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L’esercitazione preferita, in questi tempi, dai politicanti da strapazzo è d’indovinare quale sarà il futuro nome del partitaccio, che finalmente sembra deciso a gettare, nella molle danza del ventre opportunistico, l’ultimo velo. L’erede degno di Palmiro, Luigi ed Enrico, dopo che i padri ignobili gli hanno preparato il terreno in questi ultimi decenni, sta tentando di raggiungere l’altra sponda. I più creduloni dei suoi seguaci trattengono il fiato e si domandano se ce la farà. Lui intanto, l’Occhetto, ha momentaneamente chiamato COSA il partito, spogliandolo, sia pure a titolo sperimentale, del nome.
Come abbiamo fatto in altre occasioni, per esempio nell’attentato a Togliatti nel 1948 e in occasione dei funerali di Berlinguer, ci teniamo a distinguere due questioni: i proletari, in ambedue le occasioni ingenuamente e fedelmente ancorati al presunto capo, o meglio, incapaci di abdicare a se stessi, hanno tributato onore e passione al Comunismo. Ciò dimostra come, nonostante tutti i tradimenti, non è facile e non sarà facile strappare dal cuore proletario il sentimento spontaneo, insopprimibile e storico nello stesso tempo, di essere comunisti.
Con questo non siamo tanto ingenui da sostenere che le masse sono e rimangono “comuniste” mentre i dirigenti le tradiscono; è una vecchia storia.
Rimane il fatto che la nostra tradizione non ha mai sottovalutato il valore dell’istinto sano della classe, anche quando questo si addormenta o si lascia ammansire dall’oppio inoculato a piene mani dalla classe dominante e dall’opportunismo. Il comunismo rivoluzionario, mentre sottolinea che senza teoria non c’è Rivoluzione, sa bene che è la forza, nel momento culminante, la necessaria violenza della classe che permetterà al partito di dirigerla verso il socialismo.
Ed allora ci si domanda, non siamo forse ancora una volta all’ennesima metamorfosi del più sottile e devastante opportunismo di matrice staliniana? Indubbiamente è il meno che il segretario del P.C.I. poteva fare di fronte al vergognoso crollo, da noi preconizzato da oltre 60 anni, dei regimi dell’Est.
Ma la mossa d’Occhetto, lasciando scoperta la COSA, mira al viscido tentativo di tenere il proletariato incollato nella pania del regime della democrazia. Non per niente il P.C.I., che avvolgendosi nella bandiera e nel nome di Comunista ha potuto illudere una classe operaia battuta duramente dalla controrivoluzione, oggi si trova nella condizione di scrollarsi di dosso lo stigma d’una denominazione che esige forza, violenza, istinto di classe, mentre il democratico esige decadenza, mansuetudine, adattamento... sacrificio!
È dunque venuto il momento di chiarire per una volta ancora la nostra Tesi di sempre secondo la quale, a scanso di ulteriori delusioni, equivoci e contorcimenti, l’opportunismo, che sembra tanto deciso in questa fase a sotterrare ogni illusione “comunista”, si troverà ancora nella necessità di riesumare il NOME per attrarre le masse proletarie sotto le sue vergognose bandiere. Per questo, mentre siamo confermati del tradimento degli Occhetto e compagni, non ci illudiamo affatto che da un giorno all’altro i proletari vengano a chiedere l’inquadramento del partito comunista vero. Anzi, purtroppo, senza ripresa su vasta scala di lotte generalizzate di difesa e di attacco contro il capitale, nonostante tutti i NOMI e le vociferazioni, non sarà all’ordine del giorno la Rivoluzione.
Si verificheranno nel partitaccio lotte intestine e formazioni anche ufficiali di zoccoli duri, tutti utili a colpire sui denti la classe operaia. Non crediamo nelle confessioni di fallimento: i mentitori hanno la funzione di mentire, non quella di ammettere la verità.
La povera COSA di Occhetto alla ricerca del nome diverrà sempre più appiccicosa e viscida, i suoi eredi gli celebreranno congressi e ludi verbali, ma noi, fermi nella nostra tesi materialistica, confidiamo che solo la lotta reale, sul terreno economico-sociale e politico, trasformerà la morta gora in guerra decisiva per il socialismo.
12 – Il prosaico Gorbaciov
Il grande romanzo dell’Orso sta giungendo al suo termine. Il mercato interno è stato costruito e la grande potenza economica russa proclama la sua intenzione di scendere sul mercato mondiale.
Dalla coesistenza pacifica tra due mondi si passa alla interdipendenza tra i due mercati enunciata da Gorbaciov:
«Nel complesso viviamo in pace da molto tempo. Ma l’attuale situazione internazionale non può essere considerata soddisfacente (...) Rendere più umane le relazioni internazionali è la sola via d’uscita, per quanto difficile. Ecco in che modo noi poniamo la questione: è necessario superare le divergenze ideologiche. Ognuno compia la sua scelta, e gli altri la rispettino. Perciò è necessario un nuovo pensiero politico, che proceda dal riconoscimento dell’interdipendenza generale e dall’idea che la civiltà deve sopravvivere» (Gorbaciov, Perestrojka).
Nel corso dell’incontro con gli industriali italiani avvenuto durante la sua ultima visita in Italia (dicembre 1989) Gorbaciov ha espressamente annunciato la compatibilità e l’interdipendenza tra il sistema economico socialista e quello capitalista.
L’obbiettivo di Gorbaciov è un sistema dove «mercati di aree diverse sono interdipendenti tra loro (...) Le difficoltà non ci devono scoraggiare, non è vero che il sistema economico socialista e quello occidentale sono incompatibili».
Ma la produttività del lavoro russo è enormemente inferiore a quella occidentale. E quel che è peggio, nel corso degli anni ’80 il ritardo nello sviluppo della tecnica rispetto ai paesi capitalistici avanzati occidentali è aumentato, tra i lamenti disperati della dirigenza russa.
«Durante una certa fase (e questo appare particolarmente chiaro nella seconda metà degli anni ’70) accadde qualcosa a prima vista inesplicabile. Il paese incominciò a perdere il suo slancio. Gli insuccessi economici divennero più frequenti. Si formò una specie di “meccanismo frenante” che influiva sullo sviluppo sociale ed economico. E ciò avvenne in un periodo in cui la rivoluzione scientifica e tecnologica schiudeva nuove prospettive di progresso sociale ed economico (...) Analizzammo la situazione e scoprimmo innanzitutto un rallentamento della nostra crescita economica. Negli ultimi 15 anni i tassi di crescita del reddito nazionale erano declinati più della metà, e all’inizio degli anni ’80 erano caduti a un livello molto prossimo a quello della stagnazione economica. Un paese che un tempo si stava rapidamente avvicinando alle nazioni più progredite del mondo incominciava a perdere posizioni su posizioni. E lo scarto nell’efficienza della produzione, nella qualità dei prodotti, nel progresso scientifico e tecnologico, nella produzione delle tecnologie avanzate e nell’uso delle tecniche avanzate incominciava ad allargarsi, non certo a nostro vantaggio».
Ciò che è un indice della senilità della struttura capitalistica russa – la diminuzione del tasso di crescita economica – appare a Gorbaciov come il risultato di uno specifico metodo di accumulazione del capitale (da lui d’altronde gabellato stalinisticamente per socialismo): l’accumulazione orizzontale quantitativa detta anche accumulazione estensiva.
Da volgare riformista e borghese quale è Gorbaciov pensa che la volontà politica possa rovesciare la tendenza storica decrescente dell’accumulazione capitalistica.
La giovane economia capitalistica russa sotto la direzione stalinista e post-stalinista ha conosciuto tutte le fasi previste dalla teoria economica marxista, in forma accelerata solo perché è stato l’ultimo grande capitalismo affacciatosi sulla scena storica. Come tutti i capitalismi ha tentato di contrastare, con ciò confermandola, la legge tendenziale della discesa degli incrementi medi annui della produzione – forma fenomenica della legge della caduta tendenziale del saggio di profitto – legge valida solo per i periodi tipici dello sviluppo storico del capitalismo e non per le congiunture trimestrali a cui si ferma la degenerata scienza economica borghese compresa quella russa, mediante una estensione orizzontale del capitalismo dilagante dall’Europa verso la barbara Asia.
Parlare
di accumulazione orizzontale o estensiva non vuol dire negare, come
sembra fare Gorbaciov, che in Russia sia avvenuta anche
un’accumulazione intensiva e “verticale” del capitale. Vuol
dire semplicemente constatare che nella Russia stalinista e
brezneviana la produzione quantitativa, soprattutto nell’industria
pesante, era diventata la massima priorità.
A differenza di quello che pensa Gorbaciov il capitalismo russo seguiva le sue inesorabili leggi travolgendo tutti gli ostacoli al suo dilagare. Non era la borghesia sovietica a dettare al capitale i modi e ritmi del suo sviluppo, ma quest’ultimo dittava con le sue leggi economiche sullo Stato russo e i suoi dirigenti. Come ogni capitalismo sviluppantesi sotto il mantello del protezionismo, esso prediligeva l’estensione orizzontale e quantitativa a scapito della qualità e dell’intensità. Solo quando sarebbe stato pronto a scendere nell’arena del mercato mondiale il capitalismo russo si sarebbe posto il problema della competitività economica dei prodotti e quindi della “ristrutturazione”, della sua composizione organica. Nel frattempo i costi dell’accumulazione quantitativa sarebbero stati pagati dal proletariato russo, compreso quello futuro, a causa dello sciupio delle ricchezze naturali.
A Gorbaciov tutto il processo appare capovolto come in uno specchio. È stata la volontà politica stalinista ad imporre al capitale russo un modello di accumulazione (riconosciuto d’altronde valido almeno fino agli anni ’40) tra i molti possibili.
«Il dogmatismo stimolò l’evolversi di una economia “spendereccia” che acquistò un grande slancio e continuò ad esistere fino alla metà degli anni ’80. È qui che ha le sue radici la famigerata mentalità della “produzione quantitativa” che fino a tempi recenti ha dominato la nostra economia».
Il “dogmatismo” di cui si lamenta Gorbaciov sono gli ultimi brandelli della teoria economica marxista che in forma distorta e degenerata compaiono nello schema economico staliniano:
«Fu in questa situazione che si affermò una mentalità piena di pregiudizi sul ruolo delle relazioni beni-moneta e della legge del valore nel quadro del socialismo; e spesso venne affermato che erano contrarie ed estranee al socialismo. Tutto questo si univa a una sottovalutazione della contabilità profitti-e-perdite e produceva disordine nei prezzi e disinteresse per i problemi della circolazione monetaria».
