cercano di convincerci che i lavoratori stranieri non meritino salari più alti e i politici di sinistra affermano che, purtroppo, non è “realistico” ottenere aumenti di paga, i lavoratori immigrati hanno incominciato a organizzarsi da soli. Nell’aprile del 2023, alcune decine di lavoratori nepalesi hanno tenuto una riunione a Zagabria, in cui hanno dichiarato la loro intenzione di lottare per ottenere migliori condizioni di lavoro e la loro volontà di organizzarsi avvalendosi dell’aiuto di alcuni fra i sindacati più radicali della Croazia, come il Novi Sindikat.
L’esodo dei lavoratori croati e l’afflusso di lavoratori stranieri sono entrambi causati dalle esigenze dell’accumulazione capitalistica, la quale negli ultimi anni ha subito un notevole rallentamento a causa dell’approfondirsi della crisi. I capitalisti croati e i rappresentati dallo Stato croato, desiderano vogliono aumentare l’accumulazione della loro ricchezza e quindi devono mantenere bassi e stagnanti i salari dei lavoratori. Questo spinge i lavoratori indigeni a spostarsi dove i salari sono più alti, e dunque devono essere sostituiti da lavoratori immigrati. Lo Stato capitalista favorisce questo processo, mantenendo gli immigrati in una condizione più ricattabile rispetto ai loro compagni di classe autoctoni. I media borghesi fanno di tutto per diffondere l’odio tra lavoratori autoctoni e stranieri, frapponendo nuovi ostacoli al dispiegarsi della loro reciproca solidarietà.
Per noi comunisti, tutti questi fatti portano alla necessità di adottare rivendicazioni e strategie di lotta che possono essere utili a tutti i proletari, indipendentemente dalla loro origine. I proletari croati, soprattutto quelli già organizzati nei sindacati più combattivi, devono rifiutare le menzogne razziste e nazionaliste dello Stato e dei media, e devono estendere la loro solidarietà ai compagni immigrati per lottare uniti per aumenti generalizzati dei salari e per sostanziali miglioramenti delle condizioni di lavoro per tutti.
Questo insieme di atteggiamenti e di azioni devono comprendere anche la lotta contro tutte le forme particolari di oppressione sul posto di lavoro che vengono imposte agli immigrati. Un movimento sindacale di classe di questo tipo è l’unico in grado di garantire migliorie concrete per i lavoratori, dato che una quota crescente della forza lavoro è composta da lavoratori migranti.
L’aumento della presenza della polizia o degli eserciti alle frontiere, così come le regolamentazioni draconiane delle migrazioni, sono strumenti contro la classe operaia, utilizzati per dividere i lavoratori immigrati dagli autoctoni e sfruttare meglio entrambi. Per difendere le loro condizioni economiche, i lavoratori croati devono aiutare i lavoratori immigrati a organizzarsi in sindacati e devono lottare per ottenere le stesse condizioni di lavoro e gli stessi diritti sociali e politici. Devono cioè lottare per l’unità della classe operaia, per l’unità delle lotte e per condizioni di vita migliori per tutti i lavoratori, perché solo così potranno resistere oggi allo sfruttamento capitalistico e domani abbattere l’ignobile regime politico e sociale basato sullo sfruttamento.