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I
curdi: società tribale nella morsa dell’imperialismo
(continua
dal numero 31)
- La
spartizione imperialista del Kurdistan
- Nel Kurdistan turco
- Nel Kurdistan iracheno
- Nel Kurdistan iraniano
- Conclusioni
(continua nel numero 33)
( È qui )
Da Versailles a Yalta e Malta: tutti gli accordi di pace preparano la guerra
La stampa borghese in questo periodo di accanite battaglie per il controllo di Sarajevo fornisce il suo generoso contributo pacifista rammentandoci come nel giugno 1914 proprio in quella città, per un riuscito attentato ad una testa coronata, si creò l’occasione per l’inizio della Prima Guerra mondiale, partita per il controllo e la spartizione dell’area balcanica.
A 72 anni di distanza là come altrove e sempre, le pallottole sostituiscono le parole e le buone intenzioni, mentre qui si discute se la libanizzazione del conflitto iugoslavo può essere arginata, contenuta o se sia il caso di far intervenire per la prima volta un vero esercito ONU, facendo però molta attenzione a non cacciarsi in un’avventura alla Vietnam. Meglio sarebbero accordi di convivenza tipo “separati in casa” o nella peggiore delle ipotesi un lavoretto alla irakena, rapido ed incisivo, contro il cattivo e crudele Milosevic, però... Quanti problemi e quali questioni di lana caprina per loro.
Non per noi. Mai come oggi è chiaro come nei tempi di pace, e dal 1945 ne sono passati tanti, si preparano le guerre. Grandi avvenimenti, presentati come esempi di stabilità, accordo e fratellanza fra i popoli come il crollo del muro di Berlino, la disgregazione del temutissimo Patto di Varsavia, il voto alla maggioranza negra del Sudafrica, una calma controllata nel Libano, mini-conflitti locali dell’ex impero russo per la formazione di staterelli vagamente omogenei dal punto di vista etnico-religioso, altro non sono che il tentativo delle borghesie di disporre le forze sul campo dei continenti in vista di un conflitto di grandi dimensioni.
Meglio prepararsi per tempo perché la guerra è un grande affare e va organizzata bene se si vuole trarne un buon profitto.
Lo ha dimostrato il mini conflitto irakeno: una boccata di ossigeno (sangue e danaro) principalmente per l’asfittica economica americana, che ha però bisogno di trasfusioni di portata e durata ben più grandi.
Gli attuali contrasti e le precedenti guerre nella regione balcanico-danubiana affondano le radici nella crisi dell’impero Ottomano, periodo in cui l’impero austroungarico ne approfittò per annettersi la Bosnia-Erzegovina, la Grecia fece la stessa cosa con l’isola di Creta, la Bulgaria con la Tracia, l’Italia allungò le mani sul Dodecaneso prima e l’Albania poi, mentre la Serbia tentava a tutti i costi di arrivare all’Adriatico creando un regno grande-serbo.
Questo intreccio di interessi territoriali, dalla crisi bosniaca del 1908/09 trapassa nella prima guerra balcanica del 1912 contro la Turchia, con la conclusione di spartirsi nel maggio 1913 a Londra i possedimenti turchi oltre Costantinopoli e un po’ di isole egee.
Il mese dopo però scoppia la seconda guerra balcanica tra Bulgaria e Serbia, subito sostenuta da Romania, Grecia, Montenegro e Turchia. Il conflitto è breve e nell’agosto dello stesso anno la Bulgaria perde la Macedonia e la Dobrugia a favore della Serbia, che si rafforza ulteriormente ma non secondo i suoi bisogni di potenza locale.
Dieci mesi più tardi avrà inizio il primo macello mondiale, partito, come dicono i manuali di storia, dall’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono austroungarico, per mano di un membro di una setta segreta pan-serba.
Le grandi guerre sono una panacea per la borghesia, ma hanno anche i loro rischi. La chiamata alle armi di milioni di proletari può far sì che quelle armi siano rivolte prima contro gli ufficiali poi, sotto la direzione del partito, contro i capitalisti, e dare l’avvio alla rivoluzione proletaria.
Durante gli ultimi anni della Prima Guerra vi furono molti incontri, più o meno segreti, in Svizzera fra i rappresentanti dei comandi militari dei due fronti, per stabilire la distanza minima fra le opposte trincee allo scopo di impedire la fraternizzazione dei soldati, che nei fronti italo-austriaci e franco-tedeschi avvenivano di frequente.
Come avvenne per la Comune di Parigi nel conflitto franco-prussiano del 1871 la borghesia si mobilita e si accorda contro il proletariato anche e specialmente in periodi di contrasti armati.
La ribellione di interi reparti nel Belgio, l’ammutinamento della flotta d’altura tedesca ma soprattutto la Rivoluzione d’Ottobre in Russia con il pericolo di un suo rapido dilagare in Europa hanno condizionato non poco l’esito e la durata del conflitto e l’apertura a Versailles, nel gennaio 1919, della Conferenza di Pace, l’ennesima della serie capitalista.
In prima convocazione vi sono 70 delegati che rappresentano le 27 nazioni vincitrici, successivamente 10 per 5 Paesi e in ultima restano soltanto 4 grandi che difendono gli interessi di America, Inghilterra, Francia e Italia.
Questi 4 grandi fra i grandi hanno fra loro un grande più grande: Wilson, l’Americano, il vero vincitore. Entrato in guerra a metà conflitto, dopo che tutti i belligeranti si sono indeboliti fra loro, con poco guadagna molto, fa bella figura perché per lui non vuole niente e arriva con un trattato di 14 punti, che impone come base per la conferenza, il primo dei quali ha del grottesco: abolizione della diplomazia segreta. Anche lui “inorridì” quando il Cancelliere tedesco disse nei primi giorni di guerra a proposito della neutralità del Belgio: “I trattati sono pezzi di carta”.
I 4 grandi di Versailles si danno un gran da fare con vari trattati di pace secondari a formare Stati e staterelli, a ripristinare o inventare dal nulla monarchie e a spartirsi colonie in funzione della loro futura politica di rapina delle economie più deboli.
Lenin in “Imperialismo, fase suprema del capitalismo”:
«L’imperialismo è il capitalismo giunto a quella fase di sviluppo in cui si è formato il dominio del monopolio e del capitale finanziario, l’esportazione di capitale ha acquistato grande importanza, è cominciata la ripartizione del mondo tra i trust internazionali, ed è già compiuta la ripartizione dell’intera superficie terrestre tra i più grandi paesi capitalistici».
Negli anni che seguono la Prima Guerra la borghesia ha due grossi problemi: il primo è quello di rafforzarsi a scapito delle altre, alleate o non; il secondo è di attrezzarsi per contenere e debellare il pericolo della rivoluzione proletaria che dall’URSS può allargarsi al Vecchio Continente, avendo fallito con i generali bianchi un primo tentativo di rovesciare sul nascere il potere dei Soviet.
L’insegnamento di Trotski, «la rivoluzione socialista non può esaurirsi nell’ambito nazionale (...) La rivoluzione socialista comincia sul terreno nazionale, si sviluppa nel quadro internazionale e si conclude a livello mondiale», ha messo sul chi va là i centri della borghesia, che ha ben inteso il valore della posta in gioco e con squadracce fasciste e squadroni della morte, dittature e repressioni tenta, purtroppo con successo, di allontanare il momento della resa dei conti.
In quel dopoguerra trattati di pace e dichiarazioni d’intenti si sprecano quanto pezzi di carta nel cestino come il patto di non aggressione reciproca stipulato il 27 agosto 1939 da Ribbentrop e Molotov e riguardante, come comune vantaggio, la spartizione della Polonia. Quattro giorni dopo, in ottemperanza al trattato, la Germania si prende la sua parte di Polonia: dopo appena un ventennio di ricostruzione, armamento, riorganizzazione, ma soprattutto piegato il proletariato europeo, le pallottole sostituiscono le parole dei trattati di pace ed inizia il secondo macello.
Sul piano militare la trama è ben nota: una prima poderosa ondata espansiva tedesca è vagamente sostenuta dall’esercito italiano mentre i giapponesi si espandono enormemente in Asia e nel Pacifico.
Come al solito dopo un po’ si muove l’America e rimette tutto a posto a piacer suo, sia i vinti sia gli alleati. Sono loro i più forti e con le atomiche di Hiroshima e Nagasaki han fatto ben intendere di che cosa son capaci.
Sul piano del business i contratti sono precisi, perché con un budget di 370 miliardi di dollari solo per gli USA (riferiti al 1944) bisogna essere molto attenti e rigorosi.
Sul piano degli investimenti, che poi si trasformeranno al fine del conflitto in crediti, ciascuno mette quel che può e ne ricaverà in proporzione. Le spese per il materiale bellico ammontarono a 113 miliardi (in dollari dal 1944) così ripartiti in percentuale: USA 37, Germania 21, URSS 20, Inghilterra 16, Giappone 5. Con questi si sono costruiti 543.000 aeroplani (56% USA, 26% Inghilterra, 17% Germania) che hanno scaricato 1.350.000 tonnellate di bombe sulla Germania e 74.200 sulla Gran Bretagna. Merci e uomini sono stati trasportati o hanno combattuto per mare con la costruzione di 42.500.000 tonnellate di stazza lorda di naviglio bellico.
Il conto finale degli investimenti, al di là dei 55 milioni di morti, 35 di feriti e di dispersi, è di oltre 1.500 miliardi di dollari, così ripartiti in percentuali: USA 21, Inghilterra, 20, Germania 18, URSS 13, Giappone 4.
In fatto di chiarezza finanziaria incominciarono gli americani, prima dell’attacco di Pearl Harbour, con la Legge sugli Affitti e Prestiti, che autorizzava il presidente a fornire materiale bellico agli alleati anche senza pagamenti di denaro. A buon rendere, aggiungiamo noi. Prima la legge si applica alla Gran Bretagna, poi, un po’ titubanti, anche all’URSS e via via a tutto il resto della variopinta banda.
Durante il conflitto non si lesinarono munizioni né conferenze politico-militari ad alto livello per la pace: 5 a Washington, 4 a Mosca, Casablanca, Il Cairo, Teheran, Quebec, Dumbarton Oaks, queste le principali consegnate alla storia.
Gli Usa con gli accordi di Bretton Woods si fanno garanti di un nuovo ordine economico onde evitare crisi catastrofiche come quella del 1929 e per «consentire un’ordinata opera di ricostruzione dalle immense distruzioni della guerra». Alla resa dei conti il 37% farà ben valere il suo peso!
Queste manovre sono preparativi per la conferenza di Yalta dove i tre grandi vincitori (la Francia è già stata tagliata fuori dal club) decidono in sostanza che ciascuno di essi avrebbe mantenuto il controllo delle zone occupate, per cui avanti a tutta forza soprattutto su Berlino! Alcuni problemi particolari per Grecia, Yugoslavia e Polonia si sarebbero visti con calma alla fine.
Nessuno deve però pensare che il sodalizio sia esente da biechi tentativi di farsi le scarpe l’un contro l’altro, anzi è vero l’opposto e il motto “Mors tua vita mea” è lo spirito che li accomuna.
Churchill, interessatissimo ad impedire uno sbocco diretto sul Mediterraneo alla flotta ed all’armata rossa tramite la Grecia, si precipitò il 9 ottobre 1944, prima di Yalta, a Mosca per un tête-a-tête con Stalin. Questa era la sua proposta, come il panciuto fumatore di sigari racconta nell’undicesimo volume delle sue Memorie:
«Il momento era adatto alle discussioni concrete. Così io dissi: sistemiamo i nostri affari nei Balcani. Il vostro esercito è in Romania e in Bulgaria, in questi Paesi noi abbiamo interessi, missioni e rappresentanti. Ma evitiamo di scontrarci per motivi meschini. Per quello che riguarda la Gran Bretagna e la Russia che ne direste se vi lasciassimo il 90% del predominio in Romania, assicurandoci dal canto nostro il 90% del controllo in Grecia, e ognuno dei nostri Paesi conservasse un 50% in Iugoslavia? Mentre queste parole venivano tradotte, io scrissi su un mezzo foglio di carta: Romania: alla Russia il 90%, agli altri il 10%; Grecia: alla Gran Bretagna (in accordo con gli Stati Uniti) il 90%, alla Russia il 10%; Iugoslavia: 50% e 50%; Ungheria: 50% e 50%; Bulgaria: alla Russia il 75%, agli altri il 25%. Spinsi il foglio verso Stalin, che nel frattempo aveva ascoltato la traduzione. Ci fu una breve pausa. Poi prese la matita blu, vi fece un grosso segno di approvazione e ce lo restituì. Tutto era stato sistemato in meno tempo di quanto c’era voluto per scriverlo».