L’economia russa ancora adesso è una economia capitalistica in cui il plusvalore assoluto gioca un ruolo prioritario rispetto al plusvalore relativo, al contrario di quanto avviene nei paesi capitalistici sviluppati di Occidente. È una economia più “estensiva” che “intensiva”.
«L’analisi del rendimento dell’industria ha mostrato vari errori nella politica degli investimenti. Per molti anni la nostra politica è consistita nel creare sempre nuove aziende. La costruzione di stabilimenti ed edifici amministrativi assorbiva somme enormi. Nel frattempo le aziende esistenti restavano allo stesso livello tecnologico. Naturalmente, se si fa buon uso in due o tre turni di tutto ciò che è disponibile, si possono realizzare gli obiettivi del XII piano quinquennale usando i macchinari esistenti».
Per Gorbaciov la politica di accumulazione estensiva stalinista oltre a dissipare le ricchezze naturali del paese aveva il grave difetto, creando una carenza costante di manodopera anche non qualificata, di rendere difficile l’aumento dell’estorsione dello stesso plusvalore assoluto e di impedire la formazione di una vera aristocrazia del lavoro a causa del livellamento dei salari e delle condizioni di vita.
«Con il passare del tempo, le risorse materiali diventarono più difficili e costose da ottenere. D’altra parte i metodi estensivi dell’espansione del capitale fisso portavano a una carenza artificiale della manodopera. Nel tentativo di rimediare alla situazione si incominciò a pagare premi cospicui, ingiustificati e immeritati, sotto la pressione di tale scarsità (...) Si andava affermando una mentalità parassitaria, il prestigio della manodopera coscienziosa e qualificata cominciava a diminuire e si diffondeva la tendenza al livellamento delle retribuzioni. Lo squilibrio tra la misura del lavoro e la misura del consumo, che era diventato il perno del meccanismo frenante, non soltanto ostacolava la crescita della produttività, ma portava alla distorsione del principio della giustizia sociale. E quindi l’inerzia dello sviluppo economico estensivo stava conducendo al vicolo cieco della stagnazione economica».
La soluzione gorbacioviana per uscire dalla stagnazione economica ed affrontare a viso aperto la concorrenza sul mercato mondiale consiste in una drastica ristrutturazione dell’apparato produttivo russo e delle condizioni di lavoro del proletariato. È imperativo per l’economia sovietica aumentare l’estorsione sia del plusvalore assoluto mediante la riduzione dei tempi di lavoro sia del plusvalore relativo mediante l’estensione del macchinismo e dell’automazione.
Perché ciò avvenga bisogna rinsaldare l’ordine e la disciplina del lavoro.
«Nel Plenum dell’aprile 1985 riuscimmo a proporre un programma sistematico e ben ponderato, e a delineare una strategia concreta per l’ulteriore sviluppo del paese, nonché un piano di azione (...) Non era possibile attendere oltre; anche così si era perduto fin troppo tempo. Il primo problema che si poneva era migliorare la situazione economica, arrestare ed invertire le tendenze sfavorevoli in tale sfera. Le priorità più immediate, che ovviamente prendemmo in considerazione per prime, stavano nel ridare all’economia una specie di ordine, rinsaldare la disciplina, elevare il livello dell’organizzazione e delle responsabilità e rimetterci in pari nei settori in cui eravamo indietro. Durante l’anno furono elaborati programmi vasti e concreti nei campi principali della scienza e della tecnologia: e questi programmi mirano a realizzare risultati decisivi e a raggiungere il livello mondiale entro la fine di questo secolo (...) La priorità è passata dalle nuove costruzioni all’ammodernamento tecnico delle aziende, all’economia delle risorse, al miglioramento della qualità».
Ed ancora:
«Abbiamo elaborato ed adottato un programma vasto ed esauriente per il progresso scientifico e tecnologico, che miri ad accrescere notevolmente l’efficienza della produzione e a raddoppiare o triplicare la produttività entro l’anno 2000».
In questo svolto il socialismo romantico di Stalin diventa un ostacolo. Una politica che apertamente afferma la necessità di incrementare i ritmi del lavoro, di rinsaldare la disciplina dispotica del capitale sul lavoro, di chiudere le fabbriche che lavorano in perdita o che operano con scarsa efficienza è ostacolata dall’ideologia romantica staliniana che identifica il socialismo con l’uguaglianza economica e con tutte le garanzie assistenziali ed economiche offerte dallo Stato (anche se la realtà è sempre stata molto differente dalla propaganda staliniana).
La bestia nera del gorbaciovismo è costituita, più che dalle dichiarazioni ideologiche dei nostalgici, dagli acquisti sociali della rivoluzione di cui beneficia tuttora il proletariato russo. Le difficoltà incontrate dal regime nell’introdurre differenziazioni dentro la classe attraverso incentivazioni materiali e la formazione di una aristocrazia del lavoro; il rifiuto organico della maggior parte degli operai, particolarmente dei non qualificati, della ristrutturazione dell’apparato produttivo, che significa per la classe più pena di lavoro e più disciplina (un’inchiesta sovietica ha accertato che il 61% degli operai sovietici è contrario alla perestrojka in fabbrica). Le garanzie godute dalla classe in materia di posto di lavoro, assistenza medica, scolastica etc. strappano a Gorbaciov grida di odio, disprezzo e livore contro il proletariato.
Gorbaciov esprime l’attuale impotenza della dirigenza russa che non può permettersi un attacco frontale per privare il proletariato di ciò che a livello sociale rimane dopo 72 anni dalla rivoluzione d’Ottobre perché, obtorto collo, legato dalla ideologia professata che fa della classe operaia, a parole, la classe dirigente della società e dello Stato.
«La perestrojka strappa dall’abituale stato di calma e di soddisfazione per il mondo di vita esistente. A questo punto ritengo appropriato attirare la vostra attenzione su una caratteristica specifica del socialismo. Sto pensando all’alto grado di protezione sociale della nostra società. Da una parte è senza dubbio un beneficio, una nostra grande realizzazione; ma dall’altra trasforma certe persone in parassiti. Virtualmente la disoccupazione non esiste. Lo Stato si è assunto l’onere di assicurare il posto di lavoro. Persino una persona licenziata per pigrizia o per infrazione alla disciplina del lavoro deve avere un altro impiego. Anche il livellamento delle retribuzioni è diventato una caratteristica abituale della nostra vita quotidiana; persino un pessimo lavoratore riceve quanto basta per vivere decentemente. I figli di un parassita non vengono abbandonati al loro destino (...) L’assistenza sanitaria è gratuita, e così pure l’educazione (...) Tuttavia ci rendiamo conto che individui disonesti cercano di sfruttare questi vantaggi del socialismo: conoscono soltanto i loro diritti ma non vogliono saperne dei doveri; lavorano alla meno peggio, evitano di impegnarsi e bevono parecchio. Vi sono molti che hanno adattato le leggi e le consuetudini esistenti al proprio interesse egoistico. Danno pochissimo alla società; ma sono riusciti a strapparle il più possibile e persino l’impossibile, e vivono di redditi che non hanno guadagnato».
Come ogni borghese che si rispetti, Gorbaciov considera parassita ogni operaio che tenta di difendersi dal capitale:
«Mostro animato che comincia a lavorare come se gli fosse entrato amore in corpo» (Il Capitale).
Non possiamo qui riportare la splendida analisi leniniana sul carattere parassitario del capitalismo imperialista. Possiamo solo ricordare a Gorbaciov e ai suoi simili che l’unico vero parassita è il moderno capitalismo il cui parassitismo è dato dal fatto che il "massimo di margine e di controllo sociale si allontanano sempre più dalle mani degli elementi positivi ed attivi e si concentrano in quelle degli speculatori, e del banditismo affaristico" (“Dottrina del diavolo in corpo”) quali sono appunto Gorbaciov e tutta la sua ghenga.
Il nocciolo duro della resistenza alla perestrojka gorbacioviana sta non tanto nei cosiddetti “conservatori” alla Ligaciov quanto nelle grandi concentrazioni industriali. Per questo una delle prime misure di Gorbaciov è stato il divieto degli scioperi operai. D’altra parte è nelle fabbriche cinesi che si è abortita la riforma economica di Deng, molto prima che la chiassosa piccola borghesia urbana scendesse in piazza a protestare e a richiedere una maggior partecipazione alla divisione del plusvalore operaio (sotto le ampollose parole d’ordine di democrazia, libertà e simili fesserie).
Gorbaciov enumera tutti gli strati sociali favorevoli alla perestrojka, ed in prima fila troviamo non certo il proletariato, ma la feccia del parassitismo sociale, quell’intelligenza sovietica che da 70 anni striscia ai piedi della canaglia stalinista e raccoglie le briciole del plusvalore estorto, mentre guarda, bramosa ed invidiosa, i prezzolati fratelli di occidente ben altrimenti pasciuti:
«L’intellighenzia ha appoggiato con entusiasmo la ristrutturazione (...) I congressi delle “unioni creative” di registi, scrittori, artisti, compositori, architetti, drammaturghi e giornalisti sono stati caratterizzati da vivaci dibattiti. Tutti i congressi si sono pronunciati a favore della perestrojka».
Un sordo silenzio operaio ha finora accolto la propaganda gorbacioviana, silenzio che ha fatto posto in alcune occasioni a grandiosi scioperi come quello dei minatori, buon auspicio per una netta risposta di classe alla politica economica dell’attuale dirigenza.
Ridotto all’essenziale il problema si riduce per il gorbaciovismo a creare una forte testa di ponte all’interno della classe operaia industriale che faccia propria la politica di ristrutturazione, perché, al di là delle fregnacce della moderna degenerata sociologia borghese, è sempre la classe operaia industriale la classe decisiva, è la sua relativa neutralità o indifferenza che consente alla borghesia di dominare il mondo. Dividere la classe operaia al suo interno è la parola d’ordine essenziale della perestrojka: creare una aristocrazia del lavoro che in cambio di un miglioramento delle sue condizioni di vita si faccia portavoce e difensore del più spaventoso attacco alle condizioni degli operai di Russia:
«Perestrojka è l’elevazione del lavoratore onesto e
qualificato, il superamento delle tendenze livellatrici nelle
retribuzioni».
Anche qui Gorbaciov deve lottare contro le conquiste sociali della Rivoluzione. Creare una aristocrazia del lavoro significa contrapporre una minoranza della classe con redditi più elevati e maggiori garanzie di lavoro e sociali alla maggioranza con redditi più bassi, lavoro più precario e minori garanzie.
