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Il cambiamento della testata di questo giornale non è dipeso da una nostra scelta, né da una pur minima necessità di discontinuità o rettifica con quanto pubblicato nei 428 numeri precedenti de “Il Partito Comunista”, e in tutta la stampa del partito, che rivendichiamo totalmente. Fatto è che, a seguito di una fuoruscita di un gruppo dal partito, ne abbiamo perduto la proprietà borghese.
Alle motivazioni di chi ha voluto prendere un’altra strada – fra le quali le questioni, ineludibili, del centralismo organico e dell’indirizzo sindacale – non stiamo qui a dare contraddittorio o confutazione: la risposta è scritta in chiare lettere in tutte le colonne di cinquanta anni dei nostri giornali e sarà confermata negli studi e approfondimenti che continueremo a esporre nelle nostre riunioni e a pubblicare nei numeri a venire.
Il ritardo in questa prima uscita di “Il Partito Comunista Internazionale”, del quale ci scusiamo con i nostri lettori, è dovuto ai tempi per la sua registrazione legale. Ritardo che sarà recuperato con i prossimi numeri.
Gli scontri di eserciti in Medio Oriente e in Ucraina non sono inseriti in alcuna prospettiva di sistemazione storica, né globale né regionale. Lo scopo della guerra imperialista è la guerra, la guerra dei capitali. Ed è anche una attività economica in sé, un ramo di industria.
Inoltre, nei suoi travestimenti nazionali e religiosi, serve a suscitare divisione e sgomento nei proletari.
Le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, non avevano alcuno scopo militare, né furono sganciate su basi navali o su complessi industriali. Furono invece scientemente utilizzate contro la popolazione. Ad agosto del 1945 la seconda guerra mondiale aveva già i suoi vincitori, ad oriente come in occidente. Serviva una sanzione ultima dello strapotere del capitalisti d’America, del conquistato loro impero mondiale.
Ma fu anche un “Vae victis” lanciato contro il proletariato, a ricordo di cosa è capace la borghesia per mantenere il proprio dominio. Il proletariato uscì dalla seconda guerra imperialista annichilito, politicamente sconfitto e prono agli interessi capitalistici della ricostruzione e dell’accumulazione dei capitali nazionali. In Russia la controrivoluzionaria ideologia staliniana era stata l’espressione della sottomissione della classe operaia al capitalismo di Stato interno, e nella guerra al fronte delle borghesie imperialiste “democratiche”. Era costata alla classe operaia decine di milioni di morti.
Iniziarono poi ottanta anni di pace sociale, di pace borghese, con ritmi di sfruttamento degli operai sempre più bestiali, e di rapina degli imperialismi in tutti gli angoli del mondo.
Ma l’economia capitalistica ha i suoi limiti. Il giganteggiare della produzione si scontra con un mercato sempre più ristretto; l’aumento smisurato della massa dei mezzi di produzione strangola il tasso del profitto. Il capitale oggi, sempre più affamato di profitti, come un mostro ferito corre impazzito il mondo per potersi investire.
Ma la sottomissione all’ordine già scricchiola nelle zone dove meno saldo è il dominio dei borghesi. Nei paesi di più recente formazione, con una estesa gioventù proletaria, la pace sociale è infranta da rivolte, ancora sporadiche, ancora scollegate e alle quali ancora manca una organizzazione e un indirizzo di classe.
In Medio Oriente
L’azione di Hamas del 7 ottobre si inserisce in questo contesto, dando il via ad una guerra non fra religioni e nazioni, ma fra colossi mondiali del capitale che nella ristretta regione si vengono a misurare e a sfidare, per interposta persona, rifornendo gli Stati e le milizie di infiniti giganteschi arsenali e con le portaerei alla fonda.
La guerra in Medio Oriente è utile a tutti i capitalisti, vicini e lontani. Fra l’altro sostiene il prezzo del petrolio. Ed è contro tutti i proletari, vicini e lontani.
Hamas, partito “terrorista” fondato con il sostegno finanziario dello Stato di Israele, avrebbe preordinato una incursione di tale dimensione senza che le onnipresenti spie del Mossad e della CIA ne avessero sentore e senza alcuna reazione difensiva dell’efficiente esercito israeliano.
Militarmente ha avuto il solo scopo di esacerbare gli animi nella certezza della immediata feroce rappresaglia dello Stato israeliano. Ad uso interno la guerra è necessaria ad Hamas, partito borghese, a mantenere sottomessa la massa dei diseredati nella striscia di Gaza.
I micidiali bombardamenti dell’aviazione israeliana non sono contro Hamas ma contro la popolazione, per spingerla, nella disperazione, a schierarsi con Hamas o a cercarne protezione. Bombardare militarmente non ha senso, nei tunnel sotto terra la vita continua, e le rovine sono solo un ostacolo all’azione dei blindati. Lo insegna la sconfitta tedesca a Stalingrado.
Ma i massacri dell’aviazione israeliana fanno comodo a tutte le borghesie dell’area. È un monito ai lavoratori, egiziani, siriani, israeliani, palestinesi, libanesi: la collera di fuoco della borghesia.
Ecco perché nella guerra imperialista, nella quale i briganti tra loro si spartiscono il bottino, per la classe operaia è profondamente sbagliato schierarsi.
Conoscere i rapporti e gli interessi degli imperialismi e i loro mutevoli schieramenti è importante, per confutare noi comunisti la menzogna che si nasconde dietro la loro “morale” e il loro falso “diritto internazionale”. Ma per la classe operaia il nemico è in casa propria. La guerra non è così lontana. Anzi la guerra di classe tutti i giorni il proletariato la combatte.
La borghesia ha i suoi centri di analisi e di studio per questioni militari ed economiche. Ma soprattutto ha il suo Stato, organo supremo per la sua difesa come classe. Il proletariato oggi ha il suo partito, domani anch’esso avrà il suo Stato, temporaneo ma inflessibile, che saprà affrontare i nemici Stati borghesi con il disfattismo e la guerra alla guerra.
In Ucraina
Mentre l’attenzione è rivolta ai massacri che si perpetrano in Medio Oriente, le forze armate russe segnano dei progressi nell’Ucraina orientale: nella regione meridionale del Donbass, il cuore industriale del Paese, hanno occupato la città mineraria di Vuhledar, dopo una resistenza di quasi tre anni. Pochi giorni dopo sono entrati a Toretsk, un’altro importante centro sulla via di Pokrovsk, fondamentale snodo di accesso alla regione.
La caduta di queste città confermano che l’Ucraina, nonostante le dichiarazioni bellicose del suo governo, dovrà arrendersi alla maggiore forza dei russi.
Anche durante questa dura battaglia, come in molti episodi di questa guerra, i soldati ucraini sono stati costretti dai loro comandi a resistere fino all’ultimo, anche quando era evidente che ogni ulteriore sacrificio sarebbe stato vano. Le truppe superstiti si sono dovute ritirare sotto il fuoco nemico, che si avvicinava da tre direzioni. Braccati dai droni sopra le loro teste pronti a lanciare granate, sotto il fuoco di mortai e razzi e con la costante minaccia delle bombe guidate, i soldati ucraini per salvarsi hanno dovuto fuggire a piedi.
Questo dimostra quanto il governo ucraino e lo Stato maggiore abbiano a cuore la sorte dei loro soldati,che difendono la “Patria aggredita”, sempre più spesso mandati al fronte senza adeguata formazione e armamento. Molte giovani reclute cercano di abbandonare il fronte, disertano.
La mancanza del partito di classe, l’assenza di un movimento operaio organizzato, e il conseguente dilagante individualismo, impediscono che oggi questo rifiuto a combattere assuma un aspetto collettivo, si trasformi in un moto contro la guerra imperialista che, partendo dalle trincee, coinvolga i proletari delle città, assumendo connotazioni classiste e anticapitaliste.
Le menzogne del borghese governo ucraino fanno il paio con quelle con cui l’altrettanto borghese governo russo difende la sua guerra, definita “operazione militare speciale”.
È una guerra in realtà contro l’Alleanza Atlantica e gli Stati Uniti, molto interessati a colpire, oltre che lo Stato russo, l’alleato tedesco e l’Europa in generale. Una Europa sempre più legata economicamente alla Russia e alla Cina.
I produttori di armi stanno ovunque facendo affari d’oro. Mentre al fronte molte decine di migliaia sono i proletari morti o mutilati, le industrie per la guerra lavorano a pieno ritmo. In Russia la disoccupazione sarebbe pressoché sparita. Il sangue dei proletari ucraini e russi è versato per la difesa degli interessi del capitale, dei fornitori di armi, degli industriali e dei banchieri. Con la guerra il capitalismo cerca di superare le sue crisi economiche di sovrapproduzione e regolare i conti fra imperialismi rivali, facendone pagare il prezzo ai suoi schiavi salariati.
Il dibattito sui missili a lungo raggio
A settembre nelle alte sfere della diplomazia di Stati Uniti, Gran Bretagna e degli Stati europei si è discussa la possibilità di concedere all’Ucraina di colpire in profondità il territorio russo con i missili forniti dai Paesi occidentali. Per il loro impiego infatti non basta il personale ucraino, ma necessitano i tecnici occidentali.
Gli “esperti” davano già la concessione scontata. Il ministro degli esteri del nuovo governo britannico a maggioranza laburista, ma militarista e guerrafondaio come il precedente “di destra”, si era perfino recato a Washington per spingere il presidente Biden a dare l’assenso. Ma alla fine questa decisione è stata nuovamente rimandata. La ragione può forse trovarsi nel minaccioso intervento del governo russo che ha dichiarato che avrebbe risposto in modo molto duro. Ma anche per i dubbi espressi da molti governi della stessa Nato, come la Germania e l’Italia.
L’uso di questi missili, da un punto di vista militare, non potrebbe cambiare le sorti del conflitto, e portare alla “vittoria” nel campo dell’Ucraina. La scorsa settimana sia il segretario statunitense alla Difesa Lloyd Austin sia il portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale John Kirby ne hanno chiaramente illustrato la sostanziale inutilità militare.
Ma Kiev insiste su questa richiesta solo per coinvolgere gli Alleati nella guerra: sa che non ha risorse per resistere ancora a lungo e cerca un inasprimento del conflitto e il suo allargamento.
Il governo russo, da parte sua, ha detto chiaramente che se sarà concessa la possibilità di lanciare quei missili, si considererà in guerra con la Nato, risponderà sul piano militare e ha minacciato addirittura l’uso della bomba atomica.
Il Parlamento europeo, che vede nella guerra un buon affare e nei carri armati un utile sostituto alle auto elettriche, “ecologiche” ma che non “tirano”, ha approvato una risoluzione che chiede agli Stati di rimuovere le restrizioni sull’utilizzo dei sistemi d’arma forniti a Kiev contro obiettivi militari russi. Questa decisione pur non essendo vincolante per i singoli Stati, dimostra che quello europeo e un consesso di lobbisti guerrafondai. Lo conferma la nomina a Commissario europeo alla Difesa dell’ex premier lituano Andrius Kubilius, membro del Partito della Patria e del gruppo europeo dei Conservatori, fortemente anti-russo.
L’avventurosa incursione verso Kursk
All’inizio di agosto l’Ucraina ha lanciato un’audace offensiva nella regione russa di Kursk, sfruttando la sorpresa e la velocità per aggirare le difense russe. Le operazioni sono state condotte da un gruppo misto di unità, per un totale di circa 10.000-15.000 uomini, con elementi delle brigate regolari e delle forze per le operazioni speciali. Si tratta di alcune delle migliori e più esperte truppe ucraine. Alcune sono state ritirate dai fronti di Donetsk e Kharkiv, dove stavano combattendo contro l’avanzata russa, mentre altre sarebbero servite come importante riserva per arginarla.
Questa operazione, che ha subito ricevuto l’appoggio delle diplomazie occidentali e che è stata preparata in collaborazione con i servizi segreti della Gran Bretagna e probabilmente anche degli Stati Uniti, si sta risolvendo in un grave insuccesso.
Lo scopo probabilmente era la conquista e il controllo della centrale nucleare di Kurchatov e del nodo di distribuzione energetica di Sudzha, oltre che costringere i russi a distrarre una parte delle loro truppe dall’offensiva nel Donetsk.
Nessuno dei due obbiettivi è stato raggiunto. La centrale atomica è rimasta in mano ai russa, i quai hanno sfruttato la superiore disponibilità di mezzi e soldati per fermare l’avanzata ucraina senza distogliere reparti dal fronte del Donetsk. Lo stesso comandante in capo delle Forze Armate ucraine, Oleksandr Syrsky, ha dichiarato che la Russia ha intensificato gli sforzi e schierato le sue unità più pronte al combattimento sul fronte di Pokrovsk, a Donetsk.
Inoltre l’invasione del territorio russo da parte di truppe nemiche, con il palese appoggio tecnico, materiale e addestrativo delle potenze occidentali, ha rafforzato la propaganda moscovita basata sulla sindrome dell’accerchiamento della Patria e dell’aggressione da parte dell’Occidente.
La diplomazia parla di pace mentre allarga la guerra
Le difficoltà delle Forze armate ucraine si riflettono nelle recenti dichiarazioni del presidente Zelensky che, mettendosi contro una legge da lui stesso fatta approvare, ha proposto di invitare la Russia al prossimo vertice di pace che dovrebbe tenersi a novembre. Pochi giorni dopo ha fatto un nuovo viaggio negli Stati uniti per presentare il suo borioso “Piano per la vittoria” e per chiedere nuovi prestiti e nuove armi per continuare la guerra.
Secondo il Financial Times l’Ucraina e i suoi alleati stanno valutando un possibile accordo che prevederebbe l’ingresso di Kiev nella Nato in cambio di un compromesso sui territori occupati dalla Russia. La Russia otterrebbe il controllo “de facto” ma non “de jure” dei territori ucraini attualmente occupati, una finzione del governo ucraino per giustificare di fronte al suo popolo i sacrifici, le privazioni, le nefandezze che ha imposto per alimentare la guerra.
Questa situazione di incertezza e di vuoto diplomatico aumenta il pericolo di provocazioni che potrebbero determinare un allargamento del conflitto. I colpi inferti negli ultimi giorni su importanti depositi di munizioni all’interno della Russia paiono rispondere a volontà provocatoria più che a risultati sul piano militare. L’Ucraina rischia di collassare e i suoi governanti rischiano la testa, mentre la millantata riconquista di “tutti i territori occupati” esigerebbe costi in uomini e in armi che non solo l’Ucraina ma neppure i suoi alleati occidentali possono permettersi e vogliono accollarsi.
Anche il governo russo, che ha immediatamente respinto l’invito a partecipare a trattative di pace, ha da risolvere non pochi problemi. Sebbene decine di migliaia di giovani uomini siano stati sacrificati in questa guerra e molte voci anche in Russia siano pronte a chiederne ragione, per Mosca la sola occupazione del Donbass probabilmente non sarebbe sufficiente a dare le ricercate garanzie di sicurezza, soprattutto se l’Ucraina, pur mutilata di una parte del suo territorio, entrasse nella Nato. Gli obbiettivi della Russia dunque potrebbero ampliarsi e la guerra continuare.
Ma anche quando si dovesse arrivare a una pace, non potrà rappresentare che una incerta tregua in vista della guerra generale che si prepara.
Il proletariato, quello ucraino come quello di Russia, che in questi anni hanno subito privazioni e morte a causa della guerra dei loro capitalisti, ne traggano le dolorose lezioni e si rivolgano contro il criminale mandante, che è il regime borghese e i suoi Stati.
Questa è l’unico vero scioglimento storico, la trasformazione della guerra tra
gli Stati in guerra tra le classi, l’abbattimento del potere borghese e
l’instaurazione della dittatura del proletariato, che sola può aprire la strada
al comunismo.
La Germania, secondo “donatore” all’Ucraina, nel 2025 dimezzerà i suoi aiuti militari che passeranno dagli otto miliardi di quest’anno a quattro. La differenza dovrebbe essere colmata attingendo agli interessi maturati sui titoli russi congelati in Europa, cosa di difficile realizzazione. A questo fine la Germania conta sulla creazione di un apposito strumento finanziario che utilizzi i beni russi congelati.
È evidente la difficoltà del capitalismo tedesco, del suo Stato, della sua borghesia e di quel suo comitato di affari che è il governo tedesco, di restare provincia fedele dell’impero cui appartiene.
A differenza di ciò che ritengono alcuni sedicenti antimperialisti, l’imperialismo non è una categoria morale, causata dalla malvagità e dalla sete di conquista, ma la fase suprema e terminale, in tutti i sensi, del capitalismo; è quindi inseparabile dalle condizioni e dalle necessità del capitalismo nei vari Stati. Il servilismo di vari Paesi europei, e non solo nei confronti del più grande imperialismo americano, non dipende dalla meschinità e dalla scarsa qualità della “classe politica”, con buona pace dei vari Mosca, Pareto, e moderni epigoni, ma dagli interessi complessivi dei vari capitalismi nazionali. Questi ultimi a volte possono anche essere danneggiati dal centro imperialistico cui sono legati, ma complessivamente fino ad ora i vantaggi sono stati maggiori degli svantaggi. Se il capitale traccia il solco della propria riproduzione e moltiplicazione, è la spada dell’imperialismo che lo difende e che in parte determina le condizioni del suo accrescimento.
Inoltre i singoli Stati hanno sempre paura di non disporre della forza di repressione necessaria contro il proletariato: come le antiche poleis greche si davano spontaneamente a Roma in quanto le aristocrazie proprietarie che le governavano vedevano nell’Impero la garanzia del loro potere e delle loro proprietà, così i moderni Stati vedono nell’imperialismo la salvezza della loro borghesia nel caso di un risveglio potente della lotta di classe.
Se la borghesia tedesca ed europea in generale ha fatto del proprio Stato un vassallo fedele dell’imperialismo nord-americano, non è quindi per stupidità o servilismo, ma per perseguire i propri interessi.
Qualora tali interessi dovessero divergere potrebbero verificarsi cambi di alleanze difficilmente prevedibili. La Germania, in quanto vassallo dell’imperialismo americano, ha dovuto partecipare a una guerra che non è solo contro la Russia, ma anche contro gli interessi dell’Europa e in particolare suoi: il sabotaggio del gasdotto nel Baltico è stato un atto di guerra contro la Russia e contro la Germania, che deve ora pagare di caro il metano, causa non ultima di una crisi economica che la sta portando verso la recessione.
La borghesia tedesca sopporta molto male tutto ciò, ma forse i vantaggi dell’alleanza occidentale sono ancora superiori agli svantaggi. La rottura imposta dei rapporti con la Russia può ancora essere sopportata dall’economia tedesca, ma se questa fosse obbligata a rompere i rapporti anche con la Cina, cosa non improbabile, potrebbe non riuscire a sopportarlo. È difficile prevedere l’evolversi dei rapporti interimperialistici: dopo due guerre perse con gli Stati Uniti sicuramente la Germania, prima di rompere, ci penserà mille volte, ma la cosa non è affatto impossibile.
Non sarà però lo Stato tedesco e la sua borghesia a decidere, ma le esigenze di sopravvivenza e di accrescimento del suo capitalismo: come sempre i grandi decisori non decidono nulla ma sono solo le marionette della storia, quasi sempre inconsapevoli e mosse da fili a loro invisibili.
Nei grandi scenari geopolitici dipinti in America la Germania è già considerata un paese nemico, nonostante faccia parte della NATO. Ribadiamo ancora che noi comunisti non siamo anti-americani, come, per esempio, non siamo anti-israeliani: siamo contro tutti gli imperialismi e contro tutti gli Stati che non siano nelle nostre mani. Essere contro solo alcuni Stati borghesi sottintende che ce ne siano di “meno peggio”, con i quali ci si può sempre alleare: è la logica delle alleanze antifasciste e interclassiste, è il rinnegamento del comunismo. Gli imperialismi grandi e piccoli, come gli Stati grandi e piccoli, mandano i proletari a scannarsi tra di loro in guerre infinite.
I proletari devono avere ben chiaro che quando il dominio di classe borghese
sarà in pericolo, tutti gli imperi, tutti gli Stati saranno pronti a fare una
nuova “santa alleanza”, per gettarsi insieme contro i proletari, i “nuovi
barbari” che stanno mettendo in pericolo “la civiltà”, che, nel loro linguaggio,
è il loro portafoglio. I comunisti non hanno alleati nella classe borghese, così
come non ne hanno negli Stati borghesi e negli imperialismi, che sono solo dei
nemici mortali dei comunisti, dei proletari e, più in generale, della specie
umana.
Come è tradizione, ogni quattro anni i borghesi impongono anche alla classe operaia americana una ennesima pagliacciata di dibattiti e comizi pubblicitari. Sui media le masse sono bombardate da annunci allarmistici e tutti sono sospinti a partecipare al narcisismo collettivo dello scambio di opinioni e del dibattito, unendosi al coro di esperti e opinionisti politici, tanto idioti quanto sicuri di sé. Il popolo avrebbe dovuto scegliere tra democratici e repubblicani, tra CNN e Fox, tra Big Mac e Whoppers, tra Pepsi e Coca Cola...
Noi comunisti invece respingiamo l’invito borghese a esercitare il nostro diritto alla “libertà di scelta” e, come abbiamo sempre fatto, invitiamo i lavoratori a gettare le schede elettorali nel cestino più vicino.
I borghesi spendono una enorme quantità di soldi nel circo elettorale, centinaia di milioni di dollari in una propaganda demente per intimorire la gente dicendo che è urgente salvare la nazione, per salvare noi stessi, e che si tratta ormai di “votare o morire”.
Mentre la depravazione dei rappresentanti della borghesia americana, non migliore di quella di Caligola, viene sempre più in luce e l’edificio dell’egemonia imperiale americana continua il suo declino, ogni nuovo baraccone elettorale non fa che confermare la totale degenerazione, l’incoerenza e la senilità dell’intero ordine borghese in putrefazione.
Mentre i borghesi, le loro scuole e i loro media vorrebbero farci credere che dal rituale demente delle elezioni esca la volontà del “popolo americano”, indicata dal numero di voti, la verità è che il sistema democratico ha da molto tempo eliminato qualsiasi espressione politica indipendente della classe operaia, instaurando, dopo gli sconvolgimenti sociali alla conclusione della guerra civile americana, una piena dittatura di classe a due partiti.
Nella civiltà capitalista in decomposizione c’è solo democrazia per i borghesi.
Un grottesco sistema di “voti contro dollari” nasconde solo una guerra di propaganda contro il proletariato.
Tra il gennaio 2023 e l’aprile 2024, i due partiti statunitensi hanno raccolto 8,6 miliardi di dollari per le elezioni della Camera, del Senato e delle presidenziali del 2024. I due partiti ricevono un sostegno economico più o meno uguale.
I Repubblicani raccolgono più dalle industrie manifatturiere e minerarie tradizionali, i Democratici dalle società dell’informatica, da Hollywood, dai sindacati degli avvocati, dei funzionari pubblici e dell’aristocrazia operaia.
Solo i contrastanti interessi economici della borghesia sono alla base delle differenze tra la politica dei Democratici e dei Repubblicani. Tuttavia, entrambi i partiti hanno da sempre svolto il ruolo cruciale del poliziotto cattivo e di quello buono nel disciplinare il proletariato.
I Democratici mostrano di rappresentare gli interessi dei piccoli borghesi. Oggi ostentano la retorica liberale borghese, progressista, ma in un passato non troppo lontano sono stati il partito del Destino Manifesto e della schiavitù nera, poi dei segregazionisti delle leggi Jim Crow e dell’aristocrazia operaia bianca. Oggi dovremmo credere che siano i paladini degli oppressi, opposti a una “destra” conservatrice e regressiva che si accinge ad instaurare una dittatura in stile Mussolini? Basta dimenticare l’invio di portaerei per garantire il libero massacro di decine di migliaia di proletari in Palestina.
