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Questo numero della nostra rivista, pur senza trascurare altri settori dell’attività di ricostruzione teorica e studio storico propri del nostro Partito, come la teoria marxista della conoscenza e la storia delle vicende che in America Latina hanno determinato il prodursi delle rivoluzioni nazionali borghesi, pubblica ben tre lavori sulla esposizione delle posizioni del Partito sulla questione della guerra.
È una questione che non noi ma l’evolversi, sia pure lento e contraddittorio, della crisi generale del modo di produzione capitalistico alla scala mondiale pone all’ordine del giorno.
Tesi centrale del marxismo rivoluzionario è che la causa determinante della guerra tra Stati capitalistici non risiede, come pretendono di far credere le multiformi posizioni borghesi e opportuniste sciorinate in mille salse, tra cui quella “pacifista” e la più disgustosa, nella pretesa innata propensione della “natura umana” alla sopraffazione e alla violenza, né nella insaziabile “volontà di dominio” dei governanti di questo o di quel paese, o nella particolare propensione guerrafondaia di qualche governo, meno che mai nella “follia” della marionetta di turno posta a “capo” di una nazione, ma nella natura stessa del capitalismo in quanto rapporto sociale di produzione fondato sull’estorsione di plusvalore operaio avente come unico scopo la realizzazione di un profitto a sua volta da reinvestire in capitale. È quando questo folle meccanismo produttivo fine a sé stesso tende a incepparsi, schiacciato tra la imprescindibile necessità di riversare sui mercati mondiali una quantità crescente di merci a prezzi sempre più bassi e la crescente impossibilità dei mercati stessi ad assorbirla, che la guerra appare oggettivamente al capitale come l’unica soluzione a questa sua intrinseca contraddizione.
La guerra non è dunque un “incidente inutile” nello svolgersi “pacifico” e “progressivo” della società borghese, ma un indispensabile “bagno di giovinezza” del capitalismo, che distrugge il surplus di merci invendute e di mezzi di produzione resi inutili dal ristagno dei mercati mondiali, nonché gran parte dello sterminato esercito di proletari disoccupati, gettati fuori dal processo produttivo per effetto della crisi e divenuti un peso insopportabile e pericoloso ai fini della stabilità della società capitalistica.
Il periodo storico che stiamo vivendo vede questa soluzione affacciarsi ormai per la terza volta sullo scenario sempre martoriato di un modo di produzione ormai per troppo tempo sopravvissuto alla sua necessità storica.
Ma è tesi altrettanto centrale del marxismo rivoluzionario che questo ciclo infernale di accumulazione produttiva – crisi economica – distruzione – ripresa dell’accumulazione, non è eterno. Il compito storico di spezzarlo alle radici spetta al proletariato, sola classe su cui ricadono per intero le conseguenze negative delle contraddizioni sociali ed economiche del capitalismo. Questo compito non può realizzarsi se non si determina la condizione essenziale del ricongiungimento storico dell’azione delle grandi masse proletarie, spinte alla lotta dal drastico aggravarsi delle proprie condizioni di vita e dalla prospettiva di dover essere utilizzate come carne da cannone, con l’azione direttrice e cosciente del partito comunista rivoluzionario.
Bastano
questi brevi richiami ai cardini generali del marxismo per
evidenziare quanto sia vitale e determinante ripresentare oggi al
proletariato e a chiunque intenda seriamente lavorare e lottare per
il trionfo di questa grandiosa prospettiva storica, la sola in grado
di liberare l’umanità dall’incubo degli orrori del capitalismo,
tutti gli aspetti della questione, attraverso la riesposizione delle
tesi del Partito enucleantesi dalle passate vicende storiche del
movimento proletario e in tutti i risvolti assunti nel corso delle
battaglie già condotte dal movimento comunista internazionale.
Non possiamo introdurre la spiegazione marxista del rapporto fra il Comunismo e la Guerra, e la conseguente tattica e propaganda del Partito rivoluzionario contro il militarismo capitalista, senza liberarci in partenza dell’equivoco che genera il pacifismo borghese e di tutte quelle teorie e movimenti politici che si pongono il compito di abolire le guerre, e la “violenza” in generale, senza abolire la società capitalista, e che teorizzano che pace universale e “non violenza” possono essere obiettivi raggiungibili dalla specie umana in una società divisa in classi antagoniste.
Il piccolo borghese pacifista, in nome degli ideali astratti della pace universale e del disarmo, propugna la soluzione arbitrale dei conflitti internazionali che sorgono fra gli Stati; questo costituisce sul piano mondiale la stessa illusione che si ha nell’ambito delle singole nazioni, quale quella che il parlamento borghese possa garantire eque condizioni sociali ed economiche e non sancire la diseguaglianza sociale ed economica propria delle società proprietarie e classiste.
Il pacifista pensa che la società proceda in modo evolutivo ed educativo; se vi sono pericoli di guerra basterebbe qualche marcia della pace per aprire gli occhi a governanti e governati sulla barbarie che la guerra produrrebbe e, per unanime convinzione di tutti, consapevoli di questo folle errore, le minacce di guerra retrocederebbero.
In regime capitalistico la guerra è inevitabile.
Di fronte alla Prima Guerra mondiale scrivemmo in “Il socialismo di ieri d’innanzi alla guerra di oggi”:
«La chiave del concetto socialista è invece che la classe dominante in regime capitalistico non può governare e reggere le forze che si sprigionano dagli attuali rapporti delle forme di produzione, e resta a sua volta vittima di certe contraddizioni inevitabili del regime economico, il quale non risponde alle esigenze della grande maggioranza degli uomini. Il grande quadro marxista della produzione capitalistica mette in luce questi contrasti e la impotenza della borghesia a dominarli. Poiché gli strumenti di produzione e di scambio non sono ancora socializzati, non ne è possibile un impiego razionale, non vi è giusto rapporto fra i bisogni e la produzione, che è basata soltanto sull’interesse del capitalista; e da tutto ciò conseguono le colossali e dannosissime crisi economiche che sconvolgono i mercati, le assurde sovrapproduzioni per cui dalla abbondanza si genera la disoccupazione dei salariati e la miseria; e come ultima conseguenza la rovina di alcuni degli stessi capitalisti, nell’interesse dei quali è montata la macchina mostruosa della economia presente. Da ciò consegue – seguitiamo a ricapitolare – che la vita moderna non è l’evoluzione continua verso una maggiore civiltà, ma è il percorso della fatale parabola che, attraverso un inasprimento delle lotte di classe e un aumento di malessere nei lavoratori, si risolverà nel crollo finale del regime borghese.
«Ebbene, parallelamente a questo processo, per il quale la classe dominante prepara senza poterlo evitare il suo suicidio storico, noi assistiamo ad un altro assurdo. Lo sviluppo dei mezzi di produzione nel campo economico, la diffusione della cultura in quello intellettuale, la democratizzazione degli Stati in quello politico, invece di preparare la cessazione delle guerre e il disarmo degli eserciti fratricidi, conducono ad una intensificazione dei preparativi militari. È questa una sopravvivenza di altri tempi – ad esempio dell’epoca feudale – è un ritorno ai secoli della barbarie, o non è piuttosto una caratteristica essenziale del regime sociale moderno, borghese, e democratico? Notiamo, intanto, che quelle borghesie statali le quali non possono in tempo di pace reggere le file della produzione, e scongiurare le catastrofi finanziarie, così, anche volendo, sono impotenti ad impedire lo scoppio delle guerre, che si presentano come la via di uscita unica e fatale da situazioni economico-politiche in cui gli Stati si trovano cacciati.
«È, d’altra parte, così immenso il danno che le borghesie risentono dalla guerra? Questa è certo una distruzione di capitali, ma alla borghesia intesa come classe, più che il possesso materiale dei capitali, interessa la conservazione dei rapporti giuridici che le consentono di vivere sul lavoro della grande maggioranza. Questi rapporti, interni alle nazioni, consistono nel diritto a monopolizzare gli strumenti di lavoro, che a loro volta sono frutto di altro lavoro della classe proletaria. Purché, ad essere più chiari, resti intatto il diritto di proprietà privata sulle terre, sulle case, sulle miniere, dopo la devastazione della guerra il proletariato ricostruirà macchine, stabilimenti, ecc. e li riconsegnerà ai suoi sfruttatori, risentendo tutte le conseguenze del difetto di generi di consumo, ma ricostituendo i capitali necessari alla vita di tutti per farne nuovamente monopolio di pochi. Naturalmente non pochi borghesi, come individui, saranno travolti, ma altri li sostituiranno».
La guerra è quindi soprattutto una necessità economica del capitalismo, determinata essenzialmente dalla discesa del saggio medio del profitto, alla scala mondiale. Essa permette, dopo la distruzione di enormi quantità di capitale costante e di forze di lavoro, un consistente rialzo del saggio di profitto, che diviene funzionale alla ripresa dell’accumulazione per tutti gli Stati capitalistici, sia vincitori sia vinti.
Dice Lenin «una guerra non scoppia per caso». Vi sono fattori economici e sociali il cui peso si accumula nel tempo finché si giunge al punto fatale di rottura in cui tutto precipita, e masse e paesi e partiti vengono trascinati nel macello e nella distruzione.
«I nostri critici, scrive Engels nella prefazione alle “Lotte di classe in Francia”, ci accusano di far dipendere gli sconvolgimenti sociali da cause esclusivamente economiche: se così fosse la rivoluzione sarebbe un problema di formule facili da risolvere quanto un’equazione di primo grado. In realtà, i fatti sociali hanno come base le determinazioni economiche, ma le cause degli sconvolgimenti storici si sovrappongono e si intersecano in una miriade di combinazioni che danno luogo a processi, atteggiamenti, moti e reazioni psicologiche che diventano essi stessi fattori materiali determinanti del movimento sociale. Sulla bocca di certi cannoni antichi compariva la scritta: “Ultima ratio regis”, l’ultima ragione del re. Come dire che, esaurite tutte le altre possibilità, la parola doveva essere data alla polvere. In altri termini con Clausewitz (ripreso da Lenin), “la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”».
Quali mezzi? Chi, o meglio, che cosa li prepara, e come?
Nell’epoca imperialistica il militarismo è conseguenza diretta della concorrenza fra Stati. La conquista di nuovi mercati porta all’aumento della produzione, alla produzione per il mercato estero e alla sua difesa armata. Nella fase decadente del capitalismo (che non corrisponde affatto ad una fase di debolezza) l’enorme produzione spinge ogni paese alla frenetica ricerca di nuovi mercati o alla sottrazione di quelli esistenti alle esportazioni altrui. Il capitalismo internazionale si arma, e nel farlo trova uno sfogo ulteriore alla sua orgia produttiva. Il militarismo permea di sé tutta la società; gli eserciti assurgono a fine in sé, si legano alla produzione e ne rispecchiano il corso. La guerra diventa un elemento obbligatorio dell’esistenza della società capitalistica, la cui massima espressione di efficienza e potenza si manifesta appunto in questo che costituisce insieme il punto di arrivo e il punto di partenza del suo andamento ciclico.
È per questo che il marxista non può essere per principio pacifista o antiguerrista. Il pacifismo come ideologia e movimento pratico è la reazione piccolo borghese alla politica grande borghese nazionalista e militarista, che giustifica la guerra come mezzo di diffusione del suo sistema sociale, o come mezzo di conquista di spazi vitali, per un paese che abbia poco spazio economico per troppi capitali.
Il piccolo borghese puritano e pacifista, non legato direttamente ai grossi affari della grande borghesia, condanna qualunque guerra ed è chiaro che queste vuote ideologie cozzano contro le forme violente della società borghese. L’abolizione della guerra è impossibile, come lo è del resto eliminare la violenza più banale e quotidiana, anche se vi sono organi di polizia, tribunali, giudici.
Il comunismo marxista non può per principio essere pacifista, anche se il suo fine è la società senza classi, senza guerre, senza violenza di classe ma armonia e collaborazione nei rapporti sociali. Questa non è una contraddizione come credono i teorici della non violenza, perché la identità fra il fine da raggiungere e i mezzi non può essere immediata nella società capitalista dominata dalla violenza di classe.
La sintesi tra fine e princìpi tattici può solo avvenire in un travagliato processo storico rivoluzionario di lotta e scontro fra le classi, e il fine, la non-violenza sociale, presuppone di usare la violenza rivoluzionaria come mezzo indispensabile e risolutore. Dittatura di classe, violenza rivoluzionaria, sono i princìpi immutabili che la storia ha consegnato al proletariato per raggiungere il fine della nuova società, nella quale non vi saranno più classi contrapposte, e né dominio politico di una classe sull’altra, presupposto delle odierne violenze.
L’avversione al generico pacifismo borghese umanitario e antirivoluzionario, è contenuto fin dai primi scritti di Marx ed Engels che lanciano i loro poderosi strali contro tutti i movimenti che si prefiggono di evitare la guerra. Marx ed Engels nella polemica con gli anarchici, gli “antiautoritari” per definizione, difendono il principio di autorità della dittatura proletaria, del metodo del terrore per reprimere la classe vinta e avviare il processo di trasformazione verso il socialismo.
Lenin riprendendo questi cardini fondamentali afferma che, i comunisti si differenziano dai pacifisti, non solo perché negano l’impiego delle armi nella lotta fra le classi e sono incapaci di inquadrare la guerra nella storia, ma per un altro punto fondamentale. Scrivemmo nel 1949 in “Tartufo o del pacifismo”:
«Ci divide dai pacifisti borghesi il nostro concetto dell’"inevitabile legame delle guerre con la lotta delle classi nell’interno di ogni paese", e della "impossibilità di distruggere le guerre senza distruggere le classi ed edificare il socialismo".
«Il leninismo non dice ai poteri capitalistici: io vi impedirò di fare la guerra, o io vi colpirò se fate la guerra: esso dice loro, so bene che fino a quando non sarete rovesciati dal proletariato voi sarete, che lo vogliate o meno, trascinati in guerra, e di questa situazione di guerra io profitterò per intensificare la lotta ed abbattervi. Solo quando tale lotta sarà vittoriosa in tutti gli Stati, l’epoca delle guerre potrà finire.
«Si tratta di una posizione generale. Il marxista non può essere pacifista o "antiguerrista" poiché ciò significa ammettere che si possa abolire la guerra prima della abolizione del capitalismo. Non basta dire che ciò sarebbe un errore teorico. Esso è un tradimento politico, poiché una simile illusione non facilita il convogliamento delle masse ad una lotta più vasta, bensì ne agevola l’asservimento, non solo al capitale, ma anche alla guerra stessa. Le masse proletarie guidate da cattivi marxisti, che si erano sempre detti pacifisti, hanno dovuto fare la guerra contro i tedeschi, perché i loro capi hanno detto che quelli soli minacciavano la pace, come la hanno dovuta fare contro i russi per lo stesso motivo: hanno marciato due volte e marceranno forse la terza, e dai campi opposti, a combattere una guerra "che dovrà mettere fine alle guerre".
«Si tratta, diciamo, di una posizione generale. Il marxista non è pacifista, per ragioni identiche a quelle che non ne fanno, ad esempio un anticlericale: egli non vede la possibilità di una società di proprietà privata senza religione e senza chiese, ma vede finire chiese e credenze religiose per effetto della abolizione rivoluzionaria della proprietà.
«L’ordinamento della schiavitù salariata vivrà tanto più a lungo quanto più a lungo i suoi complici faranno credere che, senza sovvertirne le basi economiche, sia possibile renderlo immune da superstizioni religiose, o eliminarne la eventualità di guerre, e togliergli gli altri suoi caratteri retrivi, o brutali (...)
«Sostituire, dinanzi all’avvicinarsi di nuove guerre, al criterio dialettico di Marx e Lenin - tanto nella dottrina che nell’agitazione politica - lo sfruttamento plateale dell’ingenuità delle masse nei riguardi della santità della Pace e della Difesa, non è altro che lavorare per l’opportunismo e il tradimento, contro i quali Lenin si dette a costruire la nuova Internazionale rivoluzionaria super hanc petram, su questa pietra: capitalismo e pace sono incompatibili».
Il pacifismo borghese, proprio oggi di tutti i partiti cosiddetti di “sinistra”, non può capire, essendo una forza della conservazione sociale, che la guerra è un prodotto necessario del capitalismo, e nulla vale per scongiurarla, e invoca il principio della non violenza e condanna in nome di questo principio qualunque guerra, compresa la guerra rivoluzionaria della classe salariata oppressa, diventando così una ideologia conservatrice del sistema capitalistico, disarmando il proletariato per la sua lotta di emancipazione, e rendendosi forza ausiliaria della borghesia.
La politica di pace dei partiti opportunisti fa da complemento al terrorismo del militarismo borghese, al ricatto atomico delle superpotenze e tenta di inculcare con una propaganda capillare e quotidiana la falsa idea che basta mobilitare le singole coscienze, propugnare una lotta per il disarmo, organizzare marce per la pace e referendum “autogestiti” per evitare la guerra.
L’alternativa guerra o pace è falsa: la pace imperialista presuppone una nuova guerra imperialista e questo ciclo ineluttabile può essere spezzato solo dalla rivoluzione proletaria.
La propaganda pacifista disarma il proletariato, prepara il terreno al militarismo in modo da favorirne la partecipazione nella prossima guerra al fianco della propria borghesia. Il pacifismo borghese umanitario antirivoluzionario è una forza ausiliaria della borghesia (Lenin, 3° Congresso della I.C.).
Il marxista, diversamente da queste posizioni conservatrici, moralistiche e antistoriche, non teorizza una posizione astratta di condanna di tutte le guerre, facendo di ogni erba un fascio. Il giudizio su ogni guerra diventa specifico, determinato dalle condizioni obbiettive, per cui ogni guerra necessita un esame storico delle cause che la producono e a quale classe sociale serve.
Nella storia ci sono state guerre fra Stati e Popoli, le quali, malgrado i loro orrori, le loro manifestazioni bestiali, le miserie e i tormenti che hanno causato, hanno rappresentato un progresso storico, hanno giovato alla evoluzione dell’umanità facilitando l’abolizione di sistemi nocivi e reazionari, quali la schiavitù, l’assolutismo, il dispotismo feudale.
La vittoria della Grecia sulla Persia, sebbene portasse alla caduta del modo di produzione asiatico e introducesse lo schiavismo, rese possibile la fusione della civiltà Greca con quella mediterranea. Le invasioni barbariche, chiusero un importante periodo storico di civiltà ma posero le basi per la formazione degli Stati nazionali europei. Tutte le guerre nazionali e rivoluzionarie condotte dalla nascente borghesia contro l’assolutismo feudale, comprese le guerre napoleoniche, sono guerre di progresso storico e sociale.
Le guerre imperialiste moderne iniziate nel 1914 non erano da nessun lato guerre di progresso ma puri conflitti fra sfruttatori imperialisti, guerre fra padroni di schiavi per il consolidamento della schiavitù (Lenin), sicché il dovere di tutti i socialisti ieri e dei comunisti oggi, era e rimane quello di lottare contro tutti i governi borghesi belligeranti, in tutti i paesi.
I
comunisti difendono in dati casi il carattere della guerra, ma
davanti alla guerra imperialista, compito del comunismo è il
sabotaggio aperto finalizzato al disfattismo rivoluzionario e alla
trasformazione del carattere della guerra da imperialista in guerra
civile.
«Il militarismo, nella sua origine e nella sua sostanza, nei suoi mezzi e nelle sue ripercussioni, è un fenomeno così interessanti, così importante, un fenomeno che affonda le sue radici così profondamente nella natura degli ordinamenti della società classista, e che tuttavia può assumere forme così molteplici anche all’interno del medesimo ordinamento sociale, a seconda delle particolari condizioni naturali, politiche, sociali ed economiche dei singoli Stati e territori.
«Il militarismo è una delle più importanti e più energiche manifestazioni della vita della maggior parte degli ordinamenti sociali, perché in esso si esprime nel modo più vigoroso, più concentrato ed esclusivo l’istinto della conservazione nazionale, culturale e di classe».
Questo Karl Liebknecht afferma nel celebre saggio “Militarismo e antimilitarismo”, pubblicato nel 1907, per la quale pubblicazione il capo della organizzazione giovanile socialdemocratica internazionale fu sottoposto a processo, perseguito e condannato per alto tradimento. Liebknecht mette in rilievo, proseguendo l’analisi materialista del fenomeno, come il sostegno decisivo di ogni rapporto di dominazione sociale risieda in ultima istanza nella superiorità della forza fisica come classe sociale, e non certo nel maggiore vigore fisico dei suoi singoli individui.
«La forza, afferma Engels nella polemica con Dühring, non è un semplice atto di volontà, ma esige per manifestarsi condizioni preliminari molto reali, soprattutto strumenti, di cui il più perfetto ha la meglio sul meno perfetto; che questi strumenti devono inoltre essere prodotti, il che dice ad un tempo che il produttore di più perfetti strumenti della forza, vulgo armi, vince il produttore di strumenti meno perfetti e che, in una parola, la vittoria della forza poggia sulla produzione di armi, e questa poggia a sua volta sulla produzione in generale, quindi (...) sulla “potenza economica”, sull’”ordine economico”, sui mezzi materiali che stanno a disposizione della forza.
«La forza, al giorno d’oggi, è rappresentata dall’esercito e dalla marina da guerra e l’uno e l’altra costano, come tutti sappiamo a nostre spese, “una tremenda quantità di denaro”. Ma la forza non può far denaro, può, tutt’al più, portar via quello che è già stato fatto e anche questo non giova granché, come abbiamo sperimentato, anche questa volta a nostre spese, con i miliardi francesi. In ultima analisi, quindi, il denaro deve pur essere fornito dalla produzione economica; la forza dunque è a sua volta condizionata dall’ordine economico che le procura i mezzi per allestire e mantenere i suoi strumenti. Ma non basta ancora. Nulla dipende dalle condizioni economiche preesistenti quanto precisamente l’esercito e la marina. Armamento, composizione, organizzazione, tattica e strategia dipendono anzitutto in ogni epoca dal livello raggiunto dalla produzione e dalle comunicazioni. Qui hanno agito rivoluzionariamente non le “libere creazioni dell’intelletto” di comandanti geniali, ma l’invenzione di armi migliori e la modificazione del materiale umano; nel migliore dei casi l’azione esercitata dai comandanti geniali si limita a adeguare la maniera di combattere alle nuove armi e ai nuovi combattenti».
Non ha il potere quindi chi ha più vigore fisico, ma l’apparato armato delle classi dominanti storicamente formato, lo Stato, apparato molto articolato che fornisce strumenti di potere al gruppo sociale che lo manovra, gruppo alquanto minoritario rispetto alla società, e alquanto smidollato e privo di vigore anche fisico nella attuale fase putrescente del capitalismo, ma che attraverso l’esercito, la polizia, la giustizia, la scuola, la cultura, la chiesa, ha l’effettivo potere e lo usa in maniera dittatoriale sulla intera società.
Continua Liebknecht:
«Il militarismo non è un fenomeno specifico del capitalismo. È anzi un aspetto proprio ed essenziale di tutti gli ordinamenti sociali classisti, dei quali quello capitalistico non è che l’ultimo. Certo, il capitalismo, al pari di ogni altro ordinamento fondato sulla divisione della società in classi, sviluppa una sua specifica serie di militarismo; il militarismo infatti, conformemente alla sua natura, è messo in relazione a un fine o a più fini, i quali sono diversi a seconda del tipo dell’ordinamento sociale e conseguibili per vie diverse a seconda della loro diversità. Ciò non viene alla luce soltanto a proposito dell’ordinamento dell’esercito, ma anche per quanto concerne gli altri aspetti del militarismo, che risultano dall’adempimento dei suoi compiti.
«Alla fase dello sviluppo capitalistico corrisponde nei migliori dei modi l’esercito fondato sulla coscrizione generale, ma, sebbene sia un esercito tratto dal popolo, non è un esercito del popolo ma un esercito contro il popolo, o un esercito che viene sempre più manipolato in tale direzione».
Questa è la descrizione che dà la Sinistra del militarismo moderno in “Il socialismo di ieri dinanzi alla guerra di oggi”, da ”L’Avanguardia” del 25 ottobre 1914.
«Dati i progressi della tecnica, i cannoni, gli esplosivi, le navi che si costruiscono oggidì sono senza paragone più potenti degli antichi mezzi di offesa. Lo sviluppo dell’economia borghese, e la enorme importanza assunta dagli organismi statali, accentratori di tante vitali funzioni, permettono a questi di investire nella preparazione bellica risorse finanziarie ignorate dagli antichi monarchi e condottieri di tutte le epoche. Inoltre, i vincoli con cui gli Stati moderni legano, sotto la vernice della civiltà democratica, i singoli individui, vanno diventando così stretti che lo Stato può disporre di masse enormi di armati, succhiando fin l’ultimo uomo valido alle popolazioni. Lo Stato militare dispone di un gran numero di soldati addestrati alle armi e veterani grazie alla coscrizione obbligatoria, sistematicamente introdotta dopo la rivoluzione francese (fu deliberata proprio dalla Convenzione in Francia). La immensa rete di ferrovie che è alla portata degli Stati moderni permette di dislocare e mobilitare in poche ore masse enormi di uomini, che vengono reclutati, armati e portati al confine con celerità impressionante a milioni e milioni.