Sin dal suo nascere il capitalismo ha cercato di esportare nella classe operaia l’ideologia di competizione e di concorrenza tipica della borghesia, e sin dai suoi primi passi il movimento operaio, anche prima che lo permeasse la teoria comunista, oppose a questa ideologia, per la quale il progresso collettivo nasce solo dalla competizione dei singoli, la solidarietà tra i lavoratori. La vittoria dell’ideologia competitiva e concorrenziale è una tremenda iattura per il movimento proletario e l’ideale per il padronato, che lusingando una minoranza dei lavoratori per una elevazione del salario giungerebbe a realizzare da tutta la massa un profitto maggiore.
Mentre il borghese e il piccolo borghese al pari di Gorbaciov fanno leva sugli istinti più bassi e primordiali, possiamo dire animaleschi, della bestia individuo, la dottrina socialista di Partito, condannando ogni concorrenza propria del borghese, non si riduce allo scopo individuale di migliorare sé stesso, ma a quello di migliorare tutta la società, sola liberazione della classe dominata.
Abbiamo già visto come Gorbaciov innalzi lamenti al cielo a causa delle eccessive, a suo dire, garanzie godute dal proletariato sovietico. Si tratta ora di mobilitare tutti i parassiti sociali e lo strato più qualificato del proletariato in nome delle differenziazioni sociali e retributive.
Ora, pur sussistendo differenze di condizioni di vita e di lavoro all’interno del proletariato, esso è abbastanza omogeneo, le differenze economiche non sono così marcate come in occidente. La Russia è fondamentalmente una società ricardiana e non malthusiana; l’espansione della sottosezione IIb dei beni di lusso è ancora ai suoi inizi, ed ha solo sfiorato alcuni strati alti del proletariato. Non solo, ma l’ideologia ufficiale sovietica ha, prima dell’avvento di Gorbaciov, esaltato atteggiamenti “collettivistici” (per la patria, per il popolo, per il socialismo, per l’internazionalismo proletario) e non “individualistici”. Lo stesso Gorbaciov in Perestrojka polemizza contro il consumismo occidentale. La coscienza sociale, questo Gorbaciov lo sa molto bene, confermando la dottrina marxista, funge da potente freno ai cambiamenti postulati dall’attuale gruppo dirigente sovietico.
Questo spiega l’ossessionante attacco portato da Gorbaciov e dai suoi uomini contro l’egualitarismo e le ideologie egualitarie e collettiviste e la sua esaltazione acritica e ultra liberale dell’individualismo.
«L’intensificazione della produzione sociale suggerisce un nuovo atteggiamento nei confronti dell’impiego efficiente e richiede un riordinamento della forza lavoro. Mentre operiamo in questa direzione, dobbiamo considerare con attenzione come viene applicato il principio della giustizia sociale. La pratica diffusa dell’egualitarismo è stata una delle principali deformazioni degli ultimi decenni (...)
Ecco in che modo il XXVI Congresso del PCUS ha formulato il problema della giustizia sociale: nel socialismo, il fondamento della giustizia sociale è il lavoro. Soltanto il lavoro determina il vero posto del cittadino nella società, la sua posizione. E ciò preclude ogni manifestazione di egualitarismo.
Gli atteggiamenti egualitaristici rispuntano ogni tanto anche adesso. Certi cittadini hanno inteso l’appello alla giustizia sociale come “egualizzare tutti”. Ma la società richiede con insistenza che il principio del socialismo venga trasposto con fermezza nella vita. In altre parole, ciò che più apprezziamo è il contributo dato da un cittadino al paese.
Dobbiamo incoraggiare l’efficienza nella produzione e il talento di uno scrittore, di uno scienziato e di ogni altro cittadino onesto e operoso. Su questo punto teniamo ad essere molto chiari: il socialismo non ha nulla a che fare con il livellamento. Il socialismo non può assicurare condizioni di vita e di consumi secondo il principio: “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”. Sarà così sotto il comunismo. Il socialismo ha un criterio diverso per la distribuzione dei benefici sociali: “Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo il suo lavoro”. Non vi è sfruttamento dell’uomo ad opera dell’uomo, non vi è divisione tra ricchi e poveri, tra milionari e mendicanti (...) tutti hanno un posto di lavoro garantito; abbiamo l’istruzione secondaria e superiore gratuita e servizi sanitari gratuiti; i cittadini hanno una vecchiaia assicurata. Questa è la concretizzazione della giustizia sociale sotto il socialismo».
Ritorneremo oltre sulla questione del rapporto su socialismo ed eguaglianza e dimostreremo come la soluzione gorbacioviana, al pari di quella staliniana, sia mille miglia lontana da quella marxista. Sta comunque il fatto inconfutabile per dichiarazione stessa di Gorbaciov che l’egualitarismo è difeso dal proletariato:
«L’egualitarismo va ripensato. Perché troppo spesso è stato considerato in modo semplicistico; la distribuzione eguale per tutti, livellata per tutti, ha spesso trovato il favore delle masse» (Igor Konf, membro dell’accademia delle scienze, gorbacioviano di ferro, citato dalla Stampa).
La politica di differenziazione sociale all’interno della classe mediante incentivazione materiale si accompagna ad una controffensiva ideologica. Essa viene esplicitamente teorizzata dai gorbacioviani:
«In Unione Sovietica c’è bisogno prima di tutto di una perestrojka psicologica» (Igor Konf) che rivaluti l’individualismo, perché «il ruolo dell’individuo è stato sottovalutato troppo a lungo, in ogni sfera della nostra vita, dalla cultura all’economia».
La perestrojka ideologica ha il compito di risvegliare l’uomo, abituarlo a non aver paura dell’indipendenza e della libertà (libertà di arricchirsi, di essere proprietario, ma anche di essere licenziato, senza garanzie sociali, ecc). Il suo punto di partenza è l’individualismo, l’esaltazione della persona e delle sue libertà:
«Da noi questi concetti hanno avuto un senso soltanto negativo, sono diventati sinonimo di egoismo. Mentre individualismo significa anche dell’altro, come la tradizione europea dimostra: significa, per esempio, riconoscimento dei valori dell’individuo».
Per convincere il proletario a sobbarcarsi i costi sociali della ristrutturazione, Gorbaciov riprende ad agitare il feticcio della persona umana, sempre deriso dai marxisti, i quali hanno dimostrato come gli apologeti di questo feticcio siano gli stessi che lo pestano con osceno cinismo come si può fare con una manciata di lumache nel mortaio.
Per i marxisti rivoluzionari ad ogni trapasso da modi di produzione semplici ai nuovi, più complessi, aumenta la rete delle relazioni sociali tra il singolo e tutti i suoi simili, diminuiscono le condizioni designate con termini pomposi di autonomia e libertà
«Gli individui hanno sempre preso le mosse da se stessi, ma naturalmente da un sé nell’ambito delle loro date condizioni e situazioni storiche (...) Ma nel corso dello sviluppo storico, e proprio attraverso l’indipendenza inevitabile che entro la divisione del lavoro acquistano i rapporti sociali, emerge una differenza tra la vita di ciascun individuo in quanto essa è personale, e in quanto è sussunta sotto un qualche ramo di lavoro e sotto le condizioni relative (...) Nell’orda (e più ancora nella tribù) questo fatto rimane ancora nascosto (...) La differenza fra l’individuo personale e l’individuo come membro di una classe, la casualità delle condizioni di vita per l’individuo, si ha soltanto con la comparsa della classe, che a sua volta è un prodotto della borghesia. Solo la concorrenza e la lotta degli individui tra di loro produce e sviluppa questa casualità come tale. Quindi sotto il dominio della borghesia gli individui sono più liberi di prima, nell’immaginazione, perché per loro le loro condizioni di vita sono casuali; nella realtà sono naturalmente meno liberi perché più subordinati a una forza oggettiva» (Marx-Engels, Ideologia tedesca, vol. V, pag.64).
L’individualismo si affievolisce, la persona umana si impoverisce. Tanto più ricco e articolato diviene il mondo oggettivo, tanto più la soggettività dell’uomo singolo diventa povera e dimessa. Avviene per tutta la società quello che accade per la classe operaia nel processo di produzione immediato. La potenza dell’operaio si estranea e si oggettiva al suo esterno dominandolo: tanto più egli si azzera divenendo una rotella dell’automa-macchina, tanto più questo si enfia mostruosamente tanto più l’esistenza umana si estranea e si oggettiva nell’infinita rete dei rapporti sociali lasciando l’uomo singolo come un misero guscio vuoto, pupazzo senza vita e volontà, mosso dai fili dell’automa-capitale, sia esso in basso sia in alto nella gerarchia sociale.
Il borghese moderno che difende la proprietà vede il processo storico alla rovescia, come un susseguirsi di tappe di svincolamento dell’individuo-uomo dai legami sociali, come un arricchimento ed elevazione della Persona umana.
Per il marxismo rivoluzionario questo processo di arricchimento consiste nella riduzione di tutte le pulsioni dell’essere all’unica pulsione dell’avere. La persona non può essere scissa dalla proprietà:
«Individuo, persona e proprietà si intonano bene. Dato il principio falso: il mio corpo è mio, e così la mia mano; l’utensile con il quale sempre più li prolungo per lavorare, è anche mio (...) I prodotti della mia mano e dei suoi vari prolungamenti sono anche miei: la Proprietà è dunque un immarcescibile attributo della Persona» (“Il programma rivoluzionario della società comunista”, P. C. 1958, n.16/17).
Quando Gorbaciov afferma che l’uomo “sovietico” deve essere liberato dall’inerzia del passato, deve essere reso autonomo e indipendente, deve sviluppare la sua spiritualità vuol dire più prosaicamente che deve essere reso proprietario:
«Il compito indispensabile e foriero di successo, consiste nello “svegliare” quanti si sono “addormentati”, attivarli e coinvolgerli per fare in modo che ognuno abbia la sensazione di essere il padrone del paese, della propria azienda, dell’ufficio o dell’istituto» (Perestrojka).
Ed ancora
«È evidente, dall’esempio dei collettivi delle fattorie a contratto e a gestione familiare, che la nostra gente sentiva la mancanza del ruolo di proprietario. Non soltanto molti aspirano a guadagnare di più, il che è comprensibile, ma vogliono farlo onestamente. Vogliono per l’appunto guadagnare, non mungere lo Stato. Tale desiderio si inquadra completamente nello spirito socialista, e quindi non devono esserci restrizioni».