I Repubblicani sono invece il partito che nella storia ha rappresentato principalmente gli interessi del capitale industriale. In queste elezioni hanno mostrato di flirtare con l’aristocrazia del lavoro cercando di portare i sindacati dalla loro parte. Il primo invito di un presidente di sindacato, Sean O’Brien dei Teamsters, a parlare alla Convention nazionale repubblicana e le visite di Trump ai picchetti dell’UAW all’inizio di quest’anno sono senza precedenti. Ma Trump, in una recente intervista con il compare capitalista Elon Musk, ha espresso il suo sostegno alla violazione delle leggi sul lavoro e al licenziamento dei lavoratori in sciopero. L’appello dei Repubblicani ai lavoratori si basa sulla vecchia ricetta di opporre gli stabilizzati agli immigrati, che "rubano i posti di lavoro".
Finora questo tentativo è fallito, dato che i Teamsters in queste elezioni non hanno sostenuto nessuno dei due partiti borghesi. Indipendentemente dalle motivazioni dei dirigenti, questa rottura con i due partiti borghesi di uno dei maggiori sindacati del Paese è significativo per una classe operaia che oggi sta trovando nuova combattività in un’ondata di scioperi che cresce in tutto il Paese. Sebbene non attribuiamo alcun valore alle “opinioni popolari”, la fiducia nei sindacati è molto cresciuta negli ultimi anni, mentre quella nei partiti borghesi e nel governo è in costante declino. I sindacati e gli scioperi sono sempre più visti come la via per ottenere guadagni materiali per i lavoratori, mentre le false promesse dei partiti borghesi cadono nel vuoto.
Per questo entrambi i partiti muovono critiche “culturali” al capitalismo, riducendo il precipitare della crisi economica a motivazioni morali o particolari per fare appello ai sentimenti reazionari tipici della piccola borghesia. Dalla immigrazione di massa dal confine meridionale (risultato della dominazione imperialista sul Sud globale), alla crisi degli oppioidi, alla criminalità, ai senzatetto, dipingendo i lavoratori disperati in cerca di occupazione come criminali, assolvendo da ogni responsabilità la borghesia mondiale.
Nessun partito borghese chiuderà mai all’immigrazione, che alimenta uno strato di lavoratori altamente sfruttati e costantemente in pericolo di deportazione, mentre il capitale nazionale si limita a utilizzare il suo apparato statale per mantenerli in totale sottomissione. La propaganda del partito Repubblicano martella contro i più sfruttati, gli immigrati, le popolazioni indigene, i proletari neri, le donne, i non eterosessuali; quella dei Democratici, complementare, usa il guanto di velluto, rivolta ai lavoratori occupati ma in attesa del loro turno per essere licenziati, offrendo a poche selezionate aristocrazie false promesse di mobilità verso l’alto.
A causa della crescente accumulazione, sovrapproduzione e crisi dell’economia capitalista, gli interessi dell’industria sono sempre più in contrasto con i presupposti della democrazia liberale e con le illusioni delle classi medie, che ci credono. I due partiti della borghesia americana, rappresentanti della classe capitalista, nonostante la velatura democratica, si sono sempre trovati uniti nel sottomettere la classe operaia americana e internazionale. Insieme impiegano i loro marines e le loro portaerei, la polizia e le prigioni, i loro muri di confine, e nulla cambierà mai la natura di questi due apparati intrisi di sangue, ipocrisia e guerra, che sacrificano tutte le potenzialità di vita sana e bella nel mondo sul mostruoso altare dell’imperialismo capitalista.
Per quanto riguarda le questioni particolari che i borghesi hanno affrontato in queste elezioni, la più importante è stata la proposta di Trump di una tariffa del 10-20% su quasi tutte le merci importate, con tariffe molto più alte proposte per la Cina. La tariffa andrebbe a vantaggio delle industrie manifatturiere ed estrattive degli Stati Uniti, tenendo lontane le importazioni di prodotti finiti e materie prime. Eliminata la concorrenza, il mercato interno resterebbe riservato al capitale industriale nazionale. Ma già l’amministrazione Biden si era mossa in tal senso con la legge sui microprocessori.
La classe capitalista statunitense avrebbe interesse a ristabilire la propria base industriale, anche in preparazione della prossima guerra interimperialista. Tuttavia la capacità del protezionismo di produrre una crescita significativa dell’industria in questo momento storico è discutibile, così come lo sono le altre politiche recentemente approvate dalla borghesia. Di sicuro, ostacolando la concorrenza straniera, si risolveranno in un ulteriore attacco al tenore di vita dei lavoratori statunitensi, permettendo alle aziende americane di aumentare i prezzi dei beni di consumo.
Il protezionismo rappresenta un significativo cambiamento rispetto alla politica commerciale di libero mercato del dopoguerra. È un ritorno alle politiche che hanno predominato nel mondo nell’era prebellica, necessarie ai nuovi capitalismi per lo sviluppo dei propri industrialismi nazionali.
I dazi e le “guerre commerciali” anticipate da Trump, nonostante la sua presunta politica estera “isolazionista”, volta a prevenire la “terza guerra mondiale”, pongono le basi per il futuro conflitto imperialista inasprendo la competizione tra i capitali nazionali, per i mercati e per le risorse, acuendo le tensioni con la Cina, nemico primario dell’imperialismo statunitense.
I Democratici hanno accennato ad un controllo dei prezzi e hanno fatto promesse vuote di aumentare le tasse sulle grandi imprese e sugli americani più facoltosi, mentre i Repubblicani parlano di tagli fiscali per un valore di migliaia di miliardi.
L’“economia delle opportunità” di Harris faceva appello ai piccoli borghesi, offrendo loro, nella lotta contro i grandi capitalisti, varie agevolazioni fiscali e incentivi all’apertura di nuove aziende. Ma nel capitalismo, la concorrenza genera il monopolio e viceversa; non esiste più un “piccolo capitalismo” ideale che alla fine non si traduca in monopolio o si dissolva in esso. Inoltre il piano dei democratici non offre nulla alla classe lavoratrice, che lotta a un tempo contro la piccola e la grande borghesia.
È facile per i Democratici adottare la vuota retorica “Quando i sindacati sono forti l’America è forte”: quando si è concretizzata la forza reale e seria di uno sciopero, come quello ferroviario del 2022, l’hanno distrutta, collaborando con la burocrazia sindacale per privare la classe operaia della sua arma sindacale più forte.
Dalle loro premesse logiche questi partiti possono solo consolidarsi in forme fasciste o socialdemocratiche, raggiungendo così di fatto una temporanea unità politica nazionale borghese e subordinando apertamente la classe operaia all’interesse del capitale nazionale. Questa è stata la strategia delle classi dominanti nel periodo di crisi che ha preceduto la seconda guerra mondiale, con l’emergere del fascismo in Europa, dello stalinismo in Russia e della socialdemocrazia di Franklin D. Roosevelt.
Il sostegno prevalente ai Repubblicani dei tradizionali interessi industriali rispetto a quello delle classi medie liberali, che costituiscono gran parte della base dei democratici, spiega la polarizzazione tra i due partiti borghesi, emersa in un capitalismo sempre più malsano, alle prese con una crisi di accumulazione dei profitti che costringe la grande borghesia a divorare le classi medie e l’aristocrazia del lavoro, per sostenere l’accumulazione e il tasso del profitto. Di conseguenza, i due partiti borghesi si trovano sempre più spesso nell’impossibilità di trovare un accordo su molte questioni chiave, tra cui, ricorrente, quella sul bilancio federale.
Anche in queste elezioni Trump ha continuato a differenziarsi dalle “buone maniere” della politica borghese americana, minacciando perfino l’uso dell’esercito per vendicarsi dei rivali politici e alludendo alla possibilità di nominarsi capo di Stato qualora non fosse stato eletto. In risposta i Democratici hanno ripreso la retorica antifascista, per “salvare la democrazia”.
Alcuni Repubblicani hanno rincarato minacciando la possibilità che l’elezione di Trump possa essere l’ultima negli Stati Uniti, con accenni a una guerra civile nel caso in cui non fosse stato eletto. Alla luce dell’“insurrezione” del 6 gennaio, in cui una folla disorganizzata di qualche migliaio di sostenitori di Trump prese d’assalto il Campidoglio, e del successivo fallimento dell’azione legale intentata dai Democratici, Trump è diventato un martire per la sua base composta da piccoli borghesi e sottoproletari, che vedono il fallimento dell’ordine liberale da sostituire con un capo autoritario dotato di poteri speciali.
Ma, indipendentemente dal fatto che lo stesso Donald Trump si sforzi o meno di farsi un dittatore, ciò non toglie gli Stati borghesi dalla lunga marcia mondiale verso metodi sempre più autoritari e fascisti. Come ha poeticamente osservato Marx, «la struttura degli elementi economici della società non viene toccata dalle nuvole di tempesta del cielo politico». Lo stadio di sviluppo della produzione economica è sempre, in ultima istanza, il fattore decisivo delle azioni di una nazione, e degli individui che ne rappresentano le classi. Finché prevarrà il modo di produzione capitalistico, non potrà dare che forme capitalistiche di espressione politica.
Dietro al clamore effimero delle elezioni, le vere inevitabili crisi appaiono all’orizzonte: l’incombente catastrofe causata dalla sovrapproduzione capitalista e la impossibilità per le masse di soddisfare i propri bisogni, la prossima grande guerra delle nazioni borghesi più sviluppate.
Le tensioni imperiali in Europa e in Medio Oriente stanno di nuovo arrivando alla rottura, guerre imperialiste devastano masse innumeri, celate sotto richieste di autodeterminazioni nazionali. Negli Stati Uniti molti sono inorriditi dalla crudezza di queste guerre e convinti del ruolo del proprio Stato nella devastazione; ancora una volta protestano nelle strade con richieste di pace e di libertà democratiche. Questo mentre il governo del Partito Democratico, pur affermandosi ipocritamente in alternativa alla “violenza” di Trump, promette di mantenere l’esercito americano quale “forza più letale del mondo”.
Ricordiamo, come stabilito dalla Terza Internazionale Comunista, che non esiste una “democrazia in generale”, al di sopra delle classi; essa è sempre uno strumento della classe dominante e modellata alla sua protezione.
Anche stavolta chi è stato eletto farà poca, se non nessuna differenza nella vita quotidiana della classe operaia americana. Alla fine i lavoratori americani si troveranno di fronte a una delle facce del capitale, comunque adatto alla difesa dei suoi interessi.
L’unico cammino verso l’emancipazione per il proletariato è quello di organizzarsi sulla base della realtà economica dei lavoratori e di lottare contro il capitalismo e tutte le sue espressioni, compreso il parlamentarismo borghese, non confidando nella forma democratica della tirannia borghese.
Se ci sono “nuvole di tempesta” all’orizzonte, non sono quelle che minacciano l’elettoralismo borghese, ma quelle dell’imminente scontro finale delle due classi in una lunga battaglia per il destino della storia dell'umanità.
È solo attraverso la vittoria del proletariato, diretto dall’organo politico della classe operaia, il Partito Comunista Internazionale, che le contraddizioni inconciliabili tra lavoro e capitale possono essere finalmente messe a tacere, distruggendo l’apparato statale della borghesia e realizzando la dittatura del proletariato, eliminando così la società di classe una volta per tutte.
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Il
contesto
Come in molti paesi dell’attuale mondo capitalista, anche se con le sue specificità, in Venezuela la borghesia e il suo regime rispettano i processi elettorali per l’elezione di presidenti, governatori, sindaci e deputati. In Venezuela è consentita la rielezione a tempo indeterminato. È anche possibile con un referendum revocare a metà del suo mandato la carica al presidente nazionale. La Costituzione del 1999 ha stabilito la "coesistenza" di cinque poteri, uno dei quali è il Potere Elettorale, rappresentato dal Consiglio Nazionale Elettorale (CNE).
Negli anni ’90 entrò in crisi il modello bipartitico, attraverso il quale la borghesia aveva risolto il controllo politico delle masse. I partiti tradizionali, in un contesto di crisi economica e sociale, avevano perso la capacità di soffocare il malcontento delle masse e di tenerle sottomesse al capitale. In questo contesto, il chavismo emerse come movimento borghese con un discorso populista e di “sinistra” che riuscì a risolvere il problema della governabilità, spiazzando i vecchi partiti e conquistando la loro base sociale ed elettorale. Con un’ampia popolarità, il chavismo divenne l’amministratore ideale degli interessi della borghesia, rafforzando ed espandendo i profitti capitalistici, aumentando il tasso di sfruttamento dei lavoratori, distruggendo e controllando le diverse organizzazioni di massa, e in particolare i sindacati, assicurando la pace sociale richiesta dalle imprese nazionali e multinazionali, principalmente legate ai proventi del petrolio.
Il programma del chavismo, che si proclamava "socialista" e otteneva l’appoggio di diversi movimenti e partiti della sinistra opportunista, tanto parlamentare quanto "guerrigliera", era pienamente capitalista, come quello dei suoi avversari, con un’alta dose di populismo e del tradizionale fenomeno della corruzione. Pur proclamandosi "socialista", il chavismo ha proposto fin dall’inizio la difesa della proprietà privata e del mercato, la lotta contro il latifondo (leggi crescita del capitalismo agroindustriale nelle campagne), accompagnata dall’offerta demagogica della "democratizzazione del capitale" (leggi redistribuzione del controllo monopolistico dei mezzi di produzione), la difesa dell’economia nazionale (cioè il sostegno agli imprenditori locali non monopolistici di fronte alla penetrazione del capitale transnazionale).
Promosse uno schema simile al "New Deal" con cui Roosevelt affrontò la Grande Depressione negli Stati Uniti, affidandosi, tra le altre strategie, alle cosiddette "Missioni" e "Grandi Missioni", incentrate sull’utilizzo dei proventi del petrolio per stimolare la domanda di beni.
Il chavismo pretendeva muoversi in un mondo "multipolare", sulla base della quale ha stretto alleanze con Cina, Russia, Cuba, Paesi del mondo arabo, eccetera, pur trovandosi nel "cortile di casa" degli Stati Uniti. Ha inoltre aderito al Forum di San Paolo, organizzazione in cui converge la sinistra opportunista internazionale, e ha promosso l’indebolimento dell’influenza nordamericana in America centrale e meridionale, favorendo l’acuirsi delle contraddizioni interimperialiste nel continente.
Il modello politico promosso dal chavismo ha aperto la strada a molteplici appuntamenti elettorali, nel quadro della cosiddetta "democrazia protagonista e partecipativa", che, più che in passato, ha allontanato i lavoratori dalla lotta di classe e ha fatto innalzare alla classe operaia i vessilli reazionari della patria, della sovranità e della difesa dell’economia nazionale, agitati in modo demagogico, visti gli enormi impegni con le imprese multinazionali. In questo contesto, il chavismo ha vinto la maggioranza delle elezioni presidenziali, parlamentari e regionali per circa 20 anni.
Tuttavia, dal 2012, quando Hugo Chávez vinse le elezioni presidenziali con un piccolo margine per poi morire di cancro, il chavismo ha iniziato a logorarsi e in ogni processo elettorale ha vinto sempre con maggiore difficoltà, nonostante l’ampio uso delle risorse delle istituzioni statali e l’intervento sia di altri partiti filogovernativi sia di vari partiti di opposizione addomesticati.
Nel 2024 il Chavismo era già ampiamente rifiutato dalla popolazione, compresa la sua stessa base sociale. Sebbene nessuno dei candidati dell’opposizione sia riuscito a catturare le simpatie delle masse, il malcontento ha finito per incanalarsi nel candidato che aveva il maggior sostegno economico e porpagandistico, creando aspettative di un cambiamento di governo.
In tutto questo periodo, i lavoratori sono stati allontanati dalla lotta di classe e dalle loro reali richieste attraverso la droga dell’elettoralismo, del legalismo e del parlamentarismo. A questo si sono uniti anche settori della sinistra stalinista e trotzkista, che hanno sempre difeso l’istituzione elettorale e promosso un piano di riforme nazionaliste che un cosiddetto "governo dei lavoratori", capitalista come tutti gli altri, avrebbe dovuto attuare.
Il sistema elettorale è stato automatizzato e prevede molteplici fasi di verifica, propagandato come al riparo da tentativi di frode. Su questo concordano sia i partiti che sostengono il governo sia quelli che sostengono i candidati dell’opposizione.
Con le più alte riserve di petrolio e gas, dopo un processo di calo della produzione, nel 2024 il Venezuela si colloca al sesto posto tra i fornitori di petrolio degli Stati Uniti, ed è prevedibile che la lotta per il governo in Venezuela sarà associata a strategie per il controllo di questo bene energetico, oggetto di scontri inter-imperialisti. Le contese elettorali e non elettorali tra gruppi politici e imprenditoriali locali fanno parte degli scontri inter-imperialisti, che vedono il Venezuela, la sua ricchezza naturale e la sua posizione geografica come fattori da utilizzare a proprio vantaggio.
Il Venezuela non sta vivendo un confronto tra capitalismo e socialismo, come i media e i social network vogliono presentare, ma un confronto tra capitalisti, di fronte al quale la classe operaia deve mantenere la propria indipendenza, con il proprio programma e il proprio nord storico.
Con le sanzioni imposte dagli Stati Uniti al Venezuela, si è instaurato un modello di alta redditività sia per le multinazionali sia per le mafie associate al governo locale, dato che il petrolio venezuelano viene venduto a basso prezzo sul mercato nero, aprendo spazi a diversi business che fanno confluire i capitali nelle reti di corruzione e aumentano i profitti dei consorzi internazionali.
Le
fazioni borghesi in lotta
Il 28 luglio si sono svolte le elezioni del nuovo presidente. Nelle prime ore del 29 il CNE ha annunciato il prevalere e la rielezione a presidente di Nicolás Maduro, che governerà fino al 2031. Ma lo stesso giorno il CNE dichiara che non ha contato tutti i voti e non ha presentato i verbali di ogni seggio elettorale. Il principale candidato dell’opposizione ha denunciato brogli e non ha riconosciuto i risultati, scatenando proteste di piazza, in parte spontanee, in parte legate alla delinquenza sottoproletaria pagata da alcuni partiti.
A livello internazionale molti governi hanno messo in discussione il risultato elettorale, diventato terreno di scontro inter-imperialista. Il 2 agosto il CNE ha pubblicato il suo secondo bollettino, con il 96,87% dei voti registrati, confermando la vittoria di Maduro, ma non ha presentato i risultati per seggio elettorale e con la vidimazione delle schede.
Maduro, cioè i partiti, le mafie e le multinazionali che lo sostengono, continueranno ad amministrare gli interessi della borghesia e dei gruppi imperialisti e continueranno a premere per il supersfruttamento dei salariati.
In un certo senso la vittoria di Maduro esprime il prevalere di interessi, in primo luogo di quelli statunitensi, anche se ciò sembra contraddire gli annunci di sanzioni da parte degli USA. Ma anche gli altri nove candidati, se avessero vinto, avrebbero rappresentato gli stessi interessi.
Inoltre, se a movimenti e partiti come gli stalinisti del partito "comunista" venezuelano e ai trotzkisti fosse stato permesso di presentare un "candidato operaio" o un "candidato veramente chavista", avrebbero comunque fatto proprio il programma borghese e protetto gli affari del grande capitale.
La democrazia è la forma di governo della borghesia, che permette gli sfruttati a eleggere i rappresentanti degli sfruttatori nelle istituzioni pubbliche, basandosi sull’illusione che lo Stato, che resta borghese, e le leggi, anch’esse borghesi, rappresentino tutti allo stesso modo. Il proletariato ha il compito, la necessità. il doverela, la sfida di rompere con queste illusioni e con le manipolazioni dei vari politici che lo portano a sperare che la sua situazione cambierà e migliorerà eleggendo nuovi presidenti, governatori o parlamentari. Il proletariato mai attraverso il voto troverà una via d’uscita dallo sfruttamento capitalista.
Il mantenimento del controllo del governo da parte del chavismo implica il ricorso alla repressione sempre più evidente. C’è da aspettarsi che la perdita della sua base sociale continui ad avanzare e che questo si rifletta nelle prossime elezioni regionali e parlamentari.
Ciò che conta è che il proletariato, attraverso le sue organizzazioni sindacali difensive, riesca a rompere con l’elettoralismo, ad assumere la sua indipendenza di classe e ad avanzare nell’unità d’azione delle sue lotte rivendicative.
Il governo venezuelano dovrà affrontare il clima internazionale, con un gruppo di Stati che contesta i risultati elettorali. Prima o poi, però, l’Europa e gli Stati Uniti finiranno per riconoscere la sua legittimità, perché in gioco ci sono molti affari e allineamenti geopolitici. Le denunce di frode resteranno tali, presto si dissolveranno per evitare interferenze negli affari petroliferi e del gas delle aziende statunitensi ed europee, come Chevron, Eni e Repsol, ma anche della Cina e dei Paesi BRICS, che hanno già il sostegno del chavismo nel governo venezuelano. L’"isolamento internazionale" non arriverà al punto di paralizzare gli affari e lascerà spazio a molteplici negoziati, più segreti che pubblici, poiché nessuna multinazionale vorrà rimanere senza una parte delle ricchezze di petrolio, gas e altro disponibili in Venezuela.
Gli Stati Uniti, che vedono il Venezuela come parte della loro strategia di controllo del mercato petrolifero, sanno che devono graduare la loro pressione sul governo venezuelano, poiché le relazioni di quest’ultimo con il gruppo BRICS ne risulterebbero rafforzate e costituirebbero un contrappeso alle loro pretese imperialiste. D’altronde una rinuncia dei chavisti con consegna del governo all’opposizione non sembra possibile, poiché si scontrerebbe con gli interessi dell’avverso blocco imperialista guidato dalla Cina.
I governi di Brasile, Colombia e Messico stanno conducendo negoziati con il governo venezuelano, e quello degli Stati Uniti ha espresso la approvazione per questi sforzi, il che conferma la volontà di raggiungere un accordo conciliante che non perturbi gli affari, anche se questo accordo contemplasse lo scenario di una ripetizione delle elezioni presidenziali.
Confronto inter-borghese nelle strade
Dopo le elezioni i partiti filogovernativi e quelli dell’opposizione hanno insistito per allontanare i lavoratori dalle lotte per le loro rivendicazioni, portandoli a uno scontro tra chi ha sostenuto Maduro e chi ha denunciato una frode elettorale che avrebbe impedito la vittoria del candidato dell’opposizione. La classe operaia non deve lasciarsi così manipolare. La sola lotta che le interessa è la lotta di classe, tra il proletariato e la borghesia. I lavoratori devono unirsi, organizzarsi e lottare in modo indipendente per le loro richieste economiche e sociali.
Mentre le organizzazioni internazionali e i partiti dell’opposizione chiedevano la verifica dei risultati delle elezioni, il governo ha immediatamente attivato la repressione delle manifestazioni, utilizzando sia le forze militari e di polizia, sia i cosiddetti "colectivos", composti da sottoproletari e delinquenti, innalzando la bandiera della lotta al terrorismo e al fascismo. Le statistiche di morti, feriti e detenuti sono emerse immediatamente.
Il passo successivo è stato la persecuzione e l’arresto dei dirigenti dei partiti di opposizione, accusati di aver pagato dei criminali per provocare la violenza nelle strade. In realtà entrambi i fronti borghesi hanno reclutato fra la criminalità per pilotare questi scontri.
Il governo, oltre alle azioni “antiterroriste” ha difeso i risultati delle elezioni. Maduro ha presentato un ricorso alla Camera Elettorale della Corte Suprema di Giustizia per la verifica dei voti, di fronte al prolungato silenzio del CNE, alle mobilitazioni di piazza indette dall’opposizione e alle pressioni delle organizzazioni internazionali e dei governi.