«Soffermatevi col pensiero su questo spettacolo delle mobilitazioni moderne! Quale maggiore insulto alla libertà individuale di questo reso possibile dalle ultimissime risorse della cosiddetta civiltà e della costituzione degli Stati in regime borghese e sulle direttive democratiche? Le guerre antiche non presentavano nulla di simile. Gli eserciti erano molto meno numerosi, erano formati in gran parte per necessità tecnica di veterani, tutti volontari mercenari, ed i reclutamenti forzati erano limitati, episodici e molto più difficili di oggi. Gran parte dei lavoratori erano lasciati ai campi ed ai loro mestieri; fare il soldato era una professione o una libera decisione – si ignoravano le enormi masse di oggi e le carneficine delle battaglie combattute con le armi moderne. Le stesse invasioni barbariche erano migrazioni di popoli che muovevano, con le famiglie, gli armenti e gli strumenti di lavoro, a predare terre ridenti e fertili per il maggior benessere di tutti – sia pure assicurato con la forza bruta – mentre il soldato moderno, se anche sopravvive alla guerra vittoriosa, torna alla consueta vita di sfruttamento e di miseria, probabilmente aggravata, dopo aver lasciato a casa la famiglia che lo Stato sostiene... con pochi centesimi.
«Le guerre dell’epoca feudale erano anche diverse. I baroni personalmente vestivano il ferro e mettevano a rischio la vita, seguiti da poche migliaia di uomini d’armi, per cui la guerra era un mestiere coi rischi inerenti ad ogni mestiere. La guerra cui assistiamo non è dunque un ritorno all’epoca barbara o feudale, ma è un fenomeno storico proprio del nostro tempo, che avviene non malgrado la civiltà attuale, ma appunto a causa del regime capitalistico che cela sotto l’aspetto della civiltà una profonda barbarie. La possibilità e la fatalità della guerra sono inerenti alla costituzione degli Stati moderni, che in regime di democrazia politica mantengono la schiavitù economica ed estendono la propria strapotenza, apparentemente basata sul consenso di tutti, fino al punto che un pugno di ministri, esponenti della classe dominante, può portare in ventiquattro ore sulla linea del fuoco e della morte milioni di uomini che non sanno dove e perché e contro chi saranno mandati: fatto impressionante che raggiunge il massimo dell’arbitrio tiranno che nel corso dei secoli ha oppresso moltitudini umane».
Aggiunge Liebknecht:
«L’esercito dell’ordinamento sociale capitalistico, al pari dell’esercito degli ordinamenti fondati sulla divisione della società in classi, assolve a un duplice scopo.
«Esso è in primo luogo una istituzione nazionale destinata all’offesa esterna o alla difesa contro una minaccia dall’esterno, destinata in breve all’ipotesi di complicazioni internazionali, o per adoperare un’espressione militare, contro il nemico esterno.
«Ma il militarismo non è soltanto difesa e offesa contro il nemico esterno, esso assolve a un secondo compito, che balza sempre più in primo piano via via che più acutamente si inaspriscono i contrasti di classe e che cresce la coscienza di classe del proletariato, sempre più determinando la forma esterna del militarismo e il suo carattere interno: il compito di difesa dell’ordinamento sociale dominante, di sostegno del capitalismo e di ogni reazione contro la lotta di liberazione della classe operaia. Sotto questo aspetto esso non si mostra che quale puro strumento della lotta di classe, destinato, unitamente alla polizia e alla giustizia, alla scuola e alla chiesa, a frenare lo sviluppo della coscienza di classe e, al di là di ciò, a garantire ad una minoranza, costi quel che costi, il dominio nello Stato e la libertà di sfruttamento foss’anche contro la consapevole volontà della maggioranza del popolo.
«Ci troviamo quindi di fronte al militarismo moderno, che vuole essere né più né meno la quadratura del cerchio, che arma il popolo contro il popolo stesso, che non si accorge di fare dell’operaio, mentre cerca artificiosamente di introdurre con ogni mezzo nella nostra articolazione sociale una distinzione per classi d’età, l’oppressore e nemico, l’assassino dei suoi stessi amici e compagni di classe, dei suoi genitori, fratelli e figli, del suo stesso passato e del suo avvenire, che vuole essere a un tempo democratico e dispotico, illuminato e meccanico, popolare e nemico del popolo. Invero non bisogna dimenticare che il militarismo si rivolge anche contro il “nemico” interno nazionale».
Questi i caratteri generali del militarismo e in particolar modo di quello capitalista.
Oggi, dopo due guerre imperialiste, vinte ambedue dal blocco occidentale, il militarismo tedesco-prussiano è stato messo in ginocchio e sostituito nella sua funzione di militarismo esemplare da quelli statunitense e russo.
La borghesia rispetto agli inizi del secolo ha ancora più sviluppato il militarismo, ha centuplicato le spese militari e il morbo del militarismo, che era in quel tempo limitato alla scala europea, ha ormai invaso l’intero globo. Come afferma Lenin,
«L’imperialismo tende per sua natura a ingigantire il fenomeno del militarismo capitalista e a militarizzare l’intera società, soprattutto nei momenti di più acuta crisi economica e sociale».
Lenin nel saggio “Il socialismo e la guerra” scritto in piena guerra, nel luglio-agosto 1915, prende in esame il carattere della guerra imperialista in atto distinguendola dalle precedenti guerre della storia moderna.
Tipi storici di guerre nei tempi moderni.
La grande Rivoluzione francese ha iniziato una nuova epoca nella storia dell’umanità. Da allora fino alla Comune di Parigi, dal 1789 al 1871, un particolare tipo di guerra è costituito dalle guerre a carattere borghese progressivo, di liberazione nazionale. In altre parole, il principale contenuto ed il significato storico di queste guerre è stato l’abbattimento e la distruzione dell’assolutismo e del feudalesimo, l’abbattimento dell’oppressione straniera. Esse sono state, perciò, guerre progressive e tutti gli onesti democratici rivoluzionari, nonché tutti i socialisti, durante tali guerre, simpatizzarono sempre per il successo di quel paese (cioè di quella borghesia) che contribuiva ad abbattere o a minare i pilastri più pericolosi del feudalesimo, dell’assolutismo e dell’oppressione di popoli stranieri.
Differenza fra guerra di aggressione e guerra di difesa.
Il periodo 1789-1871 ha lasciato tracce e ricordi rivoluzionari profondi. Fino all’abolizione del feudalesimo, dell’assolutismo e dell’oppressione straniera, non si poteva nemmeno parlare di uno sviluppo della lotta proletaria per il socialismo. Quando parlavano di legittimità della guerra “difensiva”, a proposito delle guerre di tale epoca, i socialisti avevano presenti appunto sempre quegli scopi, cioè la rivoluzione contro il medioevo e contro la servitù della gleba. Per guerra “difensiva” i socialisti hanno sempre inteso una guerra “giusta” in questo senso (una volta W. Liebknecht si espresse appunto così). Soltanto in questo senso i socialisti hanno riconosciuto e riconoscono ogni legittimità, il carattere progressivo e giusto della “difesa della patria” o della guerra “difensiva”. Per esempio, se domani il Marocco dichiarasse guerra alla Francia, l’India all’Inghilterra, la Persia o la Cina alla Russia, ecc., queste sarebbero delle guerre “giuste”, delle guerre “difensive” indipendentemente da chi avesse attaccato per primo, ed ogni socialista simpatizzerebbe per la vittoria degli Stati oppressi, soggetti e privi di diritti, contro le “grandi” potenze schiaviste che opprimono e depredano.
«Ma immaginate che un padrone di cento schiavi guerreggi con un altro che ne possiede duecento per una più “giusta” ripartizione degli schiavi stessi. È chiaro che, in un simile caso, la qualifica di guerra “difensiva” o di “difesa della patria” costituirebbe una falsificazione storica e, in pratica, solo un inganno del popolo semplice, della piccola borghesia, della gente ignorante, da parte degli astuti padroni di schiavi. È proprio così che la borghesia imperialista del nostro tempo inganna i popoli, servendosi dell’ideologia “nazionale” e del concetto di difesa della patria nell’attuale guerra fra i padroni di schiavi, per il consolidamento ed il rafforzamento della schiavitù.
«La guerra attuale è una guerra imperialista.
«Quasi tutti riconoscono che la guerra attuale è imperialista, ma i più deformano questo concetto o lo applicano unilateralmente o cercano di far credere alla possibilità che questa guerra abbia un significato borghese-progressivo di liberazione nazionale. L’imperialismo è il più alto grado di sviluppo del capitalismo, ed è stato raggiunto soltanto nel XX secolo. Per il capitalismo sono divenuti angusti i vecchi Stati nazionali, senza la cui formazione non avrebbe potuto abbattere il feudalesimo. Il capitalismo ha sviluppato a tal punto la concentrazione che interi rami dell’industria sono nelle mani di sindacati, di trust, di associazioni di capitalisti miliardari, e quasi tutto il globo è diviso tra questi “signori del capitale”, o in forma di colonie o mediante la rete dello sfruttamento finanziario che lega con mille fili i paesi stranieri. Il libero commercio e la concorrenza sono stati sostituiti dalla tendenza al monopolio, dall’usurpazione di terre per impiegarvi dei capitali, per esportare materie prime, ecc. Da liberatore delle nazioni quale era nella lotta contro il feudalesimo, il capitalismo, nella fase imperialista, è divenuto il maggiore oppressore delle nazioni. Da progressivo, il capitalismo è divenuto reazionario; ha sviluppato a tal punto le forze produttive che l’umanità deve o passare al socialismo o sopportare per anni, e magari per decenni, la lotta armata tra le “grandi” potenze per la conservazione artificiosa del capitalismo mediante le colonie, i monopoli, i privilegi e le oppressioni nazionali di ogni specie».
Per Lenin il concetto fondamentale, in polemica con i traditori sciovinisti, è il sabotaggio totale senza riserve, giustificazioni e tentennamenti alla guerra imperialista; ma allo stesso tempo ammette in quali casi i socialisti non sono contro la guerra.
In primo luogo sostiene negli innumerevoli scritti del 1915-1916 le guerre rivoluzionarie borghesi, che, se sono terminate in Europa dopo il 1871, sono attuali in aree extraeuropee in modo particolare nelle aree asiatiche e orientali. La Comune di Parigi rappresenta la data di separazione storica in cui terminano le guerre rivoluzionarie borghesi in Europa, per aprire la strada alle successive guerre imperialiste. Dopo il 1871 il movimento proletario europeo si porta sul piano della rivoluzione e rompe con la nazione. Marx lo sentenziò con la nota formula «ormai tutti gli eserciti nazionali sono confederati contro il proletariato».
In secondo luogo Lenin ammette un altro fondamentale tipo di guerra, la guerra civile fra le antagoniste classi sociali, guerra ineluttabile di progresso sociale e che culminerà nella guerra rivoluzionaria, non più borghese ma socialista, di domani.
«I socialisti non possono negare l’importanza positiva delle guerre rivoluzionarie, cioè delle guerre non imperialiste, come per esempio delle guerre condotte dal 1789 al 1871 per l’abolizione della oppressione nazionale e per mettere fine al frazionamento feudale con la creazione di Stati capitalistici nazionali, oppure delle possibili guerre per la difesa delle conquiste del proletariato vittorioso nella lotta contro la borghesia» (“Risoluzioni delle sezioni estere del Partito Operaio Socialdemocratico Russo”).
Dalla individuazione storica dei tipi fondamentali di guerra deriva la comprensione del rapporto fra guerra e rivoluzione e di come si articola nelle diverse situazioni l’invariante piano tattico marxista, così come si è precisato nel corso della storia del movimento operaio e dall’esame della tattica antimilitaristica della socialdemocrazia nella Seconda Internazionale.
L’avversione al militarismo borghese è parte integrante della tradizione storica del movimento proletario rivoluzionario internazionale, anche se soprattutto gli anarchici ne fecero nel secolo scorso la loro bandiera, che riuscì ad influenzare negativamente il movimento operaio socialista. I marxisti di sinistra, nella Prima e nella Seconda Internazionale, hanno sempre assunto una posizione antitetica nei confronti dell’antimilitarismo anarchico.
L’anarchismo considera il militarismo un fenomeno autonomo, come un prodotto soggettivo della politica delle classi dominanti, un male in sé. Vede la lotta antimilitarista come una serie di atti individuali determinati da singole volontà coscienti, come il sabotaggio, il rifiuto della coscrizione e dell’uso delle armi, mezzi che potrebbero evitare le guerre e la carneficina di proletari. Con questa concezione è pronto ad appoggiare qualsiasi azione individuale, prescindendo dai reali rapporti di forza. L’azione antimilitarista anarchica si è sempre risolta in vuoti appelli pacifisti contro la guerra, piuttosto che in concrete azioni nel senso dell’organizzazione proletaria.
All’obiezione di coscienza, al rifiuto individuale dell’uso delle armi, all’esaltazione del gesto individuale i marxisti hanno sempre opposto una concezione e un’azione classista completamente opposta. I comunisti combattono i pesanti oneri che il militarismo borghese determina nella classe operaia, e soprattutto nell’esercito, che inquadra nella massima parte il proletariato, per condurre nella società e soprattutto all’interno delle forze armate un’azione classista rivoluzionaria, affinché la macchina del militarismo borghese si inceppi sotto i colpi dell’azione proletaria e con lo scopo di costituire all’interno dell’esercito una organizzazione illegale di partito, che prepari le condizioni soggettive del disfattismo rivoluzionario e dell’organizzazione dell’armata proletaria.
La nostra avversione al militarismo ha sempre assunto una caratterizzazione ben definita rispetto alla concezione anarchica.
L’antimilitarismo, per i socialisti di sinistra prima per i comunisti poi, non ha mai rappresentato un fine a sé stesso ma una delle facce dell’azione anticapitalista del socialismo.
«Il militarismo domina e divora l’Europa. Ma questo militarismo reca in sé anche il germe della propria rovina. La concorrenza reciproca dei singoli Stati li costringe da una parte ad impegnare ogni anno più denaro per esercito, marina, cannoni, ecc., dall’altra a dare un carattere di serietà sempre maggiore al servizio militare obbligatorio per tutti e con ciò, in definitiva, familiarizzare tutto il popolo con l’uso delle armi e a renderlo quindi capace di far valere ad un certo momento la sua volontà di fronte a quei signori della casta militare che esercitano il comando. E questo momento si presenta non appena la massa del popolo, operai delle campagne e delle città e contadini, ha una volontà. A questo punto l’esercito dei principi si muta in esercito del popolo, la macchina si rifiuta di servire, il militarismo soggiace alla dialettica del suo proprio sviluppo (...) E ciò significa far saltare in aria dall’interno il militarismo e, con esso, tutti gli eserciti permanenti» (Engels, “Anti-Dühring”).
«Si falsificherebbe la storia se si affermasse che la Prima e la Seconda Internazionale non avessero preso in considerazione il problema della guerra e che non avessero cercato di risolverlo nell’interesse della classe operaia. Si potrebbe addirittura affermare che il problema della guerra fu posto all’ordine del giorno dall’inizio della Prima Internazionale (guerra del 1859: Francia e Piemonte contro l’Austria; del 1864: Prussia e Austria contro la Danimarca; del 1866: Prussia e Italia contro Austria e Germania del Sud; 1870: Francia contro Germania; e senza contare la guerra di Secessione del 1861-65 negli Stati Uniti, l’insurrezione della Bosnia e della Erzegovina del 1878 contro l’annessione austriaca, che molto appassionò gli internazionalisti dell’epoca, ecc.)» (“La prima e la seconda Internazionale di fronte al problema della guerra” da “Bilan” n.21 luglio–agosto 1935).
Marx ed Engels combatterono le illusioni democratiche dei pacifisti e il falso filantropismo borghese, che voleva con la concordia delle classi abolire la guerra, e dimostrarono l’esigenza storica dell’uso della violenza rivoluzionaria per la trasformazione della società. Questa esigenza, imprescindibile per la rivoluzione proletaria, è stata enunciata da Marx nell’indirizzo del Comitato Centrale della lega dei Comunisti del marzo del 1850, che stabilisce al tempo stesso la tattica proletaria nella doppia rivoluzione.
«Ma per potersi contrapporre energicamente e minacciosamente a questo partito [l’avverso partito democratico borghese], il cui tradimento verso gli operai incomincerà con la prima ora della vittoria, gli operai debbono essere armati e organizzati. L’armamento di tutto il proletariato con schioppi, fucili, pistole e munizioni deve essere attuato subito; bisogna opporsi subito al ristabilimento della vecchia guardia civica rivolta contro gli operai. Ma dove non possa venir conseguito quest’ultimo scopo, gli operai debbono tentare di organizzarsi indipendentemente in guardia proletaria, con capo e stato maggiore eletti da loro, e di porsi agli ordini non dei poteri dello Stato, ma dei Consigli comunali formati dagli operai [organizzazioni politiche territoriali, dei veri e propri soviet]. Dove gli operai sono alle dipendenze dello Stato, debbono effettuare il proprio armamento e la propria organizzazione in un corpo speciale, con capi scelti da loro, oppure come parte della guardia proletaria. Non bisognerà consegnare, sotto nessun pretesto, le armi e le munizioni, e ad ogni tentativo di disarmo bisognerà, se occorre, opporsi con la forza».
Marx qui enuncia la esigenza di una guardia rossa e di una armata rossa per la presa rivoluzionaria del potere.
Questo insegnamento scaturì dalla sanguinosa lotta di classe del giugno 1848 in Francia, dove i proletari parigini tentarono per la prima volta “l’assalto al cielo”; la risposta della borghesia fu immediata: mentre si era dimostrata vile nel combattere le forze della reazione feudale, si dimostrò decisa e feroce nel combattere il proletariato.
Al Terzo Congresso dell’Internazionale, tenuto a Bruxelles nel 1863, si votò una mozione sull’atteggiamento da tenersi nel caso di un conflitto delle grandi potenze europee, dove i lavoratori erano invitati ad impedire la guerra fra i popoli e si raccomandava lo sciopero generale in caso di guerra.
Marx ed Engels, anche se furono costretti a mettere negli Statuti e nell’Indirizzo Inaugurale, che correvano il rischio di essere redatti da Mazzini, le parole di morale, civiltà e diritto, condussero un’aspra lotta contro tutte le correnti pacifiste e di ispirazione piccolo-borghese che predicavano pace e disarmo e affermarono che in regime borghese le guerre sono inevitabili perché sono una diretta conseguenza del sistema stesso.
Al Congresso di Losanna del 1867, da parte dei delegati di sinistra legati a Marx fu sottolineato che «non era sufficiente sopprimere l’esercito permanente per sostituirlo con la milizia popolare, per porre fine alle guerre», ma necessitava una trasformazione di tutto l’ordine sociale esistente. La rivendicazione della milizia popolare è caratteristica della democrazia borghese rivoluzionaria all’epoca della grande rivoluzione francese. «Questa idea, consisteva nella riconciliazione di tutte le classi della società borghese, nella formazione di un fronte unico nazionale, che pretendeva di levarsi al di sopra delle classi».
All’epoca della formazione della Prima Internazionale infatti le correnti non marxiste si illudevano che la panacea universale per impedire la guerra fosse la soppressione degli eserciti permanenti, sostituiti dalla milizia popolare. Queste illusioni democratiche furono anche sostenute dai destri della Seconda Internazionale, in modo particolare da Jaurès.
La lezione storica che la dottrina marxista ha tratto dal suo nascere, e che sarà scolpita da Lenin e confermata nella rivoluzione d’ottobre, è invece che prima di realizzare una trasformazione socialista è necessaria la dittatura del proletariato.
La caratteristica fondamentale della Seconda Internazionale fu di essere ispirata ai princìpi del marxismo rivoluzionario, ma in campo tattico dava la possibilità alle singole sezioni nazionali federate, e all’interno di queste alle correnti che si formassero, di esprimere diversi programmi tattici, che i congressi definivano di volta in volta secondo il rapporto di forza fra le frazioni riformiste e quelle marxiste rivoluzionarie.
I marxisti autentici, prima Engels, poi Lenin e tutte le sinistre internazionali, lottarono contro i revisionismi e gli opportunismi, tentando di far prevalere un programma rivoluzionario.
Il vecchio programma della socialdemocrazia, inteso come prospettiva dell’azione del partito, che in senso storico si innestava in una fase particolare dello sviluppo capitalistico, cosiddetto pacifico, comprendeva fra i compiti propri della socialdemocrazia quello di rivendicare “riforme democratiche” come un mezzo per l’avanzata della causa proletaria. Anche i marxisti della Seconda Internazionale ravvisarono in alcune rivendicazioni sociali e politiche elementi di progresso storico, che tendevano al completamento delle rivoluzioni borghesi e quindi utili nel processo rivoluzionario proletario.
Ma per le sinistre questa strada mai avrebbe potuto evitare la conquista violenta del potere politico. Accanto al “programma massimo”, in quel periodo storico le destre e il centro si illusero che fosse possibile condurre una lotta sul terreno di classe contro il militarismo, inserita nel “programma minimo”, intesa a democratizzare il militarismo e l’apparato statale in generale, allo scopo di promuovere condizioni favorevoli al processo rivoluzionario.
Per l’ala riformista, la lotta così condotta era intesa come una graduale e progressiva evoluzione che, in unione a quella parlamentare, avrebbe aperto le porte alla conquista pacifica e graduale del potere. La lotta antimilitarista dei riformisti giunge a rifiutare la partecipazione proletaria alle guerre, ma la politica pacifista non considera le effettive possibilità della guerra e le conseguenze che ne derivano.
Questo contrasto di programmi accompagnò tutto l’arco della vita della Seconda Internazionale fino a quando, con il tradimento del 1914, la guerra imperialista dimostrò impossibile coniugare preparazione rivoluzionaria e lotta per la democratizzazione del militarismo e delle istituzioni statali borghesi, e non più possibile tollerare la presenza all’interno dei partiti operai della corrente opportunista riformista.
L’esame delle risoluzioni sull’antimilitarismo e la guerra dei congressi della Seconda Internazionale ci porta al “nodo” che segue tutta la vita dell’Internazionale dal 1889 al 1914: la lotta tra le forze sane rivoluzionarie di sinistra e le due correnti, anarchica e riformista. Queste si svelarono in tutta la loro chiarezza (anche se già prima la loro funzione era indubitabile per la sinistra internazionale) allo scoppio della Prima Guerra mondiale, quando anarchismo e riformismo andarono a braccetto sotto le patrie bandiere a difendere le proprie “terre natali”, disquisendo sulla natura delle guerre per poter giustificare la loro débâcle in nome del marxismo.
In realtà la storia della Seconda Internazionale è estremamente complessa perché in essa si riflettono un insieme di passaggi storici sia per il capitalismo, che segna uno sviluppo delle forze produttive senza precedenti (nascita dell’imperialismo), sia per il movimento socialista che si espande oltre i confini dell’Europa e vede al suo interno la nascita e il consolidamento dei partiti socialisti a scala nazionale, e conosce il fenomeno opportunista (1ª ondata opportunista, “bernsteiniana”, 1886-1903; 2ª ondata, 4 agosto 1914, “socialsciovinismo”).
Engels indirizzò il processo di formazione dell’Internazionale e si oppose a una sua ricostituzione che non tenesse conto del bilancio storico tratto dall’esperienza della Prima Internazionale, dove Marx dovette combattere sia con la critica dottrinale sia sui metodi contro Bakunin e i suoi tenaci sostenitori in Francia, Svizzera, Spagna e Italia.
I socialisti tedeschi temevano che una nuova Internazionale, nata per iniziativa belga o francese, sarebbe stata influenzata dal Partito Operaio Socialista Francese, o partito dei “Possibilisti”, che per Engels erano gli avversari più pericolosi non essendo che, come egli li aveva definiti, «allievi di Bakunin con una bandiera differente ma con tutto il vecchio arsenale e la vecchia tattica».
Nel 1889 si tennero a Parigi due Congressi separati; uno dei “Possibilisti” e delle Trade Unions inglesi, l’altro del Partito Operaio Francese, o dei “Collettivisti”, e della Socialdemocrazia tedesca. Solo nel dicembre del 1890 si giunse ad una unificazione dove trionfarono le condizioni formulate da Engels e al Congresso di Bruxelles del 1891 i marxisti prevalsero su tutte le questioni di principio e di tattica; soltanto allora fu possibile fondare una nuova Internazionale.
Engels partecipò attivamente alla preparazione dei primi tre Congressi e tenne il discorso di chiusura a Zurigo nel 1893.
A
questo proposito citiamo dall’ampio carteggio alcuni passi che ci
mostrano la conclusione della dura battaglia teorica che precedette
la nascita della Internazionale. Da
una lettere di Engels a Sorge del 2
settembre 1891 in commento al
Congresso di Bruxelles: «I
marxisti hanno vinto su tutta la linea, sia riguardo ai principi che
alla tattica». Da
una lettera a Paul Lafargue del 9:
«Comunque sia sono
soddisfatto del Congresso. Anzitutto perché ha rappresentato il
crollo definitivo dell’opposizione Brousse-Hyndman (...)
Poi l’espulsione degli anarchici. Là dove la vecchia
Internazionale cessò, proprio là iniziava la nuova.
Questa, dopo 19
anni, è la conferma pura e semplice delle risoluzioni
dell’Aia».
Da una lettera a Sorge del
14: «La
cosa migliore è che gli anarchici sono stati buttati fuori,
proprio
come al Congresso dell’Aia. Dove la vecchia Internazionale cessò
proprio là si sviluppa la nuova, infinitamente più grande
e
dichiaratamente marxista».
Seguendo il percorso di tutti e nove i Congressi della Seconda Internazionale si ritrovano sempre alcune rivendicazioni (con alcune differenze di cui vedremo il significato): soppressione degli eserciti permanenti, creazione della milizia popolare, disarmo, arbitrato internazionale.
Al Congresso di Parigi del 1889 (divenuto poi il Congresso di fondazione dell’Internazionale) parteciparono 400 delegati provenienti da 22 paesi d’Europa e d’America. Sulla questione del militarismo si chiese l’abolizione degli eserciti permanenti e la creazione della milizia popolare.