Acquisire una mentalità e "un modo di agire da proprietari" è una delle parole d’ordine centrali della perestrojka. Esso si accompagna a continui richiami ed alla necessità di "una vasta democratizzazione di tutti gli aspetti della società" e "dell’autogestione dei lavoratori". Questo richiamo alla democratizzazione e all’autogestione non è in contraddizione con le misure di accentramento del potere (Gorbaciov oggi accentra formalmente più potere di quanto ne accentrasse Stalin) e con la negazione del diritto di sciopero ai proletari. È l’altra faccia della stessa medaglia del dominio borghese. La democrazia è sempre democrazia di proprietari; la libertà è sempre libertà della proprietà (e questo è tanto più vero quanto più la proprietà privata è abolita come in seguito dimostreremo sulla scorta di Marx).
«La libertà è dunque il diritto ad esercitare tutto ciò che non nuoce ad altri (...) Si tratta della libertà dell’uomo in quanto monade isolata e ripiegata su se stessa (...) Ma il diritto dell’uomo alla libertà si basa non sul legame dell’uomo con l’uomo, ma piuttosto sull’isolamento dell’uomo dall’uomo. Esso è il diritto a tale isolamento, il diritto dell’individuo limitato, limitato a sé stesso. L’utilizzazione pratica del diritto dell’uomo alla libertà è il diritto dell’uomo alla proprietà privata» (Marx, La Questione ebraica).
Il diritto della proprietà privata è il diritto dell’uomo alienato a sé stesso, ripiegato su sé stesso, separato dall’uomo e dalla comunità:
«Il diritto dell’uomo alla proprietà privata è dunque (...) il diritto dell’egoismo. Quella libertà individuale, come questa utilizzazione della medesima, costituiscono il fondamento della società civile. Essa lascia che ogni uomo trovi nell’altro uomo non già la realizzazione, ma piuttosto il limite della sua libertà».
Individuo, persona, proprietà sono la triade controrivoluzionaria contro cui sin dalla sua nascita ha combattuto il Partito comunista.
«La borghesia chiama l’abolizione di questo stato di cose abolizione della personalità e della libertà! E ha ragione. Perché si tratta, effettivamente, di abolire la personalità, l’indipendenza e la libertà del borghese! Per libertà si intende entro gli attuali rapporti borghesi di produzione, il commercio libero, la libera compra e vendita. Ma tolto il commercio, sparisce anche il libero commercio (...) Voi inorridite all’idea che noi vogliamo abolire la proprietà privata. Ma nell’attuale vostra società la proprietà privata è abolita per nove decimi dei suoi membri; anzi, essa esiste precisamente in quanto per quei nove decimi non esiste. Voi ci rimproverate dunque di voler abolire una proprietà che ha per condizione necessaria la mancanza di proprietà per l’enorme maggioranza della società. In una parola, voi ci rimproverate di voler abolire la vostra proprietà. È vero: È questo che vogliamo (...) Voi confessate che per persona non intendete altro che il borghese, il proprietario borghese. Ebbene, questa persona deve effettivamente essere abolita» (Il Manifesto).
Se l’individualismo è il nemico storico dei marxisti nel campo storico-filosofico, l’elettoralismo lo è in quello politico e il mercantilismo nel campo economico". Ogni accostata verso questi rombi insidiosi per un apparente vantaggio, vale il sacrificio dell’avvenire del partito al successo del giorno, o dell’anno; vale la resa a discrezione davanti al mostro della controrivoluzione" (“Testi sul comunismo”).
La perestrojka psicologica si è assegnato il compito di ricostruire il nuovo uomo sovietico. La chioccia staliniana ha finalmente schiuso il suo mostriciattolo: l’homo sovieticus proprietarius.
Origini e Storia della Classe Operaia Inglese
(VII - continua dal numero scorso)
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Appunti per la Storia della Sinistra
La
battaglia contro la distruzione del Partito
Nella 9° seduta del VI E.A. (25 febbraio 1926) il rappresentante della Sinistra italiana, prendendo la parola in sede di discussione sul rapporto dell’Esecutivo, ebbe a dire:
«Si dice sempre "il sistema di Bordiga, la teoria di Bordiga, la metafisica di Bordiga" e si stabilisce che io qui sono completamente solo che difendo sempre e soltanto le mie idee personali e la mia critica personale. Si vuol presentare il mio atteggiamento come di natura assolutamente personale»
Non vi fu oratore, infatti, che durante questa assise internazionale non sentisse la necessità di citare Bordiga, di attaccare Bordiga.
Anche in questa occasione, Togliatti, che aveva da far dimenticare i suoi lontani trascorsi di Sinistra, volle distinguersi nel coro degli accusatori:
Lasciamo per ora da parte ogni commento, più avanti vedremo da chi ed in che modo venne operata la distruzione del partito comunista. Però, anche senza entrare nel merito della difesa del partito da una linea politica che lo avrebbe dovuto portare alla distruzione, dobbiamo dire che il problema non era così semplice come Togliatti cercava di farlo apparire. Il rappresentante della Sinistra italiana non si era recato a Mosca per intrattenere i convenuti con «prodotti intellettuali individuali» ma, per rappresentare di fronte ad essi il pensiero della Sinistra comunista italiana; Sinistra che, malgrado i risultati “ufficiali”, costituiva la maggioranza del partito e, quello che più importa, costituiva il tessuto connettivo dell’intera organizzazione del partito: quella legale e quella illegale.
Così i bolscevizzatori, per preservare il partito dalla distruzione, verso la quale un falso capo rivoluzionario lo stava conducendo, dovettero smontare pezzo per pezzo tutta la vecchia struttura organizzativa. Vecchi compagni di solida fede e di provate capacità dovettero lasciare i loro posti di responsabilità a quanti supplivano queste qualità con la “souplesse leninista” e l’adesione incondizionata al verbo moscovita. Se nel passato le funzioni di responsabilità erano state affidate a quei compagni che organicamente si selezionavano in base alle necessità del partito ed alle loro qualità personali, con la bolscevizzazione, al contrario, venivano unicamente richieste dichiarazioni di abiura dei trascorsi di Sinistra e disposizione a combatterla con tutti i mezzi. Le disastrose conseguenze di questo “rinnovamento” non tardarono a manifestarsi.
La sera del 31 ottobre 1926, a Bologna, viene sparato un colpo si pistola contro Mussolini. Immediatamente i fascisti si gettano sopra Anteo Zamboni, un ragazzo di 16 anni, e lo uccidono a pugnalate sul posto, poi, dopo che il cadavere è stato trascinato per le vie cittadine, viene impiccato. Il padre e la zia del ragazzo saranno in seguito condannati a 30 anni di reclusione per “complicità morale”.
La reazione del regime è immediata. Il “Popolo d’Italia” scrive: «Un regime rivoluzionario ha le sue leggi rivoluzionarie inesorabili che lo salvaguardano». In tutte le città e paesi d’Italia le sedi dei partiti e dei giornali antifascisti sono devastate, gli oppositori del regime arrestati, bastonati, assassinati, le loro abitazioni saccheggiate. Ai prefetti è dato ordine di "sospendere fino a nuova disposizione, per misura di ordine pubblico, tutti i giornali d’opposizione".
Il 5 novembre il Consiglio dei Ministri approva delle misure che entreranno immediatamente in vigore: revisione di tutti i passaporti; sanzioni severissime contro i tentativi di espatrio clandestino; revoca a tempo indeterminato di tutti i giornali ostili al regime; scioglimento di tutti i partiti, associazioni ed organizzazioni non controllate dal regime; istituzione del confino di polizia; istituzione di un servizio di investigazione politica presso ciascun comando della MVSN. Farinacci ed altri reclamano la pena di morte con effetto retroattivo ed il linciaggio dei dirigenti dei partiti di opposizione.
L’8 novembre il capo della polizia, Bocchini, invia a tutti i prefetti il seguente telegramma:
«Pregasi vostra eccellenza disporre che questa notte si proceda a rigorosissime perquisizioni personali e domiciliari deputati iscritti partito comunista comunque presenti codesta provincia procedendo anche loro fermo fino disposizione questo ministero che dovrà vagliare elementi raccolti in perquisizioni».
Tutti i deputati comunisti, ad eccezione di Bendini, Gennari, Grieco, sono arrestati. Il giorno dopo la Camera approva la decadenza del mandato parlamentare di tutti gli oppositori. Nel corso di un’ora sono approvate le Leggi Speciali e la pena di morte.
Il partito comunista “bolscevizzato” rimase vittima della reazione fascista colto nella completa impreparazione. Nel giro di 48 ore centinaia e centinaia di compagni, per lo più dirigenti centrali e periferici, furono arrestati; Gramsci nel suo domicilio abituale a Roma, senza nemmeno fosse stato predisposto un recapito dove potersi rifugiare in caso di emergenza. Non era stata predisposta neppure una tipografia clandestina per continuare la stampa del giornale del partito.
Il C.C. riunitosi nei primi tre giorni di novembre, sembrò non accorgersi di quanto stava accadendo; nel rapporto che Camilla Ravera fece a Togliatti si diceva perfino che la situazione "obiettivamente favorisce il partito" e che "mano a mano che avverranno le scarcerazioni (molti compagni saranno o cominciano ad essere liberati) il partito riprenderà in pieno il suo funzionamento e la sua attività".
A questo sconsiderato ottimismo seguì, pochi giorni dopo, in seguito agli effetti della reazione, un altrettanto sconsiderato disfattismo. Tra diversi episodi che possono essere considerati dei propri atti di tradimento il più grave è certamente il seguente. Tra l’8 ed il 10 novembre i dirigenti della Centrale sfuggiti all’arresto si riunirono a Milano dove, su proposta di Tasca e con l’adesione di Grieco, e come aveva già fatto il P.S.I., fu approvata una mozione di scioglimento del Partito Comunista e la sua trasformazione in “gruppi di studio”. Anche se è vero che la decisione di scioglimento del partito fu immediatamente revocata, resta l’estrema gravità del fatto.
Ancora un volta, come dopo la crisi Matteotti, il Partito Comunista si dimostrò incapace di impostare una sua tattica autonoma e classista. Il rappresentante della Sinistra aveva bene messo a fuoco il problema quando al VI E.A. denunciava questa disattitudine del partito:
«Studio della situazione veramente stupefacente: se la situazione è reazionaria, per il partito comunista non c’è nulla da fare; se la situazione è democratica, c’è da fare per i partiti piccolo-borghesi. In questo modo il nostro partito, il partito comunista, scompare completamente dalla scena».