Il tempo è denaro e meno se ne spreca in chiacchiere meglio è, e più ne resta per il business!
Le sorti o meglio la spartizione dell’Europa e più visibilmente della Germania non fu né facile né semplice ma alla fine tra Yalta, Potsdam e la conferenza finale di Parigi si trovò un accordo definitivo per la divisione del vecchio continente:
«Sul tavolo anatomico di Parigi, non c’è solo il cadavere dei vinti: c’è quello della pace e c’è quello della democrazia. Le 17 potenze minori sono convocate per assistere ai funerali. Funerale della “democrazia”, giacché le potenze minori hanno un bel gonfiarsi, pretendere di avere voce in capitolo, erigersi a paladini della Carta Atlantica e delle quattro libertà di roosveltiana memoria: la storia ha già deciso del loro destino. Se ha dato loro un appuntamento a Parigi, è stato solo perché prendessero atto di una realtà più forte di qualunque programma» (“Qui si cucina la pace”, “Battaglia Comunista”, n. 23/1946).
«Gli avvenimenti che vanno dalla nomina di Marshall a capo del Dipartimento degli Affari Esteri di Washington, all’intervento Truman a favore della Grecia e della Turchia e al fallimento della conferenza di Mosca dimostrano che gli Stati Uniti intendono consolidare anche politicamente, con estrema energia, quella dittatura mondiale che si sono già assicurati in sede economica. E, come di dovere, non è mancato il travestimento politico, che ha presentato al pubblico americano e mondiale sotto specie di una crociata antitotalitaria la più aggressiva e spregiudicata affermazione di una egemonia politica e finanziaria su tutto il mondo» (“La dittatura mondiale degli Stati Uniti”, “Battaglia Comunista”, 10/1947).
Nei fatti inizia subito il contrasto aperto fra le due superpotenze per estendere a tutto il pianeta il proprio dominio avendo risolto in modo definitivo la questione europea, ed il conflitto che segue chiamato “guerra fredda” non ha per oggetto la maniera di cambiare il mondo, opponendo il socialismo al capitalismo, bensì semplicemente di spartirselo.
Una delle concause primarie della guerra fredda, che per la sua entità, diffusione e contemporaneità obbligò le due superpotenze ad un confronto non solo diplomatico ma militare tramite interposte persone, è individuata in “Prospettive rivoluzionarie della crisi”:
«La rivoluzione anticoloniale poteva trovare consensi sia a Mosca sia a Washington, perché entrambe ambivano a soppiantare nelle colonie gli antichi padroni. Ma poneva problemi tremendi, specialmente agli americani, i quali dovevano badare non solo a contrastare l’operato dei russi, ma altresì a fronteggiare le velleità di rivolta dei propri alleati, che ferocemente lottavano per conservare i loro traballanti imperi coloniali. Bisogna pensare all’enorme posta in gioco, alle ingentissime risorse naturali rinserrate nel sottosuolo dei paesi coloniali come ai prodotti delle piantagioni, ai territori di importanza strategica, alle enormi riserve di mano d’opera a bassissimo costo, per comprendere la portata dello svolgimento che la rivoluzione anticoloniale determinava nell’equilibrio tra le potenze imperialistiche (...) Insomma il generalizzato, incontenibile movimento di rivolta delle popolazioni più povere, più oppresse, più affamate del mondo è ciò che doveva far sprofondare l’assetto internazionale venuto fuori dagli accordi tra le massime potenze imperialistiche».
Sono anni in cui ufficialmente gli incontri al vertice avvenivano solo fra le opposte sponde, gli U2 non erano suonatori rock ma aerei spia americani e la classe operaia veniva ben ben torchiata con l’ulteriore scusa di difendere confini, famiglia e democrazia dal bieco aggressore appena fuori l’uscio di casa.
La “distensione” che segue e la ripresa dei contatti diretti nel 1959 tra USA e URSS, con Nixon che per primo si reca a Mosca e poi con Kruscev che con l’agreste consorte restituisce la visita nella capitale del consumismo, indicano che le sponsorizzate rivoluzioni coloniali nel mondo avevano creato un nuovo e soddisfacente assetto dell’equilibrio mondiale con un controllo capillare da parte di queste due potenze.
Da quella data inizia una lunghissima serie di incontri e conferenze sui temi superconciliatori il cui solo elenco occupa decine di pagine negli annali storici che confermano che la distensione, anche detta “equilibrio del terrore”, è soltanto l’aspetto recente assunto dalla crisi capitalistica che, oltre la questione ex-coloniale, ha come concomitanti: la “occidentalizzazione” sovietica, la contemporanea crisi dell’imperialismo americano, la ripresa economica dell’Europa e l’eguaglianza strategico-militare dei due Stati con la fine dell’invulnerabilità dall’esterno degli Stati Uniti.
La crisi dei missili di Cuba nel ’62 fece capire quanto precaria fosse la tregua armata e quasi sicuramente il rientro delle navi russe contenenti le testate atomiche per Castro fu concordato con qualche segreta e losca concessione tra i due grandi ladroni.
In questo periodo di disarmo e conflitti locali un po’ ovunque chi osa ribellarsi, e soprattutto discutere gli equilibri stabiliti, sia grande come la Cecoslovacchia o piccola come Grenada, viene prontamente richiamato all’ordine dai rispettivi padroni che mal sopportano discussioni o fughe.
Il giungere sulla scena mondiale del Giappone, della Cina, della Comunità Europea, ma soprattutto del perdurare della crisi del capitalismo mondiale, con quello americano in testa, ripropone inevitabilmente, invece dell’ “equilibrio multipolare”, la nostra tesi di sempre: guerra o rivoluzione. Naturalmente questo avverrà dopo una serie di incontri per il disarmo, la sicurezza e la cooperazione di cui ormai è faticosissimo seguire il filo.
Tra questi ha destato particolare interesse quello di Malta nel dicembre ’89. Non perché ci siamo augurati che almeno Bush e Gorbaciov abbiano vomitato tutte le budella durante le violente mareggiate che «hanno ostacolato gli incontri» sulle rispettive navi alla fonda nel porto maltese, ma perché nella riunione di condominio si sono ripartiti i compiti e gli oneri di cui al momento si intravedono i primi effetti.
Per il volgo la conferma, con tanto di firma, che gli americani non parleranno più di “scudo spaziale” mentre dai Paesi del Patto di Varsavia spariranno tutti i missili sovietici. Quindi i borghesi possono dormire tranquilli, seguire le quotazioni di Borsa o contare i BOT in santa pace.
La stampa borghese si affrettò a sostenere che si era appena conclusa la terza guerra mondiale, la prima non guerreggiata, gli USA naturalmente i vincitori mentre l’URSS doveva abbassare la cresta per sempre ed occuparsi dei fatti di casa propria.
Al di là della strafessa teoria delle guerra imperialista tra due super potenze senza nemmeno sparare un colpo di fucile, il nostro commento in “Trionfa la putrida America” (“Il Partito Comunista”, 180/1990) è stato evidentemente di diverso avviso:
«Un giornale borghese annunciava qualche tempo fa, commentando gli avvenimenti dell’Est, che l’America ha vinto la terza guerra mondiale senza combatterla. In realtà l’America ha vinto la sua battaglia contro il proletariato e la rivoluzione nel 1940, anno in cui Stalin decise di sacrificare una generazione intera della classe operaia russa a difesa delle centrali imperialiste di Londra e Washington. Il Partito allora lanciò l’avviso al proletariato di non aspettarsi l’arrivo di Baffone a difesa della rivoluzione, perché questi era impegnato a radersi all’americana».
A cavallo di questi incontri, partiti dal totale rientro dell’Armata Rossa dall’Afghanistan, l’unificazione tedesca con il teatrale crollo del muro di Berlino, la caduta di un altro cattivone di nome Ceausescu, la guerra-lampo di Panama per destituire il Presidente-spacciatore Noriega, si susseguono gli atti pacificatori che comprendono inoltre la guerra irakena contro Hussein il Predone di Baghdad, il golpe di una notte di mezza estate contro Gorbaciov, la dissoluzione dell’URSS con la conseguente spartizione dell’esercito, flotta ed armamento nucleare per ultimi, la formazione di Stati indipendenti e sovrani nei Balcani, Slovacchia e Boemia compresa.
Questi fatti distensivi che si susseguono con ritmo incalzante ripropongono la nostra solita tesi: le crisi che ovunque scuotono i vari paesi sono un momento della generale crisi di accumulazione che ormai travolge tutto il pianeta. I Paesi della Vecchia Europa apparentemente si stanno unendo e rafforzando e sembrano immuni da questi contrasti, ma quando la crisi avrà dispiegato tutta la sua entità si troverà, in barba ad ogni trattato, come sempre in prima linea e qui si deciderà la soluzione di Guerra imperialista o Rivoluzione proletaria.
Agli illusi, ai marciatori della pace, a quelli che mettono i fiori nei cannoni ed agli osannanti al dialogo rimarrà come unica risposta la consegna del cancelliere tedesco: i Trattati sono pezzi di carta.
Riproduzioni in grafici dei prospetti statistici del “Corso”
Riportiamo la traduzione da forma numerica a grafica di alcune fra le principali serie storiche-economiche trattate dalle Tabelle del Corso del Capitalismo Mondiale, che abbiamo recentemente ripubblicato, con estensione statistica ai dati più recenti. I diagrammi, cui aggiungiamo queste brevi didascalie, sono quindi da considerare a complemento all’apparato dimostrativo del volume. In particolare la continuità delle curve delle produzioni e la regolarità delle medie annuali degli incrementi, su archi più che secolari, visivamente dimostrano la crescita della instabilità mortale di un unico ciclo mondiale esteso a tutto il pianeta e agli ultimi 150 anni. A conferma del nostro determinismo storico le curve dell’economia, compresse o liberate da guerre, rivoluzioni, ricostruzioni, scavalcano indenni le alternanze delle forme di governo borghesi, risultando queste da quelle dipendenti. Facilmente prevediamo che le future curve economiche dei paesi russi, nonostante la retorica rinnovata del regime, proseguiranno senza “svolte” nel ramo discendente della curva tardo capitalistica. Analoga previsione per l’economia della Germania, che riunificandosi ha riunificato la crisi.
I
grafici in questa prima raccolta si rifanno alla Parte Prima -
Espansione storica del volume della produzione industriale. I primi
otto rappresentano la velocità di crescita delle produzioni di
singoli capitalismi; il nono e il decimo rispettivamente il divenire
della Intensità di industrializzazione nei medesimi paesi e il Peso
relativo di ognuno sul totale mondiale. Gli ultimi due quadri qui
riportati, l’undicesimo e il dodicesimo, descrivono invece
l’andamento della Produzione mondiale dell’industria, con gli
indici del suo Volume e della sua Rata pro-capite.
Grafico n. 1 – da Prospetti III A, III B e III C, pagine 46-51, seconda colonna, Indice dei massimi successivi della Produzione Industriale di Inghilterra, Francia e Germania, con base 100 nel 1913.
In orizzontale sono indicati gli anni, dal 1859 al 1985; in verticale gli Indici. La poligonale della Gran Bretagna è indicata col tratto puntinato, quella della Francia a tratti, quella della Germania con tratto continuo.
Per definizione al 1913 l’indice è, per i tre paesi, uguale a 100, quindi le tre spezzate escono tutte da quel punto: chi poi cresce più velocemente verso destra è indicato più in alto; chi prima del 1913 è cresciuto più velocemente è indicato, a sinistra, più in basso.