Una settimana dopo le elezioni né l’opposizione ha presentato prove di brogli né il CNE della vittoria di Maduro. Si è solo avuto nelle reti sociali lo scontro “virtuale” tra l’opinione del governo e quella delle opposizioni che, con il sostegno straniero, avrebbero promosso un colpo di Stato e terroristico, sventato dal governo. E in questa baruffa mediatica ogni possibilità di risposta politica indipendente da parte della classe operaia è stata impedita.
«No alla frode, rispetto della volontà del popolo espressa nel voto», questo lo slogan dell’opportunismo trotzkista, che ha reso evidente il suo impegno nei confronti della democrazia borghese e dell’interclassismo. Lo stalinista Partito "Comunista" del Venezuela ha chiesto «la costituzione di un fronte democratico-popolare per la difesa della costituzione e della sovranità». Gli opportunisti, che pretendono di presentarsi come una sinistra che si oppone alla destra, in realtà convergono con tutti gli agenti della borghesia a promuovere la difesa della democrazia, del parlamentarismo e della costituzione. Le grida contro i brogli e in difesa del diritto di voto permettono alla borghesia di allontanare i lavoratori dalle lotte per le loro rivendicazioni, dalla lotta di classe e dal percorso rivoluzionario anticapitalista.
Il governo ha intanto annunciato la costruzione di due carceri dove saranno rinchiusi gli arrestati durante le proteste e coloro che sono associati a "piani terroristici". Le azioni militari e di polizia vi hanno già portato oltre 2.000 detenuti. I portavoce del chavismo hanno denunciato che i piani destabilizzanti della destra prevedono scioperi e interruzioni del lavoro, ponendo così le basi per reprimere le lotte operaie, presentandole come parte di piani terroristici. Tutto questo apparato repressivo, oggi utilizzato contro le masse trascinate dalle fazioni borghesi, è in realtà pronto ad affrontare il proletariato con la violenza dello Stato borghese quando i salariati riacquisteranno la loro indipendenza di classe e si uniranno nella mobilitazione e nello sciopero contro lo sfruttamento capitalista.
Niente
di nuovo
Il nuovo governo manterrà i salariati gravati da bassi salari, disoccupazione e cattive condizioni sanitarie e di servizio pubblico. Il governo, i partiti filogovernativi e di opposizione e le cricche di sindacalisti continueranno nella loro falsa propaganda per impedire ai lavoratori di comprendere le cause della crisi economica e sociale e gli interessi di classe e geopolitici in gioco.
Le varie cricche di sindacalisti hanno invitato a votare per i diversi candidati alle presidenziali, pro-governo o pro-opposizione. Con questa azione le dirigenze sindacali hanno mostrato ancora una volta il loro ruolo di sostenitori del regime capitalista e di alleati dei padroni.
L’unica via d’uscita dalla crisi emergerà dalla mobilitazione e dallo sciopero dei lavoratori, svincolati dall’elettoralismo e dal parlamentarismo.
Il nuovo presidente guiderà un governo che continuerà ad amministrare gli interessi della borghesia e dell’imperialismo, che assumerà la difesa dell’economia nazionale. La decantata ripresa economica sarà possibile solo sulla base di bassi salari, lunghi orari di lavoro, condizioni di lavoro insicure, servizi sanitari e servizi pubblici decurtati. Il nuovo governo continuerà a scaricare il peso della crisi sui lavoratori e gli annunci di crescita economica saranno accompagnati da fame, miseria e disoccupazione per la maggioranza.
Considerando che in questo momento una famiglia di 5 persone ha bisogno di almeno l’equivalente di 1.200 dollari al mese per accedere a tutti i beni e servizi di base, i lavoratori devono unirsi e riprendere lo sciopero, senza preavviso, senza servizi minimi e a tempo indeterminato, con la richiesta di un aumento significativo dei salari e delle pensioni e di condizioni e ambienti sicuri sul posto di lavoro.
Per questo i lavoratori dovranno andare oltre le infide direzioni sindacali, delle confederazioni e delle federazioni che li tengono divisi e smobilitati. È necessario che nel vivo della lotta emergano veri sindacati di classe. Su questa strada è importante promuovere le assemblee, l’organizzazione di base, nelle aziende e nei luoghi di lavoro. Ma soprattutto i lavoratori devono organizzarsi a livello locale, integrando lavoratori attivi, pensionati e disoccupati al di fuori delle aziende e formando una rete regionale e nazionale. Tutte queste organizzazioni di base devono confluire in un Fronte Unico Sindacale di Classe, in cui i lavoratori si uniscono indipendentemente dal sindacato a cui sono affiliati e dalle loro preferenze politiche o di partito, dalla loro nazionalità o dal loro mestiere.
Mentre i partiti e i sindacalisti opportunisti invitano i lavoratori a unirsi in difesa della patria e dell’economia nazionale, questo Fronte unico sindacale deve promuovere l’unità per la conquista di salari e pensioni più alti e per il pagamento di un salario pieno ai disoccupati. Mentre gli opportunisti e i sindacalisti promuovono l’unità tra sfruttati e sfruttatori, questo Fronte unico sindacale deve promuovere l’unità della classe operaia contro i suoi sfruttatori interni o stranieri, pubblici o privati, nazionali o multinazionali.
Tutte queste tragedie subite dai lavoratori salariati e dalle masse oppresse, derivanti dallo sfruttamento capitalista, possono essere superate solo con il rovesciamento del capitalismo e la sua sostituzione con una società comunista. Solo il comunismo porrà fine al regime di folle sovrapproduzione, agli sprechi e alle minacce perpetue all’ecologia del pianeta.
Ma
questo non potrà mai essere raggiunto con
i metodi della democrazia, con il voto e
il parlamentarismo. Può essere realizzato solo attraverso la presa
del potere da parte dell’unica forza che può trasformare la società:
la classe operaia, guidata dal Partito Comunista Internazionale. La
presa del potere politico e l’instaurazione della dittatura
del proletariato
è l’obiettivo politico che il movimento operaio di tutto il mondo
deve perseguire, in opposizione alla democrazia borghese. Tutte
le lotte rivendicative immediate devono convergere in questa direzione politica.
Blue Screen of Death, con questo acronimo, che significa schermata blu della morte, venerdì 19 luglio ha dovuto fare i conti la borghesia di tutti i paesi. A tutte le aziende che utilizzano il sistema Microsoft Azure, il più diffuso nelle aziende, non è stato possibile accedere al sistema informatico e su tutti i computer all’accensione è apparsa la scritta: Blue Screen of Death! Il blocco ha paralizzato le attività in aeroporti, ferrovie, ospedali, banche ecc. in tutto il mondo.
Microsoft ha cercato subito di tranquillizzare i clienti, comunicando che era all’opera per risolvere il problema. Questo ha comportato comunque una serie di ritardi a catena, anche di qualche giorno, per il ripristino di tutta la baracca informatica che in pratica fa circolare il capitale mondiale.
Noi comunisti ci rallegriamo di questi dissesti generali, la Schermata blu della morte è il nostro augurio per il capitalismo. Che prova ancora una volta quanto sia fragile, inadeguato e sempre in equilibrio precario, al quale basta un “alito di vento”, per incepparsi, e di quanto sia sempre in pericolo la sorte dei proletari alla mercè della borghesia predatoria.
Stavolta il danno globale è stato provocato da una errata segnalazione di un virus, di fatto inesistente. La guerra permanente fra borghesi, fra le loro gigantesche società informatiche e fra le loro agenzie statali di sabotaggio reciproco rende tutti i loro apparati estremamente vulnerabili. Tutto quanto di progressivo che il capitalismo produce è invalidato e reso fragile dalla lotta per il profitto.
Lo Stato e le aziende cinesi si sono svincolate dal monopolio di fatto americano del sistema operativo Microsoft, e stavolta si sono salvate. Ma nulla fa pensare che presto non si inceppi anche il loro.
Per porre fine alle contraddizioni, alle brutture e alle irrazionalità del modo di produzione capitalistico torniamo alle parole che Engels scrive in “L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza”:
«Soluzione delle contraddizioni: il proletariato conquista il potere pubblico
con il cui potere muta i mezzi di produzione sociale in proprietà pubblica,
togliendoli al controllo borghese.
«Con tale atto il proletariato libera i mezzi di produzione dal carattere di
capitale che finora essi avevano e dà al loro carattere sociale la piena libertà
di attuarsi. Diviene possibile una produzione sociale pianificata.
«Lo sviluppo della produzione rende anacronistica l’ulteriore esistenza di
classi sociali distinte.
«Man mano che sparisce l’anarchia della produzione sociale, sparisce pure
l’autorità politica dello Stato.
«Gli uomini, finalmente padroni della loro forma di organizzazione sociale,
diventano padroni della natura e padroni di sé stessi, liberi.
«È missione storica del proletariato moderno compiere tale azione liberatrice. È
missione del socialismo scientifico, espressione teorica del movimento
proletario, studiare a fondo le condizioni storiche e la natura dell’azione
liberatrice dando così alla classe oggi oppressa ma chiamata all’azione la
coscienza delle condizioni e della natura della sua dovuta azione».
La missione del partito comunista è guidare e condurre il proletariato verso la
rivoluzione sociale al fine di abbattere l’infame capitalismo!
Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale |
Da fine gennaio in Italia siamo intervenuti in varie manifestazioni con volantini appositamente redatti per dare ai lavoratori il nostro indirizzo sindacale.
Strage al cantiere Esselunga di Firenze
Il 16 febbraio a Firenze si è verificato un grave incidente in un cantiere edile per la costruzione di un centro commerciale della Esselunga, in cui sono morti 5 operai, tutti immigrati. Dopo questa strage in Italia se ne sono verificate altre due: a Suviana (Bologna) il 9 aprile, con 7 morti, e poi vicino a Palermo il 6 maggio, con 5 morti.
Il 19 febbraio, tre giorni dopo l’incidente al cantiere Esselunga, si è svolta una piccola manifestazione a cui hanno partecipato tutti i sindacati di base di Firenze, tranne il SI Cobas, e il 21 febbraio una manifestazione più grande organizzata da Cgil e Uil. Siamo intervenuti a entrambe con un volantino, leggermente cambiato per renderlo adatto alle due diverse situazioni.
Due settimane dopo, il 2 marzo, sempre a Firenze, l’Usb ha convocato un convegno nazionale a sostegno dell’introduzione del reato di “omicidio sul lavoro” che abbiamo seguito traendo spunto per una più precisa battaglia polemica con la dirigenza opportunista di questo sindacato di base.
Una terza manifestazione si è svolta un mese dopo, il 23 marzo, anche qui siamo intervenuti con un altro volantino.
Vi abbiamo ribadito i seguenti punti:
1 - Causa prima del peggioramento delle condizioni di salute e sicurezza dei
lavoratori è il capitalismo che, attanagliato dalla crisi di sovrapproduzione,
per dilazionare il suo crollo economico deve aumentare lo sfruttamento, cioè
ritmi, intensità, durata del lavoro, e ridurre i salari;
2 - Solo lo sviluppo della lotta, del sindacalismo di classe saranno efficaci a
porre un freno, sempre parziale, a questo processo. Non esistono soluzioni
taumaturgiche frutto di provvedimenti legislativi: con ciò abbiamo polemizzato
con le illusioni opportunistiche delle dirigenze dei sindacati di base – in
particolare di quella dell’Usb, ma non solo – che invocano l’introduzione del
reato di “omicidio sul lavoro”;
3 - Sono necessari, per rimettere in piedi il movimento operaio e ridonargli
vigore, sia l’unità d’azione degli organismi del sindacalismo conflittuale –
sindacati di base e aree conflittuali in Cgil – sia l’unità d’azione dei
lavoratori nella lotta, con la partecipazione dei sindacati di base alle
mobilitazioni promosse dai sindacati di regime. Nella misura in cui riprende
vigore il movimento di lotta economica di classe, si verificano condizioni più
favorevoli al rafforzamento dell’indirizzo sindacale del Partito, che
naturalmente si arricchisce di molte altre indicazioni e fattori – metodi
d’azione, di organizzazione, rivendicazioni – oltre a quello dell’unità d’azione;
4 - Se è vero che solo con la lotta i lavoratori possono difendersi, allora
porre a cardine dell’azione sindacale non lo sciopero bensì l’obiettivo di
provvedimenti legislativi – sul salario minimo, sulla rappresentanza sindacale,
sul reato di omicidio sul lavoro – significa negare nella pratica i proclamati
assunti di fede al sindacalismo di classe. Significa porre in mano a un preteso
ente “terzo” e alle sue regole la difesa della classe operaia nella sua lotta
con la borghesia. Naturalmente tale ente terzo sarebbe lo Stato borghese, in
quanto “democratico”, secondo la più logora ideologia riformistica e
socialdemocratica.
Noi comunisti non neghiamo la lotta per obiettivi che possano essere sanciti sul piano legislativo, come ad esempio una legge per la riduzione generalizzata della giornata lavorativa. È anche utile ai fini della difesa della classe lavoratrice rivendicare l’abrogazione di leggi anti-operaie. Ad esempio coerente con l’autentico sindacalismo di classe sarebbe imporre, con la forza della lotta, l’abolizione delle leggi anti-sciopero, le quali, limitando la libertà di scioperare a una parte consistente della classe, le impediscono di difendersi. Oppure, al fine della difesa della salute e della sicurezza sui posti di lavoro, l’abrogazione delle norme sul rapporto fiduciario del lavoratore con l’azienda, grazie alle quali vengono perseguiti i lavoratori che denunciano le mancanze aziendali in tale ambito.
Mentre i provvedimenti legislativi sopracitati, invocati dalle dirigenze del sindacalismo di base, trovano un appoggio – reale o fasullo che sia – nei partiti della sinistra borghese, l’obiettivo dell’abrogazione delle leggi anti-sciopero non troverebbe alcun sostegno in tali partiti, dimostrando la loro natura anti-operaia.
* * *
Nel numero di marzo-aprile del giornale italiano abbiamo reso conto di alcune lotte di lavoratori che così abbiamo caratterizzato: «Le lotte di cui qui di seguito brevemente riferiamo hanno avuto tutte alcuni elementi in comune: 1) una elevata partecipazione agli scioperi; 2) i lavoratori si sono organizzati fuori e contro i sindacati di regime, o nei sindacati di base o in assemblee autoconvocate sostenute dai sindacati di base; 3) sono state promosse o sostenute dai sindacati di base in modo unitario». Si è trattato di mobilitazioni a carattere nazionale, di categoria o di settore, a carattere locale, a carattere aziendale.
Scioperi nazionali
Hanno scioperato sul piano nazionale:
1) gli autoferrotranvieri, il 24 gennaio, con un’adesione media intorno al 60%, che segna un buon risultato rispetto alle mobilitazioni degli ultimi anni, e un ottimo risultato per il sindacalismo di base. Tuttavia il secondo sciopero nazionale, convocato nuovamente da tutti i sindacati di base presenti nella categoria, lo scorso 6 maggio, ha avuto un andamento peggiore.
Un problema della categoria è il localismo, la tendenza a mobilitarsi soprattutto per questioni locali; l’ultimo movimento nazionale di sciopero fu quello del 2002-2003. Poi vi sono state mobilitazioni rilevanti ma solo a carattere locale.
Il Coordinamento Lavoratori Autoconvocati (CLA) ha scritto una lettera inviata a diversi delegati del sindacalismo di base, che indicava la necessità di sviluppare l’unità d’azione del sindacalismo di base e di porre sul tavolo la questione di come battersi contro le leggi antisciopero.
Un’idea dello stato di arretratezza del movimento nella categoria è l’iniziativa presa da una parte dei sindacati di base di promuovere un’assemblea nazionale on-line il 30 aprile, in preparazione dello sciopero, invitandovi a intervenire due senatori, uno del Movimento 5 Stelle, l’altro dell’Alleanza Verdi e Sinistra. I dirigenti del sindacalismo di base, e buona parte dei delegati, hanno scarsa fiducia nella forza dei lavoratori, e la ripongono in parlamentari di partiti borghesi!
2) Hanno poi scioperato i ferrovieri del personale viaggiante: macchinisti e capitreno. In questo caso la tendenza a un ritorno alla lotta appare più consistente. Già lo sciopero del 30 novembre, a seguito dell’incidente ferroviario presso Thurio, in Calabria, in cui morirono due lavoratori, aveva avuto una elevata partecipazione, segnando una rottura con la precedente passività e basse adesioni agli scioperi, che perdurava da anni.
Il 12 febbraio si è svolto un altro sciopero, il primo dell’anno e il primo per il rinnovo del contratto nazionale, che ha confermato il buon andamento. È stato convocato a sostegno di una piattaforma contrattuale scritta e presentata da: la “Assemblea nazionale del Personale di Macchina e di Bordo (Pdm-Pdb)”, costituitasi a maggio dell’anno scorso; dai sindacati di base Cub, Sgb e Usb (escluso il Cat); dal Coordinamento Macchinisti Cargo, costituitosi nell’ottobre del 2021 nel settore del trasporto ferroviario merci.
Vi sono dunque due elementi sul piano organizzativo in questa mobilitazione: da un lato una unità quasi completa (tranne il Cat) dei sindacati di base presenti nei ferrovieri; dall’altro la costituzione di un organismo autoconvocato, che ha l’ambizione – e in parte vi riesce – di inquadrare i lavoratori al di sopra delle sigle sindacali di appartenenza, per ora per l’obiettivo del rinnovo del contratto nazionale.
Abbiamo potuto seguire alcune assemblee nazionali svolte on-line in preparazione degli scioperi, che hanno mostrato una discreta partecipazione e vitalità, ancora inferiore a ciò che sarebbe necessario, ma che sembrano segnare un passo nella giusta direzione, come conferma il buon andamento degli scioperi.
Il secondo sciopero, a cavallo fra il 23 e il 24 marzo, ha avuto un esito ancora superiore a quello del 12 febbraio, segnando così la terza mobilitazione consecutiva di successo nella categoria, promossa dai sindacati di base e dall’Assemblea Nazionale Pdm-Pdb. Il livello di adesione allo sciopero è stato tale che non si vedeva da decenni, forse dai primi anni novanta.
Sul numero 80 del periodico dei ferrovieri della Cub, “CubRail”, nell’articolo di apertura titolato “Aria nuova”, si legge: «Uno sciopero dall’adesione non solo altissima ma, soprattutto, omogenea nei territori e nei settori sia all’interno di Trenitalia che in Trenord (…) La scomposta reazione aziendale è stato sigillo del successo, poco avvezzi alle grandi mobilitazioni hanno reagito con ogni sorta di forzatura».
Un terzo sciopero nell’anno era stato convocato dalle stesse organizzazioni per domenica 19 maggio, ma il giorno prima il Ministro dei Trasporti è intervenuto precettando i lavoratori e differendo l’azione di lotta. I sindacati di base e l’Assemblea Pdm-Pdb hanno spostato lo sciopero al 26 maggio ma questa volta è intervenuta la “Commissione di Garanzia sul diritto di Sciopero nei servizi pubblici essenziali (CGS)”, ravvisando un periodo di tempo troppo breve fra la proclamazione e la data dello sciopero. In realtà lo sciopero era stato proclamato per il 19 maggio col necessario (per legge) anticipo, ma venendo differito dal Ministro dei Trasporti la CGS ha preteso che la procedura di proclamazione dovesse ripartire d’accapo. Questo il cappio che la legge antisciopero rappresenta per la lotta di una porzione molto grande della classe lavoratrice.
Non esistono ancora le condizioni, i rapporti di forza, per violare una precettazione ministeriale o una prescrizione della Commissione di Garanzia sul diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali. Tuttavia, a conferma del successo delle ultime mobilitazioni organizzate, l’ordinanza del Ministro dei Trasporti del 18 maggio ha indicato, fra le ragioni che hanno motivato la precettazione, il fatto che: «alla luce di quanto verificatosi in occasione di precedenti astensioni dal lavoro promosse dalle medesime Organizzazioni dei lavoratori, si prevede che la partecipazione ai richiamati scioperi sarà consistente».
Il Coordinamento Lavoratori Autoconvocati (CLA) che, insieme alla Cub Trasporti, al Sgb, ad alcuni lavoratori del Coordinamento Macchinisti Cargo (CMC), al Sol Cobas e a organizzazioni dei familiari delle vittime da stragi sul lavoro ha costituito un Coordinamento più largo, denominatosi “Coordinamento 12 ottobre”, ha partecipato alle assemblee dei ferrovieri e scritto e diffuso comunicati a sostegno di questi scioperi.
3) Un terzo movimento di sciopero di cui abbiamo reso conto nella nostra stampa e che stiamo continuando a seguire è stato quello degli operai delle manutenzioni ferroviarie dell’azienda statale Rfi.
I sindacati di regime (Filt Cgil, Fit Cisl, Uiltrasporti, Ugl Trasporti) e quelli autonomi (Fast e Orsa) hanno firmato alle loro spalle un accordo con l’azienda, il 10 gennaio, che liberalizza il lavoro notturno, di sabato e domenica. Ciò ha messo in moto un settore di operai passivo da decenni. I lavoratori si sono organizzati in una Assemblea Nazionale Lavoratori Manutenzioni, analoga a quella del personale viaggiante, sostenuta dai sindacati di base Cobas Lavoro Privato e Usb. Una minoranza di strutture territoriali dell’Orsa si è schierata contro la decisione della dirigenza nazionale di questo sindacato.
Sono stati promossi tre scioperi e un quarto per il 3 giugno [di quest’ultimo rendiamo conto in questo stesso numero]. Anche questi lavoratori sottostanno alle leggi antisciopero, in quanto ferrovieri, per quanto il loro sciopero non incida sulla erogazione del servizio trasporto passeggeri.
I primi due scioperi sono andati molto bene. Il primo, il 12 febbraio, insieme a macchinisti e capitreno. In Rfi ha avuto un’adesione del 70%, ottima considerati gli anni di passività e la struttura capillare sul territorio nazionale dell’azienda. Il successo dello sciopero, promosso dalla neonata Assemblea Nazionale e dai sindacati di base, ha scatenato la paura e la reazione dell’azienda e dei sindacati di regime e autonomi, con varie manovre, di intimidazione, terrorismo e per generare confusione. A Genova un delegato della Cgil – affiliato alla maggioranza interna – ha ripetutamente accusato gli scioperanti di essere fascisti.
La Filt Cgil si conferma – con la parziale eccezione del comparto porti – una delle federazioni della Cgil più anti-operaie. D’altronde, fu principalmente a seguito delle lotte dei ferrovieri, a partire dal 1975, poi negli anni ‘80 col Comu e il Comitato Nazionale Personale Viaggiante (CNPV), che scaturì la volontà della borghesia di promulgare la prima legge anti-sciopero, nel giugno 1990, invocata innanzitutto da questa federazione della Cgil, che già a metà anni ‘70 accusava gli scioperanti d’essere fascisti e promuoveva i cosiddetti “codici di autoregolamentazione”, denunciando le loro rivendicazioni salariali come “corporative”.
Il secondo sciopero, il 13 marzo, ha visto un’adesione superiore al primo, pari al 73%, e una riuscita manifestazione a Roma, con 400 operai in corteo dalla stazione alla sede dell’azienda e poi di nuovo in stazione. Il corteo non era stato previsto, ma il numero dei lavoratori è stato tale da imporlo nonostante la presenza della polizia.
Siamo intervenuti con un volantino che è stato l’unico di un partito politico diffuso fra questi lavoratori. L’altro è stato quello del Coordinamento 12 Ottobre, da parte quindi di un organismo sindacale la cui linea di lotta è condivisa dal nostro Partito e sostenuta, fattivamente, partecipando all’attività del coordinamento.