Il PCd’I fu dunque mantenuto in vita ed il 28 febbraio 1927, "nella prospettiva di un aggravarsi continuo della situazione italiana che renderà sempre più difficile il regolare funzionamento nell’Italia di organi politici dirigenti, decide la costituzione di un ufficio del partito all’estero". Del Centro Estero, con sede in Francia, facevano parte anche Tasca e Grieco cioè proprio coloro che, pochi mesi prima avevano decretato la liquidazione del partito comunista.
Un’altra organizzazione che pensò bene di adeguarsi alla nuova mutata situazione fu la C.G.L.: il 4 gennaio 1927, alcuni membri riformisti del Consiglio direttivo della C.G.L. redassero un documento in cui si dichiarava sciolta la Confederazione sindacale ed addirittura si invitavano gli iscritti ad entrare nei sindacati fascisti. Tra le altre cose il documento affermava:
«Il regime fascista è una realtà e la realtà va tenuta in considerazione. Questa realtà è scaturita anche da principi nostri quali si sono imposti. La politica sindacale del fascismo, per esempio, si identifica, sotto certi riguardi con la nostra (...) Il regime fascista ha fatto una legge certamente ardita sulla disciplina dei rapporti collettivi del lavoro. In questa legge vediamo accolti dei principi che sono pure i nostri (...) Noi saremmo in contraddizione con noi stessi se ci ponessimo contro lo Stato corporativo e la Carta del Lavoro che il regime fascista intende realizzare. Basta richiamare i nostri voti e i nostri progetti del passato per stabilire che siamo tenuti a contribuire con la nostra azione e la nostra critica alla buona riuscita di tali esperimenti».
Non avrebbe potuto esserci confessione più esplicita su quella che era sempre stata la funzione della socialdemocrazia e del riformismo sindacale, cioè di sostegno della classe dominante dall’interno della classe operaia, funzione che la scuola marxista rivoluzionaria aveva sempre denunciato e che ora era confermata personalmente dai dirigenti sindacali.
In risposta a questo atto di resa senza condizioni e di consegna nelle mani del nemico della classe operaia fu tenuto, circa un mese dopo, un congresso clandestino al quale parteciparono comunisti, massimalisti ed esponenti di varie altre correnti politiche. In tale convegno fu decisa la ricostituzione della C.G.L., fu formato un Comitato Provvisorio e venne lanciata la parola d’ordine: “Fuori dai sindacati Fascisti, tutti nei sindacati di classe!”. Ma, ancora una volta, quella che avrebbe potuto rappresentare una sana reazione, il tentativo di una riorganizzazione classista del proletariato contro il palese tradimento dei bonzi e la denuncia dei loro metodi filofascisti, divenne, per opera dei centristi, una occasione di politicantismo diplomatico.
Il tradimento dei dirigenti sindacali seguiva le direttrici di un copione ormai classico: i D’Aragona e soci, in Italia, rivendicando una continuità di intenti tra il sindacalismo riformista e quello fascista, confluivano nelle organizzazioni di regime; mentre i Buozzi con i suoi soci in Francia, rivendicando la medesima tradizione, per impedire il ricostituirsi di una organizzazione autonoma di classe, sconfessavano lo scioglimento della C.G.L., costituivano l’Ufficio Estero della Confederazione, prontamente riconosciuto dall’Internazionale di Amsterdam.
Compito principale del Partito Comunista sarebbe stato quello di sconfessare in blocco la politica riformista che aveva, effettivamente, spianato la via al fascismo, e ricostituire, nel limite del possibile, una organizzazione economica su basi di classe. Invece il PCd’I fece proprie quelle direttive sindacali, clamorosamente condannate dalla esperienza italiana, e mobilitò il proletariato dell’emigrazione per imporre ad Amsterdam il riconoscimento della organizzazione ricostituita come la «unica rappresentante della massa organizzata italiana».
Questo atteggiamento in campo sindacale, come quello per una intesa con i partiti socialdemocratici e borghesi antifascisti, come con le associazioni cattoliche, non potevano più considerarsi incidenti di percorso di un Partito Comunista non sufficientemente attrezzato programmaticamente; al contrario erano una palese ed intenzionale tattica democratica che nulla aveva più a che fare con la tradizione e la dottrina marxista.
Da ogni punto del partito, sia in Italia sia nella emigrazione, si registravano vive proteste della massa dei compagni per questa svendita totale del programma comunista, motivata dalla speranza di essere introdotti nel campo dell’antifascismo. I dirigenti stalinisti del PCd’I dovettero, perciò, impiegare tutte le loro energie e le loro risorse, nessuna esclusa, per difendersi dal partito e, di conseguenza, per distruggerlo.
Ormai da anni i dirigenti del PCd’I, in odore di santità moscovita, incapaci di sostenere una polemica contro i compagni della Sinistra, che esprimevano la reazione proletaria contro la loro politica di disfattismo, oltre a falsare le nostre posizioni di principio, facevano ricorso ad ogni sorta di insinuazioni e di insulti per offuscare le critiche della Sinistra di fronte alla base del partito.
Fino ad una certa data gli argomenti principali della lotta contro la Sinistra furono rappresentati dal terrore ideologico e dallo scandalismo contro i “frazionisti” e gli ”scissionisti” del partito e dell’Internazionale. I neo-revisionisti, utilizzando i mezzi e le possibilità messe a disposizione dal partito, compulsavano articoli ed esposizioni dei compagni della Sinistra e, distorcendone il significato, li mettevano in contrasto con la citazione di Lenin pronta per ogni bisogna. Attraverso questa vuota critica accademica si cercava di mobilitare i militanti di base contro la Sinistra.
Dal 1926 in poi, ma soprattutto dopo la sconfitta della rivoluzione cinese, il nome di Lenin divenne un’etichetta da potersi appiccicare dovunque; i militanti comunisti scoprirono allora un Lenin che finisce tra le braccia del Kuomintang, un Lenin che va di pari passo con i Kulaki e i nepman verso il miraggio del socialismo in un solo paese, un Lenin che riconosce i traditori delle Trade Unions come i veri rappresentanti del proletariato inglese, e via di questo passo. Questo piano di presentare un Lenin stalinista urtava troppo profondamente la coscienza maturata nei compagni che lo avevano ammirato come il capo della rivoluzione comunista. Allora il C.E. dell’Internazionale, in sintonia con tutti i partiti comunisti intensificarono i loro attacchi contro chiunque si opponesse ad un simile scempio.
Mentre i fatti stessi dimostravano quanta sciagurata fosse per il proletariato la nuova tattica dell’Internazionale, l’unica preoccupazione fu quella di mettere a tacere definitivamente l’opposizione.
Nella sua 3a sessione del 1928 il PCd’I votava una mozione in cui si diceva:
«Un problema su cui l’attenzione del C.C. si è fermata è stato quello di consentire o meno la permanenza nel partito di una opposizione alle direttive e alla tattica del partito (...) Non è assolutamente ammissibile, specie nelle condizioni terribili nelle quali il nostro partito è costretto a lavorare, che dei compagni si assumano il compito di gettare la sfiducia nelle file e si limitino ad una azione di critica la quale si alimenta delle difficoltà della situazione e dei disagi e delle persecuzioni che i compagni devono affrontare. D’altra parte l’esistenza di rapporti organici tra elementi sia pure isolati di opposizione è un motivo di debolezza del partito perché costituisce il canale attraverso al quale passa di frequente l’azione di provocazione e di spionaggio. Il C.C. ha sottolineato la necessità di allontanare dal partito tutti gli elementi sedicenti di opposizione (...) che non accetteranno di piegarsi alla disciplina di partito».
Gli stalinisti, dunque, dopo avere espulso una larga parte dei compagni della Sinistra e mentre si apprestavano alla espulsione in massa di tutti coloro che non si fossero “piegati” (bella terminologia rivoluzionaria!), si accorgevano della grave situazione interna del partito ma, ancora una volta, ne falsavano le cause e se ne servivano per sferrare ancora più a fondo i loro attacchi.
«Noi – rispondevano i compagni della Frazione – affermiamo che una crisi ed una grave crisi esiste, che una sfiducia ed una grave sfiducia colpisce le nostre file, ma la responsabilità di tutto ciò risiede unicamente nel fatto che si è voluto attribuire al partito comunista una linea politica che è molto affine a quella della socialdemocrazia, si sono voluti introdurre nel nostro partito i procedimenti gesuitici che distruggono le organizzazioni rivoluzionarie nello stesso tempo che danno un piccolo e provvisorio successo ai dirigenti. I fatti sono là a provarlo. Con la minaccia del terrore interno, delle espulsioni e delle ingiurie, si è atrofizzata e soffocata ogni iniziativa delle organizzazioni di base, si è incoraggiata la pigrizia dei compagni invitandoli a credere che il loro dovere consisteva puramente e semplicemente nell’affidarsi ai dirigenti, nell’applicare ciecamente le loro disposizioni soprattutto quando si trattava di bastonare gli elementi di sinistra del partito e di riverire gli elementi di sinistra dei vari partiti popolare, repubblicano, riformista e massimalista» (“Prometeo”, n. 3, 15-7-1928).
Il C.C. del PCI infine accusava la Sinistra di essere un canale per l’infiltrazione di spie all’interno del partito, riducendo così un importantissimo problema organizzativo in argomento di lotta politica. A questa manifesta canagliata “Prometeo” rispondeva nei seguenti termini:
«Se fossimo degli imbroglioni, degli speculatori della politica, risponderemmo denunciando il legame tra il C.C. e Mussolini attraverso il canale di un certo “Undici” che ha fatto cacciare 17 operai dal partito e che ancor oggi è tenuto nascosto dal partito»
Questo messere, spia fascista, tentò nel 1926 di infiltrarsi all’interno della Sinistra. Quando questo individuo cercava di fare opera di agente provocatore presentandosi come un campione dell’antistalinismo affermando che la Sinistra non facesse sufficiente opera di denuncia della politica centrista fu dai nostri compagni messo alla porta, per quanto non si conoscesse ancora il suo vero ruolo. Rigettato dalla Sinistra fu accolto a braccia aperte dai centristi dai quali gli furono affidati incarichi di estrema delicatezza; fu stipendiato dal partito; frequentò la scuola “leninista”; nel giugno 1927 partecipò alla conferenza del P.C. francese dove si distinse nell’accusare la Sinistra; a Lione fece espellere dal partito 17 operai della Sinistra; fu inviato in Italia per partecipare al movimento attivo e, nella zona di Genova fece arrestare una ventina di comunisti dalla polizia, dopo di che se ne tornò tranquillamente in Francia.