Il più vecchio capitalismo, l’inglese, più lento, è quindi quasi sempre il più alto prima del 1913 e il più basso dopo. Dei tre il tedesco, meno decrepito e più veloce, si comporta all’opposto.
La curva inglese, paese mai invaso e mai sconfitto è più regolare. Si osserva solo un eccessivo rallentamento negli anni dal 1883 al 1906, compensato dal breve slancio successivo “contro la regola” che prepara la guerra.
Anche la Germania dal 1913 al 1929 accusa una lentezza troppo precoce, fino alla “cura di giovinezza” del riarmo per la Seconda Guerra e delle sue distruzioni immani. Anche un rallentamento francese si nota dal 1883 al 1899.
Dato che per costruire il diagramma abbiamo preso solo i massimi al momento crescenti delle produzioni (i “record”), è evidente che le curve crescono sempre, scavalcando così anche le profonde recessioni nelle quali le produzioni diminuiscono. Ma, come si vede, non interrompono, né tantomeno invertono il passo storico dell’invecchiamento del modo di produzione: il ritardo viene totalmente recuperato dalla successiva ripresa, che ritorna sulla curva “inviluppo”, come se la crisi non si fosse avuta. Altra dimostrazione che il capitalismo non si “suicida” ma attende il ferro proletario.
Grafico n. 2 – da Prospetti III A, III B e III C, pagine 46-51, nona colonna, Incrementi percentuali annui medi nei Cicli brevi della Produzione industriale di Inghilterra, Francia e Germania.
Invece salgono e scendono i saggi medi annui di accrescimento relativi ai “cicli brevi”, delimitati da alcuni degli anni “di record”, descritti nei successivi diagrammi, raggruppati con criterio storico. Nel grafico 1 abbiamo osserviamo che la crescita ha alternato fasi nelle quali la curva, sempre crescente, più piega verso l’alto – approssimativamente fino al 1913 e nel dopoguerra fino al 1973 – a fasi nelle quali meno si impenna – nell’interguerra e dalla crisi del 1975 in poi.
Queste “depressioni” nel Grafico 2 sono più visibili.
L’ultimo ciclo, si deve obiettare, non è in realtà tale, poiché è calcolato fra gli estremi 1973/74-1985 dei quali il terminale non è anno di massimo ma solo l’ultimo accertato al momento della ristampa del Corso. Ricalcolando oggi i tre saggi otterremo: Inghilterra, 1973-1989, medio + 1,1% contro lo 0,7% sul Corso; Francia, 1974-1990, medio 1,1% contro lo 0,6%; Germania (allora RFT) 1973-1991 (che forse anno di massimo lo potrà essere), in media 0,9% che peggiora appena lo 1,0%. Sulla intera Fase di “vecchiaia” l’aggiustamento sarebbe ovviamente minore. Ritmi tanto modesti non si discostano granché dall’aumento cosiddetto naturale della popolazione, fatto questo di non poco conto.
Come visto per Inghilterra e Francia è individuabile un notevole rallentamento negli ultimi quindici anni del secolo scorso, depressione che meno attacca la relativamente più giovane Germania e uscente da una guerra perduta. Si noti come solo l’ultimo ciclo breve veda avvicinati gli accrescimenti relativi dei tre massimi capitalismi europei, uniti ormai nella decadenza confermata dall’analisi quantitativa almeno dal 1975.
È
da escludere che il capitalismo possa rialzarsi da questi tassi
minimi con terapie incruente.
Grafico n. 3 - da Prospetto III D, pagine 52-53, colonna seconda, Indici dei successivi massimi della Produzione Industriale degli Stati Uniti, con base 100 nel 1913, e, colonna nona, Incrementi percentuali annui medi della medesima nei Cicli brevi.
Il confronto della scalinata degli incrementi medi come andamento e come valori è in USA dissimile da quelli europei, peso diverso se non opposto vi giocano le due guerre, perse entrambi dall’Europa. Più simile l’effetto della depressione 1929-37.
Inoltre la spezzata è tutta spostata verso l’alto, sia nei ritmi antichi sia recenti: dal 7,1% successivo alla guerra di secessione fino all’ultimo 2,5%, che si aggiusta a 2,6% considerando il ciclo 1974-1990.
Senz’altro confermato il degradare secolare del tasso di accrescimento, fenomeno irreversibile e parallelo al contrarsi storico del saggio di profitto.
Grafico n. 4 - da Prospetti III E e III F, pagine 54-57, seconda colonna, Indice dei massimi successivi della produzione industriale del Giappone e dell’Unione Sovietica.
Sono i capitalismi più giovani, per i quali l’asse degli anni comincia solo al 1913 e la scala degli indici si è dovuta notevolmente ridurre.
Della produzione giapponese si evidenzia tanto il rallentamento durante gli anni della depressione mondiale e la guerra disastrosa 1929-1944 quanto il velocissimo recupero “ricostruttore”.
Per
l’URSS, data la particolarità del suo sviluppo, quantunque
capitalistico, sono rappresentati gli indici anche di due anni non
di massimo ma di minimo, il 1920, anno in cui affermiamo essere il
capitalismo russo “rinato”, e il 1946; il 1926 è l’anno nel
quale si recuperò la produzione del 1913. In questo dopoguerra, la
statistica ufficiale non denunciando regressi fino ad anni
recentissimi, si assumevano per estremi gli anni dei piani
quinquennali. La curva russa, quindi, è sempre crescente con le
eccezioni del 1914-1920 di guerra e rivoluzione e del 1940-46 di
nuovo macello imperiale.
Il fatto che le curve dei due paesi si incrociano nel 1962 indica che solo dopo la Seconda Guerra l’URSS poteva recuperare appieno le distruzioni precedenti.
Grafico n. 5 - da Prospetto III E e III F, pagine 54-57, colonne none, Incremento relativo medio annuo della Produzione industriale nei cicli brevi di Giappone e URSS.
Il degradare degli incrementi giapponesi mostra due depressioni, la prima dalla fine della Prima Guerra alla fine della Seconda, e una seconda attuale e in corso a far data dal massimo del 1973. Delle due, secondo la regola, il secondo ciclo vede crescere la produzione più lentamente del primo.
Più complessa la costruzione e l’interpretazione dei dati URSS, come si legge nei paragrafi 10 e 11, nelle Tabelle 1° e 4B e nel relativo commento. Il diagramma presenta i due tratti inferiori allo zero che si è detto. Poi il degradare del ritmo, dal 1946, è regolare, approdando alla crisi recente che innescò il tentativo perestroico con un relativamente modesto 4,1%, pur sempre superiore ai contemporanei euro-americani.
L’effetto delle due distruzioni belliche, gravissime quelle della Prima e della guerra civile, tali da farci ipotizzare una totale rinascita allora del capitalismo russo, può essere “assorbito” nel ciclo lungo secondo le tre diverse ipotesi rappresentate nella Tabella 4B. Ignorando la “rinascita”, un ciclo lungo unico sopra guerra e rivoluzione dal 1913 al 1940, il cui saggio annuo medio risulterebbe dell’8,3%, nel grafico si collocherebbe giusto sopra la linea del Giappone; resterebbe superiore, seppure di poco, al ritmo del ciclo lungo successivo, 1940-87, del 7,3%. Altri anni di inizio del ciclo, al minimo del 1920 o al 1926, anno di recupero della quota 1913, danno ovviamente, incrementi medi superiori, ed è comunque confermato il nostro assunto che l’economia russa del cosiddetto “socialismo reale” obbedisce alle stesse leggi dei restanti dichiarati capitalismi.
Grafico n. 6 - da Tabella 4A, pagine 68-69, Incremento relativo della Produzione Industriale in URSS.
La tabella da cui è tratto il diagramma adotta per gli incrementi una scala logaritmica, e non lineare come gli altri qui presentati: la scala, più i tassi si accrescono, più “si restringe”, in modo da far entrare nei limiti del disegno le crescite molto elevate delle origini e di rendere distinguibili i piccoli scarti dei bassi saggi di incremento recenti. I punti segnati sono quelli dei successivi massimi e minimi dei saggi di incremento, che quindi si potrebbero unire fra loro in successione con una spezzata senza grande errore.
Ai punti del dopoguerra abbiamo sovrapposto una certa “curva di regressione”, senza fare angoli e che vi passa nel mezzo cercando di individuarne l’andamento tendenziale storico al di sopra di scostamenti accidentali. Sarebbe possibile tentare una Integrale della Equazione storica del capitalismo. Ne darebbe la dimostrazione formale della corsa verso l’abisso. Quella sostanziale i diseredati l’hanno da lungo tempo scritta sulla propria pelle, come la necessità di classe di spezzarla.
Grafico n. 7 e 8 - da Tabelle 1 e 2, pagine 60, Confronto degli incrementi relativi medi annui della Produzione industriale per Periodi paralleli e, rispettivamente, per Fasi di età dei capitalismi.
Risultano evidenti tre nostre tesi sull’invecchiamento delle macchine capitalistiche.
1) Il ritmo di accrescimento, in cicli che ne compensino le recessioni, tende a diminuire nel tempo. In entrambi i grafici le singole spezzate degradano da sinistra a destra.
2) I capitalismi più giovani, in un dato anno, presentano velocità di crescita superiori ai più anziani. Nel grafico 7, infatti, in ogni anno la successione delle linee, dal basso all’alto corrisponde alla graduatoria di anzianità: Inghilterra, Francia, Germania, USA, Giappone, URSS. Le curve non si incrociano mai, veri e propri binari convergenti della storia. È evidente che il mondo capitalistico si sta infilando tutto in una stretta gola.
3) A parità di anzianità i capitalismi che partono più tardi presentano velocità di crescita maggiori rispetto a quelli che li hanno preceduti. Sul grafico 8, le “gioventù” russa e giapponese sono segnate più in alto delle corrispondenti di Germania, Francia e Gran Bretagna. Lo stesso risulta dal confronto delle fasi di maturità. Altrimenti detto: i giovani capitalismi invecchiano più velocemente.
L’unico intersecarsi fra linee, con l’inversione della “vecchiaia” giapponese, inferiore a quella americana, in parte si rimedia già con i dati giapponesi al 1991, che danno una media di 3,5%, di non molto inferiore al 3,7% USA, in parte esprime la compressione esercitata sull’economia del Giappone dal protezionismo dei concorrenti europei e americani, con maggiore peso militare e diplomatico. Per ora.
Grafico n. 9 - da Prospetto IV B, pagine 84-87, Distribuzione percentuale della Produzione industriale nel mondo.
L’imponenza che hanno assunto gli Stati Uniti nel panorama mondiale dell’industria è dal grafico ben evidente, con incontrastato dominio dal 1890 in poi, con alti massimi nei due dopoguerra.
I drammatici svolti del secolo che ci sta alle spalle sono così leggibili: 1870, ancora domina la Gran Bretagna su tutti, che distanzia gli USA, già in ascesa però, la Germania e la Francia, questa in declino fin da allora. Invisibili ancora gli altri. Poi rapido declino inglese che è sorpassato irrimediabilmente dagli USA in fin di secolo, per ingaggiare la lunga contesa con la Germania, le curve dei quali più volte si intersecano sul confine delle paci e delle guerre. La vittoria ultima non rallenta il declino britannico. Allo scoppio del primo massacro universale gli USA hanno già distanziato i secondi tedeschi-inglesi, i quali superano assai i francesi e questi i minori.
La percentuale degli “altri”, che comprende paesi capitalistici e pre-capitalistici, è ora al 20,2% (non indicata nel grafico). Un solo spostamento porta questo equilibrio a quello della vigilia del secondo macello: la Russia raggiunge il drappello dei secondi, intorno al 10% ciascuno, gli USA ancora dominanti, i minori a pochi percento. Gli “altri” sono scesi al 15%.
Venendo all’oggi risultano gli USA ancora primi ma di non grande misura e in netto declino, come e quanto i rivali inglesi di cento anni fa. Ma, rispetto ad allora, nessuno, tranne, ma ancora per poco, il Giappone, è in ascesa relativa sul totale mondiale. I massimi capitalismi sono tutti decrepiti, e si accrescono più lentamente della media mondiale. Ciò significa che altri paesi stanno correndo verso il pieno capitalismo (e quindi verso il comunismo) più speditamente di essi. Il peso proporzionale degli “altri”, infatti assurge nel 1985 addirittura al 39,7%, peso politico e domani rivoluzionario non trascurabile. La graduatoria finale vedeva nel 1985 USA e URSS in testa, distanti Giappone, poi Germania, infine, sempre sul 2%, le nazioni minori europee.