Al successivo Congresso di Bruxelles del 1891 al centro dei lavori fu la questione del militarismo. Il Congresso respinse la proposta avanzata dall’anarchico olandese Nieuwenhuis di adottare come mezzo di lotta contro la guerra lo sciopero generale e fece propria la risoluzione W. Liebnecht-Vaillant che poneva in evidenza la matrice economica del militarismo e invitava gli operai a protestare contro tutte le velleità belliche e le alleanze che le favorivano.
Al successivo Congresso di Zurigo del 1893 la risoluzione sul militarismo, oltre a basarsi su quella di Bruxelles, affermò la necessità che i deputati socialisti respingessero ogni credito di guerra e si battessero per il disarmo e l’abolizione degli eserciti permanenti.
Al Congresso di Londra del 1896 vennero riprese le risoluzioni dei Congressi precedenti e comparve la richiesta di un tribunale di arbitrato internazionale che avrebbe deciso sui conflitti in corso fra le nazioni.
Al Congresso di Parigi del 1900 la risoluzione su antimilitarismo e guerra propugnò l’educazione della gioventù contro il militarismo, l’obbligo per i parlamentari di votare contro i crediti militari e coloniali e sostenne la necessità di una agitazione antimilitaristica comune in tutti i paesi.
Queste richieste furono riprese anche nei Congressi successivi, sebbene dal Congresso di Parigi del 1900 in poi la sinistra rivoluzionaria (Lenin-Luxemburg) conduca un’azione sempre più serrata e netta affinché vengano approvate risoluzioni che chiariscano che la guerra è un fenomeno indissolubile del capitalismo.
Formulazioni teoriche più precise si ebbero a Stoccarda 1907 e a Basilea 1912 appunto perché a quei Congressi la sinistra era riuscita a far tacere le tendenze opportuniste.
Le richieste di milizia popolare, disarmo, arbitrato internazionale, trovavano la loro spiegazione nelle illusioni del periodo storico di sviluppo “pacifico” del capitalismo, ma che appaiono completamente superate nella fase imperialista; ed anzi la loro demagogica difesa rappresenta oggi solo mistificazione opportunista.
Citiamo a proposito da un articolo di Trotski (“La nostra politica per la creazione dell’armata”, tesi adottata dall’Ottavo Congresso del P.C. russo nel marzo del 1919):
«Il vecchio programma della socialdemocrazia richiedeva la formazione di una milizia popolare sulla base, per quanto possibile, di un’istruzione militare data fuori delle caserme a tutti i cittadini idonei alle armi. Questa esigenza di programma, che, all’epoca della Seconda Internazionale, si opponeva all’armata regolare, imperialista, coll’istruzione nelle caserme, servizio militare di lunga durata e corpo ufficiale di casta, aveva la stessa portata storica delle altre richieste della democrazia: suffragio universale, monocameralismo, ecc.
«Nelle condizioni dello sviluppo capitalista “pacifico” e del proletariato, costretto fino ad un certo momento ad adattare la lotta delle classi ai metodi della legalità borghese, il compito naturale della socialdemocrazia era di esigere forme molto più democratiche nell’organizzazione dello Stato e dell’armata capitalistica. La lotta su questa base senza dubbio aveva un significato educativo, ma, come ha dimostrato l’importantissima esperienza dell’ultima guerra, la lotta per la democratizzazione del militarismo borghese ha dato ancor meno risultati della lotta per la democratizzazione del parlamentarismo borghese: poiché nel campo del militarismo la borghesia può solo tollerare un “democratismo” che non intacchi la sua dominazione di classe, in altre parole un democratismo illusorio e fittizio. Quando si tratta di toccare gli interessi vitali della borghesia, in campo internazionale come nei rapporti interni, il militarismo borghese in Germania, in Francia, in Svizzera, in Inghilterra, in America, nonostante tutte le differenze degli Stati e delle strutture delle armate di questi diversi paesi, ha rivelato gli stessi tratti spietati di crudeltà di classe.
«Quando la lotta delle classi si trasforma in guerra civile aperta rompendo l’involucro del diritto borghese e delle istituzioni borghesi democratiche, la parola d’ordine “milizia popolare” è totalmente priva di senso, allo stesso modo di quella del parlamento democratico: perché diventa un’arma della reazione».
Al Congresso di Stoccarda, del 1907, furono presentate quattro mozioni: tre che rappresentavano le tre tendenze del partito socialista francese e una dei socialdemocratici tedeschi. La prima tendenza francese, di ispirazione anarchica, era rappresentata da Hervè e si opponeva al patriottismo auspicando lo sciopero militare e l’insurrezione come risposta socialista alla guerra. La seconda tendenza era rappresentata da Guesde, che considerava la propaganda antimilitarista fra la classe operaia un ostacolo all’edificazione del socialismo, di conseguenza condannava gli strumenti dell’antimilitarismo (la diserzione, lo sciopero militare, l’insurrezione). La terza tendenza, di Vaillant–Jaurés, attaccava le altre due giudicando estremismo verbale la posizione di Hervé e possibilismo passivo quella di Guesde, ed esordiva dichiarando che il militarismo e l’imperialismo erano di fatto gli strumenti organizzati del capitalismo e che in caso di guerra nella nazione attaccata la sua classe operaia avevano il tassativo dovere di difendere la propria autonomia e indipendenza (premessa questa a tutte le disquisizioni del 1914 su guerra di offesa e di difesa e quindi della parola d’ordine “difesa della patria”).
Infine la risoluzione di Bebel per i tedeschi si apriva con l’affermazione che le guerre fra gli Stati capitalistici erano in generale la conseguenza di rivalità sul mercato mondiale, che le guerre erano l’essenza del capitalismo, che la classe operaia era la nemica naturale della guerra. In caso di guerra gli operai e i loro rappresentanti in parlamento dovevano fare di tutto per impedire il conflitto; e se la guerra fosse scoppiata, malgrado tutti gli sforzi, dovevano farla cessare nel più breve tempo possibile.
Tutte le risoluzioni all’infuori di quella di Hervé chiedevano la creazione della milizia civile.
Alla fine della discussione Lenin, Luxemburg e Martov a nome dei socialdemocratici russi presentarono alcuni emendamenti alla risoluzione di Bebel. Gli scopi più importanti di questi emendamenti erano: 1) integrare la tesi di Bebel, che indicava l’origine delle guerre nelle rivalità economiche fra gli Stati capitalistici, aggiungendo un riferimento alla competizione militarista negli armamenti; 2) mettere in rilievo la necessità di educare i giovani alle idee del socialismo e della fraternità fra i popoli e di dar loro una coscienza di classe; 3) riscrivere il paragrafo finale della risoluzione in maniera da offrire una guida molto più chiara nei seguenti termini:
«Se una guerra minaccia di scoppiare è dovere della classe operaia di tutti i paesi interessati, e dei suoi rappresentanti in parlamento, compiere ogni sforzo per impedirla con tutti i mezzi ritenuti opportuni, mezzi che sono diversi e mutano naturalmente a seconda dell’intensità della lotta di classe e della situazione politica in generale.
«Se ciò nonostante la guerra dovesse egualmente scoppiare, è loro dovere intervenire per porvi fine al più presto, e sfruttare con tutte le forze la crisi economica e politica creata dalla guerra per scuotere gli strati più profondi della popolazione e accelerare la caduta del dominio capitalistico».
A proposito di una valutazione della mozione di Stoccarda citiamo Lenin:
«La risoluzione di Bebel, proposta dai tedeschi e che in tutto ciò che era essenziale coincideva con la risoluzione di Guesde, aveva appunto il difetto di non contenere nessun accenno ai compiti attivi del proletariato. Questo dava la possibilità di leggere le tesi ortodosse di Bebel con gli occhiali dell’opportunismo. Vollmar ha trasformato immediatamente questa possibilità in realtà. Ecco perché Luxemburg e i delegati russi socialdemocratici hanno presentato propri emendamenti alla risoluzione di Bebel» (Lenin “Il Congresso socialista di Stoccarda”).
A Copenaghen, nel 1910, ci fu un acceso dibattito sullo sciopero generale in caso di guerra, ma nella risoluzione finale si escluse ogni riferimento allo sciopero e il compito di lottare contro la guerra fu lasciato quasi per intero ai gruppi parlamentari socialisti dei vari paesi, i quali furono invitati a votare contro qualsiasi stanziamento militare, per forze terrestri e navali, a chiedere l’arbitrato obbligatorio per tutte le controversie internazionali, a battersi per il disarmo generale e, in via preliminare, per convenzioni che limitassero gli armamenti navali e abolissero il diritto a requisire navi mercantili, per l’abolizione della diplomazia segreta e la pubblicazione di tutti i trattati internazionali e infine per l’indipendenza di tutti i popoli.
Copenaghen rappresenta quindi un passo indietro rispetto a Stoccarda, soprattutto considerando la gravità della situazione internazionale: una serie di conflitti si stava profilando all’orizzonte precipitando inesorabilmente verso la guerra.
Il Congresso a Basilea nel 1912 si tenne soprattutto per presentare un fronte socialista compatto contro la guerra. L’occasione fu lo scoppio effettivo di un conflitto nei Balcani, dove Bulgaria, Serbia, Grecia e Montenegro si erano coalizzati per spartirsi gli ultimi resti dell’Impero turco in Europa.
Quando il Congresso ebbe luogo l’esito della guerra era già scontato: le forze turche erano state sgominate e già avviato il processo di spartizione tra i vincitori delle province della Turchia europea. La guerra era stata scatenata senza l’intervento diretto di nessuna delle grandi potenze europee, ma certamente queste non sarebbero rimaste passive di fronte alla sistemazione definitiva della regione balcanica.
La risoluzione di Basilea, che rappresenta la somma di innumerevoli pubblicazioni di agitazione e di propaganda di tutti i paesi contro la guerra, rappresenta l’enunciazione più precisa data dall’Internazionale sulla guerra. Il Manifesto di Basilea afferma che la guerra creerà una grave crisi economica e politica, che i lavoratori considereranno la loro partecipazione alla guerra come un delitto e riterranno criminoso «sparare gli uni sugli altri per il profitto dei capitalisti, per l’orgoglio delle dinastie e per la stipulazione dei trattati segreti». Riprendendo integralmente la mozione di Lenin a Stoccarda ribadisce che «se tuttavia la guerra scoppiasse, è dovere dei socialisti intervenire per farla cessare prontamente e utilizzare con tutte le loro forze la crisi economica e politica creata dalla guerra per far leva sugli strati popolari più profondi e affrettare la caduta del dominio capitalistico». Inoltre avverte «sappiano bene i governi che nelle attuali condizioni dell’Europa e con l’attuale stato d’animo della classe operaia, essi non potranno scatenare la guerra senza pericolo per loro stessi» e ricorda loro che la guerra ha provocato l’esplosione rivoluzionaria della Comune, la rivoluzione del 1905 in Russia, ecc.
Il Manifesto di Basilea non dice una parola né sulla difesa della patria né sulla distinzione fra guerra offensiva e difensiva; dà un’idea chiara di tutti i conflitti di interessi che nel 1912 spingevano alla guerra futura del 1914, fra Austria e Russia per il predominio nei Balcani, fra Inghilterra, Francia e Germania per la di tutte loro politica di conquista dell’Asia Minore; fra Austria e Italia per l’aspirazione di ciascuna a comprendere l’Albania nella propria sfera d’influenza e così via.
Il
Manifesto diceva chiaramente che la prossima guerra era una guerra
fra predoni per la spartizione del bottino e per l’asservimento di
altri paesi.
La
questione coloniale o il cammino dell’opportunismo
in seno all’Internazionale
Strettamente legata a quella dell’antimilitarismo è la questione coloniale perché nel periodo cosiddetto “pacifico” del capitalismo, o meglio di “pace armata” fra le grandi potenze, spesso l’esercito era impiegato in guerre sanguinose contro i popoli di colore.
Parigi 1900. La risoluzione presentata dall’olandese Van Kol impegnava l’Internazionale non solo a lottare con ogni mezzo contro la politica di espansionismo coloniale delle potenze capitalistiche, ma anche a promuovere il più possibile la formazione di partiti socialisti nei paesi coloniali. Questa risoluzione fu approvata all’unanimità. Delegati inglesi sia della Federazione Socialdemocratica sia del Partito Laburista Indipendente colsero l’occasione per denunciare la guerra condotta dall’imperialismo britannico in Sud Africa.
Pochi anni dopo il colonialismo avrebbe trovato dei difensori fra le file della socialdemocrazia tedesca, i belgi si sarebbero nettamente divisi sulla questione se accettare o meno lo Stato libero del Congo, fra i socialisti danesi vi sarebbero stati dissensi riguardo alle Indie Orientali. Questi contrasti sarebbero venuti fuori chiari negli anni seguenti con il rafforzarsi delle tendenze opportuniste nei singoli paesi, ma nel 1900 non erano ancora stati spinti in primo piano dall’acuirsi delle rivalità imperialistiche fra le maggiori potenze. E anche gli opportunisti potevano ancora unirsi in una appassionata denuncia del colonialismo.
Amsterdam 1904. Di nuovo l’olandese Van Kol presentò una risoluzione generale che impegnava il Congresso ad opporsi fermamente a tutte le misure imperialistiche e a tutti gli stanziamenti in loro favore. La risoluzione continuava condannando ogni concessione o monopolio nelle zone coloniali, denunciava lo stato di oppressione in cui erano tenuti i popoli soggetti e chiedeva provvedimenti per migliorare le loro condizioni mediante opere pubbliche, servizi sanitari e scuole libere da ogni influenza missionaria. Proclamava inoltre che venissero concesse «tutte le libertà e tutta l’autonomia compatibile con lo stato di sviluppo dei popoli interessati, tenendo presente che l’obbiettivo finale doveva essere la loro completa emancipazione». Qui già il germe dello sciovinismo. La risoluzione terminava chiedendo il controllo parlamentare sullo sfruttamento dei territori coloniali.
Stoccarda. Siamo nel 1907, l’orizzonte internazionale comincia a scurirsi, la guerra si avvicina, l’opportunismo di conseguenza è costretto a prendere delle posizioni sempre più scoperte; infatti a Stoccarda la commissione era composta in maniera tale che gli opportunisti, capeggiati dal solito Van Kol, ebbero il sopravvento. Nel progetto di risoluzione era stata inserita la frase mostruosa che «il Congresso non condanna in linea di principio qualsiasi politica coloniale, politica che in regime socialista può esercitare una funzione civilizzatrice». La minoranza della commissione (il tedesco Ledebur, i socialdemocratici polacchi, i russi) protestarono energicamente contro l’ammissione di una simile idea; gli opportunisti si strinsero intorno a Van Kol; Bernstein e David a nome della maggioranza della delegazione tedesca parlarono a favore del riconoscimento della “politica coloniale socialista” scagliandosi contro i rivoluzionari per la sterilità della loro negazione, per l’incapacità di capire il valore delle riforme, ecc.
David andava addirittura oltre. Oltre a non condannare per principio e per sempre qualsiasi politica coloniale, che in regime socialista avrebbe potuto presentarsi come un compito di civilizzazione, voleva aggiungere nella risoluzione che «il Congresso, affermando che il socialismo ha bisogno delle capacità produttive del mondo intero, destinate ad essere poste al servizio dell’umanità e ad elevare i popoli di ogni lingua e colore alle più alte forme di civiltà, vede nell’idea colonialista concepita in tal senso, un elemento integrante di quegli universali obiettivi di civilizzazione che il movimento socialista persegue».
Contro gli opportunisti Kautsky replicò duramente e chiese al Congresso di pronunciarsi contro la maggioranza della delegazione tedesca. Lenin così commentava questi fatti:
«Si tratta di sapere se dobbiamo fare delle concessioni all’odierno regime di rapina e violenza borghese. L’attuale politica coloniale è sottoposta alla discussione del Congresso e questa politica si basa sull’aperto asservimento dei selvaggi: la borghesia istituisce di fatto la schiavitù nelle colonie sottoponendo gli indigeni a oltraggi e violenze senza precedenti, “civilizzandoli” con la diffusione dell’acquavite e della sifilide. E in una situazione simile i socialisti pronunceranno frasi elusive sulla possibilità di riconoscere in linea di principio la politica coloniale! Sarebbe un aperto passaggio al modo di vedere borghese. Ciò vorrebbe dire fare un passo decisivo verso la sottomissione del proletariato all’ideologia borghese, all’imperialismo borghese che oggi solleva la testa con particolare tracotanza» (“Il Congresso della Internazionale socialista di Stoccarda”).
La proposta della commissione fu bocciata al Congresso con 127 voti contro 108 e 10 astenuti; il Congresso era praticamente spaccato in due fra rivoluzionari e opportunisti.
Citiamo ancora Lenin:
«Una classe di persone nullatenenti ma che non lavorano non è in grado di abbattere gli sfruttatori. Solo la classe dei proletari che mantiene tutta la società, ha la forza di fare la rivoluzione sociale. E una vasta politica coloniale ha portato a una situazione in cui il proletariato europeo viene in parte a trovarsi in condizioni tali per cui tutta la società non viene mantenuta con il suo lavoro, ma con il lavoro degli indigeni delle colonie (quasi schiavizzati). La borghesia inglese per esempio ricava più redditi dalle decine e centinaia di milioni di abitanti dell’India e di altre sue colonie che dagli operai inglesi. Questa situazione crea in determinati paesi la base materiale economica che permette allo sciovinismo coloniale di contagiare il proletariato».
L’Internazionale si espresse quindi contro il colonialismo:
«La politica coloniale capitalista, per la sua stessa essenza, conduce necessariamente all’asservimento, al lavoro forzato, alla distruzione dei popoli indigeni sotto il regime colonialista (...) La missione “civilizzatrice” proclamata dalla società capitalista è solo un pretesto per mascherare la sete di conquista e di sfruttamento. Lontano dall’incrementare la capacità produttiva delle colonie essa distrugge le loro naturali ricchezze attraverso lo stato di miseria e schiavitù in cui riduce le loro popolazioni. Il colonialismo aumenta l’onere degli armamenti e i pericoli di guerra, e i socialisti sono tenuti ad assumere in tutti i parlamenti un inflessibile atteggiamento di opposizione al servaggio ed allo sfruttamento dominanti in tutte le colonie esistenti, a chiedere riforme che migliorino le condizioni di vita degli indigeni, a vigilare in difesa dei loro diritti e a lavorare con tutti i mezzi disponibili per la loro indipendenza».
Le
frazioni di sinistra contro l’ondata opportunista
Abbiamo visto rapidamente le risoluzioni dei Congressi: in esse è sempre presente il problema dell’antimilitarismo, sebbene questa parola d’ordine sia o estremizzata e ridotta a una serie di reazioni e gesti individuali nella visione anarchica, o annacquata e immiserita in lotta parlamentare dal riformismo. Contro queste due deformazioni si batte “l’antimilitarismo” della sinistra russa, tedesca e italiana che, se nel primo periodo dell’Internazionale tollera parole d’ordine come arbitrato internazionale, abolizione degli eserciti permanenti ecc., è cosciente che la lotta contro la guerra e il militarismo borghese non si esaurisce in queste parole d’ordine, meno che mai se sostenute solo a livello parlamentare. Le forze di sinistra hanno ben presente che nell’epoca dell’imperialismo, allo scoppio della Prima Guerra mondiale, l’antimilitarismo deve trasformarsi in disfattismo rivoluzionario.
Vediamo alcuni punti di questa battaglia teorica condotta dalla sinistra contro il riformismo e l’anarchismo circa la definizione del periodo storico.
Come abbiamo già detto nella prima parte di questo lavoro, con il 1871 per l’Occidente pienamente capitalistico si chiude il ciclo delle guerre borghesi progressive e di assestamento nazionale e il marxismo rivoluzionario si porta sul terreno delle lotte esclusivamente proletarie contro la borghesia; per il movimento di classe non si tratta più di schierarsi a fianco dell’uno o dell’altro esercito statale per abbattere ostacoli allo sviluppo del modo di produzione capitalistico perché ogni ritorno a forme economiche e di dominio preborghesi è ormai storicamente escluso.
Alla fase delle guerre di sistemazione nazionale segue un lungo periodo che spesso abbiamo definito “intermezzo idilliaco del capitalismo” che si protrae fino al 1914: mentre il capitalismo penetra tutto il mondo del suo modo di produzione, è un periodo di “pace armata” fra le metropoli e di continua guerra ai popoli delle colonie.
In questa fase, che intercorre fra la Comune di Parigi e il 1914, il militarismo diviene l’asse portante della vita economica e sociale del capitalismo; alla sua funzione esterna di conquista dei mercati nelle aree extra-europee, unisce una funzione interna di repressione di ogni moto di classe.
L’esercito di mestiere, ormai insufficiente, viene sostituito dappertutto con l’esercito di leva nella prospettiva di guerre sempre più estese. L’esercito è formato nei gradini inferiori della scala gerarchica principalmente da proletari, che vengono annientati psicologicamente e spesso fisicamente (vedi articoli de “L’Avanguardia”) dal sistema di disciplina e di obbedienza, che mira a distruggere in loro ogni sentimento di classe e a trasformarsi in macchine da guerra e in carne da cannone.
L’attività antimilitarista diventa uno dei cardini dei partiti socialisti. Citiamo da Lenin:
«È eccezionalmente difficile e talvolta addirittura impossibile svolgere il lavoro di propaganda fra i soldati che si trovano in servizio effettivo. La vita di caserma, la rigorosa sorveglianza, le rare licenze complicano ancor più i contatti con il mondo esterno; la disciplina militare, l’assurdo addestramento atterriscono i soldati; le autorità militari fanno tutti gli sforzi per eliminare dal “gregge” ogni idea viva, ogni sentimento umano, per inculcargli sentimenti di cieca obbedienza, di assurda e selvaggia avversione per i nemici “esterni” e “interni” (...) È quindi assai più difficile accostare il soldato isolato, ignorante, atterrito, distaccato dall’ambiente naturale, educato alle opinioni più selvagge sul mondo circostante che non i giovani in età di leva, i quali vivono ancora nell’ambito della famiglia e degli amici e sono strettamente collegati agli interessi generali. La propaganda antimilitarista tra i giovani operai offre dappertutto ottimi risultati. La qual cosa assume un grande rilievo. L’operaio che entri nelle file dell’esercito già socialdemocratico cosciente costituisce un pessimo punto di appoggio per chi detiene il potere» (“La propaganda antimilitarista e le unioni della gioventù operaia”).
Citiamo ancora da “Il socialismo di ieri dinanzi alla guerra di oggi”, da “L’Avanguardia” 11/1914.
«Il militarismo è l’avversario più temibile della nostra propaganda appunto perché non si avvale della persuasione, ma si basa sulla costituzione di un ambiente forzato e artificiale, nel quale i rapporti di vita sono completamente diversi da quelli dell’ambiente ordinario. Il lavoratore fatto soldato, sottratto alla vicinanza degli amici, parenti, conoscenti, tolto alla vita dell’officina, vede soppresso il suo diritto a discutere, mozzato il proprio individuo, annullata la sua libertà, e si trasforma fatalmente in un automa, in un balocco nelle mani della disciplina. Il richiamato che veste la casacca ritorna automaticamente sotto l’influsso dell’ambiente militare. Il più piccolo gesto di ribellione è pagato con la morte. La diserzione è praticamente impossibile. La rivolta collettiva esigerebbe un concerto e un’intesa irraggiungibili. D’altra parte in poche ore il militare è trasportato altrove, in paesi che non conosce, fra commilitoni che in gran parte vede per la prima volta, manca di ogni notizia che non provenga dai suoi capi: una sola alternativa di salvezza gli resta: ubbidire ciecamente e battersi contro il nemico nella speranza della vittoria».
È nel periodo della Seconda Internazionale che il marxismo deve scontrarsi contro la prima ondata dell’opportunismo nelle file del movimento proletario: il revisionismo di Bernstein e di Jaurés che influenzeranno parecchio l’Internazionale. Termini che con il proletariato sembravano non aver più nulla a che fare vengono ripescati. Il potente grido di Marx e Engels “gli operai non hanno patria” viene stravolto:
«Il proletariato non si trova fuori della patria. Quando il Manifesto comunista di Marx-Engels formulò nel 1847 la frase famosa, così spesso ripetuta e sfruttata in ogni senso “i lavoratori non hanno patria” non si trattava che di una boutade appassionata, una replica del tutto paradossale e d’altronde infelice alla polemica dei patrioti borghesi che denunciavano il comunismo come distruttore della patria (...) Un po’ di internazionalismo allontana dalla patria, molto internazionalismo riavvicina ad essa, un po’ di patriottismo allontana dalla Internazionale, molto patriottismo vi riconduce (...) L’esercito così costituito ha come esclusivo obbiettivo quello di difendere contro ogni aggressore l’indipendenza e il suolo del paese. Ogni guerra è criminale se non è manifestamente e certamente difensiva, se il governo del paese non propone al governo straniero con il quale è in conflitto di regolare il conflitto stesso con un arbitrato» (Jaurés, “La Nuova Armata”, 1911).
Rosa Luxemburg combatte queste posizioni opportuniste:
«Qui troviamo a base di tutto l’orientamento politico questa famosa distinzione fra guerra offensiva e guerra difensiva che ha svolto fino ad oggi un grande ruolo nella politica estera dei partiti socialisti ma che in funzione dell’esperienza degli ultimi decenni dovrebbe puramente e semplicemente essere messa al bando» (“Recensione a La Nuova Armata”, 1911).
È Lenin appoggiato dalla sinistra tedesca che al Congresso di Stoccarda attacca la destra e gli opportunisti sul problema dell’antimilitarismo:
«A un polo si trovano i socialdemocratici tedeschi del tipo di Vollmar. Essi ritengono che, se il militarismo è figlio del capitalismo, se le guerre sono l’inevitabile compagno di strada dello sviluppo capitalistico, allora non è necessaria alcuna specifica attività antimilitaristica. Proprio così si è espresso Vollmar al Congresso di Essen. Sul problema della condotta dei socialdemocratici in caso di guerra, la maggioranza dei socialdemocratici tedeschi, con Bebel e Vollmar alla testa, si attiene con energia alla tesi che i socialdemocratici devono difendere la propria patria dall’attacco e prendere parte a una guerra “difensiva”. Questa posizione ha spinto Vollmar a Stoccarda a dichiarare che: “tutto l’amore per l’umanità non ci può impedire di essere dei buoni tedeschi” e ha indotto il deputato socialdemocratico Noske a proclamare al Reichstag che, in caso di guerra contro la Germania “i socialdemocratici tedeschi non saranno alla coda dei partiti borghesi e impugneranno il fucile”, dopo di che a Noske è bastato fare un solo passo per dichiarare: “noi vogliamo che la Germania sia armata quanto più è possibile” (...)
«La posizione di Vollmar, di Noske e degli altri dell’ala destra che la pensano come loro è viltà opportunistica. Se il militarismo è creatura del capitale e scompare col capitale, come essi hanno sentenziato a Stoccarda e in special modo a Essen, non sarebbe neppure necessaria una specifica azione antimilitaristica, che non avrebbe ragione di essere. Ma, si obbiettava a Stoccarda, anche la soluzione radicale della questione operaia o della questione della donna, per esempio, è impossibile fino a che sussiste il regime capitalistico, e tuttavia noi lottiamo per la legislazione operaia, per estendere i diritti civili alle donne, ecc. La propaganda specificatamente antimilitaristica deve essere svolta con tanta più energia quanto più frequenti si fanno i casi di ingerenze delle forze armate nella lotta fra capitale e lavoro e quanto più evidente diviene l’importanza del militarismo non soltanto nella lotta odierna del proletariato ma anche nel futuro, al momento della rivoluzione sociale» (“Il militarismo militante”).
Contemporaneamente, oltre alla lotta all’antimilitarismo riformista il marxismo lotta contro l’anarchismo e l’anarco-sindacalismo che hanno una notevole influenza fra le masse operaie. La loro propaganda ed azione antimilitarista, pur essendo più combattive di quelle del revisionismo, non sono meno dannose per il movimento proletario.
Lenin, polemizzando con Hervé. scriveva nel 1907:
«Il famigerato Hervé che ha fatto molto rumore in Francia e in Europa ha sostenuto su questa questione un punto di vista semianarchico, proponendo ingenuamente di rispondere a qualsiasi guerra con lo sciopero e l’insurrezione. Da un lato non capisce sia che la guerra è un prodotto necessario del capitalismo, sia che il proletariato non può rifiutarsi di partecipare a una guerra rivoluzionaria, giacché simili guerre sono possibili e ce ne sono state nelle società capitalistiche. D’altro lato non capisce che la possibilità di “rispondere” alla guerra dipende dal carattere della crisi che la guerra stessa provoca. Da queste condizioni dipende la scelta dei mezzi di lotta; inoltre questa scelta deve consistere (è questo il terzo punto delle incomprensioni o della stoltezza dell’herveismo) non in una mera sostituzione della pace alla guerra, ma nella sostituzione del socialismo al capitalismo. L’importante non è soltanto impedire lo scoppio della guerra, ma utilizzare la crisi da questa generata per affrettare l’abbattimento della borghesia» (“Il Congresso socialista di Stoccarda”).
Lenin pur criticando l’anarchismo attacca contemporaneamente il riformismo e prosegue:
«Ma dietro tutte le assurdità semianarchiche dello herveismo si cela una cosa praticamente giusta: dare una spinta al socialismo nel senso di non limitarsi ai soli mezzi di lotta parlamentari, di sviluppare nelle masse la coscienza della necessità di metodi di azione rivoluzionaria in connessione con le crisi che la guerra porta inevitabilmente con sé, nel senso infine, di diffondere nelle masse una più viva coscienza della solidarietà internazionale degli operai e della falsità del patriottismo borghese».
E su questo punto attacca Vollmar:
«In questo errore è incorso principalmente Vollmar. Con la straordinaria fatuità dell’uomo innamorato di un parlamentarismo stereotipato, si è scagliato contro gli Hervé, non accorgendosi che con la sua ristrettezza e aridità, proprie dell’opportunismo, spingeva una piccola corrente viva ad accettare l’herveismo, nonostante l’assurdità teorica e l’insensatezza dell’impostazione del problema da parte dello stesso Hervé. Non capita forse che a una nuova svolta del movimento le assurdità teoriche celino una qualche verità pratica? E questo aspetto della questione, l’invito ad agire in conformità con le nuove condizioni della futura guerra e delle future crisi, è stato sottolineato dai socialdemocratici rivoluzionari e specialmente da Rosa Luxemburg nel suo discorso».
Il
tradimento del 4 agosto 1914
Dal 4 agosto i socialisti di entrambi i fronti predicano la solidarietà con lo Stato nazionale in guerra, rispolverando il concetto di patriottismo abolito definitivamente per il proletariato dal Manifesto. Solo pochi gruppi di socialisti si salvano dalla catastrofe del socialsciovinismo.
Lenin e i bolscevichi e con loro il gruppo tedesco Die Internazionale e la Sinistra italiana difesero la tradizione del marxismo rivoluzionario ribadendo il carattere imperialista della guerra, la condanna senza appello di ogni forma di unione sacra e di alleanza nazionale e rivendicando la lotta disfattista interna del partito proletario contro ogni Stato ed esercito in guerra. Con la parola d’ordine di trasformare la guerra imperialista in guerra civile si ha la possente riaffermazione dei principi dell’internazionalismo rivoluzionario.
Con il 4 agosto l’Internazionale si sfascia:
«La Seconda Internazionale, che è riuscita in 25 anni a compiere un lavoro estremamente importante e utile di diffusione del socialismo e di organizzazione preparatoria, iniziale, elementare delle sue forze, ha compiuto la sua funzione storica ed è morta vinta dall’opportunismo.
«L’epoca “pacifica” durata decenni non è passata senza lasciare traccia: ha generato inevitabilmente l’opportunismo in tutti i paesi, assicurandogli la supremazia fra i “capi” parlamentari, sindacali, dei giornali, ecc. Non c’è paese in Europa in cui non vi si stata, in una forma o nell’altra, una lunga e ostinata lotta contro l’opportunismo, che tutta la borghesia appoggiava in mille modi per corrompere e indebolire il proletariato rivoluzionario» (“Sciovinismo morto e socialismo vivo»).
E ancora Lenin:
«Tutti consentono che l’opportunismo non è un fatto casuale, non è un peccato, non un errore o un tradimento di singole persone, ma il prodotto sociale di tutto un periodo storico. Ma non tutti riflettono sul significato di questa verità. L’opportunismo è il frutto del legalitarismo. Nel periodo 1889-1914, i partiti operai dovevano utilizzare la legalità borghese. Al sopraggiungere della crisi, si sarebbe dovuto passare al lavoro illegale (e ciò non era possibile senza la massima energia e risolutezza congiunta a tutta una serie di astuzie di guerra). Per impedirlo è bastato un solo Sudekum, perché alle sue spalle – storicamente e filosoficamente parlando – vi è tutto il “vecchio mondo”, perché egli, Sudekum (in linguaggio politico-pratico) ha sempre rivelato e rivelerà sempre alla borghesia i piani di guerra del suo nemico di classe» (“Il fallimento della Seconda Internazionale”).
Ricordiamo che il 29 luglio 1914 Sudekum, membro socialdemocratico della commissione del Reichstag per gli armamenti e già da tempo in contatto con il cancelliere Hollweg, scriveva a quest’ultimo una lettera in cui a nome di Ebert, Braun, Muller, Bartel e Fisher, assicurava che non erano programmate azioni di lotta.
Vediamo dalle seguenti citazioni di Lenin, tratte sempre da “Il fallimento della Seconda Internazionale”, come il socialsciovinismo sia l’espressione più matura delle tendenze opportuniste presenti nell’Internazionale e come esso trovi in parte le proprie radici nell’incapacità dell’opportunismo di comprendere il passaggio ad una mutata situazione storica, incapacità che gli è data dalla necessità di mantenere i privilegi acquisiti.
«Da questo scaturisce la domanda posta sopra: come si lotta contro il socialsciovinismo? Il socialsciovinismo è l’opportunismo talmente maturato, talmente rafforzato e divenuto così insolente nel lungo periodo del capitalismo relativamente “pacifico”, così definito ideologicamente e politicamente, così strettamente congiunto alla borghesia e ai governi, che non si può tollerare la permanenza di tale corrente all’interno dei partiti operai socialdemocratici. Se si può ancora sopportare una suola debole e sottile quando si deve camminare sui marciapiedi moderni di una piccola città di provincia, non si può fare a meno di suole doppie e bene chiodate quando si va in montagna. Il socialismo europeo è uscito dallo stadio relativamente pacifico e dagli angusti confini nazionali. Con la guerra 1914-1915, esso è giunto allo stadio dell’azione rivoluzionaria, e la completa rottura con l’opportunismo e la sua esclusione dai partiti operai sono assolutamente mature.
«S’intende che da questa definizione dei compiti che stanno davanti al socialismo, nel nuovo periodo del suo sviluppo mondiale, non si deduce ancora immediatamente e esattamente con quale rapidità e in quali forme si svolgerà precisamente nei diversi paesi il processo della scissione dei partiti operai socialdemocratici rivoluzionari da quelli opportunisti piccolo-borghesi. Ma da essa scaturisce la necessità di rendersi conto chiaramente che tale scissione è inevitabile e di orientare appunto in questo senso tutta la politica dei partiti operai.
«La guerra del 1914-1915 è una così grande svolta nella storia, che i rapporti con l’opportunismo non possono rimanere quali erano per il passato. Non si può far sì che non sia stato ciò che è stato: non si può cancellare dalla coscienza degli operai, né dalla esperienza della borghesia, né dalle conquiste politiche della nostra epoca in generale il fatto che gli opportunisti, nel momento della crisi, sono stati il nucleo di quegli elementi dei partiti-operai che sono passati dalla parte della borghesia.
«L’opportunismo, se lo consideriamo su scala europea, è restato giovane, per così dire, fino allo scoppio della guerra. Con la guerra esso è giunto definitivamente alla virilità e non è possibile renderlo nuovamente “innocente” e giovane. Si è formato tutto uno strato sociale di parlamentari, di giornalisti, di burocrati del movimento operaio, di impiegati privilegiati e di alcune categorie proletarie, che si è fuso e adattato alla propria borghesia nazionale, la quale ha ben saputo apprezzarlo e “adattarselo”. Non si può far girare all’indietro né arrestare la ruota della storia: si può e si deve andare avanti intrepidamente, passare dalle organizzazioni legali operaie esistenti, prigioniere dell’opportunismo, alle organizzazioni rivoluzionarie della classe operaia, capaci di non limitarsi alla legalità, capaci di proteggersi dal tradimento opportunista, a una organizzazione del proletariato che conduca la “lotta per il potere”, la lotta per l’abbattimento della borghesia» (“Sciovinismo morto e socialismo vivo”).
Queste potenti citazioni di Lenin ci danno un quadro chiarissimo delle connessioni fra opportunismo e sciovinismo e di come questo si nutra del parlamentarismo e del legalitarismo ad oltranza.
Anche la sinistra italiana, traendo la lezione dalla débâcle del 1914, dà un definitivo giudizio sulla tattica antimilitarista precedente:
«La teoria e la propaganda dell’antimilitarismo prima di questa guerra si svolgevano prevalentemente in vista dell’interesse e della necessità proletaria di impedire e deprecare con ogni mezzo la guerra e di contrastare le nefaste conseguenze del militarismo in tempo di pace (spese per i folli armamenti, repressione armata dei movimenti operai, influenze perniciose della vita militare sulla gioventù, ecc.). Ma era stato lasciato troppo nell’ombra il problema di quello che i socialisti avrebbero dovuto fare, non già per scongiurare la guerra, ma per difendere le conquiste del proletariato e salvare dalla rovina il socialismo quando la guerra fosse già scoppiata.
«L’errore di visuale consisteva nel pensare riformisticamente il problema dell’antimilitarismo (riduzione degli armamenti, nazione armata, arbitrato, ecc.), mentre il compito del socialismo non è di risanare la società borghese, bensì di affrettarne la demolizione ab imis fundamentis, risalendo cioè ai cardini del suo organamento economico. L’antimilitarismo non è quindi fine a sé stesso, ma è una delle facce dell’azione anticapitalistica del socialismo» (“Dal vecchio al nuovo antimilitarismo”, 1915).
E ancora:
«Solo nel regime socialista (...) solo nella società senza classi saranno impossibili le guerre. Noi ripudiamo l’antimilitarismo riformista che sogna la nazione armata e non si accorge che l’evoluzione degli Stati borghesi, soprattutto dei più democratici, si svolge precisamente in senso opposto» (“Il socialismo di ieri dinanzi alla guerra di oggi», 1914).
E ancora:
«Il Socialismo dovrà trarre da queste gravi sconfitte vitali insegnamenti: rimettere su più salde basi l’azione antimilitaristica, rivedere in senso più rivoluzionario la sua azione parlamentare, così ricca finora di amare delusioni.
«L’antimilitarismo classico si era prospettato poco, troppo poco, la situazione in cui i socialisti e le classi lavoratrici si sarebbero trovati nelle poche ore in cui la guerra da una minaccia diviene una realtà.
«I socialisti avevano l’esperienza di crisi parziali, per guerre limitate o coloniali, come la guerra anglo-boera, quella russo-giapponese, quella libica (...) Ma il conflitto fra i più forti Stati del mondo, fra i paesi confinanti e preparati all’impiego dei metodi di offesa più spaventevoli, nel periodo angoscioso in cui i telegrammi cifrati che si scambiano i governi decidono della sorte di milioni di uomini, ha travolto in una crisi senza confronti tutte le opinioni, le tendenze, le previsioni, i propositi.
«È troppo noto ciò che è avvenuto. Oltre a non aver potuto scongiurare la guerra – ciò che assolutamente non costituiva il fallimento del socialismo – i socialisti hanno nei principali Stati, e salvo poche eccezioni, pienamente solidarizzato coi rispettivi governi».
La tattica antimilitarista della maggioranza della Seconda Internazionale era quindi caratterizzata dalla necessità di deprecare ed impedire con ogni mezzo la guerra, una tattica di protesta e di denuncia tendente a contrastare le nefaste conseguenze del militarismo. I partiti occidentali si limitarono solo a una propaganda verbale contro la guerra ed il militarismo, il che dimostrò tutta la sua impotenza e sterilità allo scoppio del conflitto.
Si potrebbe dire che quel che accadde il 4 agosto era prevedibile perché troppo preponderante il peso della destra e dell’opportunismo in seno all’Internazionale, ma sarebbe riduttivo considerare l’Internazionale nel suo insieme come opportunista in ragione del 4 agosto, si rischierebbe di gettare via il bambino insieme all’acqua sporca, ossia le tendenze sane.
A questo proposito citiamo Zinoviev che nell’articolo “La Seconda Internazionale e il problema della guerra: rinunciamo all’eredità?”, del 1916, polemizzava con Gorter appunto su questo argomento:
«Non neghiamo con ciò la giustezza della severa caratterizzazione che Gorter fa dei capi che hanno dato il tono al Congresso di Basilea: sappiamo che gli opportunisti di tutti i paesi non credevano alla rivoluzione. Ci immaginiamo assai bene che cosa sia avvenuto nella cucina diplomatica della Seconda Internazionale in cui si è preparata la risoluzione di Basilea (...) Ma la questione principale sta nel fatto che il Congresso di Basilea parlò allora proprio alle masse lavoratrici. I lavoratori socialisti credevano allora a ogni parola dell’Internazionale e presero anche il Manifesto di Basilea per oro colato. Altra questione: perché gli stessi diplomatici dell’opportunismo hanno dovuto dire alle masse proprio tutto ciò e non altro, non quello che dicono adesso? (...) Il compito dei marxisti rivoluzionari consiste nel mostrare come, durante il quarto di secolo di vita dell’Internazionale, due tendenze di fondo abbiano in essa lottato, con alterni successi per il sopravvento: quella marxista e quella opportunista. Non vogliamo cancellare tutta la storia della Seconda Internazionale non rinunciamo a quanto vi era in essa di marxista»
Citavamo Lenin su questo:
«Il voto del 4 agosto con cui la socialdemocrazia internazionale manifestava il suo allineamento al rispettivo imperialismo, costituì il rinnegamento degli impegni di Stoccarda e Basilea e non il corollario delle insufficienze e ambiguità rintracciabili subordinatamente in quelle risoluzioni. “Il crollo della Seconda Internazionale si espresse nel modo più significativo nell’inaudito tradimento della maggior parte dei partiti socialisti europei nei confronti dei propri convincimenti e delle loro solenni risoluzioni di Stoccarda e Basilea» (“Il crollo della Seconda Internazionale”, 1915).
Furono
le frazioni di sinistra della Seconda Internazionale, il partito
bolscevico russo, la Sinistra italiana, che sempre avevano innalzato
la bandiera della ortodossia marxista di fronte alla guerra e
indicato al proletariato la tradizionale impostazione programmatica e
implicazioni tattiche, a riaprire il ciclo rivoluzionario verso
l’avvenire.
L’agitazione antimilitarista del PSI comincia ai primi del ‘900, molto prima che si sia delineata la frazione di sinistra. Gli intransigenti di allora, tra i quali troviamo personaggi come Rigola, Labriola, Ferri, si facevano portavoce dell’odio delle masse proletarie contro il regio esercito, che tradizionalmente raccoglieva “vittorie” sul fronte interno massacrando senza pietà durante gli scioperi e le dimostrazioni proletarie e contadine. Ma nelle formulazioni della loro propaganda si intrecciavano motivi contraddittori: alla protesta contro gli eccidi e contro il brutale trattamento dei proletari-soldati, si univa la rivendicazione fatta allo Stato borghese di un esercito che veramente scaturisse dal popolo (il popolo in armi), la richiesta di democratizzazione e di umanizzazione dell’esercito, di arbitrato in caso di conflitto, di destinare le spese militari ad opere benefiche. In generale non viene visto il militarismo come un prodotto moderno, necessario della società borghese, ma come un retaggio del passato, una stortura da correggere.
Ecco in proposito alcuni brani da due articoli di A. Labriola, poi massone, bloccardo, interventista:
«Primieramente noi intendiamo dire il pensiero nostro sull’esercito del maggio 1898. Noi siamo di coloro che non dimenticano. I macelli scellerati ed impuniti di allora, hanno segnato nella nostra memoria un ricordo indelebile e cosciente. I flaccidetti e anemici rappresentanti di quegli uccisi si sdilinquiscano pure nei soliti luoghi comuni sull’esercito che sarebbe il popolo stesso in armi (e gli ufficiali?). Noi no! (...) spetta alla frazione rivoluzionaria del nostro partito richiamare energicamente la campagna alle sue tendenze risposte congenite» (”Avanguardia Socialista”, Milano, 15 febbraio 1903).
«L’assetto presente dell’Europa, ove non è determinato dagli aggruppamenti nazionali, è figlio della conquista e della violenza monarchica. I vari sistemi di alleanza escogitati e attuati dalla infernale abilità degli uomini politici, o hanno lo scopo di mantenere e conservare questo assetto oppure di sostituirvi un sistema diverso non già fondato sulla rivendicazione del diritto nazionale, ma su una nuova oppressione nazionale (...) Il Partito Socialista si leva fieramente contro questo barbaro trionfo della violenza armata. Esso non accetta del passato macabre eredità di sangue (...) Duplice o triplice di cui si tratti, il partito Socialista non ha per esse nessuna simpatia. Soltanto opponendosi alle varie combinazioni della dominante politica internazionale, esso ha il diritto di attaccare alla sua radice il militarismo che è in un certo senso l’efflusso ed in un altro la causa di questa situazione. Certe posizioni si accettano in blocco. E francamente quando i conservatori affermano che, data la presente situazione dell’Europa quale è determinata dalle conquiste napoleoniche e dalle successive rivoluzioni nazionali, sarebbe imperdonabile leggerezza disarmare, non è che essi abbiano tutti i torti. Solo ribellandosi al fatto compiuto e respingendo i risultati degli eventi storici in ciò che essi costituiscono un ostacolo allo sviluppo della civiltà e della democrazia e proponendosi di modificarli, si ha il diritto di condurre coerentemente la campagna antimilitarista. In caso opposto non è possibile respingere gli sberleffi dei conservatori. Il gruppo parlamentare socialista, accettando la Triplice e approvando la politica estera della dinastia, si è messo in condizioni di non fare pigliare sul serio la propria campagna antimilitarista. Tu l’as volu Georges Dandin!» (”Avanguardia Socialista”, Milano, 1 marzo 1903).
A proposito dei limiti del primo antimilitarismo, scrivemmo nel 1915, dopo gli accapi sopra riportati dall’articolo “Dal vecchio al nuovo antimilitarismo”:
«Solo la socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio renderà impossibili i conflitti fra le nazioni, così il Manifesto dei Comunisti. Si era invece pian piano diffuso il concetto che la guerra, anche in regime borghese, fosse impossibile». (“Avanti!” del 12 febbraio 1915.
È la federazione giovanile, attraverso il suo organo “L’Avanguardia” che conduce la più coerente battaglia antimilitarista, non soltanto con la polemica e la propaganda, ma anche con tentativi di agitazione, come la manifestazione antimilitarista del 6 ottobre 1907, promossa dal Comitato centrale della Federazione e dalla Lega nazionale futuri coscritti, e con il costante sforzo di mantenere il collegamento tra i proletari nelle officine e quelli in divisa e di portare anche dentro le caserme la propaganda socialista. Ecco uno dei tanti manifesti ai coscritti:
«Ai partenti, Compagni, Lavoratori, coscritti! (...) Voi sapete di avere un nemico formidabile, voi conoscete questo nemico e non occorre che lo andiate a cercare nella patria di altri lavoratori come voi: questo nemico è il capitalismo (...) l’esercito infatti non è che uno strumento in mano alla borghesia per tenervi avvinti ai ceppi della schiavitù e dello sfruttamento (...) Noi non v’incitiamo alla diserzione (...) Noi vi ricordiamo però i vostri imprescindibili doveri di uomini e di appartenenti alla classe operaia: voi non sparerete sui vostri fratelli» (6 ottobre 1907, Federazione Italiana giovanile socialista, Lega futuri coscritti della classe 1887).
Ne ”L’Avanguardia” vengono costantemente denunciate le angherie e le sopraffazioni che il proletario-soldato subisce nelle caserme, luoghi di degradazione morale e materiale, e viene sempre ricordato che per il soldatino strappato con la forza al suo lavoro, il corpo degli ufficiali non rappresenta altro che gli sfruttatori in divisa. Non si tralascia occasione poi per mettere in ridicolo la tronfia e sanguinaria retorica militarista, nelle sue più care tradizioni:
«Il nostro esercito vittorioso! L’esercito regolare agli ordini di Carlo Alberto fu ignominiosamente sconfitto nella prima campagna a Custoza e a Novara; vinse con Vittorio Emanuele II nella battaglia di Solferino; fu sconfitto di nuovo a Custoza, mentre sul mare cadevano orgogli e speranze nelle acque di Lissa. La vittoria maggiore, Solferino, fu ottenuta con l’aiuto delle armi francesi (...) a Solferino su 2.313 morti degli alleati, erano italiani 691; su 12.162 feriti erano italiani 3.572; su 276 dispersi vi furono (ohimè) 258 italiani (...) la Lombardia fu conquistata dunque con armi francesi (...) Parma, la Toscana e le Legazioni scacciarono per loro conto i padroni e si unirono col plebiscito al regno d’Italia; la Venezia fu regalata da Napoleone III che l’aveva ottenuta dall’Austria dopo Sadowa; tutto il regno napoletano fu il magnifico dono di Garibaldi. La breccia di Porta Pia fu la parodia di una battaglia e si narra che il generale Cadorna recitasse il rosario mentre sparava il cannone. Noi dobbiamo dunque la patria a queste istituzioni militari? E dopo il 1870? Oh! dopo la storia si fa assai più triste, ogni sua pagina è tutt’altro che gloriosa! Dopo venne l’Africa di cui Adua e Abba Carima sono le tappe vergognose. Cosicché questo militarismo, considerato al lume positivo della storia non può contare che quelle vittorie le quali cominciarono da Fantina e da Aspromonte e si seguirono ininterrotte a Caltavuturo, a Candela, a Barrafranca, a Giarratana, a Castelluzzo, a Grammichele, a Taurisano, non contro nemici d’oltre confine, ma contro fratelli della stessa patria» (“L’Avanguardia”, 29 settembre 1907).
Il 25 settembre 1907 si svolse a Bologna il primo Congresso della Federazione Giovanile.
«Sull’antimilitarismo si affermò che si dovesse fare propaganda perché, nei conflitti tra capitale e lavoro, i soldati non eseguissero mai l’ordine di sparare sugli scioperanti, e circa l’azione internazionale ci si richiamò a quella dei partiti socialisti, pur invocando la possibilità di una “simultanea azione” dei soldati dei vari paesi belligeranti» (“Storia della Sinistra”, vol. I, pag. 58).
L’anno successivo, nell’agosto 1908, si svolge a Reggio Emilia il secondo Congresso della Federazione giovanile. Qui viene approvato un ordine del giorno che impegna i giovani socialisti di far «opera preparatoria nel proletariato affinché sia pronto ad impedire le guerre ricorrendo a qualunque mezzo (...) in conformità ai deliberati del Congresso di Stoccarda» del 1907.
In proposito, la nostra “Storia della Sinistra” commenta:
«Richiamo tanto più notevole in quanto, al Congresso di settembre dello stesso anno, il partito “adulto” non troverà neppure il tempo di discutere di “socialismo e antimilitarismo”, e Bacci dovrà quindi ritirare la sua mozione su questo tema, che d’altra parte non faceva cenno dei deliberati di Stoccarda, in cui non solo si chiamava il proletariato alla lotta contro la guerra, ma si legava indissolubilmente quest’ultima alla lotta per l’abbattimento della dominazione capitalistica».
Pure anche in questo secondo Congresso, i destri vollero una modifica all’ordine del giorno Repossi che nella prima formulazione parlava di «impedire la guerra ricorrendo a qualunque mezzo: dall’azione parlamentare all’insurrezione armata».
In proposito Repossi nota in una lettera a ”L’Avanguardia” del 13 settembre 1908:
«La risoluzione di Stoccarda (...) invita i giovani socialisti di tutte le nazioni ad impedire le guerre mediante l’organizzazione operaia e socialista nazionale e internazionale, con tutti i mezzi, dall’intervento parlamentare all’agitazione pubblica, alle manifestazioni popolari, sino allo sciopero generale operaio e all’insurrezione. Dunque di mio non vi è che la parola “armata” dopo “insurrezione”, ma speriamo che non la faremo a mani in tasche l’insurrezione. Nevvero compagni?»
La campagna de ”L’Avanguardia” contro le angherie del militarismo ai danni del proletariato si svolge incessantemente in questi anni e rappresenta un aspetto della difesa delle condizioni di vita proletarie perché la caserma è la continuazione dello sfruttamento della fabbrica e dei campi e l’ufficiale non è che il padrone con le stellette:
«Mentre i coscritti partono, Ricordate (...) I dirigenti dello Stato, i signori deputati hanno regalato a te e ai tuoi colleghi sei mesi in più di caserma e hanno obbligato quest’anno 25.000 giovani a subire la ferma dalla quale prima di oggi sarebbero andati esenti in 3ª categoria perché avevano già un fratello consanguineo nell’esercito permanente. Chi sa se l’anno prossimo lo stesso benemerito e benevolo parlamento non assoggetti alla ferma anche i figli unici (...) Non sparare contro i tuoi inoffensivi compagni di fatica e non temere di dirlo a viso aperto» (18 ottobre1908, Sylva Viviani).
«Antimilitarismo socialista (...) Bisogna che il proletariato – in divisa o senza – sappia tutto quanto che il militarismo è una istituzione parassita, antiproletaria. Bisogna che il proletariato sappia che la essenza dell’esercito è intimamente legata a tutto il congegno della società capitalistica e della proprietà privata, che la miseria, l’umiliazione, la privazione di libertà che gli viene imposta dal militarismo, sparirà soltanto colla abolizione della proprietà privata (...) Ai giovani, a cui la società borghese sta per far indossare il più terribile e più umiliante dei suoi pesi, l’obbligo cioè di rinunciare alla propria personalità per mettersi al servizio della patria, altro augurio non facciamo che di ricordarsi sempre dei loro doveri verso la propria classe» (18 ottobre 1908, Angelica Balabanoff).
«Gli ultimi richiami alle armi e le turlupinature militari. Ve ne sono di varie specie e sotto-specie. Quest’anno per esempio, ha chiamato sotto le armi la seconda categoria – i figli unici – per istruzione e li han chiamati per tempo. Ma appena chiamati i ricchi borghesi han protestato adducendo gli esami, e non era vero nulla perché gli esami erano terminati o stavano per terminare. Tuttavia il ministro si è affrettato a dispensarli completamente dalla chiamata. Quanto ai proletari, figli unici, però essi hanno avuto un bel rimostrare che venivano richiamati nei momenti del lavoro agricolo più intenso, il sottosegretario alla guerra ha risposto alla camera che esigenze militari imponevano di mantenere invariata la loro chiamata (...) Altra turlupinatura è la riduzione della ferma promessa da Giolitti fin dal 1906 col progetto Vigevano e ancora restata una Fenice (...) Nel 1907 hanno soppresso i due terzi delle esenzioni dal servizio e son già due leve che prendono sotto le armi i sostegni di famiglia (...) Il nuovo ministro Spingardi (una turlupinatura egli stesso) sta infliggendo al proletariato un altro salasso, di vero sangue, non di denaro quello, con l’assoggettare al servizio militare 15 mila semiscarti in più dei 17 mila semiscarti che incorporano ogni anno» (15 agosto 1909 Sylva Viviani).
Dalle lettere dei soldati al giornale, dalle impressionanti statistiche che esso riporta, appaiono le condizioni terribili dei soldati: marce sfibranti senza rancio, condanne bestiali dei tribunali militari per la minima infrazione, migliaia di giovani che arrivano sani e vengono stroncati dalla caserma: in un solo anno 327 casi di tubercolosi, di cui 177 morti “sotto le bandiere” e 210 riformati e mandati a morire a casa; 610 casi di pazzia e epilessia; 18.831 casi di malattie veneree; 14.893 casi di lesione violente di cui 821 gravissime che portarono alla morte e a imperfezioni permanenti (“L’Avanguardia” del 26 settembre 1909). E questo, si noti bene, in tempo di pace.
«Gli stroncati, cioè i resi inabili per malattia e infortunio e rimandati alle case loro menomati permanentemente nella loro forza di lavoro, molti dei quali dopo la riforma soccombono, gli stroncati sono aumentati dal 1901 al 1906 nella ragion media di 600 all’anno. Nel 1901 furono 3.937, nel 1907 furono 7.448» (“La leva degli stroncati” “L’Avanguardia” 14 novembre 1909).
Nessuna meraviglia dunque se, in tempo di pace vi erano ogni anno più di 40.000 renitenti alla leva e ben 2.500 disertori! «o scioperanti se così vi piace meglio chiamarli» (“L’Avanguardia”, ibidem).
Una vivace agitazione viene anche svolta contro le compagnie di disciplina, meglio note come compagnie della morte, veri e propri Lager dove i sovversivi finiscono assieme ai delinquenti comuni e dove vengono mandati persino gli ammogliati senza permesso (“L’Avanguardia” maggio 1910, novembre 1910).
È facile immaginare l’odio per le divise e per le stellette che serpeggia tra le masse proletarie e tra i soldati semplici; di questo odio, ”L’Avanguardia” è il solo portavoce: «Il retroscena delle grandi manovre. Il finto nemico che non si trova. Il Re accolto al grido di “abbiamo fame”. La morte di un bersagliere. Il colonnello Restagno rinunzia al saluto ai richiamati» (Lettera di un gruppo di soldati, ottobre 1910).
Al Congresso giovanile di Firenze (settembre 1910), i rivoluzionari battono nettamente i riformisti.
«Buone tesi sono enunciate sull’antimilitarismo: “la concezione borghese di patria altro non è che la giustificazione ufficiale dei delitti e delle nefandezze commesse dal militarismo attraverso la storia dei secoli” – e ancora, sia pure con una certa ingenuità di formulazione: “Intensificare maggiormente la propaganda antimilitarista e antipatriottica nelle famiglie, in modo che queste educhino i loro figli all’amore e non all’odio, in special modo poi tra i futuri coscritti, essendo infame e fratricida il figlio del popolo che spara sul popolo” – “combattere con tutti i mezzi la propaganda irredentista che cerca spingere ad una guerra due grandi nazioni, e ricorrere a qualunque estremo pur di impedire l’assassinio legale di migliaia di esseri umani” – “far vive pressioni sul partito” per indurre il gruppo parlamentare “ad una attiva azione per la riduzione delle spese militari e a riaffermare le idealità antipatriottiche ed internazionaliste del partito socialista”» (“Storia della Sinistra”, vol. I).
L’opposizione
di classe alla guerra di Libia
Un evento che polarizzò in maniera decisiva le forze in seno al PSI fu la guerra di Libia. L’Italia dichiarava guerra alla Turchia il 29 settembre 1911 e la flotta italiana occupava Tripoli.
«Il movimento proletario si era fieramente levato contro l’impresa nazionalista di Tripoli, secondo le sue non recenti tradizioni anticoloniali. Lo sciopero generale non ebbe esito completo, ma vivissime furono le dimostrazioni contro la partenza delle truppe. Il gruppo socialista votò un ordine del giorno Turati contro la guerra, ma ne dissentirono i destri De Felice, Bissolati, Bonomi, Cabrini e Podrecca. È da notare che non pochi “sindacalisti rivoluzionari” si dichiararono fautori dell’impresa libica, in prima linea Arturo Labriola, Orano ed Olivetti».
Il 24 settembre, ”L’Avanguardia” usciva con il titolo “Perché non ritorni Adua. Andate a Tripoli e noi scenderemo in piazza!”
La Confederazione Generale del Lavoro aveva indetto lo sciopero generale per il 27 settembre, vigilia della dichiarazione di guerra, ma nel manifesto che chiamava allo sciopero si diceva che questo sarebbe dovuto rimanere «nei confini della più severa disciplina e nei brevi limiti di tempo deliberati dalla Confederazione».
I ferrovieri non parteciparono allo sciopero anche per motivi tecnici (di cui certamente i bonzi della Confederazione erano a conoscenza) e scarse furono le adesioni in quasi tutto il Sud. Nelle intenzioni dei dirigenti della Confederazione doveva essere una azione puramente dimostrativa, ma così non fu a Parma e nelle Romagne: a Langhirano gli operai tentano di impedire la partenza dei treni; i carabinieri sparano: 4 morti (di cui 2 donne) e 7 feriti (di cui due donne). La folla assale allora i carabinieri che si rinchiudono in caserma; ma quando si sta per dare l’assalto alla caserma, il segretario comunale, conosciuto e stimato, riesce a calmare gli animi promettendo la legale punizione dei responsabili. Poche ore dopo arriva la truppa che occupa militarmente il paese e opera massicci arresti.
Nella Romagna (dove Mussolini è in prima fila tra gli agitatori) lo sciopero viene proclamato con un giorno di anticipo dalla Camera del Lavoro e dalla locale Federazione Socialista. Forlì e Faenza sono completamente bloccate dallo sciopero. Vengono tagliate le linee telegrafiche e telefoniche, avvengono sabotaggi e scontri. Non essendo in grado di resistere, le truppe vengono consegnate in caserma. Nel pomeriggio del 26 a Forlì si svolge un comizio con la partecipazione di 12.000 lavoratori che vengono arringati da Casalini, Nenni (allora repubblicano), Bianchi e Mussolini. Lo sciopero continua per tutto il 27 e parte del 28, poi rifluisce. Pochi giorni dopo, il 1° ottobre, un treno carico di soldati, viene fermato a Poggibonsi.
L’opposizione alla guerra dei giovani socialisti è irriducibile:
«Abbasso la guerra! Mentre partono i coscritti proletari. Tuona il cannone. Il primo bollettino della guerra di Tripoli ha portato cinque morti e una ventina di feriti a Modena, Nonantola, Forlì e Langhirano e un bel numero di prigionieri e malmenati in quelle e in altre parecchie parti d’Italia».
Ma una gran parte del proletariato non reagisce e la borghesia può condurre senza troppi ostacoli il suo piano.
«Tuttavia, non si può negarlo, una parte di quel proletariato che noi crediamo di aver liberato dai rispetti umani – che lastricano l’inferno – non ha voluto esprimere la sua opinione, non è stato d’accordo col buon senso e con la dignità umana nel respingere clamorosamente la sozza parola e il più sozzo fatto della preda tripolina. Quale fu la vera ragione? (...) Il gruppo parlamentare e il partito abbandonarono cinque anni fa (fu pusillanimità?) la propaganda antimilitarista e l’opposizione alle spese militari generando nel proletariato l’ignoranza delle condizioni di fatto nelle quali andava a trovarsi e nella borghesia una baldanza che l’ha aiutata ad agire come ha agito. Il proletariato non fu preparato a respingere la fellonia che i dirigenti borghesi non han cessato in cinque anni di apprestare contro di lui con gli aumenti di spesa militari e con le indulgenze al militarismo in vista di una guerra purchessia. Il proletariato ignorava» (“L’Avanguardia”, 8 ottobre 1911).
Il 15 ottobre 1911 si riunì a Modena un Congresso straordinario del partito.
«Bussi per Treves e per i riformisti di sinistra, deprecò la guerra e sostenne il passaggio alla decisa opposizione a Giolitti, non per questo rinunziando in linea teorica all’antico possibilismo. Lerda ancora una volta (e qui meglio che altrove) ribatté felicemente che, quanto alla prima, non si trattava di una qualunque congiuntura politica, ma dell’origine del fatto bellico dalla essenza del capitalismo e che, quanto al secondo, non ci si poteva fermare ad esso, ma urgeva constatare il fallimento della colpevole illusione di attendersi vantaggi per il proletariato e per il socialismo dallo Stato borghese (...) Come sempre, Lerda e in genere i rivoluzionari intransigenti dell’epoca, acuti nel rilevare e combattere il divorzio fra azione economica e azione politica, fra rivendicazioni politiche e programma massimo, peccano poi di insufficienza teorica nel definire la natura di quest’ultimo: esso è l’ideale, il pensiero, l’anima socialista, alla quale bisogna “educare” la masse proteggendole contro il pericolo corporativistico; il riflesso pratico di questa insufficienza teorica apparirà in piena luce durante la guerra, quando si “salverà l’anima” del socialismo, ma non si brandirà il programma come strumento di attacco alla società capitalistica e alla sua manifestazione estrema: l’imperialismo.
«Per i rivoluzionari anche Francesco Ciccotti sostenne che l’opposizione alla guerra di Libia doveva basarsi non su motivi contingenti, come le spese deviate dall’opera di riforme, ma sui principi internazionalisti. Turati parlò pure abilmente contro Tripoli (...)
«In questo Congresso ebbero importanza le riunioni della frazione intransigente rivoluzionaria, in cui gli elementi più giovani presero posizioni di avanguardia che hanno relazione con gli sviluppi ulteriori di un’effettiva sinistra» (“Storia della Sinistra”, Vol. I, pag.51-53).
Lotte
proletarie e propaganda di sinistra
Negli anni 1912, ’13, ’14, tutta l’Italia è scossa da un’ondata di scioperi, cresce il numero dei proletari inquadrati nelle organizzazioni di classe, raddoppia il numero degli iscritti al Partito Socialista. Scontri con l’esercito, nuovi eccidi. Intanto continua la guerra in Africa contro le bande che si oppongono all’occupazione coloniale e l’esercito regio si copre di gloria con le forche e i massacri di rappresaglia.
«E avanti maledicendo la guerra. I soldati si ribellano (...) Tutte le illusioni sono sparite; diecimila giovani vite sono state stroncate; la miseria, la disoccupazione sono gli ospiti funesti di ogni casa proletaria e la nausea pei vigliacchi ed i ladri grossi e piccini che nella guerra libica han trovato la loro fortuna han valso a risvegliare i lavoratori, a rendere consapevoli e coscienti i soldati (...) I fischi militari che a Piacenza, a Mantova, a Cremona ed altrove han risposto ai sorrisi benigni degli ufficiali ed alle note della marcia reale sono il sintomo di uno stato di cose che più a lungo non può durare. Così la rivolta a bordo dell’incrociatore Amalfi e l’ammutinamento a bordo della corazzata italiana nel porto di Barcellona» (”L’Avanguardia”, 6 aprile 1912).
«Un nuovo attentato del militarismo: la ferma di tre anni. Ferma di due anni per i rivedibili. Limite della statura abbassato di un centimetro (...) Il militarismo sta preparando un nuovo salasso di sangue e di denaro con il ripristino e l’aggravio della ferma di tre anni. I giovani socialisti inizino subito l’agitazione; convochino riunioni; dilaghino il malcontento tra i loro compagni di lavoro; prospettino i danni enormi che il nuovo progetto sul reclutamento può cagionare alle famiglie proletarie; preparino, lavorino la pubblica opinione acché il militarismo non possa compiere il nuovo attentato. La ferma dei tre anni non dovrà attuarsi mai». (“L’Avanguardia”, 11 maggio 1913).
I manifesti ai coscritti dei giovani socialisti si fanno più netti:
«Succede infine che la consegna delle armi nelle mani di coloro che hanno l’unico senso di emanciparsi, offre a costoro della possibilità di azione che sta in loro di attuare. Proprio così: il proletariato ha nelle mani, mercé il servizio militare, lo strumento della forza e della vittoria (...) Ed è per questo che il coscritto non deve disertare; che il coscritto non deve fuggire! (...) Bisogna che vada per imparare il maneggio delle armi; per essere iniziato alla tattica militare, per sapere utilizzare i suoi mezzi di lotta contro i suoi fratelli di lavoro e di classe, ma, quando giunga il momento opportuno, per rivolgerli contro la classe che l’ha strappato alla famiglia per fargli vestire l’uniforme militare» (“L’Avanguardia”, 22 giugno 913).
Nel luglio 1913 viene stampato “Il soldo al soldato”, un opuscolo che circola clandestinamente nell’esercito per iniziativa dei giovani socialisti che poi daranno vita alla frazione della Sinistra e al Partito Comunista d’Italia. Questo costituisce il primo tentativo di organizzazione dei socialisti in seno all’esercito e di collegamento tra la Federazione giovanile e i proletari-soldati.
«Il
decalogo del coscritto. 1. Non sparare sui tuoi fratelli lavoratori.
2. Non ti prestare a fare da crumiro. 3. Non odiare né la patria
tua
né quella degli altri. Ama la patria dei lavoratori che è
il mondo
intero (...)
«Socialismo e militarismo (...) E come ogni sopraffazione si regge col mezzo del continuo impiego della forza bruta, anche il cosiddetto “ordine attuale” si conserva e si appoggia sulla forza: e la forza di cui dispone la moderna borghesia, l’arma decisiva che è oggi a disposizione del capitalismo ingordo per soffocare le aspirazioni dei lavoratori ad una società più giusta, ed anche un trattamento appena meno inumano dell’attuale, questa forza e quest’arma si chiamano colla parola maledetta “militarismo” (...) Con la brutale educazione della caserma la borghesia fa dei giovani ingenui lavoratori i suoi migliori e più devoti servitori; instillando nell’animo loro il veleno militarista e l’odio contro gli altri rei di vivere in un paese posto al di là delle Alpi e del mare (...) La borghesia non vuole né può confessare questo, asserisce che gli eserciti servono a difendere ed a rendere potente la patria. Ma la stessa borghesia non esita affatto quando, come a Roccagorga, trova comodo impiegare i suoi soldati contro i lavoratori, che pure son figli della stessa “patria”, ma che hanno il grave torto di pretendere da loro signori un trattamento meno inumano! (...) Il militarismo nella sua forma più odiosa, la coscrizione obbligatoria, è nato con la borghesia, è stato instaurato da essa (...)
«La nostra propaganda: Per avere un proletariato adatto alla lotta di classe e cosciente dei suoi destini è indispensabile sottrarlo alla nefasta educazione patriottarda. E la diffusione delle idee antimilitariste è il primo dovere del Partito Socialista (...) Si persuadano gli operai che anche le organizzazioni di mestiere non possono assolvere i loro compiti quando negli scioperi e nelle agitazioni la forza armata milita dalla parte del padrone (...)
«Il soldo al soldato (...) D’ora in avanti per mezzo della nuova istituzione, i circoli giovanili non si dimenticheranno dei soci che sono a fare il soldato, invieranno loro lettere, giornali, anche soldi: li metteranno in relazione con i compagni del luogo ove prestano servizio, che potranno aiutarli, tenerli al corrente di tutto, in modo che sia loro alleviata la dura vita della caserma e proseguita la loro educazione socialista. Nello stesso tempo il Partito e l’organizzazione giovanile potranno esser informati degli abusi che si commettono nelle caserme e delle prepotenze di cui sono vittime i nostri compagni e sapranno impiegare tutti quei mezzi di azione che possono garantire ad essi un trattamento più giusto (...)
«Avanti! Quale socialista vorrà rifiutare il suo concorso a questa propaganda, oggi che imperversano su tutta l’Europa le follie bestiali del militarismo e che in Italia esso ha celebrati, con la guerra libica e nelle repressioni poliziesche, i suoi peggiori saturnali? Qualunque altra azione passa in seconda linea di fronte alla necessità di resistere alla bufera che ci investe».
Fu in occasione del convegno di Bologna (25 maggio 1913) che la Federazione giovanile stabilì di dar corso all’iniziativa de “Il soldo al soldato”. Nella stessa occasione venne anche deciso «di tenere entro il mese di giugno dei grandi comizi simultanei in tutte le grandi città d’Italia contro il minacciato aumento della ferma militare a tre anni».
Nell’aprile del 1914 si svolge il Congresso del Partito Socialista ad Ancona.
«Il nuovo atteggiamento del Partito e del suo battagliero giornale “Avanti!” aveva trascinato l’adesione più entusiastica del proletariato italiano che reagiva alle gesta imperialistiche della guerra di Libia con una vivissima attività di classe (...)
«Soprattutto importante era tuttavia l’argomento dell’antimilitarismo. Nessuno presentì che pochi mesi dopo il tema sarebbe stato non attuale, ma tragico addirittura. Nell’assemblea di frazione i giovani della sinistra fecero notare che i due relatori erano stati poco felicemente scelti dalla direzione: il riformista Treves (certo intellettuale qualificato) e il napoletano Fasulo, un sindacalista bloccardo e filo massone che, in seguito al voto amministrativo, doveva lasciare il partito. Questo era facile prevederlo, ma non altrettanto facile era sapere che da arrabbiato antilibico si sarebbe svolto in socialpatriota. Cose da poco; ben più grave è che le proteste della frazione fossero versate nel seno di Mussolini, in cui i giovani vedevano la suprema guida. Non si poté venire ad altra conclusione che il problema della guerra e della patria sarebbe stato trattato in un prossimo Congresso, per dargli una figura marxista radicale come si era fatto per gli altri. Lo stesso ordine del giorno che la Federazione giovanile aggiunto a quello dei due relatori conteneva la condanna dell’imperialismo, ma difettava sulla difesa della patria, accennata male, a proposito dell’abolizione del servizio militare permanente. Mussolini aveva promesso, e i giovani rossi partivano entusiasti per le lotte che dovevano venire e in realtà non mancarono nelle piazze. Ma non venne il Congresso. Venne la guerra» (“Storia della Sinistra”).
Fu proprio da una manifestazione antimilitaristica che scoccò la scintilla che fece esplodere le sommosse della settimana rossa.
«Il 7 giugno 1914, domenica, l’Italia borghese celebrava l’annuale festa dello Statuto. Gli estremisti convocarono una serie di comizi diretti contro il militarismo e contro le famose “compagnie di disciplina” contro le quali da anni battagliava la Federazione giovanile. Ad Ancona la manifestazione si fece alla “Villa Rossa”, sede dei repubblicani, che in quella città erano forti, come gli anarchici. Avevano parlato alla folla Nenni, repubblicano, ed Enrico Malatesta, anarchico, con vivace tono antistituzionale. La folla dopo i discorsi defluiva verso il centro quando i carabinieri aprirono il fuoco: tre giovani operai caddero e molti furono feriti. Alla notizia divampò in tutta Italia un’ondata spontanea d’indignazione. Prima che le organizzazioni decidessero lo sciopero, già i lavoratori erano nelle piazze, specie nelle Marche e in Romagna. Furono proclamate alcune ingenue repubbliche locali provvisorie (Spello di Perugia). Fra le grandi città si levarono Torino, Milano, Parma, Napoli e Firenze, dove la folla affrontò i conflitti a fuoco senza rinculare. Fu la formidabile “settimana rossa”. (“Storia della Sinistra”).
La settimana rossa giunse al culmine di un’ondata di lotte di classe che aveva scosso tutta l’Italia, lotte per il pane e per il lavoro nelle quali il proletariato sempre si trovava di fronte l’apparato repressivo statale.
«A questa aveva in primo luogo contribuito l’”Avanti!”. Nel commentare i periodici eccidi proletari che hanno sempre distinta l’Italia democratica (o giovani, non vi era ancora fascismo, come non vi è più oggi, e Mussolini non aveva ancora scavalcato la barricata, ma di regola i fucili del costituzionalismo liberale e bloccardo squarciavano i petti di folle che chiedevano pane) il giornale aveva più volte scritto: “Al prossimo eccidio lo sciopero generale nazionale!”. Dopo le fucilate dalla Villa Rossa il proletariato non ebbe bisogno di disposizioni e di consegne: scese in azione».
La mattina dell’8 giugno l’”Avanti!” chiama allo sciopero per il 9; la Confederazione è costretta a indire anch’essa lo sciopero generale per il 9, a oltranza. Nel manifesto della Confederazione si dice: «il Comitato esecutivo comunicherà a suo tempo l’ordine di cessazione dello sciopero». Le masse sono già in movimento da due giorni, nelle grandi città si verificano scontri che in molti casi assumono carattere insurrezionale. Lo Stato non ha forze sufficienti per reprimere il poderoso movimento e nella maggior parte dei casi i soldati e le forze di polizia sono consegnati nelle caserme. Il 10 giugno l’agitazione è al suo culmine e inizia lo sciopero dei ferrovieri che blocca gli spostamenti delle truppe. È a questo punto che i bonzi della Confederazione danno l’ordine di cessazione dello sciopero. L’ordine di ritirata è accolto come una doccia fredda e in molti casi il movimento delle masse continua per alcuni giorni, ma poi l’ondata rifluisce per mancanza di direzione.
«Violentissime polemiche seguirono nel partito a questo tradimento. Si trattava di un moto per eccellenza politico e non economico; solo il partito politico avrebbe dovuto dare il segnale dell’inizio e della fine eventuale. Ma le idee non erano chiare, e da ciò una volta di più emerge la necessità della vera teoria rivoluzionaria».
La
sinistra del P.S.I. di fronte alla guerra mondiale
«Il nembo della guerra, che si addensava sull’Europa del 1914 all’apice delle contese elettorali, poteva sciogliere il nodo che serrava alla gola la classe operaia mondiale, e dare la parola alle armi, togliendola alle schede. Il tempo fu mancato, e il nodo si è fatto più stretto».
Il 28 giugno l’attentato di Sarajevo; nell’agosto le dichiarazioni di guerra e l’inizio delle operazioni militari. La seconda Internazionale naufragò nel difesismo nazionale.
«Ovunque le truppe obbedivano, i riservisti si presentavano; partivano e combattevano. Un senso di gelo incombeva sull’Europa».
La Triplice chiedeva, come da trattato, l’intervento dell’Italia a fianco degli Imperi Centrali. Ma il 2 agosto il governo Salandra dichiarò la neutralità. Lo Stato italiano non poteva fare la guerra a fianco della Triplice perché in tal caso avrebbe trovato la decisa opposizione non solo dei rivoluzionari, ma anche dei riformisti e dei moderati. E allora chi avrebbe fermato le masse?
«Al primo delinearsi del pericolo in Europa, che significava in via formale rischio di una guerra a fianco degli Imperi Centrali, sinistri e destri si levarono come un sol uomo contro la guerra, e ciò fin dai giorni della fine di luglio. Per i rivoluzionari l’opposizione ad ogni guerra era fuori discussione, ma la guerra in Italia sarebbe stata odiosa in modo tanto particolare che fu risolto in modo radicale anche dai riformisti e “socialisti moderati” il problema che subito si poneva: come impedire la guerra, se il governo per fedeltà agli impegni la dichiara e ordina la mobilitazione perché, nel caso, si attacchi la Francia sulle Alpi? I destri scelsero la soluzione rivoluzionaria: si sarebbe data la parola dell’insurrezione armata! Turati, teorizzatore mille volte della non cruenta azione proletaria, dichiarò che, sebbene non giovane, avrebbe per primo imbracciato un fucile scendendo in piazza per invitare cittadini e soldati mobilitati all’insurrezione e all’insubordinazione (...)
«Allora sembrava una domanda a vuoto questa: Se sappiamo che fare nel caso di una guerra contro la Francia, ossia sparare sugli ufficiali italiani, si può sapere che fare nel caso di una guerra contro l’Austria? Quelli che pensano, come noi, che i due casi si equivalgono possono avere il diritto di dare una risposta sola, ma proprio quei signori che vedono tra i due casi enormi differenze pratiche hanno il dovere di aver pronte due risposte, se non vogliono truffare il proprio partito e la propria classe (...) Tra l’agosto 1914 e il maggio 1915 tutto infatti ebbe a cambiare nel senso diametralmente opposto, e fu messa in discussione l’altra guerra, la guerra alla rovescia, la guerra a favore dell’Intesa».
A luglio Mussolini sulle colonne dell’”Avanti!”, tuona contro la guerra. Il 29 luglio la Direzione del PSI lancia un manifesto che invita il proletariato a prepararsi a nuove “prove di forza”.
Nell’articolo “Al nostro posto” uscito sull’”Avanti!” del 16 agosto 1914, la Sinistra ribadiva i cardini della posizione marxista rivoluzionaria di fronte alla guerra: negazione della distinzione tra guerre di offesa e di difesa; guerra e militarismo come prodotto moderno capitalistico e non retaggio del passato; carattere imperialista della guerra attuale e negazione dei motivi nazionali; negazione dei motivi idealistici quali la lotta della “civiltà” contro la “barbarie”, ecc.
«Nella comune aspirazione al postulato della neutralità italiana, attraverso il nostro movimento si sono fatte strada alcune correnti pericolose che potrebbero comprometterlo. Molti compagni esprimono e diffondono nei comizi e nella stampa un sentimento di viva simpatia per la Triplice Intesa (...) Quelli che credono di uscire dalle vecchie nostre formule non sono consci del fatto che essi non fanno che ripiegare su formule non nostre (...) Conserviamo la nostra piattaforma (...) Dobbiamo dunque e possiamo restare al nostro posto, contro tutte le guerre, in difesa del proletariato che in quelle ha tutto da perdere, nulla da guadagnare, nulla da conservare».
Già in questa occasione si ebbero le prime avvisaglie del tradimento di Mussolini che sull’”Avanti!” aveva fatto un “cappello” al sopracitato articolo, nel quale stabiliva una distinzione tra “il regime degli Junker” e la “democrazia francese” e qualificava la Germania di “aggressore”, pur dichiarandosi pienamente d’accordo sulle “affermazioni fondamentali”. Poco tempo dopo, il 18 ottobre, esce il famoso articolo di Mussolini “Per la neutralità attiva e operante” con il quale il futuro duce si dichiarava definitivamente schierato nel campo interventista.
La Sinistra risponde immediatamente su “Il Socialista” del 22 ottobre 1914 con l’articolo “Per l’antimilitarismo attivo e operante”. In questo ribadisce la netta opposizione alla guerra dei socialisti e si risponde alle accuse dei nazionalisti che accusavano la Sinistra di fare il gioco degli austro-tedeschi, e di confondersi con i pacifisti o con i clericali:
«La preoccupazione di “fare il gioco” degli austro-tedeschi è un’altra insidia dalla quale credevamo di essere usciti durante la crisi che ci ha condotti all’attuale intransigenza. On fait toujours le jeu de quelqu’un. Il timore di permettere che il presente sia sopraffatto dal passato, mentre noi ci illudiamo di lavorare per l’avvenire, è squisitamente riformistico. Il presente, quando noi staremo per travolgerlo, griderà sempre al pericolo contro le resurrezioni del passato. Il rivoluzionarismo marxista dovrebbe portarci ben fuori di questo tranello (...) Il concetto di neutralità ha per soggetto non i socialisti, ma lo Stato. Noi vogliamo che lo Stato resti neutrale nella guerra, assolutamente fino all’ultimo, checché avvenga. Per ottenere ciò noi agiamo su di esso, contro di esso, nel campo e con i mezzi della lotta di classe. Da questa non vogliamo disarmare. La nostra guerra è permanente, scoppia talora come nel giugno in aperta rivolta, ma non concede armistizi. Oggi siamo vittime di un mauvais mot. Neutralisti noi? Ci si accusa subito di pacifismo. Noi, invece, sostenendo che lo Stato deve restar neutrale, ne restiamo gli aperti nemici, attivi ed operanti».
E ancora in un altro articolo su “Il Socialista” del 3 dicembre 1914 si ribadisce questa corretta posizione:
«Il dirci neutralisti, che è più che altro una maniera di farci chiaramente intendere, non autorizza nessuno a dedurne empiricamente che il partito socialista italiano intenda oggi rinunziare a qualcuna delle sue funzioni specifiche e delle sue responsabili attività. Dicemmo come per neutralità debba intendersi l’atteggiamento dello Stato monarchico e borghese sotto la pressione delle masse proletarie e delle correnti socialiste che non vogliono la guerra. Quella posizione dello Stato borghese può, nei suoi riguardi, essere... antiestetica... E che perciò? Agitandoci, ad esempio, per le vittime politiche, non tentiamo noi di imporre allo Stato il compimento di un atto che ne menomerà il prestigio?
«Neutralità significa dunque per noi intensificato fervore socialista nella lotta contro lo Stato borghese, accentuarsi dell’antagonismo di classe che è la vera fonte di ogni tendenza rivoluzionaria, e sul quale un’adesione del partito socialista alla guerra fatta dallo Stato porrebbe, tra la esultanza delle classi conservatrici, una pietra sepolcrale.
«Che altre correnti convergano con noi nella neutralità, e che questa non dispiaccia alla chiesa, ai partiti conservatori, ed alla stessa monarchia, non muta affatto il carattere dell’atteggiamento socialista, poiché quelle tendenze disarmerebbero dinanzi alla proclamazione di una qualsiasi guerra, mentre invece la nostra resterà, sola domani come oggi, immutata nel suo significato di opposizione alla politica borghese, di negazione rivoluzionaria, delle attuali istituzioni e delle perniciose e barbare loro conseguenze (...)
«Se oggi questi partiti (riformisti e democratici) sono fautori della più aspra e più estesa violenza, che si esplica nella guerra, non è perché siano stati convertiti da un improvviso soffio rivoluzionario (ché in tal senso i rivoluzionari più autentici sarebbero i nazionalisti), ma perché appunto la guerra non implica la negazione delle istituzioni vigenti, non ha contenuto di demolizione sovvertitrice, ma mette la violenza sotto la sanzione ufficiale degli organismi militari e delle autorità costituite (...) La guerra è conservazione! I “fasci di azione rivoluzionaria” che i pochi interventisti transfughi del movimento socialista vorrebbero costituire, si muoveranno nel campo di una perpetua contraddizione. Essi non raggiungeranno lo scopo di sollevare un’eco di entusiasmo eroico nelle masse, ma serviranno solo a rendere più facile l’azione del militarismo borghese, quando questo, convertito più presto o più tardi alla guerra, crederà opportuno di trascinare quelle masse, soffocandone le proteste sotto il suo pugno di ferro, nel vortice sanguinoso della tiranna comunione nell’inutile sacrificio e nel crimine infecondo».
In un altro articolo su ”L’Avanguardia”, del 25 ottobre, 1 e 16 novembre del 1914, La Sinistra riafferma le corrette tesi marxiste sulla inevitabilità della guerra che scaturisce dai rapporti di produzione moderni e sui suoi effetti disastrosi per il proletariato.
«La guerra, disastrosa sotto ogni rapporto per il proletariato, è oggi purtroppo possibile; e la borghesia ne vede intaccata la sua ricchezza materiale, ma conservati e forse rafforzati i rapporti potenziali per ricostruirla, poiché la lotta di classe si assopisce e si spegne nell’esaltazione nazionale (...) Il militarismo è l’avversario più temibile della nostra propaganda appunto perché non si avvale della persuasione, ma si basa sulla costituzione di un ambiente forzato ed artificiale nel quale i rapporti di vita sono completamente diversi da quelli dell’ambiente ordinario (...) Pacifismo? No. Noi siamo fautori della violenza. Siamo ammiratori della violenza cosciente di chi insorge contro l’oppressione del più forte, e della violenza anonima della massa che si rivolta per la libertà. Vogliamo lo sforzo che rompe le catene. Ma la violenza legale, ufficiale, disciplinata dall’arbitrio di una autorità, l’assassinio collettivo irragionevole che compiono le file di soldatini automaticamente all’echeggiare di un breve comando, quando dalla parte opposta non meno automaticamente vengono incontro le altre masse di vittime e di assassini vestiti di un’altra casacca, questa violenza che i lupi e le iene non hanno, ci fa schifo e ribrezzo».
Durante i dieci mesi della neutralità la borghesia italiana morde il freno. L’Inghilterra, padrona dei mari, attua il blocco navale e permette il passaggio delle merci verso l’Italia a condizione che questa interrompa le sue relazioni commerciali con Austria e Germania. L’approvvigionamento di materie prime, soprattutto di carbone, diviene difficile, il commercio langue, vi sono ondate di licenziamenti soprattutto nell’industria siderurgica e meccanica che invoca commesse statali. Sin dai primi mesi di guerra l’esercito ha provveduto a massicci acquisti di grano per riempire i magazzini militari per ogni evenienza. Gli appaltatori si lanciano all’assalto delle forniture per l’esercito in vista del prossimo conflitto.
Il dilemma è da quale parte gettarsi; la discussione è aperta in seno alla Massoneria, il superpartito della borghesia. Il ministro degli Esteri, marchese di San Giuliano (massone di destra), durante un incontro con Arturo Labriola (massone di sinistra), dopo aver lamentato l’impreparazione alla guerra dell’economia italiana e l’impossibilità di un immediato intervento, dirà: «Noi avremo bisogno evidentemente di attendere quella fase conclusiva della guerra, nella quale il nostro intervento potrà essere decisivo a favore della causa che sposeremo» (M. Fatica, “Le origini del fascismo e del comunismo a Napoli”). Il bloccardo Altobelli in un discorso alla Camera del 5 dicembre 1914 dichiara che sarebbe partigiano della neutralità «se non si presentasse l’obbiezione satura di interrogativi, di poter cioè l’Italia rimanere domani, nella resa finale dei conti, a mani vuote» e informa il governo che «noi socialisti (...) guarderemo con simpatia se, col concorso anche dell’Italia, fosse assicurata la vittoria della Triplice Intesa».
Ben presto viene risolto il dilemma a favore dell’Intesa. Spingono in questa direzione motivazioni economiche e politiche, ed è decisivo il fatto che gran parte del Partito Socialista ha già fatto chiaramente intendere che, mentre insorgerebbe nel caso di una guerra alla Francia, non si opporrebbe ad una guerra contro l’Austria. Il 26 aprile viene firmato il trattato segreto di Londra e il 24 maggio, l’”alba radiosa” degli interventisti, l’Italia dichiara la guerra.
«La tremenda guerra italiana del 1915, vero carnaio di cui la seconda guerra, malgrado il tormento delle popolazioni non combattenti, è stata una scialba ripetizione, coi seicentomila morti ufficiali sul campo e le dieci battaglie dell’Isonzo, esasperava l’odio del proletariato per la classe dirigente, che si abbeverò di sangue quando alzava la bandiera democratica assai più che quando poi alzò con militarismo in sordina, quella nazifascista» (“Storia della Sinistra”).
Il 16 maggio, alla vigilia della dichiarazione di guerra, si svolse a Bologna un convegno della Direzione del PSI con i membri del gruppo parlamentare, i dirigenti della Confederazione, i rappresentanti di 40 federazioni. Da questo convegno uscì uno scialbo comunicato nel quale, dopo aver ribadita la “avversione incrollabile” alla guerra, si chiamava il proletariato a manifestazioni improntate a un “carattere di disciplina, di dignità e di imponenza”, dopodiché i socialisti si lavavano le mani della sporca faccenda «sicuri di aver fatto per sé, per il Paese e per la storia, di fronte all’Italia e all’Internazionale, il loro dovere, avranno diviso e manterranno separate le loro responsabilità da quelle delle classi dirigenti».
I dirigenti della Confederazione si rifiutarono di proclamare, in caso di intervento, lo sciopero generale, ripetendo che non sarebbe riuscito.
«Dicemmo loro sul viso: voi non temete che lo sciopero non riesca, voi temete che riesca. Sapete che gli operai sono inferociti contro la guerra, ma non osate dare la parola di sciopero per impedire la mobilitazione. Non che temiate le conseguenze della repressione; non è di viltà che vi accusiamo, ma temete di macchiarvi di tradimento della patria. I vostri pregiudizi borghesi sono tali, che pensate che anche nel caso di squisita guerra non di difesa del territorio, ma di aggressione e di vera conquista, in cui ci troviamo, il socialista abbia il dovere di non danneggiare le operazioni militari della patria. Inutile dire che la volontà di guerra del popolo italiano è una ignobile mistificazione, quando contro il passaggio della guerra tanto mostruosa si considera colpevole alzare la mano!». (“Storia della Sinistra”, p. 100).
Tentativi
disfattisti dei socialisti a Napoli
La Sezione socialista di Napoli, recentemente formatasi in una dura lotta contro i socialmassoni, fu l’anima della battaglia antimilitarista. Questo non solo con le dispute teoriche e polemiche attraverso gli scritti su “Il Socialista”, “L’Avanguardia”, “L’Avanti!”, con il paziente lavoro di tessitura organizzativa che sfociò poi nella formazione del Partito Comunista d’Italia, ma anche, nonostante le scarse forze, con il tentativo pratico di agitazione e di organizzazione del proletariato contro il macello imperialista. Alcuni episodi significativi:
«31 gennaio 1915: Comizio a Napoli contro la guerra (...) Ha parlato per primo il segretario della sezione socialista adulta, Gerardo Turi, che con vibrante parola ha prospettato all’uditorio il disastro che per il proletariato scaturirebbe dalla guerra. Ha ricordato le vittime di giugno per dimostrare ancora una volta che la patria ed i signori che la reggono non sono avari di piombo e di manette per i lavoratori».
In questa occasione venne diffuso un manifesto ai lavoratori:
«Lavoratori! Lo Stato con la sua politica militarista prepara altre e più grandi sciagure al paese, vuole gettarlo senza ragione nel turbine distruttore e micidiale della guerra europea, mentre l’Italia sconta ancora il crimine governativo del brigantaggio libico (...) Ed i poteri dirigenti dello Stato monarchico, complici i rinnegati del nostro partito e tutta la stampa forcaiola o ufficiosa (...) mentre perseverano nella politica del privilegio della classe padronale e dell’immiserimento della gran folla dei produttori, vogliono a scopo di conservazione turlupinare una volta ancora il povero proletariato d’Italia, eterno sacrificato, parlando di irredentismo e di supremi interessi nazionali (...) Ricordatevi che chi vi parla di guerra è il vostro peggiore nemico (...)
«Lavoratori! Il partito socialista, che oggi (come nel passato e nel futuro) è solo a difendere i vostri interessi e diritti di classe contro tutti gli altri partiti coalizzati ai vostri danni con la monarchia sistematicamente eccidiaria, si serra compatto, agguerrito e minaccioso intorno a voi incitandovi, anche in nome delle vittime invendicate cadute maledicendo al vostro fianco lungo la dolorosa ascesa del vostro calvario, a nome specialmente della donna incinta e del bimbo caduti nella piazza di Roccagorga e delle molte vittime di giugno, a non accordare un minimo di tregua al vostro nemico più cinico e diretto, allo Stato borghese. Pensate che una guerra spaventosa come quella che si va preparando dallo Stato, peggiorerebbe di molto la vostra condizione economica, fiaccandovi e ricacciandovi indietro di qualche secolo nel campo delle conquiste (...) Alla mobilitazione militare il partito socialista risponderà con la mobilitazione del formidabile esercito proletario (...) Abbasso tutte le guerre! Viva il Socialismo! (”L’Avanguardia” del 14 febbraio 1915).
28 marzo 1915, congresso giovanile socialista campano. Conclusioni del relatore sul tema: “la gioventù socialista, il militarismo e la guerra”:
«Ai fini degli interessi proletari, i giovani socialisti hanno l’obbligo di svolgere una propaganda rigidamente antimilitarista e contraria al sentimento patriottico (...) Né tralascia di attaccare l’attuale guerra europea augurandosi che il proletariato italiano, in caso di guerra sappia rifiutarsi di marciare e che i proletari e i compagni sotto le armi vogliano al momento opportuno fiancheggiare l’azione rivoluzionaria della gioventù socialista. Sostiene infine la necessità di opporre mobilitazione a mobilitazione e la utilità dei comitati di salute pubblica i quali nei momenti opportuni debbono assumersi la dirigenza della azione simultanea e violenta».
Nell’ordine del giorno approvato si legge:
«Considerato che tutte le guerre comunque mascherate provocate dagli Stati o dalle diplomazie o da gruppi di vampiri tendono a rafforzare i congegni statali e capitalistici dello sfruttamento e dell’oppressione (...) considerato che la patria (...) suona atroce ironia pel proletariato che è costretto a pitoccare oltre i confini fissati dall’egoismo borghese e al di là dell’oceano il tozzo di pane (...) considerato che il militarismo (e quindi anche la guerra) costituisce per le minoranze che tengono il potere economico e politico il mezzo più potente di conservazione e di oppressione (...) dà mandato al compagno che al Congresso nazionale di Reggio Emilia rappresenterà la Campania di sostenere strenuamente quanto segue: (...) guerra ostinata e sistematica alla falsa concezione della patria e del patriottismo (...) disonorare la caserma dinanzi al popolo mostrandone i mali e le brutture; instillare nell’anima di tutti i lavoratori – dei giovani in particolar modo – l’odio per il servizio militare, denunziando gli scopi antisociali ed antiumani e tenendo sempre viva la lotta di classe ad oltranza (...) impedire nel momento attuale l’entrata in guerra dell’Italia con qualsiasi mezzo – il rivoluzionario compreso – agendo di comune accordo con i compagni sotto le armi (...) immediata costituzione in tutta la penisola di forti e seri comitati d’azione rivoluzionaria, meglio di salute pubblica; invogliare ogni lavoratore ad opporre alla violenza statale altra violenza e preferire la morte civile coll’arma in pugno a difesa delle barricate rivoluzionarie, ossia per la rivendicazione dei diritti della classe proletaria, alla morte selvaggia sul campo di battaglia per cause ed interessi non suoi» (“L’Avanguardia” del 14 marzo 1915).
Al Quinto Congresso nazionale socialista di Reggio Emilia (9-10-11 maggio 1915), è il rappresentante della Campania il relatore sull’antimilitarismo. Conclusioni del relatore:
«Che cosa faranno i giovani socialisti italiani in caso di mobilitazione militare? (...) Indurre, reclamando dal partito degli adulti un analogo atteggiamento, le organizzazioni economiche proletarie, specie quelle seguenti la direttiva della lotta di classe, a proclamare lo sciopero generale che, in tal caso, assume carattere apertamente insurrezionale; è l’unico mezzo per impedire la guerra e non arrivare alla tregua tra le classi, tregua che noi abbiamo giustamente criticata nei riguardi dei compagni della maggior parte degli Stati in guerra. Nel caso poi in cui – in Italia non pare si possa verificare – ciò non fosse possibile ottenere dalle organizzazioni proletarie e dal partito socialista adulto, la federazione giovanile socialista deve invitare ugualmente i suoi aderenti a non rispondere alla chiamata alle armi e gli iscritti già soldati a rifiutarsi di marciare; e – a costo di qualsiasi sacrificio – preparare la generale e simultanea insurrezione armata di tutti i suoi aderenti, ossia un moto rivoluzionario vero e proprio, facendo ogni sforzo per trascinarsi dietro le folle. La Federazione, in altre parole, deve preparare, mediante una bene organizzata istituzione di comitati d’azione rivoluzionaria, la parata simultanea di tutte le sue forze (...) Nel caso infine che nonostante tale azione, la guerra dovesse scoppiare per la cocciutaggine e la delinquenza dei governanti (...) la federazione giovanile socialista deve mantenere il suo atteggiamento di recisa avversione alla guerra, persistendo nella sua propaganda orale e scritta, ed invitare i giovani federati a non rispondere alla chiamata alle armi e a non marciare a seconda dei casi» (“L’Avanguardia”, 8 maggio 1915).
I compagni della sezione socialista di Napoli avevano ben chiaro che la guerra sarebbe stata un disastro per la classe proletaria, e che la si dovesse impedire passando immediatamente allo sciopero generale insurrezionale.
In due articoli su ”L’Avanguardia”, il rappresentante della sezione di Napoli, dopo aver svolto la necessità di mezzi insurrezionali per impedire la guerra, cerca di rispondere agli interrogativi: siamo pronti? – quando? – cosa farà l’esercito? (10 gennaio 1915, “Verso la nostra ora storica”). La risposta si rivelerà purtroppo ottimistica, ma dimostra con quale chiarezza programmatica e quale spirito sovversivo la Sinistra già allora agiva.
Al primo interrogativo: siamo pronti?, si risponde affermativamente ma precisando:
«Siamo pronti, meglio siamo al momento politico necessario al pronunciamento delle forze rivoluzionarie», e se ne elencano le ragioni: 1) L’infuriare della guerra in Europa e «l’assoluta avversione popolare a qualsiasi impresa guerresca dello Stato». 2) La politica apertamente reazionaria di oppressione dell’apparato statale, la sua azione sul terreno illegale «per cui il proletariato delle città industriose e dei paesi agricoli sin dai tempi della bugiarda unificazione italiana sotto i Savoia è stato sistematicamente mitragliato e baionettato nella schiena dai Centanni, Bava Beccaris, Gregori, ecc. Proditoriamente nei crocicchi di campagna o nelle piazze dei centri popolosi ha subito lo scherno e l’insulto osceni (Ho memoria della povera giovane donna incinta sventrata dalla soldataglia del tenente Gregori... Parla tu per me o misero innocente bimbo di cinque anni ucciso nelle braccia di tua madre pure a Roccagorga, mostra il tuo corpicino traforato dalla regia mitraglia!). E, come atto di riparazione, è stato arrestato e processato in massa, condotto ammanettato per le orribili galere dello Stato» - Questo «ha da circa un quarto di secolo aggiunto quotidianamente altra legna al fuoco rivoluzionario». 3) «La fame la quale da tempo batte inesorabile alle porte delle case dei lavoratori per cui già qua e là le masse insorgono minacciose contro i poteri dello Stato responsabile, il quale di rimando istituisce i crediti nazionali a favore dell’insaziabile militarismo e tassa la miseria per fornire altri miliardi ai preparativi della guerra. Queste le ragioni essenziali le quali ci dicono essere giunta l’ora storica dell’azione proletaria di classe contro lo Stato padrone e affamatore».
Al secondo interrogativo: quando? La Sinistra dette sempre la medesima risposta:
«È compreso da ognuno di noi che l’epoca propria per l’azione rivoluzionaria debba essere quella in cui ci si accingesse ad entrare in guerra. Deve essere contemporaneo e non posteriore per due ragioni: 1) perché il movimento assuma carattere apertamente rivoluzionario, 2) perché il proletariato italiano oltre a potersi battere meglio durante anziché dopo la guerra, con l’azione risoluta di classe, potrebbe indurre facilmente gli eserciti belligeranti a fraternizzare».
Al terzo interrogativo: che cosa farà l’esercito?, circostanza «oltre ogni limite importante» dalla quale dipende «in gran parte» la riuscita dell’azione, risponde:
«È però certo che l’esercito si regolerà a seconda della estensione e della capacità del movimento rivoluzionario: se questo si manifesta fiacco e sporadico non potrà tenerlo in considerazione (...) invece se si dimostra generale e robusto è probabile che risponderà meravigliosamente all’appello del partito socialista e del proletariato non militarizzato (...) Gli eserciti europei negli ultimi anni ci hanno dato parecchi esempi favorevoli: gli ammutinamenti nell’esercito e nella flotta della Russia zarista (...) la repubblica portoghese formatasi per contributo imprevisto dell’esercito e della marina da guerra. Gli ammutinamenti di alcuni dei nostri reggimenti in Libia ed altri verificatesi recentemente in Italia – quello del 15° fanteria ad esempio – dovrebbero dare a pensare ai governanti. Non vogliamo neanche ricordare che gli artiglieri e gli specialisti del genio sono quasi tutti con noi. I voti e gli ordini del giorno di numerosi gruppi militari, le numerose adunate di coscritti e richiamati tenutesi in compagnia dei socialisti dovrebbero far comprendere chiaramente alla monarchia che l’esercito non è tanto disposto a seguire le aspirazioni dello Stato maggiore. Senza poi parlare del grave malcontento che serpeggia nelle caserme (...)
«I soldati italiani tenuti sotto col reclutamento forzato, i quali prima di indossare la divisa nei conflitti tra capitale e lavoro hanno dovuto affrontare la pioggia a mitraglia e le cariche a baionette innestate, non intendendo sacrificare i loro vitali interessi di classe al dio della guerra, anche perché conoscono per esperienza la incapacità tattica e la viltà di coloro che dovrebbero guidarli (...) L’episodio infine riportato dall’”Avanti!” del biondo e pallido soldatino tedesco che salva dieci belgi dalla fucilazione tirando giusto sull’ufficiale che si accingeva a comandare il fuoco, ci lascia sperare (...)
«Noi – lo diciamo fin d’ora – ci faremo incatenare e fucilare tutti, ma non ci adatteremo. I dirigenti del partito socialista adulto e giovani preparino ciò che occorre per il grande momento» (“Verso la rivoluzione”, 31 gennaio 1915).
10 agosto 1914: ordine del giorno della sezione napoletana del PSI. Dopo aver ricordato che il proletariato non ha nulla da difendere sulle frontiere nazionali e che la guerra risponde agli interessi della borghesia «che della esaltazione del militarismo si fa un mezzo oltre che per le sue cupidigie imperialistiche, anche per la sua difesa contro l’avanzare delle classi proletarie», si fa voti «che il Partito Socialista e le organizzazioni operaie osservino una direttiva di opposizione a qualsiasi guerra» (“Il Socialista”, 13 ottobre 1915).
Febbraio 1915. Sezione socialista di Napoli: «discutendo in merito all’azione da svolgere in caso di intervento dello Stato italiano nella guerra europea», invita ancora una volta il Partito Socialista a mantenere una intransigente opposizione alla guerra, a dare voto contrario alle spese militari, a spezzare tutte le possibili tregue tra partiti, «si associa alla proposta del comitato della sezione milanese per lo sciopero generale in caso di mobilitazione» (“Avanti!” 6 febbraio 1915).
Maggio 1915. Sezione di Napoli, assemblea plenaria, Manifesto di convocazione:
«Compagni! Mentre il crimine massimo dello Stato italiano diventa realtà, mentre principia l’immane massacro della gioventù lavoratrice (...) vi invito tutti uomini e donne, giovani e adulti – all’assemblea plenaria di domenica 23 per affermare e precisare ancora una volta la nostra irriducibile avversione – immutabile nel tempo e nello spazio – a tutte le guerre capitalistico-borghesi (...) Non accettiamo il fatto compiuto (...) per lanciare in nome del popolo che langue e soffre la nostra maledizione alla guerra; per dichiarare che non smetteremo neppure durante la guerra la lotta di classe (...) Prima che la guerra cominci a diradare il nostro campo, è nostro vivo desiderio vederci tutti, stretti e accomunati in unico patto (...) Abbasso tutte le guerre! Viva il Socialismo Internazionale».
Al Congresso regionale della Campania, svoltosi il 6 dicembre 1914 erano rappresentate 16 sezioni per complessivi 374 iscritti di cui 100 a Napoli. Con queste forze, poi decimate dalla guerra, la Sinistra conduceva la sua coraggiosa battaglia.
Il 22 marzo 1915 la Sezione Socialista napoletana tiene una riunione privata contro la guerra e contro il divieto di manifestazioni pubbliche imposto dal governo. Partecipano in 200, tra cui alcuni provocatori appartenenti al fascio Mussoliniano che tentano invano di provocare incidenti. Parla il segretario della sezione che ribadisce la necessità che il proletariato scenda in piazza in caso di intervento italiano in guerra. Poi prende la parola l’anarchico Melchionna che si scaglia contro il governo liberticida e contro i guerrafondai.
Una lettera riservata del Prefetto, testimonia in quale clima si svolgesse l’attività della sezione:
«Da confidenziali notizie avute era risultato che per preparare l’ambiente dovevano essere in questi giorni distribuiti a mano manifestini editi dalla libreria dell’”Avanti!”. Date disposizioni per sorprendere in flagranza i distributori, la sera del 19 in Sezione Vasto furono fermati i fratelli Isaia Raffaele e Gaetano, ai quali vennero sequestrati numerosi manifestini dei quali allego sette esemplari. Presentati al Procuratore del Re per rispondere dei delitti di cui agli art. 126 e 247 Cod. Pen. sono stati, dietro ordine del predetto magistrato, inviati alle carceri a disposizione della procura generale e sotto la imputazione di istigazione all’odio fra le classi» (“Origini del fascismo e del comunismo a Napoli”).
Nei giorni successivi al Convegno di Bologna la Sinistra, in aperta polemica con la dirigenza del PSI, compie un ultimo disperato sforzo di mobilitazione proletaria in vista dell’imminente scoppio della guerra. Telegramma del 18 maggio: «a seguito deliberati convegno Bologna, socialisti iscritti partito ufficiale Bordiga Amadeo e Turi Gerardo hanno chiesto salone Borsa Lavoro per una riunione preparatoria allo scopo di indire comizio contro guerra, che dovrebbe tenersi domani».
Ma immediatamente il Prefetto vieta qualsiasi pubblico comizio. Ma la sera del 18 alla Borsa del Lavoro, si tiene la riunione, presenti i capi della sezione e della gioventù socialista, l’anarchico Imondi, i rappresentanti della Borsa del Lavoro. I compagni della Sezione, dopo aver aspramente criticato i risultati del convegno di Bologna, proposero la formazione di un “comitato di agitazione permanente” per «accentuare la propaganda neutralista anche dopo l’eventuale inizio delle ostilità». A questo i dirigenti della Borsa risposero in termini vaghi, che non avevano “mandato”, che giudicavano la proposta “pel momento inopportuna o per lo meno intempestiva”; uno dei presenti si scagliò allora violentemente contro di loro insultandoli. Ma i capi della sezione, fingendo di non accorgersi della manovra dilatoria, tentarono di strappare ai bonzi sindacali almeno una convergenza parziale (era necessario perché solo essi tenevano le file delle organizzazioni proletarie e solo essi potevano proclamare lo sciopero generale). Fu presentata ai convenuti la copia di un volantino rivolto ai lavoratori e alle donne. Il piano che fu esposto dai compagni della Sinistra era che, se il comizio fosse stato numeroso, «si sarebbe dovuto uscire immediatamente in corteo per recarsi a protestare sotto le redazioni dei giornali interventisti e poi scendere in dimostrazione verso i rioni popolari».
Ma prima che ci si potesse muovere scattò l’efficientissimo e informatissimo apparato repressivo: Ecco in proposito il rapporto del Prefetto:
«Secondo disposizioni in precedenza date, manifestino in parola, che è sprovvisto della indicazione della tipografia, è stato sequestrato appena apparso nelle mani del Bordiga e del Turi e dell’anarchico Sarno Roberto che fu anche fermato. Questore inoltre ha fatto notificare ai promotori Turi e Bordiga – a mezzo dello stesso Commissario S. Lorenzo – che il comizio contro la guerra non sarà permesso neanche nel cortile di S. Lorenzo Maggiore, e nello stesso tempo ha diramato circolare a tutti gli uffici per impedire in modo assoluto distribuzione manifestino specie ingresso stabilimenti e pronta defissione manifesti del genere eventualmente affissi».
Questo il manifesto sequestrato:
«CONTRO LA GUERRA. LAVORATORI! DONNE!
«In questa ora tragica e sinistra si cerca con ogni mezzo di ottenere il vostro consenso al delittuoso sacrificio che domani si farà di voi, dei vostri fratelli, dei vostri figli sui campi di battaglia! Vi si inganna turpemente con false notizie ed argomenti menzogneri. La stampa – anche quella fino a ieri stipendiata dai tedeschi! – è unanime nella vile campagna che dipinge la guerra come giusta e necessaria per nascondere le responsabilità dei suoi fautori e afferma che il paese è unanime nel volerla. Ma le organizzazioni economiche e politiche del proletariato terranno mercoledì in tutte le città d’Italia grandi manifestazioni di popolo per riaffermare dinanzi al governo ed al parlamento, che giovedì deve deliberare, l’avversione incrollabile di tutti i lavoratori alla guerra. I socialisti sono ormai soli contro tutti in questa lotta per l’umanità e la civiltà, che non si arresterà neanche dinanzi al “fatto compiuto” della dichiarazione di guerra.
«Lavoratori e lavoratrici! Accorrete dunque tutti al GRANDE COMIZIO CONTRO LA GUERRA che si terrà mercoledì 19 corrente alle ore 19 nell’atrio della Borsa del Lavoro, oratori On. Arturo Caroti e On. Modigliani, La Borsa del Lavoro, la Sezione Socialista, il Fascio giovanile Socialista, il circolo Ferrer, il circolo Arnaldo Lucci, il circolo S. Anna alle Paludi, gli Anarchici, il Sindacato ferrovieri».
La
risposta del proletariato italiano
alla prima guerra imperialista
Nei mesi che precedettero l’entrata in guerra dell’Italia le condizioni di vita delle masse proletarie ebbero un ulteriore peggioramento; il rincaro dei prezzi, soprattutto del pane, i licenziamenti, l’imperversare della propaganda guerrafondaia mentre era ancora vivo il ricordo della guerra di Libia e della settimana rossa, eccitavano l’odio delle masse. La lotta per il pane e l’odio per il militarismo si fondevano in tumulti che scoppiarono in tutto il paese prima e durante la guerra.
Il 21 febbraio 1915 il PSI indice manifestazioni contro la guerra: i comizi risultano imponenti. Il 25 febbraio avvengono scontri a Reggio Emilia: i carabinieri sparano sulla folla, uccidono un lavoratore e ne feriscono molti altri. Il 31 marzo a Milano il corteo dei socialisti con alla testa Serrati, si scontra con quello degli interventisti guidati da Mussolini. La polizia interviene a dar man forte a questi ultimi e arresta Serrati. L’11 aprile, a Roma, una dimostrazione socialista è repressa dalla forza pubblica che opera massicci arresti. Lo stesso giorno a Milano la polizia, disperdendo una manifestazione contro la guerra, uccide un giovane meccanico. La Camera del Lavoro, il PSI e l’USI proclamano lo sciopero generale per il 14, che riesce imponente.
Tra la fine di aprile e i primi di maggio, gruppi di richiamati protestano a Reggio Emilia al grido di “abbasso la guerra, viva la rivoluzione sociale”. A Castelfiorentino (FI) i richiamati si rifiutano di partire e invadono la stazione. Analoghi episodi a Vinci, Certaldo, Campi Bisenzio e Prato. Il 19 e 20 aprile sciopera l’intera cittadina di Campi Bisenzio. Il 6 maggio a Piombino sciopero generale contro la guerra che impedisce la partenza dei richiamati. Sempre nello stesso periodo vengono bloccati treni di soldati a Castelnuovo Val di Cecina e a S. Giovanni Valdarno. Le manifestazioni del 1° maggio 1915 risultano imponenti.
A Torino sfilano 100.000 operai inalberando cartelli contro la guerra. Il 12 maggio a Milano un giovane socialista viene ucciso in uno scontro con gli interventisti. A Torino il 15 maggio gli operai si scontrano con gli studenti interventisti; questi ultimi malmenano un carrettiere al grido di “viva la guerra”. Il 16 viene deciso lo sciopero per il giorno dopo, lunedì 17: dalle barriere 100.000 operai irrompono nel centro e si scontrano con la cavalleria. Un giovane operaio viene ucciso e 14 feriti. Il Prefetto cede i poteri alla autorità militare. Nel pomeriggio dello stesso giorno, gruppi di operai saccheggiano negozi di armaioli e si scontrano a fuoco con la truppa. Numerosi feriti da ambo le parti. La Casa del Popolo viene invasa e messa a sacco dai militari. Gli unici dirigenti socialisti non arrestati, cioè i destri, invitano gli operai a tornare al lavoro. Ma nella notte si rinnovano gli scontri e il 18 lo sciopero continua e cessa solo il giorno dopo.
«Ancora una volta furono dimostrati il coraggio e la decisione dei proletari di Torino, e anche il buono spirito rivoluzionario di quei compagni; ma pure in quella occasione fu commesso un errore di natura “ciclica”. Torino si muove sempre con un errore di fase, ossia è dura a imparare che certe decisioni di lotte di classe devono essere nazionali e non locali. Con una confederazione e un partito italiano che non vanno, non si fa nulla anche con una Torino dalle potenti organizzazioni e cooperative» (“Storia della Sinistra”).
Tra il 1916 e il 1917 si verificano manifestazioni, scioperi, ammutinamenti anche nel resto dell’Europa occidentale. Scioperi contro la guerra a Parigi e a Saint Etienne e ammutinamenti sul fronte francese e tedesco. Vastissimo e represso nel sangue fu quello sul fronte francese del maggio 1917. Gli echi della Rivoluzione Russa si propagano su tutti i fronti, suscitando una ondata di entusiasmo e di speranza. In Italia, dal dicembre del 1916 all’aprile del 1917 vi furono 880 denunce per propagazione di notizie allarmistiche e 2.300 denunce e 3.901 arresti per partecipazione a manifestazioni sovversive e contro la guerra.
Il 1° maggio 1917 a Milano, circa 4.000 donne e ragazzi manifestano con bandiere rosse e cartelli reclamanti “pane e pace”. Il 4 maggio un corteo di donne attacca a sassate gli stabilimenti finché non escono gli operai. Il corteo si ingrossa e presidia i quartieri industriali. Il Prefetto chiede un rinforzo di 6.000 uomini di fanteria e 20 squadroni di cavalleria. Il 5 lo sciopero continua malgrado massicci arresti. I dirigenti della Camera del Lavoro si accordano col Prefetto per far cessare il movimento. Manifestazioni avvengono in molte località e scioperano anche gli operai di fabbriche militarizzate. Dal 3 al 7 luglio sciopera tutta la zona di Biella. Nel maggio 1917 a Mantova si svolge una manifestazione contro l’arresto di un disertore. Per tutto il 1917 si hanno occupazioni di terre in numerose località del Lazio. In quattro mesi e mezzo dal dicembre 1916 alla metà di aprile 1917 si contano 459 dimostrazioni con circa 100.000 partecipanti.
A Torino, la penuria di pane è sempre più insopportabile. Lunghe code inferocite davanti ai fornai. Molti vanno al lavoro digiuni. Il 21 agosto la crisi si aggrava. Gruppi di donne manifestano alla Prefettura e al Municipio. Le autorità promettono, ma è tardi. La mattina del 22 nel rione Vanchiglia la folla attacca la caserma delle guardie; queste sparano ferendo 3 operai. Diversi scontri in varie parti della città. Lo sciopero si allarga, diventa generale e alla rivendicazione di “pane” si aggiunge quella di “pace”. Ecco il racconto di un protagonista:
«Invece di entrare in fabbrica cominciammo a tumultuare davanti al cancello lanciando alti gridi: non abbiamo mangiato. Non possiamo lavorare. Vogliamo pane! Il cav. Diatto viene allora di persona ad assicurare che chiederà subito un camion di pane alla sussistenza militare. Gli operai tacquero un istante. Proprio un solo istante. Si guardarono negli occhi l’uno con l’altro, quasi per consultarsi tacitamente, e poi tutti assieme, ripresero a gridare: Ce ne infischiamo del pane! Vogliamo la pace! Abbasso i pescecani! Abbasso la guerra! E abbandonarono in massa i pressi dell’officina avviandosi chi verso il centro della città alla Camera del Lavoro, e chi presso altri stabilimenti che ancora lavoravano per invitare gli operai ad unirsi allo sciopero» (Del Carria, “Proletari senza rivoluzione”).
Nel pomeriggio decine di migliaia di operai confluiscono alla Camera del Lavoro. Si saccheggiano negozi di alimentari e di armi. In serata le autorità militari occupano la Camera del Lavoro e arrestano il segretario. Questo esaspera le masse operaie: iniziano gli scontri a fuoco. Il giorno dopo tutta la città è bloccata malgrado nessun ordine sia venuto dai capi sindacali. Si costruiscono barricate. Gli operai sono asserragliati nella zona nord della città. Alla sera del 23 vi sono già 7 morti e 37 feriti.
Il giorno 24 è il momento decisivo: la truppa tiene saldamente il centro. Gli operai premono con un susseguirsi di azioni a piccoli gruppi e cercano di tirare dalla loro parte i soldati con rudimentali volantini e con infiltrazioni di gruppi di donne. Ma la disciplina militare non si incrina. In un settore i soldati vengono travolti, si occupa un commissariato di PS; si punta a impossessarsi della zona dove si trovano la Questura, la Prefettura e le caserme. In tal caso la città sarebbe presa. Ma entrano in campo le autoblindo che mitragliano senza pietà e respingono l’attacco. Alla sera del 24, si contano 21 morti tra gli operai, 3 fra i militari, un centinaio di feriti e 1.500 arresti. La battaglia è persa, ma la resistenza operaia durerà fino alla sera del 26.
«Nei moti dell’agosto 1917, ancora una volta furono gli operai di Torino a condurre una viva e vera azione di guerra di classe. La gravità della repressione e la violenza del processo avanti un tribunale militare contro tutti i capi locali del partito, compreso lo stesso Serrati coraggiosamente accorso, dato che la censura imbiancava tutto il giornale, oltre alle vivacissime discussioni che seguirono in seno al partito e alla coincidenza storica del rovescio di Caporetto avvenuta poco dopo, formarono intorno a questi moti quasi una leggenda. L’abile marxista Treves poté condannare l’errore di “localismo”, mentre i torinesi giustamente rampognavano il partito di averli lasciati soli, e nella polemica non seppero nemmeno dire che il moto locale era causato dal fatto che, sotto la pressione dei Treves e della loro tradizione, appunto perché non ignobile, la proposta di moto “nazionale simultaneo” e non locale sarebbe dovuta passare sui corpi dei Turati e dei Treves prima di trionfare, come da tutto il resto d’Italia noi sinistri rispondemmo alla “Critica Sociale” ponendo apertamente l’esigenza della scissione del partito come condizione alla presa delle armi in un’azione rivoluzionaria» (“Storia della Sinistra”.
Se le condizioni dei coscritti erano terribili in tempo di pace, si può immaginare quali fossero in tempo di guerra. Mancando da parte del PSI una direttiva rivoluzionaria e un efficace lavoro di penetrazione e di organizzazione clandestina nell’esercito, i soldatini erano costretti a ricorrere alla diserzione, che assunse aspetti massicci, e ad ammutinamenti improvvisi, furono soffocati con relativa facilità.
In una lettera di Cadorna del giugno 1917 si parla di 20.000 disertori tra i soldati siciliani arrivati in licenza ordinaria nell’isola e non più rientrati ai reparti. Secondo altre fonti, nell’aprile 1917 vi furono 2.137 disertori e nell’agosto 5.471. Al 1° ottobre 1917 si contavano complessivamente 56.000 disertori e 48.000 renitenti alla leva. In una relazione al Presidente del Consiglio dei Ministri, il Comando Supremo dichiarò che al 30 settembre 1917 i renitenti alla leva erano 48.282 in Italia e 337.506 nel resto dell’Europa, mentre i disertori dai corpi erano 56.268 in Italia e 3.394 all’estero. In Italia quindi, tra renitenti e disertori erano 104.550.
È soprattutto l’incremento del fenomeno significativo: 650 disertori in più al mese tra il maggio del 1915 e il maggio del 1916; 2.100 in più al mese tra il giugno del 1916 e il maggio del 1917, 5.500 tra il giugno e il settembre 1917. Alla fine del 1918 risulteranno in corso 1.100.000 processi per diserzione. È evidente che questi poveri ragazzi che cercavano di sfuggire al macello trovavano ovunque appoggio tra la popolazione.
Nel marzo 1917 nel corso della decima battaglia dell’Isonzo, tre reggimenti composti in massima parte da siciliani si erano arresi al “nemico” senza combattere. In giugno durante, l’offensiva in Trentino, molti reparti avevano rifiutato di combattere e si erano mostrati scarsamente aggressivi. Nella battaglia del Carso, a maggio, battaglia offensiva, l’armata italiana perse 27.000 prigionieri contro 23.000 fatti agli austriaci. Il 29 maggio 800 uomini della brigata Puglie passarono al “nemico”. Nei giorni successivi un reggimento della brigata Ancona e uno della brigata Verona si arrendono. Per ristabilire la disciplina e lo spirito patriottico, il comando ordinò allora decine di fucilazioni col barbaro sistema della decimazione. Il 16 luglio la brigata Catanzaro si rivoltò mentre stava per andare in trincea. Tra i soldati si sparge spontaneamente il proposito di marciare su Udine. La rivolta viene domata con l’invio di unità di mitragliatrici e di cavalleria: 28 soldati vengono fucilati sul posto e 123 denunciati al tribunale di guerra. Il 15 agosto un sottotenente e 37 soldati si consegnano agli austriaci. Nell’azione contro il monte S. Marco, dopo un tremendo bombardamento di artiglieria, la fanteria si rifiuta di uscire dalle trincee. Nell’estate del 1917 sulle tradotte che andavano al fronte si gridava “viva la pace, vogliamo la pace!”.
A Caporetto i soldati italiani abbandonarono in poche ore posizioni ritenute inespugnabili, interi corpi si arresero senza combattere, intere batterie intatte furono abbandonate dagli artiglieri. Masse di sbandati si diressero verso il Tagliamento; la parola d’ordine era, “si torna a casa la guerra è finita”. Ai ponti di Cornino e Pinzano, due intere divisioni si sfasciarono senza combattere (qui nel 1920 furono ritrovate le posizioni difensive intatte). Una fonte non sospetta, il Generale austriaco Krauss dirà: «fin dai primi giorni, e poi sempre di nuovo, intere colonne di prigionieri ci venivano incontro al grido di “viva l’Austria” e “a Roma”» (dati della Commissione d’inchiesta riportati in “Proletari senza rivoluzione”).
La rottura del fronte a Caporetto fece esplodere il difesismo nazionale; anche il Partito Socialista fu sull’orlo di gettarsi tra le braccia della “Patria in pericolo” e solo la presenza della Sinistra gli impedì questa nuova sbandata e lo obbligò a tener ferma la posizione di no alla guerra.
«Ma in quelle ore, mentre i veri italiani facevano, molto platonicamente, argine dei loro petti alle “orde” austriache, molti di noi militanti del partito correvamo a Roma per far argine al tradimento dei nostri deputati, e ne potemmo scongiurare la piena effettuazione col trattenerli quasi fisicamente sulla via del Quirinale (...)
«Durante l’ottobre e il novembre (la “rotta” famosa e il getto delle armi avvennero il 24 ottobre 1917) continuò nel partito questa vera colluttazione, che servì nel seguito a conferire un indebito merito ai nostri vacillanti destri per non essersi disonorati. Il fatto è che noi fummo tanto decisi e attivi, che essi non poterono liberarsi del loro... onore! Lazzari e la Direzione in quel momento erano fermamente decisi ad impedire quello che la forte maggioranza dei deputati voleva fare: se non proprio entrare in un gabinetto di “difesa nazionale”, per lo meno non negare il voto a un tale ministero e ai crediti per la difesa. Era un risultato che sembrò ai giovani dell’estrema ala marxista importante, e per un momento tacque la divergenza sul sabotaggio della guerra che Lazzari aveva sconfessato. In pratica i proletari soldati avevano applicato sia pure in modo insufficiente il disfattismo, disertando il fronte. Avevano gettato le armi invece di tenerle per azioni di classe, come nello stesso tempo avveniva sui fronti russi; se non avevano sparato sui loro ufficiali, era perché gli ufficiali erano scappati con loro anziché impugnare le storiche pistole dell’Amba Alagi 1897 (altra grande tappa italiana) nel tentativo di arrestare la fuga» (“Storia della Sinistra”).
Proprio
in questa svolta cruciale, si era finalmente costituito il primo
nucleo della Frazione intransigente rivoluzionaria (Firenze, agosto
1917). Fu la Frazione che organizzò a Firenze nella notte del 18
novembre 1917, una riunione clandestina del Partito, nella quale si
bloccò ogni ulteriore sbandamento della destra, si ribadì
che
«l’atteggiamento politico del Partito Socialista non può
farsi
dipendere dalle alterne vicende delle operazioni militari», si
condannò qualunque manifestazione che avesse il senso «di
aderire
alla guerra o concedere tregua alla classe borghese o comunque
modificare l’indirizzo dell’azione proletaria», si ribadì
la
«irreducibile opposizione alla guerra». «Da quel
momento, il
gruppo dei più decisi, strettosi in quella riunione, si
organizzò
sempre meglio (...) e si delineò la piattaforma propria della
“sinistra italiana” che non era la stessa cosa della vecchia
frazione intransigente, ma molto di più» (“Storia della
Sinistra”).
*
* *
Oggi i focolai di guerra sono sempre più generalizzati, il riarmo missilistico e tradizionale è all’ordine del giorno della politica delle grandi potenze, il mondo intero si trova nuovamente prossimo ad un conflitto mondiale. Con lo sviluppo della crisi il militarismo si acuisce ogni giorno di più e tende a prendere l’egemonia sulla intera struttura economica e sociale. Questa è l’unica soluzione che la borghesia mondiale può offrire alla specie umana, per uscire dalla sua crisi di sovrapproduzione, per ridare ossigeno all’infernale ciclo di produzione e riproduzione del capitale che si sta inceppando. Ancora una volta il proletariato mondiale si pone l’alternativa O GUERRA IMPERIALISTA O RIVOLUZIONE PROLETARIA.
Ma il capitalismo salterà in aria solo dal suo interno. La macchina del capitalismo imperialista si incepperà sotto i colpi e l’azione del proletariato rivoluzionario che si ribellerà contro i pesanti oneri del militarismo, che si rifiuterà di scannarsi a vicenda per il motivo di indossare differenti divise o parlare lingue diverse. Alla soluzione borghese il partito comunista rivoluzionario offre la soluzione positiva per l’intera umanità, che è quella di promuovere e dirigere la lotta per fermare la guerra imperialista, trasformandola in guerra civile per la presa del potere e per la dittatura di classe, verso il fine ultimo del comunismo. Questo l’insegnamento che Marx, Engels e la gloriosa rivoluzione d’ottobre ci hanno tramandato.
Per assolvere questo compito storico il partito deve armare il proletariato del “desiderio di armarsi”, combattere le politiche che cercano in tutti i modi di consegnare il proletariato al servizio degli interessi nazionali, della patria, della democrazia. Il Partito Rivoluzionario, forte della sua teoria ed esperienza storica, soprattutto all’interno dell’esercito borghese deve creare una sua specifica organizzazione, che prepari le condizioni soggettive della formazione dell’armata proletaria. Il presente lavoro, che qui iniziamo a pubblicare sul rapporto fra il comunismo e la guerra è finalizzato allo scopo di meglio scolpire i compiti del partito, sia nella fase di preparazione alla guerra, sia domani durante la guerra, unica voce sicura nella unanime criminale e demente orgia patriottarda.
(continua)
La formazione degli Stati Nazionali in America Latina
Rapporti con le metropoli
[ È qui ]
Ipotesi
e fatti
La scienza borghese in una sorta di riedizione del millenario paradosso, o compromesso, dell’astronomia greca, applicato alla lotta delle classi, ha la pretesa di salvare i fenomeni e nello stesso tempo i principi; ma quando si accorge dell’incompatibilità dei due piani, ripiega su una mossa epistemologica dividendo la fisica sociale in due parti, la esperienza pratica e le ipotesi, l’una vera è dimostrata, le altre né vere né probabili, ma semplicemente utili.
Senza pretendere che l’analogia sia capace di rendere perfettamente l’impasse della speculazione teorica delle varie specie e sottospecie di determinismo piccolo-borghese, vogliamo dire che tutto il gran parlare che si fa sul presunto geocentrismo o tolemaismo paleo-marxista, in nome del modernismo e dell’adeguamento della cultura alle nuove realtà sociali, va a parare in una confusione di linguaggio che è sotto gli occhi di tutti.
Essendo le premesse del materialismo storico estranee ad ogni forma di apriorismo filosofico, quando lo si accusa di volere a tutti i costi salvare i principi (una presunta circolarità e uniformità delle orbite della lotta di classe), a costo di smentire i fenomeni o di infischiarsene dei fatti, non si fa che civettare malaccortamente con il linguaggio scientifico galileiano senza approdare a nulla.
La tragedia della controrivoluzione, prima che nella distruzione fisica di proletari e comunisti, consiste nella manomissione della storia rivoluzionaria. Nel cosiddetto marxismo-leninismo, con trattino d’unione, infatti è iniziata quella abnorme dogmatica per la quale la recita quotidiana dei principi può giustificare ogni sorta di pratica, ogni zig-zag tattico. L’ortodossia ha finito per diventare una questione chiesastica, basata su canoni e inquisizione, senza nessuna considerazione della effettiva dinamica della lotta delle classi.
Parafrasando una celebre proposizione del fisico Dirac: «l’unico scopo della fisica teorica è calcolare risultati che possono essere messi a confronto con l’esperimento e non è affatto necessario fornire una descrizione soddisfacente dell’intero corso dei fenomeni», soluzione che per il gradualismo riformista, oggi puro e semplice opportunismo, la teoria dei piccoli passi, dei piccoli aggiustamenti, delle invisibili conquiste è solo una suggestione dettata dallo snaturamento del materialismo storico e dialettico.
La natura della teoria marxista della lotta di classe solo per analogia può richiamare i modelli di interpretazione della realtà fisica e sociale che l’ideologia borghese ha approntato nel corso della sua esperienza storica; in realtà la sua caratteristica è quella di nascere in un sol blocco e di non confondersi con l’inevitabile schermaglia di polemiche e di civettamenti con la filosofia e la scienza sociale della borghesia.
La lotta delle classi non è stata inventata da Marx; egli non ha fatto che tirare le conseguenze, nient’affatto logiche in sé, ma necessarie sulla base dell’esperienza storica, che comprendono il passaggio alla dittatura del proletariato e all’esercizio del potere proletario fino al comunismo.
Non esistono nella nostra visione storica “laboratori” in astratto dove si fanno esperimenti sociali, perché nella lotta delle classi ogni immagine astratta del mondo è riduttiva ed ideologica; come pure il richiamo alla figura della palestra, a proposito della lotta economica in funzione della lotta politica, non ha niente a che vedere con finzioni e mosse da provare allo specchio. La natura della concezione materialistica della rivoluzione consiste nella coscienza, propria dell’organo Partito, che ogni aspetto della lotta e della vita sociale di classe non è finzione, ma milizia, nel grande formato sociale delle molecole ionizzate e combattenti e nell’invisibile e non “incidente” formato di pochi militanti, che senza demordere restaurano l’organo rivoluzionario nelle condizioni meno favorevoli.
È così che le obiezioni dei professori nella loro bizantina teologia, non toccano minimamente la sostanza della tragedia storica della controrivoluzione e dei suoi effetti.
Noi sosteniamo che solo la teoria rivoluzionaria del proletariato ha la capacità di porre in maniera soddisfacente il rapporto tra essere e pensiero, e non in virtù di se stessa in quanto pensiero, ma in quanto risultato della necessità per la classe proletaria, come ultima classe della storia, di adeguare la sua esperienza collettiva nel tempo alla realtà esterna. Quest’affermazione non ha niente di velleitario, poiché contro tutte le filosofie non ha la pretesa di dire una verità valida in tutti i tempi e in tutti i luoghi, ma di sostenere il giusto criterio, capace di stabilire il giusto rapporto tra teoria e pratica, senza aggirare la questione millenaria del come salvare i principi e salvare i fenomeni.
«Noi non neghiamo l’esistenza della logica come scienza e tecnica strumentale delle forme del pensiero; è anzi ben noto che nella concezione marxista al suo impiego si accompagna quello della dialettica, o scienza delle relazioni (...) Ma ciò che deve essere chiarito è che la logica è costruita e giustificata dalla sua applicazione e corrispondenza alla realtà, e non codificata a priori nella nostra testa e solo dopo applicata alle cose. Non è più la scienza dei principi del pensiero, che diventa scienza dei principi dell’essere, ma è soltanto scienza delle “forme” del pensiero, non assolute e fisse, ma sempre pronte ad essere modificate da risultati e dai dati del mondo esterno».
La strumentalità della teoria (la teoria è guida per l’azione) della nostra visione della realtà non comporta un generico compromesso, perché non opponiamo resistenza alla modificazione delle “forme” del pensiero ove sia necessario.
Naturalmente la grande e vessata questione consiste, non da oggi, nel decidere chi abbia l’autorità di modificare e di adeguare i fenomeni ai principi, la pratica alla teoria e viceversa. Per noi, anche quando lo scontro tra antitetiche visioni del mondo, dalla filosofia alla fisica, si è profilato e incarnato in persone, da Galileo a Darwin, non sono mai state le persone anche eminenti a decidere, e nemmeno le istituzioni nei loro apparati economici e giuridici: abbiamo detto, e non abbiamo da tornare sulla questione, che la verità della scienza non si affronta a base di circolari del Comitato Centrale o di decreti del Santo Uffizio.
L’antagonismo storico è antagonismo tra le classi, e tutte le nomenclature che pretendono di sostituirvisi o d’incarnare in forma esclusiva questa contraddizione si inventano per conquistarsi un posto sul palcoscenico della storia.
Dunque il materialismo storico non si sottrae alla scienza delle relazioni, allo sforzo di definire i confini tra essere e pensiero, e si sente esaltato nel suo metodo e nella sua essenza anche quando, anzi particolarmente quando, questioni apparentemente insolubili vengono affrontate e correttamente risolte, anche a livello della scienza della logica e della tecnica strumentale delle forme del pensiero.
Non condividiamo al contrario l’atteggiamento diplomatico della cultura borghese ed opportunista dei nostri tempi, quando in nome dell’autonomia dei singoli linguaggi o statuti scientifici, ciascuno “indipendente e libero”, si rifiuta di considerare la natura del rapporto tra i diversi linguaggi, negando proprio la scienza delle relazioni!
Eppure certe soluzioni, o ipotesi di soluzione proposte in certe particolari epoche storiche, anche quando non ci soddisfano, sono una risposta che il materialismo storico è in grado di considerare nella loro portata e valore; quando ci viene rivelato che problemi insolubili ed oggetto di diatriba senza possibilità di accordo hanno ottenuto una nuova impostazione, noi siamo in grado di riconoscere la ragione di tale questione.
Il concetto di infinito ne è un esempio. Quello che non è stato possibile alla filosofia, è stato possibile alla matematica, e per noi è una conferma del nostro metodo. I primi abbozzi di una teoria matematica rigorosa dell’infinito incontrarono una serie di paradossi, come quello per cui il numero infinito di punti contenuto in un segmento di retta sarebbe lo stesso del numero infinito di punti contenuto in un segmento lungo il doppio. Oppure si considerino due circonferenze concentriche, l’una il doppio dell’altra, se si tracciano i raggi, ciascun punto della circonferenza maggiore può essere fatto corrispondere ad uno della circonferenze più piccola; il numero infinito di punti della circonferenze maggiore deve cioè essere lo stesso del numero infinito di punti della circonferenza più piccola, anche se quest’ultima è lunga la metà dell’altra.
I filosofi medievali come Tommaso d’Aquino dedussero da simili argomenti che l’infinito numerico fosse intrinsecamente contraddittorio. Per Tommaso solo Dio è infinito. Più tardi altri pensatori, come Galileo, avanzarono l’ipotesi che ci potessero essere numerosi infiniti, ma che tuttavia tali numeri seguissero leggi molto diverse da quelle che regolano i numeri finiti. Si dovette aspettare la fine dell’800 perché venisse messa a punto una teoria esauriente degli infiniti matematici.
Cantor in un saggio del 1885 tra l’altro rispose: «l’infinito attuale si presenta in tre diversi contesti; 1°) quando si trova realizzato nella forma più completa in un essere ultramondano del tutto indipendente, il Deo, nel qual caso lo chiamo Infinito Assoluto, o semplicemente assoluto; 2°) quando si realizza nel mondo contingente, creato; 3°) quando l’intelligenza lo afferra in astratto in quanto grandezza matematica, numero o tipo d’ordine». Per Cantor c’erano insomma tre tipi d’infinito. Il primo quello dei teologi, il secondo quello dei fisici, come quando diciamo “un numero infinito di stelle”, il terzo quello che interessa i matematici, che indica, semplicemente, un numero più grande di qualsiasi altro comune numero finito, ed è contrassegnato dall’ultima lettera dell’alfabeto greco omega minuscolo, ω.
L’operazione di Cantor ci ricorda la nota di Engels a proposito delle domande che si poneva l’insigne astronomo padre Secchi «in nessun altro luogo Dio viene trattato peggio di quel che lo sia nelle pagine degli scienziati che credono in lui». Così padre Secchi «pregò Dio di accomodarsi fuori dal sistema solare». Cantor pone Dio fuori dalle operazioni della matematica dell’infinito.
Il materialismo marxista si vede confermato quando assiste a queste operazioni, ma ne coglie il limite, nell’ambito della divisione del lavoro che vige, in una sua forma, anche nel lavoro intellettuale e filosofico: Cantor sembra ripetere il classico “lasciatemi lavorare”, sgombrando il terreno dalle intrusioni d’altri e dichiarando la sua incompetenza a risolvere le difficoltà che non lo riguardano; ma è nei territori di confine che si combattono le più ardue battaglie e si risolvono i più grandi conflitti.
La nostra tesi è che «si debbono spezzare vecchi assoluti troppo angusti per costruire nuovi e più validi veri assoluti. Ma non più assoluti da cui si parte come da una condanna premessa ad ogni conquista, assoluti che si guadagnano, cui si giunge, cui si passa».
La famosa ipotesi del continuo del 1875 postula chiaramente l’esistenza di diversi gradi d’infinito. L’idea era così stupefacente che alcuni rifiutarono di crederci. Ma grazie al semplice procedimento della diagonale di un quadrato si dimostra fuori da ogni dubbio che l’insieme dei numeri reali è maggiore dell’insieme dei numeri naturali.
Per andare in fondo agli infiniti gradi di infinito non resta che rivolgersi al cielo, all’infinito assoluto. Gli studiosi d’insiemistica usano per quest’ultimo la lettera greca Ω, omega maiuscolo. Ma ancora una volta la matematica urta contro un ostacolo: cosa accadrebbe ad Ω dopo averci aggiunto qualcosa, Ω + 1 ?. Il medesimo paradosso si verifica in teologia se si considerano queste due affermazioni: 1°) ogni volta che si conosce completamente una cosa, poniamo D, se ne può conoscere una più grande, come ad esempio un paio di repliche di D; 2°) Dio è ciò che di più grande può esserci. I teologi ne deducono pertanto che Dio non è qualcosa che si può conoscere compiutamente. San Gregorio ad esempio dichiarò: «per quanto lontano la nostra mente si spinga nella contemplazione di Dio, essa non coglie ciò che egli è, ma ciò che gli sta sotto». L’insiemistica adotta un atteggiamento molto simile per quanto riguarda l’infinito assoluto.
Nei nostri Appunti filosofici si dice «specialmente la facoltà di astrarre e di generalizzare viene acquisita con un lungo esercizio della facoltà di pensare collettiva e personale, e l’esercizio consiste nella ripetizione di infinite applicazioni particolari tutte soddisfacenti a condizioni sperimentali». I pretesi assoluti del pensierosuccessive generalizzazioni, il più delle volte destinate a lasciare il posto ad altre, dunque prive di valore definitivo; in ogni caso sono l’opposto di principi primitivi non modificabili e fungenti da punti di partenza. non sono che
Che nel corso della storia umana abbiano preso il nome di Dio o di Io non ci scompone di tanto. I fatti particolari storici etnografici ecc. che comprovano tutto ciò sono innumerevoli. Il selvaggio non può pensare un numero superiore a 3 o 5, l’uomo ordinario già compie uno sforzo per vedere netta nel suo pensiero una dimostrazione delle matematiche elementari, e si rifiuta di ammettere che abbia un senso il calcolare sulle parti infinitesime delle grandezze finite. Il matematico moderno invece fa tali calcoli come cosa naturale, ma può provare un senso di disagio dinanzi alla proposta di ulteriori astrazioni come quelle delle forme differenziali a più di tre dimensioni, dei numeri cantoriani (due numeri infiniti, meglio detti transfiniti, possono essere uno maggiore dell’altro) ecc. ecc.
Ma quello che la stessa “scienza borghese” ammette nel chiuso orticello delle specializzazioni si preoccupa poi di distruggere nella vita ordinaria a colpi di richiami al realismo e al senso comune. Dal momento che gli infiniti superiori conoscono scarse applicazioni pratiche, perché rompersi il capo su speculazioni che mettono in forse le più generali impalcature e bardature ideologiche? quando col più elementare e suggestivo ricorso all’Infinito, all’Essere, a Dio, o anche peggio all’Uomo con la lettera maiuscola, si pensa di farla franca.
Fino a 20 anni fa molti scienziati credevano che l’universo contenesse un numero infinito di stelle. Ma recenti sviluppi, in particolare la scoperta da parte di Penzias e di Wilson della radiazione cosmica di fondo, residuo del “big bang”, la conflagrazione originaria dell’universo, sembrano attribuire all’universo un numero di 1 seguito da 24 zeri di stelle. Anche se l’universo non è infinito, è ancora possibile che esso duri per sempre. Che dire di un universo la cui vita fosse di ω + ω anni? Alcuni cosmologi sostengono che se si potesse entrare in un buco nero rotante, se ne potrebbe uscire a distanza di ω anni nel futuro. Può darsi che l’infinito sia reperibile nel mondo reale dalla parte dell’infinitamente piccolo. Lo stesso Cantor propose, a suo tempo, la curiosa teoria per cui esisterebbero due tipi di sostanze, la materia e l’etere, quest’ultimo in qualche modo associato ai trasferimenti di energia. Gli oggetti materiali sarebbero infinitamente divisibili in ω livelli di particelle massicce, mentre gli oggetti “eterei” un’infinità ancora superiore di particelle di etere.
La conclusione che gli infiniti di Cantor sono non un unico infinito assoluto, ma tanti transfiniti, tutti relativi, tutti accrescibili, sta ad indicare che i fautori degli a-priori non hanno che da rifugiarsi negli atti di fede, che nel passato non tanto lontano hanno prodotto inquisizioni e roghi, certamente gravi ed indizio di brutali contraddizioni storiche, che comunque non reggono il confronto con la tragedie della moderna lotta di classe, con i diktat dei Politburò che in nome del socialismo hanno preteso di stabilire la verità teorica nel campo della scienza.
Noi veri comunisti sappiamo, e storicamente ne portiamo il marchio nella viva carne, che i nuovi assoluti, sostenuti in nome del relativismo teorico generale, fanno sicuramente più male dell’Assoluto trascendente ed invisibile. Per questo, mentre l’opportunismo e la borghesia hanno ormai delegato agli addetti ai lavori, al chiuso delle Accademie delle Scienze ed ai baroni universitari, l’alta speculazione teorica e scientifica, noi consideriamo appartenente all’organo Partito nei suoi momenti sublimi e nei bassi storici più depressi e deprimenti il compito di non abbandonare la conoscenza e lo scolpimento della teoria, qualunque sia il risultato contingente, per quanto modesto possa essere il nostro apporto; se il nostro compito è di oscuri artigiani addetti a dar di scalpello e incapaci di dar forma alla dura materia, siamo ripagati dalla coscienza che il lavoro organico riconosce e fa tesoro della nostra insostituibilità.
Nel campo più proprio del linguaggio si possono fare le stesse osservazioni sia sul valore delle parole sia sulle loro relazioni. Il verbo essere, che rappresenta l’astrazione delle astrazioni ed è la colonna su cui i fautori dell’a-priori vogliono poggiare le leggi assolute del pensiero, risale ad una radice indo-europea che significa respirare, ossia una maniera di essere molto concreta e propria soltanto degli organismi viventi.
Che
dire poi quando presunti materialisti identificano l’essere
con il pensiero? Ieri e oggi questo tipo di mistica giustifica
leggi universali ferme ed insostituibili nella realtà fisica,
organica, storica, economica, fino al sacro rispetto per gli
insuperabili archetipi dell’umanità di sempre, il
femminile ed il maschile, il servo ed il padrone, il governante e il
governato.
Dall’Archivio della Sinistra
Grazie alla nuova legge elettorale del 1923, proposta dal fascista Acerbo ma votata dalla maggioranza dei rappresentanti dei partiti “antifascisti”, e grazie all’uso dei metodi che Mussolini ereditò dalla migliore tradizione democratica, le elezioni del 1924 permisero al partito fascista di ottenere il 75% delle rappresentanze parlamentari.
Mussolini ammise di avere esagerato nell’uso dei metodi “illegali”, ma affermò di averli usati solo in funzione anticomunista, e lanciò un appello verso le opposizioni democratiche alla discussione ed alla collaborazione.
Matteotti rappresentò un incidente di percorso, forse neppure voluto da Mussolini. Comunque sia l’assassinio del deputato socialista servì da detonatore per una classe operaia che, sebbene ormai sconfitta sul piano dei rapporti di forze, non si era ancora rassegnata e che aspettava fiduciosa il momento della ripresa della lotta rivoluzionaria.
L’impalcatura del neonato regime fascista sembrò, per un momento, dovesse crollare come un castello di carte. Massicce defezioni si ebbero all’interno del partito e gli eroi dell’olio di ricino pensarono solo a squagliarsela. Fu, se vogliamo, un anteprima di quello che accadrà il 26 luglio di venti anni dopo. La barca faceva acqua ed i topi, i più grossi per primi, cercavano di mettersi in salvo. Mussolini non potendo abbandonare la nave non si fece scrupolo però di gettare a mare, quale inutile zavorra, i suoi, fino al giorno prima, più fedeli collaboratori.
Ma, di fronte alla duplice minaccia del crollo del fascismo e della ripresa della lotta aperta da parte della classe operaia intervennero, schierando in campo tutte le loro armi, le opposizioni democratiche e socialiste che riusciranno a fare esaurire in modo inconcludente la rabbia proletaria concedendo a Mussolini quel tanto di ossigeno che gli bastò per potersi sentire sicuro e riprendere saldamente in mano le redini del potere.
Sarebbe certamente una forzatura storica affermare che il proletariato italiano avrebbe potuto nel 1924 rovesciare il potere statale borghese. La nostra tesi resta infatti che fu nel biennio 1919/20 che si giocò in Italia la sorte della rivoluzione. Resta però il fatto della massima gravità che non solo i democratici dichiaratamente borghesi, non tanto i socialisti, del ruolo controrivoluzionario dei quali ogni comunista era consapevole, ma che lo stesso partito comunista, diretto dal gruppo centrista, contribuì in modo determinante ad alimentare l’illusione di una possibile soluzione democratica della crisi. Venne da Gramsci infatti la proposta di trasformare l’Aventino in Antiparlamento deliberante.
Si era entrati nel parlamento borghese per distruggerlo dall’interno, si restò, quando lo Stato capitalista decise di sbarazzarsi di tale ingombrante apparato, gli unici difensori di questa istituzione di oppressione di classe.
La Sinistra fu la sola che anche in questa occasione continuò a combattere la propria battaglia, sia all’interno del partito per raddrizzarne la rotta verso il Nord rivoluzionario, sia all’interno delle istituzioni borghesi portando a compimento, quando tutti per viltà sceglievano la facile strada dell’astensione, il deliberato internazionale del parlamentarismo rivoluzionario.
Fu Luigi Repossi a pronunciare il famoso “discorso del rientro” riuscendo a leggere fino all’ultima parola la dichiarazione del partito, sotto i colpi dei deputati fascisti urlanti e inferociti. Fu ancora Ruggero Grieco, non ancora capitolato alle pressioni di Mosca, a pronunciare nel gennaio 1925 quel discorso che, se prendeva spunto dalla nuova proposta di legge elettorale, se ne serviva per sviluppare una serrata critica al potere capitalista, a tutte le sue forme di dominio e a tutti i suoi lacchè, sotto qualunque veste si presentassero.
Per bocca di Grieco la Sinistra spiega in maniera lucidissima come sotto l’imperio del capitale nessuna soluzione politica, pacificamente raggiunta o imposta sulla punta delle baionette, potrà mai sanare le crisi ed i contrasti di interessi borghesi nel piano interno come in quello internazionale. Spiega altresì come sempre le opposizioni democratiche siano i migliori puntelli ed i maggiori complici dei regimi in vigore, di qualunque colore essi siano: controrivoluzionari comunque.
Per
quanto riguarda il piano Dawes
cui si fa cenno nel discorso di Grieco esso va inquadrato nella
guerra di rapina condotta tra le potenze dell’Intesa per la
spartizione del bottino di guerra. La Germania ritenuta responsabile
morale della guerra era stata condannata, a Versailles, ad un
risarcimento di 226 miliardi di marchi oro. La Francia aveva tentato
di imporre il proprio predominio sulla nazione vinta (e di
conseguenza su tutta l’Europa) con l’occupazione militare della
Ruhr. Ma questa politica dell’intervento diretto si scontrava con
gli interessi delle due maggiori potenze vincitrici: Inghilterra e
Stati Uniti, ed in più aveva ridestato un forte
movimento di classe. Esse imposero quindi al governo di Parigi la
loro soluzione che, sotto il pretesto del risanamento
economico-finanziario della Germania permetteva loro un massiccio
investimento di capitali, estromettendo la Francia dal
grosso dei profitti.
– DICHIARAZIONE
DI REPOSSI ALLA CAMERA A NOME DEL PCd’I
12 novembre 1924
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– DISCORSO
DI GRIECO ALLA CAMERA A NOME DEL PCd’I
14
gennaio 1925
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