Nel n. 17 del 1928 della ”Voce dell’Emigrato” (un bollettino della manodopera straniera della zona lionese, gestito dai centristi) fu pubblicata la seguente “messa in guardia”. Si leggeva:
«Avviso urgente. Si avvertono tutti i compagni che l’ex compagno... (seguivano sia il nome convenzionale sia quello di battesimo) inviato in Italia per ragioni di organizzazione, essendo stato arrestato e interrogato dalla polizia, esso fece delle dichiarazioni alla sbirraglia fascista che potrebbero essere alquanto pericolose. Oltre che essere avvertiti i compagni possono prendere le dovute precauzioni – Il Comitato Intersindacale Regionale Italiano».
Leggendo questo avviso viene da domandarsi perché il comunicato fosse apparso in un giornaletto locale e non nella stampa ufficiale del partito, data la gravità delle notizie fornite alla polizia fascista. Perché, poi, il comunicato non diceva che l’“ex compagno” non era in galera, ma di nuovo a piede libero in Francia? Inoltre, perché erano stati gli organi sindacali e non quelli di partito a dare la notizia dal momento che l’“ex compagno” non svolgeva attività sindacale? La risposta è chiara: l’“ex compagno” altri non era che la spia fascista Undici, più volte denunciato dalla Frazione; quando i centristi furono costretti a scaricarlo lo fecero nel modo più silenzioso possibile.
In una corrispondenza da Lione apparsa nel numero 6 di “Prometeo” si legge:
«Nella polemica contro gli avversari politici i nostri maestri ci hanno insegnato che l’argomento non deve mai essere offuscato con frasi tendenziose ed insinuanti le quali non hanno altro risultato che l’inasprimento degli animi a danno della chiarificazione necessaria nel campo rivoluzionario. Marx, Lenin, Trotski, Bordiga ci danno i più luminosi esempi sul metodo polemico contro le varie scuole politiche. L’avversario si combatte dopo averne analizzate le risultanze della critica alla luce della ideologia marxista, affibbiando poi anche quegli apostrofi che essi si meritano».
Ecco invece uno dei tanti esempi di come i centristi combattevano la Sinistra. In un bollettino interno del PCd’I veniva pubblicata una lettera di un centrista nella quale si diceva:
«Trovandomi a Vienna potei avere una copia del giornale dei sinistri “Prometeo” (...) “Prometeo” viene distribuito apertamente per le vie e per i caffè nel momento che la repressione si accanisce sui nostri organismi e sul nostro giornale che non arriva quasi mai perché è sequestrato dalla polizia. “Prometeo” fa bella mostra nelle edicole assieme a “Libertà”, all’“Avanti” e ai giornali fascisti; cioè a tutta la stampa tollerata dalla polizia. Mi sembra che se la polizia tollera “Prometeo”, ciò vuole dire che esso o indirettamente o direttamente favorisce i disegni della borghesia (...) La mia convinzione è fatta e tutti i proletari dovrebbero porsi questa domanda».
Alla lettera seguiva un commento redazionale nel quale ci si dimenticava di dire che non era affatto vero che la polizia riservasse un trattamento di favore a “Prometeo” rispetto alle pubblicazioni del PCd’I, ma invece si diceva che:
«la borghesia internazionale è molto più scaltra di certi sovversivi che credono di rovesciarla con il verbalismo rivoluzionario (...) perciò essa non solo li lascia fare, ma perfino indirettamente incoraggia ogni iniziativa loro che tenda a sgretolare il movimento rivoluzionario».
Il significato del discorso era chiarissimo: i compagni della Sinistra, ne fossero coscienti o meno, erano strumenti della reazione borghese e del fascismo. Ma il centrismo dimostrava in pieno la sua malafede quando, poco tempo dopo dichiarava di non avere fatto insinuazioni nei confronti della Sinistra ed aggiungeva:
«se desiderate che noi si dia un giudizio sulla vostra onestà personale, non esitiamo un momento a farlo».
Come se pubblicare una lettera di un organo di partito e farla seguire con un commento che ne rafforzava il contenuto non significasse condividere quanto veniva in essa affermato; ma non solo, ne veniva fatto argomento per alimentare quella campagna diffamatoria che era sfociata in atti provocatori e nella bastonatura di compagni della Sinistra.
Commentava “Prometeo”:
«Ci avete cacciato con un insulto dei più atroci (fascisti). Con tutto ciò non vi abbiamo posto sul tavolo nessun atto di servizio, non vi abbiamo chiesto il buon servito (...) Non vi abbiamo chiesto e non vogliamo giudizi sulle nostre meschine persone. Ve ne neghiamo il diritto. Cercate di smentire e ritirare quello che poche settimane fa avete sostenuto (...) Noi avremmo potuto servirci di certi infortuni per tacciare il C.C. del partito come un covo di spie, non lo abbiamo fatto e non lo faremo perché non siamo dei mascalzoni» (“Prometeo”, n. 6, 15 settembre 1928).
Questa era la realtà: delle spie fasciste, infiltrate all’interno del partito, espellevano i compagni di sinistra accusandoli di essere dei provocatori fascisti.
Il lavoro di infiltrazione e perfino la possibilità di far carriera nel partito ai provocatori fascisti veniva estremamente facilitato dal settarismo idiota nei confronti della Sinistra e dall’uso invalso tra gli stalinisti della calunnia e del pettegolezzo all’interno del partito contrapposto al ruffianesimo ammiccante verso tutte quelle organizzazioni che si definivano “antifasciste”. Perciò, anche se la Sinistra ha sempre rifiutato di servirsi del metodo usato dai “mascalzoni” centristi, cioè di accusare gli avversari di essere al servizio del fascismo, ha dovuto però più volte constatare che «una divisione del lavoro esiste tra l’agente provocatore, la spia e il bonzo che con i suoi bestiali metodi di lavoro facilita il compito degli Undici, ai Ghini, ai Savorelli, e losca compagnia».
Un altro esempio del ”normale” svolgimento della vita interna del partito ci è dato dalla corrispondenza di una riunione a Parigi:
«Partecipavano dei cosiddetti leninisti (...) Si apre la
seduta alla
presenza di 9 vecchi compagni, 3 appartenenti alla gioventù da poco
tempo entrati a far parte del movimento, una compagna e 2 bonzetti
(...) All’ordine del giorno vi era la relazione e la discussione
dei testi approvati al Convegno tenuto dal PC d’Italia (...) Il
bonzo che ebbe la parola, invece di parlarci degli argomenti
principali discussi alla Conferenza, perse un’ora di tempo per
spiegarci il modo di lavoro da impiegare nei vari campi dell’attività
del partito; nei sindacati, nelle varie appendici del partito, C.I.,
Comitati Proletari Antifascisti, Soccorso Rosso Internazionale,
Patronati, Amici della Russia, Amici di Spartacus (...) Rispose un
nostro compagno che cominciò col fare rimarcare come i nostri bonzi
tendono a schivare la discussione mettendo a tacere tutte le
questioni col pretesto che c’è del lavoro pratico da svolgere.
«Come sempre questo lavoro
non si svolgerà poi, ma intanto si ottiene
il risultato che si è ottenuto da anni, si impedisce, cioè, che il
partito conosca e discuta i problemi della sua attività
rivoluzionaria. Riportandosi poi alle affermazioni del bonzo in
merito al lavoro che si sarebbe dovuto fare per non lasciare morire i
Comitati Antifascisti Proletari, egli fece rimarcare che il settore,
in una precedente riunione, con due soli voti contrari, aveva votato
un ordine del giorno condannando i C.P.A. ritenendoli come organismi
antirivoluzionari. Non lo avesse mai detto... I due bonzi si levarono
scandalizzati, ed in seguito alle parole del nostro compagno
dichiararono che, a nome del C.E., scioglievano la riunione e
denunciavano il nostro compagno per l’espulsione dal partito e, con
esso, tutti coloro che avessero solidarizzato con lui (...) Dei
tredici compagni presenti, nove restarono e quattro seguirono i due
campioni dell’opportunismo (...) Ed ecco dopo l’accusa di
diffusione del giornale [“Prometeo”, ndr], l’altro fatto che ha
causato la nostra espulsione dal partito per il quale abbiamo sempre
combattuto, prima per fondarlo, oggi per salvarlo dall’opportunismo»
(“Prometeo”, n. 8, 15 ottobre 1928).
Da questa, come da tantissime altre corrispondenze che pervenivano a “Prometeo” da ogni paese interessato dall’emigrazione, si vede che la semplice diffusione del giornale della frazione era ritenuto un crimine talmente grave da doverlo combattere addirittura con l’espulsione dal partito. I compagni sospettati di appartenere alla Sinistra potevano a volte essere allontanati dal partito anche in modo molto semplice e sbrigativo: non venivano più convocati per le riunioni.
Se per ragioni di lavoro elementi della Sinistra dovevano trasferirsi da una località ad un’altra, gli veniva rifiutata la “base di passaggio” con il pretesto grossolano che avrebbero dovuto scrivere una volta raggiunta la destinazione; poi, essendo sprovvisti dei documenti necessari per fare il passaggio di sezione, venivano a trovarsi di fatto fuori dal partito.
«Un compagno denuncia le malefatte di qualche piccolo briccone: egli viene allontanato immediatamente dal partito, e non si esita – per renderlo inoffensivo – a tentarne l’assassinio morale, facendolo denunciare da elementi resi irresponsabili dal vino nei luoghi pubblici, come spia, e sempre rifiutando delle precisazioni concrete. E, per impedire alla Sinistra di parlare, si fa ricorso a dei mezzi da apaches cercando di massacrare ad armata mano dei compagni. Infine un mascalzone (ex espulso dal partito per immoralità, rientrato quando tutta la merda era buona per fare volume contro la Sinistra) si può permettere di spifferare in pubblico i peggiori insulti contro dei compagni della Sinistra. La conclusione di questa lotta per difendere (sic) il partito, per rinforzarlo, non poteva essere diversa: a forza di “salvare” e di “rinforzare” i nostri centristi sono riusciti a seppellire e distruggere il partito. Nella regione vi sono dei comunisti, ma non esiste più il partito» (“Prometeo”, n. 9, 15 novembre 1928).
Nel mese di dicembre 1927, attraverso la stampa dell’Internazionale furono lanciati dei duri attacchi contro la Sinistra italiana. Questi attacchi, dei quali riportiamo alcuni frammenti, dimostrano a quale livello fosse scaduta la direzione del partito, con quali sistemi sia l’Internazionale sia il partito tentassero di frastornare la base per ricevere adesione alla loro sciagurata politica. Gli omuncoli che funestamente dirigevano l’Internazionale, dopo essere diventati lo zimbello dell’Internazionale di Amsterdam, dei dirigenti tradeunionisti inglesi, dei macellai del proletariato del tipo di Chiang Kai-shek, nella loro azione di disgregazione del movimento internazionale si facevano forti dell’unica arma in loro possesso: il terrorismo, quello fisico e quello ideologico. È veramente penoso leggere simili documenti ufficiali, e se ne riportiamo delle parti lo facciamo solo perché ci danno lo spunto per riprodurre la nostra risposta a questo ammasso di merda.