Grafico n. 10 - da Prospetto IV B, pagine 84-90, Intensità qualitativa dell’industrializzazione.
Il diagramma è derivato dal precedente, ove ogni curva viene abbassata in proporzione alla popolazione corrente di ogni paese. Il grafico 9 indica la estensione, il volume, la potenza di un industrialismo (e quindi militarismo), questo il grado di industrializzazione, la modernità di un paese rispetto alla media mondiale fatta uguale a 100. Quindi i paesi più popolosi, Russia e America, si vedono abbassati, i meno popolosi alzati.
Qui la convergenza negli ultimi anni è assai maggiore, notevole al 1985 fra Germania e URSS e fra Inghilterra e Italia. Il ventaglio è venuto restringendosi su un ipotetico valore limite massimo del ciclo storico capitalistico.
Grafico n. 11 e 12 - da Prospetti VI A e VI B, pagine 100-103, colonne due e nove, Indici della Produzione Industriale mondiale e suo incremento relativo nei Cicli brevi, in Volume e Pro-capite.
La serie, pur calante nei cicli lunghi, è qui meno continua e regolare. Essa comprende infatti un fenomeno nei precedenti quadri non considerato: l’accesso al capitalismo di nuovi territori che bruscamente – a scala storica – innestano un tumultuoso sviluppo partendo da statici piccoli industrialismi primitivi. Nel testo si valuta il peso della rinascita industriale russa, più recentemente si può considerare l’apporto della Cina e di non pochi paesi asiatici. Questa risorsa di giovinezza per il capitalismo planetario, che la nostra grande Rosa gli riteneva indispensabile, alla fine di questo secolo tormentato va gradualmente esaurendosi: abbiamo un mondo quasi tutto trascinato nel girone capitalistico. Slanci ventennali come quello 1956-74 al 6,6% saranno in futuro sempre più difficili, restando vergini al moderno infame ma magico industrialismo solo le profondità continentali dell’Asia popolosa e della desertica Africa equatoriale.
Il grafico 12, derivato dal precedente, mostra molto minore slancio. La curva dell’accrescimento del prodotto pro-capite si abbassa oggi all’1,5% annuo. Solo 0,8% nei sei anni dal 1979 al 1985. Il capitalismo come sistema comincia a dare troppo poco all’accresciuta popolazione in cambio delle mostruose sofferenze che richiede! Maturano i tempi per la sua rivoluzionaria eliminazione storica.
Lo sviluppo materialistico della scrittura
Alcuni specializzatissimi “mass-media” borghesi ci avvisano che ormai «viviamo nel villaggio globale il cui linguaggio è basato sulla comunicazione visiva tecnologicamente avanzata». Rassicurati da questa preziosissima buona novella, che prima o poi vedremo sulle pagine del Televideo, ai telecretini di turno riproponiamo le nostre posizioni a basso contenuto tecnologico ma ad alto, e per loro irraggiungibile, livello dialettico.
Il linguaggio non è una cultura bensì un mezzo di produzione, e le modalità e gli aspetti con cui si presenta e si sviluppa sono in funzione della forma di produzione a cui appartengono.
Il linguaggio sorge dal bisogno, dalla necessità di rapporti con altri uomini. Il linguaggio nelle sue forme prima orale poi scritte segue passo dopo passo lo sviluppo delle forme di produzione delle società umane.
In questo studio consideriamo le origini e lo sviluppo della scrittura, il più antico sistema escogitato per fissare nel tempo un pensiero, come aspetto più appariscente dell’evoluzione del linguaggio.
Per risalire alle origini della scrittura dobbiamo, da marxisti, utilizzare il canone giusto che risiede nell’analisi materialistica della storia. Senza questa impalcatura non si potrebbe far altro che edificare un castello di fumo.
Questo lavoro ha anche la funzione di riaffermare la concezione materialistica della storia, e della teoria marxista nel suo insieme, contro la concezione idealista e volontaristica dell’intellettuale al servizio della borghesia che considera la volontà come il motore delle vicende umane.
Non sono i grandi nomi che “fanno” la storia, al contrario sono i gruppi umani socializzati in determinati rapporti di produzione che producono al loro interno uomini e situazioni necessarie al passaggio da una forma di produzione obsoleta ad una più evoluta.
Il genere umano, partito dalla primaria forma arcaica ed irripetibile del comunismo primitivo, giungerà inevitabilmente, in modo né pacifico né lineare, passando tra forme intermedie, al comunismo superiore.
Ci serviamo di alcune citazioni base tratte dalla nostra storia.
Da “Antidühring” di F. Engels:
«La concezione materialistica della storia parte dal principio che la produzione e, con la produzione, lo scambio dei suoi prodotti sono la base di ogni ordinamento sociale; che, in ogni società che si presenta nella storia, la distribuzione dei prodotti, e con essa l’articolazione della società in classi o Stati, si modella su ciò che si produce, nel modo come si produce e sul modo come si scambia ciò che si produce».
Quindi anche nell’analisi storica dello sviluppo della scrittura non dovremmo chiederci di un gruppo umano chi era il loro re, chi si consideravano nel loro intimo, quali erano i loro usi e i costumi e lo sviluppo delle loro arti, bensì come producevano, come distribuivano i prodotti, quali erano le divisioni sociali. Scopriremo che determinate forme di linguaggio corrispondono a determinate forme sociali ed economiche e che, di conseguenza, forme più elaborate di scrittura erano sorte come indispensabili alla sopravvivenza della forma economica-sociale vigente.
«Le epoche economiche si distinguono non per quello che viene prodotto, ma per come, con quali mezzi di lavoro, viene prodotto. I mezzi di lavoro non servono solo a misurare i gradi di sviluppo della forza lavorativa dell’uomo, ma pure ad indicare i rapporti sociali nel cui ambito è effettuato il lavoro» (Marx, “Il Capitale”, 1°).
Il linguaggio è appunto un mezzo di produzione e le sue concretizzazioni, scrittura, aritmetica, telecomunicazioni, linguaggi di programmazione, ecc. lo sono a pieno titolo. La scrittura che oggettiva il linguaggio è uno strumento indispensabile di lavoro alla stessa stregua della zappa, del camion o del computer.
Chi osa negare che oggi senza la perfetta conoscenza dell’inglese non si possa entrare negli affari con qualche possibilità di riuscita? Il computer e l’inglese oggi sono la conditio sine qua non degli affari con molti zeri. Un avanzamento nelle forme di produzione porta sempre con sé un avanzamento nella scrittura. Si può quindi leggere la storia economica e sociale di un popolo anche attraverso lo studio dell’evoluzione del linguaggio e, più agevolmente, della scrittura.
Da “Fattori di razza e nazione nella teoria marxista”:
«Hanno espressione comune fonetica all’inizio i gruppi che hanno, al tempo stesso, comune la cerchia di riproduzione e l’attrezzatura e capacità produttiva di quanto è necessario alla vita materiale.
«Può dirsi che l’uso di suoni per comunicare tra individui si comincia a riscontrare presso le specie animali. Ma la modulazione del suono che possono emettere gli organi vocali di animali di una stessa specie (ereditarietà puramente fisiologica nella struttura e possibilità funzionale di tali organi) è molto lontana dalla formazione di una lingua con un dato complesso di vocaboli. Il vocabolo non fa la sua comparsa per designare il soggetto che parla o quello cui si dirige il discorso, l’esemplare di sesso opposto o la parte del corpo o la luce, la tenebra, la terra, l’acqua, il cibo, il pericolo. Il linguaggio per vocaboli nasce quando è nato il lavoro a mezzo di utensili; la produzione di oggetti di consumo a mezzo di opera associata di uomini (...) Non vi è dunque dubbio alcuno nella definizione marxista che il linguaggio è uno strumento della produzione».
Nelle pagine seguenti di quel testo si commenta il mito della Torre di Babele: popoli con linguaggi diversi uniti nella costruzione di un progetto comune videro fallire il loro scopo per l’impossibilità di comunicare in modo efficace tra di loro. Storicamente il problema è stato senza dubbio molto sentito poiché lo stesso mito si ritrova, con le modifiche del caso, presso gruppi etnici molto diversi e in posti lontani sia geograficamente sia storicamente.
Ancora dal nostro testo:
«Ogni attività umana comune ai fini produttivi, nel più largo senso, esige per la utile collaborazione un sistema di comunicazione tra i lavoratori. Partendo dal semplice sforzo per la preda o per la difesa cui bastano i semplici incitamenti istintivi la spinta o l’urlo animale, allorché invece occorrono scelte nel tempo o di luogo di azione, o di mezzo (attrezzo primitivo, ecc.) in una serie lunghissima di tentativi falliti e di repliche, sorge la parola. Il procedimento è opposto a quello della illusione idealista: un innovatore immagina nel suo cervello senza mai averlo visto il nuovo metodo “tecnologico”, lo spiega parlando agli altri, e ne dirige coi suoi ordini la realizzazione. Non la serie pensiero, parola, azione ma proprio l’opposta».
La parola dura nel tempo quanto il suo suono o il ricordo nella mente umana singola o associata in una lunga catena nel tempo. Ben presto si pose il problema di fissarla inequivocabilmente nel tempo. Ecco quindi che si attua una lunga successione che parte dal canto corale mnemonico, poesia, poi in uno stadio più evoluto segno e scrittura. Ma non bisogna assolutamente pensare che ciò muovesse da scopi “culturali”; al contrario avvenne per meglio regolare le condizioni materiali necessarie alla sopravvivenza. Anche la scrittura, linguaggio fissato nel tempo, è un mezzo di produzione.
Ogni cambiamento della forma linguistica orale e scritta equivale sempre ad un salto produttivo. Ancor meglio possiamo dire che un modo di produzione più evoluto del precedente necessita per il suo sviluppo e consolidamento di una forma di linguaggio più raffinata e più rispondente alle nuove leggi della produzione.
Sono passati migliaia di anni da quando i primi uomini comunicavano ai loro simili che in certe zone c’era selvaggina da cacciare e rifugio dalle belve stilizzando, in maniera semplice ma efficace, nelle grotte usualmente abitate le scene di caccia che lì avvenivano, che tipi di animali vivevano, con quali armi, tecnica e strategia dovevano affrontarli. Per meglio ricordare ma soprattutto per comunicarlo a quanti arrivavano in quella zona alla ricerca di cibo durante le epoche del nomadismo o dei lunghi inseguimenti della selvaggina trovarono molto pratico “dipingere” la loro esperienza sulle rocce.
Quelle pitture altro non erano che dei veri e propri Manuali illustrati per la sopravvivenza, o i primi fascicoli della Enciclopedia della scienza e della tecnica. Se osserviamo quelle pitture rupestri potremo leggere molto facilmente diverse informazioni, elementari ma complete. Sono dei testi di storia semplici di persone semplici. L’esperienza collettiva, il “know-how” della caccia si è fissato per sempre con pochi tratti sulle pareti fumose di caverne.
Certamente anche le decorazioni sul vasellame ritrovato e sui pochi manufatti che hanno resistito al tempo vanno intesi come primi tentativi di un linguaggio vagamente codificato. Molto probabilmente indicano il luogo ove è stato fatto, chi aveva lavorato alla realizzazione, da chi veniva usato o chi lo aveva in custodia, che cosa doveva contenere, chi era il capo della piccola comunità. Certamente sarà pressoché impossibile risalire al codice di lettura di questi semplici segni, ma solo muovendosi con questo criterio si potrà sapere di più, ed in modo preciso, del nostro passato.
Possiamo seguire l’evoluzione di questi semplici segni fino alla comunicazione dei nostri giorni utilizzando il metodo marxista nell’analisi della storia.
Evoluzione della scrittura
Il vocabolario dei nostri antenati più vecchi si arricchisce sempre di più di nuovi termini man mano che si sviluppa il modo di produrre ciò di cui hanno bisogno.