Le intimidazioni dell’azienda e dei sindacati di regime hanno poi iniziato ad avere effetto e il terzo sciopero, il 3 maggio, ha registrato una flessione nelle adesioni, e anche la manifestazione nazionale, organizzata questa volta a Firenze, ha visto la metà dei partecipanti di quella di Roma. Anche qui siamo intervenuti con un nuovo volantino del Partito, e così ha fatto Coordinamento 12 Ottobre.
Logistica aeroportuale e tessili
Passando alle lotte sul piano aziendale sono stati rilevanti:
1) Lo sciopero a oltranza di 5 giorni dei lavoratori Milano Logistica Europa presso l’aeroporto Malpensa Cargo, il secondo aeroporto italiano. Lo sciopero è stato importante non solo perché ha violato la legge antisciopero, superando il limite di durata di 24 ore. Inoltre, rispetto al contratto nazionale di categoria firmato poche settimane prima dai sindacati di regime, ha rivendicato trattamenti salariali migliori, che in altre aziende dello stesso aeroporto i lavoratori avevano già conquistato, sempre organizzati dai sindacati di base, che lì agiscono in modo unitario, insieme anche al sindacato autonomo Flai.
2) Abbiamo poi reso conto sul giornale degli scioperi in alcune fabbriche tessili di Prato organizzati dal SI Cobas. Questi scioperi sono importanti perché si tratta di lavoratori fra i più sfruttati della classe operaia. Tali condizioni si sono presenti da decenni nel distretto tessile pratese, senza che la Cgil abbia mai fatto nulla per migliorarle. Sicché ormai da alcuni anni gruppi di lavoratori, quasi tutti immigrati, si sono rivolti al SI Cobas, che ha condotto svariate lotte, alcune delle quali vittoriose, e che gode della fiducia di questi lavoratori, come abbiamo potuto verificare partecipando a diverse manifestazioni. A maggio la struttura territoriale del SI Cobas di Prato e Firenze si è staccata da questo sindacato di base, andando a formare un’organizzazione separata denominata Sudd Cobas.
Oepac e maestre
Per quanto riguarda le lotte sul piano locale, abbiamo reso conto sulla nostra stampa della mobilitazione a Roma delle “Operatrici educative per l’autonomia e la comunicazione” e delle “maestre delle scuole per l’infanzia”, organizzate nei sindacati di base. Queste mobilitazioni hanno portato a diversi scioperi e a manifestazioni con alcune centinaia di lavoratrici, fra dicembre e marzo.
Infine, i sindacati di base hanno deciso di convocare uno sciopero nazionale dell’intera categoria impiegata con il contratto collettivo nazionale di lavoro delle “cooperative sociali”, riguardante circa 400.000 lavoratrici e da poco rinnovato dai sindacati di regime. In realtà la mobilitazione ha riguardato principalmente il settore delle educatrici, composto da circa 70.000 lavoratori a livello nazionale. Poi vi sono, che applicano il contratto cooperative sociali, i settori della assistenza socio-sanitaria e dei servizi di inclusione sociale per gli immigrati. Qui la sindacalizzazione è difficile e arretrata; è relativamente più progredita appunto in quello educativo.
Il sindacalismo di base è presente in varie città con differenti organizzazioni, sicché la sua unità d’azione è una base imprescindibile per organizzare una mobilitazione nazionale. È stato promosso lo sciopero nazionale il 10 aprile, con manifestazione a Roma, in cui siamo intervenuti con un volantino, che anche in questo caso è stato l’unico diffuso fra queste lavoratrici.
La manifestazione ha avuto una partecipazione non grande ma sufficiente a conferirle un carattere combattivo e a sollevare il morale ai partecipanti, come si è riscontrato anche dal tenore dei diversi interventi in quella che è stata una sorta di assemblea, in cui tutti potevano intervenire portando i contenuti della lotta. Molti interventi hanno sottolineato l’importanza dell’unità d’azione dei sindacati di base confermando come l’indirizzo sindacale del nostro Partito sia quello in sintonia con le esigenze reali del movimento.
I portuali
Pochi giorni prima dello sciopero delle cooperative sociali, il 5 aprile, siamo intervenuti a Genova alla manifestazione nazionale dei portuali per lo sciopero nazionale promosso da Filt Cgil, Fit Cisl e Uiltrasporti, nel quadro del rinnovo del contratto nazionale. Abbiamo diffuso un volantino appositamente redatto. Due giorni prima abbiamo partecipato a Genova all’assemblea di circa 400 portuali.
Gli scioperi e le manifestazioni dei portuali sono abbastanza rari. A Genova la precedente mobilitazione era stata il 5 marzo 2021. Ma il dato più eclatante è stato quello dichiarato da alcuni delegati nell’assemblea: erano 23 anni che i sindacati non convocavano l’assembla dei lavoratori!
Ciò è avvenuto per un certo malessere manifestatosi nella categoria, che all’interno della classe operaia gode di condizioni superiori alle medie. Possono aver influito sia l’inflazione sia la riduzione delle ore lavorate per il calo dei traffici a seguito delle azioni degli Houti nel Mar Rosso, che hanno portato gli armatori a dirottare le navi sulla rotta che circumnaviga l’Africa per dirigersi nei porti del Nord Europa.
La manifestazione ha avuto una buona partecipazione ma ha espresso una bassa combattività. Evidentemente il malessere serpeggiante fra i portuali è ancora facilmente controllabile dai sindacati di regime.
Nel porto di Genova – uno dei primi del Mediterraneo se si escludono gli scali che operano soprattutto il trasbordo dei container da grandi navi a navi più piccole, detti porti transhipment, come ad esempio Port Said, Valencia, Algeciras, Gioia Tauro – da ottobre 2020 si è insediata l’Usb, che è presente anche negli scali di Livorno, Civitavecchia e Salerno.
In occasione dello sciopero nazionale promosso dai sindacati di regime, l’Usb Porti ha preso la giusta decisione di confluire in esso, con ciò distinguendosi dalla condotta tradizionale delle dirigenze del sindacalismo di base, volta a disertare gli scioperi promossi da Cgil Cisl e Uil, negando uno dei principi fondamentali del sindacalismo di classe, cioè l’unità d’azione dei lavoratori nella lotta. Tuttavia, invece di partecipare al corteo, l’Usb ha mantenuto un picchetto presso il principale terminal del porto di Genova, quello di Voltri, isolandosi così dal resto dei lavoratori.
Inizialmente i sindacati di regime avevano diviso lo sciopero su 3 giorni, dal 3 al 5 aprile, 2 ore ogni fine turno. Quando l’Usb ha proclamato lo sciopero di 24 ore per il 5 aprile, allora Cgil, Cisl e Uil hanno concentrato anch’esse lo sciopero per quel giorno e hanno convocato la manifestazione nazionale a Genova. Pur debole, la presenza dell’Usb preoccupa quindi i sindacati di regime fra i portuali, e li porta a operare determinate contromisure.
* * *
In conclusione, in questo quadro di mobilitazioni e del nostro intervento in esse si scorgono dei primi segni di ritorno alla lotta di alcuni limitati reparti della classe, per altro abbastanza disparati per condizioni: dai ferrovieri alle educatrici, dagli aeroportuali alle piccole fabbriche tessili.
Tutti questi primi reparti della classe lavoratrice hanno ripreso a manifestare combattività tramite organismi sindacali fuori e contro i sindacati di regime. Nei sindacati di base esistenti o in organismi ex novo, che stanno collaborando coi primi spingendoli ad agire unitariamente.
Questa necessità di organizzarsi fuori dai sindacati di regime si manifesta, altro fattore da considerare, in categorie con condizioni alquanto differenti: dalle peggio pagate, abbandonate dai sindacati di regime, in cui perciò la sindacalizzazione era pressoché assente, come nei tessili, così come già era stato nella logistica, ad altre con condizioni relativamente migliori e con un forte controllo sindacale, quali i ferrovieri.
Questi lavoratori sono spinti da un lato a organizzarsi fuori dai sindacati di regime, dall’altro scontano i limiti e i danni provocati dalle dirigenze opportuniste dei sindacati di base.
Una difficoltà connaturata alla lotta di classe, che anzi è uno dei suoi precipui aspetti, quello della lotta politica entro il sindacato, che si manifesta in lotta fra opposti indirizzi sindacali, nei modi di azione, rivendicazioni, organizzazione. E che coincide con la lotta per far guadagnare forza all’indirizzo sindacale autenticamente comunista entro le organizzazioni sindacali suscettibili – fino a prova contraria – di essere conquistate ad esso.
Dentro Usb
All’interno del sindacato USB abbiamo redatto e diffuso, insieme ad altri
delegati sindacali non del nostro Partito, un documento interno di critica
all’indirizzo della dirigenza, datato 2 aprile, quale espresso nel documento
finale del Coordinamento Nazionale Confederale del 22-23 marzo. Questo documento
si articola in 6 punti:
1) Richiesta di unificare le vertenze per i rinnovi dei contratti nazionali;
2) Richiesta di agire unitariamente agli altri sindacati di base: abbiamo
indicato i recenti esempi di unità d’azione qui sopra riportati;
3) Richiesta di organizzare una manifestazione unitaria di tutto il sindacalismo
conflittuale per il primo maggio;
4) Richiesta di aderire agli scioperi della Cgil e, se possibile, estenderli
nella durata e ad altre categorie;
5) Critica alla prevista manifestazione del 1° giugno, in quanto della sola Usb
e caratterizzata in senso anti-governativo più che sulle rivendicazioni della
classe operaia, ciò nel pieno della campagna elettorale per le elezioni europee
di giugno;
6) Critica alla impostazione della battaglia per la salute e la sicurezza dei
lavoratori, in quanto incentrata sulla rivendicazione della introduzione del
reato di omicidio sul lavoro, ciò rifacendosi anche ai pronunciamenti del
convegno nazionale di Firenze del 2 marzo, e indicazione, in luogo di ciò, di
condurre una campagna unitaria di tutto il sindacalismo conflittuale per
l’abolizione delle leggi anti-sciopero.
Il 25 aprile scorso la Cgil ha lanciato una nuova campagna
referendaria, promuovendo la raccolta firme per 4 abrogazioni:
1) della legge che, con il governo Renzi, nel 2015
finì di demolire l’articolo 18 della legge 300 del 1970, che
offriva una tutela dai licenziamenti individuali illegittimi per i
lavoratori, garantendo maggiori possibilità di reintegro sul posto
di lavoro;
2) delle norme che facilitano i licenziamenti illegittimi nelle piccole
imprese, eliminando il tetto di indennizzo economico massimo per il
lavoratore, in modo da rendere meno conveniente licenziare nella imprese non
coperte dall’art. 18 – quelle con meno di 15 dipendenti;
3) di
un’altra norma del governo Renzi, il decreto legislativo n. 81 del
2015, che ha liberalizzato il ricorso ai contratti a tempo
determinato inferiori ai 12 mesi, eliminando la necessità di
indicare le cosiddette “causali”, cioè i motivi specifici per
cui l’azienda ricorre a tale forma contrattuale;
4) delle
norme che impediscono, in caso di infortunio o malattia contratti sul
lavoro nelle imprese in appalto, di estendere la responsabilità
all’impresa appaltante. Aumentare le possibilità di considerare
responsabile le imprese appaltanti, prevedibilmente le indurrebbe a
imporre più severe verifiche sul rispetto delle norme per la salute
e la sicurezza da parte delle imprese appaltatrici.
Queste abrogazioni, se approvate, andrebbero ad attenuare la ricattabilità della classe lavoratrice, un dato che è ineliminabile nel capitalismo, suscettibile di variazioni a seconda dei rapporti di forza fra le classi, e che negli ultimi decenni si è aggravato col diffondersi del precariato.
È però ben difficile valutare quanto simili modifiche sarebbero realmente a favore dei salariati, nel ginepraio legislativo e contrattuale.
Noi comunisti non commettiamo l’ingenuità di negare importanza anche a conquiste, anche piccole, per i lavoratori costretti a condizioni di vita sempre più dure dalla società del capitale.
Ma il problema non deve essere inquadrato secondo uno schema superficiale per cui qualsiasi miglioramento va perseguito con qualsiasi mezzo, bensì col metro se una conquista, piccola o grande, sia foriera di conquiste future più grandi o meno. Se sia cioè un miglioramento effimero e illusorio o un passo in avanti nel rafforzamento del movimento di lotta sindacale dei lavoratori.
In questa valutazione è necessariamente incluso il metodo che si utilizza per perseguire l’obiettivo. Anzi, entro certi limiti, il metodo è persino più importante dell’obiettivo.
È su questo piano che si apprezza la piena contrapposizione fra il metodo del sindacalismo di classe e quello promosso dalla Cgil, che è espressione del collaborazionismo fra le classi.
Si deve apprezzare anche la differenza fra l’indirizzo sindacale del nostro partito – che è di classe – e quello dei gruppi dirigenti delle correnti sindacali che al sindacalismo di classe più o meno chiaramente si richiamano.
Il metodo referendario per ottenere miglioramenti in favore dei lavoratori va rigettato perché è la negazione, in pratica e in principio, della lotta di classe.
Come sempre, anche questa nostra direttiva non è precostituita, ideologica, come vorrebbero far credere gli ipocriti sindacalisti filo-padronali che dirigono Cgil, Cisl, Uil.
È storicamente indiscutibile che le conquiste davvero importanti la classe operaia, in tutti i paesi, le ha ottenute con la lotta, tanto più grandi quanto più essa è stata estesa e radicale.
Il collaborazionismo sindacale, che limita lo sciopero quanto più possibile nel tempo e nello spazio e – dichiaratamente – come extrema ratio, fiorisce nei periodi di regressione delle condizioni della classe lavoratrice, portando, ben diversamente che a progressivi piccoli miglioramenti, a un graduale arretramento, come in modo assai chiaro dimostrano gli ultimi 4 decenni.
Eventuali miglioramenti guadagnati attraverso un referendum offrirebbero ai lavoratori una volta di più un insegnamento diseducativo nei confronti della lotta: basterebbe recarsi alle urne, cosa ben diversa dallo scioperare. Con ciò non creerebbero le condizioni di una maggior forza combattiva dei lavoratori, bensì puntellerebbero l’attuale passività, offrendo al padronato garanzie del perdurare delle condizioni di pace sociale che hanno garantito anni di arretramenti delle condizioni di vita della classe operaia.
Il metodo referendario è
proprio del sindacalismo collaborazionista almeno per due ragioni:
- a decidere dei problemi
che riguardano la classe lavoratrice sono chiamati a votare i membri
di tutte le classi sociali. Si afferma perciò per questa via il
principio dell’interclassismo, della sottomissione della classe operaia alle altre classi;
- col metodo del voto
segreto, l’opinione del lavoratore arretrato, non sindacalizzato,
individualista, persino del crumiro, è posta sullo stesso piano del
voto dei lavoratori combattivi, che per consapevolezza, generosità e
altruismo si sacrificano per gli interessi collettivi della loro
classe.
Per la seconda di queste due ragioni, anche il referendum per ratificare accordi contrattuali va rigettato, per quanto coinvolga solo lavoratori, e non è certo un caso che esso sia sempre stato un cavallo di battaglia della dirigenza Fiom, e non solo, e uno strumento utilissimo con cui i sindacati di regime sanciscono e giustificano da decenni i rinnovi dei contratti nazionali, sempre a perdere.
Da queste considerazioni deriva come il principio democratico sia contro la lotta di classe, che si basa invece su un rapporto di forze, non sul conteggio delle opinioni.
Nella lotta contano i lavoratori organizzati che, con diversi grado di impegno, sono in essa coinvolti. Dalla base degli iscritti, a chi partecipa alle assemblee e alle riunioni, a chi è attivo con costanza nella vita sindacale, ai lavoratori che si schierano in modo più o meno determinato durante lo sciopero.
Certo, si vota nelle assemblee dei lavoratori. Ma lo si fa con voto palese, non "in privato", nel segreto dell’urna. Chi non partecipa alle assemblee e alle riunioni è quindi escluso dal contare nel prendere decisioni, col che si applica già una prima importante discriminante fra chi si impegna e chi se ne frega della lotta sindacale. Prendere posizione pubblica davanti ai propri compagni di lavoro ne opera un’altra.
Evidentemente in questo modo non si tratta di rispettare in modo ossequioso un principio astratto di giustizia, democratico, che quando viene calato nel mondo reale del capitalismo si trasforma in una formidabile arma per perpetuare l’ingiustizia della classe privilegiata ai danni dei lavoratori. Si tratta di porre quale principio sovrano gli interessi della classe sfruttata e quindi la sua forza e la sua lotta.
Che i dirigenti filo-borghesi della Cgil promuovano i referendum, per continuare la loro imperitura opera di diseducazione dei lavoratori e per coprire con questo diversivo la loro volontà a non organizzare alcuna lotta, è quanto mai scontato e logico.
A noi però interessa porre a critica quelle correnti sindacali che si vogliono “di classe”, e perciò contro il sindacalismo collaborazionista, ma che rispondono alle manovre della dirigenza Cgil in modo inadeguato, e ciò per il vizio d’origine della sudditanza all’ideologia democratica, cioè borghese.
Per la portavoce dell’area di alternativa in Cgil “Le radici del sindacato”: «Bisogna sapere che non basteranno né uno né due né quattro referendum, ma sono sicuramente un passo per aprire una riflessione e, io spero, una mobilitazione» (“Progetto Lavoro”, maggio ‘24).
Il referendum in sé, quindi, non è denunciato come uno strumento proprio del sindacalismo collaborazionista, contro il sindacalismo di lotta. La campagna referendaria della dirigenza Cgil sarebbe un “passo” in direzione di una “riflessione” e – si spera [!] – di una mobilitazione, non il consunto metodo diversivo contro la lotta della dirigenza Cgil!
La dirigenza nazionale della Cub segue un analogo spartito nel suo comunicato del 21 maggio scorso: «Non basta votare e vincere il referendum, che rappresenta un pezzo di una battaglia più generale che la Cub conduce da sempre. Serve proseguire le mobilitazioni» (“Referendum Cgil”).
Solo il dirigente nazionale della Cub SUR (Scuola, Università, Ricerca), almeno per quanto ci è dato sapere, ha preso in questo sindacato di base posizione corretta, rilevando il carattere diseducativo dello strumento referendario.
Lottare non è votare, peggio se insieme ai padroni:: questo è
l’insegnamento che chi sostiene il sindacalismo di classe deve dare ai
lavoratori.
È passato un anno dal massacro di 5 lavoratori in questa stazione. Un anno costellato da altre orribili stragi: il 30 novembre un altro incidente ferroviario, a Thurio, con 2 morti; il 16 febbraio, a Firenze, il crollo al cantiere Esselunga, con 5 morti; il 9 aprile nella centrale idroelettrica di Suviana, 7 morti; il 6 maggio, a Palermo, morti in 5 asfissiati nelle fogne.
Questi sono i casi eclatanti, quelli che fanno parlare per qualche ora la stampa e piangere lacrime di coccodrillo ai politicanti borghesi e ai sindacalisti di regime. Ma le stragi vengono solo a cadenzare un ritmo costante, un rullo compressore che provoca la morte di 3/4 operai al giorno, cui sommare gli infortuni che provocano invalidità permanenti e le malattie contratte sul lavoro.
Morti, infortuni, malattie sono una faccia dello sfruttamento, una parte del prezzo pagato dalla classe lavoratrice per il bene del Profitto. Quella classe lavoratrice, operaia, proletaria che ideologi e politici della classe dominante predicano non esistere più, non poter più lottare per sé stessa, cioè per i suoi obiettivi economici e politici.
Del fronte padronale fanno a pieno titolo parte i capi dei sindacati di regime – Cgil, Cisl, Uil, Ugl – che hanno eliminato fin nei loro discorsi il termine “classe” e che – al di là delle loro chiacchiere – puntellano coi loro atti lo sfruttamento: coi rinnovi contrattuali “a perdere” da decenni, col contrasto a ogni vera azione di lotta dei lavoratori, con l’invocazione e la difesa delle leggi che impediscono a sempre più lavoratori di scioperare liberamente e, perciò, di difendersi.
Esempio evidente del ruolo di questi sindacati collaborazionisti è l’accordo che, proprio nel settore della manutenzione dell’infrastruttura ferroviaria, hanno siglato il 10 gennaio scorso, liberalizzando il ricorso al lavoro notturno, di sabato e di domenica. Contro questo accordo i lavoratori di RFI si sono organizzati in una Assemblea Nazionale Lavoratori Manutenzioni (ANLM) – sostenuta dai sindacati di base (Cobas, Cub, Usb) – che ha promosso 5 scioperi, tutti con alte adesioni, con il sesto programmato per il prossimo 6 settembre. Questa lotta è contrastata con ogni mezzo meschino dall’Azienda di Stato in combutta coi sindacati firmatari.
La difesa della salute e della sicurezza dei lavoratori è parte della difesa delle condizioni di vita e d’impiego: minore precarietà e salari più alti implicano minore ricattabilità; riduzione dell’orario, dei ritmi di lavoro, del lavoro notturno, riducono i rischi.
La lotta per questi obiettivi non può essere demandata a nessuno: non ai sindacati venduti, non ai partiti borghesi in Parlamento, non allo Stato, che non è “democratico” e “sopra le parti” ma padronale. I lavoratori possono difendersi solo da sé stessi, ricostruendo le loro organizzazioni sindacali di classe, scioperando in modo sempre più esteso e unito.
I lavoratori di RFI hanno dato un esempio, ma non sono i soli:
- i ferrovieri del personale viaggiante (macchinisti e capi treno) da un anno si
sono organizzati nella Assemblea Nazionale PdM-PdB per condurre la battaglia per
un rinnovo del contratto nazionale che abbia al centro la riduzione dell’orario
di lavoro;
- sostenuti dai sindacati di base (Cub, Sgb, Usb), anch’essi sciopereranno il
7-8 settembre, dopo che i precedenti quattro scioperi hanno avuto adesioni molto
alte;
- nel settore ferroviario-merci da 3 anni è attivo il Coordinamento Macchinisti
Cargo, che partecipa alle lotte al fianco degli altri ferrovieri e che è
anch’esso ispirato dall’unire i lavoratori nella lotta al di sopra delle
divisioni sindacali;
- l’unità d’azione dei sindacati di base è stata determinante anche
all’aeroporto di Malpensa, dove centinaia di lavoratori di diverse aziende
logistiche hanno ottenuto integrativi migliorativi in termini salariali rispetto
al misero contratto nazionale firmato da Cgil, Cisl e Uil. In una di queste
aziende – la MLE – a febbraio oltre 200 lavoratori hanno scioperato a oltranza
per 5 giorni, rompendo le catene della legge antisciopero (146/1990), sostenuti
in modo unitario dai sindacati di base (Adl, Cub, Usb);
- fra le lavoratrici delle Cooperative sociali l’unità d’azione dei sindacati di
base ha permesso diversi scioperi riusciti, di cui uno nazionale lo scorso 10
aprile;
- infine anche fra gli autoferrotranvieri i sindacati di base stanno conducendo
scioperi unitari, col terzo di quest’anno previsto per il prossimo 20 settembre.
La manifestazione di oggi si pone su questa giusta strada perché è stata promossa e sostenuta da tutti i sindacati di base presenti fra i ferrovieri e vede l’adesione anche dell’area di minoranza in Cgil “Le Radici del Sindacato”.
L’unità d’azione di tutto il sindacalismo conflittuale – dei sindacati di base e delle minoranze combattive in Cgil – è l’indirizzo che meglio può aiutare a ottenere il più alto grado di unità nella lotta dei lavoratori, strappandoli al controllo del sindacalismo di regime, compiendo passi reali verso la ricostruzione del movimento operaio, verso la rinascita di un unico forte sindacato di classe.
Il Fronte unico del sindacalismo di classe è l’indirizzo sindacale che contraddistingue il partito autenticamente comunista. Non devono essere incluse nel fronte sindacale organizzazioni partitiche, che inevitabilmente verrebbero a dividerlo, ma solo i lavoratori d’ogni orientamento e organizzazione politica.
L’unità d’azione del sindacalismo conflittuale va portata avanti in ogni
vertenza, in ogni categoria e a livello confederale, organizzando e definendo
assemblee, piattaforme contrattuali e scioperi unitari. L’obiettivo deve essere
unificare le lotte esistenti in un movimento generale in grado di attrarre a sé
sempre più lavoratori ancora passivi e di battersi per:
- forti aumenti salariali, maggiori per le categorie e le qualifiche peggio
pagate;
- riduzione dell’orario di lavoro;
- abolizione delle leggi anti-sciopero volute da Cgil, Cisl e Uil contro il
sindacalismo di classe;
- abolizione delle norme sulla “fedeltà aziendale”, con cui le aziende
perseguono i lavoratori che si battono per la salute e la sicurezza sul lavoro;
- smantellamento del sistema degli appalti, mediante l’internalizzazione delle
attività e la parità di trattamento salariale e normativo nello stesso posto di
lavoro;
- abbassamento dell’età pensionabile.
Dopo i 5 operai delle manutenzioni ferroviarie morti a Brandizzo (Torino) il 30 agosto 2023 e i 5 operai morti nel cantiere edile Esselunga il 16 febbraio scorso a Firenze, 7 operai sono morti nella centrale idroelettrica di Suviana (Bologna) il 9 aprile e altri 5 sono morti il 6 maggio nelle fognature di Casteldaccia, nel palermitano. Fra una strage e l’altra – che per breve tempo richiama l’attenzione generale sul problema della sicurezza sul lavoro – muoiono ogni giorno fra i 3 e i 4 lavoratori. Poi vi è l’esercito di proletari resi invalidi a vita o che muoiono precocemente per malattie contratte sul lavoro, con beneficio per le casse dell’INPS e dello Stato borghese. Non è una peculiarità italiana: i dati sono simili, anche peggiori, in Francia, Spagna, Portogallo... Non a caso l’ulteriore liberalizzazione degli appalti, approvata dal Governo un anno fa, è stata compiuta per adeguare la legislazione italiana in materia a una direttiva dell’Unione Europea. Il problema è il capitalismo che, minato dalla sua crisi di sovrapproduzione, preme per aumentare lo sfruttamento dei lavoratori, aggravando i rischi per la loro vita e salute.
Contro questo processo, sotto gli occhi di tutti, da decenni i sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl) non oppongono una lotta generale e radicale ma, secondo il loro proclamato collaborazionismo di classe, organizzano mobilitazioni deboli e simboliche per obiettivi minimi, inutili e che per di più nemmeno raggiungono. I salari dei lavoratori in Italia sono in calo dal 1992 perché Cgil Cisl e Uil firmarono allora l’accordo sulla politica dei redditi; poi dal 2010 hanno introdotto l’indice IPCA per il calcolo – al ribasso – degli aumenti da rivendicare e così in tutti questi 30 anni hanno firmato rinnovi contrattuali con anni di ritardo e che hanno fatto perdere potere d’acquisto ai salari. Hanno firmato contratti collettivi che persino la magistratura ha dichiarato illegittimi! A gennaio scorso, ad esempio, hanno sottoscritto un accordo per la liberalizzazione dei turni di notte, sabato e domenica per gli operai delle manutenzioni ferroviarie (RFI) e, ora che questi lavoratori si sono organizzati fuori e contro i sindacati di regime, scioperando e manifestando, si sono schierati contro questa lotta, cercando di sabotarla.
Le condizioni di sicurezza e di salute dei lavoratori dipendono dal complesso delle condizioni di lavoro e di vita: dal salario, dalla durata dell’orario di lavoro, dai carichi e dai ritmi di lavoro, dai turni, dal tempo di riposo, dall’età pensionabile. Solo battendosi su questo terreno è possibile porre un freno al tributo di sangue che il capitalismo chiede in misura sempre maggiore.
La Rsu ex GKN giustamente denuncia: "Noi non abbiamo più tempo al quinto mese senza stipendio né ammortizzatore sociale, senza alcuna risposta dalle istituzioni” e che “è difficile tornare in piazza oggi, quando tutti i nostri occhi sono puntati su Gaza e sull’escalation bellica mondiale. Eppure noi sappiamo che le cose sono collegate, è la stessa economia che provoca qui delocalizzazioni, impoverimento e schiavitù e da altri parti guerra, morte e distruzione". Ma la risposta a queste denunce non si può aspettare dalle istituzioni borghesi. Non esistono provvedimenti legislativi taumaturgici: solo la lotta dei lavoratori e quindi il rafforzamento del sindacalismo di classe, contro il sindacalismo collaborazionista e di regime, possono difendere il salario, il posto di lavoro, la salute e la sicurezza dei lavoratori. In tal senso, ben più che l’introduzione di nuove leggi, serve l’abrogazione delle leggi anti-sciopero (146/1990 e 83/2000, volute da Cgil Cisl e Uil) ed è per questo obiettivo che il sindacalismo conflittuale (sindacati di base e aree combattive in Cgil) dovrebbe promuovere unitariamente una campagna, invece che invocare – come fanno le dirigenze di diversi sindacati di base – una legge sulla rappresentanza sindacale che si ritorcerebbe contro di essi e a favore dei sindacati di regime. I sindacati di base non devono nemmeno ignorare le mobilitazioni dei sindacati di regime bensì agire rispettando sempre il principio pratico dell’unità dei lavoratori nella lotta sindacale.
In questa situazione di crisi
economica e produttiva, non si può continuare ad aspettare il
miraggio del rilancio industriale ma organizzare un forte movimento
di sciopero per imporre al padronato e allo Stato il principio che i
lavoratori, tutti i lavoratori che siano occupati o meno, hanno
diritto ad un salario che permetta loro di vivere dignitosamente! I
sindacati di base devono agire unitariamente,
come già fanno con
successo in diversi settori e aziende (macchinisti e capitreno, Rfi,
handling aeroportuale, logistica, cooperative sociali,
autoferrotranvieri), invitare a unirsi a loro le aree conflittuali in
Cgil, per costruire
un fronte unico sindacale di classe al fine di imbastire lotte
sempre più generali per forti aumenti salariali, per la riduzione
dell’orario di lavoro a parità di salario, per la riduzione
dell’età pensionabile, per il salario pieno ai lavoratori
disoccupati.
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Ma i movimenti studenteschi e popolari si confermano impotenti di fronte al Capitalismo e solo possono illudere di riformarlo
Soltanto la classe lavoratrice – organizzata in potenti sindacati di classe e diretta dal partito comunista – potrà assolvere al compito storico di abbatterlo
Dopo i moti sociali che negli ultimi 15 anni hanno scosso Tunisia, Egitto, Cile, Colombia, Ecuador, Kazakistan, Sri Lanka e, poche settimane fa, il Kenya, in Bangladesh una nuova eruzione promana dal sottosuolo sociale.
Nel nostro articolo del gennaio scorso, “Bangladesh: Crescono le fabbriche - Montano i contrasti tra predoni borghesi - Divampa la lotta di classe”, avevamo descritto lo scenario da cui era emersa la potente lotta dei tessili, oltre 4 milioni in tutto il paese, con richieste di aumenti salariali del 200%. A sciopero concluso hanno ottenuto solo il 56%, una boccata d’ossigeno. Una lotta dunque solo momentaneamente placata, d’esempio per tutti i lavoratori, destinata a riaccendersi in breve tempo.
Il
quadro della crisi sociale
Il Bangladesh è l’ottavo paese più popoloso al mondo, dopo la Nigeria; il maggiore per densità, considerando gli Stati con popolazione di almeno 10 milioni persone. I suoi 173 milioni di abitanti, in continuo aumento, vivono in un territorio poco più grande della Grecia, la quale conta circa 10 milioni di abitanti. Oltre il 30% degli abitanti ha meno di 15 anni. Il 17% della popolazione è analfabeta.
Da diversi anni le statistiche segnano per il Bangladesh una continua crescita dell’accumulazione capitalistica. Il paese attrae sempre più capitali assetati di plusvalore, che si realizza principalmente nell’industria tessile, la quale rappresenta l’85% delle esportazioni.
Ma quasi 3/4 della popolazione vive ancora nelle campagne e metà della popolazione attiva è occupata in agricoltura. Alle condizioni di sfruttamento della classe lavoratrice, con salari bassi, disoccupazione e inflazione in crescita, si sommano quindi le contraddizioni sociali di un giovane capitalismo, con la rovina e l’inurbamento di centinaia di migliaia di contadini poveri e altrettanti che prendono la via dell’emigrazione.
Nel 2019 erano 23 milioni i bengalesi considerati in “estrema povertà”. Nel 2022 se ne sono aggiunti 500.000, mentre di 800.000 sono aumentati i “moderatamente poveri”. Per i criteri della Banca mondiale in “povertà estrema” si intende chi ha un reddito inferiore a 2,15 dollari al giorno, che sale a 3,65 dollari per la “povertà moderata”. Secondo le previsioni del precedente governo bengalese aumenteranno nei prossimi anni.
La struttura del territorio lo rende, nel mondo del capitale, vulnerabile. È il grande delta del sistema fluviale Gange-Brahmaputra, ripartito in oltre 700 bracci. Negli ultimi venti anni si sono registrati oltre 200 eventi meteorologici estremi, spesso cicloni seguiti da inondazioni. Parte delle terre sono invase dall’acqua. L’avanzamento della salinità erode gli argini dei fiumi e riduce la fertilità dei terreni. Secondo i dati forniti dall’Internal Displacement Monitoring Centre (IDMC), nel 2022 è stato il Paese col più alto numero di sfollati a causa di disastri naturali. Nel 2023 gli sfollati all’interno dei confini nazionali sono stati 1,8 milioni.
Ogni anno circa trecentomila migranti interni si trasferiscono nelle baraccopoli della capitale Dacca. Non hanno scelta, avendo perso tutto a causa degli eventi atmosferici o piccoli contadini strozzati dai debiti. Cercano un salario per sopravvivere, di solito le donne nelle fabbriche tessili, gli uomini nell’edilizia.
Il Bangladesh è anche sesto al mondo per numero di emigranti. Mediamente in 400.000 lasciano il paese ogni anno. Oggi circa 15 milioni di bengalesi sono emigrati. Mentre quelli temporanei cercano un salario nei paesi del Medio Oriente e del Sud-Est asiatico, quelli stabili vorrebbero rifarsi una vita in Gran Bretagna, da sempre la meta principale, e in altri paesi. Negli ultimi decenni anche l’Italia è divenuta una destinazione ambita. Molti sono impiegati nella cantieristica navale e nelle attività più gravose.
Infine, il Bangladesh ospita circa un milione di rifugiati di etnia Rohingya nei campi profughi di Cox’s Bazar, città nella costa orientale vicina al confine con il Myanmar, paese da cui sono fuggiti a seguito delle atroci persecuzioni perpetrate dall’esercito sotto il governo di Aung San Suu Kyi, un’altra paladina della non violenza e della democrazia, nominata nel 1991 premio Nobel per la pace.
Ora sta per toccare ai proletari bengalesi saggiare il valore degli uomini politici meritevoli di tali onorificenze borghesi!
Dal
movimento studentesco al movimento popolare
È in questo quadro di crisi sociale, a 10 mesi dallo sciopero a oltranza dei tessili, che le proteste studentesche hanno innescato un movimento di massa che si è concluso con la caduta del governo.
Fino al 2018 era previsto che il 56% dei posti disponibili nella pubblica amministrazione fosse riservato a categorie specifiche: il 10% a chi proveniva da zone economicamente meno sviluppate, il 10% alle donne, il 5% alle comunità indigene, l’1% a disabili e, la quota più contestata, il 30% ai discendenti dei “combattenti per la libertà”, i caduti durante la guerra di indipendenza del 1971 che portò l’allora Bengala Orientale alla separazione dal Pakistan. Il sistema, che privilegiava i nipoti dei circa 300.000 soldati di quella guerra, era un importante strumento clientelare per i partiti borghesi che amministrano gli interessi della classe dominante, per la lega Awami, nata da una scissione della Lega Musulmana di tutto il Pakistan, ininterrottamente al governo dal gennaio 2009.
Una sentenza del 2020 aveva ridotto le quote garantite per le assunzioni nel pubblico impiego. Quando lo scorso 6 giugno l’Alta Corte ha reintrodotto le precedenti percentuali sono iniziate le proteste indette da alcune organizzazioni studentesche negli atenei della capitale, con la richiesta della completa abolizione di tutte le quote, escluse quelle per disabili e comunità indigene.
Il movimento ha quindi avuto inizio con una rivendicazione che, nel quadro sociale sopra descritto, appare interessare uno strato limitato e privilegiato della popolazione, quello che può ambire a un sicuro impiego statale, quindi con una natura piccolo-borghese.
Dopo settimane di tensioni crescenti, da lunedì 15 luglio le manifestazioni si sono ingigantite, anche a causa del netto rifiuto del governo di assecondare le richieste degli studenti, definiti dalla premier Sheikh Hasina “razakar”, termine con cui erano indicati nel 1971 i paramilitari collaboratori dell’esercito pakistano.
Il movimento studentesco, iniziato per una rivendicazione particolare, ha agito da catalizzatore del generale malcontento sociale, generando un movimento popolare che, per questa sua natura, ha conservato alle organizzazioni studentesche la direzione.
Gli scontri in piazza sono aumentati progressivamente. Dacca si è incendiata. Per giorni il governo ha bloccato tutti i servizi di connessione a internet per impedire ai manifestanti di organizzarsi e ha imposto il coprifuoco. Polizia ed esercito dai gas lacrimogeni sono passati alle granate stordenti e poi a sparare. È iniziato il conteggio dei morti. È intervenuto anche il famigerato corpo paramilitare RAB, Rapid Action Battalion, già ben conosciuto dalla classe operaia bengalese. Violenze sono state compiute anche dalla Chhatra League, l’ala giovanile del partito Awami League al potere.
Manifestazioni si sono avute persino negli Emirati Arabi Uniti, dove gli emigrati bengalesi sono quasi un milione, la terza comunità di immigrati nel paese. In 57 sono stati arrestati: 53 sono stati condannati a 10 anni di carcere, uno a 11 anni e 3 all’ergastolo!
Dopo pochi giorni di duri scontri si contavano già 200 vittime. I manifestanti, non intimoriti, hanno assaltato decine di caserme di polizia, carceri, incendiato sedi della Awami League, della televisione di Stato e palazzi governativi.
Di fronte alla forza del movimento, il 21 luglio la Corte suprema ha diminuito al 5% la quota per i discendenti dei veterani. Ma ormai era tardi, non essendo quello il problema che stava mettendo in moto masse tanto grandi. Le manifestazioni si sono allargate oltre la capitale, a Bogura, Pabna, Rangpur, Magura, toccando decine di distretti del paese.
Con le ondate di violenza le richieste del movimento, diretto dalle organizzazioni degli studenti, sono cambiate. È stata stilata una lista di 9 punti: obbligo di dimettersi per i membri di spicco della Lega Awami; licenziamento di tutte le forze di polizia nelle aree in cui gli studenti sono stati attaccati; processo alle forze di polizia coinvolte negli omicidi; dimissioni dei vicerettori delle università in cui sono state perpetrate le violenze; divieto di accesso alla Chhatra League dalle istituzioni scolastiche; scuse pubbliche del primo ministro; risarcimento alle famiglie delle vittime; riapertura delle istituzioni scolastiche.
Si tratta di richieste prive d’ogni contenuto economico-sociale che possa interessare la classe lavoratrice, prendono di mira solo il partito al potere e non l’intero regime della classe dominante, per la cui difesa anzi si chiedono provvedimenti contro una parte della polizia al fine di ripristinare un clima di fiducia e pace sociale.
Lunedì 5 agosto, venti giorni dopo il montare delle proteste, la premier Hasina, che a gennaio aveva ottenuto un quarto mandato in una tornata elettorale boicottata dalle opposizioni, mentre la sua residenza era sotto attacco dai manifestanti, ha rassegnato le dimissioni scappando in India con un elicottero militare. Notizia accolta con giubilo per le strade.
Alla fine delle manifestazioni diverse fonti hanno riferito di oltre quattrocento morti, migliaia di feriti e di arresti. È certo che molto del sangue versato è del proletariato. Come denunciato da una delle federazioni sindacali dei lavoratori tessili, la National Garment Workers Federation (NGWF), una parte delle vittime sono lavoratori, fra cui 11 tessili e 5 membri e organizzatori di questo sindacato. Certamente molti altri erano giovani proletari.
La classe operaia però, con le sue organizzazioni e le sue rivendicazioni, non ha partecipato al movimento. Lo hanno fatto i lavoratori individualmente, al seguito di una direzione studentesca di un movimento popolare, quindi interclassista. Scioperi non sono stati convocati né sono esplosi spontaneamente. Il padronato ha prudentemente fatto delle serrate, per prevenire la possibilità che la classe operaia si mettesse in moto.
Una delle ragioni della capitolazione della premier Hasina può essere stata evitare questo che è il vero terrore d’ogni regime borghese. In Egitto, nel 2010, dopo settimane di oceaniche manifestazioni popolari, bastarono tre giorni di scioperi, che avevano contagiato ormai tutto il paese, affinché la classe dominante si disfacesse di Mubarak e attuasse una feroce repressione.
Fuggita la ex premier, in pochi giorni sono state riaperte scuole, negozi e fabbriche. Manifestazioni e proteste sono cessate.
La
borghesia cambia casacca
Il 6 agosto il Presidente Mohammed Shahabuddin ha sciolto il parlamento. Come sempre, quando cade la finzione del potere legislativo, il regime borghese mostra la vera ossatura del suo dominio ed è l’esercito ad assumere le redini del governo, in attesa che maturino le condizioni per ripristinare la finzione atta a interporre un argine fra lo Stato borghese, macchina del dominio di classe, e il proletariato.
L’esercito ha così tenuto una serie di colloqui con diversi partiti politici e alcune associazioni studentesche. È stato formato un governo ad interim con a capo Mohammad Yunus, premio Nobel per la pace nel 2006, conosciuto per la Grameen Bank “la banca del microcredito”, reclamato a gran voce dagli studenti.
Nel suo inizio, nella sua composizione, nella sua ideologia, nel suo esito, il movimento bengalese è apparso quindi esprimere essenzialmente la lotta senza sbocco della piccola-borghesia, rovinata dallo sviluppo di un giovane capitalismo nazionale nel quadro di un capitalismo imperialista mondiale senescente.
Il nuovo esecutivo bengalese ha messo a suo capo un utile fantoccio per dare ai piccolo borghesi una “speranza”. Ha anche incluso due capi del movimento “Studenti contro la discriminazione”, entrambi provenienti dall’università di Dacca, figli della borghesia, assegnando loro incarichi di poca importanza.
Agli Interni è andato il capo di stato maggiore generale dell’esercito M. Sakhawat Hossain, mentre l’ex governatore della Banca Centrale Salahuddin Ahmed occuperà il Ministero delle Finanze e della Pianificazione economica.
Il “banchiere etico” – sostenuto in passato da presidenti USA e Fondo Monetario Internazionale – oggi è stato posto a capo del governo, con la benedizione dei militari bengalesi, per blandire gli strati piccolo-borghesi che hanno capeggiato la rivolta. Il nuovo governo fingerà di difendere la piccola-borghesia non meno di quanto i governi “di sinistra” fingono di difendere la classe operaia.
Circa le teorie sul sistema bancario etico e sul “microcredito” basti rammentare che la banca del premio Nobel primo ministro, con oltre 2500 filiali, offre uno dei suoi principali pacchetti di prestiti a un tasso d’interesse “agevolato” del 20%.
Nel 2007 il banchiere provò, senza successo, a lanciare un partito, il Nagorik Shakti (“Potere dei Cittadini”), che vagamente invocava la nazionalizzazione di tutte le banche le quali, finalmente in mano allo “Stato dei cittadini”, avrebbero dovuto soddisfare le esigenze della collettività dando vita a “un nuovo modello di sviluppo”.
Dopo aver prestato giuramento, Yunus ha ribadito alcuni concetti inequivocabili: «L’anarchia è il nostro nemico e deve essere sconfitta … Il ritorno alla piena democrazia ripristinerà l’onore e le glorie passate delle forze armate e di sicurezza … Il primo compito del mio governo e di quello che uscirà dalle elezioni sarà ricostruire le istituzioni e far diventare il Bangladesh una vera democrazia … Non tollereremo alcun tentativo di interrompere la catena di fornitura globale dell’abbigliamento, nella quale siamo un attore chiave».
Il capitale internazionale può stare tranquillo: il banchiere “etico” garantirà la continuità dell’oppressione e dello sfruttamento della classe operaia, attingendo al repertorio ideologico democratico.
Il
ruolo degli imperialismi
Il Bangladesh, come tutti i capitalismi nazionali di medio e piccolo rango, è terreno di contesa tra le grandi potenze imperialistiche, su tutti: Stati Uniti, Cina e India.
Nel corso degli ultimi decenni, la borghesia bengalese ha approfittato, con un certo successo, della rivalità tra Pechino e Nuova Delhi, barcamenandosi fra le due potenze.
La Cina ha da anni consolidato e rafforzato i rapporti con Dacca stanziando ingenti somme verso un paese che risulta essere in una posizione geografica cruciale per i suoi interessi capitalistici. Le riserve energetiche necessarie al gigante cinese per circa l’80% attraversano l’Oceano Indiano e dal dal Golfo del Bengala. Grandi investimenti cinesi si rivolgono alle infrastrutture dei paesi costieri dell’area – Bangladesh e Birmania – e nella costruzione di nuovi oleodotti. Lo scorso anno è stato inaugurato nel porto bengalese di Chittagong il primo sistema di stoccaggio e trasporto di petrolio integrato mare-terra, progetto eseguito dalla China Petroleum Pipeline Bureau (CPP). Una via alternativa, seppur parziale, al trasporto del greggio attraverso lo stretto di Malacca. A luglio, durante le manifestazioni di protesta, l’ex premier si era recata a Pechino siglando numerosi accordi nel campo del commercio, dell’economia digitale e dello sviluppo delle infrastrutture. Va inoltre considerato che la Cina è il primo fornitore di armi di Dacca e il 25 aprile scorso è stata annunciata la prima esercitazione militare congiunta denominata Golden Friendship 2024.
Ancor più evidente è il legame con l’India, che ha investito centinaia di milioni di dollari nel settore energetico e nelle infrastrutture del Bangladesh e che con la sua flotta di fatto presidia la Baia del Bengala. L’influenza indiana, economica e politica, è un dato di fatto. Non è un caso che la premier si sia rifugiata proprio a Delhi. C’è una collaborazione militare tra i due paesi confinanti anche per contrastare i gruppi fondamentalisti presenti nella regione. Il Bangladesh comprende l’ex provincia indiana del Bengala Orientale. Il Bengala Occidentale è rimasto parte dell’India e il confine tra i due paesi rimane ancora oggi piuttosto permeabile a causa della condivisione di legami etnici e linguistici.
L’imperialismo USA ha avuto sempre una base di appoggio nell’esercito bengalese. Una delle prime dichiarazioni della rifugiata Hasina è stata: «Sarei potuta rimanere al potere se avessi ceduto l’isola di Saint Martin consentendo così agli americani di controllare la Baia del Bengala». L’ex premier si riferiva all’atollo corallino, attualmente un’area marina protetta, che sarebbe stata negata agli Stati Uniti i quali volevano costruirvi di una base militare.
Il Bangladesh non ha voluto aderire al Dialogo quadrilaterale di sicurezza (QUAD), un’alleanza strategica tra Australia, Giappone, India e Stati Uniti, essenzialmente in chiave anti-cinese. Inoltre, sempre su questa linea, il partito Awami al potere sino al 5 agosto, si era rifiutato – al pari dell’India – di schierarsi nel conflitto tra Russia e Ucraina, e da tempo mantiene proficue relazioni con la Russia. È altresì vero che Dacca non può permettersi di rinunciare alle relazioni con gli Stati Uniti, oggi alleati dell’India e che sono il primo importatore dei capi di abbigliamento prodotti in Bangladesh.
Uno scenario complesso, come sempre, quello delle contrapposizioni inter-imperialistiche, che avrà un primo banco di prova nel prossimo baraccone elettorale.
Ma è da escludere che un movimento di centinaia di migliaia di uomini sia stato messo in moto da “agenti” qualche potenza, spiegazione cui sempre ricorrono le fazioni borghesi spodestate o la stessa intera borghesia quando vede minacciato il suo dominio di classe, e a cui attingono anche i rottami politici dello stalinismo, per i quali la storia non sarebbe il prodotto della lotta fra le classi bensì delle manovrette di potenti burattinai.
L’unico
programma rivoluzionario è il Comunismo
La rivolta bengalese ha avuto un carattere popolare, cioè interclassista che, ormai in tutto il mondo, non può più conferire alcuna funzione progressiva, rivoluzionaria ai movimenti sociali, ma solo perpetuare l’illusione di riformare il capitalismo. La piccola-borghesia è stata l’ala rivoluzionaria della borghesia sin tanto che vi sono stati da abbattere regimi pre-borghesi, come per la sterminata massa dei contadini poveri nella Russia zarista.
Affermatasi la società e il regime del capitale, questa funzione della piccola-borghesia finisce ed essa può, al massimo del suo radicalismo, per opporsi alla tendenza storica che necessariamente la porta a finire nel proletariato, alimentare movimenti estremisti nell’azione pratica, fino al terrorismo individuale, ma conservatori o apertamente reazionari nel programma politico.
La forza sociale che solo si oppone al Capitale è quella della classe proletaria, che nel suo movimento per difendere le condizioni di vita dei suoi membri va a scontrarsi con le leggi del Profitto. Il destino politico della lotta di classe economica proletaria è la distruzione dello Stato borghese e la sua sostituzione con lo Stato della dittatura del proletariato, non un cambio di casacca del regime borghese, mantenendo intatto la sua macchina di dominio statale, ciò a cui può al massimo ambire un movimento popolare.
Già nel movimento di sciopero dei tessili dell’ottobre scorso, i partiti dell’opposizione borghese, in particolare il Bangladesh National Party, avevano cercato di introdursi nelle manifestazioni operaie e di deviare le rivendicazioni di classe (più salario, meno orario, migliori condizioni di vita e di lavoro) verso generiche richieste di maggiore democrazia. Una bandiera, quella della democrazia che, spacciata come al di sopra delle divisioni tra classi, nei fatti non è stata raccolta dalla classe lavoratrice per esserlo invece, qualche mese dopo, dagli studenti.
Il carattere popolare, piccolo-borghese, del moto sociale lo rende invece ben più permeabile alle influenze dei partiti borghesi. Islamisti, liberali e falsi partiti radicali sono intervenuti in forze nelle piazze per contendersi il controllo del movimento. Il 5 agosto, lo stesso giorno in cui la premier Hasina è fuggita in India, l’ex primo ministro Khaleda Zia, ex membro del BNP e agli arresti dal 2018 per corruzione, è stata liberata dal presidente Mohammed Shahabuddin.
La strada della classe salariata è quella della difesa delle proprie condizioni di vita con scioperi sempre più estesi, uniti e potenti, per i quali occorrono forti organizzazioni sindacali di classe. In questa lotta, che scaturisce per via naturale dal sottosuolo economico del capitalismo, il proletariato incontrerà, per una oggettiva necessità pratica, l’autentico partito comunista, superando decenni di smarrimento generato dal decorso della controrivoluzione staliniana, i cui nefasti effetti vediamo consumarsi e, finalmente, esaurirsi in questi anni, con la loro inerzia storica, nonostante il crollo del falso socialismo dell’URSS.
I lavoratori bengalesi saggeranno presto la natura borghese del nuovo governo e continueranno la loro generosa lotta sindacale.
Il programma storico di cui si riapproprierà la loro parte più avanzata, aderente al Partito Comunista, sarà quello della drastica riduzione dell’orario di lavoro, dell’abolizione del lavoro salariato, fino alla lotta per il potere e all’instaurazione della dittatura del proletariato.
Quando il possente movimento di lotta, dal piano economico-sindacale si sarà elevato su quello politico, con il Partito Comunista che avrà acquisito la guida della lotta e delle organizzazioni sindacali, una parte degli strati piccolo-borghesi si accoderà al moviemento, mettendosi al seguito della classe operaia.
I
movimenti di rivolta popolare a cui assistiamo negli ultimi 15 anni
sono dunque espressione presente della crisi del capitalismo
mondiale, ma il futuro è assai più minaccioso e ingestibile per la
borghesia internazionale, perché porterà a movimenti proletari,
dunque finalmente, davvero rivoluzionari, che apriranno allo sbocco
storico del Comunismo.
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Ci siamo trovati, compagni di paesi diversi, per portare il contributo del nostro lavoro alla grande causa del comunismo.
Per questo obiettivo – che non è a noi vicino nel tempo, per quanto sicuramente iscritto nel corso della storia – sappiamo occorrerà un partito comunista mondiale, capace di ben maneggiare la dottrina marxista e sia alla direzione della classe operaia. Senza la guida del partito comunista la rivoluzione è impossibile.
Non ci riuniamo per confrontare le nostre opinioni personali o di gruppi. Non per inventare teorie originali. Nemmeno per ascoltare brillanti nuove scoperte sul corso della storia. Ci riuniamo per difendere la continuità del partito comunista, nel suo programma e, oggi, nella sua piccola vivente organizzazione.
È prima di tutto una continuità di dottrina. Noi disponiamo di una teoria impersonale, nata a metà dell’Ottocento e che si è poi solo rafforzata e confermata. In quella teoria è contenuta la risposta a tutte le nostre domande di oggi e di domani. Ogni risposta è già scritta. Ed è alla portata non solo di pochi sacerdoti o uomini eccezionali ma anche dell’ultimo dei compagni: basta andare a leggere, basta studiare.
Custode generale della nostra scienza rivoluzionaria e della rivoluzione può essere solo l’organo collettivo del partito. Il partito comunista non è la somma di individui, ma un organo unitario che precede e supera le nostre persone.
Vive all’esterno nell’asprezza della guerra sociale, “a contatto”, e domani alla testa della classe operaia.
All’interno si presenta come una anticipazione della società comunista. In stridente negazione e superamento di tutte le miserie della piccola borghesia, fra le quali le più mortifere sono l’individualismo, l’invidia, la concorrenza, la permanente lotta intra-specifica.
Nel partito comunista già vive il comunismo. Noi dimostriamo agli spregevoli borghesi che è possibile un gruppo umano che opera, disciplinato ed efficiente, senza un apparato di coercizione, spontaneamente ordinato perché già conosce tutti i suoi ordini. Così volle essere il partito comunista fin dalle sue ormai lontane origini nella Lega dei Comunisti e nelle ancora più antiche sue generose utopie pre-scientifiche.
Queste nostre riunioni sono una ulteriore conferma che il comunismo è possibile.
Al solito la riunione, alla presenza della totalità delle nostre sezioni e svoltasi nel consueto massimo ordine, si è divisa in una seduta preparatoria dei lavori, nella quale tutti i gruppi sono chiamati a riferire dei loro progressi, e di eventuali difficoltà, per le quali chiedere l’aiuto dei restanti compagni, e una seduta per l’esposizione dei rapporti.
Tutto quanto presentato si è dimostrato coerente con il nostro programma e ha confermato la corrispondenza dell’indirizzo tattico del partito, ricevendo la unanime approvazione dei presenti.
Questi gli esposti che abbiamo ascoltato:
- Corso del capitalismo |
- Disparità nella produzione mondiale di acciaio |
- Origini del Partito Comunista di Cina |
- La fondazione del Partito Comunista di Turchia |
- Resoconto dello studio sulla questione femminile |
- La questione agraria - integrazioni |
- Le ideologie della borghesia |
- La guerra civile nel Donbass |
- Rapporto sull’attività sindacale in Italia |
- Rapporto sull’attività sindacale in Nord America |
Rapporto del gruppo di studio sulla questione femminile
L’obiettivo del gruppo è dare continuità alla elaborazione dei compagni che ci hanno preceduto, per ribadire che è il partito ad anticipare il programma integrale del comunismo, che verrà a rimuovere le barriere che rendono un essere umano economicamente dipendente da un altro.
Il gruppo di lavoro si è riunito tre volte. Negli incontri è stata assegnata la lettura di un testo di partito ad ogni compagno, che riferirà su cosa vi ha scoperto. Le discussioni si sono concentrate sull’estrazione di spunti e domande suscitate da questi testi.
L’elenco comprende Engels, Bebel, Kollontai, Zetkin e del nostro partito dal 1953. Disponiamo anche della collezione di “Compagna, organo del Partito Comunista d’Italia per la propaganda fra le donne”.
Oggi permane la dipendenza della donna sia dal capitalista sia, per la sua inveterata subordinazione, dall’uomo. Il partito deve prefigurare la tattica adeguata a combattere il doppio sfruttamento della donna, che perdura dall’inizio della storia umana e oggi non ha più ragione di essere e solo ostacola il cammino verso la uguaglianza economica dei sessi e la liberazione dal millenario sfruttamento sociale dell’uomo.
Ci proponiamo di sviscerare le intricate stratificazioni dell’oppressione patriarcale ancora emergenti alla superficie delle moderne società capitalistiche e di esplorare le vie per l’emancipazione delle donne così come incarnate nel corpo invariante delle tesi del partito.
Il gruppo di lavoro ha individuato diversi spunti di discussione che saranno approfonditi con ulteriori letture e incontri: il patriarcato nel passato; il lavoro femminile nel salariato; il lavoro domestico; la questione dell’aborto; il divorzio; la prostituzione; le questioni dell’omosessualità e della transessualità; la violenza di genere.
Le compagne hanno sottolineato la necessità di contestualizzare questi temi all’interno di una critica generale del modo di produzione, capitalistico e precedenti.
Negli studi futuri (forse non di noi ma di compagni dopo di noi), così come i nostri compagni del XIX secolo analizzavano i risultati della scienza da un punto di vista materialistico dialettico, esamineremo alcuni nuovi studi nel campo dell’antropologia (che progredisce lentamente e con difficoltà), soprattutto sullo sviluppo della tecnica, e basati su l’estendersi delle conoscenze, e studi rilevanti nel campo dell’educazione, che nell’ultimo periodo hanno interessato tutto il mondo.
Non riteniamo di grande utilità attingere a molte delle opere teoriche delle femministe perché non si rapportano al corso reale della storia.
Occorre combattere il patriarcato. È necessario aprire gli occhi più chiaramente sulla propaganda e sulla violenza psicologica delle sopravviventi sopraffazioni all’interno del sistema capitalistico.
Come risultato dell’odierno sistema educativo di classe, le donne sono rese insicure, sottoposte e tensioni psicologiche e a disparità nelle loro condizioni di vita. Oppresse dal lavoro domestico, risulta loro difficile tornare al campo scientifico e teorico, di cui sono state private per migliaia di anni.
E questo anche come comuniste e nel partito. Si, le nostre compagne hanno bisogno di un gruppo di lavoro, come potranno aver bisogno di un loro giornale, rivolto specificatamente alle donne.
In particolare è da descrivere la situazione delle donne della classe operaia. Occorre lottare contro l’oppressione della donna così come si lotta per il salario. Benché finirà solo con la rivoluzione proletaria. È una lotta che i nostri compagni socialisti hanno iniziato nel XIX secolo, un lavoro che è continuato nel XX e che continuerà fino alla caduta della società borghese.
Ci sono state delle battute d’arresto dovute alle sconfitte della classe operaia e del prevalere della propaganda e delle intimidazioni anti-femminili per opera degli apparati statali. Militanti comuniste cerchiamo una luce nelle dure condizioni della sconfitta, che è nostra responsabilità analizzare e conoscere.
Come per porre fine allo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo dobbiamo abbatterne la prima causa, la sua mercificazione, così non possiamo realizzare il comunismo senza la liberazione di tutti gli oppressi. Dal tempo della armonia sociale dal comunismo primitivo all’antagonismo dello sfruttamento, col dualismo di oppressori e oppressi, cerchiamo il ritorno della specie umana alla sua unità organica dove tutte le contraddizioni sono risolte. Qui la centralità anche di questo lavoro.
La difesa delle donne deve interessare anche i sindacati è un campo di applicazione di questo studio. Dopo il rapporto storico questo è l’argomento su cui ci concentreremo.
In passato i comunisti hanno sostenuto rivendicazioni che non erano solo della classe operaia, come il suffragio femminile. Ma il cambiamento delle condizioni storiche ci ha portato al rifiuto dei mezzi parlamentari per far progredire anche le condizioni delle donne.
Le donne lavoratrici devono esigere la loro protezione dai sindacati. Questi oggi non svolgono nemmeno la loro funzione più elementare della difesa del salario e dell’orario. Ma è loro compito difendere la condizione di tutto il proletariato, dei disoccupati, degli immigrati, delle lavoratrici, degli omosessuali e di tutte le categorie oppresse fra i lavoratori. Dobbiamo conoscere le condizioni che variano da paese a paese e da sindacato a sindacato. Occorre articolare nei sindacati tutte le richieste della classe operaia.
Volgiamo lo sguardo dal comunismo primitivo, libero da relazioni di sfruttamento e in armonia con la natura e con l’altro, alla società egualitaria che verrà, col ritorno a rapporti immediatamente umani fra i sessi. Solo nel mondo post-capitalista appassiranno i semi piantati da millenni nei cervelli degli uomini dai modi di produzione classisti. Lo studio del patriarcato riguarda in generale il rapporto degli esseri umani fra loro nelle società di classe.
Nel profondo delle nostre menti, nei nostri comportamenti sopravvivono le tracce di ciò che vi è stato impresso per generazioni. I gruppi comunitari primitivi esistevano come una struttura organica che funzionava insieme, mentre noi siamo stati isolati e opposti l’uno dall’altro.
Il partito è il legame organico che ci unisce alle responsabilità storiche dell’uomo. Con il partito torniamo a una comunità organicamente funzionante. Ma non siamo più nella purezza dell’uomo delle origini, siamo oggi ancora sotto il dominio del capitale, nel quale la maggior parte della nostra vita si svolge in aree dominate da relazioni di sfruttamento. Solo nel partito la luce della dottrina ci permette di svelare i traumi e le miserie che la società esterna diffonde. Solo così, come comunisti, potremo spiegare nei sindacati ai lavoratori, che liberi non possono essere, le necessità che abbiamo imparato dalla nostra storia.
È essenziale comunicare tra compagni con affetto e rispetto, anche nelle presenti condizioni borghesi, per creare un ambiente di partito che accolga in un cameratismo caloroso i sentimenti della futura società.
Potremo altra volta tattare il tema dell’etica, a partire da come l’hanno intesa Marx, Lenin e tutti i nostri compagni, che ci porta a dati comportamenti, secondo certi moduli. E pensare a come noi rivoluzionari ci abbracciamo, pur in una società che ci circonda fondata su relazioni antagonistiche. Anche questo un tema che dovremo affrontare.
AttivitaSindacale del partito negli Stati Uniti
Abbiamo riferito dell’attività del partito nei sindacati, alla conferenza nazionale di Labor Notes e all’interno della Rete per un’azione sindacale di classe (CSAN). I compagni impegnati nel lavoro sindacale intendono iniziare a tenere loro incontri regolari per rileggere i testi del Partito, riferire delle lotte dei lavoratori in tutto il mondo e considerare i progressi del nostro intervento nei sindacati.
Labor Notes 2024
Dieci compagni e alcuni simpatizzanti hanno partecipato alla conferenza Labor Notes a Chicago, dove si sono riuniti 5.000 lavoratori attivi nei sindacati. Altri 5.000 non sono riusciti ad entrare per mancanza di spazio. Abbiamo distribuito 500 copie del The Communist Party e circa 1.300 fra documenti e volantini del CSAN.
La conferenza Labor Notes ogni due anni mette in contatto le correnti più combattive sia del movimento sindacale statunitense, all’interno dei sindacati esistenti e delle sezioni locali, sia delegazioni internazionali. Le numerose presentazioni riferivano sui progressi dell’organizzazione nei luogo di lavoro, della preparazione degli scioperi e di come opporsi alla consolidate dirigenze legate ai padroni. Degne di nota le presentazioni del Movimento Sindacale Indipendente messicano, che opera al di fuori dei sindacati di regime, e dei lavoratori cinesi sulle loro lotte sindacali.
Queste conferenze sono un punto di collegamento per lo sviluppo di una rete di correnti combattive all’interno del movimento sindacale statunitense, e non solo.
Accanto a questo, è presente una corrente “di sinistra” che cerca di deviare il movimento sull’antifascismo democratico, il riformismo liberale e, infine, legarlo al Partito Democratico. Quest’anno infatti è stata presentata una tavola rotonda che comprendeva la direzione della FIOM italiana e dell’UAW statunitense. Il capo dell’UAW ha elogiato i lavoratori statunitensi per il loro ruolo nella “difesa della democrazia” durante la Seconda Guerra Mondiale, mentre sfoggiava un maglione con l’immagine di un bombardiere usato per annientare masse di lavoratori in tutta Europa. Il capoccia della FIOM ha chiesto la “partigianizzazione” antifascista del movimento sindacale. La loro retorica della “lotta di classe” e di una “rinnovata combattività” dell’ “esercito del lavoro” non è contro la classe capitalista, ma solo contro l’”1%”, con l’obiettivo di “difendere la democrazia” contro l’”avidità aziendale”, riecheggiando il riformismo socialdemocratico dell’oratore principale alla precedente conferenza di Labor Notes, del 2022: Bernie Sanders. Un altro intervento – molto contestato dai presenti – che ha dimostrato il legame tra Labor Notes e il Partito Democratico è stato quello del sindaco di Chicago, del Partito Democratico.
Queste intromissioni dimostrano la necessità che il Partito si presenti ai lavoratori, anche in incontri di questo tipo, criticando la direzione opportunista e mostrando al contempo il nostro indirizzo pratico nelle trincee della lotta di classe, organizzando i lavoratori in opposizione al capitalismo e all’opportunismo, con l’obiettivo finale di assumere la direzione dei sindacati.
I nostri compagni hanno conosciuto e preso collegamenti con alcuni lavoratori più attivi nei sindacati.
All’interno della Conferenza abbiamo partecipato alla presentazione dello United Caucus of Rank and File Educators, durata un giorno, seguita da circa 300 organizzatori del sindacato degli insegnanti provenienti da varie formazioni statali e locali della costa orientale. Hanno guidato diversi scioperi in Stati in cui sono ancora illegali per i pubblici dipendenti. In diverse presentazioni hanno criticato aspramente i metodi elettoralistici all’interno dei sindacati proposti da gruppi opportunisti come i Socialisti Democratici d’America(DSA).
Hanno tenuto seminari: uno dei dirigenti del combattivo Caucus Reform Workers all’interno del sindacato International Alliance of Theatrical Stage Employees (IATSE), che conta 170.000 lavoratori, un organizzatore del SEIU del Minnesota sulla sua esperienza di 15 anni di lavoro per arrivare a uno sciopero generale nella sua città, e un attivista del Teamster all’interno di Amazon, impegnato ad unire le le sue strutture internazionali. Tutti hanno anche espresso interesse all’attività del CSAN.
In una tavola rotonda è stato proposto un allineamento delle date di scadenza dei contratti delle varie categorie e mestieri per il 1° maggio 2028, che convergerebbero in uno sciopero generale. I nostri compagni sono intervenuti proponendo, semmai, la scadenza al 1° maggio di ogni anno, nell’intento generale di accorciare la durata dei contratti. Inoltre abbiamo chiesto l’eliminazione delle clausole di “non sciopero”, che impediscono di scioperare durante la validità dei contratti. Queste richieste sono state accolte dall’applauso dei partecipanti.
Nella Rete d’Azione per la Lotta di Classe
Dopo un anno di attività, il CSAN tiene delle assemblee generali mensili e svolge un quotidiano sostegno ai militanti sindacali della rete nelle loro lotte sul posto di lavoro, contro i dirigenti opportunisti e legati al padronato, e nel sostegno alle nuove iniziative di sindacalizzazione.
Il CSAN è esteso solo allo Stato dell’Oregon e non conta ancora altre sezioni a livello nazionale. I nostri compagni, che fanno parte del Comitato organizzativo, sono stati incaricati della revisione completa del materiale presente sul sito web e di formulare una procedura editoriale più rigorosa. Il Comitato organizzativo sta inoltre valutando la possibilità di limitare la Rete solo ai lavoratori iscritti ai sindacati o che si stanno adoperando ad organizzarli.
Interventi nelle lotte sindacali
- Nella scuola
I membri del CSAN, e i comunisti in esso, hanno militato in un coordinamento di circa 80 lavoratori della National Education Association nello Stato dell’Oregon, al quale partecipano attivisti sindacali a livello locale e statale, compresi degli iscritti che hanno recentemente conquistato la direzione dell’Associazione degli Insegnanti di Portland (PAT), guidandola nello forte sciopero dello scorso anno. Siamo stati chiamati a partecipare al suo Comitato direttivo provvisorio, in vista dell’Assemblea annuale del sindacato a livello statale. Il CSAN ha fatto proseliti sulla necessità di un programma sindacale di classe. Alla fine ci è stato affidato il compito di elaborare un documento di principi che rappresentasse l’orientamento del coordinamento. Il documento, sulla linea del CSAN, era incentrato sulle rivendicazioni salariali, sulla necessità di centrare l’azione nello sciopero, sull’opposizione a confidare sui metodi elettorali, sulla solidarietà intersindacale, ecc. Il documento ha ricevuto un ampio sostegno all’interno dell’organizzazione
Siamo però entrati in conflitto con la frazione sindacale dei DSA, che insisteva sull’adozione da parte del sindacato di una strategia di lobby elettorale riformista. Pur appoggiati da una parte dei compagni di lavoro, siamo stati messi in minoranza dagli opportunisti che hanno manipolato le regole codificate della democratica procedura elettorale. Il risultato finale è stato che il nostro documento di principi è stato approvato senza la parte anti-elettoralista. Inoltre, poiché i membri del DSA hanno ancora nell’organizzazione una base più ampia e consolidata di noi, un confuso emendamento ne ha impedito la pubblicazione. Infine con una manovra sono riusciti a ridurre al minimo la composizione numerica del comitato direttivo permanente al fine allontanare i compagni del CSAN.
Ma il mese successivo un nostro compagno ha ottenuto un gran numero di voti, pur candidandosi contro il noto esponente dei DSA in carica, per il Comitato esecutivo della sezione locale di oltre 700 iscritti. Attualmente è in corso la contrattazione contrattuale, che si svolge “aperta”, cioè alla presenza dei lavoratori. Stiamo cercando di escludere cedimenti sulle richieste salariali, in contrasto con i DSA che propendono per un atteggiamento “disponibile” tra lavoratori e padroni. Il nostro compagno ha criticato apertamente questo atteggiamento collaborazionista nelle assemblee: nonostante sia stato bollato come “agitatore”, la linea del Comitato esecutivo è stata confermata e ora stiamo lavorando per un’azione di sciopero a sostegno della contrattazione.
- Fra i ferrovieri
Uno dei nostri compagni è stato eletto presidente della sezione locale del sindacato dei segnalatori ferroviari. Ha iniziato con riunioni per risvegliare la combattività in vista della prossima contrattazione, ponendo l’accento sulle rivendicazioni salariali. Di recente è entrato a far parte del comitato direttivo del coordinamento sindacale industriale inter-ferroviario del Rail Workers United (RWU). Questo è fondamentale per mantenere la solidarietà e l’unità tra i diversi sindacati ferroviari nella loro contrattazione con le principali compagnie ferroviarie, per non siglare contratti separati.
- Per il Primo Maggio
Il Primo Maggio il CSAN ha organizzato un convegno a cui hanno partecipato circa 20 lavoratori. Vi abbiamo prima presentato una breve storia del Primo Maggio e riferito delle lotte sindacali in tutto il mondo nell’anno trascorso. Abbiamo quindi ascoltato quattro lavoratori dell’UFCWA e il presidente di un sindacato locale di lavoratori del legno, membro attivo del CSAN. Abbiamo anche ascoltato un componente del Comitato organizzativo dell’American Postal Workers Union e un attivista della sezione locale dello Starbucks Workers United (SWU) che si sta ispirando all’UFCWA e, con il sostegno del CSAN, si sta impegnando a contrastare la direzione opportunista e legata al padrone e le “clausole di non sciopero” di Starbucks Workers United nelle prossime trattative contrattuali.
Altri compagni sono stati coinvolti nella costituzione del sindacato nei loro luoghi di lavoro nel Colorado settentrionale in un magazzino di distribuzione alimentari, a Portland nella sanità e in un’azienda di telecomunicazioni.
Le origini del socialismo di sinistra e del sindacalismo di classe nell’Impero Ottomano e i primi anni di attività del PC di Turchia
- 2. La fondazione del Partito Comunista
L’antefatto della fondazione del Partito Comunista di Turchia può essere individuato più o meno direttamente nella Rivoluzione d’Ottobre. Il primo effetto della rivoluzione sulla Turchia, che in quel momento era in guerra con la Russia, fu immediato. I soldati russi di ritorno dall’Anatolia orientale lasciarono il potere a un governo sovietico che rappresentava turchi, curdi e armeni, con sede a Erzincan. Oltre a Erzincan, il nuovo governo sovietico ebbe influenza a Erzurum, Dersim, Bayburt e Sivas. Ma fu presto represso dall’esercito ottomano, prima che il Comitato Unione e Progresso si arrendesse all’Intesa e Costantinopoli e la maggior parte dell’Anatolia fossero occupate dalle potenze vincitrici.
Il primo congresso dei socialisti di sinistra turchi si tenne a Mosca nel 1918, con la partecipazione di ex prigionieri di guerra, e portò alla creazione dell’Organizzazione comunista di Turchia, guidata da Mustafa Suphi, Sharif Manatov e Süleyman Nuri.
Alla fine del 1918 e nel 1919 a Costantinopoli emersero organizzazioni socialiste legali, come il Partito Socialista di Turchia con 14.000 iscritti e il Partito Socialdemocratico con 2.000. Alla loro sinistra, gli studenti turchi di ritorno dagli studi all’estero, soprattutto in Germania, formarono il Partito dei Lavoratori e dei Contadini di Turchia, poi ribattezzato Partito Socialista dei Lavoratori e dei Contadini di Turchia, partito che seguiva la linea ideologica dell’USPD.
Alcuni dei resti della sinistra del socialismo ottomano si riorganizzarono a Costantinopoli come Gruppo Comunista, sotto l’influenza del bolscevismo.
Nel frattempo, le Forze Nazionaliste emersero come milizie irregolari nel 1919, opponendosi all’occupazione. Ben presto alcuni ufficiali, guidati da Mustafa Kemal pasha, disertarono dall’esercito ottomano e, dopo una serie di congressi, assunsero la guida del movimento. Mustafa Kemal e i suoi alleati formarono la Società per la Difesa della Legge, che presto si organizzò in tutta l’Anatolia. Alla fine dell’anno, le Forze Nazionaliste contavano circa 7.000 militanti. Nel 1920, la Società per la Difesa del Diritto istituì ad Ankara la Grande Assemblea Nazionale della Turchia, in alternativa all’Assemblea dei Deputati di Costantinopoli. In pochi mesi, le Forze Nazionaliste raggiunsero le 15.000 unità
La sua componente maggiore era costituita dalle Forze Mobili, forti di 5.000 uomini. Queste avevano sede a Eskişehir, dove era organizzata una sezione del Partito Socialista di Turchia isolata dal centro di Costantinopoli. Spesso si impegnavano in atti di espropriazione dei ricchi a beneficio della loro causa. Le Forze Mobili comprendevano un battaglione bolscevico di 700 uomini, così chiamato perché comandato da un seguace di Mustafa Suphi.
In quei giorni Sharif Manatov arrivò ad Ankara e, insieme al veterinario militare dissidente Salih Hacıoğlu e ad alcuni altri compagni, dichiarò la fondazione del Partito Comunista di Turchia il l4 luglio. Il partito si opponeva al governo di Ankara come a quello di Costantinopoli. Pubblicò l’Appello del Comintern ai Popoli dell’Oriente. Alla fine dell’anno il partito contava 350-400 militanti, coadiuvati dall’Organizzazione Comunista di Turchia, ora basata sul Caucaso, nella regione del Mar Nero.
Eppure non furono né il Gruppo Comunista di Costantinopoli né il Partito Comunista di Turchia fondato in Anatolia a stabilire il primo contatto con la neonata Internazionale Comunista inviando rappresentanti a Mosca, ma il Partito Socialista Operaio e Contadino di sinistra della Turchia. İsmail Hakkı, uno dei delegati di questo partito al Secondo Congresso del Comintern, espresse una posizione completamente contraria a quella dei comunisti anatolici: «Dopo la Rivoluzione russa e la spartizione della Turchia da parte degli imperialisti europei, quando il volto di Giano dei capitalisti inglesi e francesi si è mostrato apertamente al popolo turco, in Turchia è nato un nuovo movimento, un movimento di liberazione. Il movimento anatolico, oggi guidato dal Partito Democratico, è la migliore risposta allo spietato sfruttamento a cui la Turchia è stata sottoposta dai Paesi dell’Intesa (...) Ora lo Stato rivoluzionario dell’Anatolia, che sta raccogliendo intorno a sé tutte le forze ostili all’Intesa, spinte da un odio secolare per l’imperialismo, si sta preparando alla lotta contro l’imperialismo europeo. I lavoratori della Turchia non si lasceranno asservire ancora una volta dall’Intesa e, grazie alla rivoluzione russa, che è la migliore amica della Turchia in lotta, il popolo turco raggiungerà in breve tempo la completa libertà e, insieme ai lavoratori di tutti i Paesi, intraprenderà la lotta contro l’imperialismo in tutto il mondo».
Poco dopo, tra il 10 e il 16 settembre, si tenne a Baku il Primo Congresso dell’Organizzazione Comunista di Turchia. Ribattezzata Partito Comunista di Turchia, fu l’unica organizzazione turca rappresentata al congresso fu il Partito socialista operaio e contadino di Costantinopoli. Tuttavia l’organizzazione di Baku comprendeva militanti piuttosto radicali, per cui i documenti del congresso si collocavano notevolmente a sinistra rispetto alle posizioni del Partito socialista operaio e contadino: «Siamo convinti che il movimento rivoluzionario nazionale in corso in Anatolia aiuti il movimento proletario di tutto il mondo nella sua lotta contro l’imperialismo di tutto il mondo, ed è certo che questo movimento nazionale, con il suo sviluppo e approfondimento all’interno del Paese, serva all’emergere della coscienza di classe e prepari così un campo adatto alla rivoluzione sociale di domani. Il Partito Comunista di Turchia da un lato contribuirà a far crescere il movimento contro l’imperialismo in Turchia, dall’altro si sforzerà di preparare i principi per il vero obiettivo e l’aspirazione finale dei lavoratori, del popolo lavoratore, di conquistare il potere per i proletari».
Inoltre, grazie all’influenza del bolscevismo, il congresso riconobbe il genocidio degli armeni e adottò un approccio internazionalista proletario sulla questione delle nazionalità: «Non hanno esitato a creare inimicizia tra il popolo turco e quello armeno. Hanno reso nemiche queste due nazioni che hanno vissuto insieme nel corso della storia. È il popolo povero e indifeso che muore ovunque e sempre, che è oppresso e privato del diritto di vivere. Durante la guerra mondiale, che fu una conseguenza dell’imperialismo europeo, i poveri contadini armeni caddero di nuovo preda delle menzogne degli inglesi, delle menzogne dei dashnak e delle istigazioni dei sacerdoti. Iniziarono a massacrare i poveri musulmani di Van e Bitlis, bruciando le loro case e saccheggiando le loro proprietà (...) In risposta, il governo del Comitato Unione e Progresso agì senza esitazione, gli armeni furono deportati, le loro proprietà furono confiscate e la maggior parte di loro fu uccisa per ordini segreti.
«Come ogni nazione, arabi, curdi e bulgari decideranno e determineranno il modo in cui vivere. Come la Russia accetta la federazione, così anche noi dobbiamo farlo. Non solo noi, ma tutte le nazioni devono accettare questo principio. Solo attraverso questo principio l’umanità potrà diventare una grande famiglia. Così come il Partito Comunista di Turchia cercherà di salvare gli operai e i contadini turchi dall’influenza degli Unionisti e degli infidi socialisti, esso deve separare le classi oppresse delle nazioni greca, armena e curda dalle organizzazioni Dashnak o Badr Khan, unendole in nome degli stessi interessi e scopi come un’unica classe».
Poco dopo il congresso, l’Unione Internazionale dei Lavoratori (IWU), un coordinamento di lavoratori combattivi che sperava di formare sindacati di classe rivoluzionari, fu fondata a Costantinopoli nell’ottobre 1920. Inizialmente si ispirò agli Industrial Workers of the World americani. Inviò una calorosa lettera al Comintern annunciando la fondazione del sindacato e chiese di aderire al Profintern.
Questi sviluppi allarmarono Mustafa Kemal, che alla fine del 1920 fondò un Partito Comunista di Turchia, filogovernativo. La richiesta di adesione del falso partito al Comintern fu respinta. Tuttavia costrinse il Partito Comunista in Anatolia a uscire dall’illegalità per evitare che le masse fossero ingannate: fondò un’organizzazione legale col nome di Partito Comunista Popolare di Turchia. Anche la linea del partito cambiò, cercando di allargare il suo appello a classi diverse dal proletariato e ammorbidendosi nei confronti dei kemalisti.
Il partito in Anatolia si fuse con i nazionalisti di sinistra che sostenevano criticamente Mustafa Kemal.
Nonostante gli avvertimenti, tutti i dirigenti del partito dal Congresso di Baku si recarono senza precauzioni in Anatolia. Quando arrivarono a Erzurum, la sezione locale della Società per la Difesa della Legge incitò la popolazione ad attaccarli. Lo stesso scenario si ripeté a Trebisonda, dove si trasferirono successivamente. Mustafa Suphi, Ethem Nejat, İsmail Hakkı e altri compagni decisero di tornare, ma dopo aver lasciato la città su una barca, furono avvicinati da un’altra imbarcazione e furono tutti uccisi su ordine diretto di Mustafa Kemal. In seguito a questo trauma per il movimento comunista in Turchia, la sezione di stanza a Baku si divise in una sinistra guidata da Süleyman Nuri e in una destra filokemalista guidata da Ahmet Cevat Emre.
Nel frattempo, il Gruppo Comunista lottava all’interno dell’Unione Internazionale dei Lavoratori contro l’influenza dell’anarchismo. Ginzberg del Gruppo comunista espresse questa lotta nel suo rapporto del 1921 al Segretariato orientale del Comintern: «L’IWU (...) si è dato una cattiva politica negli ultimi cinque mesi a causa dell’accettazione dei principi e del programma degli IWW americani».
In un rapporto del 1924 intitolato “A Brief Overview of the Turkish Labor Movement”, Ginzberg descrive questi eventi come segue:
«A Costantinopoli esisteva anche un Partito Socialdemocratico armeno (Hunchakist) con 2.000 membri, per lo più operai (...) Nel 1921, il gruppo comunista dell’IWU (...) entrò in contatto con l’ala sinistra di questo partito e i due gruppi si fusero per formare il Partito Comunista di Costantinopoli nel dicembre 1921 (...) La fazione armena comunista del Partito Comunista di Costantinopoli condusse una massiccia campagna a favore della Russia sovietica e dell’Armenia sovietica attraverso la stampa, le conferenze e le agitazioni.
«Fino all’accordo di Franklin Bouillon, la linea politica del Partito Comunista di Costantinopoli era di sostenere il movimento kemalista, ma dopo questo accordo, considerato un tradimento del movimento indipendentista, il partito non esitò a smascherare i kemalisti e guidò la classe operaia, pur sostenendo ogni passo progressivo, a combattere contro la borghesia locale e l’imperialismo attraverso la lotta di classe».
Origine del Partito Comunista di Cina
Dopo il terzo congresso
Al terzo congresso del Partito Comunista di Cina si ebbe un aspro scontro sulla questione dei rapporti con il Kuomintang, con l’opposizione di molti compagni alla tattica dell’entrismo in quel partito nazionalista. Subito dopo la conclusione del congresso, in una lettera del 20 giugno 1923 indirizzata a Zinoviev, Bucharin, Radek e Safarov, Maring ne metteva al corrente i vertici dell’Internazionale, ricostruiva i passaggi che avevano portato all’adozione della tattica di ingresso nel Kuomintang e ne difendeva le ragioni.
Alla base della sua proposta era la valutazione negativa dello sviluppo del movimento rivoluzionario in Cina, caratterizzato dall’arretratezza economica e sociale del paese e dalla debolezza del Partito Comunista, mentre, dall’altro lato, mostrava ammirazione per la forza del Kuomintang nel sud della Cina.
Da qui la proposta di spingere i comunisti cinesi all’attività politica nel Kuomintang e al sostegno alla rivoluzione nazionale come loro compito principale. Maring scriveva che fin dall’agosto del 1922 il Partito era stato spinto ad aiutare il movimento nazionalista partecipando all’organizzazione del Kuomintang. Nonostante ciò, secondo Maring, al quarto Congresso del Comintern Radek aveva proposto che il PCdC svolgesse un’azione politica indipendente sotto una bandiera comunista, con la proposta per la Cina di sviluppare rapidamente un partito di massa. Maring subito dopo il quarto Congresso si recò a Mosca per difendere la continuazione della tattica adottata in agosto, con il risultato che nel gennaio del 1923 l’ECCI adottò una risoluzione secondo la quale la rivoluzione nazionalista era il principale compito del Partito e che i suoi membri dovevano restare nel KMT.
La risoluzione però fece nascere delle discussioni nel PCdC: su cosa si sarebbe dovuto fare nel KMT; su quanti comunisti erano da impiegare a questo intervento e quanti nella propaganda tra i lavoratori; se la borghesia cinese avesse un ruolo rivoluzionario o tutto sarebbe dovuto provenire dagli operai e dai contadini.
Se nelle tesi del terzo congresso del PCdC fu stabilito che il compito del partito era quello di sviluppare il KMT in tutto il paese, nello stesso tempo venivano mosse critiche al partito nazionalista per la sua tattica basata prevalentemente sull’aspetto militare, conducendolo in tal modo a legarsi ai militaristi feudali del Nord, e a cercare rapporti con gli imperialisti stranieri, tattica incompatibile con un partito nazionalista rivoluzionario. Si sarebbe dovuto invece forzare il KMT sulla strada della propaganda rivoluzionaria e creare un’ala sinistra in questo partito formata da contadini e lavoratori.
Zhang Guotao, che si opponeva al punto di vista che voleva un forte appoggio al il KMT, nella sua lettera del 16 novembre 1923 ai funzionari del Comintern Voitinsky e Musin, così sintetizzava la posizione di Maring:
«Il Comintern considera che il compito centrale del PCdC in questo momento è il movimento nazionalista e la Russia sovietica dovrebbe sostenere il Kuomintang. Quindi i comunisti cinesi dovrebbero concentrare i loro sforzi nella riorganizzazione del Kuomintang e lavorare all’interno del Kuomintang e sviluppare il Kuomintang. Tutto il lavoro di propaganda politica del PCdC dovrebbe essere fatto all’interno del Kuomintang (...) Il movimento operaio dovrebbe essere portato all’interno del Kuomintang e i lavoratori di tutta la Cina essere portati dentro il Kuomintang. Solo quando si sarà sviluppata la coscienza di classe degli operai all’interno del Kuomintang, potrebbe svilupparsi un’ala sinistra del Kuomintang. Solo in quel tempo un reale PCdC potrebbe essere formato. Questo sarebbe l’unico processo del movimento rivoluzionario cinese».
Appare chiaro che fin dal 1923 era stata delineata la prospettiva che la rivoluzione in Cina subordinava il movimento sociale dei proletari e dei contadini alle esigenze della rivoluzione nazionale e che solo il partito della borghesia cinese, il Kuomintang, avrebbe potutp guidare il movimento rivoluzionario. Il Partito Comunista di Cina si sarebbe dovuto confinare al suo interno, facendovi affluire operai e contadini. Benché sulla carta si lasciasse in piedi l’esistenza indipendente del Partito Comunista, nei fatti lo si riduceva ad ”ala sinistra” del Kuomintang, direttiva fatta propria dai vertici dell’Internazionale e impartita ai comunisti cinesi.
Ma il PCdC non era ancora convinto e ancora nel novembre del 1923 persistevano delle resistenze. Zhang Guotao negava che il Kuomintang fosse l’unico rappresentante del movimento rivoluzionario cinese. Sosteneva poi che la borghesia cinese era dipendente dai capitalisti stranieri e, benché ci fossero delle contraddizioni tra i borghesi cinesi e gli imperialisti stranieri, la borghesia locale era lungi dal battersi contro l’oppressione straniera. Dall’altro lato, la forza della classe operaia era sì giovane e debole ma aveva già mostrato la sua combattività. Zhang Guotao riteneva che la forza operaia fosse già presente e potesse essere una delle principali componenti di un futuro movimento nazionalista. Accettava la necessità di restare nel Kuomintang, organizzando sezioni e cercando di riorganizzarlo, ma non riteneva predominante questo lavoro. I comunisti dovevano continuare a propagandare indipendentemente le proprie posizioni politiche e bisognava evitare che il movimento sindacale passasse dalle mani del PCdC a quelle del KMT. Il compito principale restava quello di organizzare i lavoratori.
Zhang Guotao riteneva che il Kuomintang non solo non fosse un vero partito nazionalista ma che non era neanche un partito organizzato. Riteneva che l’arrivo di un partito nazionalista cinese avrebbe richiesto anni. Proponeva, quindi, che nei centri operai dove il Kuomintang non aveva influenza non bisognava lasciargli organizzare sezioni, mentre solo a Canton e Hong Kong il lavoro del PCdC nel campo operaio era costretto ad essere condotto all’interno del Kuomintang.
Erano quindi presenti compagni all’interno del PCdC non disposti a cedere al KMT il ruolo di guida del movimento rivoluzionario in Cina e a rinunciare all’indipendenza politica del Partito Comunista. Gli stessi vertici del PCdC, in una riunione dell’Esecutivo del 24-25 novembre 1923, erano costretti a riconoscere che le risoluzioni sul movimento nazionale e la questione del Kuomintang, stabilite al terzo congresso del Partito, non avevano ricevuto un sostegno sostanziale dai membri del partito di base.
Nonostante l’opposizione alla tattica stabilita al terzo congresso e le difficoltà riscontrate nella sua applicazione, i vertici del PCdC confermavano di proseguire su quella strada. La riunione del novembre 1923 dell’Esecutivo del PCdC condannò risolutamente la “distorsione di sinistra” della politica del fronte unico e adottò una decisione che ordinava ai comunisti di partecipare attivamente alla riorganizzazione del partito nazionalista.
La risoluzione non lascia dubbi sulla strada intrapresa: tutto il lavoro del Partito Comunista doveva essere condotto all’interno del Kuomintang, considerato ormai la forza centrale della rivoluzione in Cina. La riorganizzazione e lo sviluppo del Kuomintang erano divenuti i compiti principali del Partito Comunista, e a tal fine, la risoluzione impartiva direttive precise: i comunisti, pur restando membri del PCdC, dovevano aderire alle sezioni del Kuomintang nei centri dove queste erano già presenti o creare essi stessi sezioni del Kuomintang dove ancora non c’erano; bisognava seguire il programma dettato dai vertici del KMT e la correzione delle tendenze politiche del KMT doveva svolgersi “in conformità con il principio nazionalista incarnato nei Tre Principi del Popolo”.
Era la piena adesione al programma borghese di Sun Yat-sen e la sottomissione dei comunisti alla direzione politica del partito nazionalista. Il movimento nazionalista era divenuto il fulcro di tutto il lavoro del PCdC e la soluzione della “questione nazionale” veniva collocata al disopra degli interessi di classe e della propria lotta.
Il 25 dicembre 1923, l’Esecutivo del PCdC emetteva la “Circolare Numero 13” che obbligava, fra l’altro, a garantire l’elezione al prossimo Congresso del KMT, fissato per il gennaio 1924, non solo dei comunisti ma anche di figure “relativamente progressiste”. Inviati speciali furono spediti nelle sezioni del Partito per implementare tali decisioni.
Queste decisioni nel campo della tattica venivano accompagnate da nuove formulazioni teoriche a loro sostegno. Si esagerò il carattere rivoluzionario della borghesia e la sua funzione nella direzione della rivoluzione nazionale.
Lo sostenne proprio Mao Zedong, appena eletto nel Comitato Centrale. Nel luglio del 1923 scriveva che sarebbero i mercanti, cioè la borghesia, a sentire “più acutamente e più urgentemente” le sofferenze della duplice oppressione ai militaristi locali e agli imperialisti stranieri e, sebbene la rivoluzione nazionale per rovesciare militaristi e imperialisti “è la missione storica del popolo cinese” nel suo insieme (commercianti, operai, contadini, studenti e insegnanti nella formulazione di Mao), a causa della contraddizione tra gli interessi economici dei mercanti e quelli degli stranieri e dei militaristi, il ruolo dei mercanti era considerato da Mao “più urgente e più importante” rispetto al resto del “popolo”.
In tal modo, teorizzando un ruolo preminente dei mercanti, e quindi della borghesia, ci si avvicina alla classica posizione del menscevismo, che lascia la guida della rivoluzione nei paesi ancora arretrati alla borghesia nazionale. Questa interpretazione dello sviluppo rivoluzionario nei paesi arretrati, secondo cui il giogo imperialista rendeva rivoluzionaria la borghesia nazionale dei paesi coloniali e semicoloniali, più rivoluzionaria della borghesia antifeudale russa nelle formulazioni successive, sarà la stessa con la quale l’Internazionale degenerata giustificherà tutte le direttive imposte ai comunisti cinesi, che porteranno alla tragica sconfitta della rivoluzione proletaria in Cina, mentre già Lenin aveva chiarito che “la rivoluzione borghese è impossibile come rivoluzione della borghesia”, separando definitivamente il bolscevismo dalla corrente menscevica.
FINE DEL RESOCONTO DELLA RIUNIONE DI MAGGIO AL PROSSIMO NUMERO
PAGINA 7
Lavoratori Rfi!
Oggi siete al vostro 4° sciopero e alla vostra terza manifestazione nazionale contro l’infame accordo del 10 luglio, firmato dall’azienda insieme ai sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl) e a quelli autonomi (Fast, Orsa). Nonostante l’alta adesione agli scioperi, azienda e sindacati collaborazionisti hanno continuato ad andare avanti dritti per la loro strada, non senza intraprendere azioni ricattatorie, intimidatorie e diversive per cercare di fermare la vostra lotta.
Alcuni ne deducono che scioperare non serve. Questa è una grossa ingenuità ed è ciò di cui azienda e sindacati di regime desiderano vi convinciate. La realtà è un’altra: lo sciopero non è una manifestazione d’opinione ma una prova di forza! Altrimenti basterebbe una raccolta di firme.
È per questo che dal 1990 il padronato – privato e pubblico – ha introdotto, su invocazione di Cgil Cisl e Uil, alcune leggi anti-sciopero (146/1990, 83/2000) che impediscono a una parte cospicua della classe lavoratrice, fra cui tutti i ferrovieri, di scioperare liberamente.
Non sarà facile piegare una grande azienda come Rfi, per di più di Stato, con scioperi che sottostanno a una delle legislazioni più restrittive d’Europa, che impedisce di scioperare più di 24 ore di seguito e di una volta al mese. Per legge, la borghesia e i sindacati di regime hanno ridotto lo sciopero a una manifestazione d’opinione, lo hanno snaturato, lo hanno reso sostenzialmente innocuo per i loro interessi.
Lo sciopero per essere efficace deve essere a tempo indeterminato, permettendo il suo rafforzamento nei giorni, e possibilmente anche la sua estensioni al di fuori dell’azienda, del settore, della categoria, coinvolgendo altri lavoratori uniti dagli stessi interessi: aumentare i salari, ridurre ritmi e durata del lavoro.
Il problema è dunque spezzare le leggi antisciopero. Ciò sarà possibile solo con un vasto movimento di lotta dei lavoratori. Ma affinché tale movimento di lotta operaia sia organizzato, determinato, vincente, serve una organizzazione sindacale autenticamente di classe. Per questo il passo fondamentale in questa direzione è la rinascita, fuori e contro i sindacati di regime, del sindacato di classe!
Anche la nascita della Assemblea Nazionale Lavoratori Manutenzione (ANLM) e il sostegno ad essa dei sindacati di base – Cub, Cobas LP, Usb – sono un passo in questa direzione.
A prescindere da come andrà questa prima battaglia, la vera vittoria sarà la sedimentazione di una nuova organizzazione di lotta. A questo scopo occorre persistere con la piena unità d’azione della ANLM e dei sindacati di base.
Solo una forte organizzazione sindacale di classe sarà in grado di mobilitare i lavoratori con una determinazione e una unità tali da potersi contrapporre alle leggi antisciopero rendendone impossibile l’utilizzo, fermando l’invio di sanzioni a decine di migliaia di lavoratori, minacciando di mettere in atto un movimento di sciopero ancora più forte ed esteso.
A questo scopo sarebbe un grande passo in avanti unire negli scioperi futuri i lavoratori, a cominciare dai settori economici contigui – ferrovieri, logistica, autoferrotranvieri, portuali – come primo passo per l’unificazione nella lotta di una parte sempre più vasta della classe lavoratrice.
Il
sindacalismo di base, con una unità quasi completa, ha chiamato
recentemente a scioperare:
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il 30 aprile i lavoratori delle logistica;
-
il 6 maggio gli autoferrotranvieri;
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dal 17 al 19 maggio i ferrovieri (con lo sciopero del personale
viaggiante del 19 maggio precettato dal Ministro dei Trasporti).
Il 5 aprile l’Usb si è unita allo sciopero nazionale dei portuali proclamato da Cgil, Cisl e Uil.
Per
rompere lo steccato che tiene isolati i lavoratori di ogni azienda,
settore, categoria, per spezzare le leggi antisciopero, bisogna unire
queste lotte in un unico movimento di
lotta, in un’unica organizzazione!
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È durato dal 7 luglio al 5 agosto lo sciopero alla Samsung Electronics, presso lo stabilimento di Giheung a sud di Seul.
Secondo i dati OCSE la Corea del Sud è uno dei paesi con il più alto numero di ore di lavoro medio all’anno: 1.915, superiori alle 1.791 degli Stati Uniti e alle 1.349 in Germania. I lavoratori Samsung in lotta denunciano l’eccessivo carico di lavoro, gli straordinari, i licenziamenti senza giusta causa, la mancanza di sicurezza che ha portato a diverse morti, il peggioramento delle condizioni di salute.
Questa condizione di intenso sfruttamento è aggravata dal rallentamento dell’economia coreana la cui produzione industriale, cresciuta dal 2007 a un ritmo medio annuo del 2,3%, nel 2023 è diminuita rispetto all’anno precedente del 2,6%.
Una intensa industrializzazione è iniziato in Corea del Sud a partire dai primi anni ‘70. Già pienamente maturato, questo capitalismo nazionale sta entrando nella sua fase senile. Conferma ne è il calo demografico: «Il tasso di fertilità del Paese, il più basso del mondo, continua a franare: nel 2023 ha toccato il nuovo minimo storico di 0,72» (“Avvenire”, 28 febbraio).
La Samsung Electronics è fra i primi produttori mondiali nel settore e la maggiore divisione del gruppo, che è il maggiore Chaebol del Paese, termine con cui in Corea del Sud vengono chiamati i conglomerati industriali di proprietà di un singolo capitalista o di una singola famiglia.
Lo sciopero – accompagnato da diverse manifestazioni di cui la maggiore con 2.000 lavoratori – pur sconfitto ha rotto la pace sociale che regna nella più importante azienda di questo capitalismo nazionale e va salutato come un segnale positivo per la ripresa della lotta di classe.
È stato il primo sciopero nella storia della Samsung Electronics, fondata nel 1969 e con una tradizione di forte paternalismo aziendale, che ha impedito la formazione di qualsiasi sindacato fino al 2010.
Lo sciopero ha coinvolto 6.000 lavoratori su un totale di 120.000, di cui 31.000 iscritti al sindacato promotore dell’azione di lotta. Si è trattato quindi di uno sciopero di una minoranza che, pur con numerosi partecipanti, non è bastato a piegare il colosso aziendale.
La notizia di un incremento eccezionale degli utili – moltiplicatisi di ben 15 volte, soprattutto in conseguenza delle vendite dei chip per i calcolatori necessari alla Intelligenza Artificiale – era stato un elemento importante a spingere sindacato e lavoratori all’azione di lotta.
Il sindacato NSEU (National Samsung Electronic Union) – nato appena 5 anni fa e divenuto il maggior sindacato dell’azienda – aveva promosso un primo sciopero di una sola giornata a giugno, dichiaratamente con la volontà di non danneggiare la produzione, ma per lanciare un segnale e chiedere l’apertura delle trattative. Le rivendicazioni dei lavoratori organizzati nella NSEU sono: aumento salariale del 5,6%, un premio produttivo proporzionato al livello dei profitti e un giorno di ferie aggiuntivo.
Di fronte alla intransigenza aziendale, la NSEU ha proclamato uno sciopero di 3 giorni, dal 7 al 10 luglio, questa volta asserendo che l’azione avrebbe colpito la produzione. L’ulteriore rifiuto dell’azienda ad aprire una trattativa ha portato alla prosecuzione ad oltranza dello sciopero.
La Samsung ha concesso la trattativa che però non ha portato ad alcun risultato. A inizio agosto Son Woo-mok, il presidente della NSEU, ha dichiarato: «A venticinque giorni dall’inizio dello sciopero, non abbiamo ancora nulla in mano. In qualità di dirigente sindacale mi sento responsabile del fatto che non abbiamo ottenuto alcun risultato per gli iscritti che hanno scioperato senza percepire alcuno stipendio». Il 5 agosto lo sciopero è terminato.
Ma 8 giorni dopo, il 13 agosto, la NSEU ha proclamato un nuovo sciopero di 4 giorni a partire dal 16 agosto. Il vice-presidente del sindacato Lee Hyun-kuk ha dichiarato: «Questo sciopero è concepito per danneggiare l’azienda». Anche questo nuovo sciopero però sembra non essere stato sufficientemente forte da sortire effetti.
Nella scarsità di informazioni disponibili possiamo dare solo indicazioni di ordine generale:
- ogni lotta chiusa entro un ambito aziendale è debole e occorre fare il possibile per unirla a scioperi di lavoratori di altre aziende e categorie; è cioè imperativo rompere con il sindacalismo d’azienda: la lotta dei lavoratori deve divenire un problema sociale e quindi politico, non aziendale;
- le rivendicazioni salariali vanno sganciate dai profitti aziendali: gli aumenti devono essere rivendicati sul salario, non come premi produttivi; i lavoratori devono difendere il loro salario a prescindere dall’andamento dell’azienda e, a scala generale, dell’economia nazionale, che non è altro che il capitalismo nazionale.
Nell’estate trascorsa le relazioni tra Turchia, Repubblica Araba Siriana e Forze Democratiche Siriane si sono rimesse in moto e complicate. Alla fine di giugno Turchia e Siria, anche con la mediazione della Russia, hanno ristabilito le relazioni che si erano interrotte con la guerra civile siriana.
Subito l’Esercito Libero Siriano – FSA, i gruppi armati che si oppongono al regime di Assad – e i suoi sostenitori hanno organizzato proteste contro l’occupazione turca in Siria, sostenuti dai nazionalisti curdi nelle loro zone.
Linciaggi e massacri di rifugiati siriani hanno avuto luogo in molte città della Turchia. In risposta lo Stato turco è stato costretto a chiudere diversi varchi di frontiera, in particolare quello di Reyhanlı (Bab al Hawa). Sebbene gli eventi siano andati smorzandosi, il ghiaccio tra lo Stato turco e quello siriano ha continuato a sciogliersi.
All’inizio di agosto l’esercito siriano a Deir ez-Zor ha attaccato con missili e artiglieria l’SDF, le Forze Democratiche siriane, gruppi armati di una coalizione a guida curda, mentre l’esercito turco conduceva un’operazione dopo l’altra sia nel Kurdistan occidentale (siriano) sia in quello meridionale (iracheno).
A settembre il governo siriano ha annunciato l’intenzione di avviare negoziati con la Turchia, anche senza l’impegno turco a ritirarsi dalla Siria, mentre il governo turco, attraverso la Russia, ha dichiarato di essere pronto a discutere tale ritiro. Tutto ciò fa pensare che il governo del Partito della Giustizia e dello Sviluppo – la cui incapacità di gestire la crisi economica diventa sempre più evidente – stia cercando di porre fine all’esistenza dell’Amministrazione Autonoma della Siria Settentrionale e Orientale, guidata dalle SDF, facendo un accordo con lo Stato siriano, condizione questa non evitabile.
Occorre considerare le basi storiche della situazione: le radici della xenofobia in Turchia, le relazioni Turchia-Siria, Turchia-FSA e Siria-SDF prima e durante la guerra civile siriana e la posizione delle grandi potenze imperialiste nella Regione in ognuno di questi contesti.
La recente recrudescenza della xenofobia, che ha radici e cause più profonde, va vista nella sconfitta della classe operaia nelle recenti lotte. Anche i settori combattivi della classe operaia turca sono stati a lungo sotto l’influenza degli impostori opportunisti al seguito della Russia controrivoluzionaria e di altri Paesi stalinisti. Sono stati privati di un’autentica politica comunista dal ritiro dal palcoscenico della storia della gloriosa ala sinistra del Partito Comunista di Turchia, fondato ad Ankara, ormai più di un secolo fa, nel luglio del 1920. Così non pochi lavoratori turchi, ignari delle cause reali del deterioramento delle loro condizioni di vita, sono sensibili alla retorica razzista di molte organizzazioni fasciste, dal Partito del Movimento Nazionalista (MHP) al Partito della Vittoria. Questa xenofobia, che si oppone all’ondata migratoria dovuta alla guerra civile siriana, è costantemente alimentata dai media con notizie false e provocatorie.
Il motivo di fondo delle lotte tra i governi borghesi turco e siriano, si basa sull’antica contesa per le risorse naturali. La rivendicazione unilaterale della Turchia sui fiumi Eufrate e Tigri, che defluiscono dalla Turchia, importanti risorse d’acqua sia per la Siria sia per altri Paesi del Golfo, ne è un esempio. L’intenzione del capitale agrario di investirsi in Turchia secondo le linee del Progetto Anatolia Sud-Orientale ha accentuato la insicurezza di approvvigionamento idrico in Siria. Inoltre la Turchia di tanto in tanto, in nome delle sanzioni, ha ridotto il flusso d’acqua verso la Siria.
Altro punto di tensione nelle relazioni tra Siria e Turchia è il sostegno della Siria al Partito curdo dei Lavoratori (PKK). Ma, di fatto, il rapporto dello Stato siriano con il PKK non va oltre la tolleranza: benché rappresenti una minaccia contro la Turchia, la Siria non ha fatto altro che chiudere gli occhi sull’organizzazione e sulle attività del PKK all’interno dei suoi confini. La Turchia, che è uno dei Paesi della NATO, ha comunque minacciato un intervento militare in Siria.
Con la guerra civile siriana, gli interessi di diversi attori hanno frammentato il Paese. Da un lato c’è l’Esercito Siriano Libero, che ha ricevuto addestramento militare in molte province sudorientali della Turchia ed è sostenuto dagli Stati Uniti. Questa organizzazione, il cui unico obiettivo è rovesciare il regime di Bashar al-Assad, è stata fondata da un gruppo di ex ufficiali delle Forze armate siriane, e ha obiettivi in linea con l’affermazione locale dell’imperialismo occidentale.
Il rapporto del governo turco con l’FSA si è concretizzato nell’armamento e nel suo addestramento da parte delle forze armate turche per conto degli Stati Uniti e della NATO. La perpetuazione del conflitto nel nord della Siria da parte della Turchia, soprattutto attraverso l’FSA, ha alimentato l’industria delle armi turca e garantito la fornitura di manodopera immigrata dalla Siria e ha reso possibile la crescente occupazione turca del nord della Siria.
Un’altra parte in causa nella guerra civile sono le Forze Democratiche Siriane (SDF), guidate dalle Forze di Protezione del Popolo (YPG), l’organizzazione militare del partito gemello del PKK in Siria, il Partito dell’Unione Democratica (PYD), e comprendenti, oltre ai curdi, anche alcune milizie arabe e siriane.
Sebbene l’SDF, che controlla una parte significativa del Kurdistan occidentale, abbia una maggioranza curda, ha preso il controllo anche di città a maggioranza araba come Raqqa e Deir ez-Zor.
Le relazioni dell’SDF con la Siria sono più complesse di quelle tra Turchia e FSA. L’obiettivo esplicito dell’SDF è una Siria federale e per perseguirlo ha ingaggiato conflitti armati con il governo e l’esercito siriano. Tuttavia, è anche noto che durante la guerra civile siriana, l’SDF ha collaborato con il governo siriano e il suo esercito, in particolare contro l’esercito turco e l’FSA sostenuto dalla Turchia. Durante l’invasione turca di Afrin del 2018, la milizia filo-governativa siriana, le Forze di Difesa Nazionale, ha inviato truppe ad Afrin per sostenere l’SDF. Soprattutto l’accordo reciproco mediato dalla Russia nel 2019 ha rafforzato l’unità tra Siria e SDF.
Tuttavia l’SDF è l’organizzazione che in Siria riceve il maggiore sostegno dagli Stati Uniti. L’SDF dà un contributo determinante a prolungare il conflitto armato nella Regione. Questo infinito scontro serve allo sviluppo del capitale internazionale, aumentando i profitti che le imprese straniere otterranno dalla ricostruzione della Siria attraverso varie gare d’appalto, stringendo vari accordi commerciali sul petrolio tra le potenze imperialiste globali, come Russia e Stati Uniti, e i governanti locali, e alimenta il grande business delle armi.
Pesa la guerra sugli immigrati e sul lavoro minorile
In Turchia la vita della classe operaia, piegata sotto il pesante fardello che il capitalismo le impone, si divide fra chi sta peggio e chi sta ancora peggio. Solo la lotta unitaria della classe operaia potrà liberare chi è costretto a lavorare in condizioni particolarmente disumane, gli immigrati e i bambini, tristemente ignorati da masse prive di coscienza, appagate oggi del loro stare “meno peggio”. L’unico modo in cui la classe può condurre questa lotta è organizzarsi in sindacati combattivi, che si impegnino a difendere i lavoratori sottoposti a un doppio sfruttamento a causa della loro posizione svantaggiata.
La lotta fra gli imperialismi in Medio Oriente e in Europa orientale si sta intensificando. Elementi della borghesia grande e piccola si preparano per una guerra distruttiva che porterà condizioni ancora peggiori di miseria e massacro alla classe operaia. Già in molti Paesi questo si riflette sui lavoratori sotto forma di crisi economica e crescente violenza repressiva. Fuggendo il volto orribile del capitalismo masse di proletari si ammassano alle frontiere nella speranza di salvarsi, per essere spesso accolte con le armi. Nel 2021, secondo i dati ufficiali, sono fuggiti in Europa in oltre 2,3 milioni; in 5.000 sono morti nel 2022 davanti alle sue frontiere. Il capitale ha bisogno di forza lavoro, di chi non è morto nel viaggio, e, presto, di soldati per le sue grandi guerre.
Si stima che in Turchia nel 2022 siano arrivati 5 milioni di immigrati. Il numero di quelli illegali e dei lavoratori non registrati è sconosciuto.
La disoccupazione, che accompagna l’intensa ondata migratoria, genera ulteriori migrazioni: 467.000 sono emigrati dalla Turchia nel 2021. Nella competizione per la manodopera a basso costo, alle frontiere e nei consolati il “privilegio” della immigrazione si concede prima a chi ha la migliore istruzione, e poi via via alle caratteristiche lavorative più svantaggiate.
Secondo l’UNICEF, in Grecia arrivano tanti ragazzi. L’81% sono maschi. In Italia invece il 95% di loro sono maschi; l’84% sono non accompagnati.
In Turchia gli immigrati lavorano per 15-20 ore, in mansioni rifiutate e pericolose, e sono ancora grati se ricevono la paga a fine del mese. Si accontentano, per lo stesso lavoro, di salari molto più bassi rispetto agli autoctoni.
Per i clandestini la situazione è ancora più spaventosa. Sotto la minaccia della deportazione, sono costretti al silenzio di fronte a molestie, stupri e percosse. Alcuni immigrati per difendersi si vedono entrare e uscire in gruppo dalle zone industriali. I feriti o gli uccisi in incidenti sul lavoro non sono nemmeno registrati e i padroni continuano a far girare la ruota dello sfruttamento senza pagarne il prezzo.
Inoltre gli immigrati non possono accedere a sanità, alloggi e istruzione se non a condizioni di estrema difficoltà.
È chiaro che gli immigrati avrebbero bisogno di una vera solidarietà di classe.
Il peggioramento della crisi globale e le condizioni di guerra aumentano anche il numero di giovani lavoratori. Un numero crescente di adolescenti è costretto a lavorare per lunghi orari con il pretesto della preparazione professionale, per salari molto inferiori a quelli di mercato.
Secondo i dati, nel 2022 il tasso di inflazione in Turchia era del 12%, del 72% nel 2023 e del 592% nel 2024. In condizioni in cui due stipendi, per non parlare di uno solo, non sono sufficienti per arrivare a fine mese, i giovani sono costretti a lavorare per contribuire al sostentamento della famiglia. Allo stesso tempo, i tassi di disoccupazione continuano a salire: secondo i dati della DİSK (Confederazione dei sindacati progressisti) nell’ultimo anno il tasso di disoccupazione reale è del 27,2% e il numero di disoccupati 10,7 milioni.
Giovani che arrivano clandestini, il segmento più svantaggiato della società, sono sfruttati in condizioni molto dure. Il lavoro minorile in Turchia è in crescita per soddisfare le esigenze della “nuova borghesia” affamata di manodopera a basso costo. La borghesia, che si va indebitando, si vendica del fatto di non avere abbastanza capitale per resistere alla crisi economica aumentando lo sfruttamento dei lavoratori.
Secondo i dati di TurkStat, nel 2023 il tasso di giovani tra i 15 e i 17 anni che lavorano come operai è aumentato del 22,1%. Il Consiglio per la salute e la sicurezza dei lavoratori stima il numero di giovani lavoratori in circa 3,5 milioni, tra cui quasi 1,5 milioni nei Centri di formazione professionale affiliati al Ministero dell’Educazione nazionale. Gli adolescenti sono impiegati con il pretesto della formazione professionale ma in realtà sfruttati in molti campi, dai servizi al tessile, all’agricoltura e alla metalmeccanica.
Mentre il numero di adulti che cercano qualunque lavoro aumenta di giorno in giorno, lo Stato si impegna per attirare gli adolescenti nella forza lavoro. Secondo una dichiarazione pubblicata da Eğitim-Sen (Unione dei lavoratori dell’istruzione e della scienza, membro della Confederazione dei sindacati pubblici dei lavoratori) 300.000 degli 1,5 milioni di studenti che entrano a far parte della forza lavoro attraverso i Centri di formazione professionale hanno meno di 18 anni. Nonostante ciò si parla di abbassare l’età lavorativa nella formazione professionale a 12 anni.
Il lavoro minorile, che continua a crescere sotto il nome di formazione professionale. fornisce manodopera a basso costo e finanziamenti ai padroni attraverso il MESEM (Centro di Formazione Professionale). Secondo i dati dell’ISIG, nel 2024 sono stati pagati ai padroni 1,7 miliardi di Lire turche per gli studenti-lavoratori, che hanno lavorato gratuitamente. I fondi pubblici investiti in questo programma hanno raggiunto i 15 miliardi negli ultimi tre anni.
Il sistema educativo borghese, che fa lavorare i ragazzi delle scuole superiori per lunghe ore nelle fabbriche per quattro giorni alla settimana, sta ora ampliando il suo raggio d’azione con laboratori artigianali creati nell’ambito del Programma di sviluppo delle competenze, che tutti gli studenti della settima e ottava classe (12-13 anni) possono frequentare durante l’estate. Con questo programma è aumentato anche il numero di ragazzi che lavorano in occupazioni pericolose.
Dal 2013 all’inizio del 2024 ben 775 giovani lavoratori hanno perso la vita. L’agricoltura e foreste ha rappresentato il 55% dei decessi, seguita dall’edilizia, metalmeccanica e alimentare. Dei morti, 80 erano giovani immigrati e 71 di origine siriana. Naturalmente, la difficoltà di accedere ai dati sugli immigrati e sul lavoro nero nasconde la vera dimensione del massacro. Ma non si può nascondere la violenza fisica e psicologica esercitata sui giovani sul posto di lavoro. Per quanto ne sappiamo da ricerche limitate sono sottoposti a insulti e violenze. Spesso il corpo dei ragazzi è sfruttato in ogni forma, dall’abuso sessuale all’eccesso di lavoro.
Non è possibile per i lavoratori migliorare il proprio stato senza un’unità organizzata. È imperativo che i lavoratori di tutte le condizioni uniscano le loro lotte iscrivendosi direttamente ai sindacati esistenti o formando sindacati combattivi laddove non ce ne sono. Nella lotta sindacale, i problemi degli immigrati e dei giovani lavoratori devono essere discussi in modo specifico e devono essere attuati metodi di lotta per proteggerli dalla loro posizione svantaggiata. La propaganda contro il razzismo e la gerontocrazia deve essere regolare all’interno dei sindacati. I lavoratori di tutte le razze e di tutte le età si rafforzano unendosi nella lotta. Ogni pretesto che divide è un’arma contro di loro.
Negli ultimi quarant’anni la prima giustificazione della borghesia per rinviare gli scioperi è stata il rischio per la sicurezza nazionale. La crisi e la guerra crescente sembrano oggi rinnovare questo pretesto.
Invitiamo i lavoratori a lottare nei propri sindacati, ma anche a creare organizzazioni intersindacali che riuniscano lavoratori di diversi settori e di diversi sindacati.
Come Partito Comunista Internazionale, consideriamo l’unificazione delle lotte difensive dei lavoratori del mondo l’unica via per la rivoluzione comunista.