Togliatti ed Humbert-Droz, membri del Presidium dell’Internazionale, firmavano una lettera nella quale l’attività dell’opposizione italiana era definita come:
«Impresa controrivoluzionaria nella quale l’opposizione entra in contatto non solamente con i rinnegati e gli elementi tarati, che mascherano il loro pessimismo, la loro viltà personale e la loro passività sotto la fraseologia di sinistra dell’opposizione, ma con gli agenti provocatori ed i poliziotti che il partito ha già smascherato e respinti dai suoi ranghi (...) Davanti alla gravità dei fatti – continuavano Togliatti ed Humbert-Droz – noi domandiamo che la Commissione di Controllo faccia una inchiesta, verifichi le nostre accuse, e prenda sanzioni che garantiscano l’Internazionale e la rivoluzione russa contro i pericoli di ordine poliziesco ai quali il lavoro di opposizione li espone» (“L’Internazionale Comunista”, ed. francese, n. 21-22).
Contemporaneamente in un articolo della “Correspondance Internationale” si diceva:
«Una parte insignificante di questi elementi disfattisti è legata all’opposizione [russa, n.d.r.] e con questo stesso Korsch che l’opposizione stigmatizza nei suoi documenti come controrivoluzionario. Il C.C. italiano è arrivato a provare che alcuni uomini di fiducia di questi gruppi di opposizione sono in relazione con la polizia fascista» (Ed. francese, n. 118, pag. 1704). Questi erano gli argomenti “politici” con i quali i dirigenti stalinisti difendevano il leninismo.
È appena il caso di dire che l’inchiesta auspicata da Togliatti ed Humbert-Droz non fu mai svolta; anzi, nel maggio dell’anno seguente il C.C. del PCd’I, in risposta ad una lettera della nostra Frazione, fu costretto a fare una pubblica e completa ritrattazione di queste accuse che, 5 mesi prima, erano “provate” e sbandierate tra il proletariato. Riportiamo qui integralmente la risposta della Frazione ai due carogneschi articoli sopra citati. In questa risposta, che sintetizza in modo completo le posizioni della Frazione sulle varie questioni e sui contrasti con il centro dirigente, si ritrova finalmente un metodo rivoluzionario e comunista di affrontare i problemi. La lettera era stata indirizzata al C.E. dell’Internazionale e del PC russo e per conoscenza ai C.E. dei partiti comunisti italiano, francese e belga.
Come gli opportunisti combattono la Sinistra
Prometeo n. 3, 15 luglio 1928
Notiamo dapprima che nessun esame della questione è stato fatto dagli organismi del partito. Un compagno che aveva saputo per caso che delle accuse di lavoro frazionista erano state fatte contro di lui (e non si trattava di tutte le ingiurie e le calunnie contenute nelle due pubblicazioni summenzionate), ha domandato immediatamente, l’11 ottobre 1927 al C.C. del PCF di essere interrogato e fino ad oggi non ha ricevuto alcuna risposta.
Malgrado ciò, ad onta del nostro statuto, si è pubblicato ciò che abbiamo riportato al solo scopo di fare uno scandalo per distogliere gli operai rivoluzionari dall’esame delle critiche politiche della Sinistra, nella vana speranza di riuscire con un “bourrage de crane” a sviare la sempre maggiore reazione proletaria contro gli errori degli organi dirigenti, e con il solo risultato di aggravare la nostra crisi nell’internazionale comunista, di avvelenare i rapporti tra i militanti comunisti.
1
- Il preteso lavoro frazionista
È falso che l’opposizione russa eserciti un controllo sui gruppi di opposizione stranieri, ed una direzione effettiva per mezzo dei suoi emissari. Per ciò che riguarda noi, compagni della sinistra, è invece vero: a) che dal 1924 (V congresso dell’I.C.) abbiamo protestato contro la soluzione formale e disciplinare che si stava per dare alla questione russa; b) che all’occasione del III congresso del PCI abbiamo sollevato la medesima questione, soprattutto in un articolo del compagno Bordiga, che conserva ancora oggi tutta la sua importanza; c) che all’Esecutivo Allargato del marzo 1926 il compagno Bordiga ha domandato l’immediata convocazione del VI congresso mondiale per la discussione sulla questione russa.
A questo proposito, dobbiamo notare che non è stato dato seguito alla domanda del compagno Bordiga, ma che al contrario il Comitato Esecutivo dell’I.C. ha preparato apertamente la scissione della nostra internazionale, con delle misure disciplinari che hanno reso impossibile un esame serio della questione russa e hanno prodotto il risultato PROVVISORIO di rendere possibile tra le nostre file i colpi di scena che portano l’uno dei capi della rivoluzione d’Ottobre, il Presidente dell’I.C. e molti compagni che hanno guidato la vittoria rivoluzionaria del proletariato russo, tra le file dei traditori per il solo fatto che invece di piegarsi davanti alla revisione del leninismo, che ha avuto delle conseguenze sanguinose in Cina, sono passati in prima linea nella lotta contro l’opportunismo.
Per
ciò che riguarda il preteso frazionismo, affermiamo che alcuni dei
compagni sottoscritti hanno avuto delle conversazioni individuali con
un compagno che è stato segretario del partito bolscevico a fianco
di Lenin. Questi compagni affermano che si sentono molto onorati di
una tale amicizia che non presenta d’altronde nessuna derogazione
alla disciplina comunista. Noi affermiamo che il nuovo esame delle
posizioni teoriche e politiche, alla luce delle ultime esperienze
della lotta di classe, potrà rilevare delle differenze, anche con i
compagni dell’opposizione russa, ma noi tutti siamo al loro fianco
nella lotta che essi conducono per il raddrizzamento dell’I.C.
2
- Il preteso fronte unico con Korsch
Il
nostro preteso fronte unico con Korsch è presentato in un modo
completamente falso. Tutto lo scandalo si riduce ad una semplice
lettera personale, di uno dei nostri compagni, tutt’ora membro del
C.E. dell’I.C., a Korsch, scritta nell’ottobre 1926, dalla quale
risulta in modo indiscutibile che la nostra posizione politica
contrasta con quella del gruppo Kommunistische Politik. È stato mai
stabilito che i comunisti non possono avere delle relazioni personali
che con i soli aderenti al partito? Ma la questione è un’altra; i
dirigenti impegnano la nostra organizzazione in una politica che è
contraria al programma dell’I.C. (scissione sindacale nel campo
internazionale sostituita dalla tattica dell’unità tra le
istituzioni sindacali di Mosca ed Amsterdam. Sottomissione alla
volontà dei traditori del proletariato – conferenza anglo-russa di
Berlino) e, per nascondere tutti questi errori, preparano lo scandalo
trasformando una lettera personale di polemica e di critica, in un
fronte unico! È vero che in questa lettera manca una delle note dei
revisionisti del leninismo. In effetti il nostro compagno, lungi dal
rallegrarsi delle posizioni politiche di Korsch e perché conosceva
il suo passato rivoluzionario cercava di mantenerlo nei binari del
movimento rivoluzionario. In ogni caso uniamo la lettera in
questione.
3
- Nostra pretesa organizzazione - Nostra vigliaccheria
È falso: a) che abbiamo un’organizzazione; b) che un solo elemento della sinistra abbia rifiutato un qualsiasi lavoro del partito; c) che gli elementi della sinistra “coprono la loro passività politica e la loro vigliaccheria personale sotto la bandiera dell’opposizione riducendo la loro attività ad un lavoro distruttivo nel seno del partito”.
4
- La Sinistra in Italia
Noi non sappiamo ciò che avviene in Italia, ma dalle menzogne che abbiamo potuto constatare per ciò che riguarda l’organizzazione in Francia, abbiamo il diritto di non prestar fede a ciò che si riferisce ai nostri compagni residenti in Italia.
5
- I compagni della sinistra e la lotta di classe
Noi
affermiamo che nella Sinistra non vi è un solo “compagno stanco e
scoraggiato” che abbia lasciato il partito. Se è vero che degli
interi strati dell’emigrazione italiana si distolgono da ogni
lavoro rivoluzionario, ciò dipende dalla vostra falsa politica.
Nessun elemento di sinistra ha lasciato il partito; al contrario “Il
Lavoratore Italiano” redatto dai centristi, ha dovuto fare le lodi
degli elementi di sinistra, per la loro attività. Al contrario un
compagno della sinistra escluso dal partito, si è visto rifiutare,
nello spazio di un anno due o tre domande di riammissione al partito.
Al contrario, degli elementi che hanno in seguito costituito un
gruppo a parte volevano difendere con le armi i loro diritti di
militanti della nostra internazionale comunista.
6
- Il gruppo «Avanguardia Rivoluzionaria»
È vero che nell’emigrazione si è recentemente costituito un gruppo di “Avanguardia Rivoluzionaria” che ha riprodotto un documento di Korsch. Noi siamo in dissenso politico con questo gruppo, come risulta dal loro organo “Risveglio Comunista”. Ma noi sosteniamo che è una politica criminale dal punto di vista rivoluzionario quella di cercare di rappresentare come degli “agenti fascisti” degli operai che hanno fondato il nostro partito in Italia, che hanno fatto la guerra civile contro i fascisti, che sono stati in prima linea nella lotta di classe in Francia. Questa politica tende a distruggere delle energie preziose della lotta rivoluzionaria, essa vorrebbe veder sorgere, tra la stessa classe operaia, dei nemici della Russia dei Soviet. Non è un dirigente rivoluzionario, ma al massimo un accademista pseudo-marxista, colui che non comprende il significato dello schiaffo dato da un operaio che lotta per la sua classe da anni ed anni, e che si vede privato del posto nel suo partito, colui che si volge verso questo operaio con lo scopo di farne un nemico.
Noi,
compagni della sinistra, non possiamo fare una lotta di
chiarificazione politica verso questo gruppo per il solo fatto che
non abbiamo una nostra organizzazione, ma in quanto membri del
partito, noi affermiamo che bisogna sostituire alle ingiurie la lotta
politica seria.
7
- Il legame con la politica fascista
Voi
avete scritto:
«Il C.C. italiano ha potuto provare che alcuni uomini
di fiducia di questi gruppi di opposizione sono della gente in
relazione con la polizia fascista». Questo significa che il lavoro
d’opposizione sarebbe favorito dalla polizia fascista. Dal punto di
vista politico non vale nemmeno la pena di rispondere a questa
questione. Dal punto di vista materiale, noi vi sfidiamo a darci il
minimo indizio che provi che qualcuno di noi ha avuto delle relazioni
con la polizia fascista diverse da quelle che riguardano la prigione,
la condanna a morte, le bastonature, le ferite, le persecuzioni
contro le nostre famiglie in Italia.
Se voi volete riferirvi a qualcuno degli elementi che fanno parte del gruppo “Avanguardia Rivoluzionaria” e che restano in relazione con gli operai di tutte le tendenze del nostro partito, voi avete il dovere di darne la prova, voi avete il dovere di indicare a noi come agli altri operai emigranti, questo agente fascista. E noi, gli emigrati, faremo allora quello che voi non fate, vi daremo gli elementi per fare sparire questo agente fascista dai nostri ambienti rivoluzionari. Ma voi non l’avete fatto fino ad oggi, e questo fascista, se esiste, è sempre in mezzo a noi.
È
probabile che vi sia un fantoccio fascista e che questo vi resterà
perché serve meravigliosamente ai vostri progetti politici per la
lotta contro la sinistra.
8
- Gli errori politici
Ma tutto questo castello d’ingiurie e di calunnie, non ha forse lo scopo di offuscare tra le masse la visione delle conseguenze della vostra politica? Questa politica è condannata per il solo fatto che si difende con tali mezzi. Oltre tutte le questioni internazionali, il C.C. del PCI deve nascondere gli errori enormi dei quali rileveremo solamente i principali riservandoci naturalmente di approfondire il nostro studio all’occasione del congresso del PCI e del VI congresso mondiale. Il solo criterio marxista e leninista per poter giudicare dell’attività di un partito politico consiste nell’applicazione fatta del nostro programma comunista nelle analisi delle situazioni e dei rapporti di classe per fissare l’orientazione segnata alla nostra attività nella lotta di classe. Ora noi sosteniamo che se non si produce una mobilitazione radicale nella politica internazionale e, in conseguenza nella politica del PCI, lo sforzo eroico fatto oggi dal proletariato italiano non avrà il risultato che si spera, cioè la vittoria rivoluzionaria. L’attività del partito italiano tra l’emigrazione politica in Francia ci impone di essere molto diffidenti verso gli studi teorici contenuti nello “Stato Operaio”. Questa attività ci impone di considerare che gli elementi che dominano la nostra orientazione sono rappresentati dai microbi antimarxisti contenuti in questi studi mentre le altre parti sono destinate ad avere un’importanza di dettaglio.
Due
attività del partito nell’emigrazione che sono legate d’altronde
agli elementi essenziali della politica in Italia, meritano un breve
esame.
a) I Comitati Antifascisti:
I comitati antifascisti sono stati costituiti nel nostro partito sul seguente programma: a) assemblea repubblicana sulla base dei comitati operai e contadini; b) controllo delle banche; c) terra ai contadini.
Che necessità vi è stata di modificare il nostro programma comunista, mentre in Italia la situazione imponeva l’applicazione del programma iniziale, con la massima evidenza? Perché lasciar da parte la nostra parola d’ordine: dittatura del proletariato? Perché non proclamare che il controllo sulle banche e la terra ai contadini sono rivendicazioni che possono risultare solamente da una lotta rivoluzionaria? Tutto questo perché si parla di «un fronte unico di tutti gli strati oppressi dal fascismo» (edizione per l’Italia del Kuomintang), perché si fonda la nostra politica sulla prospettiva di una «rivoluzione popolare» antecedente alla rivoluzione proletaria (Risoluzione del Presidium dell’Internazionale del 28 gennaio 1927), perché si parla «della passività della classe operaia e del compito rivoluzionario dei contadini», perché si crede che le rivendicazioni della democrazia borghese (elezione libera delle amministrazioni comunali nelle campagne) possono avere un significato rivoluzionario, perché si mette sotto i piedi la teoria leninista sullo Stato e sull’Imperialismo fino al punto di vedere l’esistenza di questioni nazionali in Italia ove lo Stato capitalista «il prodotto e la manifestazione dell’antagonismo inconciliabile delle classi» (Lenin) assume l’aspetto reale unitario in quanto riesce a diventare lo «strumento della dominazione della classe oppressa» (Lenin) e non sarà rovesciato che dalla classe proletaria, alleata alla classe dei contadini poveri. In un tale ambiente ove lo sviluppo imperialista ha detto la sua ultima parola, le rivendicazioni regionaliste possono far parte del programma elettorale dei ciarlatani ed esso deve essere bandito dal nostro partito.
Fatte
queste considerazioni, non c’è da stupirsi che i dirigenti del
nostro partito abbiano fiducia di un organo sovvenzionato del governo
Jugoslavo (“Il Corriere degli Italiani”). Questo giornale si
propone di diventare l’organo dei comitati antifascisti ed uno dei
suoi redattori è nello stesso tempo uno dei membri del C.C. di
questi comitati.
b) La questione sindacale:
Nel febbraio 1927, il C.E. della C.G.L. proclama la bancarotta dell’organizzazione sindacale della classe operaia in Italia e passa al fascismo. Due membri non passano al fascismo, benché abbiano nel 1923 e nel 1924 tentato di collaborare con Mussolini, per la semplice ragione che essi sono in Francia.
Questo fatto non poteva avere che un solo significato, che avremmo dovuto marcare con caratteri di ferro, nella coscienza delle masse operaie in Italia. Questo atto non rappresenta che la conclusione naturale, logica della socialdemocrazia, la quale in determinate circostanze della lotta di classe, non può che unirsi al fascismo.
Il fatto che una situazione tragica ci dava la possibilità di segnalare l’equivalenza fascismo- socialdemocrazia, era della massima importanza. E noi, partito comunista, abbiamo fatto il possibile per offuscare questa esperienza di una importanza formidabile soprattutto perché non possiamo considerare come scomparsa una riserva di dominazione borghese: la socialdemocrazia, nell’Italia stessa.
Il nostro partito ha ricostituito le organizzazioni sindacali in Italia e queste avranno una grande influenza nella ripresa della lotta di classe. Ma nell’occasione del congresso dell’Internazionale d’Amsterdam noi, invece di lanciare – in quanto comitato sindacale comunista – un appello alle masse italiane proclamando che il traditore Buozzi era al suo posto in questo congresso, che l’affiliazione a questa internazionale significava LA CONTINUAZIONE DELLA LINEA POLITICA CADUTA NEL FASCISMO; noi, invece di fare pressione sul comitato dirigente in Italia perché non mandi alcuna delegazione a questo congresso, in seguito a quanto era avvenuto nel febbraio, e perché rimetta la questione dei rapporti internazionali a un congresso regolare ove noi comunisti avremmo dovuto sostenere apertamente l’adesione a Mosca; noi che abbiamo sostenuto durante gli anni la rottura con Amsterdam, abbiamo elemosinato l’entrata al congresso di Amsterdam, abbiamo riconosciuto la necessità di un Buozzi a Parigi, abbiamo consigliato a Jouhaux di riconoscere l’organizzazione in Italia, poiché da questo fatto il suo compito alla Società delle Nazioni ne avrebbe ricavato un vantaggio! La Xa condizione di ammissione di un partito all’Internazionale Comunista dice testualmente: «Ogni partito appartenente all’I.C. ha il dovere di combattere con energia e tenacia l’Internazionale dei sindacati gialli formati ad Amsterdam. Deve invece concorrere con tutte le sue forze all’Unione Internazionale dei sindacati rossi aderenti all’I.C.».
Il paragone tra la nostra tattica e la nostra condizione programmatica è tanto più importante perché, data la situazione internazionale ed il ruolo della socialdemocrazia, noi abbiamo perduto un’ottima occasione per porre dinanzi al proletariato italiano, il problema della guerra contro la Russia nei suoi giusti termini.
Abbiamo risposto a tutte le accuse con la più categorica smentita, siamo sicuri di non aver commesso atti frazionisti, siamo militanti dell’I.C. e crediamo dover restarci per combattere anche il frazionismo dei dirigenti, di cui vi abbiamo dato qualche esempio nella mancanza ai nostri principi programmatici.
Noi pensiamo che la crisi attuale dell’Internazionale dovrà risolversi nelle sue file. E per ciò, nello spirito di Lenin, ci prepariamo a portare il contributo delle nostre esperienze rivoluzionarie nella discussione che avrà luogo nei partiti comunisti, persuasi che questo è il solo mezzo per essere veramente accanto al proletariato russo nella sua lotta contro le difficoltà che saranno vinte perché il proletariato mondiale non ha perduto le probabilità di abbattere il capitalismo in altri paesi.
Con le ingiurie che ci sono state indirizzate, si poteva spingerci a delle reazioni, d’altronde giustificate. Abbiamo trattenuto la nostra impulsività. l’Internazionale comunista è l’organizzazione dell’avanguardia proletaria di tutto il mondo. Essa saprà liberarsi dei metodi che l’hanno offuscata e che ancora l’offuscano.
La nostra Internazionale non è quella ove trionferà il metodo delle canagliate e delle calunnie, metodo che bisogna lasciare ai suoi padri naturali; agli Scheidemann, ai Mussolini. Essa resterà la locomotiva della rivoluzione mondiale.
La sinistra italiana che si richiama alla sola corrente del partito socialista italiano che ha preso la posizione leninista all’occasione della guerra, che ha spiegato, sola, al proletariato italiano, il significato comunista della rivoluzione russa; questa sinistra non è fatta di una banda i vigliacchi.
Essa che ha fondato la sezione dell’I.C. in Italia, saprà compiere il suo grande dovere nelle situazioni future e soprattutto quando la situazione offrirà le premesse della rivoluzione proletaria in Italia.
Viva
la mobilitazione di tutti i partiti comunisti per la salvezza della
rivoluzione russa che saprà vincere le difficoltà attuali solamente
nello spirito di Lenin, e con la collaborazione di tutti coloro che
lavorano a suo fianco, nella salda orientazione politica dei nostri
programmi, del marxismo, del leninismo.
VIVA IL PROLETARIATO RUSSO, VIVA L’INTERNAZIONALE COMUNISTA.»
(continua)
Sulla situazione Italiana
(“Prometeo”, n.3, 15 luglio 1928)
- La Dittatura Proletaria
[ È qui ]