È uno sviluppo lento e contorto determinato principalmente dalle non facili condizioni materiali in cui si svolge la vita. Condizioni ambientali e climatiche cicliche che non presentano grossi cambiamenti favoriscono il perdurare di quanto acquisito e non forniscono occasioni di grandi rinnovamenti. Al contrario rapidi cambiamenti o mutevoli condizioni generali di vita obbligano i gruppi umani a nuovi adattamenti e quindi a fornirsi di nuovi strumenti, spesso da inventare, e ad abbandonare ciò di cui non hanno più bisogno. Anche per questo motivo civiltà relegate in specie di paradisi terrestri dove non cambia mai niente, e le condizioni materiali della riproduzione della vita sono facili, hanno mantenuto inalterate per millenni le abitudini di vita fin quasi ai giorni nostri.
Nella fase più antica, relativa ad una economia di semplice raccolta e di caccia collettiva, il linguaggio è fissato nel tempo in modo semplice e diretto mediante la pittura intesa come scrittura.
L’insieme del messaggio è fornito dall’immediato ed inconfondibile riconoscimento di ciò che è rappresentato: un uomo lo si riconosce facilmente, come pure un animale e quattro zampe con le corna e una freccia nel fianco è un segno privo di dubbi. Le relazioni tra le parti della scena ci sono fornite dallo studio dei rapporti di grandezza e di posto fra i segni. Due figure umane, una molto più grande dell’altra ci fanno capire che si tratta di un uomo con un bambino, mentre una figura umana inginocchiata di fronte ad un guerriero con scudo e lancia sono chiaramente il segno di resa di un uomo prigioniero ad un vincitore. E così via.
Gli oggetti e le persone dipinte rappresentano solamente se stesse: un cervo rappresenta un cervo e solamente un cervo.
Siamo di fronte ad una fase, questa del “pittogramma”, molto semplice, segno di un’economia molto semplice, e comprensibile attraverso un immediato processo di identificazione. Ogni segno rappresenta un oggetto, o una situazione materiale da tutti conosciuta. Il messaggio relativo ai rapporti non materiali è dato dalla comprensione o meglio dal riconoscimento della scena nel suo insieme, mentre concetti astratti veri e propri non esistono e possono essere espressi solo quelli che si possono rappresentare attraverso situazioni concrete.
Il fatto di avere in epoche e località diverse lo stesso sistema di scrittura pittografica sta soltanto a indicare che in epoche diverse e in altrettanto diverse regioni vivevano civiltà allo stesso livello di sviluppo.
L’evoluzione del genere umano non viene più intesa da parecchio tempo come una discendenza da un unico progenitore, in un gigantesco albero genealogico dove i gruppi umani sono in diretta successione tra di loro, bensì come una rete, una maglia per nulla regolare, i cui tratti si incrociano e si riannodano di continuo producendo nel suo insieme un avanzamento generale della popolazione terrestre. Alcuni gruppi, meglio dire economie, sono più avanzati mentre altri non spinti dal bisogno dormono in un sogno incantato. Al loro risveglio si trovano oggi davanti grigi individui in doppio petto forieri di oppressione e sfruttamento coloniale o imperialista.
Se alcuni gruppi umani non svilupparono il loro sistema di scrittura oltre questi livelli minimali non sta ad indicare che fossero costituzionalmente incapaci di ragionamento astratto, bensì che il loro sistema di riproduzione non si sviluppò mai oltre quel livello minimo. Molti popoli sono scomparsi a questo stadio, mai spinti ad evolversi.
Lo stadio di sviluppo degli indiani dell’America del Nord, comunque diverso e in modo rilevante tra tribù, non si evolse dalla più semplice fase dello stato selvaggio fino alla loro totale scomparsa o forzato assorbimento nel capitalismo moderno. Infatti la scrittura degli indiani delle grandi praterie rimase una forma di pittogramma leggermente evoluto. Ben diverso fu invece il percorso delle tribù della costa occidentale venute in contatto con gli europei molto tempo prima.
Il testo di Engels “Origine della famiglia, della proprietà e dello Stato”, 1° Capitolo, Stadi preistorici della civiltà, definisce la forma primaria di produzione detta del Comunismo Primitivo:
«Lo
stato selvaggio è il periodo in cui prevale l’appropriazione di
prodotti naturali così come sono; i prodotti dell’arte umana
constano prevalentemente in strumenti ausiliari per questa
appropriazione.
«Diviso
in stadio inferiore, medio, superiore, descrive la discesa dagli
alberi dell’uomo fino all’introduzione dell’arco, della
freccia, dell’uso del fuoco, ma non dell’arte vasaria che
segnerebbe il passaggio allo stadio successivo della barbarie.
Questo è il periodo dell’acquisizione dell’allevamento del
bestiame, dell’agricoltura, dell’apprendimento di metodi per la
produzione di prodotti naturali, accresciuta dall’attività umana.
«Questo
periodo è ulteriormente diviso in tre stadi: l’inferiore comincia
con l’introduzione della ceramica, dell’addomesticamento del
bestiame e della coltivazione delle piante. Nello stadio intermedio
inizia in Oriente l’allevamento di animali in grande numero, in
Occidente la coltivazione di piante alimentari per mezzo
dell’irrigazione e con l’uso di mattoni seccati al sole. Nel
terzo stadio, il superiore, incomincia la fusione dei metalli di
ferro e si compie il passaggio alla civiltà con l’invenzione
della scrittura alfabetica e con il suo uso per trascrizioni
letterarie. A questo stadio appartengono i Greci dell’epoca
eroica, le tribù italiche di poco anteriori alla fondazione di
Roma, i tedeschi di cui parla Tacito, i normanni dell’epoca dei
Vichinghi. Questo stadio che solo nell’emisfero orientale fu
percorso in maniera autonoma, per ciò che riguarda il progresso
della produzione fu il più ricco di tutti i precedenti messi
insieme. I poemi omerici dell’Iliade e dell’Odissea sono le
punte più avanzate di quel periodo.
«Dalla
Barbarie si passa alla Civiltà con l’apprendimento dell’ulteriore
elaborazione di prodotti naturali, dell’industria e dell’arte
propriamente detta; inoltre viene introdotto il denaro metallico, la
formazione della classe dei commercianti, la proprietà fondiaria
privata e il lavoro degli schiavi come forma di produzione
dominante».
Si vede bene il legame esistente tra il passaggio da uno stadio all’altro e i grandi cambiamenti apportati nella produzione che determinano i cambiamenti nelle forme di comunicazione fra gli uomini.
Le pitture rupestri ora assumono un significato più chiaro perché siamo di fronte, con i pittogrammi, all’embrione della scrittura alfabetica; essi ne rappresentano la forma di partenza tipica del periodo superiore dello stato selvaggio. Caccia collettiva, archi e frecce, tronchi scavati col fuoco o papiri intrecciati per la pesca con rudimentali ami sono i pittogrammi più ricorrenti di questa “letteratura”.
In uno stadio successivo, mutate le condizioni materiali, la pittura non basta più per fissare un linguaggio diventato più ricco e più articolato, poiché ora si rende necessario comunicare un numero di situazioni nuove e diverse dalla caccia e dalla pesca.
Con lo stesso principio della rappresentazione immediata si disegnano i primi manufatti. Si formano tanti simboli grafici quanti sono gli oggetti noti riportandoli a tratti sempre più ridotti, essenziali, fino a giungere ad un segno convenzionale accettato e riconosciuto da tutti. Siamo di fronte alla nascita dei primi “ideogrammi”, che segnano un grande passo in avanti: lentamente il segno grafico si riduce mentre si amplia sempre di più il suo significato, ovvero lo stesso segno comprende più situazioni aventi tra di loro una qualche affinità.
Ad esempio in una pittura rupestre un cervo rappresenta esclusivamente un solo esemplare di un certo animale con le corna che per essere utile all’alimentazione doveva essere cacciato. Ora invece una V ramificata non vuol più solo significare un cervo, ma lo stesso segno indica il cibo di origine animale e, poiché non era addomesticato, intende anche significare l’azione della caccia. Ora non è più sufficiente una immediata identificazione ma occorre un processo di astrazione, anche se minimo.
L’ampliamento grafico è però ancora soltanto quantitativo ed è strettamente legato al numero delle cose note. Nel complesso si tratta di una scrittura statica perché non è ancora possibile rappresentare rapporti in movimento ed idee astratte.
Vedremo in seguito come evolverà la scrittura nella rappresentazione dei suoni.
Caro Emanuele (oh!... non Kant, solo Severino), se la formula non fosse logora, e forse a Lei invisa, potremmo dire, a proposito del suo “assunto”: da giuste premesse, errate conclusioni. Ma lasciamo perdere le inutili epistole e veniamo al dunque.
Ancora una volta, se pur ce ne fosse stato bisogno, il Pensiero Forte, di cui Severino si atteggia a campione e restauratore, si dimostra invece debole, quanto quello dichiaratamente Debole dei suoi (ed a noi egualmente invisi) avversari.
Basta leggere il fondo della terza pagina del Corriere della Sera del 28 luglio, al quale è stato affidato il compito di veder le cose da una certa altezza e distanza, come dire storicità ed oggettività, a proposito di mafia ed ex fattore “K”.
Il nostro, prendendo le distanze, come si conviene alla Filosofia, dalle geremiadi e dai gesti teatrali delle prime pagine, dedicate al grosso pubblico, sui delitti di mafia che insanguinano l’Italia, parte bene, riconoscendo che nell’ultimo mezzo secolo
«Nelle democrazie occidentali si è formata e consolidata una rete d’intese tra le istituzioni dello Stato democratico e le forze del Capitale (sic) da un lato, e le forme più potenti di devianza sociale, tra cui la Mafia, dall’altro. Ma ora che il Comunismo è finito, la prima di queste due parti contraenti vorrebbe recedere dal passo incontrando però la più forte resistenza dell’altra».
Severino ammette che lo Stato del Capitale non si è tirato indietro di fronte a patti scellerati con le forze più oscure e criminali anche comuni, per combattere il vero nemico, cioè il Comunismo, violando «l’ordine legale, anche gravemente», con la riserva mentale di usare la Mafia e di liberarsene appena ottenuto lo scopo.
Dunque, quando noi, predicatori nel deserto, abbiamo per 70 anni sostenuto che lo Stato del Capitale, democratico o fascista, secondo la teoria del “nemico principale”, ha stretto i rapporti più biechi contro il proletariato, non facevamo le vittime ma dicevamo una patente verità che oggi viene riconosciuta dal Pensiero Forte! Molto più semplicemente, e tragicamente, il Partito di classe non faceva che attingere alla sua collaudata esperienza e dottrina storica, che ha sempre tassativamente escluso la possibilità di stringere patti scellerati con le canaglie ed il lumpenproletariat, gens sans feu et sans aveu, non tanto per astratti principi morali, ma per ragioni di verità storica che è la più vera forma di moralità.
Solo lo Stato del capitale, e l’opportunismo in forma anche più squallida, possono e devono siglare alleanze con le mezze classi senza storia autonoma e con la delinquenza organizzata.
E dobbiamo dire in sovrappiù, perché i loro rapporti non sono tanto estrinsechi come si tende a raccontare, ma invece connaturati e connaturali con esse. Che cos’è infatti il Capitale come modo di produzione, nella sua attuale fase senescente e putrida, se non una mafia organizzata il cui esclusivo imperativo, pena la vita o la morte, è l’estorsione del plusvalore? Questo solo noi lo possiamo dire, perché l’ex-opportunismo, con la sua capziosa distinzione tra “onesti” e “disonesti”, ultima versione moralistica e fetida di quella storicamente sostenuta a suo tempo, tra “capitale progressista” e “capitale guerrafondaio e reazionario”, non solo non ha più le carte in regola per sostenerlo, ma se ne guarda bene, dopo i rovesci storici che sappiamo.
Ed allora diciamo che fino a questo punto il Pensiero Forte dei Severino, ci dà ragione. Sennonché, poiché tra il dire e il fare c’è sempre di mezzo il mare, la conclusione è desolatamente la solita:
«Il modo migliore per difendere lo Stato di diritto in Italia è il risanamento dell’economia, e la riforma delle Istituzioni che sottendono, dopo il “compromesso storico” con il crimine, il divario storico da esso».
Era naturale. Chi si fosse illuso che il Pensiero Forte, in nome della Filosofia, avesse potuto proporre una conclusione meno melensa, è servito. Essa è una prova ulteriore dello stretto ed organico connubio tra intellettuali sedicenti “indipendenti” e metastasi capitalistica.
Un piccolo consiglio ai Severino vari: è inutile scomodare la Necessità o l’Essere per giungere a proposte politiche così scontate. La forza reale del pensiero non risiede affatto nella “contemplazione” del mondo, ma nella sua trasformazione. Si, è vero, è la vecchia formula di Marx, ma non ce n’è in vista una migliore, e Severino lo conferma.
Azione e teoria, classe e partito nella concezione marxista e nella rivoluzione
Esposto a Firenze nell’ottobre 1991 e a Bolzano nel gennaio 1992 [RG51-52]
(continua dal numero 31)
- Paradigma forte e debole nella scienza sociale
- Esperienza e ragione
- La coscienza, bestia nera del marxismo
(continua)
[ È qui ]
Appunti per la Storia della Sinistra
Esposto alle riunioni da febbraio ad ottobre 1991 [RG49-51]
La
democrazia vota dittatura
All’inizio del 1933 Hitler compiva l’ultimo passo della sua scalata democratica al potere. Il nuovo cancelliere godeva dell’appoggio incondizionato della grande finanza e della piccola borghesia, degli industriali e degli studenti, dei democratici e dei nostalgici degli Hohenzollern, della chiesa cattolica e di quelle protestanti. In politica estera la scena si ripeteva: Parigi, Londra, Washington, Roma (a dire il vero quest’ultima sembrava la più tiepida), tutti facevano voti augurali al nuovo baluardo della civiltà contro l’ultimo attacco del bolscevismo internazionale.
Il proletariato, prostrato dalla sconfitta, veniva ancora una volta distolto dal suo indirizzo classista da quei partiti che per anni ed anni lo avevano tradito e consegnato inerme nelle mani dei boia nazisti, mercenari del capitalismo.
Al proletariato veniva ora lanciata la parola d’ordine del fronte unico. Ma quale? Con chi? Per rivendicare cosa? Il Partito Socialdemocratico si dichiarava pronto a partecipare al fronte unico a patto che i comunisti cessassero ogni polemica, definita “fratricida”. Ma su quali basi si sarebbe dovuta condurre la lotta contro il fascismo non veniva detto.
Gli
stalinisti condizionavano la loro adesione al fronte unico alla
direzione da parte loro delle lotte contro il fascismo. Ma in che
cosa consistessero queste lotte non veniva detto. Essi, che fino al
giorno avanti avevano presentato ai proletari l’identità fascismo-socialdemocrazia, accettavano ora, a certe condizioni, il fronte
unico con i “capoccia social-fascisti”. L’Internazionale di
Mosca, nata come reazione al tradimento della Seconda Internazionale e
con lo scopo di condurre il proletariato alla conquista del potere,
nel suo Manifesto dichiarava di rinunciare alla critica durante la
lotta, cioè abdicava alla sua funzione di guida del movimento
rivoluzionario. Mentre fino al giorno precedente i suoi dirigenti
avevano affermato che il governo fascista avrebbe rappresentato il
preludio della rivoluzione, che le masse naziste avrebbero, nello
spazio di tre mesi, disertato il fascismo per unirsi al movimento
rivoluzionario, che la socialdemocrazia si sarebbe dissolta, il
giorno dopo, quegli stessi dirigenti, presi dallo spavento,
accettarono di unirsi al “socialfascismo” per fronteggiare
il “nazional-socialismo”.
Per
la opposizione di sinistra trotskista era necessario costituire dei
“comitati locali di difesa, cioè i soviet di domani”.
Di fronte ad un apparato repressivo statale ed illegale, deciso a
stroncare brutalmente ogni forma di opposizione non solo proletaria,
l’estrema sinistra del movimento proletario proponeva la
creazione di comitati locali di difesa.
Comunque,
tutti quanti, a certe condizioni, erano disposti ad attuare il
cosiddetto fronte unico politico, cioè a tradire
ancora una volta la classe operaia.
“Prometeo”, il 5 marzo 1933, scriveva al riguardo:
«I partiti sono degli
organismi che rappresentano gli interessi dell’una o dell’altra
delle due classi fondamentali in lotta. Sul terreno dei partiti non
esiste una possibilità di fronte unico che alla sola condizione che
il partito si disponga sulla via del tradimento diretto degli
interessi del proletariato. E in definitiva si vuole davvero un
fronte unico di lotta per la difesa del proletariato tedesco? Si
vogliono spostare sul piano della lotta le masse che seguono la
socialdemocrazia? Ma allora perché non andare difilati verso
le organizzazioni sindacali che queste masse contengono, perché si
vuole il fronte unico di partito che comporta dei problemi
direttamente collegati con la gestione dello Stato capitalista?
Perché non si parla nemmeno dei sindacati, perché non se ne fa la
base dell’organizzazione del fronte unico, quando essi sono fondati
sul principio della lotta di classe? Tutta questa serie di
interrogativi trova una sola spiegazione. Si dice che si vogliono le
masse, ma non si va dove stanno le masse, unicamente perché si
conta sull’appoggio dell’organizzazione stessa della
socialdemocrazia per la lotta contro il fascismo. Abbiamo a diverse
riprese spiegato che la socialdemocrazia, lungi dal rappresentare
una forza capace di combattere contro il fascismo, ha la funzione di
“dichiarare” questa guerra, mentre in realtà essa rappresenta
la truppa di copertura della stessa avanzata del fascismo. Che oggi,
e ancora di più di oggi, la socialdemocrazia sarà calpestata dal
fascismo, questo non altera la funzione essenziale della
socialdemocrazia».
L’articolo continuava:
«Si tratta di stabilire che, siccome il fascismo
trova la sua ragione essenziale in un attacco a tutte le condizioni
di vita della classe dei lavoratori, è sulla linea di difesa di
questi interessi di classe che si deve situare la politica del
fronte unico. Dai salari alla disoccupazione e alla libertà di
organizzazione, di stampa, di riunione. Nella misura in cui si
riesce a mobilitare il proletariato per le sue battaglie di classe
verso questi obiettivi, si arresta la ritirata proletaria, si
assesta un colpo all’offensiva capitalista, ci si prepara a battere
il fascismo. Ed il sindacato, che raccoglie milioni di proletari,
benché diretto dalla socialdemocrazia, fornisce la base per tale
azione (...) Ma ecco il problema. Il partito è fuori dalle
organizzazioni sindacali (...) Di fronte a questa situazione quale
il compito specifico delle frazioni di sinistra? Ben semplice la
risposta: propugnare malgrado tutto le direttive di classe e la
necessità imperiosa del fronte unico sindacale. Collegare questa
politica generale con l’altra tendente al trionfo della frazione di
sinistra. Si risponderà: ma concretamente nulla si realizza giacché
nulla otterremo nel campo sindacale, nulla otterremo sul campo del
partito. Ma il marxista conosce la via del successo, non sulla base
delle considerazioni immediate e contingenti, ma sulla base delle
direttive di classe (...) È probabile che una politica iniziale
dell’opposizione orientata sulle direttive da noi sostenute non
avrebbe potuto determinare un capovolgimento della situazione
tedesca. Ma è certissimo che una tale politica avrebbe avuto i suoi
risultati, come lo prova l’esperienza italiana, ed il primo
risultato sarebbe stato quello di costituire un organismo – la
frazione – capace di risolvere domani i problemi del proletariato
tedesco, se la situazione attuale era irrimediabilmente
pregiudicata. È noto invece che ad una svolta degli avvenimenti in
Germania, alla vigilia dell’entrata di Hitler al governo,
l’opposizione di sinistra ha capitolato. E questo prova che si è
definitivamente compromesso l’organismo specifico del proletariato
tedesco».
Il
governo di Hitler mise immediatamente in atto il suo piano
repressivo e neppure per un istante tentò di mascherare la sua
funzione assassina. In tutta la Germania il terrore fascista faceva
stragi; le case del popolo, le sedi sindacali e quelle dei partiti
proletari venivano prese d’assalto e distrutte; soppressa la stampa,
vietato ogni diritto di organizzazione. I proletari erano uccisi
nelle piazze e nelle loro case. La borghesia tedesca passava
direttamente all’attacco per terrorizzare il proletariato, per
strappargli tutte le conquiste di natura economica e politica, per
assoggettare le masse ad uno sfruttamento bestiale, unica soluzione
concepibile dal capitalismo per poter ricostruire temporaneamente il
suo apparato economico in dissoluzione.
Tale
offensiva non poteva permettersi di risparmiare nessuna forma di
organizzazione proletaria, anche se diretta dalla socialdemocrazia,
perché nel corso della incessante lotta di classe avrebbe potuto
rappresentare un ostacolo ai piani del capitalismo. Infatti il
proletariato avrebbe potuto riconoscere l’opera traditrice dei bonzi
socialisti, sbarazzarsi di loro, e ritrasformare le organizzazioni
sindacali in strumenti di difesa e di attacco contro il nemico di
classe. Quindi l’unica soluzione era, come in Italia, la totale
distruzione delle organizzazioni operaie.
Il partito comunista era ridotto all’illegalità, la sua stampa soppressa, migliaia di suoi militanti arrestati. La socialdemocrazia non trovava di meglio che piagnucolare ricorrendo al giuramento di fedeltà fatto al feldmaresciallo Hindenburg ed ai principi costituzionali della repubblica di Weimar. I bonzi sindacali, proprio come avevano fatto in Italia, si dichiararono disposti a mettersi al servizio del nuovo regime. La Commissione Sindacale di Germania, immediatamente dopo la nomina di Hitler alla cancelleria, rilasciava la seguente dichiarazione:
«Nel campo politico i
sindacati desiderano limitarsi a far conoscere al governo ed ai
poteri pubblici le rivendicazioni operaie mettendo la loro
esperienza a disposizione del governo e del partito».
Occorsero
poche ore per dimostrare alle masse operaie il valore delle
dichiarazioni demagogiche, fatte fino al giorno avanti dai
sindacati, quando dichiaravano che il fascismo avrebbe trovato di
fronte, a sbarrargli il passo, i milioni di organizzati nella
Confederazione Generale del Lavoro, anche se solo per difendere le
istituzioni democratiche del regime borghese.
I nazisti presero per buone le dichiarazioni dei sindacati socialdemocratici e si apprestarono a giocar loro un tiro davvero raffinato. Vedremo più avanti. In un nostro lavoro di partito in “Prometeo”, n. 2, agosto 1946 intitolato La Classe Dominante italiana ed il suo Stato Nazionale scrivevamo:
Se al posto di «Re massone, democratico, socialisteggiante» mettiamo «presidente Hindenburg democratico, kaiserista, socialisteggiante», tutto il resto della descrizione combacia perfettamente con quanto, non ad imitazione dell’esperimento italiano, ma per necessità storiche, accadde in Germania. La sola differenza fu che quello che in Italia fu fatto in anni, in Germania fu fatto in mesi ed i complici del primo periodo non furono liquidati a pedate, ma impiombati.
In Italia come in Germania avrebbe dovuto valere il medesimo atteggiamento da parte del proletariato:
«L’avanguardia cosciente del proletariato non
doveva avere lacrime per la violata libertà di questi sporchi servi
del fascismo ma, dopo avere virilmente sostenuto la bufera della
controrivoluzione, ben poteva compiacersi della sorte di questi
miserandi relitti delle cricche parlamentari».
Il 30 gennaio 1933, cinque ore dopo avere giurato sulle mani di Hindenburg, Hitler tenne la prima riunione del suo gabinetto. In tale riunione venne immediatamente posto il problema di come sbarazzarsi degli inopportuni alleati. La democrazia aveva servito egregiamente per scongiurare la rivoluzione sociale e per mantenere la dittatura del capitale, ma aveva fatto il suo tempo, era ora che si ritirasse dalla scena politica.
Senonché nazisti e nazionalisti
uniti non raggiungevano la maggioranza parlamentare avendo 247 seggi
su un totale di 583. Per ottenere questa maggioranza i nazisti
avevano tre strade, si trattava di scegliere la più opportuna. La
prima era quella, già sperimentata in Italia dal primo
governo Mussolini, di chiedere l’appoggio del partito cattolico che
aveva 70 seggi. Monsignor Kaas, capo del partito, si dichiarò
disposto all’alleanza.
La
seconda era quella di mettere fuori legge il partito comunista.
Eliminati i cento deputati comunisti, nazisti e nazionalisti
avrebbero avuto la maggioranza assoluta. La terza possibilità era
quella di sciogliere il Reichstag e di indire nuove elezioni.
I
nazisti optarono per la terza soluzione, la più democratica, ed il
democratico presidente, su ordine di Hitler, sciolse il Reichstag.
Le nuove elezioni furono fissate per il 5 marzo.
Il
morale dei nazisti toccava il settimo cielo. Göbbels, il 3
febbraio, scrisse nel suo diario: «Ora sarà facile condurre la
nostra battaglia, perché possiamo aiutarci con tutte le risorse
dello Stato. La radio e la stampa sono a nostra disposizione.
Insceneremo un capolavoro di propaganda. E, naturalmente, questa
volta il denaro non mancherà».
Il
20 febbraio in una riunione con i grandi magnati della Germania,
Hitler espose il suo programma elettorale: «Nell’era della
democrazia non è possibile mantenere l’impresa privata, essa è
concepibile solo se il popolo ha una sana idea dell’autorità (...)
Tutti i beni terreni che possediamo li dobbiamo alla lotta di una
élite (...) Non dimentichiamoci che tutti i benefici della civiltà
debbono essere introdotti, più o meno, con il pugno di ferro».
Promise
di eliminare il comunismo e di ricostruire la Wehrmacht. Hitler
concluse: «Ci troviamo dinanzi alle ultime elezioni (...)
Qualunque sarà il loro esito non ci ritireremo». Anche Göring
riprese quest’ultimo argomento battendo cassa agli industriali
convenuti: «I sacrifici finanziari per l’industria sarebbero
stati certamente più facili da sostenere se essa si rendeva conto
che le elezioni del 5 marzo sarebbero state sicuramente le ultime
dei prossimi 10 anni, probabilmente perfino dei prossimi 100 anni».
Ebbe così inizio la campagna elettorale. Ogni comizio comunista fu vietato e la stampa del partito messa a tacere. Ai socialdemocratici non tutti i comizi furono vietati, alcuni vennero autorizzati, ma solo per avere poi il piacere di farli disperdere dalle bande delle Camicie Brune (SA). Le Camicie Brune non dimenticarono di lisciare il pelo anche ai rappresentanti del partito cattolico. Durante la campagna elettorale più di 50 antifascisti furono ammazzati.
La
polizia ebbe l’ordine di evitare ogni scontro con la SA e le SS
mentre doveva «fare uso delle armi da fuoco» contro
coloro che «erano ostili verso lo Stato». Il 22 febbraio
fu istituito un corpo ausiliario di polizia composto di 50.000
uomini, dei quali 40.000 erano stati reclutati dalle file delle SS
e delle SA. Il 24 febbraio la polizia fece irruzione e devastò la
Karl-Liebknecht-Haus, il quartiere generale del Partito Comunista a
Berlino. Il 27 febbraio ci fu l’incendio del Reichstag. Il giorno
dopo, il 28 febbraio, Hindenburg, il presidente democratico, firmava
il decreto «per la protezione del popolo e dello Stato» con
il quale erano soppressi gli articoli della costituzione che
garantivano le libertà individuali e civili.
Il
giorno successivo alla sua nomina a cancelliere, Hitler aveva
dichiarato: «L’uguaglianza teorica di fronte alla legge non può
condurre al punto di tollerare quanti disprezzano per principio la
legge e l’eguaglianza. (Il governo) accorderà tuttavia
l’uguaglianza di fronte alla legge a tutti coloro i quali nella
questione della salvezza del nostro popolo da questo pericolo, si
schiereranno dietro gli interessi nazionali e non rifiuteranno al
governo il loro appoggio».
Era
una chiara discriminazione di classe: nessun diritto per il
proletariato. Solo la classe borghese possedeva dei diritti, anche
se venivano lanciati avvertimenti a rigare diritti.
Con
il decreto del 28 febbraio né proletari, né borghesi hanno più
diritti individuali, in nome del popolo e dello Stato. Così la
violenza ed il terrore, oltre che contro la classe operaia ed i
comunisti si scagliò perfino contro i traditori socialdemocratici
ed i collaborazionisti liberali e cattolici. L’ex cancelliere
Brüning (quello dei decreti affamatori) arrivò all’assurdo di
dichiarare che il suo partito, il partito cattolico, si sarebbe
rivolto al presidente Hindenburg (che aveva firmato il decreto di
abolizione delle libertà individuali) affinché intervenisse per
«proteggere gli oppressi contro i loro oppressori».
Malgrado
gli smisurati mezzi finanziari a disposizione, l’appoggio
incondizionato della finanza e della grande industria, il terrore
scatenato contro tutti gli oppositori ed in modo speciale contro i
comunisti, la possibilità di manipolare a piacimento i risultati
elettorali, malgrado tutto questo, alle elezioni del 5 marzo il
partito nazista non riuscì a conquistare la maggioranza dei
consensi. I nazisti, con i loro 17 milioni di voti raccolsero solo
il 44%; i socialdemocratici ebbero 7 milioni di voti; il Partito del
Centro 4 milioni e mezzo; i nazionalisti, partito fiancheggiatore
del nazismo, si dovettero accontentare di 3 milioni di voti, pari
all’8%. I comunisti raccolsero 4.850.000 voti. Per poter governare
Hitler aveva ancora bisogno di un alleato. I 52 nazionalisti, uniti
ai 288 nazisti davano una maggioranza di 16 voti. Questa poteva
essere una maggioranza sufficiente per svolgere il lavoro di routine
del governo, ma era ben lontana dalla maggioranza dei 2/3 di cui
Hitler aveva bisogno per poter istituire democraticamente, cioè con
il consenso del parlamento, la dittatura.
Se
le elezioni del 5 marzo rappresentavano uno schiaffo alla tracotanza
nazista, i successivi sviluppi avrebbero coperto di vergogna tutti i
partiti democratici.
Il 23 marzo fu presentata al parlamento la legge per la concessione di pieni poteri: «Legge per l’eliminazione dello stato di bisogno del popolo e del Reich». Tale disegno di legge toglieva al parlamento il potere legislativo, il controllo del bilancio del Reich, la ratifica dei trattati internazionali, l’iniziativa di portare modifiche alla costituzione. Tutti questi poteri sarebbero stati trasferiti al governo per un periodo di quattro anni. Anche con l’arresto dei deputati comunisti e di qualche socialdemocratico, per ottenere l’approvazione dei 2/3 del parlamento era necessaria l’adesione alla proposta di legge di una larga fascia di deputati «antinazisti». I nazisti contavano 288 deputati, i nazionalisti 52; la legge passò con 441 voti favorevoli. Furono quindi cento e uno gli antifascisti che votarono i pieni poteri ad Hitler. I cattolici, per bocca di Mons. Kaas avevano solennemente dichiarato di aderire al progetto di legge. Solo il socialdemocratico Otto Wels si alzò in parlamento dichiarando che il suo partito avrebbe votato contro: «In questo momento storico – disse – noi socialdemocratici tedeschi ci dichiariamo solennemente per i principi di umanità e giustizia, di libertà e di socialismo. Nessun decreto può darsi il potere di distruggere idee eterne ed indistruttibili».
Hitler rispose con disprezzo al partito socialdemocratico che tanta responsabilità aveva avuto nel successo nazista: «Siete in ritardo, eppure vi fate ancora avanti! (...) Non c’è bisogno di voi (...) La stella della Germania sorgerà e la vostra tramonterà. Per voi la campana suona a morto (...) i vostri voti non mi occorrono».
Se
si eccettua l’arresto dei deputati comunisti e di qualche
socialdemocratico, in base al decreto di soppressione delle libertà
firmato dal democratico Hindenburg, dobbiamo affermare che la
democratica Germania, democraticamente, dichiarò la propria morte
consegnando tutto il potere al partito unico. Se i socialdemocratici
il 23 marzo votarono contro i pieni poteri al partito nazista, ciò
non impedì loro, il 19 maggio, di approvare, senza un solo voto
contrario, la politica estera hitleriana.
Pochi giorni prima la polizia, su ordine di Göring, aveva occupato tutti gli edifici del Partito Socialdemocratico, sequestrato i giornali e confiscate tutte le proprietà.
«Ciò nondimeno i socialisti
cercarono ancora di placare Hitler. Denunciarono quei loro compagni
che, all’estero, attaccavano il Führer. Il 19 giugno elessero un
nuovo comitato del partito, ma tre giorni dopo Frick pose termine ai
loro tentativi di venire ad un compromesso con lo scioglimento del
partito socialdemocratico, dichiarato “sovversivo e nemico dello Stato” (...) Naturalmente il partito comunista era già
stato soppresso» (William L. Shirer, Storia del Terzo Reich).
Ma neanche i partiti borghesi ebbero sorte migliore. Il 4 luglio il partito Cattolico Popolare Bavarese annunciò il proprio scioglimento; subito dopo fu il Partito del Centro (cattolico) che si auto-liquidò. Ma questo non impedì al Vaticano di firmare, due settimane dopo, un concordato con il governo nazista. Si sciolsero anche il Partito del Popolo Liberal-Democratico (Staat-spartei).
Ed
il partito nazionalista? Il fedele alleato di Hitler, quello senza
il quale non avrebbe potuto raggiungere legalmente il potere? In
tutto il paese la polizia e la SA occuparono i suoi uffici, ragione
per cui il suo capo, Hugenberg, decise “volontariamente” di
dimettersi dal governo, ed altrettanto “volontariamente” il
partito decise di sciogliersi. Il 14 luglio fu stabilito per legge
che: «Il partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi
costituisce l’unico partito politico della Germania».
Abbiamo già accennato al fatto che i sindacati, per mezzo dei presidenti della Confederazione, Leipart e Grassman, si fossero dichiarati disponibili a cooperare con il regime. Il governo non respinse questa disponibilità, anzi, poiché al potere c’era il “Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori”, fu stabilito che il 1° maggio 1933 sarebbe stata festa nazionale e che sarebbe stata celebrata come mai prima di allora.
«I capi sindacali (...) cooperarono
entusiasticamente con il governo e con il partito per la riuscita di
quella festa. I dirigenti dei gruppi operai furono portati in aereo
a Berlino da tutte le parti della Germania, sventolarono migliaia di
bandiere, a salutare la solidarietà del regime nazista con
l’operaio, e sul campo di Tempelhof, Göbbels, inscenò la più
grande dimostrazione di massa che la Germania avesse mai visto.
Prima che si svolgesse l’imponente adunata, lo stesso Hitler
ricevette i delegati degli operai dichiarando: “Vedrete quanto
falsa ed ingiusta è l’affermazione che la rivoluzione è diretta
contro i lavoratori tedeschi. È proprio il contrario”».
Poi,
nel suo discorso tenuto all’aeroporto a più di centomila lavoratori
enunciò la formula: «“Onore al lavoro e rispetto per il
lavoratore!” Promettendo che il 1° maggio sarebbe stato celebrato
per onorare il lavoro tedesco “attraverso i secoli”» (Shirer).
La
stessa notte Göbbels, nel suo diario, dopo aver descritto
l’imponente manifestazione, aggiungeva: «Domani occuperemo le
sedi dei sindacati. Incontreremo ben poca resistenza». E così
avvenne. Il 2 maggio le sedi dei sindacati furono occupate, i beni
confiscati, le organizzazioni disciolte, i dirigenti sindacali
arrestati e tradotti nei campi di concentramento. Robert Ley che
aveva il compito di organizzare il «Fronte tedesco del Lavoro»
dichiarava: «I Leipart e i Grassman possono professare
ipocritamente quanto vogliono la loro devozione al Führer,
ma è meglio che stiano in prigione».
A
differenza delle Confederazioni, i Sindacati cristiani il 2 maggio
non furono molestati. A loro fu concesso il privilegio di continuare
a vivere... fino al 24 giugno.
Il
23 maggio 1933, quando si apprestava a ricevere l’approvazione del
parlamento alla legge che gli avrebbe concesso i pieni poteri,
Hitler aveva reso onore alle confessioni cristiane definite: «elementi essenziali per salvaguardare l’anima del popolo
tedesco». Dichiarò, inoltre, che «l’ambizione del suo
governo era di raggiungere un accordo pacifico tra Chiesa e
Stato» e concluse affermando: «Noi speriamo di migliorare
le nostre relazioni amichevoli con la Santa Sede».
Il
20 luglio Von Papen per la Germania ed il segretario di Stato mons.
Pacelli (il futuro papa Pio XII) per il Vaticano, firmarono un
accordo.
Ma
come gli altri ex alleati, nemmeno la chiesa cattolica venne
risparmiata. Subito dopo la firma del concordato, i nazisti
cominciarono a chiudere le sedi della Lega dei Giovani Cattolici.
Nella epurazione del 30 giugno 1934 (di cui parleremo tra poco) fu assassinato il
capo dell’Azione Cattolica. Negli anni successivi
preti, monache, religiosi, dirigenti cattolici laici vennero
arrestati a migliaia. Moltissimi giornali cattolici furono
soppressi. Il 14 marzo 1937, Pio XI si sentì costretto a promulgare
l’enciclica «Mit Brennender Sorge» (con bruciante
preoccupazione) dove si constatava che il governo tedesco faceva «evasione e violazione» del concordato; seminava il
germe del sospetto, della discordia, dell’odio, della calunnia e di
una fondamentale ostilità nascosta e palese verso Cristo e la sua
Chiesa.
I protestanti non erano stati da meno dei cattolici nell’esprimere entusiastico appoggio al nuovo regime. Forse solo nella Russia zarista poteva esserci stato un clero più asservito al potere di quanto non lo fosse quello protestante in Germania. Le chiese protestanti videro con estrema gioia la fine della Repubblica di Weimar «anatemizzata» sia per aver deposto i sovrani, sia per essere stata governata dal connubio cattolico-socialista.
Dobbiamo ricordare che Martin Lutero, il fondatore del protestantesimo, predicò l’obbedienza assoluta all’autorità politica e combatté ferocemente sia le rivolte popolari, sia gli ebrei. Contro la rivolta contadina del 1500 capeggiata da Müntzer, Lutero aveva gridato: «Bisogna schiacciarli, strangolarli, trafiggerli, di nascosto e pubblicamente, dove si può, come si ammazza un cane arrabbiato (...) Essi non ascoltano il verbo e sono insensibili; perciò ascolteranno la verga, lo schioppo, e gli sta bene (...) non c’è misericordia. Lasciate pure fischiare le schioppettate, se no fanno essi cento volte di peggio». Allo stesso modo aveva parlato degli ebrei: «Che le loro scuole e le loro sinagoghe siano bruciate e le loro case demolite e distrutte (...) Che essi siano costretti a vivere come zingari (...) in miseria e in schiavitù».
Hitler poteva considerarsi quindi un nuovo profeta e non mancò chi lo affermasse! Anche Mussolini era stato definito «L’Uomo della Provvidenza».
I protestanti, subirono la stessa sorte dei
cattolici: le chiese che non si adattarono tempestivamente al nuovo
padrone furono private dei loro beni e centinaia di pastori
conobbero le prigioni ed i campi di concentramento.
Nel
febbraio del 1937, il ministro degli affari ecclesiastici affermò: «Il partito si fonda su un cristianesimo positivo, e il
cristianesimo positivo è il nazionalsocialismo (...) Il
nazionalsocialismo è opera del volere di Dio (...) Il dottor
Zöllner e il conte di Galen (protestante il primo e cattolico
il secondo - ndr) hanno tentato di farmi credere che il
cristianesimo consiste nella fede in Cristo come figlio di Dio. Ciò
mi fa ridere (...) Il vero cristianesimo è rappresentato dal
partito, e il popolo tedesco è richiamato dal partito e in modo
particolare dal Führer, ad un vero cristianesimo (...) Il Führer è
l’araldo di una nuova rivelazione».
Il
partito nazista, sbarazzatosi di tutti i suoi vecchi alleati e
rimasto padrone incontrastato della gestione del potere, non tardò
a fare opera di pulizia anche all’interno delle sue file eliminando
brutalmente quella masnada di sciagurati, arruolati tra la piccola borghesia e della canaglia sociale, che si rifiutava
di farsi disarmare costituendo un fattore di instabilità interna.
Una
spina nel fianco era rappresentata dalle SA, quell’esercito di
delinquenti comuni che aveva costituito il nucleo principale del
movimento nazista di massa e che ora pretendevano di fare una
«seconda rivoluzione» contro il grande capitale. Dapprima
Hitler licenziò un certo numero di nazisti «radicali» che
avevano tentato di mettere sotto controllo le associazioni
industriali. Ma questo non bastava, si sarebbe dovuta sopprimere
fisicamente l’organizzazione, ed innanzi tutto il suo capo, Röhm.
Anche
in questo caso Hitler agì alla sua maniera tradizionale. Il primo
dell’anno del 1934, indirizzò al capo della SA una lettera in cui
si diceva: «Al termine dell’anno della rivoluzione
nazionalsocialista, sento il dovere, mio caro Ernst Röhm, di
ringraziarti per i servizi imperituri da te resi al movimento
nazionalsocialista ed al popolo tedesco e di assicurarti tutta la
riconoscenza che ho verso il destino che mi ha permesso di chiamare
amici e commilitoni uomini come te. Con vera amicizia e gratitudine,
tuo Adolf Hitler».
La
mattina del 30 giugno 1934, in un albergo di Wiesse, dove erano
stati mandati in vacanza, Röhm e tutto lo stato maggiore della SA,
furono tirati giù dal letto per essere immediatamente fucilati. Nel
frattempo a Berlino circa 150 capi della SA furono ammassati davanti
ad un muro della Scuola Allievi Ufficiali e passati per le armi.
Uccisioni sommarie si verificarono in tutto il paese. La stessa
mattina un gruppo di SS in borghese suonò alla porta del generale
Von Schleicher, appena il generale aprì gli spararono e l’uccisero.
Accorse la moglie e fu ammazzata anch’essa. La sera fece la stessa
fine il generale Bredow. Gregor Strasser, un nazista della
primissima ora, venne arrestato e subito dopo ucciso. Von Papen, il
vice cancelliere, riuscì a salvarsi la vita fuggendo, ma una
squadra di SS devastò il suo ufficio ed ammazzò sul posto il suo
primo segretario, Bose. Un altro segretario di Von Papen, che era
stato arrestato il giorno prima fu ammazzato in prigione. Il capo
dell’Azione Cattolica, Klausener, fu ammazzato nel suo ufficio al
Ministero delle Comunicazioni, un gruppo di suoi collaboratori fu
arrestato e spedito in campo di concentramento. Il processo di
Monaco del 1957 parlò di più di mille morti nella strage del 30
giugno.
Von
Papen, che si era salvato la pelle per miracolo, volle dare una
estrema prova di coraggio individuale e di coerenza politica quando,
nemmeno un mese dopo, accettò dai nazisti, assassini dei suoi intimi
collaboratori, di essere nominato ministro tedesco a Vienna, dove
proprio allora i nazisti avevano assassinato il cancelliere
Dollfuss.
I
pochi sinceri democratici rimasti in Germania non potevano fare
altro che sperare in un intervento del democratico presidente
Hindenburg, il presidente antifascista, eletto dalla
socialdemocrazia al canto dell’Internazionale.
Il
personale delle vecchie gerarchie politiche si accorgeva troppo
tardi dello sviluppo degli eventi e, piagnucolando sulla legalità,
il diritto, la moralità, tutte armi che non scalfivano per niente
la grandeggiante inquadratura fascista, guardava con speranza al
vecchio feldmaresciallo. Comunque questo strato politico, vittima
della propria creatura, storicamente mai avrebbe cambiato strada
perché cambiarla avrebbe significato rinunciare al sabotaggio della
rivoluzione.
Il
giorno dopo la strage era domenica, ma il giorno successivo, lunedì
2 luglio 1934, il vecchio generale Hindenburg volle di nuovo far
sentire la sua voce alla Germania intera e, si rivolse ad Hitler con
parole inequivocabili. Disse che «con il suo ardito intervento
personale (...) aveva soffocato in germe il tradimento e salvato il
popolo tedesco da un grande pericolo». Il 2 agosto, all’età di 87
anni, moriva il feldmaresciallo Hindenburg. Il vecchio leone prima
di andarsene aveva voluto, nel suo testamento politico, fare per
l’ultima volta le lodi delle realizzazioni del regime nazista. Tre
ore dopo la morte di Hindenburg, in base ad una legge approvata il
giorno precedente, Hitler, oltre alla carica di Cancelliere,
assumeva anche quella di Presidente, divenendo così capo dello
Stato e comandante supremo delle forze armate.
Il
19 agosto 1934 il popolo tedesco fu chiamato alle urne per
ratificare o meno, tramite referendum, l’assunzione da parte di
Hitler della carica di capo dello Stato. Il 95% degli aventi diritto
si recò alle urne e di questi il 90% approvò il compimento ultimo
dello Stato dittatoriale. La Germania democraticamente sceglieva la
dittatura.
Ma,
il nazismo, anche se nella sua strada fece molte vittime che
potremmo definire “innocenti”, fu soltanto controrivoluzione, fu
dominio dittatoriale della classe borghese sul proletariato. Non per
combattere la democrazia si sbarazzò del precedente logoro apparato
politico. Si sbarazzò di questo per combattere il proletariato in
modo più efficace.
All’indomani del 1° maggio 1933 tutti i sindacati liberi vennero “sincronizzati”. Un Comitato d’Azione per la Protezione del Lavoro Tedesco prese in consegna il patrimonio sociale delle vecchie organizzazioni sindacali. Il 10 maggio fu istituito il Fronte del Lavoro che raccoglieva gli aderenti ai sindacati “sincronizzati”. Il 16 maggio venne definitivamente abolito il diritto di sciopero. Il 19 maggio fu abolita per legge la stipulazione dei contratti collettivi. Il 20 maggio 1934 una nuova legge stabiliva le pene da infliggere ai lavoratori che compromettevano la «pace sociale nell’impresa istigandone malvagiamente il personale». I colpevoli, «venuti meno all’onore sociale» erano deferiti ai “tribunali d’onore” i quali, oltre che licenziare, infliggevano ammende e pene detentive. Nemmeno per gli iscritti al partito nazista vi era deroga alla legge. In una circolare alla polizia Göring ordinava «di agire con energia nei confronti di quei membri delle cellule di fabbrica (nazisti - ndr) che non hanno ancora compreso il vero carattere del Terzo Reich».
Allo stesso tempo i salari erano regolarmente ridotti, mentre le
trattenute aumentavano sia in numero sia in percentuale. Dal gennaio
1933 fino a tutto il 1935 si ebbero riduzioni salariali dal 25 al
40%. Per numerose categorie il salario divenne inferiore alle
indennità di disoccupazione corrisposte durante la Repubblica di
Weimar.
“Prometeo” del 14 agosto 1933 dava la notizia dell’esecuzione di quattro proletari ad Altona. Quello del 17 settembre riferiva della fucilazione di nove operai a Düsseldorf. Il 20 novembre a Dessau dieci comunisti condannati a morte. “Prometeo” del 17 settembre riferisce del modo in cui si svolgevano i processi contro i proletari ed i comunisti:
«Giudice ed assessori tutti
nazisti. Il giudice era stato dagli operai da gran tempo
soprannominato “il giudice sanguinario”. I difensori pure
nazisti; difensori d’ufficio che non aprono bocca per difendere gli
accusati ma che invece pubblicano, durante il processo, una
dichiarazione alla stampa fascista in cui dichiarano che è stato un
dovere penoso il non aver potuto rifiutare questa difesa. