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Ricordiamo la successione delle precedenti pubblicazioni di questo studio alle quali potranno tornare i lettori attenti e i compagni. La trattazione inizia nel numero 16 di questa rivista con un capitolo introduttivo, che anticipa le conclusioni comuniste circa la valutazione della guerra imperialista e l’atteggiamento tattico del partito, con il titolo “O pacifismo o marxismo”; quindi i successivi due capitoli, “L’antimilitarismo nella Seconda Internazionale” e “La battaglia antimilitarista della Sinistra Socialista in Italia”, documentano rispettivamente i diversi atteggiamenti che si vennero ad assumere all’interno del movimento: il riformismo, che degrada in revisionismo fino a tradimento e socialpatriottismo, ed il restaurato e affilato marxismo autentico di sinistra, antipatriottico, disfattista, rivoluzionario.
Nel successivo numero 17 e negli ulteriori 18 e 21 si tratta della storia tattica del comunismo in Russia di fronte ai fatti della guerra con il Giappone e della rivoluzione del 1905, nei capitoli: “Aree e tempi storici - il ’1871’ in Europa”, “L’imperialismo e La rivoluzione del 1905”.
In questo numero l’argomento si presenta diviso in due parti, coerentemente alle esposizioni dei rapporti alle periodiche riunioni generali del nostro partito, delle quali la prima è la continuazione della disamina del portato tattico della Sinistra comunista in Italia, raffrontato alle posizioni marxiste rivoluzionarie che venivano esprimendosi nella Internazionale, ed in particolare il coincidere dei nostri assunti con quelli difesi da Lenin con il nome di “disfattismo rivoluzionario”.
Pubblichiamo quindi il proseguimento della serie russa, sempre sull’argomento Rivoluzione del 1905, tendente a confermare la dinamica rivoluzionaria fra le energie classe - movimento di classe - partito comunista.
(Segue dal n. 16)
Anche il particolare tema che abbiamo intitolato “Comunismo e guerra”, titolo generale che sottintende l’altro “Tattica del partito comunista rivoluzionario di fronte alla guerra in generale e alla guerra imperialista”, trova il migliore svolgimento nella costante e sempre ribadita correlazione con la teoria, i principi e i fini del partito comunista.
Come già affrontato nel rapporto pubblicato in “Comunismo” numero 16, “La battaglia antimilitarista della Sinistra socialista in Italia”, del quale il presente costituisce la continuazione, perveniamo alla presentazione delle nostre posizioni ripercorrendo la storia della nostra battaglia marxista dimostrando come nel processo della formazione di una sinistra rivoluzionaria in Italia si precisasse sempre meglio anche la questione della tattica in generale, in particolare l’atteggiamento da tenersi di fronte e contro il militarismo borghese e la sua massima espressione cinetica: la guerra tra Stati capitalisti. Non ricerca storiografica, ma nostra rilettura della nostra storia. Non si tratta di inventare o interpretare, ma di allineare posizioni note.
Se, percorrendo la storia del movimento rivoluzionario, si ha l’impressione di una scoperta progressiva, per quanto concerne la dottrina ciò deve essere inteso nel senso della penetrazione del marxismo in Italia e di avvicinamento progressivo della curva rappresentante l’andamento alterno del partito formale nelle varie fasi storiche a quella continua e preesistente, dalla nascita del marxismo, del partito storico. Non come elaborazione particolare, “nazionale”, di una, fra le tante, correnti marxiste, perché uno e uno solo è il filone marxista nella storia, accanto ad altri, questi sì innumeri, che nonostante l’attributo di socialista, comunista o addirittura marxista nulla hanno a che fare col genuino marxismo rivoluzionario.
Nell’affermarsi della Sinistra non vi fu asettica e letteraria appropriazione della scienza marxista, ma, nel vivo fuoco di lotte e scontri di classe, una acquisizione organica che dialetticamente confermava, con apporti convergenti di altre correnti internazionali (Lenin in particolare) la dottrina marxista nel senso di un miglior scolpimento del blocco che, intero, ben caratterizzato e distinto, era apparso a metà del secolo scorso, di getto manifestatosi nell’opera di Marx ed Engels.
Si giungerà alle formulazioni migliori per approssimazioni successive, partendo da basi schiettamente rivoluzionarie e di classe contro il regime borghese e richiamandosi, fin dall’inizio, alla dottrina marxista.
Se guardiamo alla tattica in caso di guerra e come fu affrontata la questione dal Partito Socialista e dalla nostra corrente, dobbiamo tener presente il grado di “levigatezza” delle posizioni espresse, che aumenterà sempre più fino a raggiungere di volta in volta quel massimo livello di precisione attualmente compatibile con l’esperienza storica generale.
Ribadiamo: non vi sono stati, ne vi sono o saranno apporti nuovi all’invariante dottrina ma la corretta individuazione della fase che si sta attraversando. La Sinistra si trovò a vivere il 1914 e cioè quel confine che separa la fase 1871-1914, di sviluppo cosiddetto pacifico del capitalismo, dall’epoca dell’imperialismo e delle sue guerre. Ebbe la capacità, con la sinistra internazionale, di vedere la necessità di una lotta per la riaffermazione del marxismo in Italia e nel mondo attraverso affilate precisazioni e delimitazioni tattiche, non nuove al marxismo, ma rispetto alla nuova epoca e al tradimento socialdemocratico.
Il processo, partendo da luminosi sprazzi di luce proletaria e anche marxista che si manifestano in Italia, culminerà nelle tappe fondamentali della formazione della Frazione Astensionista, della scissione di Livorno e della Terza Internazionale, che nell’intenzione di Lenin e nostra doveva costituire il Partito unico mondiale.
Ulteriori lezioni dovevano essere tratte dalla controrivoluzione pochi anni dopo, vincente e tutt’ora imperante in un bilancio del ciclo aperto nel 1926, per la restaurazione del marxismo in una situazione storica mille volte peggiore di quella che dovette affrontare Lenin alla fine del secolo scorso contro il riformismo nascente.
Queste
lezioni, questi ribadimenti ulteriori di antichi inossidabili chiodi
ci offrono la giusta lente per mettere a fuoco le questioni cruciali:
commentando la nostra storia, affrontiamo di volta in volta le varie
posizioni per coglierne l’approssimazione alla linea marxista e
così facendo riproponiamo le nostre tesi in questa
maledettissima fase controrivoluzionaria che stiamo ancora
attraversando.
L’ultimo congresso socialista prima della guerra
«Fu quello di Ancona del 26-29 aprile 1914. Il nuovo atteggiamento del partito e del suo battagliero giornale Avanti! aveva trascinato l’adesione più entusiastica del proletariato italiano, che reagiva alle gesta imperialistiche della guerra di Libia con una vivissima attività di classe» (Storia della Sinistra, pag. 64).
Le energie del congresso furono esaurite di due grandi battaglie necessarie per arrivare ad un partito effettivamente di classe: fu estirpata la lue massonica e fu la fine anche per i blocchi amministrativi con delimitazione ancora più stretta nella tattica da attuarsi nelle elezioni: ma non si affrontò il tema che sarebbe dovuto essere al centro dell’attenzione: l’antimilitarismo.
Nel breve ma lucidissimo discorso di condanna della massoneria Mussolini ricordò:
«“Il socialismo è un problema di classe. Anzi, è il solo, unico problema di un’unica, sola classe, la classe proletaria. Solo in questo senso Marx ha detto che il socialismo è anche un problema umano: la classe proletaria rappresenta tutta l’umanità e col suo trionfo abolisce le classi. Ma non possiamo confondere il nostro umanitarismo con l’altro umanitarismo elastico, vacuo, illogico, propugnato dalla massoneria”. Disse che altro è l’anticlericalismo massonico di tipo razionalista, e altro l’anticlericalismo di classe proprio del partito» (pag. 65).
«Soprattutto importante era tuttavia l’argomento dell’antimilitarismo. Nessuno presentì che pochi mesi dopo il tema sarebbe stato non attuale, ma tragico addirittura (…) Non si poté venire ad altra conclusione che il problema della guerra e della patria sarebbe stato trattato in un prossimo congresso, per dargli una figura marxista radicale come si era fatto per gli altri. Lo stesso ordine del giorno che la Federazione Giovanile aggiunse a quello dei due relatori conteneva la condanna dell’imperialismo, ma difettava sulla difesa della patria, accennata male, a proposito dell’abolizione del servizio militare permanente. Mussolini aveva promesso, e i giovani rossi partivano entusiasti per le lotte che dovevano venire e in realtà non mancarono nelle piazze. Ma non venne il congresso. Venne la guerra» (pag. 68).
La figura marxista radicale al problema se la poté dare solo la nuova Internazionale, Lenin in testa, ma, purtroppo, dopo la guerra, pur essendo inequivocabilmente chiaro quale sarebbe dovuto essere l’atteggiamento dei partiti socialisti già da prima della guerra imperialista, già dai congressi internazionali di Stoccarda e Basilea. Non per nulla, come giustamente si affermò, i capi della II Internazionale tradirono.
Il “Partito Socialista Italiano, sezione della Seconda Internazionale”, cioè il partito, allora, del movimento proletario in Italia, sezione nazionale di quella che era l’organizzazione del movimento proletario internazionale, ebbe meriti maggiori rispetto agli altri partiti socialisti europei e conseguì successi, ma ebbe anche limiti teorici e pecche che già allora la Sinistra mise in luce; sottoponendo a critica, decisioni, comportamenti e metodi, la Sinistra assolveva il compito richiesto dal marxismo, null’altro poteva e doveva fare: i tempi storici non possono essere anticipati neppure nella formazione di partiti di classe liberi da scorie riformiste e socialdemocratiche.
Il partito non si fa, ma si dirige, come la rivoluzione; e se la rivoluzione è un’arte esiste anche un’arte nel modo di porsi per i marxisti nel partito di classe. L’arte sta proprio, antivedendo l’accadimento di fatti storici a date condizioni note in precedenza, nella capacità di riconoscere il verificarsi di quelle condizioni e di scientemente indirizzare il movimento storico.
Nel processo di formazione dei partiti comunisti nazionali e della Terza Internazionale si doveva necessariamente passare attraverso lotte interne in cui l’arma impugnata dai marxisti fu l’arma della critica prima di giungere al taglio chirurgico, che fu altrettanto necessario.
Incertezze nelle frazioni di sinistra internazionale dovevano essere superate grazie anche alle brusche accelerazioni dovute a traumi, forse inattesi, come lo scoppio della prima guerra e il tradimento della Seconda Internazionale o a spinte esaltanti, come la rivoluzione russa e la costituzione della Terza Internazionale; fatti che d’altro lato obbligarono l’opportunismo a gettare la maschera nelle sue espressioni socialscioviniste e non violente: in pochi anni sarebbe maturata la scissione.
Tappe fondamentali furono: 1892, separazione con giusta critica dagli anarchici; 1907, separazione con giusta critica dai sindacalisti, giusta critica anche se teoricamente ancora non perfetta. Nel 1914 il socialismo italiano si salvò dal disastro, ma non sulla linea del marxismo rivoluzionario cui si doveva arrivare in virtù della formazione di una Sinistra, che ebbe la sua forza grazie all’apporto dei gruppi marxisti di Napoli, sulla stessa linea di dottrina e di storia dell’Ottobre russo, che vuol dire sulla linea del marxismo.
L’eliminazione delle scorie anarchiche e sindacaliste fu necessaria ma non sufficiente per l’affermazione del marxismo di sinistra nel Partito Socialista, però consentì quell’”onesto” atteggiamento di fronte alla guerra che lo salvò dalla débacle.
Al parlamentarismo borghese e a quello riformista noi opponemmo il parlamentarismo rivoluzionario, che vuol dire utilizzazione anche della scheda elettorale e del parlamento ma allo scopo di buttarlo a gambe all’aria. Si aprì un dibattito nella sinistra marxista internazionale se tale tattica, sacrosanta ai fini dello sviluppo del movimento socialista nell’epoca 1871-1914 e valida nei paesi a rivoluzione doppia, fosse ancora utilmente applicabile nei paesi capitalistici di occidente. Questione tattica che non divideva i marxisti che la affrontavano, con giusto metodo e con disciplina, nell’organizzazione internazionale che ancora non aveva rinnegato il marxismo. In quegli anni la storia aveva posto la questione che i marxisti affrontavano sapendo distinguere parlamentarismo rivoluzionario e astensionismo dal parlamentarismo imbelle riformista. La soluzione fu poi data, gli eventi storici successivi hanno confermato, il limite tattico è ben tracciato e chiaro e la questione non si pone più: chi la pone ora è fuori del marxismo.
Nello svolto storico che stiamo esaminando anche altre questioni si posero e non ultima quella della tattica in caso di guerra. L’analogia è possibile.
Contro il militarismo borghese erano i partiti della Seconda Internazionale, ma nell’antimilitarismo socialista vi erano anche impostazioni e pratiche che poggiavano sull’illusione democratica e su un pacifismo confinante con quello borghese. La Sinistra, con Lenin, si batté per l’affermazione di postulati che poggiassero invece sulla dottrina marxista. Risultati non trascurabili erano stati raggiunti a Stoccarda e Basilea, prima della guerra. Si dovevano però compiere passi ulteriori e in ciò la Sinistra italiana e Lenin furono perfettamente allineati: esprimendo la prima la necessità di passare da un antimilitarismo ormai “vecchio” ad un altro tipo “nuovo”, i cui assi portanti coincidevano con quelli della tattica codificata da Lenin nella dottrina del “disfattismo”.
Non poté essere sciolto il nodo allo scoppio della guerra nell’organizzazione internazionale e non per questioni di tempo: spesso nella storia il tempo è più denso. Non lo fu per tare che non riguardavano solo la tattica, ma tutte le categorie del partito mondiale; e questo affondò nel socialsciovinismo.
Oggi
la questione è chiara nel partito e non si pone più;
come non si pose alla nostra Frazione allo scoppio della seconda guerra
mondiale. Allora
fu però il peso immane della controrivoluzione e dello
stalinismo a schiacciare classe proletaria e partito marxista,
ridotto ai minimi termini. Se si pose non fu nei termini di una
rielaborazione della tattica richiesta dallo svolto storico a cavallo
della prima guerra, ma di una sistematica ripresentazione di una
tattica già stabilita e codificata dalla Sinistra e da Lenin.
La
prima guerra mondiale
«Se in Italia la vivace lotta contro la guerra libica del 1911 aveva costituito un’ottima prova per le forze proletarie, che già avevano una tradizione di battaglia contro le imprese etiopiche della fine del XIX secolo e le gesta del colonialismo, in tutto il quadro mondiale il primo decennio del nuovo secolo si preparava per varie manifestazioni a chiudere il periodo idillico degli ultimi decenni del precedente (…) L’incubo di una guerra, che si capiva non avrebbe potuto che essere generale, era palese, e lo fu anche ai socialisti dei vari Paesi.
«Il congresso di Basilea del 1912 (novembre) lanciò il memorabile manifesto contro la guerra prendendo a motivo il divampare di quelle balcaniche, che tenevano in specie Austria e Russia sempre sul piede di guerra. I principi stabiliti a Stoccarda non avevano nemmeno bisogno di esprimere “il divieto che i socialisti appoggiassero la guerra nazionale”, ma invitavano la classe operaia e le sezioni dell’Internazionale a compiere ogni sforzo per impedire lo scoppio del conflitto, e, nel caso che esso fosse scoppiato, ad agire per farlo cessare, “approfittando della crisi economica e politica creata dalla guerra per agitare gli strati popolari più profondi e precipitare la caduta della dominazione capitalistica”. La nozione della presa del potere politico è qui chiarissima, anche se la formulazione dottrinale potrebbe essere migliore. Non si può abbattere il sistema sociale capitalistico senza rovesciare la dominazione politica della borghesia; e questo è vero in tempo di pace. Il tempo di guerra non solo non fa eccezione ma presenta anche le condizioni migliori per tentar di raggiungere tale risultato rivoluzionario» (pag. 85).
Fine dei comunisti rivoluzionari non è “impedire lo scoppio del conflitto”, ma certamente loro compito è contrastare la guerra, non appoggiare la guerra nazionale e approfittare della crisi per tentare di compiere la rivoluzione. Commento: la nozione della presa del potere è chiarissima anche se la formulazione non ancora perfetta.
«Gli stessi concetti erano stati ribaditi non solo nel già ricordato Congresso 1912, ma anche in quello di Copenaghen 1910» (pag. 87).
Bisogna saper cogliere la continuità marxista quando e dove c’è, anche se questa per necessità storica si esprime in posizioni che, pur “oneste” e anelanti a porsi contro il capitalismo, non raggiungono totali coerenza e inequivocabilità.
«Lenin nel 1915 sottolineò che il Manifesto di Basilea aveva indicato due esempi storici espliciti: la Comune di Parigi del 1871 e la rivoluzione russa del 1905, nei quali, approfittando dei rovesci dello Stato nazionale nella guerra, il proletariato aveva fatto ricorso alla guerra civile insorgendo armato, e nel primo caso conquistando il potere (nozione stessa del disfattismo proletario)» (pag. 87).
Troviamo qui l’espressione “disfattismo proletario” che come nozione è già presente nel Manifesto (Lenin: “Verità fondamentale del socialismo, esposta già nel Manifesto Comunista, cioè che gli operai non hanno patria”) e che trova la sua espressione, il suo manifestarsi in caso di guerra come lotta da parte dei rivoluzionari contro la propria borghesia per la prima volta nel 1871 poi nel 1905, ma quella nozione fu contestata dalla maggioranza dell’organizzazione proletaria internazionale prima dello scoppio del conflitto mondiale, pur potendosi cogliere nelle risoluzioni dei vari congressi, grazie all’azione instancabile della corrente marxista, chiare affermazioni ad essa conformi. Il miglior svolgimento di tale nozione ed il miglior suo inquadramento nella tattica proletaria in caso di guerra, e in particolare di guerra in epoca imperialista, doveva avvenire nel bilancio post 1914, anno del fallimento, del tradimento, della Seconda Internazionale (non applicazione della nozione di “disfattismo”, ma socialsciovinismo), ma che precedette di pochissimo la giusta applicazione, e vincente, da parte dei bolscevichi!
Su questo bilancio, pur senza collegamenti organizzativi, ma con i solidissimi legami che travalicano spazio e tempo e che trovano origine nel marxismo, si trovò allineata la Sinistra italiana; esemplificazione: “Il socialismo e la guerra” scriveva Lenin, “Dal vecchio al nuovo antimilitarismo” scrivevamo noi.
«Nelle mozioni dei congressi mondiali della Seconda Internazionale non era mai potuta prevalere la formula insidiosa della destra – negli scritti di Lenin per sempre condannata come revisionista e opportunista – che l’azione dei partiti socialisti nei paesi in guerra dovesse essere limitata alla insulsa condizione della simultaneità dai due lati del fronte bellico» (pag. 87).
Importantissimo concetto: l’attesa di una sperata simultaneità equivale a perenne impotenza, poiché azioni simultanee su entrambi i lati del fronte molto difficilmente potranno verificarsi e, soprattutto, l’appellarsi alla simultaneità da parte degli opportunisti discende non dalla sincera volontà della ricerca delle condizioni migliori per la riuscita della lotta rivoluzionaria, ma dalla precisa volontà di non rinunciare alla difesa della patria. Come per la rivoluzione proletaria mondiale, che verosimilmente troverà il suo scoppio in pochi paesi e, ancor più verosimilmente, in un solo paese (l’anello più debole della catena capitalistica mondiale), la tattica marxista prevede la “trasformazione della guerra imperialista in guerra civile” in ogni paese e la lotta per la sconfitta del proprio governo in ogni paese senza attendere assurde condizioni per azioni contemporanee.
L’unico modo per favorire il processo rivoluzionario mondiale è quello di applicare la tattica disfattista anche in un solo paese, con la piena consapevolezza che così facendo si favorisce la sconfitta del proprio governo. Una notevole spinta riceverebbero anche le forze rivoluzionarie degli altri paesi, a maggior ragione in caso di rivoluzione vincente, si fomenterebbe la ribellione anche sugli altri fronti e sarebbe favorito lo scoppio della guerra civile anche negli altri paesi.
«Se ritorniamo per un momento al Partito Socialista Italiano, dovremo ripetere la constatazione negativa che, malgrado la lunga lotta della corrente rivoluzionaria per prevalere contro la destra, non si era mai giunti a una formulazione completa della tattica del partito in caso di guerra, e soprattutto in caso di guerra europea generale. In materia di antimilitarismo, tali questioni erano state negli anni precedenti agitate sempre da anarchici e sindacalisti soreliani con indirizzi di falso estremismo, quali il rifiuto personale di obbedienza, l’obiezione di coscienza e simili, e nemmeno perfetto era stato il lavoro del movimento giovanile socialista, che pure aveva per primo saputo tenersi distinto dai libertari e combattere il riformismo quando ancora nel partito dominava» (pag. 87).
Vengono
messi in evidenza i vizi del Partito Socialista nel suo complesso,
nonostante la lunga lotta della corrente rivoluzionaria, e
imperfezioni anche del movimento giovanile. Ciò che Lenin nota
nel movimento internazionale dell’epoca, la coesistenza della
corrente opportunista e della corrente marxista, trova anche nel
partito italiano la sua manifestazione. Anche se il comportamento del
partito allo scoppio della guerra fu tale da consentire a Lenin di
affermare nel novembre 1914: «I
socialdemocratici rivoluzionari (“partito socialista“),
con l’Avanti!
alla
testa, lottano, con l’appoggio della stragrande maggioranza
degli operai più progrediti, contro lo sciovinismo, e
denunciano gli interessi borghesi celati sotto appelli alla
guerra»
(da “Situazione
e compiti dell’Internazionale”).
Le due correnti inconciliabili, riformismo e marxismo, si sarebbero sempre più distinte, fino alla salutare, inevitabile e necessaria rottura organizzativa.
Difficile era la situazione per la Sinistra che doveva battagliare anche all’interno del partito, allo scopo di fargli mantenere la fermezza nella lotta contro la guerra, e nel contempo riaffermare i principi e la tattica del socialismo rivoluzionario.
L’impostazione
delle tesi della Sinistra (rifiuto della simpatia per uno
schieramento imperialista, negazione della giustificazione delle
guerre di difesa, negazione della teoria della “responsabilità”
della guerra, riaffermazione che l’origine delle guerre sta
tutta nel sistema capitalistico, rifiuto e denuncia della
unanimità
guerrafondaia) culmina in quell’esortazione “Al
nostro posto …”!
che, contro tutti i revisionismi, è il vero e feroce grido di
guerra alla borghesia!
Interventismo, Neutralismo, Disfattismo
«Qual’era l’esatta posizione dei rivoluzionari, come la ribadivano vari settimanali di sinistra delle federazioni (tra cui “Il Socialista” di Napoli)? Il soggetto della proposta neutralità o del proposto intervento bellico era l’Italia, lo Stato italiano. Per i bolsi democratici pari a quelli che oggi frodando la delega del proletariato riempiono gli scranni della Camera italiana, ogni azione e posizione politica si riduce a un’indicazione di quello che debba fare lo Stato, quasi che noi ne fossimo parte. Ma il partito di classe è la controparte, il nemico dello Stato borghese, che solo con la sua pressione e in estremi casi storici con le armi può piegare, ed anzi può distruggere. Noi dunque allora, socialisti italiani antiborghesi antibellici ed antistatali, non eravamo neutralisti dello Stato, ma interventisti della lotta di classe e domani della guerra civile, che sola avrebbe potuto impedire la guerra. Erano loro, i guerrafondai, gli interventisti, i patrioti, gli sciovinisti, a meritare il nome giusto di neutralisti della lotta di classe, di disarmatori dell’opposizione rivoluzionaria (…)
«Ma il problema importante era quello entro il nostro partito. Ben pochi giungevano ad ammettere il disfattismo, quale Lenin lo teorizzò e non solo per la Russia assolutista, bensì per ogni Stato imperialista borghese. Meno che mai la destra turatiana, che aveva a sua volta minacciato l’azione di sabotaggio della mobilitazione ove il reuccio avesse dato l’ordine di partire (…) Nel centro si ondeggiava alle ventate del tempo difficile e si andava elaborando quella tattica castrata di Costantino Lazzari, uomo dai tanti meriti e dai tantissimi errori, che venne sintetizzata nella frase: “né aderire né sabotare” (…)
«La consegna della sinistra era questa: All’ordine di mobilitazione rispondere con lo sciopero generale nazionale.
«Nessun congresso o riunione poté discutere queste gravi alternative. Il partito nel complesso difese in tutti i modi e in tutte le occasioni la sua consegna di opposizione alla guerra, ad ogni guerra. Quando vennero in Italia socialisti filobellici degli Imperi Centrali e della Intesa, furono debitamente redarguiti e invitati a tornarsene indietro con le loro proposte corruttrici (Sudekum tedesco, Lorand e Destrèe belgo-francesi).
«La più grave minaccia di crisi la portò Mussolini (…) Era un bubbone, e scoppiò, anche se dapprima ne fummo smarriti. Il 18 ottobre del 1914 l’Avanti! uscì con l’articolo: “Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante”. Era il preludio alla tesi della guerra (…)
«Ma già nel Partito Socialista prima del maggio 1915 vi era chi poneva nei giusti termini storici questo punto della violenza di Stato e della violenza di classe. Una breve nota del “Socialista” di Napoli che fece il giro dei settimanali del partito, svolgeva la critica del termine neutralisti. Noi non eravamo né neutralisti né pacifisti, né credevamo possibile come punto di arrivo programmatico la pace permanente fra gli Stati. Noi deploravamo il disarmo della lotta di classe, della guerra di classe, per far largo alla guerra nazionale. La nostra alternativa non era: non sospendere la lotta di classe legalitaria, ma: combattere nella direzione della guerra rivoluzionaria proletaria che sola avrebbe un giorno ucciso le radici delle guerre tra i popoli. Noi eravamo i veri interventisti di classe, interventisti della rivoluzione» (pag. 93).
All’interventismo borghese il partito rispose col noto motto ambiguo e col neutralismo, ma così facendo difese comunque la consegna di opposizione alla guerra, escludendo ogni appoggio a governi di guerra, ogni voto di crediti militari, ogni sospensione della sua opposizione. Era giusto, ma era poco: sufficiente sì per non affondare nel socialsciovinismo, ma non per un comportamento da rivoluzionari classisti.
La Sinistra, pur costretta a sostenere la politica delle mani nette della direzione nei riguardi della destra recalcitrante, andava già oltre, sottoponeva a critica il termine stesso di neutralista che mal le si attagliava, si dichiarava per l’interventismo di classe, proclamava che l’alternativa era combattere nella direzione della guerra rivoluzionaria proletaria: era per il disfattismo come Lenin, ammesso da pochi. Ma tempo ancora non era per una crisi interna manifesta. Non bastavano certamente grandi paroloni e frasi ad effetto se poi non si andava oltre la “separata responsabilità”. La Sinistra doveva battagliare contro le indecisioni della Direzione, contro il parlamentarismo demente del gruppo dei deputati, contro il sindacalismo patriottardo. Dichiarava insufficiente l’affermazione della neutralità e proponeva lo sciopero generale. Soprattutto si batteva affinché fosse finalmente chiarita la funzione preminente degli organi direttivi del partito rispetto agli organismi economici e al gruppo parlamentare.
«I commentatori castrati osano oggi dire che in Italia nessuno prese la posizione di Lenin per il sabotaggio di qualunque guerra, anche di difesa, mentre tale posizione, come da articoli dei giornali “Avanti!” e “L’Avanguardia” e da proposte fatte nei convegni di partito, fu, prima che fossero note le tesi di Lenin, presa dalla estrema sinistra italiana: e noi lo documentiamo nella seconda parte [del volume], dove apparirà chiaro come, fra il 1914 e il 1918, malgrado l’assenza di legami internazionali, la sinistra rivoluzionaria sviluppò in una martellante successione sulla stampa di partito gli stessi temi fondamentali della battaglia leninista contro le suggestioni della propaganda guerrafondaia (tanto più insidiosa quanto più rivestita di orpelli democratici) nelle file del movimento operaio. Ed è un fatto che dalla Sinistra venne sull’ “Avanti!”, proprio alla vigilia della dichiarazione di guerra, l’unica parola inequivocabilmente classista ed internazionalista:
«“Ancora una volta, o trepidi servitori del fatto compiuto, che vorreste farci leccare la mano che ci ha abbattuti ma non fiaccati, le due vie opposte si tracciano nette e precise: O fuori o dentro dal preconcetto nazionale e dagli scrupoli patriottici. O verso uno pseudo socialismo nazionalista o verso una nuova Internazionale. La posizione di chi nell’avversare la guerra non nascondeva una doppiezza miserabile non può essere che una, oggi che la guerra è un fatto compiuto: contro la guerra, per il socialismo antimilitarista ed internazionale” (“Il fatto compiuto”, 23 maggio 1915)» (pag. 100).
Notevolissimo: non solo la Sinistra sviluppava in quegli anni gli stessi temi della battaglia di Lenin in riferimento alla tattica in caso di guerra, ma contrapponeva allo pseudo socialismo nazionalista l’esigenza di una nuova Internazionale; in piena sintonia con Lenin che nello sviscerare la giusta tattica poneva anche in primo piano la questione del partito internazionale e in martellanti articoli mostrava come opportunismo e socialsciovinismo coincidessero e come la Seconda Internazionale avesse tradito e non potesse essere più possibile per i marxisti rivoluzionari continuare a convivere con correnti che negavano in principio o di fatto la rivoluzione proletaria.
«Il Partito Socialista mantenne la sua opposizione, ma erano all’ordine del giorno frasi infelici (poco male per poche frasi; ma era la posizione di tutta una parte del movimento, sotto il coperto di un’unità che anche prima del maggio 1915 noi deprecammo apertamente (…) Tuttavia il partito nel suo complesso tenne miglior vita, almeno nel campo della ripresa dei rapporti internazionali. Fu a Zimmerwald (5-8 settembre ’15) e a Kienthal (24-30 aprile ’16). Non possiamo fare qui la storia di questi e altri meno notevoli incontri internazionali, ma va rilevato che le delegazioni italiane, composte, per ragioni intuibili, quasi soltanto di deputati tra cui vi erano pacifisti convinti ma non veri marxisti rivoluzionari, non poterono rispecchiare le posizioni della vigorosa sinistra del partito. Ecco perché il manifesto della Sinistra di Zimmerwald con la firma di Lenin e Zinoviev non reca firme italiane; in effetti, per le cause di guerra, un collegamento organizzato che non passasse per la Direzione del partito i sinistri italiani degli anni 1915 e 1916 non lo possedettero. Le firme italiane del manifesto generale di Zimmerwald sono quelle di Modiglioni e Lazzari. Lenin, come è noto, firmò anche quel testo, apertamente antibellico e di condanna esplicita al socialpatriottismo, considerandolo un buon “passo avanti verso la lotta reale contro l’opportunismo, verso la rottura e la scissione”; esso era stato scritto notoriamente da Trotski e rifletteva bene anche la posizione degli spartachisti tedeschi, degli eroici Liebknecht e Luxemburg» (pag. 102).
«Le tesi sostenute dalla Sinistra gettarono all’aria tutto il bolso ideologismo ultraborghese. La nostra tesi era chiara; la guerra è venuta perché in regime capitalista non poteva non venire (Zimmerwald lo aveva ribadito) e la questione non è crogiolarsi in una nuova fase storica di pace, ma porsi il problema di non far venire altre guerre. Quale mezzo a disposizione ha il proletariato? Uno solo: rovesciare il capitalismo; quindi, se il programma di oggi (1917) non ha saputo essere quello di fermare la guerra col disfattismo, il programma del dopoguerra dovrà essere quello della presa del potere da parte del proletariato e della rivoluzione sociale. Il proletariato italiano, duramente provato dalla disastrosa guerra (in quel tempo ancora vittoriosa, malgrado il lento procedere dei fronti), avrebbe accolto quest’appello del partito per strappare con mezzi rivoluzionari il potere alla borghesia guerrafondaia; e non avrebbe avanzato la rivendicazione imbelle che divenisse pacifista.
«Traguardo socialista dopo la guerra non sarà la forma della pace, ma la rivoluzione di classe: questo si disse a Roma e questa la rivendicazione della Sinistra, di cui i mozzaorecchi odierni hanno tutto detto quando la definiscono “teorica”. È proprio perché voi non siete “teorici”, che siete divenuti dei putridi traditori!» (pag. 105).
Non vi era solo il richiamo al disfattismo rivoluzionario, ma precise proposte programmatiche. Se non si era riusciti ad applicare il disfattismo, che avrebbe potuto fermare la guerra imperialista prima dello scoppio o durante il suo svolgimento, non bisognava arretrare verso l’imbelle e perdente pacifismo, ma approfittare della fase del dopoguerra mirando al traguardo della rivoluzione e non alla forma della pace. Le condizioni oggettive avrebbero poi stabilito il positivo esito del processo rivoluzionario o avrebbero sentenziato l’avvento di una ennesima controrivoluzione: compito del partito era comunque approfittare della crisi generale, di cui il dopoguerra è certamente una manifestazione, per agire nel senso della rivoluzione.
Anche qui l’allineamento con Lenin è perfetto!
«L’atmosfera sociale italiana andava diventando incandescente e da tutte le parti le deliberazioni del convegno ed il manifesto pubblicato dall’ “Avanti!” suscitarono vivaci reazioni. Vivacissima fu quella dei giovani, che facevano propria la mozione di minoranza del convegno di febbraio, e moltissime sezioni fecero voti analoghi: gli atti processuali ricordano le sezioni e federazioni di Vercelli, Novara, Alessandria e, soprattutto, Torino, che respinge il proposito di non promuovere agitazioni per ottenere la fine del conflitto ed afferma: “Principalissimo compito del P.S. è di guidare il proletariato ad imporre la pace usando tutti i mezzi che possano offrirgli le circostanze, e di predisporre ed organizzare a questo scopo le forze della classe operaia” (mozione dell’1-2 luglio).
«Ma il documento più significativo di questo insorgere di tutto il Partito contro la fiacchezza degli organi centrali deve ravvisarsi nell’o.d.g. votato dalla sezione di Napoli il 18 maggio 1917 e fatto circolare nel partito, che può ritenersi espressivo della posizione politica della sinistra, e che per la sua importanza e sistematicità riportiamo per esteso nella seconda parte (testo 32). Tale testo, riaffermata la relazione di principio tra capitalismo mondiale e guerra, nega tutte le modalità della pace che si pretende possano assicurarne la perpetuità prima che il sistema borghese sia rovesciato. Indica che il programma del dopoguerra non può essere che l’assalto ai governi borghesi per rovesciarli; rileva l’insofferenza delle masse ed afferma che debba essere incoraggiata ed inquadrata nel Partito; deplora l’andazzo col quale la Direzione del partito subordina le sue decisioni al Gruppo parlamentare e alla Confederazione del Lavoro, che dovrebbero invece ricevere dal centro del partito il loro indirizzo, e fa voti affinché il partito sappia compiere il suo dovere ponendosi all’avanguardia del proletariato in lotta – appunto le tesi sostenute nel dibattito al convegno di Roma e qui espresse con estrema lucidità. Questo voto [va inserito] nella serie delle manifestazioni più espressive dell’indirizzo della Sinistra rivoluzionaria» (pag. 110).
Ottobre 1917, Caporetto, Sciopero generale contro la guerra, uguale disfattismo, uguale rivoluzione
«Nell’estate 1917 la guerra si svolgeva ancora nel logorante ritmo delle trincee; a Claudio Treves toccò il celebre “infortunio” della frase: “quest’altro inverno non più in trincea”. La frase non era estremista sebbene decisa; essa, in fondo, esprimeva il vecchio concetto riformista secondo cui la pressione del proletariato avrebbe indotto le classi dominanti a trovare la via della pace. La sinistra poneva invece chiaramente l’altra soluzione: porre fine alla guerra attraverso il rovesciamento della borghesia e del suo dominio. Treves voleva realmente la fine del conflitto, ma proprio per evitare che sboccasse in guerra civile» (pag. 111).
Chiara posizione marxista: si può porre fine alla guerra solo attraverso la rivoluzione comunista vittoriosa. E ciò nel duplice significato di ordine generale e di ordine particolare: le guerre, che hanno origine nel sistema capitalistico, cesseranno definitivamente solo con la scomparsa del dominio del capitale in tutto il mondo. Anche in un solo paese può vincere la rivoluzione, e per quel paese cesserà la guerra imperialista; se tale vittoria saprà fomentare anche su altri fronti disfattismo e rivoluzione allora tale guerra cesserà anche in altri paesi. Un’altra guerra verosimilmente riprenderà, anche in tempi ristretti, ma la guerra non sarà più tra predoni imperialisti poiché da una parte vi saranno uno o più Stati borghesi che useranno i loro eserciti per la salvezza del capitalismo, dall’altra uno o più Stati proletari con l’armata rossa che si batterà per la piena affermazione del socialismo, in una guerra di difesa o di attacco che la Sinistra e Lenin definiscono rivoluzionaria.
Importante dunque il 1917 anche in Italia: non vi fu la rivoluzione, ma si andò verso uno dei suoi indispensabili presupposti, la chiarezza teorica trovava sempre meglio la via, anche organizzativa, del partito finalmente di classe.
«Nei moti dell’agosto 1917 ancora una volta furono gli operai di Torino a condurre una viva e vera azione di guerra di classe (…) L’abile marxista Treves poté condannare l’errore di “localismo”, mentre i torinesi giustamente rampognavano il partito di averli lasciati soli (…) Da tutto il resto d’Italia noi sinistri rispondemmo alla Critica Sociale ponendo apertamente l’esigenza della scissione del partito come condizione alla presa della armi in un’azione rivoluzionaria» (pag. 112).
Si dichiara ancora una volta l’esigenza del partito di classe quale condizione sine qua non alla presa delle armi per azioni rivoluzionarie e manifestamente si afferma che l’unica via per arrivare alla formazione del partito passa per la scissione.
«Da varie parti si deformava la verità sui moti di Torino, anche a favore degli operai e della vigoria della dirigenza socialista di semisinistra, dal che i borghesi costruivano il sogno di una repressione nazionale dei “disfattisti” che poi il fascismo attuò» (pag. 112).
“Disfattisti”, è l’accusa lanciata dai borghesi e dagli opportunisti sfacciati, accusa che Sinistra e Lenin non respingono: voi ci accusate di essere disfattisti, ma noi siamo consci che l’azione rivoluzionaria in tempo di guerra favorisce la disfatta, la sconfitta del governo del paese in cui l’azione di svolge (“del proprio governo”)!
Qui l’accusa era sproporzionata, ma, significativamente lo scopo era quello di reprimere preventivamente i disfattisti e i fatti di Torino erano certamente disfattisti.
«Si partì da una protesta per la mancanza di pane e poi si proclamò, dalle folle e dalle organizzazioni, la maledizione alla guerra; gli operai presero le armi che poterono e i soldati ne consegnarono loro alcune delle proprie; le donne assalirono le autoblinde, e occorse uno spiegamento di forze enormi, arresti a migliaia di dimostranti e di militanti socialisti, e pressione morale inaudita sui parlamentari e sui capi sindacali di parte operaia, per disarmare il moto con la solita invasione di rito in Corso Siccardi e poi il clamoroso processo con enormi condanne.
«Va rilevato che proprio agli operai di Torino il pane non poteva mancare più che altrove e la trincea non faceva paura perché erano esonerati delle fabbriche di produzione bellica; anzi, sfidarono la pena d’esser rimandati al fronte perdendo l’ambito “bracciale azzurro”. Come negare che fu fatto politico e non economico quello che spinse alla lotta una tale avanguardia operaia?
«A veri militanti rivoluzionari fu facile mostrare, senza nulla smentire, ch’era falsa l’accusa di aver fatto muovere Torino per lavorare alla vittoria degli austriaci. Se Torino operaia da sola avesse potuto vincere, sarebbe stato l’invito migliore ai lavoratori di Vienna e ai combattenti del fronte austriaco, perché insorgessero. Vana quindi la campagna della più lurida borghesia d’Europa per provare che il “complotto” di Torino preparò la frana militare di Caporetto, più che non lo avesse provocata la citata frase di Treves.
«Torino dette con eroismo di classe un vivo, alto esempio, che segnò una tappa sulla via della preparazione del movimento comunista italiano, fino ad altri eventi contrari che troveremo sul nostro cammino» (pag. 112).«I proletari soldati avevano applicato sia pure in modo insufficiente il disfattismo, disertando il fronte. Avevano gettato le armi invece di tenerle per azioni di classe, come nello stesso tempo avveniva sui fronti russi; se non avevano sparato sui loro ufficiali, era perché gli ufficiali erano scappati con loro anziché impugnare le storiche pistole dell’Amba Alagi 1897 (altra grande tappa italiana) nel tentativo di arrestare la fuga. Le masse avevano capito quanto possono capire, finché non fa maggior luce il partito rivoluzionario. Ora si trattava di impedire che il partito socialista si unisse al grido: Riprendete le armi e tornate contro il nemico!» (pag. 114).
I proletari soldati dunque avevano attuato un disfattismo a metà, parziale. Sarebbe arrivato a disfattismo pieno se, invece di gettare le armi, le avessero volte contro il nemico di classe interno per azioni rivoluzionarie. Ma ciò non fu perché non poteva essere, mancava il faro del partito di classe. Il compito principale della Sinistra nel partito, in quel frangente e nelle condizioni di allora, purtroppo non potè essere quello di indirizzare le forze proletarie contro la borghesia, ma fu quello di impedire la parola d’ordine controrivoluzionaria “armi in pugno e… di nuovo al fronte per la difesa del sacro patrio suolo”!
Non è garantito che Caporetto più partito comunista avrebbero portato alla rivoluzione in Italia. Si può affermare però che una Caporetto senza partito di classe non porta alla rivoluzione, mentre con partito di classe diventa un momento del processo rivoluzionario che potrà eventualmente andare a buon fine se tutte le altre condizioni necessarie si realizzeranno.
La Sinistra era perfettamente consapevole di quali azioni si sarebbero dovute intraprendere per attuare il disfattismo rivoluzionario conseguente, e dei disastrosi effetti della sconfitta sul governo italiano, ma non poteva far diventare tali convinzioni di tutto il partito, per tramutarle in tattica rivoluzionaria operante: sarebbe stata necessaria prima la netta separazione dei comunisti da… tutti gli altri!
Mentre il partito nel suo complesso continuava a mantenere quell’atteggiamento di “onesta” opposizione alla guerra, grazie però e soprattutto all’azione della sua ala sinistra che in ogni occasione non mancava di mettere alla gogna le posizioni di destra e senza posa criticava la Direzione per i suoi tentennamenti, appoggiandola quando era il caso contro i vari Turati di turno, l’estrema sinistra andava distinguendosi sempre più e sempre meglio anche rispetto alla vecchia frazione intransigente.
Questo il giudizio della Sinistra e di Lenin: il Partito socialista italiano lottò contro la guerra e il proletariato lo seguiva. Però se tale lotta fu conseguente per il partito di allora non lo fu e non poteva esserlo rispetto alla solida impostazione marxista, come invece lo fu per il partito di Lenin. In Italia vi fu un disfattismo a metà, attuato dalle masse proletarie al fronte ma mancante dell’apporto determinante e della indispensabile guida del partito di classe.
La Sinistra ancora una volta fece sentire la sua chiara voce, ma per l’ennesima volta il suo appello non poté tradursi in una mozione (documento ufficiale del partito, vincolante per tutti) altrettanto netta e tagliente. Soprattutto nella vita pratica di partito si tenne poco conto o nulla delle “affermazioni di principi validi ribaditi dalla sinistra”.
«L’Avanguardia, prese posizione per la linea più radicale in materia di azione contro la guerra. Importantissima conferma se ne ebbe al congresso della Federazione giovanile tenuto a Reggio Emilia il 10 e 11 maggio 1915, ossia alla vigilia dell’intervento dell’Italia in guerra, il cui voto, importantissimo perché contiene il principio disfattista dello sciopero generale in caso di guerra, fu quindi propugnato (come abbiamo esposto) dai delegati della estrema sinistra e della Federazione giovanile stessa al convegno del 15 maggio 1915 a Bologna degli organismi del partito».
Sull’azione contro la guerra fu approvato a grande maggioranza l’ordine del giorno:
«I giovani socialisti italiani, mentre affermano che sia necessario rendere sempre più sensibile in questo momento il distacco fra borghesia e proletariato e credono e sperano che lo sciopero generale in caso di guerra sarebbe il segno veramente efficace di questo distacco, danno mandato di sostenere le loro convinzioni, e la loro volontà di affermare con qualunque sacrificio il proposito di salvaguardare gli ideali e gli interessi della classe lavoratrice, ai rappresentanti che si recheranno al convegno nazionale di Bologna» (pag. 120).
Proposta concreta, tattica, chiara: proletariato e borghesia hanno interessi contrapposti e il distacco che c’è tra loro deve essere reso un abisso dal partito. Come? Si inizi dallo sciopero generale in caso di guerra! In questa impostazione è il principio disfattista!
«Il giornale prese un indirizzo di sinistra subito dopo che il partito ebbe respinto la proposta di sciopero generale, e un articolo dell’ottobre 1916, sviluppa le stesse idee, le stesse direttive che l’estrema sinistra affermò con forze notevolissime al convegno di Roma del febbraio 1917 (…)
«In un articolo successivo, del luglio 1917, dal titolo “Ancora più avanti”, l’organo dei giovani manifesta decisamente l’idea che l’Internazionale Socialista dopo la guerra debba essere scissa in due, e gli antichi capi, che nel 1914 hanno tradito, vadano respinti al di là di un vero abisso che separi i marxisti rivoluzionari da tutti i transfughi in campo socialpatriottico» (pag. 122).
Si noti come la critica alla tattica rinunciataria del partito nel suo complesso e la proposta di guidare il proletariato in azioni disfattiste, sempre respinta, fossero accompagnate dalla manifesta dichiarazione dell’esigenza di rompere con l’opportunismo, con il socialsciovinismo per addivenire ad una nuova Internazionale; come tutti gli scritti di Lenin di questo periodo intorno alla questione guerra.
«Delle prese di posizione dei giovani nel cruciale periodo febbraio-giugno 1917 informa tuttavia più dettagliatamente la già citata “Memoria al Partito socialista della Federazione giovanile socialista italiana”, in data Roma 24 maggio 1917 (…)
«Essa è una vivace critica degli organi direttivi del partito che non hanno mantenuto la promessa di prendere in seria considerazione l’o.d.g. presentato dalla sinistra al convegno di febbraio, e che, nei convegni dell’aprile e del maggio a Milano, hanno tenuto un atteggiamento sostanzialmente pacifista e gradualista. Vi sono riportate due proposte di aggiunte o meglio chiarimenti della Federazione Giovanile all’o.d.g. della sinistra al convegno di Roma; la prima chiede di “imporre alla Confederazione Generale del Lavoro un indirizzo nettamente classista; in tutte le occasioni adatte (ricorrenze straordinarie, processi politici, crisi parlamentari, provocazioni internazionali, ecc.) proclamare lo sciopero generale e convocare comizi, affermandosi in quest’unico programma: “la pace, non la vittoria”; tener deste e pronte le forze proletarie e, qual’ora queste scoppiassero al di fuori della nostra iniziativa, intervenire illuminandole e difendendole dalla reazione borghese» (pag. 123).
Anticlericalismo e antimilitarismo
Come abbiamo già ricordato la questione “socialismo e religione” e la questione “socialismo e guerra” sono state talvolta abbinate per meglio presentare la posizione generale e la tattica riguardanti l’una utilizzando le esemplificazioni e le argomentazioni intorno all’altra.
Ciò che notiamo seguendo il processo di formazione della Sinistra in Italia, oltre al ricadimento continuo di classiche posizioni invarianti, è la sempre miglior specificazione di esse riguardo anche alla forma di presentazione e alla terminologia allo scopo di rafforzare il nostro partito e distinguerlo meglio da tutta la ridda di organizzazioni nostre avversarie di ieri, oggi e domani.
Come abbiamo visto, nel 1907, anno del Congresso giovanile socialista in cui fu fondata la Federazione Nazionale Giovanile aderente al Partito Socialista Italiano, si affrontarono entrambi gli argomenti. Si trattò di antimilitarismocon posizioni che, con formulazioni ingenue, istintivamente, affermavano l’internazionalismo proletario.
Si trattò anche di anticlericalismo, seppur con “forma ingenua ma recisa”: soprattutto si prese il toro per le corna non tacendo sul problema della religione.
Nel 1908 altro colpo di scalpello: non solo anticlericalismo, ma propaganda antireligiosa; sull’antimilitarismo “notevole” è il richiamo al congresso di Stoccarda del 1907 (tante volte ricordato da Lenin insieme con quello di Basilea per quelle chiare prese di posizione, poi non fatte proprie dalla Seconda Internazionale nel suo complesso e dai suoi organi direttivi, che avrebbero permesso, se seguite, il levarsi del proletariato in armi contro la guerra imperialista per la guerra civile) mentre il partito adulto “non troverà neppure il tempo” di affrontare il tema.
Nel 1910 “buone tesi sono enunciate sull’antimilitarismo”, sulla concezione borghese di patria e, “sia pure con una certa ingenuità di formulazione”, sulla necessità di combattere la propaganda irredentista, sulla necessità di indurre il gruppo parlamentare (come sempre recalcitrante e restio a sottoporsi alle decisioni della Direzione) ad una conseguente azione socialista, antipatriottica e internazionalista.
“Anche sull’azione anticlericale vi sono affermazioni notevoli”: viene affermata la necessità di andare oltre l’anticlericalismo, “che è divenuto una specie di sport per la borghesia”, per compiere “un’assidua azione antireligiosa”. Si distingue nettamente l’anticlericalismo di tipo borghese da quello di tipo socialista: “l’anticlericalismo dei giovani socialisti deve essere ispirato a genuini concetti di classe” e deve essere espulso chiunque compia “pratiche religiose”.
Il 14 dicembre 1913 viene pubblicato su L’Avanguardia un importante articolo intitolato “Socialismo e Religione” di cui riportiamo alcuni brani.
«È ormai assodato che la nostra profonda divergenza dai metodi degli anticlericali borghesi, e tutta la viva campagna svolta in questo senso da qualche anno dalla stampa socialista, e specie dal movimento giovanile, non significano e non devono significare una diminuzione di intensità nell’azione anticlericale dei socialisti, come si è qualche volta insinuato dagli avversari» (pag. 219).
Potremmo parafrasare: la nostra profonda divergenza dai metodi degli antimilitaristi borghesi, dei pacifisti, non significa una diminuzione di intensità nell’azione socialista contro il militarismo.
«Gli ultimi avvenimenti politici ci hanno dato più agio di dimostrare che l’anticlericalismo bloccardo non è che l’etichetta con la quale si vorrebbe coprire la merce avariata dei connubi sul terreno elettorale, per i quali i partiti della democrazia hanno una vera debolezza, così da arrivare fino alla disinvoltura di contrarre alleanze con i clericali per fronteggiare l’avanzata dei socialisti, nello stesso tempo che tentano, ove meglio convenga al loro arrivismo, i soliti vieti motivi del popolarismo piangendo a lagrime di coccodrillo l’intransigenza socialista» (pag. 219).
E non succede lo stesso fenomeno nell’ambito del militarismo e dell’antimilitarismo? Esiste anche un antimilitarismo bloccardo con schieramento di pacifisti e guerristi allo scoppio della guerra di difesa del patrio suolo: antimilitaristi di tutte le sfumature e borghesi guerraioli si alleano “per fronteggiare l’avanzata dei socialisti”, per contrastare la genuina tattica contro la guerra, contro il difesismo, per il disfattismo, per la sconfitta del proprio governo.
Si ribadisce che esiste un preciso “anticlericalismo socialista” che si contrappone a tutti gli altri anticlericalismi da cui bisogna restare “lontanissimi”.
«Nell’eccitare la classe sfruttata a sottrarsi all’oppressione economica che subisce, il socialismo, basandosi sulle condizioni economiche, deve risalire alla critica di tutte le false concezioni con le quali la borghesia difende i suoi privilegi. Il socialismo non fa esclusivamente la questione economica, come così spesso si ripete dai critici sfaccendati, ma vede in essa la causa prima di tutti gli altri fatti sociali e se ne fa una traccia sicura per affrontare tutti gli altri problemi» (pag. 220).
In tre righe viene sintetizzato il nostro materialismo, non volgare ma dialettico, che ci impone di affrontare tutti i problemi che sono originati dalla società borghese: per questo il socialismo deve lottare a fondo anche contro il clericalismo; e il socialista, ben distinguendosi, poteva definirsi e si definiva “anticlericale”.
Si arriva poi a parlare di antimilitarismo per meglio spiegare l’anticlericalismo socialista.
«Noi non possiamo quindi accettare che la religione sia una questione privata, senza prestare il fianco ad obiezioni troppo facili e senza commettere una grave imprudenza. Come noi combattiamo, ad esempio, il militarismo non solo perché quotidianamente aggrava il disagio economico delle classi non abbienti, ma soprattutto perché esso è nella sua essenza un poderoso strumento di dominazione della classe borghese e di diffusione di tendenze antirivoluzionarie; così dobbiamo vedere nella religione uno dei mezzi di difesa della borghesia, e quindi un fattore importantissimo della vita sociale collettiva, anziché una privata questione di ciascun individuo» (pag. 220).
Dobbiamo arrivare al 1951 per ritrovare ancora insieme le due argomentazioni rafforzantesi a vicenda. Il Filo del Tempo in Battaglia Comunista n. 6 “Tartufo, o del Pacifismo” è tutto improntato a mostrare come la nostra posizione contro il pacifismo risalga, sul filo del tempo, alle posizioni di Marx ed Engels passando per Lenin. Ed è il ’51 una data importante per la nostra storia di partito, quando si coagularono tutti quegli elementi storici vitali e impersonali che portarono ad un bilancio del maledetto periodo aperto nel 1926 con una selezione delle forze genuinamente marxiste. Da allora proseguì chiaro e continuo l’approfondimento di tutte le questioni riguardanti il movimento proletario e il suo partito marxista al fine di rinsaldare il filo rosso della rivoluzione proletaria.
«Lenin sulla soglia dello esame marxista della guerra 1914, che condusse a stabilire che essa non era da nessun lato “guerra di progresso”, ma puro conflitto tra sfruttatori imperialisti, sicché il dovere di tutti i socialisti era di lottare contro tutti i governi in tutti i paesi ed in tempo di guerra, Lenin tiene a stabilire che questo dovere non sorgeva da una astratta posizione di “condanna di ogni guerra”, com’è accessibile ad ideologi conservatori o libertarii.
«Ma vi è di più. Non solo noi ci differenziamo dai pacifisti borghesi perché essi negano l’impiego di armi nella lotta tra le classi sociali, e per la loro incapacità all’apprezzamento storico delle guerre, ma per un altro punto, sul quale Lenin mostra di pensare che anche gli anarchici siano con noi, così come su quello della guerra civile.
«Ci divide dai pacifisti borghesi “il nostro concetto della dipendenza causale delle guerre dalla lotta di classe nell’interno di ogni paese, e la convinzione della impossibilità di porre fine alle guerre senza l’abolizione della società di classi e senza la vittoria della rivoluzione socialista”. Questo passo, che noi per motivo di propedeutica abbiamo citato per ultimo, è il primo della tesi sul pacifismo, ed è il più importante. Esso distrugge ogni possibile ospitalità nel marxismo-leninismo di movimenti che abbiano a finalità la soppressione della guerra, il disarmo, l’arbitrato o la eguaglianza giuridica tra le nazioni (Lega di Wilson, U.N.O. di Truman).
«Il leninismo non dice ai poteri capitalistici: io vi impedirò di fare la guerra, o io vi colpirò se fate la guerra; esso dice loro, so bene che fino a quando non sarete rovesciati dal proletariato voi sarete, che lo vogliate o meno, trascinati in guerra, e di questa situazione di guerra io profitterò per intensificare la lotta ed abbattervi. Solo quando tale lotta sarà vittoriosa in tutti gli Stati, l’epoca delle guerre potrà finire.
«Si tratta di una posizione generale. Il marxista non può essere pacifista o “antiguerrista” poiché ciò significa ammettere che si possa abolire la guerra prima della abolizione del capitalismo. Non basta dire che ciò sarebbe un errore teorico. Esso è un tradimento politico, perché una simile illusione non facilita il convogliamento delle masse ad una lotta più vasta, bensì ne agevola l’asservimento, non solo al capitale, ma anche alla guerra stessa. Le masse proletarie guidate da cattivi marxisti, che si erano sempre detti pacifisti, hanno dovuto fare la guerra contro i tedeschi perché i loro capi hanno detto che quelli soli minacciavano la pace, come la hanno dovuta fare contro i russi per lo stesso motivo: hanno marciato due volte e marceranno forse la terza, e dai campi opposti, a combattere una guerra “che dovrà mettere fine alle guerre”».
E toccando l’altra questione, quella della lotta contro il clericalismo e la religione:
«Si tratta, diciamo, di una posizione generale. Il marxista non è pacifista, per ragioni identiche a quelle che non ne fanno, ad esempio, un anticlericale: egli non vede la possibilità di una società di proprietà privata senza religione e senza chiese, ma vede finire chiese e credenze religiose per effetto della abolizione rivoluzionaria della proprietà. L’ordinamento della schiavitù salariata vivrà tanto più a lungo quanto più a lungo i suoi complici faranno credere che, senza sovvertirne le basi economiche, sia possibile renderlo immune da superstizioni religiose, o eliminarne la eventualità di guerre, e togliergli gli altri suoi caratteri retrivi, o brutali».
Sintetizzando:
i “partigiani del libero pensiero”, i “partigiani
della difesa nazionale” e i “partigiani della pace”
sono da sempre dall’altra parte della barricata.
«Nel periodo in cui era evidente che le guerre di sistemazione nazionale erano finite la borghesia si tutelò largamente dalla radicale azione proletaria di classe con i movimenti di “partigiani del libero pensiero” che dilagarono alla fine del secolo. Successivamente, nel periodo delle guerre imperialistiche, si tutelò coi movimenti ibridi di “partigiani della difesa nazionale” e oggi “partigiani della pace”.
«Sostituire, dinanzi, all’avvicinarsi di nuove guerre, al criterio dialettico di Marx e Lenin – tanto nella dottrina che nell’agitazione politica – lo sfruttamento plateale della ingenuità delle masse nei riguardi della santità della Pace e della Difesa, non è altro che lavorare per l’opportunismo e il tradimento, contro i quali Lenin si dette a costruire la nuova Internazionale rivoluzionaria super han petram; su questa pietra: CAPITALISMO E PACE SONO INCOMPATIBILI!
«Dedichiamo ai pacifisti di oggi una lapidaria tesi del Terzo Congresso (33.ma, sul compito dell’Internazionale Comunista): Il pacifismo umanitario antirivoluzionario è divenuto una forza ausiliaria del militarismo».
Queste citazioni sono il condensato dell’acquisizione storica del movimento marxista in materia di guerra e di religione e stabiliscono la “posizione generale” cui deve far riferimento la tattica. Sono in linea con posizioni che risalgono a Marx, che via via sono state ribadite, riformulate, per combattere successivi ricorrenti attacchi.
Solo i collitorti possono vedere contraddizioni: “Eravate anticlericali e antiguerristi e ora non lo siete più”! come, pur di rinnegare il marxismo “scoprono” a comando contraddizioni tra Marx, Engels, Lenin, la Sinistra e addirittura in se stessi.
Già nel 1913 si precisava di non confondere la critica all’anticlericalismo borghese con una diminuzione di intensità nell’azione anticlericale dei socialisti. Nella solo apparente contraddizione vi è piena continuità nella sostanza, avvolta da forme imposte dall’epoca storica. L’aspetto essenziale nell’articolo del 1913 era l’affermazione del dovere per il socialismo della lotta non solo al clericalismo ma anche alla religione. Oggi, se non ci definiamo anticlericali, vuol dire che non siamo contro il pretume e il connubio antiproletario tra Stato borghese e Chiesa, qualunque essa sia? Anzi: più chiara sarà la nostra posizione e più efficace la nostra critica e la nostra azione se, giusta la Sinistra (anche 1913!) e giusto Lenin avremo fatto nostro il concetto che noi siamo al di sopra e contro sia il clericalismo (ulteriore manifestazione della politica borghese legata a doppio filo con le strutture ecclesiastiche) sia l’anticlericalismo, come insieme, anche eterogeneo, di movimenti che si illudono di eliminare la nefasta influenza delle Chiese, non della religione, rimanendo nell’ambito delle istituzioni borghesi!
Antimilitarismo vecchio, antimilitarismo nuovo
Nell’ambito della Seconda Internazionale si diceva che compito dei socialisti era quello di impedire la guerra, pur legandolo indissolubilmente alla possibilità e alla necessità per il movimento proletario di trasformare la guerra imperialista, non impedita e scoppiata, in guerra civile: è per questo mancato tentativo che Lenin mise alla gogna i traditori!
Una volta fatta piazza pulita di tutte le posizioni riformiste e opportuniste – una volta arrivati al pieno ripristino del genuino programma marxista il cui apice si situa nei primi anni di buon funzionamento dell’Internazionale Comunista; successivamente, dopo l’altro terribile tradimento perpetrato dallo stalinismo, e dopo l’ulteriore opera di restaurazione del marxismo compiuta a partire dal 1926 e dopo il secondo dopoguerra, sulla scorta degli insegnamenti del maestro Lenin e di tutta l’esperienza storica acquisita nelle battaglie contro la borghesia e nelle lotte interne al partito stesso, dopo cioè un ulteriore affinamento operato nelle categorie del partito marxista (lezione delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni) – si giungeva ad affermare, nella questione che più da vicino ci interessa, che compito dei comunisti non è quello di impedire ai poteri capitalistici di fare la guerra, ma di approfittare dello stato di guerra per rovesciarli.
Ciò non significa che, se possibile, prima della guerra non li si rovescerà oppure che, non potendolo prima, si auspichi lo scoppio della guerra, perché allora certamente sarebbe possibile la rivoluzione: posizione rinunciataria e traditrice la prima e guerrista la seconda.
L’azione del partito di classe, d’altra parte, non deve essere tesa al raggiungimento di condizioni, supposte più favorevoli, con qualunque mezzo: impedire la guerra comunque, se questa si avvicina quando il proletariato e il partito non sono pronti. L’unico mezzo noto ai comunisti per bloccare la guerra imperialista (aprendo un’epoca di guerre rivoluzionarie) è la rivoluzione vincente, prima o dopo lo scoppio. L’effetto è questo e non vale per noi il viceversa: non diciamo se è minacciata la guerra o se scoppia allora per bloccarla noi faremo la rivoluzione. Il nostro grido “o guerra o rivoluzione comunista” ha questo e solo questo significato e al proletariato che lotta per la pace il partito deve chiaramente dire che l’unico mezzo per fermare la guerra è la rivoluzione e questa significa disfattismo, guerra civile e, se vincente, molto probabilmente, se non certamente, guerra rivoluzionaria.
Tutto ciò lo si ritrova anche prima del ’14; ma nei partiti della Seconda Internazionale è confuso in posizioni non del tutto chiare o addirittura spurie per l’operato del revisionismo gradualista e dell’opportunismo. Lenin doveva riportare definitiva chiarezza nel partito su tutte le questioni e in particolare sulla questione socialismo e guerra; codificò il “disfattismo”, formulò nettamente ciò che era comunque implicito per i veri socialisti: non si deve temere e anzi bisogna affrettare, in caso di guerra, la sconfitta del proprio governo, per la trasformazione della guerra imperialista in guerra civile.
Dovevano sparire definitivamente nella Terza Internazionale le illusioni su disarmo, arbitrato, possibilità di fermare la guerra coi voti parlamentari e simili altre deviazioni secondinternazionaliste, che potevano giustificare la loro presenza nel partito solo nell’epoca 1871-1914.
Si doveva passare da un antimilitarismo vecchio a un antimilitarismo nuovo. Nei pochi anni successivi Lenin e La Sinistra seppero ridefinire la tattica marxista in caso di guerra e se l’atteggiamento tattico generale contro il militarismo e particolarmente in caso di guerra fu detto “antimilitarismo nuovo” dalla Sinistra o “disfattismo” da Lenin, la sostanza fu ed è la stessa. Accusati di “disfattismo” i bolscevichi non negarono e furono “confessi”: si, siamo “disfattisti”, perché a tanto porta la tattica socialista in caso di guerra imperialista; e sul carattere principale della guerra Lenin dovette battere più e più volte, ricorrendo, vecchio vizio marxista, al solito nostro metodo di cogliere il fenomeno principale tralasciando i secondari (vi erano pur questioni “nazionali” anche nel ’14, ma non bisognava prendere lucciole per lanterne!). Porta, se applicata correttamente, ad operare per la sconfitta, per la disfatta del proprio governo in guerra. Il rivolgere le armi contro il nemico interno, le prime mosse rivoluzionarie, la guerra civile favoriscono la sua sconfitta militare e questa a sua volta costituisce la condizione migliore per la vittoria socialista.
Contro i “difesisti”, i “socialsciovinisti”, i “socialpatrioti”, i “socialisti per la rivoluzione però fino a quando la patria non è in pericolo”, contro tutta questa risma di antirivoluzionari Lenin adottò alla nostra tattica il termine “disfattismo” che ben ci contraddistingue.
Forse che da allora non siamo più contro il militarismo borghese, contro gli ordinamenti militari e le guerre borghesi, forse che non siamo più anti-militaristi? Forse che rifiutando il termine di “antifascisti” non siamo più conseguenti nemici del fascismo, in quanto è uno dei modi di governo della borghesia, acerrima nostra nemica? Anzi saremo più conseguenti nella nostra azione contro il militarismo borghese se abbiamo (soggetto è il partito) la piena coscienza e se non nasconderemo al proletariato, anche in tempo di pace, che la nostra tattica in guerra è quella del disfattismo rivoluzionario; solo così i nostri interventi in difesa delle condizioni dei proletari soldati saranno veramente incisivi e nei movimenti che potranno sorgere, anche nelle file dell’esercito borghese, potremo meglio organizzare i proletari in divisa per indirizzare le loro energie, insieme con quelle dei proletari senza divisa, verso la realizzazione della rivoluzione comunista.
Capitolo esposto alla riunione ad Ivrea, 2-3 febbraio 1985 [RG31]
LA RIVOLUZIONE DEL 1905
Lo
Zar “liberale”
Lo sciopero dell’ottobre dette un potente scrollone al regime zarista; lo Zar ed il Governo, smarriti e confusi, rimasti come fulminati e senza risorse (le comunicazioni fra Pietroburgo e la vicina Peterhof dove risiedeva la corte erano mantenute solo dai militari) cedettero ed il 30 ottobre 1905 fu pubblicato il Manifesto dello Zar in cui si concedeva come un dono le libertà politiche e la convocazione di una Duma legislativa, visto che la cosiddetta Duma di Bulyghin, annunciata ad agosto, con semplici funzioni consultive, non era riuscita a calmare la crescente agitazione.
Il conte Witte, nominato Primo Ministro, intuì subito come questa minima concessione avrebbe infranto il fronte dell’opposizione fra le forze liberali e quelle socialiste ed operaie; lo zarismo avrebbe potuto concentrarsi sul suo unico irriducibile avversario, la classe lavoratrice.
Trotski nota nel suo “1905” come il Manifesto e la promozione di Witte erano il risultato dell’incompiutezza della vittoria della rivoluzione, che il nemico non era stroncato ma che di fronte alla potente manifestazione dello sciopero – «Lo sciopero di ottobre fu la dimostrazione dell’egemonia del proletariato in una rivoluzione borghese e inoltre la dimostrazione della egemonia delle città in un paese prevalentemente rurale» – la reazione indietreggiava ma solamente per prepararsi ad un futuro contrattacco, una volta attirata a sé l’opposizione liberale e borghese, contro il movimento operaio e socialista che riprendeva l’attività legale.
Scriverà Lenin commentando a caldo il corso degli eventi, il 1 novembre in “Prima vittoria della Rivoluzione”:
«La concessione dello Zar è effettivamente la maggior vittoria della rivoluzione, ma tale vittoria è ben lungi dal decidere le sorti di tutta la causa della libertà. Lo Zar è ben lungi dall’aver capitolato. L’autocrazia non ha affatto cessato di esistere. Si è soltanto ritirata, lasciando al nemico il campo di battaglia; si è ritirata dopo un combattimento di estrema asprezza, ma è ben lungi dall’essere sgominata; essa raccoglie ancora le sue forze, e al popolo rivoluzionario rimangono ancora da risolvere molti e gravi compiti di lotta se vuol portare la rivoluzione a una vittoria effettiva e completa».
E ancora:
«Lo zarismo non può più soffocare la rivoluzione. La rivoluzione non può ancora schiacciare lo zarismo».
Commentiamo. Il proletariato rivoluzionario con la sua poderosa entrata in scena era riuscito a neutralizzare l’esercito che lo zarismo, nelle grandi giornate dello sciopero generale, non aveva potuto scatenare contro il movimento operaio; ma questi non era ancora riuscito a farlo completamente passare dalla parte della rivoluzione, unica garanzia di una definitiva vittoria. Il teorico Lenin sapeva bene che la decisiva battaglia finale era ancora da combattere, alla quale il proletariato doveva prepararsi:
«Il comitato di sciopero, secondo i telegrammi pervenuti, chiede l’amnistia e la convocazione immediata dell’Assemblea costituente sulla base del suffragio universale.
«L’istinto rivoluzionario ha suggerito immediatamente agli operai di Pietroburgo la parola d’ordine giusta: continuazione energica della lotta, utilizzazione delle nuove posizioni conquistate per continuare l’attacco, per annientare effettivamente l’autocrazia. E la lotta continua. Le assemblee diventano sempre più frequenti e numerose. La gioia e la fierezza legittime per la prima vittoria non ostacolano la riorganizzazione delle forze per portare a fondo la rivoluzione.
«La sua vittoria dipende dal passaggio dalla parte della libertà di sempre più larghi strati della popolazione, dalla loro educazione e organizzazione. La classe operaia ha dimostrato con lo sciopero politico generale la sua gigantesca forza, ma dobbiamo fare ancora non poco lavoro tra gli strati arretrati del proletariato cittadino. Nel creare la milizia operaia, unica difesa sicura della rivoluzione, nel prepararci ad una nuova lotta più decisa, nel sostenere le nostre vecchie parole d’ordine, dobbiamo anche rivolgere un’attenzione particolare all’esercito. Le concessioni cui è stato costretto lo zar devono per forza di cose portare ancora più incertezza nelle sue file, e oggi, cercando di far partecipare i soldati alle assemblee operaie, intensificando l’agitazione nelle caserme, allargando i contatti con gli ufficiali, dobbiamo creare, accanto all’esercito rivoluzionario degli operai, quadri rivoluzionari coscienti anche nell’esercito, che ieri era ancora esclusivamente un esercito zarista, ma è oggi alla vigilia di divenire un esercito popolare.
«Il proletariato rivoluzionario è riuscito a neutralizzare l’esercito, paralizzandolo nelle grandi giornate dello sciopero generale. Deve ora riuscire a farlo completamente passare dalla parte del popolo».
Il Comitato di sciopero degli operai di Pietroburgo a cui si riferiva Lenin si era intanto costituito in Soviet (Consiglio) dei deputati operai e sarebbe servito da modello a quelli di Mosca, Odessa e tante altre città.
Il 26 ottobre sera nell’Istituto Tecnologico della capitale si era svolta la prima assemblea del nascituro Soviet ed i 30-40 delegati degli operai in sciopero avevano inviato a tutti i lavoratori di Pietroburgo un appello allo sciopero generale politico e alla elezione di propri delegati:
«La classe operaia ha deciso di far ricorso all’ultimo, potente strumento del movimento operaio mondiale: lo sciopero generale (…) Nei prossimi giorni in Russia si compiranno eventi decisivi. Essi determineranno per molti anni il destino della classe operaia, noi dobbiamo andare incontro a questi eventi con la massima preparazione, uniti nel nostro Soviet generale».
Trotski rileverà come questa straordinaria decisione fu presa – potenza del momento rivoluzionario e delle sue necessità – all’unanimità, senza discussioni di principio sullo sciopero generale, sui suoi metodi, fini, possibilità, problemi che invece susciteranno di lì a poco aspre polemiche nelle file della Socialdemocrazia internazionale. Il giovane rivoluzionario inneggiando alla “poderosa spinta delle forze spontanee della rivoluzione”, che dittava sul Soviet, intendeva affermare come dialetticamente la rivoluzione non è questione di forme e che solo in determinate svolte sociali lo stesso procedere degli avvenimenti, con le sue lezioni, permette la compenetrazione fra il Partito ed il proletariato e che solo in queste svolte la classe è classe per se stessa identificandosi con il programma rivoluzionario.
Un esempio: il 27 ottobre i tipografi inviarono i loro delegati al Soviet generale con questa impegnativa:
«Riconoscendo l’insufficienza della sola lotta passiva, della sola astensione dal lavoro, deliberiamo di trasformare l’esercito della classe operaia in sciopero in un esercito rivoluzionario, ossia di organizzare al più presto le squadre di combattimento. Queste squadre dovranno occuparsi dell’armamento delle restanti masse proletarie, anche a costo di saccheggiare armerie e di sottrarre le armi alla polizia ed alle truppe, quando ciò sia possibile».
Si
trattava della stessa decisione, dello stesso accalorato appello che
Lenin lanciava dall’estero, di più, era la rivoluzione
che imponeva al Partito e alla classe determinati compiti e mezzi, di
parlare un’unica lingua, di muoversi come un sol uomo, che
imponeva a capi e gregari di esporre esigenze storiche che solo con
determinati mezzi potevano misurarsi con le forze della reazione.
Queste
contavano come campione sul generale Trepov, il 25 ottobre nominato
dallo zar Nicola a capo della Guarnigione di Pietroburgo, che aveva
introdotto lo stato d’assedio di fatto nella capitale, con
truppe a cavallo che spargevano il terrore mentre il resto della
truppa occupava i principali punti strategici della città. Il
generale si fregava le mani soddisfatto per il presentimento della
imminente mischia, infatti due giorni dopo la nomina, il 27, comparve
il suo famoso ordine: “Niente
colpi a salve, non risparmiate le munizioni”, bellicoso
proposito che fu invece neutralizzato dal procedere impetuoso dello
sciopero, che si era dato un proprio organo di stampa per far sentire
la sua audace voce. Le Izvestija
(Le
notizie), pubblicato
dal Soviet di Pietroburgo, così rispose al Manifesto zarista:
«La costituzione dunque è stata concessa. È stata concessa la libertà di parola, ma la censura è rimasta intatta. È stata concessa la libertà della scienza, ma le Università sono occupate dalle truppe. È stata concessa l’immunità personale, ma le carceri sono piene di detenuti. È stato concesso Witte, ma è rimasto Trepov. È stata concessa la costituzione, ma è rimasta l’autocrazia. È stato concesso tutto, e non è stato concesso niente».
Il Soviet deliberava la continuazione dello sciopero generale, deludendo chi sperava in una tregua:
«Il proletariato sa ciò che vuole, e sa ciò che non vuole. Non vuole né il teppista Trepov né il sensale liberale Witte, né le fauci del lupo né la coda della volpe. Non desidera la nagaica avvolta nelle pergamene della costituzione».
Lenin in “L’epilogo s’avvicina” del 16 novembre, commentò da lontano i potenti avvenimenti:
«La lotta si avvicina all’epilogo, alla soluzione del problema: rimarrà il potere effettivo nelle mani del governo zarista? Quanto al riconoscimento della rivoluzione, ormai tutti l’hanno riconosciuta. Da parecchio tempo l’hanno riconosciuta il signor Struve e gli osvobozdenstsy, ora l’ha riconosciuta il signor Witte, l’ha riconosciuta Nicola Romanov. Vi prometto quel che volete, dice lo zar, purché mi lasciate il potere, purché consentiate che a mantenere le mie promesse ci pensi io. A questo si riduce il manifesto dello zar, e si capisce che esso non poteva non spingere alla lotta decisiva. Concedo tutto fuorché il potere, dichiara lo zarismo. Tutto è illusione fuorché il potere, risponde il popolo rivoluzionario».
Ed in questa lotta a morte per il potere, Lenin vede bene come Trepov e Witte si diano la mano, come la spada e la carota difendano con diversi metodi il regime zarista contro cui si erge il Soviet, che valuta le intenzioni dell’avversario, le sue forze e debolezze:
«Pietroburgo. Trepov si vendica dell’esultanza del popolo rivoluzionario (a causa delle concessioni strappate allo zar). I cosacchi commettono eccessi di ogni sorta. I massacri si intensificano. La polizia organizza apertamente i centoneri. Gli operai avevano intenzione di organizzare un’imponente dimostrazione per domenica 5 novembre (23 ottobre). Volevano che tutto il popolo rendesse omaggio alla memoria dei loro compagni caduti eroicamente nella lotta per la libertà. Il governo dal canto suo preparava un bagno di sangue. Preparava per Pietroburgo quello che su piccola scala era avvenuto a Mosca (massacro ai funerali di un capo degli operai, Barman). Trepov voleva approfittare del momento in cui non aveva ancora frazionato le sue truppe inviandone una parte in Finlandia, dal momento in cui gli operai si riunivano per manifestare e non per battersi.
«Gli operai di Pietroburgo indovinarono le intenzioni del nemico.
«La dimostrazione fu sospesa. Il comitato operaio decise di non organizzare la battaglia finale al momento che Trepov si era compiaciuto di scegliere. Il comitato operaio riteneva giustamente che, per tutta una serie di motivi (fra cui l’insurrezione in Finlandia), il differimento della lotta era svantaggioso per Trepov e vantaggioso per noi. E intanto si intensifica la preparazione dell’armamento. La propaganda fra le truppe fa progressi considerevoli. Si comunica che 150 marinai degli equipaggi della quattordicesima e diciottesima flotta sono stati arrestati e che negli ultimi dieci giorni sono stati presentati 92 rapporti contro ufficiali che avevano simpatizzato con i rivoluzionari. I manifestini che esortano l’esercito a passare dalla parte del popolo vengono distribuiti perfino alle pattuglie che “difendono” Pietroburgo (…) L’epilogo si avvicina. La vittoria dell’insurrezione popolare ormai non è più lontana. Le parole d’ordine della socialdemocrazia rivoluzionaria si realizzano con inattesa rapidità. Si dibatta Trepov tra la Finlandia rivoluzionaria e Pietroburgo rivoluzionaria, fra le regioni periferiche rivoluzionarie e la provincia rivoluzionaria. Provi a scegliersi anche un solo posticino sicuro per libere operazioni militari (...)
«Lo sciopero politico generale in tutta la Russia ha compiuto magnificamente l’opera sua, facendo avanzare l’insurrezione, infliggendo terribili ferite allo zarismo, smascherando l’infame commedia dell’infame Duma. La prova generale è finita. Siamo, secondo ogni apparenza, alla vigilia del vero e proprio dramma. Witte affoga in un fiume di parole. Trepov in un fiume di sangue. Sono ormai troppo poche le promesse che lo zar potrebbe ancora fare».
Le masse risposero con disciplina alle indicazioni del Soviet di Pietroburgo, lo sciopero perdeva il suo spontaneo carattere battagliero per trasformarsi in una cosciente e colossale dimostrazione di sfiducia. Fu la provincia che per prima riprese il lavoro, il 1° novembre i lavoratori di Mosca terminavano lo sciopero ed il 4, alle ore 12, furono, ultimi, quelli di Pietroburgo a ritornare alle macchine ubbidendo disciplinati al loro Soviet.
Soviet e Rivoluzione
Soviet in russo significa semplicemente consiglio, consiglio appunto dei delegati delle fabbriche in sciopero, ed infatti Lenin, la prima volta, lo identificò con il comitato di sciopero. Fu la situazione eminentemente rivoluzionaria a far sì che lo sciopero travalicasse i suoi naturali ed immediati confini economici per divenire vera e propria arma della lotta rivoluzionaria del movimento proletario contro l’autocrazia zarista.
Il Soviet dovette – pena uno sconfessamento della sua natura di classe – accondiscendere alle intime esigenze del movimento operaio offrendo così alla storia la forma politica che clamorosamente sarebbe prevalsa dopo la rivoluzione bolscevica del 1917.
L’organizzazione del Soviet di Pietroburgo crebbe rapidamente per forza numerica ed autorità, diventando il centro di organizzazione rivoluzionario e operaio non solo di Pietroburgo ma di tutta la Russia; Soviet si costituirono in tutte le principali città, anzi in molte città minori ed in molte località industriali condizioni locali di comunicazione permisero una attività ancora più radicale rispetto al Soviet di Pietroburgo.
Il Soviet di Pietroburgo – ci soffermiamo su quello più rappresentativo al quale gli altri si adeguarono per funzioni e compiti – durante la sua breve esistenza esercitò una considerevole autorità, non ufficiale ma come un vero e proprio governo rivoluzionario. Non solo stabiliva le date d’inizio e di cessazione degli scioperi, pubblicava manifesti ed appelli, ma anche revocava gli ordini della amministrazione zarista, si impadroniva delle tipografie, pubblicava propri organi di stampa, difendeva gli interessi dei lavoratori organizzando il proletariato contro possibili azioni dei “centoneri”.
Il Soviet di Pietroburgo non ebbe una fisionomia politica determinata, includeva bolscevichi, menscevichi, Esse Erre e senza partito. Anche se maggioritari furono i menscevichi, la breve vita del Soviet – fu sciolto e tutti i suoi capi furono arrestati il 16 dicembre – sommata ad una relativa immaturità della situazione sociale e della lotta politica non permise una netta separazione dei diversi indirizzi esistenti nel campo operaio, come invece sarebbe accaduto nell’ottobre 1917.
Lenin, ancora all’estero quando si formò il Soviet di Pietroburgo, già durante il suo viaggio di ritorno in Russia scrisse sulla natura e le funzioni del Soviet, da “assente”, come si poteva leggere nell’articolo del 15-17 novembre stilato per l’organo bolscevico del POSDR, la “Novaia Gizn”. L’articolo, sotto forma di lettera, “I nostri compiti e il Soviet dei deputati operai”, sarà pubblicato però solo nel lontano 1940. Lenin scorgeva nel Soviet una duplice funzione: in quanto organizzazione sindacale il Soviet doveva tendere a includere nelle proprie file tutti gli operai, in quanto organizzazione politica doveva essere considerato un governo rivoluzionario provvisorio in embrione e organizzazione di lotta contro il Governo zarista. Scrive Lenin:
«Il soviet dei deputati operai è nato da uno sciopero generale, in occasione di uno sciopero e per i suoi obiettivi. Chi ha diretto, chi ha condotto alla vittoria questo sciopero? Tutto il proletariato, nelle cui file vi sono, in minoranza per fortuna, anche operai non socialdemocratici. Quali obiettivi si prefiggeva lo sciopero? Obiettivi economici e politici a un tempo. Quelli economici riguardavano tutto il proletariato, tutti gli operai, in parte persino tutti i lavoratori, e non solo gli operai salariati. Gli obiettivi politici riguardavano tutto il popolo o, meglio, tutti i popoli della Russia. Essi consistevano nell’emancipazione di tutti i popoli della Russia dal giogo dell’autocrazia, dalla servitù feudale, dalla mancanza di diritti, dell’arbitrio poliziesco.
«Procediamo. Doveva il proletariato continuare la sua lotta economica? Senza dubbio, su questo non vi sono, e non possono esservi, due opinioni tra i socialdemocratici. Bisognava combattere questa battaglia con i soli socialdemocratici o sotto la sola bandiera socialdemocratica? Non lo credo, e continuo ad attenermi all’opinione da me espressa (a dire il vero, in circostanze radicalmente diverse, ormai superate) nel “Che fare?”; penso cioè che sia sbagliato limitare l’adesione ai sindacati e la partecipazione alla lotta rivendicativa, economica, ai soli iscritti al partito socialdemocratico. Mi sembra che il soviet dei deputati operai, in quanto organizzazione sindacale, debba tendere a includere nelle proprie file i deputati eletti da tutti gli operai, gli impiegati, i domestici, i braccianti, ecc., da tutti coloro che vogliono e possono combattere insieme per migliorare l’esistenza del popolo lavoratore, da tutti coloro che posseggono la più elementare lealtà politica, da tutti tranne dai centoneri».
La questione del governo rivoluzionario provvisorio era giustamente considerata di importanza fondamentale per tutto lo svolgimento della rivoluzione russa. L’esperienza della rivoluzione europea e soprattutto della grande rivoluzione russa aveva dimostrato la necessità dell’esistenza di un organo dell’insurrezione popolare contro il vecchio regime, un organo che si proponesse come organo di governo; per il marxismo si trattava e si tratta di una questione di forza e non di forma, per cui gli elementi da riconoscere in tale organo di fronte alle esplosioni rivoluzionarie andavano ravvisati esclusivamente nella forza capace di opporsi al vecchio regime che per necessità storiche va abbattuto. Per Lenin il governo rivoluzionario provvisorio è l’organo dell’insurrezione che dirige politicamente l’insurrezione e che con il suo programma rivoluzionario unisce tutti gli insorti:
«La lotta politica è pervenuta ormai a un tal grado di sviluppo che le forze rivoluzionarie e quelle della controrivoluzione si bilanciano, o quasi, che il governo zarista è già impotente a schiacciare la rivoluzione, e la rivoluzione non è ancora tanto forte da spazzare via il governo dei centoneri. La decomposizione del governo zarista è totale. Ma, imputridendo da vivo, esso contagia la Russia con il suo tossico cadaverico. Alla putrescenza delle forze zariste, controrivoluzionarie, è assolutamente indispensabile opporre subito, immediatamente, senza il minimo indugio, l’organizzazione delle forze rivoluzionarie. Quest’organizzazione si è sviluppata, soprattutto negli ultimi tempi, con eccezionale rapidità. Ne fanno fede la costituzione di distaccamenti dell’esercito rivoluzionario (le squadre di combattimento, ecc.), il rapido sviluppo delle organizzazioni socialdemocratiche di massa del proletariato, la creazione di comitati contadini da parte di contadini rivoluzionari, le prime libere assemblee dei nostri fratelli proletari in divisa da marinai e da soldati, che si sono aperti un varco sulla strada difficile e dura, ma giusta e luminosa, della libertà e del socialismo.
«Manca solo ormai l’unificazione di tutte le forze effettivamente rivoluzionarie, di tutte le forze che già operano sul terreno della rivoluzione. Manca un centro politico panrusso, vitale, attivo, che abbia profonde radici nel popolo, goda dell’assoluta fiducia delle masse, sia dotato di un’impetuosa energia rivoluzionaria, abbia solidi legami con i partiti rivoluzionari e socialisti organizzati. Questo centro può essere creato soltanto dal proletariato rivoluzionario, che ha condotto nel modo più brillante lo sciopero politico e sta oggi organizzando l’insurrezione armata di tutto il popolo, che ha già in parte conquistato alla Russia la libertà e le sta oggi conquistando la completa libertà (…)
«A mio giudizio, il soviet dei deputati operai, in quanto centro di direzione politica della rivoluzione, è un’organizzazione non troppo ampia: anzi, è troppo ristretta. Il soviet deve proclamarsi governo rivoluzionario provvisorio, o costituire un tale governo, mobilitando necessariamente nuovi deputati, eletti non solo dagli operai, ma anzitutto dai marinai e dai soldati, che si sono battuti dappertutto per la libertà, e poi dai contadini rivoluzionari, infine dagli intellettuali borghesi rivoluzionari. Il soviet deve eleggere il solido nucleo del governo rivoluzionario provvisorio e integrarlo poi con i rappresentanti di tutti i partiti rivoluzionari e di tutti i democratici rivoluzionari (ovviamente, solo rivoluzionari, non anche liberali).
«Noi non solo non temiamo una composizione così ampia ed eterogenea, ma anzi l’auspichiamo, perché, senza l’alleanza tra il proletariato e i contadini, senza l’intesa combattiva tra i socialdemocratici e i democratici rivoluzionari, il pieno successo della grande rivoluzione russa è impossibile. Si tratterà di un’alleanza temporanea, legata a compiti pratici, immediati e chiaramente definiti, mentre a guardia dei più importanti e radicali interessi del proletariato socialista, a guardia dei suoi compiti ultimi, vi sarà sempre il Partito operaio socialdemocratico di Russia, autonomo e coerente con i suoi principi (...)
«Ma noi dobbiamo tradurre in atto il programma rivoluzionario con le forze del popolo rivoluzionario, dobbiamo unificare al più presto queste forze mediante la proclamazione del governo rivoluzionario provvisorio da parte del proletariato. Naturalmente, questo governo potrà avere un sostegno reale soltanto nell’insurrezione armata. E, del resto, il governo progettato non sarà altro che l’organo dell’insurrezione che già matura e si sviluppa. Quando l’insurrezione non aveva ancora assunto proporzioni evidenti per tutti, proporzioni tangibili – diciamo così – era impossibile mettersi a creare in pratica un governo rivoluzionario. Ma oggi è indispensabile unificare politicamente l’insurrezione, organizzarla, darle un programma chiaro, trasformare i già folti distaccamenti dell’esercito rivoluzionario, che aumentano rapidamente di numero, in un sostegno e in uno strumento del nuovo governo effettivamente libero e popolare. La lotta è imminente, l’insurrezione inevitabile, lo scontro decisivo ormai molto vicino. È tempo di incitare apertamente il popolo a opporre allo zarismo in decomposizione il potere organizzato del proletariato, è tempo di indirizzare a tutto il popolo un manifesto in nome del governo rivoluzionario provvisorio, istituito dagli operai d’avanguardia».
I menscevichi, che pure furono i principali promotori del costituirsi del Soviet di Pietroburgo, consideravano invece il Soviet come un organo di per sé già di autogoverno, di conseguenza sostenevano non solo la adesione incondizionata a esso ma anche l’eliminazione di ogni differenziazione partitica al suo interno, posizione che, in definitiva, andava nel senso inverso della “trasformazione del soviet dei deputati operai in governo rivoluzionario”, cioè della preparazione della decisiva insurrezione.
Contro queste posizioni i bolscevichi, prima dell’arrivo di Lenin, presero una posizione insufficiente; essi infatti, in nome dell’indipendenza del Partito, essendo il Soviet un’organizzazione politica condizionavano la loro adesione alla direzione del Partito sul Soviet, non scorgendo nel Soviet l’embrione del governo rivoluzionario provvisorio in quella che era una rivoluzione borghese democratica. Lenin nello scritto già citato, da “assente”, aveva fatto sentire la sua voce ma non è senza significato che la sua lettera dovette attendere 35 anni per essere conosciuta:
«Ma questo lato della questione, riguardante la lotta economica, è relativamente semplice e, forse, non suscita nemmeno particolari dissensi. Non si può dire lo stesso dell’altro lato del problema, cioè di quello che concerne la direzione e la lotta politica. A costo di sbalordire i lettori, devo tuttavia affermare subito che mi sembra sbagliato pretendere al soviet dei deputati operai l’accettazione del programma socialdemocratico e l’adesione al Partito operaio socialdemocratico di Russia.
«Io credo che nella direzione della lotta politica siano allo stesso titolo assolutamente indispensabili oggi sia il soviet (trasformato nel senso che preciserò subito) sia il partito.
«Sbaglierò, forse, ma credo (dai dati incompleti e puramente “libreschi” di cui dispongo) che sul piano politico il soviet dei deputati operai debba essere considerato come un governo rivoluzionario provvisorio in embrione. Credo che il soviet debba proclamarsi al più presto governo rivoluzionario provvisorio di tutta la Russia o creare (che è lo stesso, anche se in forma diversa) un governo rivoluzionario provvisorio (…)
«Ci si domanda perché il soviet dei deputati operai non possa essere l’embrione di questo centro. Forse perché non ne fanno parte soltanto i socialdemocratici? Ma questo è un vantaggio. Abbiamo sempre sostenuto che è necessaria un’alleanza di lotta tra i socialdemocratici e i democratici rivoluzionari borghesi. Noi ne abbiamo parlato, e gli operai l’hanno realizzata. E hanno fatto bene.
«Quando ho letto, nella Novaia Gizn, le lettera di alcuni compagni operai, aderenti al partito socialista-rivoluzionario, che protestavano contro la subordinazione del soviet a un solo partito, non ho potuto fare a meno di pensare che questi compagni operai avevano praticamente ragione su moltissimi punti. Naturalmente, noi dissentiamo da loro nel modo di vedere; naturalmente, non si può parlare di fusione tra i socialdemocratici e i socialisti rivoluzionari; ma non di questo si tratta. Secondo il nostro profondo convincimento, gli operai che condividono le opinioni dei socialisti-rivoluzionari e lottano nelle file del proletariato sono incoerenti, perché, mentre si battono per la vera causa proletaria, professano concezioni non proletarie. Contro questa incoerenza siamo tenuti a combattere, sul piano ideale, con la massima energia, ma in modo che non abbia a soffrirne l’imminente, urgente, concreta causa rivoluzionaria, a cui tutti aderiscono e che unisce tutti gli uomini onesti.
«Noi continuiamo a ritenere non socialiste, ma democratiche rivoluzionarie, le concezioni dei socialisti-rivoluzionari. Ma, ai fini della lotta, siamo tenuti a marciare con loro, pur senza infirmare la piena autonomia del partito. Il soviet è un’organizzazione di lotta e tale deve essere. Sarebbe assurdo e pazzesco respingere i democratici rivoluzionari devoti e onesti nel momento stesso in cui si realizza la rivoluzione democratica».
Lenin rigorosamente insistette affinché la rappresentanza del Soviet non venisse ristretta e delimitata, come sostenevano anche i bolscevichi di Pietroburgo, ma allargata ed estesa fino a comprendere i rappresentanti rivoluzionari dei contadini e dei soldati che avessero accettato il programma della lotta a morte contro lo zarismo.
Dopo la repressione dell’insurrezione del dicembre 1905, nella Piattaforma per il congresso del POSDR del marzo 1906, Lenin presentò per i bolscevichi una risoluzione sui Soviet che significativamente seguiva quella sul governo rivoluzionario provvisorio e gli organi locali del potere rivoluzionario; fatta piazza pulita di tutte le indecisioni passate era un ponte gettato verso il vittorioso ottobre 1917.
«I Soviet dei deputati operai
«Considerando:
«1) che i soviet dei deputati operai sorgono sul terreno degli scioperi politici di massa, come organizzazioni apartitiche delle vaste masse operaie;
«2) che questi soviet si trasformano inevitabilmente, nel corso della lotta, sia per la loro composizione, in quanto includono gli elementi più rivoluzionari della piccola borghesia, sia per il contenuto della loro attività, in quanto da semplici organizzazioni per gli scioperi diventano organi della lotta rivoluzionaria generale;
«3) che, in quanto questi soviet sono l’embrione del potere rivoluzionario, la loro forza e importanza dipendono per intero dalla forza e dal successo dell’insurrezione,
«riconosciamo e proponiamo al congresso di riconoscere:
«1) che il Partito operaio socialdemocratico di Russia deve aderire ai soviet apartitici dei deputati operai, costituendo immancabilmente gruppi molto forti di membri del partito all’interno di ogni soviet e orientando l’attività di questi gruppi in stretta connessione con l’attività generale del partito;
«2) che l’istituzione di questi organi, al fine di estendere e approfondire l’influenza della socialdemocrazia sul proletariato e del proletariato sull’andamento e sull’esito della rivoluzione democratica, può essere affidata, in determinate circostanze, alle organizzazioni locali del partito;
«3) che i più vasti strati di operai, nonché di rappresentanti della democrazia rivoluzionaria, soprattutto dei contadini, dei soldati e dei marinai, devono essere mobilitati nei soviet apartitici dei deputati operai;
«4) che, nell’estendere l’azione e la sfera d’influenza dei soviet dei deputati operai, bisogna indicare che queste istituzioni saranno inevitabilmente condannate al fallimento, se non poggeranno sull’esercito rivoluzionario e non rovesceranno le autorità governative (se non si trasformeranno cioè in governi rivoluzionari provvisori); e che pertanto l’armamento del popolo e il consolidamento dell’organizzazione militare del proletariato devono essere considerati come uno dei compiti principali di questi organismi in ogni fase della rivoluzione».
Il primo movimento di reazione al Manifesto del 30 ottobre fu una sanguinosa ondata di pogrom che spazzò tutta la Russia, veri e propri massacri che si abbatterono con furia omicida su di un centinaio di località, con migliaia di morti. I pogrom scoppiavano sempre nello stesso modo. In una città cominciavano a circolare voci che era imminente un pogrom e già questa notizia richiamava tutti i teppisti, i rifiuti e la feccia della società; questi figuri insieme al ritratto dello Zar, alla bottiglia di vodka ed al vessillo tricolore patriottico costituivano gli accessori fondamentali del pogrom.
Con l’attiva cooperazione della polizia veniva organizzata una dimostrazione patriottica con ritratti dello Zar e icone, al canto di inni nazionali; in quella circostanza, non era difficile, di regola attaccar briga col primo passante, e quand’altro mancava un’occasione un agente provocatore era sempre pronto a sparare un colpo di rivoltella che immediatamente veniva interpretato come un attacco di ebrei ed era il segnale per invadere il quartiere con ogni genere di oltraggi e di violenze.
Trotskij
con tutto il suo sdegno scriverà nel 1905:
«Nei neri baccanali d’ottobre, di fronte ai quali gli orrori della notte di San Bartolomeo sembrano un’innocua finzione teatrale, in cento città si ebbero da 3.500 a 4.000 morti e sino a 10.000 mutilati. I danni materiali, che ammontavano a decine, se non a centinaia di milioni di rubli, furono di molto superiori alle perdite subite dai proprietari fondiari durante le agitazioni contadine (…) Così il vecchio regime si vendicava dell’umiliazione subita (…) Aveva reclutato le sue falangi dappertutto, negli angoli, nei vicoli, nei tuguri. Aveva chiamato al suo servizio il piccolo bottegaio e l’accattone, il bettoliere e il suo fedele cliente, il portinaio e lo spione, il ladro di mestiere ed il mariuolo dilettante, il piccolo artigiano ed il portiere della casa di tolleranza, l’affamato rozzo muzik ed il contadino inurbato da poco, stordito dal processo delle macchine industriali. La miseria incollerita, l’ignoranza desolante, la venalità degenere si posero sotto il comando dell’egoismo dei privilegiati e della anarchia degli alti funzionari».
Il vecchio regime si vendicava per essere stato costretto ad una pur minima concessione, scatenava e sosteneva pogrom antiebrei che avevano lo scopo di terrorizzare tutta la società e tutte le classi, innalzando a re il vagabondo al quale era assicurato ogni immunità. Il proletariato capì bene che l’ondata di pogrom aveva una diabolica morale: “Avete voluto la libertà: raccoglietene i frutti”, ed in moltissime città organizzò picchetti armati che opposero un’attività, ed in molti casi eroica, resistenza alle squadre nere; quando l’esercito si manteneva neutrale le milizie operaie arginavano facilmente le scorribande dei teppisti.
A
Pietroburgo pogrom
non ve ne furono e non certo per volontà delle centurie nere.
Gli operai erano pronti a difendere la città e quando le voci
si fecero più insistenti le masse proletarie si armarono come
potevano, anche fabbricandosi armi bianche. Il Soviet organizzò
una vera e propria milizia con regolari servizi notturni, ma in
questo modo il proletariato ed il Soviet si armavano soprattutto
contro il potere zarista che reggeva i fili delle centurie nere. Il
governo lo capì e diede l’allarme. Scrive Trotskij:
« A Pietroburgo ebbe quindi inizio un vero attacco contro la milizia operaia. Le squadre di combattimento venivano disperse, le armi confiscate. Ma intanto il pericolo del pogrom era passato per cedere il posto ad un pericolo incomparabilmente maggiore. Il governo aveva messo in congedo temporaneo tutte le sue formazioni irregolari. Si accingeva a fare entrare in campo i suoi scherani effettivi, i suoi cosacchi, i suoi reggimenti delle guardie; si preparava alla guerra lungo tutto il fronte del suo schieramento militare».
Un
fucile per le otto ore
Abbiamo già detto che lo sciopero dell’ottobre non fu osteggiato dalla classe borghese e capitalistica, anzi una parte notevole degli imprenditori prese di fronte allo sciopero una posizione di benevola neutralità. Alle serrate non fu richiesto l’intervento delle truppe contro gli scioperanti e molti imprenditori pagarono il salario anche per tutto il periodo dello sciopero, una spesa straordinaria che valeva bene tirar fuori se fosse servita a far fiorire il “regime di diritto”. Ma il Manifesto dello Zar non acquietò il movimento operaio che aveva mostrato a tutte le classi la sua forza e risolutezza e naturalmente, come scritto nell’ordine delle cose, tutta la borghesia capitalistica ricominciò a prendere le distanze da un movimento operaio che la incalzava richiedendo aumenti salariali e riduzioni della giornata lavorativa. Interessi prosaici spinsero il capitale ad una rinsaldata alleanza con il governo zarista che continuava a reggere i cordoni della borsa e del credito bancario, indispensabili alla sopravvivenza di quasi tutte le industrie.
Il proletariato si ritrovava così solo nella sua lotta, era inevitabile che le altre classi urbane non potevano aiutarlo, né l’intelligenza, né gli studenti, né i circoli liberali, che all’inizio avevano civettato con le “mani callose”. Questo processo di separazione era irrimandabile perché non si trattava più della libertà di stampa, della lotta contro gli abusi polizieschi, neanche del suffragio universale ma solamente dei muscoli, dei nervi e del cervello dei proletari che il lavoro di fabbrica consumava.
Se nell’ottobre il proletariato si era battuto per le rivendicazioni di tutte le classi, adesso si sentiva tanto forte da presentare ai proprietari borghesi le rivendicazioni della sola sua classe, mai dimenticate. Già durante il grande sciopero dell’ottobre i delegati avevano avvertito che le masse non avrebbero accettato di tornare a lavorare alle stesse condizioni di prima ed infatti dall’8 novembre un quartiere di Pietroburgo anticipò il Soviet introducendo nelle proprie fabbriche la giornata lavorativa di 8 ore.
Era solo l’inizio. Il 10 novembre le maggiori officine metalmeccaniche di Pietroburgo cominciavano a lavorare anch’esse otto ore; il giorno dopo il Soviet, tra l’entusiasmo generale, invitava tutte le fabbriche ed officine ad introdurre di loro iniziativa il nuovo orario di lavoro.
Il 14 novembre, senza dibattito, tanto era la spinta delle masse, il Soviet proclamava lo sciopero dei lavoratori di Pietroburgo per il riconoscimento della giornata lavorativa di otto ore. Però, questa volta che gli scioperanti provocavano compatti e uniti padroni e Stato, il capitale assunse subito una posizione intransigente: la giornata lavorativa di otto ore non veniva concessa e se lo sciopero fosse proseguito gli industriali vi avrebbero risposto con la serrata.
Il capitale corse a mendicare aiuto al Conte Witte e di fronte al governo zarista i rappresentanti borghesi mostrarono quanto la democrazia fosse stanca degli scioperi. La democrazia voleva pace, tranquillità, lavoro, voleva – fuori da ogni metafora – che i cosacchi riuscissero a domare gli scioperanti. Aprendo la strada agli imprenditori privati, il governo zarista chiuse le officine statali facendo sempre più spesso disperdere dalle truppe le assemblee operaie. Con la serrata delle industrie statali una dopo l’altra anche le fabbriche ed officine private chiusero rispondendo così alla pretesa dei lavoratori che avevano oramai, di fronte a se stessi, solo due possibilità: o ritirarsi o lanciarsi verso la presa del potere, come avrebbero fatto poi nel 1917.
Nel 1905 il Soviet di Pietroburgo – meglio sarebbe dire il proletariato pietroburghese e russo, in cui ancora non si era affermata la consapevole guida dei bolscevichi – non era a tale altezza storica. Il Soviet sapeva di non poter lanciare il suo attacco finale, sapeva che questo momento non era giunto e che quindi per evitare una inutile sconfitta si doveva ordinatamente ritirare. Il 19 novembre, dopo 6 giorni di duro sciopero, il Soviet prese una decisione di compromesso: l’introduzione delle 8 ore non era più per tutti, e solo i lavoratori delle imprese per i quali sussisteva una qualche speranza di successo erano invitati a continuare la lotta. Ma non doveva bastare, in una drammatica seduta, il 25 novembre, il Soviet prese a schiacciante maggioranza la decisione di capitolare.
Nella sua risoluzione sottolineava come la coalizione del capitale con il governo zarista aveva trasformato la rivendicazione delle otto ore da questione riguardante Pietroburgo a questione riguardante tutto il proletariato russo, era trasmutata in una questione eminentemente politica che poteva risolversi solo con l’abbattimento del governo zarista e dei suoi alleati borghesi da parte del proletariato, diretto dal suo partito di classe, la cui azione cosciente non poteva venir surrogata nemmeno dal Soviet. Trotski nel suo “1905” non affronta questo fondamentale punto, è noto del resto che allora si sentiva distante sia dai bolscevichi sia dai menscevichi per conservare nel POSDR una posizione indipendente, ma il suo racconto è lucido nel mostrare come la lotta, con le sue immaturità certo ma anche con le sue tante inevitabilità, fu lezione che andrebbe mille volte riscritta per i tanti attivismi che impestano la schiera anche di chi intende richiamarsi alla Sinistra:
«L’idea di introdurre in modo rivoluzionario la giornata lavorativa normale nella sola Pietroburgo, ed in appena ventiquattr’ore, può sembrare assolutamente fantastica. Un rispettabile tesoriere di una solida organizzazione sindacale potrebbe giudicarla persino folle. Ed in effetti appariva tale se osservata alla lente del “ragionevole”. Ma, nelle condizioni create dalla “follia” rivoluzionaria, aveva certamente una propria “logicità”. È vero, la giornata lavorativa normale nella sola Pietroburgo era un’assurdità. Ma, nelle intenzioni del Soviet, il tentativo pietroburghese avrebbe dovuto far insorgere il proletariato di tutto il paese. Certo, la giornata lavorativa di otto ore poteva essere attuata solo con l’ausilio del potere dello Stato. Ma il proletariato, allora, era in lotta proprio per la conquista del potere statale. Se avesse riportato la vittoria politica, l’introduzione della giornata lavorativa di otto ore non sarebbe stata che il naturale sviluppo di un “fantastico esperimento”. Ma esso non vinse – ed in questo consiste naturalmente, la sua “colpa” più grave.
«Tuttavia riteniamo che il Soviet abbia agito come poteva e doveva agire. In realtà non aveva scelta. Se, in virtù di una “realistica” visione politica, avesse gridato alle masse “indietro!”, queste non lo avrebbero ascoltato. Ma la lotta sarebbe scoppiata ugualmente, ed il proletariato non avrebbe avuto una guida.
«In simili condizioni una sconfitta avrebbe provocato una totale demoralizzazione. Il Soviet intese diversamente il suo compito. I suoi elementi direttivi, in generale, non contavano su un successo concreto, pieno ed immediato della campagna. Tuttavia accettarono come un fatto il possente movimento spontaneo delle masse operaie e decisero di trasformarlo in una manifestazione grandiosa, mai vista prima di allora nel mondo socialista, in favore della giornata lavorativa di otto ore. I suoi risultati pratici, cioè la sensibile riduzione dell’orario di lavoro in moltissime industrie, vennero presto annullati dagli imprenditori. Ma il suo successo politico lasciò una traccia indelebile nella coscienza delle masse. L’idea della giornata lavorativa di otto ore divenne da allora tanto popolare tra gli strati più arretrati della classe operaia come certo non l’avrebbero resa anni di poderosa propaganda. Nello stesso tempo, questa rivendicazione si fuse organicamente con le parole d’ordine della democrazia politica.
«Urtando contro la resistenza organizzata del capitale, dietro le cui spalle stava il potere statale, il proletariato fece di nuovo ritorno al problema del colpo di Stato rivoluzionario, della inevitabilità dell’insurrezione, della necessità di armarsi.
«Il relatore del Comitato Esecutivo, difendendo in seno al Soviet la risoluzione della ritirata, fece in questi termini il bilancio della campagna: “Se non abbiamo conquistato la giornata di otto ore per le masse, abbiamo conquistato le masse per la giornata di otto ore. Ormai nel cuore di ogni operaio pietroburghese vive il suo grido di guerra: otto ore e un fucile!”».
Il giovane Trotski non ebbe la lucidità di Lenin nel fissare il drammatico momento della rivoluzione, che proprio per la decisa entrata in scena del proletariato vedeva ridursi la schiera dei suoi simpatizzanti, perdendo tra le fila dei borghesi e piccoli borghesi amicizie e solidarietà, finito oramai il tempo della unanimità popolaresca antizarista.
Dopo la fine dello sciopero, la Deliberazione del Soviet di Pietroburgo contro la serrata, del 27 novembre, avvertiva:
«Cittadini, oltre centomila operai sono stati gettati sul lastrico a Pietroburgo e in altre città!
«Il governo autocratico ha dichiarato guerra al proletariato rivoluzionario. La borghesia reazionaria si allea con l’autocrazia, nell’intento di costringere con la fame gli operai ad arrendersi e di disorganizzare la lotta per la libertà.
«Il soviet dei deputati operai dichiara che l’inaudito licenziamento in massa degli operai è una provocazione da parte del governo. Il governo vuole costringere il proletariato di Pietroburgo a scontri isolati; il governo vuole avvantaggiarsi del fatto che gli operai delle altre città non sono ancora sufficientemente uniti a quelli di Pietroburgo; il governo vuole sgominare gli uni e gli altri separatamente.
«Il soviet dei deputati operai dichiara che la causa della libertà è in pericolo. Ma gli operai non accetteranno la provocazione del governo. Gli operai si rifiuteranno di battersi nelle condizioni sfavorevoli nelle quali il governo vuole loro imporre la battaglia. Noi dobbiamo fare e faremo tutti gli sforzi per coordinare la lotta del proletariato di tutta la Russia, dei contadini rivoluzionari, dell’esercito e della marina, che già insorgono eroicamente per la libertà.
«In forza di ciò, il soviet dei deputati operai delibera:
«1) tutte le fabbriche chiuse devono essere riaperte immediatamente, e tutti i compagni licenziati devono essere riassunti (…)
« 2) Il soviet dei deputati operai ritiene necessario fare appello alla solidarietà di tutto il proletariato di Russia perché sostenga questa rivendicazione e lo esorta, nel caso che ci si rifiuti di accoglierla, allo sciopero politico generale e ad altre forme energiche di lotta.
« 3) Al fine di preparare quest’azione, il soviet dei deputati operai affida al comitato esecutivo l’incarico di entrare subito in contatto, mediante l’invio di delegati e con altri mezzi, con gli operai delle altre città, con i sindacati dei ferrovieri, dei postelegrafonici, dei contadini e con altri sindacati, nonché con l’esercito e con la flotta».
Lenin,
dalla cui penna era uscita la Deliberazione, che aveva dovuto
purtroppo rilevare come le province avevano risposto all’appello
di Pietroburgo con molto minor calore rispetto al mese di ottobre,
vedeva chiaramente come una oramai impaziente classe borghese e
imprenditoriale voleva provocare il proletariato di Pietroburgo, un
proletariato stremato dalla lotta combattuta nel passato,
costringendolo ad un nuovo scontro, in condizioni questa volta a lui
sfavorevoli. Nell’articolo del 28 novembre “Una
provocazione fallita”,
nel presentare la Deliberazione del Soviet Lenin esortava:
«Oggi è più che mai importante concentrare tutti gli sforzi per unificare l’esercito della rivoluzione in tutta la Russia, risparmiare le energie, valersi delle libertà conquistate per svolgere un lavoro cento volte più grande di agitazione e organizzazione, prepararsi a nuove e decisive battaglie. Si allei pure l’autocrazia con la borghesia reazionaria! Voti pure la borghesia liberale (attraverso il Congresso dei rappresentanti degli zemstvo e delle città, tenutosi a Mosca) la fiducia a un governo che parla ipocritamente di libertà, mentre schiaccia con la forza delle armi la Polonia, per aver rivendicato le più elementari garanzie di libertà!
«All’alleanza tra l’autocrazia e la borghesia dobbiamo opporre l’alleanza tra la socialdemocrazia e tutta la democrazia rivoluzionaria borghese. Il proletariato socialista tende la mano ai contadini che si battono per la libertà e li esorta all’assalto comune, concordato, in tutto il paese».
La
democrazia rivoluzionaria in cui Lenin poneva fiducia era il
movimento contadino, il “borghese radicale” di altri
testi, era il muzik
che, approfittando della debolezza dell’apparato statale
zarista, occupava le terre e assaltava le proprietà terriere.
Nel muzik,
nerbo dell’esercito zarista, che fino ad allora la
controrivoluzione non aveva osato lanciare contro il movimento
operaio rivoluzionario e socialista, si incontravano in maniera
decisiva le delicate e gravi questioni agrarie e militari, questioni
dalla cui risoluzione – positiva o negativa – dipendeva
in massimo grado l’esito della lotta finale, che sarebbe stato
determinato da un lato dalla chiarezza teorica e tattica del partito
di classe, dall’altro dal maturare di mille e mille condizioni
materiali, dei rapporti economici, sociali e politici tra le classi.
Dall’Archivio
della Sinistra
Settima
Sessione dell’Esecutivo Allargato – dicembre
1926
Discussione
sulla questione russa
Intervento di Zinoviev
[
è qui ]