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COMUNISMO
n. 60 - agosto 2006
Presentazione.
IL MOVIMENTO OPERAIO NEGLI STATI UNITI D’AMERICA [RG94]: Le origini: Servi e schiavi - Il Settecento. Nascita del proletariato urbano - La classe operaia prima dell’Indipendenza (1/19 - continua - Indice).
L’ANTIMILITARISMO NEL MOVIMENTO OPERAIO IN ITALIA (VI - continua dal numero scorso) [RG92]: Il neutralismo rivoluzionario di fronte ai preparativi di guerra - Cedimenti al difesismo nelle file socialiste - Immancabile consenso parlamentare al militarismo - Ultimo convegno socialista in Italia prima della guerra (continua al prossimo numero).
Partito e Sindacato in Italia tra vecchio e nuovo secolo - [RG93, RG94, RG95]  (continua dal numero. scorso) Il movimento sindacale alla fine della guerra: Gli scioperi durante la guerra - CGL rossa e CGIL tricolore: “Battaglie Sindacali” - Fuori della ubriacatura nazional-resistenziale - L’atteggiamento verso il Fascismo e la Democrazia - Il sindacato di fronte alla guerra e alla pace - Unità e Libertà sindacale - Sul rapporto con i partiti politici - Il sabotaggio dei nazional-comunisti.
LA QUESTIONE EBRAICA OGGI [RG90] (1/5): Riflessioni su un tema rancido: chi è ebreo?
Dall’Archivio della Sinistra: - da Avanti!, 18 novembre 1912:
LA GIORNATA STORICA DELL’INTERNAZIONALE OPERAIA, L’imponente Comizio di ieri a Milano: Alla Casa del Popolo - L’on. Rigola - Otto Glöckel (Lo sterminio della guerra - Lo scopo del Comizio - I colpevoli - La protesta dei socialisti - Dov’è il nostro posto) - Compère-Morel - Il Prof. Mussolini (Il tramonto di un’illusione - Il pensiero del popolo e quello della borghesia - Guerra e Rivoluzione) - L’Avv. Tucci - Zavattero - L’On. Turati (L’Internazionale di proletari - Per la civiltà universale - L’Ordine del Giorno approvato).

 
 
 
 
 
 
 
 


Ogni classe esprime e mostra ai propri membri e al resto del mondo le sue verità, apparentemente anche contraddittorie. Finché sono esistite e continueranno ad esistere le classi, queste verità costituiscono il cemento ideologico, lo strumento con cui giustificare la propria visione del mondo e il proprio dominio. Per quanti si riconoscono nel metodo comunista ed aderiscono alla sua scuola e al suo metodo questa affermazione costituisce una verità di principio, riscontrabile storicamente e quotidianamente verificata nei feroci contrasti del mondo capitalistico.

La borghesia, una volta che ebbe trionfato sulle classi che storicamente la precedettero, ha manifestato le sue verità volte a giustificare, dissimulandolo, il suo dominio e la sua intenzione di continuare a mantenerlo: la presunta necessità e invariabilità del suo modo di produzione capitalistico, definito unico e assoluto, e le sue specifiche forme politiche, in cui si devono contenere i rapporti tra gli uomini, disposizione naturale e ottima per ogni tempo e per l’umanità intera.

Che siano le variegate ed articolate espressioni della democrazia nelle sue tante accezioni, o le dittature in nome del popolo o della nazione, in apparente contrasto con quella, che siano le guerre locali per far valere una particolare ragione contro un’altra, che soccombendo diventa torto agli occhi del mondo, che siano gli scontri feroci e senza tregua per accaparrarsi mercati e materie prime, che siano le guerre in nome della libertà a pretesi nemici del civile convivere, è tutto un fiorire di verità che vogliono giustificare, sotto il pretesto della triste necessità o per superiori ideali o per la forza di accadimenti, lo stato di cose presente e l’obbligo di continuare a far vivere e prosperare il mondo del Capitale.

Sono appunto verità di classe: tanto più storicamente deboli o incongruenti quanto più l’espandersi del capitalismo – la sua “globalizzazione”, come si denomina e riveste oggi l’estendersi feroce e contraddittorio degli imperialismi – marcia a ritmi folli verso l’esito di un nuovo terribile scontro, anche questo inevitabilmente alla scala globale.

Non le condanniamo per motivi etici, o per le incongruenze storiche, le cangianti verità del capitalismo. Dialetticamente dimostriamo la necessità di queste verità di cui hanno bisogno gli Stati borghesi e i grandi imperialismi, prodotto e non causa della loro potenza, sulle classi sottomesse ma anche verso gli altri predoni capitalistici, e la nostra scuola rivoluzionaria vi oppone, per converso, la verità della classe proletaria, per ora e da lunghissimo tempo assente sul teatro mondiale.

Anche se sconfitta in questa lunga fase storica, la classe rivoluzionaria, che è tale solo se organicamente collegata al suo partito, sul terreno dottrinario vede la vittoria delle sue verità e della sua dottrina nei confronti di quelle della classe avversa.

Il comunismo è stato ufficialmente dichiarato morto e sepolto, sparito dalla storia, un arnese inutilizzabile sul piano del pensiero per comprendere e sul piano politico per cambiare l’atroce quotidiano del capitalismo. Il Partito internazionale e la Rivoluzione sociale per un Comunismo senza Stati sarebbero astrazioni non più utilizzabili dopo le rovine dei "socialismi reali". Non è più nemmeno da parlarne.

Questa è la loro ultima verità, oggi come non mai fondamento di ogni loro verità e postulato essenziale di ogni loro loro sistema teorico. Fingendosi certi di questa pretesa definitiva annichilazione – risultato di decenni di sconfitte e lutti del proletariato internazionale, a questo ascoste sotto un cumulo di menzogne, falsi rimedi e ideologie religiose a minarne lo spirito ribelle – torpidi sopravvivono, e tramano contro l’umanità intera i predoni dei mercati e della finanza, le centrali del Capitale di vecchia e di nuova fattura, con i capitalismi più deboli che dietro arrancano, per trovare, o non perdere, i loro spazi al sole.

Questa è la nostra verità: sappiamo il Comunismo necessità ineludibile per la specie umana, pena, forse, la sua distruzione. È, piaccia loro o meno, il Convitato di Pietra al loro banchetto di miseria e morte.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Il movimento operaio negli Stati Uniti d’America
Studio esposto nella riunione del partito del gennaio 2006.


[Indice]

Le origini: Servi e schiavi

La storia del movimento operaio americano, o, se vogliamo essere precisi, del movimento operaio degli Stati Uniti, inizia nel periodo coloniale, contemporaneamente al nascere e allo svilupparsi di quegli insediamenti che sarebbero evoluti in Colonie e che sul finire del secolo XVIII si emanciperanno dalla madrepatria.

Non bisogna dimenticare che la società che fu fondata sulla sponda occidentale dell’Oceano Atlantico aveva alle spalle una storia politica, economica e sociale in comune con i paesi del Vecchio Mondo, e in particolare con l’Inghilterra. La quale era da un pezzo uscita dal Medioevo, ed aveva creato le basi sociali e politiche per lo sviluppo della società borghese e per l’affermazione del sistema capitalistico. Tali basi erano state la Riforma e la dissoluzione dei monasteri e delle enclosures delle terre comuni, lo sviluppo della borghesia mercantile, l’ascesa del paese come potenza marinara e commerciale. Le Colonie americane furono quindi popolate da coloni che già si erano lasciati alle spalle il retaggio del Medioevo. E nelle colonie si viveva un’atmosfera tutt’altro che medioevale: i fondatori delle colonie, soprattutto di quelle del New England, incarnavano l’aspetto più spregiudicato della borghesia inglese, che proprio in quegli anni si preparava a dare la spallata finale al vecchio regime monarchico assolutistico.

Tra i motivi che spingevano la Corona inglese, a cavallo tra i secoli XVI e XVII, a favorire la colonizzazione del Nord America vi era certamente quello di trovare uno sbocco alla popolazione eccedente in patria, per stemperare le tensioni sociali dovute alla povertà e alla disoccupazione, a loro volta un sottoprodotto dello sviluppo della società in senso borghese. Fin dal 1576 Sir Humphrey Gilbert auspicava la colonizzazione come mezzo per alleviare la pressione demografica. Altri la dipingevano come mezzo per liberarsi degli elementi “sgradevoli”.

La composizione dei coloni fu quindi molto eterogenea. Oltre allo stuolo di puritani di cui parlano i libri di storia (concentrati soprattutto nel New England), cospicua era la parte formata da delinquenti, detenuti e ogni tipo di perseguiti dalla legge, cui era offerta la possibilità di sottrarsi alla giustizia emigrando in America, ed a cui fu imposto che le spese del trasbordo atlantico fossero ripagate dal loro lavoro nelle nuove terre. Questa possibilità di avere manodopera pressoché gratuita attirò le attenzioni di molte famiglie ricche inglesi che si trasferirono in America coll’intento di acquisire terreni e di godere di questa manodopera.

Infatti, ben presto era apparso evidente a tutti che le ricchezze che gli spagnoli avevano trovato in Messico e in Perù non esistevano nella zona sulla quale gli inglesi accampavano diritti. Il Capitano John Smith aveva scritto: «Qua tutto quello che si può ottenere può provenire solo dal lavoro». Quindi i profitti cui aspiravano gli investitori inglesi sarebbero venuti dal taglio dei boschi, dalla messa a coltura del suolo, più che dallo sfruttamento delle miniere. L’America poteva rendere, scriveva la Virginia Company nel 1616 ai suoi investitori, nella misura in cui più manodopera fosse resa disponibile.

Ma dove andare a prendere questa manodopera? Gli indiani potevano essere catturati ed costretti a lavorare come schiavi, ma fuggivano con facilità, ed in tal caso avevano la sgradevole abitudine di tornare con tutta la tribù per prendersi come liquidazione lo scalpo del padrone. Quindi il governo di New Amsterdam (la città fondata dagli olandesi che sarebbe divenuta New York dopo il passaggio alla Corona inglese) ordinò che ai nativi si pagasse un salario; cosa poco gradita a chi voleva realizzare alti profitti in tempi brevi.

Iniziò quindi una campagna di propaganda tra i lavoratori d’Europa (di galeotti non ce n’erano abbastanza), prevalentemente nelle Isole Britanniche, ma anche in Germania, dove esercitò il suo apostolato William Penn, il magnate che avrebbe fondato la Pennsylvania. In effetti, lo spazio per invogliare a partire c’era: in Inghilterra nel ’600 la massa dei lavoratori viveva in una profonda miseria, in condizioni disperate da un punto di vista tanto sanitario quanto della fame, che non li abbandonava mai. L’operaio era soggetto a leggi che, se non nella forma, nella sostanza lo equiparavano allo schiavo: vi erano salari massimi, ma non minimi, l’operaio non poteva abbandonare il padrone a suo piacere, e vi erano pene tremende per il “vagabondaggio”, vale a dire per i contadini espulsi dalle campagne che non si erano affrettati a riempire gli slums delle città; e, naturalmente, non si poteva “cospirare” con altri lavoratori per difendersi dalla rapacità dei padroni. Negli altri paesi europei il capitalismo era meno sviluppato, ma il continuo passaggio di guerre grandi e piccole rendeva la vita altrettanto difficile in ampie zone del continente.

Quindi interesse ce n’era, eccome. Ma il problema era che il viaggio era caro, da 6 a 10 sterline, una cifra enorme per un proletario. Si sviluppò così l’istituto del servaggio a contratto detto indentured labor. Con esso l’individuo che s’imbarcava per il Nuovo Mondo si vincolava a servire un padrone per un certo numero d’anni, da due a sette (più spesso), senza ricevere paga e con il divieto di abbandonare il posto di lavoro; aveva diritto al vitto, all’alloggio e ad un’indennità di fine servizio che sarebbe dovuta bastare ad avviare una vita indipendente al termine del contratto, magari acquistando a sua volta contratti d’indentured labor. Questa era la prospettiva; la realtà non era così rosea: una ricerca dimostra che solo il 20% riusciva a stabilirsi su un pezzo di terra, o a divenire artigiano. Nessuno faceva fortuna, ché la ricchezza confluiva nelle mani dei grandi proprietari terrieri, dei grandi mercanti, i quali nel periodo coloniale divennero sempre più ricchi. L’80% di meno fortunati poteva soccombere (tantissimi), tornare in Inghilterra, andare a finire nella massa dei poor whites che vivevano alla giornata, dormendo dove potevano, senza proprietà (quindi senza diritto al voto), senza prospettive.

I contratti, stipulati all’atto dell’imbarco, rimanevano nelle mani dei capitani delle navi che, una volta giunti in America, li rivendevano recuperando il costo del trasporto e ricavando un ampio guadagno. Intorno a quest’affare sorsero immediatamente delle compagnie con sede nei due più grandi insediamenti della costa orientale: la compagnia del Massachusetts nel New England, gestita da puritani che la resero ben presto indipendente da Londra, e la compagnia della Virginia, che invece continuò a dipendere direttamente dalla madrepatria. I puritani del Massachusetts, ansiosi di preservare la purezza morale e religiosa delle loro comunità, erano sospettosi di questo flusso di persone di non sempre esemplare moralità; d’altronde erano gli uomini liberi, che potevano pagarsi il passaggio dai porti inglesi alle coste americane, che andavano di preferenza nel New England. L’indentured labor fu invece la fonte principale di manodopera per il Centro (New York, New Jersey e Pennsylvania) e soprattutto per il Sud (inizialmente le colonie della Virginia e del Maryland, poi le Caroline), almeno per tutto il secolo XVII.

Un altro aspetto del viaggio del quale gli emigranti erano in genere ignari era il viaggio stesso: molti morivano prima dell’arrivo, né più né meno che gli schiavi che percorrevano su identiche navi un’altra, più lunga rotta. Condizioni terribili di viaggio, sporcizia, eccessiva promiscuità, malattie, cibi avariati e in ogni caso scarsi, acqua infetta. Per non morire di fame si catturavano e commerciavano sulla nave topi e ratti, narrano i sopravvissuti. Si verificarono fenomeni di cannibalismo in viaggi che risultarono troppo lunghi. Spesso poi i sopravvissuti erano costretti ad accettare di suddividere tra loro il costo del viaggio dei deceduti, da pagare al capitano della nave sotto forma d’anni aggiuntivi di servaggio.

L’emigrazione verso il Nuovo Mondo garantiva un costante flusso d’inglesi poveri, oltre a minoranze di tedeschi, irlandesi e altre nazionalità. Nel 1770 un quarto di milione di servi a contratto era giunto in America, e di questi almeno centomila per forza (galeotti o rapiti nei porti, questi ultimi spesso bambini, che venivano catturati nelle città inglesi né più né meno come gli schiavi in Africa, che andavano a morire come mosche), oltre a mezzo milione di negri. Questo significa che all’epoca della Guerra d’Indipendenza su 2,5 milioni d’abitanti, gran parte dei quali agricoltori, il lavoro operaio era nella stragrande maggioranza non libero. Nel Sud gli schiavi sostituirono presto i servi bianchi: non se ne andavano alla fine del contratto (né avrebbero saputo dove andare) e mantenerli costava la metà.

Inizialmente le cose non erano proprio così: anche se portati in America a forza, i negri sembra fossero anch’essi servi a contratto, liberati quando questo aveva termine. Di qui il numero non insignificante di negri liberi nel Sud anche prima della Guerra Civile. Solo verso il 1660 cominciarono ad essere redatti e promulgati gli Slave Codes nelle varie Colonie, leggi che trasformarono i servi in schiavi: i bambini che nascevano divenivano proprietà del padrone della madre, e per i due secoli successivi gli schiavi furono privati dei loro diritti d’uomini liberi (di riunione e di voto, di testimonianza, libertà di movimento, diritto di portare armi, ecc.).

Intendiamoci, i servi bianchi non stavano meglio; c’è anzi chi sostiene che stessero peggio. Infatti, un padrone che aveva interesse a conservare in salute il negro, che costituiva un capitale e che sarebbe rimasto tale per tutta la vita, poteva disinteressarsi della salute del servo, che prima o poi se ne sarebbe andato; e se al licenziamento era sciancato, orbo o malato, il padrone non n’era comunque ritenuto responsabile. Per inciso, questa era una sorte che poteva capitare anche agli apprendisti che incappavano in un padrone-maestro spietato e avido, che poteva esporli a pericoli, dure punizioni, denutrizione senza in cambio magari insegnar loro niente. I servi non potevano sposarsi senza il permesso del padrone; il matrimonio era punito come adulterio, ed eventuali figli erano considerati bastardi.

A partire dal secolo XVIII l’Inghilterra, in formidabile ascesa economica, restrinse l’emigrazione notevolmente, per garantire la manodopera necessaria alla nascente industria manifatturiera, cosicché per tutto il Settecento a fianco degli elementi anglosassoni cominciarono ad approdare sulle coste atlantiche immigrati provenienti da Scozia, Irlanda, Germania, Svizzera, tra cui un gran numero d’abili artigiani. Per tutti costoro fu utilizzato un contratto di servitù detto “a riscatto” (redemption) caratterizzato da una durata del periodo di servizio variabile a seconda del diverso grado di qualificazione, della mansione svolta dal servo e dipendente dal conseguente tempo occorrente ad accantonare la cifra necessaria per riscattarsi dalla servitù. Queste variazioni diversificarono le figure dei servi e complessivamente prolungavano la durata del contratto (anche perché molti di questi emigranti si spostavano con l’intera famiglia) ma non inficiavano la possibilità, che tanto attraeva questi lavoratori, di avere un giorno un terreno o un’attività in proprio.

Senza il sistema di servaggio a contratto, per quanto arbitrario e duro che fosse, le Colonie del Centro e del Sud ben difficilmente sarebbero riuscite a consolidarsi.

Poiché i servi erano alla mercè dei padroni, che potevano essere molto crudeli, le fughe erano frequenti, spesso di bianchi e di negri insieme, che non di rado andavano a vivere con le tribù indiane più vicine. Le cronache narrano anche di rivolte organizzate di servi bianchi, come quelle del 1661-62 in Virginia, e la famosa Ribellione di Bacon, sempre in Virginia, negli anni ’70 del secolo, quando si rivoltarono servi bianchi, schiavi e schiavi emancipati, oltre a piccoli agricoltori. Sono almeno 40 le rivolte documentate per il solo periodo coloniale. Tra queste quella di Charleston del 1730, che fu particolarmente estesa, e quella di nove anni più tardi sempre nei pressi di Charleston (la cosiddetta Stono Rebellion), entrambe di schiavi: nel corso di quest’ultima oltre 200 schiavi bruciarono case e raccolti e uccisero diversi padroni schiavisti, tranne uno che si era comportato umanamente con loro. Erano riusciti ad impossessarsi di un certo numero di armi, ma prima di concludere la loro marcia verso la libertà che cercavano in Florida furono sopraffatti e massacrati dalla milizia bianca. Il ricordo di questa ribellione restò a lungo nella memoria e nelle paure degli schiavisti del Sud.

Nonostante le leggi contrarie, numerose sono anche le notizie di scioperi di questi lavoratori per ottenere condizioni di vita e di lavoro accettabili. La fuga dei semischiavi bianchi era comune; la punizione, oltre a fustigazione e altre pene fisiche, era l’estensione del servaggio. Nel caso delle rivolte, che vi furono anche al Nord, in particolare a New York nel 1741 (di lavoratori bianchi e negri), le repressioni furono spietate. Ma le repressioni brutali e le punizioni esemplari non misero fine al pericolo delle insurrezioni, che scaturivano dalle reali condizioni di questi primi proletari forzati, e qualche concessione fu elargita, riguardo al vitto, all’abbigliamento, ecc. Nel Nord in ogni caso, dove la schiavitù non era mai stata conveniente per i borghesi, la paura delle rivolte di schiavi si diffuse in tutti i ceti e da più parti si cominciò a proporre di sostituire gli schiavi con lavoratori liberi.

In Virginia invece, dove il lavoro coatto andava benone, si cominciò a vedere con preoccupazione il costante fraternizzare di questi lavoratori al di là del colore della pelle, e si pensò bene di correre ai ripari. È del 1705 una legge che migliorava notevolmente la condizione del servo bianco, soprattutto in direzione della dotazione che il padrone doveva dargli al termine del contratto (provviste, denaro e un fucile); dotazione che era di molto calata dal 1681: infatti fino a quella data erano previsti anche 50 acri di terra (20 ettari). E fa data da quest’epoca la nascita di un fenomeno che sarebbe stato attentamente coltivato dalla classe dominante nel secolo successivo, il razzismo; un sentimento che fu fatto crescere proprio negli strati più bassi del proletariato bianco, corrompendolo con miserabili privilegi che lo potessero far sentire in qualche modo superiore al compagno dalla pelle pigmentata, e farlo temere il precipitare in una condizione in qualche modo peggiore della sua.

I servi avevano qualche diritto in più rispetto agli schiavi negri: avevano personalità giuridica e potevano far causa, oltre ad essere ammessi come testimoni. Quindi le prospettive di un inserimento a pieno titolo nella società erano reali. Fu per questo che questo tipo di lavoratori continuava ad affluire nelle Colonie, rappresentando la metà degli emigranti prima dell’Indipendenza. Gli schiavi negri erano utilizzati come operai anche in officine e cantieri, di solito noleggiati per un numero di mesi o anni dai rispettivi padroni al capitalista industriale. Ma la richiesta di lavoratori liberi continuò a crescere, soprattutto al Nord. Infatti, se il lavoro servile era conveniente nelle piantagioni, dove c’era da fare per tutto l’anno, non era così nelle attività industriali, nelle quali il lavoro soffriva di forti oscillazioni stagionali. Servo e schiavo dovevano essere vestiti, nutriti e alloggiati anche nella stagione morta, mentre l’operaio libero bastava licenziarlo per avere risolto il problema. E, come abbiamo visto, i primi potevano fuggire, e in tal caso era tutto il capitale che prendeva il volo: la convenienza dell’operaio libero era evidente, come nel 1776 ammise lo stesso Adam Smith ne La ricchezza delle nazioni.

Il Settecento. Nascita del proletariato urbano

Mentre le Colonie del Nord andavano formando un’economia basata sulla piccola produzione commerciale, essenzialmente agricola e artigianale, con qualche eccezione nel campo cantieristico e dell’edilizia, quelle del Sud sviluppavano il sistema delle grandi piantagioni che necessitava di una massa numerosa e sempre crescente di lavoranti. Per soddisfare le richieste di manodopera, non bastando il flusso proveniente dall’Europa e fu necessario aumentare il numero degli immigrati. Accanto all’elemento bianco qui andò affiancandosi, a partire già dalla seconda metà del Seicento, il servo negro. Gli aborigeni infatti non risultarono adatti alla schiavitù per diverse ragioni, com’era emerso anche nelle colonie dall’America Latina. Ciò non impedì di rendere schiavi anche gli indiani: ancora nel 1730 il 25% degli schiavi erano indiani.

I servi negri erano importati dall’Africa coercitivamente dalla Royal African Company (i primi in assoluto – 20 – furono sbarcati e venduti nel 1619 da una nave da guerra olandese), e l’esigenza vitale del Sud di assicurarsi grande massa di manodopera spinse ad elaborare i citati Slave Codes, che differenziassero la figura del servo negro da quella del servo bianco per aumentarne progressivamente i vincoli fino a rendere pressoché illimitato il periodo di servizio dei negri. Il negro, dopotutto, era sempre un immigrato involontario, e non era necessario trattarlo bene per incoraggiare altri a seguirne l’esempio; la sua servitù era permanente, e non limitata a pochi anni; di solito non era cristiano; era conveniente non trattarlo come un cittadino, con i relativi diritti; infine, il colore della pelle lo distingueva e rendeva molto facile porre in essere gli Slave Codes. Nacque così la schiavitù nella versione nordamericana.

La maggiore concentrazione di schiavi negri si localizzò nelle piantagioni di tabacco della Virginia, del Nord Carolina e del Maryland e in quelle di riso e indaco di Sud Carolina e Georgia. Le condizioni di lavoro erano ovviamente dure per gli schiavi negri, ma non erano gran ché nemmeno per i bianchi, che erano soggetti a gravi restrizioni anche quando del tutto “liberi”. Il lavoro era regolato da vecchie leggi inglesi, che limitavano le possibilità di movimento dei lavoratori, i quali non avevano nessun potere sui contratti, e nemmeno quello di non lavorare. Era previsto quindi il lavoro obbligatorio, prezzi e salari erano fissati da leggi locali, e qualsiasi tentativo di aggirarli era proibito a lavoratori e padroni. L’apprendistato era fissato a sette anni, e spesso era addirittura proibito cambiare mestiere.

Ma i regolamenti non possono solo rallentare, non fermare lo sviluppo economico.

Nelle comunità, in gran parte autosufficienti, del New England la qualità dei prodotti del lavoro artigianale peggiorava: infatti era facile per i maltrattati operai lasciare il mestiere e divenire agricoltori indipendenti, vista l’abbondanza di terra. Crebbe quindi l’artigianato di villaggio, con il piccolo contadino che s’ingegnava a fare un po’ di tutto nei lunghi inverni noiosi del paesello puritano.

Una certa ripresa dell’artigianato si ebbe solo a partire dal secolo XVIII, grazie alla crescita dei villaggi in città, nelle quali una certa specializzazione del lavoro era giustificata, favorita anche dall’alto livello di scolarizzazione. Mentre il prodotto europeo era sempre il più richiesto, gli artigiani tornarono ad essere richiesti soprattutto nelle città del Nord e del Centro; il Sud invece restava molto più rurale e autarchico.

Riprese quindi l’immigrazione, parte della quale era composta d’artigiani che, a differenza dei servi a contratto, si pagavano il viaggio e spesso si portavano dietro un piccolo gruzzolo da investire per iniziare l’attività in un ambiente che si presentava più promettente che nella madrepatria. Naturalmente le prime forme d’organizzazione di questi lavoratori artigiani furono identiche a quelle lasciate in Europa, cioè le gilde. Già nel 1648 i bottai e i calzolai di Boston si erano organizzati così, con lo scopo dichiarato di stabilire regole professionali rigide, e quindi di mantenere un monopolio del mestiere in poche mani. Le gilde stabilivano compensi e regole dell’apprendistato, ma si svilupparono solo nelle grandi città del Centro Nord, e anche lì si mantennero con qualche difficoltà data la fluidità sociale del Nuovo Mondo. I fornai si accordarono per rifiutare di fare il pane se i prezzi ufficiali scendevano troppo, dato il costo della farina; di questi, del 1741, è ritenuto il primo sciopero della storia americana. Non era tanto una lotta di operai contro padroni, quanto una reazione di artigiani e bottegai contro la regolamentazione dei prezzi da parte dell’autorità.

In realtà, le poche volte in cui in quegli anni operai veri e propri si mossero, separati da padroni e mastri artigiani, fu quasi sempre causato dal desiderio di eliminare la concorrenza del lavoro dei negri, schiavi o liberi che fossero. Il risultato che ebbero, o che credettero determinare, fu l’abolizione della schiavitù nel Centro-Nord. Al Sud invece, dove la popolazione africana era molto numerosa, riuscirono solo ad escludere i negri dai mestieri di maggiore specializzazione.

Un’altra lotta che lasciò il segno nelle cronache dell’America coloniale fu quella degli spazzacamini, negri, di Charleston, del 1761. Le cronache del tempo riportano, stizzite, che «hanno avuto il coraggio, mettendosi d’accordo tra loro, di far salire le normali tariffe, e di negare il lavoro se le loro richieste esorbitanti non venivano soddisfatte». Questo naturalmente gli schiavi delle piantagioni non lo potevano fare; per loro, come per i servi a contratto, l’unica forma efficace di protesta era la ribellione collettiva, o la fuga individuale. Scelta questa che è ben documentata dai giornali dell’epoca. Le ribellioni degli schiavi, invece, furono rare prima del secolo XVIII; divennero più frequenti in seguito, con l’aumentare del numero degli schiavi, con l’acquisizione da parte loro di maggiore confidenza con l’ambiente e di maggiore comunicazione al loro interno.

Dopo gli eventi sopra descritti, relativi al primo secolo della schiavitù, vi fu un’esplosione di rivolte con l’approssimarsi della crisi che portò alla ribellione delle colonie e all’indipendenza. Ciò ebbe luogo dopo il 1765, sulla scia di una rivolta molto agguerrita e a stento repressa nel 1760 in Giamaica, e di un numero di altre rivolte a questa seguite come un incendio nei decenni successivi in tutti i Caraibi.

Gli schiavi delle Colonie nordamericane approfittarono quindi delle nuove opportunità offerte dalle spaccature che si aprivano tra la classe dominante imperiale e quella coloniale e rivolte esplosero allora un po’ ovunque, in Virginia (1767), New Jersey (1772), Sud Carolina e Massachusetts (1774), New York, Maryland, Virginia, Sud Carolina, Nord Carolina (1775), Sud Carolina (1776).

La classe operaia prima dell’Indipendenza

Non è facile riassumere le caratteristiche del proletariato in America nel periodo che precede l’indipendenza. Certamente vi erano differenze enormi di condizioni di vita se confrontiamo lo schiavo negro delle piantagioni con l’operaio specializzato delle città del Nord. Si tratta di una differenza che si sarebbe perpetuata a lungo, tanto da divenire una caratteristica della società americana. Ma anche tra i lavoratori liberi esisteva un’eterogeneità legata alle origini geografiche, alla classe di provenienza, alla razza, alla religione, delle varie componenti del proletariato, e al difforme sviluppo economico delle diverse parti del Paese, che, insieme alle distanze notevoli tra le città e alle difficoltà di comunicazione, rendeva difficile l’emergere di una coscienza di classe. Questo anche nelle città nelle quali nel Settecento cominciavano a concentrarsi i vari tipi di lavoratori.

Una seconda caratteristica importante della società americana era la contiguità con il mondo agricolo, non un mondo ove la terra era oggetto d’accaparramento come nella contemporanea Europa, ma piuttosto una situazione di terra disponibile con facilità per chi se la volesse prendere.

Un terzo aspetto, collegato ai precedenti, che rendeva peculiare l’ambiente nordamericano rispetto agli europei, era il livello relativamente alto dei salari corrisposti ai lavoratori liberi. Nonostante i ripetuti tentativi di regolamentare i salari, questi erano superiori a quelli dell’Inghilterra in misura variabile tra il 30 e il 200%. Questo sin dagli inizi, se nel 1639 si lamentava che, se i salari non fossero cambiati “i servi saranno padroni, e i padroni servi”. Ma oltre agli aspetti monetari, i viaggiatori europei notavano, qualche volta con disgusto, l’estrema familiarità dei dipendenti con i padroni; anche questa una peculiarità americana che sarebbe durata fino alla nascita della grande industria, e che in qualche modo è rimasta negli usi yankee fino ad oggi.

Ma la vita del salariato nell’America coloniale non era tutta rose e fiori. I raffronti di cui sopra, oltre ad essere fatti con le condizioni terribili dei salariati europei dell’epoca, valevano quando il lavoro c’era. Nei periodi di disoccupazione l’operaio spesso non riusciva a risparmiare ai figli la fame, e a sé stesso la galera. I salari reali erano frequentemente ridotti dalla troppo alta inflazione. Se i prezzi scendevano i tribunali intimavano agli operai di accettare proporzionali riduzioni di salario; se salivano gli stessi tribunali stabilivano salari massimi: chiedere od ottenere di più poteva essere punito con multe salate. Questa possibilità era abbastanza comune nei periodi di ripresa economica, o nei centri poco popolosi. Se erano i padroni ad offrire di più per accaparrarsi manodopera, il tribunale puniva solo l’operaio. Le associazioni padronali, con un’ipocrisia che avrebbe sempre contraddistinto la borghesia americana, sostenevano che queste misure servivano a “salvare il lavoratore americano da sé stesso”, intendendo che con soldi in tasca e tempo libero l’operaio si sarebbe dedicato ad attività rovinose per la sua morale e la sua salute.

Scioperi e sindacati erano severamente proibiti, secondo leggi che risalivano all’Inghilterra del Trecento. Vedremo come si dovrà arrivare agli anni ’20 del Settecento perché siano rimossi gli ostacoli di legge alla lotta economica degli operai, anche se la borghesia potrà sempre contare sull’appoggio di magistratura, polizia, guardia nazionale, esercito, polizie private nel contrastare le lotte operaie, in misura anche superiore a quanto è normale nelle democrazie occidentali. Questa proibizione è stata definita da uno storico inglese come una cospirazione di borghesi e poteri pubblici per inchiodare il proletario alla sua condizione e mantenerlo in una povertà senza rimedio. Lo stesso Adam Smith affermò che «tutte le volte che il governo tenta di accomodare i contrasti tra padroni e operai, i suoi consiglieri sono sempre i padroni». Aggiungeva: «Non vi sono leggi per impedire accordi per abbassare il prezzo del lavoro, ma ve n’è gran numero per impedire che ci si metta d’accordo per innalzarlo».

Delle lotte effettive tra proletari liberi e padroni si sa molto poco, sia perché erano effettivamente scarse, sia perché le cronache dell’epoca sono reticenti. Nel 1636 un armatore del Maine fa sapere che i suoi operai e marinai “si sono ammutinati” perché non ha pagato il salario: la lotta è consistita nell’abbandono in massa del posto di lavoro. È di 5 anni dopo la notizia di uno “sciopero bianco” di carpentieri, sempre in Maine, che protestano per il cibo considerato insufficiente. Sempre di quegli anni è la prima serrata della storia americana, quando un armatore di Gloucester intima ai suoi operai troppo combattivi di smettere di lavorare e andarsene.

Il primo settore di sviluppo industriale, e quindi di una classe operaia di una certa concentrazione, fu quello della cantieristica navale, nel quale la nascente borghesia nordamericana iniziò a misurarsi con inglesi e olandesi. Tutti i mestieri vi erano richiesti, anche se i carpentieri erano la categoria predominante. Per gli altri mestieri e settori produttivi il lavoro salariato tardò a svilupparsi. La manifattura di qualsiasi prodotto di consumo era appannaggio di singoli artigiani, che lavoravano in casa e talvolta andavano a vendere i manufatti nelle campagne vicine, spesso in cambio di prodotti agricoli che consumavano o vendevano in città. Non che ci fosse molto mercato: ogni fattoria aveva un alto grado di autosufficienza con il contadino che era anche falegname, filatore, tessitore, candelaio, calzolaio, fabbro, ecc. I mestieri che erano più richiesti, al di fuori della cantieristica, erano quelli relativi ai mulini, alle fonderie, alla fabbricazione di botti, di selle, di carri e di oggetti metallici e in vetro.

Con il crescere della domanda l’artigiano si trovò nella condizione di aumentare la sua produzione, cosa possibile solo associando altra manodopera alla sua attività. Per 10-20 sterline poteva comprarsi un servo a contratto, da far lavorare per 7 anni in cambio di vitto e alloggio e di qualche capo d’abbigliamento. Anche se una possibile alternativa era l’acquisto o l’affitto di un negro, abbiamo visto che in realtà al servo a contratto, soprattutto nel Centro-Nord, succedette il libero lavoratore.

Data la composizione del lavoro, le agitazioni sindacali nel Settecento sono più che altro serrate di artigiani che pretendono retribuzioni adeguate per il loro lavoro indipendente: tali erano gli incaricati delle pulizie stradali di New York del 1684, i calafati di Boston del 1741, i bottai di New York del 1770. Questi ultimi furono processati e condannati a pesanti multe e quelli che lavoravano per il comune licenziati. Gli storici fanno in genere riferimento allo sciopero dei tipografi di Philadelphia del 1784 come primo autentico sciopero di salariati in Nord America, ma sembra si riferisce anche di una lotta del periodo coloniale, quella dei sarti di New York del 1768.

Di sindacati permanenti ancora non si parla, gli operai specializzati s’incontrano ancora in società condivise con i maestri artigiani e i piccoli padroni, società di mutuo soccorso che si occupano solo di rado e marginalmente di salari e orari di lavoro; e se lo fanno, è solo per perorare una migliore legislazione, spesso con intenti corporativi.

Ma d’operai ce n’è un gran bisogno, e un altro segno di ciò sono le inserzioni sui giornali per la ricerca d’operai specializzati. Le prime sono del 1715, mentre si dovrà attendere il 1770 perché sia fondato a New York il primo ufficio di collocamento.

Così nasce la classe operaia americana, alimentata dal decadere dell’indentured labor e dall’arrivo di lavoratori liberi dall’Europa. Fin dall’inizio questi lavoratori appartengono a due gruppi ben distinti: gli operai specializzati, provvisti di un mestiere imparato in una bottega artigiana e degli attrezzi specifici, e i manovali, i non specializzati, quelli che non possedevano le conoscenze e l’abilità relative a un dato mestiere, e che quindi potevano vendere solo la forze delle loro braccia.
 

(Continua al prossimo numero)

 
 
 
 
 
 
 


L’Antimilitarismo nel movimento operaio in Italia

Capitolo esposto alla riunione di Torino, maggio 2005.

(Continua dal numero scorso)

Il neutralismo rivoluzionario di fronte ai preparativi di guerra

Specialmente da quando colui che era stato riconosciuto come massimo rappresentante del socialismo rivoluzionario italiano, Benito Mussolini, era divenuto il fautore più arrabbiato ed esaltato della guerra, la posizione antimilitarista dei socialisti veniva presentata, e specialmente dai transfughi, come frutto di un quietismo pavido e meschino, proprio della concezione e della tattica riformista. La richiesta della neutralità era assimilata ad impotenza, e desiderio di sfuggire ai pericoli ed alle responsabilità dell’ora. Anziché confutare le posizioni del partito socialista, la maggior parte dei denigratori dell’atteggiamento di classe si limitava a definire gli antimilitaristi come inetti e vigliacchi, o, come si diceva allora, dei panciafichisti.

Era vero esattamente il contrario, poiché la tenace posizione e la campagna a favore della neutralità dello Stato borghese erano intimamente collegate alla natura rivoluzionaria della tradizione socialista.
«Noi pacifisti? Tolstoiani? O pessima mania delle definizioni sommarie! Il socialismo è la condanna della pace borghese, ed è la teorizzazione della violenza con la quale gli sfruttati dovranno spezzare l’ordine presente. Noi sappiamo che la “pace” fa le sue vittime come la guerra, ed ha le sue stragi come le battaglie... E non è con la predicazione della supina rassegnazione cristiana che ci proponiamo di superarla, tutt’altro! Ci si dipinge, perché avversi alla guerra e fautori della neutralità italiana, come gente quietista che si copre di un mucchio di materassi per non udire il fragore delle cannonate. Ci si accusa di voler restare inerti durante questo grande e decisivo dramma della storia. Ma noi vogliamo invece lottare, operare, galvanizzare la nostra attività sul terreno di partito e di classe, contro lo Stato, contro la borghesia, per legare loro le mani che stanno per brandire la spada. Trasportare la nostra azione su diverso terreno vorrebbe dire dare atto della morte del socialismo, mentre vi è ancora tanto da lottare per esso» (Avanti!, 5 novembre 1914).

Il socialismo, nel dichiararsi neutralista, non faceva rinuncia ad alcuna delle sue funzioni specifiche, ed in ogni occasione aveva chiarito cosa doveva essere inteso per neutralità: imporre allo Stato borghese, sotto la pressione delle masse proletarie, la non partecipazione alla guerra. Neutralità significava accentuato antagonismo, intensificata lotta di classe, contro lo Stato borghese. Da parte dei socialisti avrebbe dovuto esserci la ferma convinzione che qualunque guerra rappresenta il trionfo della politica borghese, rappresenta la vittoria della oppressione e dello sfruttamento capitalistico contro il proletariato, rappresenta un attentato al socialismo ed alle formazioni rivoluzionarie.

I paludamenti “rivoluzionari” con i quali gli interventisti cercavano di mascherare la loro natura reazionaria erano semplicemente di facciata. Al grado di sviluppo raggiunto dalla struttura sociale ed economica del capitalismo, all’epoca della sua fase imperialistica, sarebbe stato assolutamente impossibile scorgere una qualsiasi coincidenza tra la guerra, fatta e condotta dallo Stato borghese, ed una qualunque azione rivoluzionaria. Credevano veramente che fosse possibile affidare alle monarchie (o alle repubbliche) borghesi, con i loro Stati Maggiori, il compito di portare a compimento le finalità rivoluzionarie? È vero che la guerra arma i proletari, ma ciò non toglie che è con le armi maneggiate dai proletari che la borghesia difende i suoi privilegi contro il pericolo della rivoluzione.

C’era inoltre da tener presente un’altra cosa, e cioè che, accanto agli sparuti (anche se chiassosi) gruppi provenienti dalle file rivoluzionarie, la maggior parte delle correnti politiche che spingevano a favore dell’intervento erano costituite da riformisti e democratici, facenti capo a partiti con carattere nettamente antirivoluzionario. Erano quei partiti che da sempre avevano deprecato lo sviluppo della lotta di classe, che avevano avversato l’intransigenza socialista, che si erano impegnati per il mantenimento della pace sociale, che avevano rinnegato la necessità dell’impiego della violenza nelle competizioni sociali. Quegli stessi partiti, di fronte all’evento guerra, si erano dichiarati fautori della più aspra e più estesa violenza, non perché si fossero convertiti improvvisamente alla necessità della rivoluzione (e i tal caso i rivoluzionari più autentici sarebbero stati i nazionalisti), ma perché guerra non significa negazione delle vigenti istituzioni borghesi. La guerra come finalità non ha la demolizione dell’attuale ordine sociale, ma la sua estrema conservazione. La guerra mette la violenza sotto la sanzione ufficiale degli organismi militari e delle autorità costituite e l’azione del proletario militarizzato, anche avendo l’epilogo nello spargimento di sangue, non rappresenta la ribellione dell’uomo che insorge contro l’oppressione, ma rappresenta una situazione di massima sottomissione.

La guerra rappresenta la conservazione, non la rivoluzione! «Assodato ciò, se si vuole che l’Italia intervenga è illusione pensare che la guerra possa farsi dandole l’indirizzo che piacerà ai... “Fasci d’azione rivoluzionaria”. Forzato il governo all’intervento, tutti i rivoluzionari di nuovo stampo che ora gridano “guerra” dovranno tacere, ubbidire e dar carta bianca alle istituzioni vigenti. Se no, procureranno la bancarotta politica e storica del loro intervento, e un macello inutile, anche dal loro punto di vista» (Il Socialista, 3 dicembre 1914).

I “Fasci d’azione rivoluzionaria” non raggiunsero lo scopo (né potevano raggiungerlo né avevano intenzione di raggiungerlo) di sollevare l’entusiasmo eroico nelle masse, ma servirono a facilitare l’azione del militarismo borghese, quando questi credette opportuno, soffocando le proteste delle masse proletarie sotto il suo pugno di ferro, di trascinarle nella carneficina imperialista.

Certamente esiste sempre la possibilità che la guerra sfoci in rivoluzione, ma alla condizione che il partito non abbia mai rinunciato alla sua funzione di classe, e questo era ben presente nell’analisi dei compagni della sinistra rivoluzionaria: «Se dopo la guerra si passerà da parte delle masse ad una azione rivoluzionaria, questa sarà dovuta al capovolgimento delle tendenze popolari – analogo a quello causato dalla guerra libica – e sarà diretto contro tutti i guerrafondai di oggi. Quindi le minoranze rivoluzionarie oggi sono a posto quando politicamente avversano la guerra: il resto è ripiegamento verso la borghesia, travisamento compassionevole del programma rivoluzionario».

Era un fatto che altre correnti borghesi si fossero dichiarate a favore della neutralità, e che la stessa Chiesa cattolica se ne fosse fatta portabandiera. Ciò non portava sgomento all’interno della compagine rivoluzionaria e non per questo il partito socialista avrebbe dovuto mutare il suo atteggiamento. Anzi, la scommessa dei socialisti era che tutte le tendenze borghesi e clericali avrebbero disarmato dinanzi alla proclamazione di una qualsiasi guerra, mentre la posizione antimilitarista di classe, sarebbe restata la sola nel suo immutato significato di opposizione alla politica borghese, di negazione rivoluzionaria delle istituzioni capitalistiche e delle perniciose e barbare loro conseguenze.

La riprova, infatti, non tardò ad arrivare. Il 3 dicembre, Salandra, presentando alla Camera il nuovo Gabinetto, applauditissimo, espose il programma governativo: «Mentre il Governo si accingeva a preparare utili riforme amministrative, tributarie e sociali, scoppiò senza alcuna nostra partecipazione od intesa, improvviso e rapidissimo il conflitto che invano, per la tutela della pace e della civiltà, ci adoperammo a scongiurare (...) Tuttavia la neutralità, liberamente proclamata e lealmente osservata, non basta a garantirci dalle conseguenze dell’immane sconvolgimento, che si fa più ampio ogni giorno e il cui termine non è dato ad alcuno di prevedere. Nelle terre e nei mari dell’antico continente, la cui configurazione politica si va forse trasformando, l’Italia ha vitali interessi da tutelare, giuste aspirazioni da affermare; una situazione di grande potenza da mantenere intatta non solo, ma che da possibili ingrandimenti di altri Stati non sia relativamente diminuita. Non dunque inerte e neghittosa, ma operosa e guardinga, non dunque impotente, ma poderosamente armata e pronta ad ogni evento doveva e dovrà essere la neutralità nostra. L’esperienza che ci viene dalla storia e più dai casi presenti, deve ammonirci, che, ove cessi l’opera del diritto, alla salute di un popolo rimane unica garanzia la forza, la forza umana organizzata e munita di tutti i perfezionamenti e costosi strumenti tecnici della difesa. L’Italia, che non ha propositi di sopraffazione, deve tuttavia organizzarsi e munirsi, quanto più le sia consentito e col massimo vigore possibile, per non rimanere essa stessa prima o poi sopraffatta. Così la pace interna dovrà essere a qualunque costo assicurata. Lungi del resto da noi ogni dubbiezza che possa turbare il popolo nostro; il quale sente che oggi la Patria, per la propria salute e grandezza, impone concordia di animi pronti ad ogni sacrificio. Ad altri tempi le competizioni politiche ed economiche ad altri tempi le gare fra i partiti, i gruppi, le classi. Oggi è necessario che si affermi solennemente, con le parole e con gli atti, la solidarietà di tutti gli Italiani. Il Governo, al quale ogni criterio e intendimento di partito parrebbe oggi un sacrilegio, fa appello alla patriottica cooperazione di tutto intero il Parlamento (...) L’ora che corre domanda un Governo forte e sicuro. Se forza e sicurezza avremo dal vostro voto potremo sostenere il grave peso delle nostre responsabilità; potremo proseguire nel lavoro intenso e continuo cui diamo tutte le energie dell’anima nostra, nella efficace difesa degli interessi presenti della Patria e nella vigile cura delle sorti avvenire dell’Italia nel mondo».

Il discorso programmatico di Salandra fu coronato da scroscianti applausi ed ottenne una votazione di fiducia che non lasciava adito a dubbi di sorta. Con 433 voti a favore e 49 contrari la Camera dei deputati approvò la seguente mozione presentata dall’ammiraglio Bettolo: «La Camera, riconoscendo che la neutralità dell’Italia fu proclamata con pieno diritto e ponderato giudizio, confida che il Governo, conscio delle sue gravi responsabilità, saprà spiegare, nei modi e con i mezzi più adatti, un’azione conforme ai supremi interessi nazionali». Il Senato, con voto unanime, approvò la fiducia al nuovo governo il 15 dicembre.

Il voto del Parlamento italiano mandava in delirio il rinnegato d’oltralpe, Gustave Hervé che scriveva: «À une majorité écrasante la Chambre italienne approuve les déclarations de M.Salandra», così l’ex rivoluzionario che in passato aveva definito la bandiera nazionale “lo straccio sul letamaio” si sarebbe apprestato ad innalzare al rango di eroe l’italico reuccio, così come già aveva fatto nei confronti di re Alberto del Belgio

Chi, dopo la fiducia data al governo Salandra, da parte del Parlamento democratico, avrebbe potuto ancora accusare la battaglia portata avanti dagli antimilitaristi, dal partito socialista e dal proletariato tutto come una campagna pacifista di solidarietà con le tendenze dei clericali, del governo e, addirittura, della monarchia?

«Lo prevedemmo – scriveva Il Socialista – Tutti i partiti costituzionali si sono stretti intorno al governo per dichiarare solennemente la loro concordia nell’ora che volge, mentre ci minaccia la guerra (...) Danno insomma carta bianca al governo di Salandra, mettendo il re e i suoi consiglieri nelle condizioni effettive di un regime assoluto – e tutto ciò oggi che alla dichiarazione di guerra non ci siamo ancora – e tutto ciò senza nessun affidamento del governo sull’effettivo indirizzo della sua politica estera – vuol dire che domani, dinanzi alla realizzazione della guerra, tutti i partiti borghesi si fonderanno nella concordia nazionale e borghese (come ben disse Treves) senza neppur discutere se si andrà in guerra con gli uni o con gli altri, contro i tedeschi o contro gli alleati (...) La conclusione è che noi socialisti saremo soli domani a tentare di fronteggiare la guerra, in qualunque senso venga fatta, mentre gli altri partiti, compresa la democrazia francofila, si bloccheranno intorno al governo senza discutere, sotto pretesto che, a guerra proclamata, turbare l’interna concordia del paese è tradimento verso la patria» (10 dicembre).

Cedimenti al difesismo nelle file socialiste

L’unico aspetto positivo della vicenda fu il contegno tenuto dai deputati del PSI, anche se, faceva notare Il Socialista, sarebbe stato meglio se Treves non avesse creduto di rinnovare la solita sofistica dichiarazione della adesione socialista alla guerra di “difesa”. Il riformista Treves, che aveva ricevuto il plauso della corrente rivoluzionaria del partito per la campagna da lui svolta contro la guerra, nell’occasione non riuscì ad evitare l’infelice dichiarazione che “quando la patria è aggredita la si difende”.

Guerra di difesa: si tratta di un concetto squisitamente borghese e l’estrema sinistra del partito aveva in più di una occasione dimostrato che, in fin dei conti, si trattava solo di un sofisma. Ciò non di meno questo concetto, che faceva larga breccia all’interno del movimento socialista, anticipava la resa nei confronti del nemico di classe. Ciò preoccupava non poco il gruppo intransigente. «Quelli – anche tra i nostri compagni – che oggi ci secondano entusiasti, ma fanno riserva della “guerra di difesa”, reggeranno tutti alla dura prova della realtà della guerra? (...) È molto diffusa, ma poco socialista l’avversità alla guerra di aggressione, con l’adesione a quella di difesa. Ora, se vogliamo restare nelle linee del socialismo rivoluzionario dobbiamo fondare la nostra azione e la nostra battaglia, anche quando ci appare l’opportunità di allargare le basi a maggior numero di proseliti, sulle direttive puramente ed esclusivamente socialiste» (Avanti!, 6 gennaio 1915).

Il partito socialista scontava la colpa di un originale peccato di prospettiva: allo scoppio della guerra, quando l’unica adesione possibile sembrava quella a fianco della Germania e dell’Austria, nella sua campagna antimilitarista si era a piene mani avvalso di argomenti condivisibili da larghe fasce della borghesia democratica e perfino conservatrice e, contando su adesioni non esclusivamente proletarie, aveva minacciato l’insurrezione. Non appena, però, si affacciò l’ipotesi dell’adesione all’altro schieramento militare, la democrazia da pacifista si trasformò in guerrafondaia ed il partito socialista, in un attimo, perse i presunti alleati e rimase politicamente solo. Quale enorme vantaggio per l’agitazione antimilitarista, la mobilitazione del proletariato e l’azione di rivoluzionaria sarebbe stato se fin dall’inizio il partito si fosse posto sul terreno squisitamente di rivoluzionario di classe, solo contro tutti! «Avremmo chiusa la porta da cui entrarono in quel primo momento innumeri alleati, ma dalla quale uscirono poi portando seco, più di loro resi accaniti contro di noi, non pochi dei nostri».

Per tutto ciò si rendeva indispensabile chiarire i motivi dell’antimilitarismo di classe che nulla poteva concedere: soprattutto, non dovevano essere usate parole d’ordine o argomentazioni prese a prestito dall’ideologia borghese e democratica anche se potevano sembrare più favorevoli od opportune ad acquistare proseliti, data la contingente situazione; queste, prima o poi, si sarebbero trasformate in altrettanti trabocchetti. La parola d’ordine dei socialisti non poteva che essere una sola: “contro tutte le guerre”. Che gli avversari vecchi e nuovi calunniassero pure il partito accusandolo di cieco dogmatismo, questa tattica intransigente avrebbe reso il proletariato immune da ogni tipo di travisamento e dalle falsificazioni con le quali la borghesia cercasse di assoggettare il proletariato per condurlo alla guerra impotente e rassegnato.

Una minoranza della sezione socialista di Milano (alcuni parlamentari, consiglieri provinciali, assessori comunali, etc.) si riunì l’8 gennaio e presentò il seguente ordine del giorno: «...riuniti per discute sull’atteggiamento del partito di fronte alla discussione internazionale ed alla eventualità di un conflitto, riaffermano la loro avversione alla guerra. Convinti però che il principio di nazionalità non debba essere rinnegato, che il suo trionfo possa invece coincidere con quello della libertà, segnare una tappa verso l’internazionalismo; convinti che sia opera socialista non opporsi a che l’Italia possa ottenere migliori condizioni di sviluppo, dichiarano di non poter accettare un principio di neutralità assoluta che assuma i caratteri dell’herveismo superato e rinnegato anche dai suoi massimi assertori».

Ogni affermazione di questo tipo rappresentava una bandiera del socialismo ammainata e, di conseguenza, un’altra posizione conquistata dal nemico. Quindi la risposta della sinistra non poteva che essere della massima durezza. «È infatti a furia di presupposti che si distrugge il socialismo. La spina dorsale del riformismo è questa teorica delle condizioni. Il socialismo sarà, ma prima occorre... (...) Tutto, ben s’intende, per preparare le condizioni necessarie allo sviluppo della lotta di classe, alla quale penseranno i pronipoti dei nostri nipoti. Ed in ultima analisi, il borghese più filisteo può dirsi socialista, se gli mandate buono qualche acconcio presupposto». A chi dava l’aria di essersene dimenticato si rammentava che «il socialismo è la massima delle moderne eresie. Esso non deve perciò temere di rovesciare dai suoi altari nessuna deità. L’affermazione sentimentale che non si può rinnegare il sentimento di nazionalità, non può e non deve quindi trattenerci dal portare la nostra critica anche sulle ideologie che si basano sul concetto di nazione» (Avanti!, 24 gennaio).

Dalle colonne de Il Socialista i rivoluzionari avevano già a sufficienza chiarito la posizione di classe: «Le vie son due: o si teme l’accusa di traditori della patria, e si dovrà essere solidali con la borghesia militarista nelle sue pazze avventure – o si nega ogni avvicinamento alle istituzioni borghesi, sulle quali deve ricadere tutta la colpa della barbarie guerresca, mentre noi aneliamo a travolgerle nella realizzazione del socialismo. Da una parte andranno i borghesi e i transfughi del socialismo, dall’altra resterà il Partito nostro in nome di tutto il suo programma. Sarà domani il proletariato con noi? Speriamolo; ma anche se ciò non fosse, attenderemo sicuri dall’avvenire le nostre vendette!» (10 dicembre 1914).

L’antimilitarismo di classe non essendo un atteggiamento fine a sé stesso, ma uno degli aspetti della incessante battaglia anticapitalista del socialismo rivoluzionario non doveva lasciarsi vincolare da scrupoli patriottici, non poteva desistere dalla propria azione dinanzi allo scoppio della guerra, ma doveva approfittarne per intensificare la sua ininterrotta lotta rivoluzionaria. Se i socialisti della maggior parte dei paesi in guerra avevano arrestato la loro azione di classe davanti alle porte spalancate del tempio di Giano, i socialisti italiani non avrebbero dovuto fare altrettanto. Proprio per il lungo periodo durante il quale esso rimase spettatore della carneficina mondiale e dell’atteggiamento in essa assunto dai fratelli d’oltr’Alpe, sul proletariato italiano sarebbe pesata una ben più grave responsabilità storica di quella dei partiti socialisti degli altri paesi, dove la raffica della guerra si abbatté all’improvviso.

Il Parlamento a larghissima maggioranza, aveva espresso la sua fiducia al governo Salandra che non faceva certo mistero che l’Italia avrebbe dovuto scendere in guerra, anche se ancora la scelta del campo sul quale schierarsi non era stato stabilito. Anzi, stando alla ripresa e dall’intensificarsi dei rapporti diplomatici con i rappresentanti degli Imperi Centrali, non era affatto esclusa la partecipazione alla guerra a fianco di essi.

Dall’inizio del luglio le sedute parlamentai erano state sospese. Ora si era tornati a pieno titolo all’attività democratica, e con quali risultati lo si è visto!

Anche in questo caso la corrente intransigente del partito aveva visto giusto:
– Non aveva pianto per la messa in vacanza del Parlamento: «L’on. Salandra si è rifiutato di dare affidamento per la riapertura del Parlamento. Non possiamo dolerci eccessivamente di ciò, e lasciamo che protestino gli ingenui fautori della costituzionalità e della democrazia (...) E poiché i socialisti degni di questo nome devono desiderare che le distinzioni e le antitesi di classe e di partito restino sempre precise, e tanto più nei gravi frangenti come questi, meglio è che il Parlamento resti chiuso e che si esprima per altre vie la volontà delle masse. Noi crediamo che questa, anche se la minoranza socialista facesse il suo dovere, uscirebbe falsata, anzi capovolta, dall’accademia di Montecitorio» (Il Socialista, 27 agosto 1914).
– Non si rallegrò per la sua riapertura: «Noi tempo fa scrivemmo che non era il caso per i socialisti di scaldarsi troppo per la prolungata chiusura della Camera, e questa nostra opinione era dedotta dallo spettacolo sconfortante dato dai parlamenti dei principali Stati belligeranti, i quali si erano limitati a ratificare senza discutere le conseguenze tragiche della politica condotta nel segreto della diplomazia dai rispettivi governi, che improvvisamente sboccava nell’incendio di una guerra, della quale ogni governo borghese con pari malafede reclinava la responsabilità» (Il socialista, 26 novembre 1914).

Con il proseguire del conflitto mondiale e mano a mano che le pressioni per l’intervento dell’Italia si facevano assillanti, di pari passo la posizione “neutralista” del partito socialista mostrava sempre più chiaramente le sue debolezze. Debolezze che non sfuggivano all’attenzione dei partiti interventisti e borghesi i quali, nell’intento di spezzare l’opposizione intransigente alla guerra, facendo leva su sentimentalismi di varia natura, tentavano di far dichiarare al partito la sua disponibilità, anche se a certe condizioni, di concedere una tregua alla lotta di classe e di aderire alla unione sacra, così da chiudere il socialismo dentro la bara dell’unanimità nazionale e della concordia dei partiti.

Questo pericolo non sfuggiva alla corrente rivoluzionaria che, bene attenta, ad ogni cedimento del partito metteva in guardia organi dirigenti e proletariato dai pericoli a cui andava incontro. I rivoluzionari non si stancavano di ripetere che era tempo che il Partito Socialista Italiano tracciasse una ben definita linea di azione e di demarcazione e che questa linea venisse seguita senza tentennamenti perché i destini della classe operaia, la sua dottrina, fatta di scienza e di fede, di sentimento e di azione, di meravigliosa fusione delle forze del proletariato con il suo partito, perché tutto questo non venisse sconvolto e sopraffatto dalla valanga degli avvenimenti.

Soprattutto il partito non avrebbe dovuto continuare a prendere troppo sul serio quegli avversari che in ogni momento decisivo della vita politica pretendevano di venirgli ad insegnare... il socialismo.

In particolar modo i socialisti venivano accusati di essere semplicemente dei dogmatici, dei masticatori di formule che si ostinavano a non prendere atto che la realtà aveva fatto strame delle ideologie. Ma, allo stesso tempo, coloro che irridevano al dogmatismo dei socialisti avevano la pretesa di imporre al partito socialista altri dogmi quali la collaborazione di classe, la difesa della patria, la democrazia, etc.

Era soprattutto il grande transfuga del movimento rivoluzionario che, ormai sul libro paga del capitalismo internazionale, pretendeva di dare lezioni di dottrina agli ex compagni. Nell’editoriale del primo numero del suo Popolo d’Italia, Mussolini aveva scritto: «La neutralità non può essere un dogma del socialismo. Esisterebbero dunque solo nel socialismo, e per giunta nel socialismo italiano, delle verità assolute come le verità indiscutibili e eterne della rivelazione divina? Ma la verità assoluta attorno alla quale non si può discutere, che non si può negare o rinnegare, è la verità morta; peggio, è la verità che uccide» (15 novembre).

Appena il tempo per ribattere che da rivoluzionari, «modesti, anonimi, atomi della vita di questo Partito siamo (...) felici di vederlo libero dal più vero e infecondo dogmatismo: quello che consiste nel feticismo personale» (Il Socialista, 19 novembre). Si passava poi a ribadire con forza che questi insigni critici, i quali si sentivano in dovere di elargire lezioni di teoria e di azione al partito socialista, con il Partito non avevano avuto altro rapporto, nella migliore delle ipotesi, che quello di averlo in passato tradito e nel presente non essere altro che dei prezzolati sabotatori. Di conseguenza, qualsiasi invito al riesame della ragion d’essere del partito avrebbe dovuto venire semplicemente ignorato.
«Dovremmo ormai aver appresa l’insidia di certi diversivi ed aver capito che, quando gli intellettuali politicanti della borghesia urlano indignati contro il nostro cieco dogmatismo, è perché essi temono della nostra compattezza risoluta e decisa, non già perché li preoccupino le vicende della filosofia e dell’ipercritica del socialismo» (Avanti!, 05 novembre). Per di più, nei momenti decisivi della lotta è atteggiamento di estrema debolezza, se non addirittura suicida, quello di mettere in dubbio le proprie verità. In tali svolti storici ai militanti del partito «giova più credere che sapere, poiché urge non lasciar sgretolare le nostre falangi dalla critica corrosiva e premeditata degli avversari che, d’altra parte, associano spesso la più crassa ignoranza alla completa malafede».

In qualsiasi momento, in qualsiasi contingenza, il partito socialista si fosse trovato ad operare mai avrebbe dovuto perdere di vista la sua finalità storica che non è quella di scongiurare i mali che derivano dal presente regime, ma quella di travolgere l’ordinamento borghese attraverso la rivoluzione per porre fine agli attuali contrasti sociali.

Ad ogni socialista avrebbe dovuto essere chiaro che lo stato di guerra soprattutto rappresentava il fallimento della “civiltà” borghese e di tutti i suoi miti e, contemporaneamente, ribadiva la fatale condanna sentenziata dalla dottrina marxista.

Nessuna esitazione dunque a dare battaglia senza quartiere per impedire l’intervento dello Stato italiano in guerra. «Noi non partiremo contro il preteso nemico, dicono i proletari d’Italia, e non andremo a massacrare i lavoratori d’altro paese, suggestionati dal pretesto che la presente èra storica altro non suggerisca che le carneficine nazionali. Noi restiamo qui a dar battaglia al vero nemico che ci opprime e che, mentre ci dice di tenerci pronti a marciare sotto le sue bandiere, non cessa dal tentativo di spezzare le armi della nostra redenzione e della nostra libertà insidiando i nostri organismi di classe. On. Salandra voi ci indicate il vero campo della nostra azione! Occhio per occhio, dente per dente. Noi vi impediremo di gettarvi nelle gesta militari, tenendovi sotto la pressione implacabile del nostro slancio di rivincita contro le sopraffazioni e le infamie della vostra politica di classe» (Il Socialista, 12 novembre).

Immancabile consenso parlamentare al militarismo

Ricevuta la piena fiducia da parte del Parlamento, fiducia che di fatto autorizzava l’entrata dell’Italia in guerra, il governo Salandra riprese a mercanteggiare per vendere il sangue del proletariato italiano a quella delle due coalizioni che avesse maggiormente favorito gli appetiti imperialistici dell’Italia. La posizione “pacifista” di Giolitti era altrettanto imperialistica e brigantesca di quella del presidente del consiglio Salandra. La formula: “l’Italia può parecchio ottenere senza uscire dalla neutralità”, proposta dal primo, faceva il paio con l’altra, enunciata dal secondo, che basava “sul sacro egoismo nazionale” la politica e l’azione dello Stato italiano. Le formule di ambedue erano estranee a qualsiasi influenza sentimentale, di giustizia, di libertà a cui si appellava la retorica interventista ed a cui potevano credere solo gli ingenui.

Nei primi mesi del 1915 si riaffacciò l’eventualità della guerra triplicista, ipotesi nella quale tutti i partiti costituzionali, dai cattolici ai radicali, in nome della concordia e della disciplina nazionale, si sarebbero stretti attorno alle istituzioni nel momento della guerra di domani, quale che essa fosse stata, facendo tacere le loro simpatie ideali per l’uno o per l’altro gruppo belligerante. Ed a quel punto anche gli interventisti transfughi dei partiti dell’estrema sinistra non avrebbero più potuto fare marcia indietro avendo rinnegato il programma rivoluzionario.

La neutralità fino ad allora mantenuta dal governo e dalla dinastia poteva essere frutto di viltà o di cinismo, e altrettanto sarebbe stato l’intervento, così come d’altra parte è la politica degli Stati capitalisti, sia in pace sia in guerra. Differente era la posizione di classe: avversando la guerra, il proletariato ed il suo partito non si rendono complici della neutralità borghese, dei suoi intrallazzi e dei suoi intrighi. Il partito di classe non ha da dare indicazioni allo Stato capitalista, nemmeno sotto forma di ricatto: dare consigli o indicazioni equivale a patteggiare, a promettere solidarietà. Il proletariato, imponendo la neutralità, quando ne abbia la forza, mette lo Stato di fronte alla sua pressione nemica, dalla quale non desisterà mai, né in tempo di neutralità, né in tempo di guerra.

Gli interventisti, sia quelli tradizionali sia gli aggregati dell’ultim’ora, facessero pure il loro sarcasmo sul neutralismo socialista, sul “panciafichismo”; non sarebbe certamente stato questo a far mutare atteggiamento ai socialisti degni di questo nome. Il comportamento, fino ad allora tenuto dal partito socialista, rispettandone in larga misura le sue tradizioni gloriose, si ricollegava al futuro del movimento rivoluzionario, si riallacciava all’azione ed al comportamento dei seguaci di Carlo Liebknecht in Germania, dei deputati socialdemocratici russi, dei socialisti di Serbia, dell’Indipendent Labour Party d’Inghilterra, di Sébastien Faure in Francia. I socialisti rivoluzionari italiani si sentivano intimamente solidali con tutti coloro che in ogni paese propugnavano «non tanto la prossima pace borghese quanto la nuova Internazionale proletaria che affronterà, accelerando la crisi del mondo capitalistico, l’attuazione del programma massimo comunista. Noi sentiamo di non essere degli assenti, anche se le nostre forze non sono oggi pari al nostro desiderio» (Avanti!, 13 aprile 1915).

La borghesia italiana non avrebbe più tollerato di rimanersene alla finestra e fare da spettatore passivo di fronte al bottino di guerra che la nuova spartizione del mondo prospettava. La cosa più importante per la politica di sciacallaggio dell’italico imperialismo straccione era quella di sapersi schierare dalla parte giusta, ossia dalla parte del più forte. Lo Stato italiano, fedele alla sua “eroica” tradizione risorgimentale, non potendo con le proprie avrebbe dovuto vincere grazie alle armi degli alleati.

Ma la scelta non era facile. Lo scopo della entrata in guerra dell’Italia non era affatto quello della conquista delle terre irredente, bensì quello di un rafforzamento delle sue posizioni nel Mediterraneo. D’altra parte le sue mire espansioniste erano contrastate da imperialismi ben più potenti e facenti parte di entrambi i due schieramenti di guerra. Nei Balcani si voleva esorcizzare il pericolo di un aumento della penetrazione austriaca, ma, al contempo, si temeva l’arrivo al mare Adriatico della Serbia e, attraverso questa, della Russia. D’altra parte non meno paura provocava il temuto consolidamento dell’egemonia inglese sul Mediterraneo. L’antagonismo con la Francia per il possesso dell’Africa settentrionale, in particolar modo Tunisi, era ormai storico ed il trattato della Triplice Alleanza, rinnovato per ben quattro volte, era stato stretto essenzialmente in funziona antifrancese.

Solo questioni di bottega avevano fatto sì che l’Italia avesse mantenuto la sua neutralità al momento dello scoppio della guerra. Il 1° agosto 1914, sollecitata dagli altri Paesi dell’Alleanza a mantenere i patti, aveva risposto affermando che li avrebbe rispettati onorando le clausole che stabilivano la neutralità, aggiungendo che l’Italia sarebbe intervenuta «a fianco dell’Austria solo se si faranno prima degli accordi sulle eventuali spartizioni dei territori alla fine della guerra». Ed accordi in tal senso aveva più volte sollecitato.

Dopo che il 3 dicembre gli austriaci avevano raggiunto Belgrado, Sonnino, ministro degli esteri del nuovo governo Salandra, chiese a Vienna il rispetto del trattato della Triplice alleanza e la concessione di quei compensi territoriali previsti dall’articolo 7 in caso di espansione austriaca sui Balcani.

La necessità da parte dell’Italia di mettere piede in modo stabile nella penisola balcanica era pressante ed il ministro Sidney Sonnino non mancava di spronare in questo senso il capo del governo. «Subito, senza più chiedere permessi a nessuno, prima specialmente che si decida la grande battaglia dell’Aisne in Francia e che la Russia abbia potuto sconquassare di più l’esercito austriaco (è necessario) prender il passo sull’Austria nell’affrancamento dell’Adriatico» (A Salandra, 26 settembre 1914) e continuava: «Io forzerei Valona, anche a costo che gli inglesi ci facciano il broncio» (5 ottobre 1914).

Al termine della prima Guerra Balcanica (1912-1913), il 29 luglio 1913 la Conferenza degli Ambasciatori aveva riconosciuto la costituzione di uno Stato albanese indipendente con a capo il principe tedesco Guglielmo di Wied. Dopo lo scoppio della guerra e a seguito della fuga del Wied, il governo italiano volle farsi carico di “riportarvi l’ordine” ponendo fine allo “stato di anarchia” in cui l’Albania si trovava. Aveva quindi informato le Potenze europee che sarebbe intervenuto sia diplomaticamente sia, occorrendo, militarmente.

Nella seconda metà dell’ottobre 1914 l’Italia neutrale entra quindi in guerra in proprio e lo fa sbarcando sulle coste albanesi. L’operazione è svolta sotto copertura “umanitaria”. Su Valona infatti si era riversata una marea di profughi provenienti dal Sud del paese per sfuggire ai massacri perpetrati dalle truppe greche, che avevano nel frattempo invaso l’Albania meridionale. Il 23 di quel mese fu mandata a Valona una missione sanitaria, in soccorso agli albanesi, decimati, si disse, da epidemie. Il giorno successivo, allo scopo di garantire la riuscita della missione e l’incolumità degli italiani presenti, la Regia Marina italiana prese possesso di Valona e una squadra navale (Dandolo, Agordai, Calabria, Etna e un paio di torpediniere) al comando del contrammiraglio Patris, rimase ad incrociare nelle acque albanesi. L’Italia conquistò, in questo modo, per la prima volta, “le chiavi dell’Adriatico”. Il 25 dicembre, giorno del Santo Natale, l’Italia occupava militarmente l’isola di Saseno e truppe di terra entravano a Valona. Il governo dichiarava al mondo di averlo fatto per impedire l’occupazione da parte di altre potenze.

Frattanto l’Italia continuava a trattare il suo ingresso in guerra separatamente con Vienna e con Londra, con Berlino, Mosca e Parigi. Il 26 aprile fu firmato a Londra un Trattato Segreto tra le potenze dell’Intesa e l’Italia per il suo intervento contro gli Imperi Centrali con i quali, però, permanevano i patti di alleanza e non si interrompevano le trattative. Da parte del governo di Roma la denuncia del trattato triplicista avverrà soltanto il 3 maggio.

La partecipazione dell’Italia alla guerra mondiale era ormai stabilita ed era impensabile che, data la situazione internazionale e la debolezza del movimento del proletariato italiano, il partito socialista potesse impedirla. Si trattava comunque di assumere una posizione di netto rifiuto nei confronti di qualsiasi tipo di solidarietà nazionale e di boicottaggio, nei limiti del possibile, della mobilitazione di guerra.

In tal senso il comitato direttivo della sezione milanese del partito aveva presentato un ordine del giorno del seguente tenore: «L’assemblea della Sezione socialista milanese, riaffermando la sua irriducibile avversione alla guerra, invita la direzione del Partito Socialista ad intensificare la propaganda, indirizzandola alla preparazione dello sciopero generale» (Avanti!, 21 gennaio 1915)

Anche la sezione socialista di Napoli chiedeva che «gli organismi direttivi del partito assumano la responsabilità di mantenere il carattere di intransigente opposizione politica del Partito contro la borghesia e lo Stato, sia nel periodo della mobilitazione che durante tutto lo svolgimento della guerra, con la sistematica opposizione parlamentare all’indirizzo di governo, e il voto contrario a tutte le conseguenti proposte specie per le spese militari, e col mantenere nel paese una vivissima corrente di dissenso spezzando la immancabile “tregua di partiti” che invocheranno le classi dominanti; e considerando che questa continua opposizione deve tendere ad assumere le forme più risolute, si associa alla proposta del comitato della sezione milanese per lo sciopero generale in caso di mobilitazione, augurandosi che le duemila sezioni del Partito Socialista, d’accordo con le organizzazioni operaie, sapranno prepararsi per tutte le eventualità della situazione che lo sciopero generale potrà determinare» (Avanti!, 6 febbraio)

Se l’Italia aspetterà un anno prima di gettarsi nella fornace della guerra europea, non aspettò nemmeno un giorno per “sospendere” al proletariato le libertà costituzionali, di espressione e propaganda, sia attraverso l’emanazione di nuove norme sia con un rincrudimento di quelle in vigore atte ad impedire che il movimento operaio potesse liberamente proclamare la sua avversione alla carneficina interimperialista. Fin dall’agosto 1914 venne inviata una circolare governativa in cui si invitavano i prefetti a vietare e reprimere tutti i comizi pubblici. Nel febbraio 1915 il consiglio dei Ministri deliberò di inviare alle autorità di pubblica sicurezza ed ai Prefetti istruzioni generali con cui si ordinava «una più rigorosa interpretazione della legge (...) a guisa che il Prefetto (...) dovrà proibire ogni comizio privato come ogni manifestazione d’altro genere, la quale contenga un pericolo di perturbamento dell’ordine pubblico». Alle autorità di polizia venivano concessi massimi poteri discrezionali sugli interventi repressivi nei confronti della propaganda a mezzo stampa e parola. Il 21 aprile il governo vietava i tradizionali comizi e cortei del primo maggio. A questo divieto il partito socialista, sollecitato dai giovani rivoluzionari, accettava la sfida dello Stato borghese ed invitava le sezioni «ad indire lo stesso ed effettuare le solenni dimostrazioni, ad onta di ogni antistatutario e per ciò illegale divieto».

Chiaramente il governo mentre proibiva e reprimeva le manifestazioni antimilitariste del proletariato italiano favoriva apertamente le carnevalate degli interventisti. E negli scontri che spesso si verificavano tra antimilitaristi ed interventisti le forze dell’ordine parteggiavano apertamente per i secondi, arrestando i proletari quando addirittura non sparava su di loro. «Le manifestazioni della volontà proletaria indette dal nostro Partito sono state soffocate con la violenza, mentre si lasciava libero campo alle gazzarre interventiste. Mentre la borghesia aveva tutti i grandi quotidiani dediti a gonfiare le chiassate studentesche ed a celare e diffamare la protesta operaia, si sono perfino intercettate all’unico quotidiano nostro le notizie dei comizi socialisti» (Il Socialista, 22 maggio).

Gabriele D’annunzio, tornato dalla Francia, dove era stato costretto a rifugiarsi per sottrarsi all’inseguimento dei suoi... creditori, si proclamava Vate e Guida del movimento interventista.

Mentre la democrazia interventista dilagava sulle piazze, quella demo-parlamentare continuava a mantenere la facciata pacifista. La sera del 12 maggio ben 320 deputati e 100 senatori, per rimarcare pubblicamente la loro partecipazione a questa politica avevano lasciato il proprio biglietto da visita alla porta di casa Giolitti, diventato ora, paladino del non intervento. Di fronte a questa presa di posizione da parte della maggioranza parlamentare, a Salandra non restò che rassegnare le dimissioni. Per un attimo a molti ingenui sembrò che avesse vinto il partito della pace. Ma solo agli ingenui, a coloro che pensano che la storia la facciano gli uomini e non che gli uomini siano spinti dal determinismo dei fatti materiali.

Se in molti furono a credere che fossero bastate le dimissioni di Salandra per salvare la pace, non fu certo il caso della Sinistra del PSI che immediatamente mise in guardia il proletariato dal cadere nel gioco di specchi borghese, chiedendo invece una rinnovata e maggiore vigilanza e mobilitazione. «Potremmo – si legge sul Socialista – sotto l’impressione immediata delle dimissioni del ministero Salandra rallegrarci della bancarotta clamorosa che affoga nel ridicolo la causa della guerra ed i suoi sostenitori. Potremmo (...) compiacerci del fallimento politico di tutta la borghesia italiana e dei “partiti dell’ordine” che col loro caotico e sconclusionato contegno danno ancora una volta la riprova della imbecillità e della insipienza delle classi e degli istituti che ci dirigono (...) Questo potremmo scrivere in attesa del nuovo ministero neutralista ad oltranza (...) Ma invece noi vediamo ben altro nella torbida situazione. Salandra fugge, è vero, dinanzi ad un pronunciamento parlamentare. Ma intende egli abbandonare la partita? Intendono abbandonarla gli esaltati della democrazia interventista? Non lo crediamo e sarebbe colpevole che il proletariato avverso alla guerra lo credesse. Se la guerra democratica non si è potuta fare col consenso della rappresentanza nazionale, si potrebbe però farla anche senza il Parlamento. S.M. – mentre scriviamo - si è riservata di decidere, potrebbe respingere le dimissioni del ministero, e sciogliere la Camera. Andremmo così in guerra a Camera chiusa, in attesa delle elezioni da farsi... a guerra finita (...) Ecco perché i lavoratori devono, in questa torbida ora, più che mai vegliare, pronti alla disperata difesa della propria vita e della propria libertà. Se la stupefacente oligarchia reazionaria democratica oserà giocare la carta estrema, se essi suoneranno le loro trombe, ebbene, suoni il popolo a distesa le sue campane!» (Il Socialista, 15 maggio).

All’estensore dell’articolo appariva chiaro che le dimissioni di Salandra non solo non avrebbero allontanato il pericolo della guerra, ma, caso mai, prodotto l’effetto negativo di un allentamento della pressione antimilitarista del proletariato.

La borghesia voleva la guerra e lo stesso Giolitti si guardava bene dal volere la neutralità dell’Italia: quello che voleva era presentarsi come l’uomo della neutralità, che è cosa ben differente! Ed infatti categoricamente rifiutò la proposta di formare il nuovo governo, preferendo che l’incarico fosse di nuovo assegnato al guerrafondaio Salandra.

A quel punto si verificò una cosa che nemmeno i nostri compagni avevano previsto perché, per quanto disprezzo potessero nutrire nei confronti del personale politico italiano, mai sarebbe stato pensabile che il suo infame contegno sprofondasse così in basso. Solo una settimana dopo da quando Salandra, preso atto della sfiducia espressa dalla maggioranza parlamentare nei confronti del proprio governo, aveva rassegnato le dimissioni, solo una settimana dopo, il 20 maggio, senza nessun dibattito, da quei medesimi parlamentari, a schiacciante maggioranza si vedeva conferire i poteri straordinari per l’entrata dell’Italia in guerra. Furono 407 deputati su 482 e 281 senatori su 281 che scongiurarono il tenuto “colpo di Stato” e portarono l’Italia, democraticamente, in guerra!

Solo il gruppo socialista votò compatto contro. Secondo l’articolo 33 dello Statuto Albertino i senatori erano nominati a vita dal Re che li sceglieva tra categorie quali, arcivescovi, presidenti della camera, ministri, presidenti di cassazione, ufficiali dell’esercito. È quindi molto improbabile che tra loro vi fossero dei socialisti. Al contrario di deputati socialisti ve n’erano: 52 socialisti ufficiali; 19 socialisti riformisti; 8 socialisti indipendenti.

Il 5 maggio dallo scoglio di Quarto, dove erano intervenuti i fasci repubblicani e interventisti, le associazioni democratiche e liberali, i deputati di ogni partito borghese, i professori universitari e gli studenti con viaggio a sbafo, D’Annunzio, nei panni di novello e pagano Redentore, aveva declamato il suo discorso delle “Beatitudini”. Tra i vari “Beati quelli che..”, una beatitudine, anche se sub condicionibus, il Vate la riserbò perfino ai proletari ed agli antimilitaristi. «Beati quelli che, avendo ieri gridato contro l’evento, accetteranno in silenzio l’alta necessità e non più vorranno essere gli ultimi, ma i primi».

Si illudeva il poeta e con lui tutti coloro che, a guerra decisa, lanciavano ai socialisti l’appello ipocrita alla solidarietà nazionale in nome della Patria in pericolo. Alla canaglia interventista i socialisti degni di questo nome, pochi o molti che fossero, anche se non riuscirono ad impedire la guerra dovendo al contrario subirla, gridarono in faccia «noi non saremo giammai i complici vostri (...) Noi siamo di quei socialisti che nel loro convinto internazionalismo non lasciano posto per la superstizione della patria. E perciò, anche se credessimo sincero e leale l’appello che ci viene dai nostri nemici di ieri, se anche ritenessimo il governo nazionale innocente della guerra, se anche ammettessimo la buona fede e il disinteresse di tutti i fautori dell’intervento, nonostante tutto ciò resteremmo, in nome dei nostri principi e della nostra fede, tenaci assertori della discordia di classe, che ponendo i servi contro l’oppressione dei padroni è l’unica feconda opera diretta a un avvenire migliore» (Il Socialista, 22 maggio).

Ultimo convegno socialista in Italia prima della guerra

La domenica del 19 maggio, poiché gli eventi precipitavano, era stato convocato a Bologna un Convegno nazionale al quale presero parte la Direzione del partito, il Gruppo parlamentare, la Confederazione del Lavoro e delegazioni periferiche (Reggio Emilia, Roma, Torino, Bologna, Catania, Firenze, Genova, Milano, Pisa, Venezia, Napoli, Parma, Modena, Ravenna). I membri della Direzione erano 9, i deputati 20 ed i confederali 8. Deputati e dirigenti sindacali si presentarono quasi al completo quasi tutti accorsi per scongiurare il pericolo dello... sciopero generale.

Immediatamente si delinearono tre tendenze: una per lo sciopero generale a partire dal martedì mattina, una per la convocazione di comizi il mercoledì, ed una terza, intermedia, per l’astensione dal lavoro nella sola giornata dei comizi, limitandola magari ad alcune località.

Una dettagliata ricostruzione del Convegno non può essere fatta poiché non risulta venisse stilato un verbale della riunione; quello che sappiamo è che venne deciso di non rendere pubblico l’andamento della discussione e lo stesso Avanti! si limitò a riportare il testo dell’ordine del giorno approvato. Il testo era estremamente debole e si limitava a «separare le responsabilità». Veniva proclamata, è vero, «l’avversione incrollabile del proletariato all’intervento in guerra» e dichiarata permanente la decisione di votare contro qualunque richiesta di crediti di guerra, ma si limitava a chiamare i proletari a manifestazioni e comizi improntati ad un «carattere di disciplina, di dignità e di imponenza», finiti i quali i socialisti, consci «di non poter oggi essere arbitri del mondo capitalista, sicuri di aver fatto per sé, per il Paese e per la storia, di fronte all’Italia ed all’Internazionale, il loro dovere, avranno diviso e manterranno separate le loro responsabilità da quelle delle classi dirigenti». Anche in articoli dell’Avanti! e nel famoso discorso alla Camera nel quale Turati negò i pieni poteri chiesti dal governo Salandra, ricorre la infelice frase: «Faccia la borghesia italiana la sua guerra!» La borghesia faceva sì la sua guerra, ma con il sangue dei proletari.

Sembra che la celebre frase di Costantino Lazzari, “né aderire né sabotare”, che quel vecchio socialista non privo di grandi meriti avrebbe fatto meglio a non inventare, sia stata formulata proprio nel corso di quella riunione. La formula – con la quale, si disse, Lazzari avrebbe salvato l’onore del socialismo italiano – e l’imbelle politica che essa esprimeva fin dal primo momento trovarono nel partito una viva opposizione, compresa quella dello stesso direttore dell’Avanti!, Giacinto Menotti Serrati.

Alla riunione di Bologna vari esponenti della frazione rivoluzionaria intransigente, tra cui qualche membro della stessa Direzione, e gli inviati di varie federazioni presero una posizione del tutto opposta non solo a quella dei parlamentari e dei capi confederali, ma anche alle esitazioni della Direzione. Le posizioni assunte dai delegati della sinistra intransigente di Lombardia, Piemonte, Romagna e del Mezzogiorno, erano più o meno di questo tenore: «Riconoscendo che l’affermazione della neutralità è oggi divenuta insufficiente, lamentando che la Direzione del Partito non abbia saputo escogitare il mezzo efficace d’opposizione alla guerra, afferma la necessità dello sciopero generale per impedire che il proletariato nell’interesse della borghesia sia lanciato nell’orrendo macello” (La Lotta di Classe, 17 aprile).

Gli intransigenti innanzi tutto misero in evidenza che il problema squisitamente politico dell’azione da svolgere contro la guerra doveva essere affrontato dagli organi del partito, e accettato come tale dai compagni con mandati di funzioni parlamentari e sindacali. Uno scontro diretto si svolse fra chi parlava per la sinistra del partito, da un lato, e i deputati e i capi sindacali dall’altro. Ad eccezione degli interventi dei due valorosi compagni deputati Caroti e Morgari, che portarono una nota elevata di internazionalismo, tutti gli altri parlamentari nei loro discorsi fecero un quadro assai pessimistico della situazione affermando che era ormai troppo tardi per moti di piazza e che lo sciopero generale sarebbe stato una follia. Secondo loro la questione poteva e doveva essere risolta esclusivamente sul piano legalitario e parlamentare.

Abbiamo detto quello che sarebbe successo proprio il giorno successivo, ma i deputati socialisti si ostinavano ad illudersi che il Parlamento, a maggioranza, fosse neutralista, come i trecento biglietti da visita lasciati al portone di Giolitti ne avrebbero fornito la prova. Secondo loro giolittiani, cattolici e socialisti avrebbero potuto “mettere la guerra in minoranza alla Camera”. La sinistra si scagliò contro questa prospettiva che purtroppo traspare dalla mozione votata, secondo la quale la pressione degli interventisti dello scoglio di Quarto “era incostituzionale”. Niente di meglio, fu la risposta dei rivoluzionari, poiché noi siamo i primi a dover andare contro la costituzione borghese!

La discussione coi capi sindacali non fu meno tesa. Non occorre dire che anche loro si espressero contro lo sciopero. Si affannarono ad affermare che lo sciopero generale contro la mobilitazione “non sarebbe riuscito” e sfidavano esponenti di Camere del Lavoro e Federazioni di mestiere a dimostrare il contrario. Quello che i dirigenti confederali temevano non era che lo sciopero non riuscisse; il loro timore era che riuscisse: sapevano che gli operai erano inferociti contro la guerra, ma non osavano dare la parola di sciopero per impedire la mobilitazione militare. Il loro non era un peccato di viltà, non li tratteneva il timore delle conseguenze della repressione, quello che temevano era di macchiarsi di tradimento della patria. Erano imbevuti di pregiudizi borghesi fino al punto di ritenere che dovere dei socialisti fosse quello di non danneggiare le operazioni militari della patria.

Seppur dopo ampie dichiarazioni, i rivoluzionari finirono col dover ritirare la loro proposta, per associarsi all’o.d.g. presentato dall’on. Mazzoni che era per la tesi intermedia. Ma a quel punto i deputati ed i confederali vollero a forza togliere dall’o.d.g. anche della astensione dal lavoro per 24 ore, concessione che avevano già fatta alla Direzione del Partito. La castrazione dell’o.d.g. fu approvata dalla maggioranza dei delegati del partito.

Durante la discussione fu sfiorata la questione della difesa nazionale e dell’atteggiamento del Partito durante la guerra. E su questo argomento il Convegno in linea di massima non lasciò cadere neppure l’ombra del dubbio sulla compatta ed immutabile avversione dei socialisti italiani alla guerra borghese.

Si sentiva però che queste posizioni non erano limpide, non dettate da una intransigenza classista, tant’è che al riguardo i rivoluzionari si sentirono in dovere di precisare che «le divergenze tattiche che potettero essere appena sfiorate saranno approfondite domani, dopo l’altra seria esperienza della guerra che si avvicina, ed allora andremo a fondo della questione. Si delinea così fin d’ora l’immensa importanza del futuro nostro Congresso Nazionale» (Il Socialista, 22 maggio). Ed il giorno dopo sull’Avanti!, nell’articolo “Il Fatto Compiuto”, si affermava in maniera categorica: «Ancora una volta, o trepidi servitori del fatto compiuto, che vorreste farci leccare la mano che ci ha abbattuti ma non fiaccati, le due vie opposte si tracciano nette e precise. O fuori o dentro dal preconcetto nazionale e dagli scrupoli patriottici. O verso uno pseudo socialismo nazionalista o verso una nuova Internazionale. La posizione di chi nell’avversare la guerra non nascondeva una doppiezza miserabile non può essere che una, oggi che la guerra è un “fatto compiuto”: contro la guerra, per il socialismo antimilitarista ed internazionale».
 

(Continua al prossimo numero)

 
 
 
 
 
 
 


Partito e Sindacato in Italia tra vecchio e nuovo secolo

IL MOVIMENTO SINDACALE ALLA FINE DELLA GUERRA

Capitoli esposti nalle riunioni da ottobre 2005 a giugno 2006.

(Continua dal numero scorso)
 

Gli scioperi durante la guerra

Le difficoltà dovute alla guerra portarono a degli scioperi che la vulgata resistenziale considera anzitutto patriottici, ma che erano dovuti in gran parte alle sempre più precarie condizioni economiche del proletariato. I primi scioperi si ebbero nella seconda metà del 1942 nelle fabbriche del Nord, ed ebbero un certo successo all’Alfa di Milano e alla Tedeschi di Torino.

Il giornale L’Unità del 5 ottobre riportava: «Gli ultimi due mesi sono stati caratterizzati da una crescente ondata di movimenti degli operai delle maggiori città industriali d’Italia. Questi movimenti, determinati per lo più dal razionamento, dai salari inadeguati al costo della vita e dai tentativi di diminuire le paghe, sboccavano sovente nello sciopero. Il ripristino da parte degli operai di una già provata ed efficace forma di lotta qual è lo sciopero, è un buon sintomo. Sintomo che bisogna non solo registrare, ma incoraggiare e dirigere». Lo stesso giornale esprime compiacimento per la compattezza dimostrata dagli operai “antifascisti e non fascisti”.

In questo caso siamo d’accordo con gli opportunisti: è ovvio che essi, per essere tali, non possono tradire apertamente ma devono alternare posizioni di classe a posizioni opposte, in un calderone in cui solo il Capo, che la “provvidenza socialista” ha donato al partito, può districarsi, anche se inevitabilmente con una andatura a zig-zag, dato che la via maestra del programma è stata abbandonata.

Ci furono poi gli scioperi del marzo 1943, iniziati a Torino alla Fiat Mirafiori. Quello stabilito per il primo marzo fallì, poiché la Fiat annunciò un aumento salariale di 50 lire come acconto in vista di altri miglioramenti salariali. Venne indetto un altro sciopero per il giorno 5 che riuscì anche se solo in tre officine ausiliarie. Le adesioni allo sciopero divennero invece massicce tra l’8 e il 12.

L’Unità dell’11 marzo 1973 riporta la testimonianza di Magno Barale, arrestato e deferito al Tribunale speciale appunto per gli scioperi del 1943: «Nella mia vita d’operaio ho partecipato a tanti scioperi, ma non ho mai visto una partecipazione così totale. Tutti si fermarono, e devo precisare che alla Fiat Ricambi eravamo soltanto in tre a non avere la tessera del partito fascista».

Scrive Sergio Turone, nella sua “Storia del sindacato in Italia dal 1943 ad oggi”: «Le motivazioni erano salariali e politiche. La pubblicistica della Resistenza, quasi a voler nobilitare quegli scioperi, tende in generale a sottolineare l’aspetto politico, che in effetti è il più vistoso agli occhi di chi voglia ricostruire la genesi della lotta partigiana. Ma la stampa clandestina e i manifestini che ci sono rimasti dicono che anche le rivendicazioni salariali ebbero un loro peso determinante ed autonomo. Non furono cioè soltanto la miccia a cui ricorsero i politici per coinvolgere anche gli operai meno sensibili nella lotta antifascista».

A riprova di ciò il Turone riporta un volantino diffuso in Piemonte che diceva: «Operai, impiegati! Il governo di Mussolini, responsabile di aver trascinato il nostro Paese in una guerra ingiusta e rovinosa, vuole farci morire di fame, dandoci degli stipendi irrisori, pagandoci con assegni in luogo di moneta e allungando a 12 ore la giornata lavorativa. Smettiamo di lavorare, prepariamo lo sciopero. Manifestiamo in tutti i modi per esigere che il nostro salario sia corrisposto in moneta».

Continua il Turone: «I promotori delle agitazioni puntarono sempre sul duplice aspetto della lotta “contro la fame e contro il terrore”. In ogni caso, al di là della disputa accademica sul prevalere dell’aspetto politico o di quello economico, l’elemento tipico di questa azione fu il suo carattere classista». «Le rivendicazioni immediate di quelle lotte s’imperniarono sulle cosiddette 192 ore (l’indennità di fine anno equivalente ad un mese circa di paga) e su altre voci retributive come l’indennità di sfollamento». «La stessa natura classista degli scioperi costituiva di per sé un fatto politico assai grave per il regime fascista, perché segnava il naufragio del vantato sistema corporativo su cui il fascismo aveva preteso di fondare la struttura del paese».

La risposta del regime oscillò tra repressione e concessioni, mettendo in atto anche tentativi decisamente patetici. Scrive Roberto Battaglia nella sua “Storia della resistenza italiana”: «Il 27 marzo, alla Bianchi di Milano, lo sciopero aveva avuto inizio da mezz’ora, quando, in divisa grigioverde, giunse davanti alla fabbrica un gruppo di mutilati. Il tenente che li guidava parlò da un altoparlante, illustrando i sacrifici che stavano compiendo i soldati al fronte. A nome degli scioperanti rispose un operaio, illustrando le condizioni misere della famiglie dei lavoratori, fra miseria, disagi della guerra, pericolo di bombardamento, sfollamenti. I mutilati si allontanarono in silenzio. Lo stratagemma emotivo fu tentato anche con altre fabbriche. Il 29 marzo, alla Caproni di Milano, i mutilati furono accolti con applausi dagli scioperanti, e fu un’operaia ad apostrofarli: “Non aspettavamo voi, voialtri siete dei disgraziati come noi. Sono i padroni e i gerarchi fascisti che debbono venire, sono essi che accumulano quattrini sul vostro sangue e sul nostro sudore”».

Ancora il Turone: «Allo sciopero partecipavano compatti anche quei nuclei d’operai che passavano per fascisti, e probabilmente credevano di esserlo. Il fatto fu riferito da Tullio Cianetti nella deposizione al processo di Verona del 1944. È naturale che in quella circostanza Cianetti cercasse di valorizzare la propria missione a Milano del marzo 1943: “Valendomi solo del mio prestigio di vecchio organizzatore sindacale – disse ai giudici in camicia nera – affrontai migliaia di operai che ripresero subito il lavoro, benché i fascisti si dimostrassero completamente passivi negli stabilimenti e purtroppo in qualche caso fomentassero gli scioperi. Fenomeno questo che m’impressionò enormemente».

Questo fenomeno impressionò anche il capo della polizia di Torino, Carmine Senise, come leggiamo nel già menzionato scritto: «Alla Fiat di Torino esisteva un’apposita legione, la legione “18 novembre” della milizia fascista costituita interamente di operai di quegli stabilimenti, creata d’accordo fra il Partito e i dirigenti dell’industria allo scopo di controllare il comportamento politico della massa: ebbene, i militi parteciparono allo sciopero come tutti gli altri operai».

Altri scioperi ci furono nell’agosto e poi nel novembre e dicembre 1943. Scrive Alfredo Graditone nella sua “Storia del sindacalismo”: «A Torino, nel novembre 1943, furono poste dagli operai agli industriali piemontesi e al comando tedesco quattro rivendicazioni: aumenti salariali nella misura del 100%, raddoppio di talune razioni alimentari, un litro di latte il giorno per ciascun bambino, diritto di sospendere il lavoro durante i bombardamenti».

Per quanto riguarda Milano torniamo al Turone: «Il moto ebbe un indubbio carattere spontaneo. Un primo episodio si verificò il 2 novembre alla Breda di Milano. Ai già gravi motivi di disagio procurati dalla guerra, dai bombardamenti, dall’insufficienza di derrate alimentari, dall’inadeguatezza crescente dei salari in rapporto al costo della vita, si andava aggiungendo la penuria di energia elettrica, che, sommata alla scarsità di materie prime, indusse molte aziende industriali a ridurre gli orari se non a sospendere la produzione. Lo sciopero della Breda fu motivato appunto dalla richiesta di una retribuzione anche per i periodi in cui il lavoro era sospeso».

Leggiamo ancora: «Pochi giorni dopo, in modo assai massiccio benché altrettanto spontaneo, il movimento rivendicativo si sviluppò a Torino. Gli operai della Fiat sospesero il lavoro il 18 novembre 1943. La protesta esplose per l’ordine che era stato impartito di restare ai posti di lavoro anche durante i bombardamenti aerei».

A questo riguardo Roberto Battaglia nella già menzionata opera scrive: «Lo sciopero colse di sorpresa anche i dirigenti comunisti, i quali contavano su un più lungo periodo di tempo per compiere l’organizzazione della classe operaia sconvolta dalle due svolte successive del 25 luglio e dell’8 settembre».

A Milano gli scioperi cominciarono dal primo dicembre. Queste le rivendicazioni principali: «1) Aumento della razione di pane a gr. 500 per tutti gli operai e impiegati e aumento del 100% dei generi alimentari in genere; 2) aumento degli stipendi e salari del 100%; 3) pagamento di 192 ore agli operai per la gratifica natalizia; 4) pagamento del premio di £. 500 da effettuarsi subito; 5) controllo assoluto della mensa aziendale; 6) abolizione dei pagamenti di ricchezza mobile, contributi sindacali e dopolavoro; 7) cessazione assoluta dei licenziamenti: ai sospesi sia pagato il 75% della cassa integrativa e il 25% dalla ditta stessa del minimo d’ore 40; 8) minimi d’orario affinché tutti godano di 6 giorni di presenza la settimana».

Il tentativo mussoliniano di ricuperare consenso tra gli operai con la socializzazione delle imprese, il cui decreto legislativo fu pubblicato il 12 febbraio 1944, fallì miseramente. Anselmo Vaccari, capo della federazione fascista degli impiegati, in un rapporto inviato a Mussolini il 20 giugno 1944 scrive: «I lavoratori considerano la socializzazione un specchio per le allodole e si tengono lontani da noi e dallo specchio».

L’aumento dei prezzi assorbì immediatamente gli aumenti ottenuti dai lavoratori tra la fine dell’anno e il gennaio 1944 finché s’arrivò agli scioperi del marzo 1944, molto più massicci dei precedenti che preoccuparono non poco il regime di Salò e le truppe di occupazione tedesche. Non a caso il 21 giugno 1944 la “Gazzetta ufficiale” di Salò pubblicò un decreto che contemplava la pena di morte per gli organizzatori di scioperi.

Secondo Attilio Tamaro, cronista di Salò, gli scioperi di fine 1943, furono «scioperi che la situazione e la propaganda colorava di rosso, ma che restavano strettamente nel campo economico». Scrive Turone: «In realtà la “colorazione rossa” esisteva indipendentemente dal fatto che gli scioperi s’inserivano nella guerra antifascista, e derivava proprio dalle rivendicazioni economiche e salariali. Era insomma un fatto politico di per sé estremamente significativo il rinascere in Italia di una coscienza di classe che trovava espressione unitaria nella lotta». In realtà hanno ragione entrambi. Il fascista Tamaro ha ragione, quando dice che si tratta anzitutto di scioperi dovuti a rivendicazioni economiche, anche se ciò gli serve a mascherare il fallimento della sua parte politica. Il riformista Turone ha ragione a sua volta, quando dice che tali rivendicazioni economiche sfociavano in una lotta di classe.

Naturalmente per gli opportunisti, togliattiani e non, tali lotte di classe, che neanche essi avrebbero potuto eliminare, dovevano essere convogliate, nell’alleanza contro il nazi-fascismo, con tutte le forze democratiche, progressiste e borghesi disponibili, nel nome di una patria sempre più presente nei discorsi di Togliatti come di Stalin.
 

CGL rossa e CGIL tricolore

Con lo sbarco degli alleati in Sicilia e nel Sud nel 1943 e 1944 e lo scioglimento dei Sindacati fascisti e delle Corporazioni, vennero creati dagli occupanti degli Uffici del Lavoro, che volevano essere un argine alla ripresa della lotta di classe assumendo anche alcune funzioni svolte precedentemente dai sindacati.

Scrive il Pepe nella citata opera “Il Sindacato nell’Italia del ’900”: «Il nuovo Stato ipotizzava di riassumere una funzione dirigente sulla società solo inducendo meccanismi di accentuata corporativizzazione nelle istituzioni, sia in quelle pubbliche e amministrative, sia in quelle sindacali. Non tanto il vecchio corporativismo operaio che cercava il sostegno dello Stato e in cambio offriva l’accettazione delle regole del sistema, bensì un nuovo corporativismo istituzionale, ereditato dalle strutture del corporativismo autoritario fascista, ed esteso anche nelle nuove organizzazioni sindacali».

Ciò non poté impedire la nascita di nuovei sindacati, che gli Alleati e il nuovo governo badogliano cercavano di tenere sotto controllo. Nel novembre 1943 rinasce a Napoli la Camera del Lavoro, poi altre in grossi centri della provincia ed altre al di fuori, come a Salerno, Foggia e Potenza.

Nello stesso novembre a Napoli i lavoratori della provincia e pochi altri creano il Segretariato Meridionale della CGL con un Comitato direttivo provvisorio, composto di due membri del PCI, due del PSIUP e due del Pd’A. Segretario Generale viene nominato Enrico Russo, già sulla posizione della sinistra del PCd’I e da cui si era allontanato nel 1936 non condividendone le posizioni sulla guerra di Spagna. La CGL mettendosi alla testa delle lotte di classe di quei mesi ebbe un grande aumento degli iscritti a Napoli e in tutto il Sud.

Battaglie Sindacali

La CGL il 20 febbraio 1944 riesce ad avere l’autorizzazione dagli Alleati a pubblicare il giornale Battaglie Sindacali sul cui primo numero il direttore Enrico Russo scrive: «L’unita proletaria e la sua organizzazione di classe hanno una funzione economica e sociale, che non si ferma alle semplici questioni salariali, né agli interessi contingenti, ma tende a quelle rivendicazioni sociali, che sul terreno storico si concretano nell’affrancamento integrale del lavoro da ogni forma di sfruttamento».

La lettura del giornale ci mostra come indirizzi politici di classe avessero una grande forza al suo interno, pur coesistendo con altri. Per esempio, erano numerosi, per la presenza di membri del Partito d’Azione, come Gentili, oltre che dello schieramento patriottardo di PCI e PSIUP, articoli a favore della prosecuzione della guerra a fianco degli Alleati e in accordo che il CLN.

Ma la presenza di posizioni politiche diverse tra i membri di tale organismo, ovvia trattandosi di un sindacato e non di un partito, non modifica il nostro giudizio. La nuova CGL va ritenuto un sindacato di classe perché tale è la sua azione e perché il suo collocarsi nella polarizzazione tra le classi si impone anche a coloro che, coscientemente o meno, si rifanno a direttive anti-operaie ed anti-comuniste e, o sono in qualche modo trascinati dalla marea, o sono costretti a mascherare le proprie posizioni per non perdere i contatti con il proletariato.

È significativo che troviamo sul giornale una serie di articoli sul sindacato americano che ne tracciano un storia e ne tessono grandi elogi per il carattere corporativo e non generale di classe, additandolo a modello, ma senza poterne dedurre la difesa del sindacalismo patriottico. Esplicite sono invece le richieste di classe, come quella d’aumenti reali e significativi per operai, braccianti ed impiegati, senza curarsi di coloro che li invitavano a tenere conto della compatibilità con la ricostruzione nazionale.

Fuori della ubriacatura nazional-resistenziale

Nel febbraio si tenne a Salerno il Primo Congresso Nazionale della CGL a cui parteciparono 30 Camere del Lavoro.

Intanto, nel gennaio e nel febbraio il PCI a Bari aveva creato una nuova CGIL, con l’aggettivo “Italiana”, in opposizione alla CGL di Napoli. La CGIL fu assente a Salerno, e cercò di impedire l’adesione d’altre province. Al Congresso venne votata l’unificazione con la CGIL di Bari, anche se poi di fatto le due organizzazioni resteranno distinte.

Il Russo nella sua relazione si pronuncia contro ogni tregua sindacale, Afferma: «Il 25 luglio non è stato altro che il salvataggio della borghesia. Si è cambiata l’etichetta, ma il fascismo è rimasto, e il proletariato lo ha capito benissimo». Ed aggiunge: «Oggi dobbiamo sottrarre il sindacato al controllo statale perché potremmo trovarci nella necessità di ingaggiare una lotta proprio contro lo Stato. Con il governo della borghesia non possiamo venire a nessun accordo». Commenta il Peregalli: «Caduto il fascismo, sostiene Russo, non si può semplicemente affermare che si sono create le condizioni che portano direttamente dalla società capitalista a quella socialista, tramite la “democrazia progressiva” e senza lotta di classe».

Sul secondo numero del giornale, del 27 febbraio, si legge il resoconto del Congresso: “Orientamenti al Congresso di Salerno”.
«A Salerno è stata data una prova unanime della vitalità della esigenza classista, della imprescindibile esistenza, cioè, di un problema di classe, e soltanto di classe indipendentemente da qualunque tendenza o partito politico.
«La classe proletaria ha non soltanto necessità sue particolari da risolvere, il che è dovuto soprattutto alla esigenza di risolvere il problema della organizzazione della società intera secondo un criterio che è detto appunto classista. Tale criterio tende ad affermare, attraverso la lotta, la vivacità e la fecondità del proletariato di fronte al parassitismo della borghesia, e il diritto pieno ed assoluto della classe proletaria alla determinazione delle forme sociali della umana convivenza.
«Ed il significato è questo, che ormai tutti sono convinti e profondamente coscienti che, a prescindere dai diversi atteggiamenti politici, tutte le profonde sciagure che si abbattono sul proletariato, tutta la tragedia di questa umanità dolorante e umiliata, tutto lo sfascio al quale assistiamo nell’economia nella educazione nella dignità e nella morale sono la diretta conseguenza di una sola cosa: dello sfruttamento parassitario e illimitato che i borghesi hanno fatto e fanno di un proletariato che muore di fame.
«Abbiamo detto anche: intransigenza classista. Il Congresso di Salerno ha chiaramente detto la propria volontà d’assoluta intransigenza classista: e questa è veramente un’altra prova della maturità del proletariato, il quale ha capito che con la borghesia capitalistica non possiamo venire a nessun accordo, poiché qualunque accordo nelle mani della borghesia – essenzialmente costruita sull’egoismo e sul riconoscimento esclusivo del proprio diritto alla vita – si trasforma immediatamente in uno strumento tendente all’asservimento del proletariato.
«Pensare che la classe padronale possa mai venire al riconoscimento dei reali diritti del proletariato, significa pensare che la borghesia rinuncia ad essere borghese per trasformarsi in proletariato. E questo non vi è anima candida che possa crederlo. Perciò ogni alleanza, ogni compromesso con la classe borghese è da questa accettato soltanto quando essa sente di non poter esercitare il suo sfrenato predominio sul proletariato, ma con un unico scopo: di riportare il proletariato in condizioni di assoluto asservimento.
«Tutto ciò è stato chiaramente capito e Salerno ce ne ha dato la più luminosa conferma. Il Congresso ha dimostrato che il proletariato sa di poter contare esclusivamente sulle proprie forze e che ogni compromesso con forze non proletarie deve essere costantemente e tenacemente evitato nella affermazione della più assoluta intransigenza classista».

Altro dirigente della CGL era Nicola Di Bartolomeo, trotskista che praticava l’entrismo nello PSIUP. Questi nel suo intervento al Congresso affermava: «Considerato che le sorti della classe lavoratrice sono strettamente legate ad una radicale trasformazione della società, trasformazione basata sulla socializzazione dei grandi mezzi di produzione e di scambio, considerato che a causa della guerra tali mezzi o sono distrutti o sono inerti, dichiara di non riconoscere alcun programma di ricostruzione nazionale che tenda a rivalutare la proprietà privata ed a ricostruire il privilegio del capitale sul lavoro, contesta al governo attuale il diritto di prendere provvedimenti in materia economica, delibera di coordinare efficacemente, in base alle direttive su esposte, l’azione sindacale di tutte le categorie e di tutte le tendenze, al fine di consolidare sempre più l’unità delle masse lavoratrici».

Questo il deliberato finale del Congresso:
«All’ora fissata il Presidente riapre la seduta e mette in votazione l’o.d.g. Di Bartolomeo, annunziando che gli altri o.d.g. e memoriali presentati, avendo natura piuttosto particolaristica, verranno trasmessi e raccomandati alla Commissione Esecutiva che verrà eletta. L’o.d.g. Di Bartolomeo viene approvato all’unanimità.
«L’ordine del giorno Di Bartolomeo.
«Il Congresso di Salerno,
Considerato che le sorti delle classi lavoratrici sono strettamente legate ad una radicale trasformazione economica della società, trasformazioni basate sulla socializzazione dei grandi mezzi di produzione e di scambio;
Considerando che, a causa della guerra, tali mezzi o sono distrutti o sono inerti, anche per incapacità delle classi dirigenti,
Considerando che, di fronte alla svalutazione del capitale finanziario, soltanto il lavoro conserva il suo valore costruttivo,
Dichiara di non riconoscere alcun programma di ricostruzione nazionale che tenda a rivalutare la proprietà privata ed a ricostituire il privilegio del capitale sul lavoro,
Contesta al governo attuale il diritto di prendere provvedimenti in materia economica erogando compensi incontrollabili a favore della borghesia industriale, compensi che inevitabilmente dovranno costituire oneri del proletariato.
Delibera di coordinare efficacemente sulle direttive suesposte l’azione sindacale di tutte le categorie aderenti e di tutte le tendenze al fine di consolidare sempre più l’unità della masse lavoratrici.
«Tutti questi ordini del giorno furono votati all’unanimità».

L’atteggiamento verso il Fascismo e la Democrazia

Già sul numero 1, del 20 febbraio 1944, leggiamo un articolo esplicitamente classista riguardo l’atteggiamento da tenersi di fronte alla “rinata” Democrazia: “Riprendendo il cammino”.
«La classe lavoratrice, contro la quale le brigantesche squadre fasciste iniziarono la loro opera d’intimidazione e di violenza, che si concluse con la distruzione delle sedi sindacali e con l’assassinio di militanti e dirigenti, la classe operaia, nel piano e politico ed economico dello Stato fascista, doveva servire, e dolorosamente servì alla demagogia mussoliniana come pretesto di una superiore concezione sociale, e come superamento della lotta di classe. Ma la coatta armonia degli interessi contrastanti l’intervento autoritario dello Stato, lasciando in vita le parti opposte mentre negava il libero esplicarsi delle loro ragioni, doveva inevitabilmente finire con l’assoggettamento di una parte all’altra. Come sempre il proletariato fu sacrificato ai padroni ed allo Stato.
«Fallito il piano di un imperialismo, che voleva far passare la guerra come difesa necessaria dei Paesi proletari contro le plutocrazie continentali ed insulari, il proletariato si è risvegliato alla pura e tragica realtà di classe soggetta ed opposta alla borghesia ed allo Stato poliziesco fascista. Per avversare ed impedire l’ascesa del proletariato italiano, sorse il fascismo a servizio dei grossi capitalisti della grande industria e dei proprietari di terre, con la complicità aperta della monarchia.
«La ripresa del movimento operaio sul terreno sindacale ha questo preciso e specifico compito: impedire che la classe lavoratrice subisca una nuova coartazione, che si risolverebbe in una nuova schiavitù. L’unità proletaria e la sua organizzazione di classe hanno una funzione economica e sociale, che non si ferma alle semplici questioni salariali, né agli interessi contingenti, ma tende a quelle rivendicazioni sociali, che sul terreno storico si concretano nell’affrancamento integrale del lavoro da ogni forma di sfruttamento».

Prosegue sul tema il secondo numero del giornale, del 27 febbraio: «Il proletariato comincia finalmente a capire – e tutti aprano le orecchie troppo delicate per ciò che diremo – che non esiste la Democrazia col D maiuscolo, unica e sola come una bella fata ma o esiste una democrazia della classe borghese, o esiste una democrazia della classe proletaria. La democrazia della classe borghese significa per il proletariato soltanto la libertà di morire di fame. E noi proletari non dimentichiamo, quali che siano gli sforzi per farci credere il contrario che il fascismo è stato precisamente e innegabilmente il prodotto della “democrazia” dell’alta finanza, della grossa industria e del latifondo. La democrazia che il proletariato esige ed avrà prima o poi – la borghesia non s’illuda – è la libertà di tutti coloro i quali lavorano: e non è difficile capire che è questa la sola vera democrazia. A questa democrazia i proletari – ed il Congresso ce lo dimostra – non sono disposti a rinunciare in nessun particolare, con nessuna transazione, a costo della loro stessa vita».

Il Congresso di Salerno si era espresso chiaramente in merito: «Entrando in pieno in argomento Enrico Russo osserva che ormai è divenuta consuetudine di tutti gli articoli, discorsi, conferenze radiofoniche il criticare il passato regime. Ora, la critica del fascismo è già stata fatta nel modo più efficace dall’eredità che il fascismo ci ha lasciato: la più tragica sarà nel prossimo futuro. Tutti i proletari conoscono i trucchi demagogici del fascismo, e come questi non riuscissero a nascondere la reale politica antiproletaria del regime di Mussolini. Ma il 25 luglio altro non è stato se non il salvataggio della borghesia, consci ormai di aver perduto la guerra. Si è cambiato l’etichetta, l’andamento resta lo stesso. Il proletariato lo ha capito benissimo, e se non esterna la sua disapprovazione ed il suo scontento, lo è per non turbare l’andamento della guerra».

Nel numero 14, del giugno 1944, sempre di Battaglie Sindacali troviamo una recensione ad un libercolo di scarsa importanza, “Le rappresentanze politiche e amministrative” di Federico Persico. Ciò che è interessante è l’affermazione della realtà di classe, borghese e anti-proletaria, nascosta dal velo della democrazia. Anche da questi dettagli emerge la distanza dalle posizioni, ormai democratiche, patriottiche, e quindi anti-comuniste, del PCI. «Esce oggi, con una avvertenza dell’editore che indica ai lettori il “tiro mancino” giocato al fascismo con la pubblicazione di questo libro di idee “democratiche” nel periodo della tirannia or ora trascorsa. Non siamo d’accordo con l’editore sul “tiro mancino” giocato al fascismo: la censura fascista non si sarebbe fatta “giocare” con altrettanta facilità da un libro che avesse fatto apparire le teorie marxiste come precorritrici del “ritrovato” fascista. Noi siamo purtroppo convinti di un’altra cosa: che la borghesia e il fascismo erano perfettamente d’accordo nel condire in tutte le salse “democratiche”, “corporativistiche”, “patriottiche”, la loro unica, vera realtà: quella della lotta per lo schiacciamento del proletariato: e che il “tiro mancino”, come al solito, è stato giocato al popolo lavoratore e sfruttato».

Il sindacato di fronte alla guerra e alla pace

Il Congresso affrontò il problema degli effetti della guerra sulla classe operaia.
«Dopo aver caldamente esortato tutti i delegati ad una serenità e ad un elevato senso di responsabilità nel corso dei lavori, serenità e responsabilità che daranno più grande autorevolezza al Congresso, egli [Avagliano] fa notare come lavoro e pace, suprema aspirazione dei popoli, dipendano unicamente dallo spirito di collaborazione e fraternità delle masse proletarie; e come questi due sentimenti costituiscano l’essenza della forza delle masse dei lavoratori. Pane pace libertà e lavoro non possono essere garantiti se non si affermano i diritti del proletariato, e non si rende impossibile la guerra: “Il fascismo non è morto, anche se gli interessati dicono che è finito; ci si dice che il capitalismo è superato: ma noi aspettiamo che ce lo provino i fatti”. Egli proclama la ferma intenzione dei lavoratori che il nuovo regime debba essere fondato sul lavoro, e che il proletariato italiano non tollererà mai che le spese di guerra vengano scaricate sulle sue spalle; e pertanto ammonisce che a ciò i proletari potranno opporsi preparando le loro organizzazioni. “Chi può ricostruire tutto ciò che è andato distrutto?” Non certo coloro che ci hanno portato a questa distruzione. Gli artefici della devastazione devono essere smascherati, e tutti quelli che han tenuto bordone al regime devono essere eliminati. È bene proclamare ancora una volta, sebbene ciò sembra inutile, che la guerra non fu e non poteva essere dai lavoratori. Nessun proletario, nessun uomo veramente onesto potrà accettare passivamente di ritornare ad essere lo strumento delle forze della reazione. L’unico e vero comitato di ricostruzione tra i tanti pullulanti è l’organizzazione sindacale.
«Prende la parola il compagno Villone, il quale fa notare all’Avagliano l’insufficiente impostazione classistica della sua tesi. Proletariato e borghesia sono due classi irreconciliabilmente nemiche. Pertanto come in ogni lotta è buona regola sfruttare la momentanea debolezza dell’avversario per debellarlo, così il proletariato può e deve nel momento attuale sfruttare il vantaggio che gli deriva dal marasma in cui versa la società capitalistica italiana, per infliggere il colpo mortale».

Nel numero 8 del 23 aprile c’è ancora una risposta, “I lavoratori del Mezzogiorno”, al giornale liberale La Libertà, in cui viene detto che l’unica soluzione alla guerra e alla miseria è l’abolizione del sistema economico capitalistico che ne è la causa.
«L’obiezione che rivolge La Libertà ai sostenitori della collettivizzazione, è quella che la sua minaccia terrà lontani dallo sforzo di ricostruzione dell’economia italiana i capitali stranieri. Orbene, a questo proposito bisogna avere il coraggio di guardare fino in fondo. Se il popolo italiano crede di poter contare sui capitali stranieri per la ricostruzione della sua economia, commette due errori gravissimi. I capitali stranieri non hanno, in primo luogo, nessun interesse alla rinascita industriale dell’Italia. La guerra ha imposto ai maggiori paesi belligeranti, e soprattutto all’Inghilterra ed agli Stati Uniti, un’industrializzazione spinta all’estremo. Vinta la guerra, le industrie anglo-americane si troveranno nella difficile situazione di dover trasformare la loro attrezzatura produttiva di guerra in una attrezzatura produttiva di pace senza poter liquidare alcune delle grandi aziende createsi per la guerra, se non vogliono gettare i loro paesi in una crisi di disoccupazione gravida di pericolose conseguenze sociali. In questa condizione esse avranno tutto l’interesse ad impedire che altre industrie sottraggano loro mercati, e non aiuteranno certo altri Paesi a crearsi o a ricostruire quell’attrezzatura industriale che ne farebbe automaticamente dei concorrenti. In secondo luogo – e qui s’investe la questione più generale – perché ricostruire un sistema che si è autodistrutto, e che ha in sé stesso gli elementi della distruzione? Se una lezione si può trarre da queste ultime due guerre mondiali è proprio quella che il capitalismo ha ormai raggiunto la fase (da Lenin così acutamente analizzata nell’opera “L’imperialismo come ultima fase del capitalismo”), nella quale la sua espansione necessita di guerre ricorrenti a scadenza sempre più breve, e sempre più generali e distruttive. Se i popoli vogliono evitare di ricadere tra venti anni in una nuova e più massacrante guerra debbono abolire fino alle radici il sistema economico che ne è la causa: il sistema economico capitalistico.
«Certo nessuno crede che la socializzazione sia “la panacea dei mali presenti o la verga magica che caverà oro dalle pietre”. È bene anzi che i lavoratori, e particolarmente quelli dell’Italia Meridionale, si rendano conto che la somma dei mali arrecati al Paese dal sistema capitalistico e dalla guerra imperialistica è tale che solo un enorme e prolungato [periodo] di coscienti e coraggiosi sacrifici potrà sanarli.
«Sappiamo tutti, e tutti senza infingimento riconosciamo che siamo poveri ma appunto per questo non dividiamo i pochi beni rimasti ad alcuni fortunati (che non in questo consiste certo la socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio), ma il lavoro organizzato per l’interesse collettivo potrà prima lenire, e poi eliminare la miseria».

Nel numero 14, del giugno 1944, abbiamo un articolo su un intervento d’Enrico Russo a Castellammare, che invita i proletari a diffidare di coloro che parlano con gran facilità di ricostruzione industriale e di partecipazione alla guerra, e a prepararsi per una lotta da pari a pari con la rinascente borghesia.
«Domenica scorsa, 28 maggio, si è recato a Castellammare il compagno Enrico Russo ed ha parlato al proletariato locale su più importanti problemi del momento. Il compagno Russo ha soggiunto che i lavoratori non devono farsi illusioni sull’immediata rinascita della nostra industria: tra l’altro è molto prematuro parlarne oggi con l’Italia campo di battaglia e quasi completamente devastata dalla guerra. Enrico Russo ha detto che è molto facile parlare di guerra e di partecipazione alla guerra ma è molto difficile, tenendo conto delle attuali circostanze, fare qualcosa che effettivamente risponda alle nostre più vive esigenze. Il compagno Russo con la franchezza che lo distingue, ha ironizzato sui soliti acrobati della politica che cambiano opinione ogni settimana si trovano sempre pronti allo... “armiamoci e andate a combattere”. Trattanto dell’organizzazione del proletariato Enrico Russo ha sottolineato la necessità di riunirsi nei sindacati e nella grande organizzazione che è la CGL. Questa necessità è immediata: bisogna svegliarsi e unirsi per lottare da potenza a potenza con la rinascente borghesia. Il compagno Russo ha avuto parole energiche contro tutti gli individui che cercano di ingannare le masse lavoratrici per perpetuare un inganno vergognoso. Russo è stato molto frequentemente interrotto da applausi accompagnati alla fine da un vero plebiscito di lavoratori».

Unità e Libertà sindacale

Fin dal primo numero di Battaglie s’insiste sull’importanza dell’unità sindacale e di un sindacato che sia apartitico ma non apolitico. Leggiamo infatti “Per l’unità sindacale”, sul tema della tanto dibattuta “libertà sindacale”:
«È necessario precisare anzitutto che le libere organizzazioni sorgono sì sulla piattaforma da tutti ammessa e riconosciuta della libertà sindacale, ma che questa libertà sindacale trova un limite preciso e severo nello scopo stesso dell’attività sindacale: l’interesse della classe lavoratrice. Ora è di facile comprensione per tutti che la classe lavoratrice è tanto più forte quanto più è compatta ed unita; e che le sue organizzazioni hanno tanto maggiore efficacia ed autorità verso i poteri statali e la classe padronale, quanto più esse possono dirsi rappresentanti dell’intera massa lavoratrice. Pertanto è evidente che la libertà sindacale non può e non deve significare un frazionamento della massa in diversi sindacati.
«L’unità sindacale è un’esigenza imprescindibile della classe lavoratrice. Se ogni partito politico volesse creare un suo proprio sindacato per ogni categoria di mestiere, si farebbe con ciò il gioco e l’interesse della classe padronale, la quale avendo di fronte a sé più sindacati, ognuno dei quali pretenderebbe di rappresentare la massa dei lavoratori di quel dato mestiere, finirebbe col non riconoscere nessuno dei tanti o col riconoscere quello più accomodante, e cioè proprio quello che meno e peggio difenderebbe che interessi della classe: comunque si gioverebbe della divisione della classe lavoratrice per continuare ad imporre lo sfruttamento più sfrenato generale. Sindacati unici, quindi: e sindacati raggruppati in un’unica organizzazione sindacale generale.
«Infine, sembra davvero strano che, mentre da tutti viene accettata e sentita l’unità politica dei partiti antifascisti, questa stessa unità si volesse sabotare proprio in quel campo, il campo sindacale in cui è più naturale che necessaria».

Ci si torna nel secondo numero del giornale, del 27 febbraio:
«Dal punto di vista sindacale, dopo il 25 luglio si sono imposti gravi interrogativi: se sia più opportuno utilizzare il vecchio apparato sindacale fascista, oppure crearlo “ex novo”; ancora, se sia preferibile il sindacato unico riconosciuto dallo Stato o il Sindacato libero. Si tentò da parte dei compagni Buozi e Roveda di utilizzare l’apparato fascista: e questo tentativo, in quelle circostanze, non poteva non essere fatto. Ma occorre rendersi conto che un simile tentativo ritentato ora urterebbe contro la necessità di sottrarre il Sindacato al controllo statale. Il Sindacato deve essere libero, unitario sì, ma non traente la sua unità dal riconoscimento giuridico dello Stato. Infatti, il Sindacato può trovarsi nella condizione di dovere ingaggiare una lotta proprio contro lo Stato: ed è evidente quanto sarebbe danneggiato in questo caso dal controllo dello stesso Stato. Ciò va posto come imprescindibile premessa. Del resto, il proletariato stesso, quando ha potuto ha manifestato chiaramente la sua volontà di far risorgere la Confederazione Generale del Lavoro.
«Con i Democratici Cristiani sono state iniziate trattative tuttora in corso, che, però, sono gravemente compromesse dal comunicato pubblicato in proposito dal Partito Democratico Cristiano sul “Risorgimento” del 18 febbraio. Comunque è necessario chiarire che la unità sindacale è assolutamente desiderabile, purché non significhi indebolimento dell’organizzazione sindacale.
«Il fatto che la CGL non si confonda e non debba confondersi con nessun partito politico non vuol dire che la CGL sia apolitica. Essere apolitici significa assistere indifferenti all’oppressione del più debole da parte del più forte e perciò la CGL non intende e non può essere apolitica. Essa è chiamata dalle stesse ragioni del suo essere a svolgere una politica di classe».

E più oltre: «Di Bartolomeo (...) circa l’unità sindacale, afferma che essa può essere raggiunta solo sulla piattaforma della lotta di classe. La CGL vuol fare di tutto perché anche le masse cattoliche s’inquadrano in essa, ma a patto che non siano compromessi gli interessi proletari; può e vuole collaborare con tutti, ma a condizione che la ricostruzione sia a vantaggio degli operai e non del capitalismo».

Nel numero 5 del 2 aprile 1944 c’è la risposta ad un articolo del giornale La Libertà che criticava il concetto d’unità sindacale preferendogli quello di pluralità, data la presunta divergenza d’interessi tra i vari settori e le varie situazioni regionali dei lavoratori italiani. La risposta, “Unità e disunione”, non lascia spazio ad ambiguità sostenendo con forza l’unità di classe dei proletari e l’interesse dei capitalisti ad avere un proletariato diviso e quindi più debole.
«La Confederazione Generale del Lavoro, afferma la necessità dell’unità sindacale e sostiene il suo punto di vista, asserendo che, soltanto attraverso un organismo capace di rappresentare la collettività degli interessi di una determinata categoria di lavoratori, si può avere la forza sufficiente per contrapporsi agli interessi della classe padronale.
«“L’esperienza dimostra invece, che dove vi fu piena libertà d’organizzazione e dove questa pose capo ad un’associazione professionale i vantaggi furono tutti delle classi privilegiate”. Vuole La Libertà essere così gentile da segnalarci casi concreti in cui la disunione abbia dato migliori frutti che non l’unione? Questa volta però la libertà d’associazione, secondo il signor Cassandro, ha avuto buon esito solo dove pose capo a più d’una associazione professionale: e dove invece pose capo ad una associazione unitaria? Su questo caso, proprio non gliel’avete tirato un moccoletto a questa libertà che faceva la cattiva e non voleva ubbidirvi?
«Ma ora signori ecco il pezzo forte: “Ma dove bisogna dissentire più decisamente con i rappresentanti della CGL è nei riguardi della necessità dell’aggruppamento o fusione di tutte le organizzazioni Sindacali in un unico grande organismo. Non se ne vede la necessità nemmeno quando si resta nel campo puramente economico. I lavoratori del Mezzogiorno o di talune parti del Mezzogiorno hanno interessi diversi da quelli dei lavoratori di altre parti del Mezzogiorno, e, più, dell’Italia Settentrionale e dovranno ingaggiare la lotta perché le industrie nostre non siano destinate ad essere soltanto un completamento o appendice, delle industrie del nord. Potrebbero le loro aspirazioni essere adeguatamente rappresentate da un organo generale che conta soprattutto, per evidenti ragioni sull’appoggio delle masse lavoratrici settentrionali?”. Perciò, se comprendiamo giustamente, gli interessi delle masse lavoratrici del Mezzogiorno sarebbero validamente sostenute, secondo La Libertà, da un’organizzazione regionale di lavoratori meridionali da contrapporsi ad una settentrionale.
«O gran sagacia di liberali: o non vi siete accorti che, senza volere, avete gettato la maschera e avete confessato la unica vostra preoccupazione?: quella di servirvi della disunione sindacale e della artificiosa contrapposizione di masse, per difendere determinati interessi capitalistici? Oppure credete proprio che gli interessi dei lavoratori del Sud Italia si difendano organizzandoli contro quelli del Nord Italia, e avete fiducia che si ottenga da ciò un qualche risultato positivo oltre quello, indubitato, di indebolire la forza dei lavoratori nei confronti dei datori di lavoro?
«Gli interessi economici sono eguali, nella loro impostazione generale, per ogni categoria di lavoratori. Tali interessi sono necessariamente contrapposti agli interessi della classe padronale. Se tale contrapposizione non esistesse, non vi sarebbe evidentemente bisogno né di organizzazione unitaria né di organizzazioni molteplici: ma poiché tale contrapposizione esiste e determina il carattere dell’organizzazione della classe lavoratrice, qualunque disunione è deleteria per gli interessi e la forza dei lavoratori. Qualunque disunione è invece necessariamente favorevole agli interessi della classe padronale.
«L’unità che noi vogliamo è la prova del disinteresse politico che noi abbiamo alla difesa degli interessi economici dei lavoratori, di qualunque tendenza o fede politica essi siano. La disunione alla quale spingono i liberali e altre correnti politiche è invece proprio in funzione diretta della loro preoccupazione politica di accaparrarsi masse operaie distogliendole dai loro reali interessi e dall’unica via per difenderli degnamente: l’unità e la compattezza».

Sul rapporto con i partiti politici

L’indipendenza dai partiti politici è affermata nel secondo numero del giornale, in “Organizzazione sindacale e partiti politici”, riferente gli interventi al Congresso.
«Tra i molti risultati di positiva chiarificazione raggiunti nel Congresso di Salerno, uno ci preme mettere particolarmente in rilievo. Nei dibattiti, sereni ma ricchi di contenuti, che hanno caratterizzato le tre giornate del Congresso, è affiorato spesso e con matura esplicitezza il problema dei rapporti tra l’Organizzazione Sindacale ed i Partiti politici. Pur non essendo stato votato alcun ordine del giorno sullo specifico proposito, la stragrande maggioranza, anzi la quasi totalità dei congressisti si e chiaramente e decisamente pronunziata sulla questione, nel senso che i rapporti ineliminabili tra organizzazione sindacale e partiti politici debbono essere rapporti di assoluta distinzione. I rapporti sono ineliminabili, perché un numero notevole di lavoratori non sono soltanto degli organizzati sindacalmente, ma sono anche, e forse prima di ogni altra cosa, dei militanti di un determinato partito politico. Ma debbono essere rapporti di assoluta distinzione, perché è indispensabile, ai fini stessi dell’attività sindacale, che nell’organizzazione possano entrare come in casa propria tutti i lavoratori, non solo appartenenti a qualsiasi partito politico, ma anche non appartenenti a nessun partito, o addirittura apolitici. Solo in tal modo è realizzabile quell’adesione in massa dei lavoratori all’organizzazione sindacale, che è indispensabile per fare dell’organizzazione stessa uno strumento efficiente di lotta per la tutela degli interessi economici della classe proletaria.
«Ma, a ben considerare, questa distinzione non corrisponde soltanto agli interessi economici della classe lavoratrice, ma anche agli interessi politici dei partiti. Infatti, ogni partito che sia sinceramente e sinceramente convinto della fondamentale giustezza dei suoi atteggiamenti ideologici e tattici, e quindi ogni partito che abbia quelle caratteristiche di serietà e di onestà che lo rendono degno di essere preso in considerazione, ha tutto l’interesse ad esser messo in contatto, attraverso i suoi militanti iscritti ai Sindacati, con i più larghi strati di masse raccolti nelle organizzazioni sindacali. Questo interesse è oggi tanto maggiore, in quanto difettano quelle possibilità (stampa, trasporti, assemblee, comizi, radio) che in tempi normali consentono ai partiti politici di avvicinarsi alle masse. Ogni partito, nella misura in cui sono giunte le sue parole d’ordine nella lotta di classe realizzata nell’organizzazione sindacale, potrà guadagnarsi sempre più larghi strati di lavoratori, e trasformare le masse apolitiche o d’altra tendenza in masse di partito. Laddove se un’organizzazione sindacale fosse monopolizzata da un partito, i lavoratori non appartenenti a quella tendenza non vi entrerebbero, e si renderebbe impossibile quella fusione di masse che si realizza attorno alle parole d’ordine giuste, come ogni partito deve credere che siano le sue.
«Ma questa non è la sola ragione che spinge noi, come la maggior parte dei congressisti di Salerno, a desiderare la distinzione tra l’organizzazione sindacale ed i partiti politici. Vi è un’altra ragione di carattere tattico, ma di non minore importanza. Ove l’organizzazione sindacale si legasse ad un qualsiasi partito politico, finirebbe per legare anche la sua sorte a quella del partito politico. E se per avventura o per sventura, il partito politico in questione adottasse una tattica errata, che lo conducesse al fallimento, l’organizzazione sindacale sarebbe trascinata con lui nella disfatta. E questa non è solo una possibilità supposta: è proprio quel che si verificò negli anni dal ’19 al ’21 alla CGL per il patto di unione con il Partito Socialista di allora.
«Laddove, invece la distinzione tra partito politico ed organizzazione sindacale rende possibile al partito politico che adotti la tattica giusta di raccogliere attorno a sé le masse sindacali, e rende anche possibile la conservazione e la salvezza dell’organizzazione stessa, nell’interesse dei lavatori tutti, nel caso peraltro deprecabile che uno o più partiti politici costituiti errassero nelle loro direttive tattiche, ed incontrassero per conseguenza una disfatta».

Il sabotaggio dei nazional-comunisti

Scrive Arturo Peregalli né “L’altra Resistenza”: «L’impostazione del nuovo sindacato che si sta diramando in Campania e nelle altre regioni del Sud è decisamente classista e ciò porta ad uno scontro con la direzione del PCI, che punta invece sull’unità con le altre classi in funzione della liberazione nazionale». Leggiamo ancora: «In una riunione dei rappresentanti delle Federazioni comuniste dell’Italia liberata il 21 e 22 dicembre [1943] la direzione prospetta la necessità di promuovere un sindacato “unitario”, comprendente cioè tutte le forze nazionali. Tale proposta viene avanzata proprio quando la CGL sta riscuotendo un notevole successo, cioè dopo il Convegno che si era svolto a Napoli e dopo che L’Unità era stata costretta a riconoscerne la piena riuscita».

In opposizione al Congresso di Salerno il PCI della Campania parla di “Unità nazionale contro l’hitlerismo”. Togliatti al suo arrivo lancia l’alleanza con la monarchia e dice ai lavoratori, come riporta L’Unità del 2 aprile 1944, che essi non devono ispirarsi a nessun “sedicente interesse di classe”, ma solo all’interesse nazionale.

In quest’ottica la CGL di Napoli è quindi un pericolo in quanto possibile e in parte già reale coagulo della resistenza di classe alla politica social-patriottica dei “centristi” togliattiani, e quindi, consapevoli o no, agli interessi nazionali e degli imperialismi. Togliatti stesso cercò di convincere Russo alla politica di “unità nazionale”, e non avendo successo cominciò da parte della direzione del PCI un’opera costante di attacchi e di denigrazione nei confronti della CGL e dello stesso Russo, con calunnie e sabotaggi.

Questo trafiletto, dal numero 7 del 16 aprile 1944, “Un ammonimento”, è una sobria ma chiara testimonianza dei questo fatto. «Da alcuni elementi è stata fatta, e purtroppo si continua a fare, opera disfattista contro l’organizzazione sindacale, incitando gli operai a non iscriversi ai Sindacati ed alle leghe, e a non versare le quote di associazione. Il peggio è che questi elementi sono proprio quelli che invece dovrebbero fare propaganda tra gli operai perché rafforzino le loro organizzazioni di classe. La CGL non intende per ora raccogliere queste provocazioni. Ma ove esse avessero a ripetersi, la CGL andrà fino in fondo nelle investigazioni, e denunzierà direttamente alle masse, attraverso la stampa e le assemblee, le proprie responsabilità».

In occasione del 1° maggio la CGL indice una manifestazione a cui si uniscono PCI e PSIUP con parole d’ordine decisamente patriottiche, con l’auspicio che tutte le forze italiane dell’antifascismo scendano in campo e che tutti i cittadini “che amano la libertà” combattano per la liberazione e per la redenzione del loro paese.

Nel numero 10 del 7 maggio c’è una “Risposta all’Unità”, che accusa la CGL d’anticomunismo. Oltre a rigettare l’accusa si invita, senza spirito polemico, il PCI ad essere meno morbido nei confronti del governo e meno accoglienti nei riguardi dei molti ex-fascisti che stavano entrando a farne parte, anche in funzioni di direzione. Ovviamente le parole d’ordine patriottiche del PCI, che provocavano disorientamento all’interno, erano accolte favorevolmente all’esterno.
«Anticomunisti noi, o qualcuno di noi? Ebbene parliamoci chiaro: se per anticomunismo si intende l’essere contro le miserie di alcuni che osano chiamarsi comunisti, e non sono che degli spregevoli mentitori; se si intende rivendicare il diritto di critica e libertà, nelle file del partito e al di fuori del partito, noi accettiamo l’accusa. Ma, al di fuori di questo, mai, nessuno di noi della CGL, né in Italia né all’estero, ebbe atteggiamenti che possono giustificare la solida formula di anticomunismo. Vi è stato, è vero, purtroppo, da parte di qualche partito il vezzo di stroncare chiunque non accetti supino il verbo ufficiale dei dirigenti, con tentativi d’insinuazione e di calunnie, ma questo è proprio quello che voi dovete avere il coraggio di eliminare, se avete veramente al cuore, come non dubitiamo abbiate, l’unità del movimento sindacale e, in definitiva, l’unità del proletariato italiano.
«E allora di che cosa credete di accusare? Forse che non incensiamo troppo il governo, anche se composto in parte di compagni? Ebbene, diciamo una parola chiara anche a proposito del governo: noi non lo incensiamo troppo, perché ne fanno parte sì dei compagni, ma anche degli autentici reazionari e della gente legata al passato e compromessa col passato, e temiamo, anzi, sappiamo, che i nostri compagni lavoratori dell’Italia oppressa non possono aver fiducia di un governo che non esprime la volontà e la necessità di rinnovamento del popolo italiano. E per un’altra ragione non incensiamo il governo, per questo che lo aspettiamo all’opera. Ci compiacciamo che questa formula “uomini integri” venga da voi: interpretiamo la formula nel senso che voi abbiate deciso di mettere alla porta, quanto meno di non accogliere più nelle file del partito comunista, uomini bacati, che hanno servito il fascismo e che oggi tentano di farsi perdonare le loro malefatte inserendosi nei ranghi dei partiti antifascisti».

Nel numero 13 del 28 maggio leggiamo un trafiletto, “Da Napoli”, in cui Vincenzo Iorio rende nota la propria espulsione dal PCI e in cui Russo e Viglione ribadiscono la loro fiducia nel compagno e nella sua attività di sindacalista.
«Un’importante assemblea del Consiglio delle Leghe si è tenuta lunedì scorso presenti 37 rappresentanti delle Leghe. È intervenuto anche il compagno Enrico Russo. Il compagno Iorio, segretario della CGL, ha comunicato al consiglio la sua avvenuta espulsione dal Partito Comunista, espulsione motivata con l’accusa di frazionismo e disgregazione, di carattere quindi esclusivamente ideologico. Egli, però, ha ritenuto suo dovere convocare il Consiglio delle Leghe, per sapere se la sua nuova posizione gliene conservava ancora la fiducia, senza la quale egli non si sentiva di poter continuare efficacemente l’opera fin qui svolta in difesa delle masse. Dopo animata discussione, alla quale è intervenuto anche il compagno Russo, e dopo che era stato respinto un ordine del giorno proponente la sospensiva con 25 voti contrari contro 15 favorevoli e due astenuti, è stato presentato un ordine del giorno di plauso all’opera svolta fin qui dal compagno Iorio, con la conferma della piena fiducia. Questo o.d.g. ha ottenuto 26 voti favorevoli e 2 contrari, con 3 astensioni».

Nel numero 14 del giugno 1944 leggiamo una risposta di Iorio ad un articolo de L’Unità calunnioso nei confronti suoi e della CGL, in cui emerge per l’ennesima volta il sabotaggio praticato dal PCI nei confronti del sindacato.
«Il compagno Iorio risponde all’Unità. Al momento di andare in macchina, leggiamo sull’Unità un articolo diretto alla CGL, contenente critiche ingiuste e tendenziose. Risponderemo ampiamente nel prossimo numero. Intanto diamo pubblicazione alla lettera nella quale il compagno Iorio espone quanto per suo conto ha da rispondere.
«Care Battaglie Sindacali, in un articolo apparso sull’Unità di ieri leggo qualche cosa a cui vale la pena di rispondere. Il “preteso consiglio delle leghe”, di cui tratta l’articolo, era rappresentato da tutti i segretari di leghe di federazioni regolarmente convocati attraverso la stampa e per invito diretto. Il male è che io tutto faccio alla luce del sole e in modo assolutamente democratico. I verbali di costituzione e tutte le pratiche sono a portata di mano di troppa gente per poter smentire che i presenti rappresentassero le categorie dalle quali furono eletti. Tagliamo corto. Noi non impediamo il tesseramento, anzi lo sollecitiamo, e di questo ne fanno fede gli organizzati ai quali mi appello. Chi impedisce il tesseramento, sono coloro che eventualmente hanno suggerito l’articolo falsando la verità. Nessuna verifica è stata negata perché il presidente eletto all’unanimità n’assunse la responsabilità dato che aveva riscontrato la legittimità dei rappresentanti. Le Leghe non esistono? Bugiardo e disgregatore è colui che afferma ciò. Non è il seggio che m’interessa, ma è l’organizzazione che preme: gli uomini passano, ma nessuno rimane. Coloro che hanno riferito il falso, si sono mai prodigati per aiutarmi alla costituzione delle leghe? Quando per il partito a cui appartenevo non ero un “Disgregatore” ed a cui chiedevo aiuti di compagni, questo partito rimaneva muto: non ne aveva!!! Ebbene io ha fatto da solo e con l’aiuto di un pugno di volenterosi. Le cifre delle vertenze fatte e vinte per i lavoratori parlano chiaro. Queste cifre le conoscono i lavoratori stessi e tu caro Battaglie Sindacali che segui questa Camera del Lavoro nel suo diuturno lavoro. Lasciateci lavorare in pace o piuttosto venite a lavorare con noi. C’è posto per tutti e vi garantisco che non saremo mai troppi per difendere gli interessi delle masse, fin troppo stufe di coloro che criticano e non costruiscono. Il nostro compito è chiaro: Lavorando ricostruendo e potenziando i sindacati. Per l’altra parte dell’articolo lascio a te la parola. Grazie, Iorio Vincenzo».

Infine nel giugno 1944, con il Patto di Roma, il PCI, insieme al PSIUP e alla DC, decidono di creare “dall’alto” la CGIL, un sindacato che abbiamo chiamato tricolore, nato come patriottico e come specchio dei nuovi rapporti interimperialistici.

Dal nostro Comunismo numero 1 leggiamo: «I sindacati formalmente liberi formati nel secondo dopoguerra sono i continuatori del sindacalismo statale fascista, sono “cuciti su modello Mussolini”. La loro funzione, infatti, è quella di tenere la classe operaia inchiodata alla solidarietà nazionale, di impedire che essa si muova sul terreno di classe, di far sì che gli operai non si sentano una classe separata ma una “componente della nazione. Spinti dalla pressione operaia i sindacati tricolore sono costretti anche da indire scioperi: essi lo fanno però in modo tale che queste azioni risultino delle semplici dimostrazioni, proteste formali, non mai delle vere battaglie di classe. Essi sabotano qualsiasi rivendicazione, qualsiasi lotta che metta in pericolo l’ordine capitalistico. Come i sindacati fascisti essi si muovono: “suonando sull’accordo nazionale il motivo della lotta al padronato” e la loro specifica funzione è quella di “togliere ai movimenti rivoluzionari di classe futuri la solida base di un inquadramento sindacale operaio veramente autonomo”».

L’articolo 1 dello Statuto della CGIL recita: «La CGIL è un’organizzazione nazionale di lavoratori. Essa organizza i lavoratori che (...) considerano la fedeltà alla libertà e alla democrazia fondamento permanente dell’attività sindacale. La CGIL pone a base del suo programma e della sua azione la Costituzione della Repubblica Italiana»

Diceva Togliatti nel 1944: «Noi sappiamo di parlare non un linguaggio di classe, non un linguaggio di Partito; noi parliamo un linguaggio di popolo e di Nazione, noi parliamo a nome di tutta l’Italia e noi sappiamo di parlare nell’interesse stesso delle grandi nazioni democratiche alleate e in particolare delle nazioni anglosassoni».

La Terza Internazionale era finita come la Seconda, nel fango, e nel sangue dei proletari mandati al macello sui rispettivi fronti nel nome della Patria. La CGIL, creata dall’alto dai tre principali partiti del CLN, fra i quali i fedeli esecutori delle due Internazionali ex-socialista ed ex-comunista, non poteva certo difettare nella incondizionata sottomissione alle ipoteche patriottiche e borghesi.
 

(Continua al n. 65)

 
 
 
 
 
 
 
 
 


La questione ebraica oggi

Capitolo esposto a Cortona, ottobre 2004.

[Qui raccolta e riordinata]
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Dall’Archivio della Sinistra
 

L’Internazionale Socialista, in preparazione del congresso di Basilea, aveva indetto nelle principali città europee una serie manifestazioni contro la guerra per la domenica del 17 novembre 1912. A riprova del carattere internazionalista proletario, in ogni comizio, agli oratori locali, si sarebbero dovuti alternare i più rappresentativi dirigenti stranieri.

L’Avanti! del giorno 18, sotto il grande titolo “ULTIME NOTIZIE DELLA NOTTE - L’Alleanza del Proletariato Europeo per impedire con ogni mezzo la Guerra”, riportava, in modo succinto ma entusiastico, le notizie giunte per telefono e telegrafo sulle grandiose manifestazioni che si erano tenute a Parigi, Berlino, Londra, Madrid.

A Torino il compagno Mitscke portò la testimonianza dell’avversione alla guerra dei proletari tedeschi. A Roma, a nome del proletariato francese, avrebbe dovuto parlare Gustavo Hervé, se non fosse stato fatto arrestare e rinchiudere nel carcere di Regina Coeli per diretto ordine del democraticissimo Giolitti. Lo sdegno per l’arbitrario arresto fu tale che in ogni luogo d’Italia il proletariato scese nelle strade e nelle piazze per protestare contro la guerra e contro il governo. Il citato numero dell’Avanti! riporta notizia di manifestazioni anche in paesi minori come Sarzana o Canneto sull’Oglio. Infatti il P.S.I. aveva chiamato il proletariato a manifestare la sua indignazione diramando il seguente O.d.g.: «La Direzione del Partito Socialista Italiano, riunita d’urgenza di fronte all’arresto di Gustavo Hervé venuto a Roma a rappresentare il partito socialista francese al comizio internazionale contro la guerra; ritenuto che mentre l’arresto costituisce un oltraggio gravissimo al più elementare diritto delle genti, e che l’arresto voleva nella mente del Governo essere un’aggressione al partito socialista italiano tornato alla sua specifica funzione di “partito di classe”; denuncia a tutte le sezioni del partito ed al proletariato socialista la condotta vilmente reazionaria del Governo, e le invita ad estendere a tutto il paese la doverosa protesta nelle forme più energiche, e manda un saluto di fraterna solidarietà a Gustavo Hervé e al partito socialista francese».

A Napoli, al termine del comizio di protesta, venne votato il seguente O.d.g. che, forse unico in tutt’Italia, non lasciava adito ad interpretazioni: «I lavoratori vesuviani, riaffermando la solidarietà col proletariato internazionale che si prepara a rispondere con l’insurrezione alla proclamazione di una guerra europea, rifiutando ogni solidarietà nazionale col governo borghese che arrestava il compagno Hervé, protestano indignati contro Giolitti e contro la borghesia e inviano un saluto entusiasta e fraterno a tutti i senza-patria del mondo».

Quello che riportiamo è il resoconto, così come apparve sull’Avanti! del 18 novembre, del comizio tenutosi a Milano. Significativo è l’intervento di Mussolini, se si pensa che solo due anni dopo avrebbe rinnegato una per una tutte le parole pronunciate in questa occasione raggiungendo le posizioni di Hervé, già da tempo passato al più nauseante sciovinismo. Questo a dimostrazione di quanto poco contino, nello svolgersi storico e nello scontro delle classi sociali, gli uomini-individuo e quanto, al contrario, siano solo delle “povere marionette”, specialmente se si illudono di “fare la storia”.

Però le forti emozioni espresse nel resoconto della manifestazione milanese ci suonano povere di contenuto e sentimentali e si capisce quanto sia debole quel partito che, professandosi, per bocca di tutti gli oratori, avversario incondizionato della guerra, non pone mai, come al contrario avevano fatto i compagni campani, la ineluttabile necessità dello scontro diretto di classe, della insurrezione. Nemmeno il rivoluzionario Mussolini si sente di pronunciare questa parola d’ordine attestandosi sulla più ambigua minaccia: «se la borghesia vorrà tentare il gioco supremo, il proletariato saprà approfittarne per le sue specifiche rivendicazioni».

Per sentir pronunciare in modo netto il richiamo alla “guerra sociale” si dovrà attendere l’intervento dell’ospite anarchico.

A confermare l’incapacità rivoluzionaria dell’Internazionale Socialista, al di là delle deliberazioni ufficiali, saranno i fatti successivi e a tutti noti. La ripubblicazione del resoconto della manifestazione milanese, ma che potrebbe essere stata di qualsiasi altra grande città d’Europa, serve ad evidenziare la entusiastica partecipazione del proletariato, il suo schietto internazionalismo e la sua netta avversione ad ogni guerra fra Stati. Sani istinti ed energie che però solo un partito comunista rivoluzionario avrebbe potuto, e potrà rappresentare, non nell’imporre la pace ma nell’imporre il comunismo.
 
 
 
 

LA GIORNATA STORICA DELL’INTERNAZIONALE OPERAIA
L’imponente Comizio di ieri a Milano
 

 L’Internazionale socialista e proletaria ha parlato. Ha parlato in cento comizi nelle principali città d’Europa e la significazione pacifica e decisa di queste grandi simultanee adunate di popolo non è certo sfuggita agli uomini che reggono i destini politici delle nazioni. È stata una specie di primo esperimento di mobilitazione dell’esercito proletario. È stata una prima tangibile affermazione dell’internazionalismo che esce dal regno delle utopie e si afferma nella palpitante realtà della vita.
 È stata una prima demolizione delle barriere erette dalla borghesia per perpetuare attraverso la vecchia gesuitica formula del “divide ed impera” il suo dominio di classe. L’Internazionale borghese e i borghesi che sono da perfetti internazionalisti nella mentalità, negli affari, nei costumi, ha gettato un guanto di sfida all’Internazionale proletaria e questa lo ha raccolto.
 Il proletariato si prepara. Sente la gravità e l’imminenza del pericolo. Domani – speriamolo! – il proletariato sarà pronto. La manifestazione di ieri non è passata inosservata malgrado l’evidente boicottaggio della stampa borghese. Bisogna continuare. È la prima giornata storica dell’Internazionale. Il proletariato è entrato in scena come attore nel gran dramma il cui epilogo non può essere dubbio.

Alla Casa del Popolo

 Lo spettacolo delle folla innumere e ardente di fede che si è dato convegno al Teatro del Popolo, è veramente suggestivo. Il comizio internazionale contro l’eventualità di una guerra europea riuscirà meravigliosamente. Invano pochi disturbatori, corti di cervello, tenteranno di interromperne la solennità. In un fervore ideale di parola negli oratori e di commozione dell’uditorio, questa solenne assise proletaria, indetta per deprecare qualsiasi criminosa impresa bellica, giungerà al suo termine alta e regale come l’espressione purissima di tutta l’anima grande del popolo.
L’on. Rigola
 Rinaldo Rigola, segretario della Confederazione Generale del Lavoro è nominato presidente e prende senz’altro la parola.
 Sopprime la lettura, perché troppo lunga, delle adesioni, per evitare una quasi inutile perdita di tempo, e anche perché le adesioni verranno pubblicate dai giornali.
 – Io dirò – incomincia poi Rigola – brevi parole a nome della Confederazione Generale del Lavoro; voi conoscete l’atteggiamento preso da questa di fronte alla guerra libica, gesta inutile e disastrosa che non è però da mettere, come noi infatti non mettiamo, in relazione con l’attuale guerra orientale. Soprattutto il pericolo che ci minacciava l’anno scorso non è da mettere in relazione con quello che incombe su di noi oggi. I popoli balcanici si preparavano da lunga data alla guerra; la guerra nostra, il fatto di Tripoli che indebolì la Turchia, è stato l’occasione. E il pericolo grava ancor più su di noi. Ma i socialisti e i proletari come si sono opposti alla guerra italo-turca si oppongono a quella balcanica. Noi pur non mettendo a paragone le due guerre, sentiamo e dichiariamo che il proletariato ha fatto bene a mettersi contro a questa nuova lotta per non avere la responsabilità di un disastro europeo.

Otto Glöckel

 Salutato da grandi applausi comincia a parlare il rappresentante dei compagni austriaci.
 – Non mi è mai doluto tanto di non possedere la vostra armoniosissima lingua, quanto in questo momento nel quale debbo porgere a voi, raccolti in questa magnifica sala, il saluto solidale del partito socialista dell’Austria e della frazione socialista del parlamento austriaco.
 Però una cosa mi consola ed è la coscienza di essere, ad onta di questa difficoltà, compreso da voi, fratelli, anche se voi non capite la mia lingua. Siamo animati dalle medesime idee, ci entusiasma la stessa fede; ci unisce lo scopo comune, cioè l’emancipazione del proletariato dai legami umilianti del capitalismo, l’elevamento del popolo lavoratore ad un grado superiore di coltura intellettuale e morale, la formazione di una organizzazione ben solida e battagliera la quale, superando tutti gli ostacoli e spianando tutti gli impedimenti saprà condurci alla agognata vittoria.
 Ed è per questo che con vera gioia sono corso fra di voi dall’impero vicino onde testimoniare che siamo tutti di un sol pensiero, e che confini arbitrari e segnati dal caso non valgono a dividerci nella condanna più recisa e perentoria della guerra.
Lo sterminio della guerra
 Nuovamente è giunto un tempo di decisioni terribili e sanguinose. La sterminatrice furia guerresca imperversa traversando territori vastissimi e città e villaggi, già floridi di vita, consumati dal fuoco, ne segnano quali orribili fiaccole la via; superbi e meravigliosi prodotti, che allo spirito umano sono costati secoli di lavoro e di fatica, si trasformano in sanguinosi strumenti di guerra (applausi vivissimi).
 In un tempo in cui la diplomazia tradizionale è venuta meno al suo compito, sorpresa dagli avvenimenti, che non ha saputo né prevedere né regolare; in cui si avanza minaccioso l’orribile pericolo di una conflagrazione europea, è necessario che le masse popolari facciano sentire la loro voce; quelle masse che, quando il pericolo si fa imminente, non possono come i diplomatici chiedere i passaporti e abbandonare il terreno scottante sul quale si combatte e si muore (un’ovazione scrosciante interrompe l’oratore), quelle masse che non possono come i grandi de’ regni e degli imperi, ne’ loro palazzi e castelli lussuosi, dare il segnale dell’attacco e che poi, distanti decine e centinaia di miglia dalla mortale pioggia dei proiettili si scambiano graziosamente le decorazioni guerresche, pel coraggio e il valore dimostrato dagli altri (l’ovazione si ripete). Quelle masse i cui figli il giorno del cimento sono comandati nelle prime file, ad esporre corpo e vita sulle trincee, ad essere bersaglio viventi ai colpi nemici.

Lo scopo del Comizio

 L’assemblea d’oggi deve avere un duplice scopo: di chiarimento a chi sta in basso e di ammonizione a coloro che stanno in alto. Insieme alle altre centinaia di dimostrazioni di tutte le nazioni deve essere l’espressione della ferma volontà del socialismo internazionale concorde di liberare l’umanità dal terribile flagello della guerra. Nelle relazioni che quotidianamente ci giungono dai campi di battaglia leggiamo come bastino pochi minuti per annientare migliaia di giovani esistenze, ciascuna delle quali riassume in sé una somma non indifferente di cure, di speranze e d’orgoglio. Il lavoratore che ha fondata una famiglia e che onestamente si affatica per tirarla innanzi viene colpito da un altro lavoratore.
 Ma chi è il nemico? Contadini che normalmente zappano la loro terra; operai che creano ricchezze; ingegneri che per anni ed anni si sono preparati a compiere opere utili e buone, giovani studiosi, che coraggiosamente hanno cercato di addentrarsi ne’ campi chiusi del sapere umano! La guerra è un terribile ritorno alla barbarie primitiva.

I colpevoli

 E dove sono i colpevoli? I turchi tenevano i popoli slavi della Macedonia in uno stato di asservimento terribile: i grandi proprietari turchi strappavano ai loro contadini il terzo è più del prodotto. In Macedonia va lentamente compiendosi una rivoluzione sociale simile a quella che nell’Europa occidentale si svolse verso il 1848. La Bulgaria, la Serbia, la Grecia, il Montenegro vogliono profittare dell’occasione per arrotondare i loro territori. I principi stranieri vogliono acquistarsi quella popolarità che sino a ieri era loro mancata. La Russia, ghignando, tiene loro mano, per poi trarne profitto.
 Ma i rimproveri maggiori, le imputazioni più gravi, devono essere rivolte all’Impero Austro-Ungarico che, nel 1908, annettendo la Bosnia Erzegovina strappò per la prima il trattato di Berlino colpendo i Giovani Turchi
Il popolo austriaco non vi aveva il minimo interesse. L’interesse vero dell’Austria esige che viva in pace profonda e sicura con i popoli balcanici, per poter scambiare senza impedimenti i suoi prodotti industriali con i loro prodotti agricoli. Ed oggi siamo in pericolo gravissimo che anche l’Austria si lasci trascinare nella trista avventura, ciò che significherebbe la guerra europea.

La protesta dei socialisti

 I socialisti, mediante comizi numerosissimi, domenica scorsa hanno protestato energicamente per tutto l’impero. Noi non vogliamo la guerra. “Noi abbiamo ben altre cure, ben altri problemi da risolvere, come le questioni del caro vivere, della disoccupazione, gli scompigli interni”.
 Ma disgraziatamente anche in Austria la sobillazione per la guerra è fortissima e condotta con tutti i mezzi leciti ed illeciti. Clericali e nazionalisti tedeschi giocano col pensiero della guerra.
 Ma otto giorni sono abbiamo loro detto: cristiani piissimi dov’è la vostra protesta contro la guerra la quale storpia così orrendamente i “fatti alla immagine di Dio?”. Per noi il comandamento biblico “non uccidere” vale per tutti, operai, borghesi, principi e re!
 E i nazionalisti tedeschi come potranno rispondere che il fior della nazione la gioventù venga dissanguata per un’idea fantastica?
 Noi, socialisti, aspettiamo gli eventi a mente calma, fredda e con sicura coscienza. Centinaia di migliaia di giovani vengono gettati annualmente nell’esercito dei potenti. Le guerre e il militarismo divorano somme enormi e i pesi pubblici si fan sempre più schiaccianti. Centinaia di migliaia s’irreggimentano, per contro, nell’esercito del socialismo

Dov’è il nostro posto

 Il tempo delle decisioni sanguinose de’ potenti genera quello in cui ogni singolo deve pure decidersi. Dove è il mio posto? Deve chiedersi ognuno. Fra la borghesia guerrafondaia oppure nel socialismo che non vuole e non cerca altro che il benessere del popolo? Unitevi a coloro che condannano la barbarie della guerra, al nostro esercito! Anche noi abbiamo le nostre parole d’ordine: chiarimento, cultura delle masse; e la nostra bandiera di guerra è rossa. La bandiera dell’Internazionale. E verrà il giorno in cui trionfalmente potremo gridare: Il tempo del Capitalismo co’ suoi spaventevoli fantasmi è sorpassato. Soltanto chi lavora ha diritto di mangiare. Il socialismo ha vinto! Nella lotta uniamoci ai fratelli di tutto il mondo civile: Guerra al regno della guerra. Abbasso il capitalismo. Viva l’emancipazione del popolo lavoratore!
 Un’ovazione lunghissima e formidabile saluta lo smagliante discorso del compagno austriaco.

Compère-Morel

 Compère-Morel, il valoroso rappresentante dei socialisti di Francia, ha la parola appena il traduttore ha terminato, fra vivissimi applausi, di ripetere il magnifico discorso del Glöckel, e così principia:
 – La giornata d’oggi conterà come una delle più belle negli annali della Internazionale operaia. Giammai un’azione comune era stata condotta con altrettanto vigore nella nostra vecchia Europa dai nostri organizzatori di classe.
 Se v’è tanta audacia nella concezione, tanta rapidità nella esecuzione di questa campagna internazionale, è che ciascuno di noi ha l’orrore della guerra.
 La Guerra! Una parola che semina spavento e terrore! Perché?! Domani i lavoratori di Milano, di Roma, di Torino potrebbero essere chiamati a sgozzare i lavoratori di Lione, di Parigi, di Marsiglia! I contadini della vostra Romagna dovrebbero uccidere i contadini della nostra Provenza, e della nostra Linguadoca? Lagrime e sangue dovrebbero scorrere fra due nazioni, il cui proletariato è legato da un ideale comune?
 Il nemico è invece altrettanto comune: la borghesia capitalistica di tutti i paesi; e noi, le mille volte, non la vogliamo affatto. Non la vogliamo; non l’accettiamo perché la guerra è appunto insita nel regime capitalista. Essa non scomparirà, o almeno il pericolo della guerra non cesserà di sussistere che con il finire dello sfruttamento capitalistico.
 Si! La potenza delle forze socialiste ed operaie è la sola diga che si possa elevare contro la guerra, e ogni volta che i nostri raggruppamenti politici e i nostri sindacati di mestiere vedono il numero dei loro aderenti aumentare, segno è che si verifica una probabilità in meno per lo scoppio d’una guerra.
 Ma bisogna forse attendere che le nostre organizzazioni di classe abbiano attinto le massime forze loro per lottare contro la guerra medesima? No! Da oggi noi possiamo, noi dobbiamo fare qualche cosa.
 Noi dobbiamo prendere la testa del movimento pacifista: antinazionalista qui; antisciovinista in Francia; antimperialista altrove. Noi dobbiamo evitare al popolo gli orrori di una guerra, al mondo del commercio e dell’industria i pericoli di una conflagrazione europea; e sollevare anche una corrente anti cannibalistica.
 E quando i pericoli di una conflagrazione europea saranno passati noi ci dovremo rimettere alla nostra opera di reclutamento e di organizzazione; in vista: primo, di aumentare le nostre truppe; secondo, di conquistare il potere politico naturale di ciascun paese.
 L’oratore, che è stato applauditissimo, quasi ad ogni periodo del suo bellissimo discorso – vorremmo scrivere ad ogni strofe della sua vibrante canzone antiguerresca – è salutato alla fine da una commovente ovazione. Il pubblico lo ha seguito attentamente, capendolo quasi a pieno e perciò la traduzione fattane dal nostro Mussolini può limitarsi ad un accenno sommario dei principali “temi” svolti dal carissimo amico di Francia.

Il Prof. Mussolini

 L’altro dì, il giornale che rappresenta il socialismo spurio, ci domandava con un po’ di ironia se noi possediamo la bussola che ci guidi nelle nostre direttive politiche di fronte agli avvenimenti balcanici. Orbene, bisogna distinguere fra colui che scrive su di un avvenimento “morto” cioè completo, cioè finito, e quegli che esprime il suo pensiero quando gli avvenimenti stessi si svolgono; e troppi elementi gli mancano per trarre il giudizio definitivo. Ma adesso non è nemmen più il caso di restarcene timorosi nel fissare alcune verità che, poiché siamo alfine della tragedia bellica, balzano evidenti e si impongono da sé.
 Quali verità, dunque, dobbiamo affermare d’avere acquisito? Una prima: ed è che la libertà in Italia è una favola (Benissimo! Scatta l’uditorio). Noi abbiamo visto quel che è avvenuto, or è una settimana, a Vienna e a Berlino. Nelle capitali degli imperi che si vorrebbero feudali; i comizi internazionali contro l’eventualità di una guerra europea si sono tenuti liberamente. Da noi invece... E siamo – dicon – in democrazia?! – da noi, a Roma, viene arrestato Hervé. E capita di peggio. Avviene che gli oratori della democrazia romana avrebbero voluto che l’annuncio di tanta iniquità non venisse dato al loro comizio! Democrazia?! (un uragano di applausi sottolinea le prole dell’oratore che prosegue:)

Il tramonto di un’illusione

 Un’altra illusione è caduta. L’illusione che fino a ieri ci ha cullato e cioè che ormai nessuna guerra potesse scoppiare fra le nazioni europee. Ci sentivamo; ci credevamo abbastanza forti per impedire lo scempio di una guerra. Reputavamo che gli istessi governanti non dovessero tentare tanta alea! Invece...
 E al proposito converrà togliere dalla circolazione un “cliché” che ha fatto il suo tempo, ed è falso. Quello che si riferiva ai socialisti d’Austria; e si compiaceva di raffigurarli come imperiali regi socialisti di Cecco Beppe. No, no!
 In questa occasione furono bene i socialisti austriaci, quelli che ci hanno dato il “là” per l’agitazione contro la guerra europea, quelli che prima hanno lanciato la formula ormai universalmente accettata: Il Balcano ai Balcanici! Niente intervento europeo!
 Veniamo ad un’altra verità, che con ogni certezza si esprime dagli attuali frangenti. Le guerre della Monarchia concludono sempre con un mercato, con un baratto di popoli. Sia più preciso su questo punto grida uno sconosciuto. Cioè? Ho capito. Dirò che il primo malo esempio lo ha dato la Monarchia italiana, ribatte prontamente il Mussolini.
 Ma io devo... – si prova ad interrompere il commissario Goffredo.
 Stia, stia a sentire, continua l’oratore, che a questo punto si addentra con mirabile perspiquità di linguaggio, nella trattazione dell’impressionante problema che ci urge, ed infine esclama: Il Balcano ai Balcanici sta bene.
 Ma non si dimentichi che vi sono anche gli albanesi e i turchi. È vero che contro i turchi si possono portare le colpe della barbarie militare; ma allora c’è anche una barbarie russa e lo sanno gli ebrei di Rief e di Riscin; anche per noi c’è stata anche una barbarie cristiana più feroce di quella turca testimoniano, sinistramente, le giornate di Sciara-Sciat (Ovazione lunghissima).
 Ricordatevi che fin dal dicembre del 1911 il Congresso dei socialisti serbi tenutosi a Belgrado chiariva, in fatti, che la soluzione del problema non poteva, fatalmente, essere affidata alle monarchie, ma doveva essere una Confederazione repubblicana di tutti i popoli, nessuno escluso.
 L’Albania non può essere sacrificata. E si sappia che la sconfitta dell’esercito turco non vuol dire lo sterminio del popolo turco.
 Con ciò non si intenda che noi siamo favorevoli al passo dell’Italia con l’Austria contro i Balcani, al diretto favore della Turchia. Anzi, ora che è stata rinnovata di fatto, la Triplice, mentre dichiariamo di non confondere nella nostra avversione i popoli austriaci e tedeschi, affermiamo più che mai il nostro dissenso dalla politica di Corte. Noi non vogliamo servire agli interessi di un Impero, ancora oggi feudale-clericale.

Il pensiero del popolo e quello della borghesia

 Ma ritorniamo alla guerra. Guerra di popoli? Ma no; i popoli la subiscono. Nessuno è autorizzato a dire che i popoli applaudano all’occhiuta rapina dei Governi. Quando mai essi furono interpellati sulla volontà loro di andare ad uccidere o a morire? Ci sono milioni e milioni di uomini che vivono di una vita puramente economica: mangiano, bevono, si riproducono; ma tutto ciò che è vita civile, politica, colturale è a loro completamente ignoto.  Non hanno neppure in embrione un principio di autonomia morale: è questo il gregge che subisce la guerra e va al macello senza chiedersi nemmeno perché.
 I borghesi invece quando inneggiano alla guerra sono al posto loro. La guerra per la guerra, essi vogliono. È questa l’arrière pensée di lor signori. La guerra che li liberi dal socialismo, intanto che esso è virgulto facile ad essere stroncato. In fatti il Vaterland, l’organo clericale austriaco che ha voluto intitolarsi Patria, ha chiaramente scritto che una guerra europea “ci libererebbe per 50 anni dal socialismo”.
 Ma precisiamo: noi non siamo contrari alla guerra per viltà. Se fossimo dei pusillanimi non saremmo a questo posto. E poi non crediamo che il coraggio vero sia quello del soldato che ubbriaco di acquavite corre al macello di sé ed altrui. È un coraggio d’un genere inferiore, basso, primordiale; è un coraggio incosciente. Di più: il socialismo è anche miglior avversario della guerra di quanto non lo sia il pacifismo borghese e democratico. Noi siamo contrari ad essa perché rappresenta il massimo di sfruttamento del lavoratore. Il proletario, con la guerra, è cioè chiamato a versare il proprio sangue, dopo aver dato nelle officine, tutto il proprio sudore.

Guerra e Rivoluzione

 E fosse vero almeno che la guerra precede, prepara la rivoluzione. È una illusione, un sofisma. Leggiamo nella storia. La relazione fra la guerra di secessione degli Stati Uniti e la Rivoluzione Francese è lontana. Del resto L. Lafayette che vi partecipò tenne agli inizi della Rivoluzione un contegno ambiguo ed incerto. Fu il popolo di Parigi che demolì la Bastiglia, fu il popolo che in tre giorni e in tre notti fabbricò 50 mila picche e incitato da Camillo Demoulins si gettò sulla fortezza che rappresentava e simboleggiava l’”ancien régime”. Le giornate sanguinose del ’48 a Parigi sono forse in relazione con qualche guerra? Ah la Comune! È nata da una guerra sfortunata ed è questo vizio d’origine che l’ha uccisa.
 Veniamo alle guerre più vicine. Quella del ’97 fra Grecia e Turchia, quella del ’98 fra la Spagna e gli Stati Uniti non hanno suscitato movimenti rivoluzionari. Pareva che la guerra russo-giapponese dovesse alimentare l’incendio rivoluzionario russo, ma invece dopo la sanguinosissima domenica rossa, è la reazione più feroce che trionfa e la Russia ufficiale – colla protezione manifesta agli slavi della Quadruplice – riprende nel concerto delle potenze europee quell’ascendente che aveva perduto nei piani di Manciuria sotto ai colpi micidiali dei piccoli uomini del Giappone. Per contro l’ultime rivoluzioni politiche di qualche importanza nel Portogallo e in Cina non sono in relazione con nessuna guerra. Per fare la rivoluzione occorrono dei cittadini, cioè dei soldati che rimangano cittadini, dei fucili intelligenti, ma la guerra imbarbarisce imbestia, abbrutisce gli uomini.
 Difatti i più feroci massacratori dei Comunardi furono i soldati che avevano fatto le guerre coloniali in Algeria e si erano abituati ad ogni genere di atrocità. I soldati italiani non sono forse tornati dalla gloriosa gesta libica colle orecchie dei beduini tagliate e conservate come reliquie preziose? La guerra non crea il sentimento rivoluzionario là dove non esiste, anzi lo deprime, e, quando è debole, lo atterra. Noi siamo minoranza, è vero, ma che importa? Questo ci impone di continuare la nostra battaglia. Si tratta di creare l’autonomia morale della classe operaia che è stata sin qui strumento passivo nelle mani di tutte le gerarchie borghesi. Il pericolo di conflagrazioni europee tornerà. Ma allora speriamo di essere pronti. Delle due l’una. Si tratta di creare l’autonomia morale del proletariato per impedire la guerra o, se la borghesia vorrà tentare il gioco supremo, il proletariato saprà approfittarne per le sue specifiche rivendicazioni e allora il dominio borghese – già corroso, minato e logorato – andrà in frantumi. Quel giorno la questione del genere umano sarà finita comincerà la nuova storia.
 La folla immensa grida per mille bocche il suo entusiasmo e Mussolini deve ringraziare a lungo prima che l’ovazione si plachi.

L’Avv. Tucci

 Il discorso dell’avv. Tucci è denso di idee e di dottrina. La folla lo segue con vero interesse. L’oratore, entrando subito in argomento, dimostra che il conflitto attuale fu provocato dalla resistenza opposta dalla diplomazia alle legittime aspirazioni nazionali dei popoli balcanici allo scopo di favorire il giuoco degli interessi capitalistici della Turchia europea. Di più: la guerra balcanica ha due programmi contraddittori: uno di affermazione a difesa delle nazionalità sacrificate dal turco, l’altro di negazione e di offesa dello stesso principio di nazionalità da parte della lega balcanica ai danni del popolo albanese, avente, come gli altri popoli, il diritto insopprimibile di costituirsi a nazione indipendente. Data questa contraddizione bisogna che il popolo ripeta che è invece un interesse ideale e materiale del proletariato di favorire la formazione della nazionalità come condizione necessaria al consolidamento della pace e al libero svolgersi della lotta di classe intesa alla soppressione dei privilegi economici. Si dia così atto del fallimento universalmente dichiarato della diplomazia; riconosciuta inetta a salvaguardare la pace e dimostratasi anzi l’incubatrice dei germi di conflitto fra gli Stati perché rappresentante degli interessi di esigue minoranze plutocratiche e militaristiche contro i superiori interessi della maggioranza lavoratrice e della civiltà.
 E si ritenga, sempre più, che allo scopo di favorire gli interessi di tali minoranze i poteri esecutivi di diversi Stati hanno monopolizzato la politica estera e sottratto alla discussione preventiva e al controllo delle nazioni e delle loro rappresentanze i patti di alleanza offensivi e difensivi ponendo così la vita dei popoli interi alla mercé di pochi e di irresponsabili.
 Quali le conclusioni? Bisogna deliberare di dare mandato ai nostri rappresentanti in Parlamento di richiedere che nessun atto di politica estera impegnante la intera nazione sia compiuto senza la preventiva discussione della rappresentanza nazionale, alla quale deve essere avocato il diritto di dichiarare la guerra, di fare i trattati di pace, di alleanza e di commercio, diritto finora confiscato dai poteri esecutivi palesatisi specialmente ora in contrasto irriducibile cogli interessi delle maggioranze e della civiltà. E conviene anche invitare il congresso internazionale socialista che si terrà prossimamente a Basilea ad agitare nei parlamenti d’Europa questi postulati che segnano colla fine di una iniqua tutela dei popoli europei il rapido avviamento al disarmo europeo e al consolidamento della pace effettiva.
 Molti applausi salutano l’oratore che presenta anche un ordine del giorno che poi è ritirato.

Zavattero

 La parola di Zavattero è caratteristica; ed è autenticamente forte. Il metallo della voce si confà allo scoppiettare delle idee e delle immagini ribelli. Egli parla a nome degli anarchici; e sa di non poter nutrire soverchie illusioni circa l’efficacia dei movimenti popolari.
 – Noi credevamo di aver notato i sintomi della decadenza del colosso borghese. Ecco invece che esso ci si presenta più agguerrito di prima. Nuove borghesie – quelle dei Balcani – mercé il sangue sparso dai proletari si potranno assidere al convitto delle grandi nazioni.
 Né gli anarchici sono contro la guerra per un facile umanitarismo. No. Siamo contrari alla guerra per così dire nazionale: ma siamo invece, e fino in fondo, con tutti gli argomenti che sono propri della borghesia, per la guerra sociale fino al trionfo dell’idea d’ogni più splendida umanità.
 Anche Zavattero ha la sua buona parte di applausi.

L’On. Turati

 Salutato da una vera ovazione si leva finalmente a parlare l’on. Filippo Turati.
 – Avete già udito – dice – le perorazioni di quelli che mi hanno preceduto, perché a me, d’accordo pienamente con loro, avanzi da dire molto.
 Il più grande significato è dato alla manifestazione d’oggi da questa gara di conferenzieri, venuti a portare da parti diverse e lontane lo spirito di fratellanza e di solidarietà, contro la minaccia che incombe.
 Per incarico della Sezione Milanese del P.S.I. che rappresenta, e a nome del Partito Socialista Italiano l’oratore porge poi agli oratori francese e austriaco il saluto fraterno e il ringraziamento commosso.
 – Oggi – prosegue – qui tutti si intendono col cuore ad onta della diversità della lingua. È nei nostri cuori e nelle nostre coscienze la certezza di un grande fenomeno che va maturandosi: l’avvento del proletariato sulla scena della politica internazionale. Alludendo a Gustavo Hervé e al di lui arresto, l’on. Turati, dopo aver protestato efficacemente contro questa violenza dice: - Io non sono herveista, mi riserbo anzi di combatterlo, ma oggi mi sento oltraggiato come italiano per questa vergogna che non è nostra, per questa nuova vergogna del governo, che è forte di.. paura.

L’Internazionale di proletari

 Filippo Turati traccia in seguito, ma brevemente, gli scopi dell’unione internazionale dei proletari: Il giorno in cui questa internazionale dei lavoratori non sarà più un sogno, saranno i nostri ambasciatori che tratteranno le questioni; il giorno in cui non avremo più delle politiche di brigantaggio noi non avremo più lo spettacolo ignobile e grottesco di certe società per la pace che predicano il verbo sacro per gli altri mentre per loro osannano alla guerra ed esaltano la carneficina e la rapina; quel giorno la vera società per la pace sarà la vera unione di tutti i proletari del mondo, interessati al bene loro e al bene della umanità; non avremo più le grandi democrazie che dopo aver strombazzato i grandi principi patteggiano col governo la soppressione delle loro idealità.
 Questa nostra riunione, tutte le riunioni d’oggi e di domani sono un fatto del presente e un principio dell’avvenire: preludiamo alla nostra Aja.
 Venendo a parlare dell’azione del Partito Socialista Italiano nel momento attuale l’on. Filippo Turati aggiunge: L’impresa libica fu decretata e portata a compimento senza che si avesse il tempo di organizzare, di far azionare un’opposizione capace, e in questo passato anno, il nostro anno di passione, abbiamo espiato ciò, lo stiamo ancora espiando poiché l’impresa libica ha fermentato l’attuale nuovo grande uragano.

Per la civiltà universale

 – Ricordate le parole di Wandervelde? Un anno fa? Ci ammoniva che tutto ciò, tutto questo grande disastro sarebbe sorto a pesare sulla nostra coscienza. Ma il socialismo fu prima colto nel sonno ed ora ripara al fallo correndo con tutte le volontà, con tutti i sacrifici, maggiormente sentiti, oggi, a mettersi contro il nuovo disastro.
 È così il sogno di Marx che si realizza grado grado: Marx fu che disse unitevi, ma non unitevi per le frazioni, per le sezioni, per i paesi, unitevi per la civiltà universale.
 L’on. Turati termina così il suo efficacissimo discorso:
 – Noi diciamo oggi alla diplomazia che è come dire diciamo alla borghesia: riflettete, qualche cosa nasce; badate che la civiltà sorge, che l’umanità è in cammino e arriverà.
 

L’ORDINE DEL GIORNO APPROVATO

 Siamo alla fine. Anche la commossa ovazione che ha salutato l’on. Turati ha termine ed è approvato il seguente ordine del giorno:
 “Il proletariato milanese adunato a comizio nella Casa del Popolo, uditi i portavoce del proletariato socialista austriaco francese e italiano, si associa fervidamente al grido lanciato dai compagni austriaci: ’i Balcani ai popoli balcanici’, compresa l’Albania e non esclusa la Turchia a salvaguardia dei diritti etnici e religiosi delle popolazioni turche di nazionalità e musulmane di confessione; dichiara la sua decisa opposizione ad ogni intervento militare o diplomatico delle grandi Potenze diretto a ripristinare lo ’statu quo’ irragionevole e reazionario che la guerra ha già rapidamente e definitivamente soppresso, e poiché la risoluzione del problema delle nazionalità balcaniche liquida la questione orientale che giustificava sin qui nel pensiero delle classi dominanti la necessità degli enormi armamenti terrestri e marittimi che schiacciano l’Europa, afferma la necessità e il proposito di intensificare la lotta contro il militarismo e la propaganda per il disarmo simultaneo con la organizzazione progressiva economica e politica della classe lavoratrice; e riassume il suo pensiero, il suo programma, il suo ideale nel grido: Guerra al regno della guerra”.
 Dopo di che, il meraviglioso comizio è dichiarato chiuso, e senza incidenti l’enorme folla si riversa in città.

 * * *

  I compagni Glöckel e Compère-Morel vennero al termine della manifestazione accompagnati fino all’albergo dalla folla plaudente, invano trattenuta con i soliti modi brutali dalla polizia che aveva disposto il solito ridicolissimo apparato di forze.
 

(Avanti!, 18 novembre 1912)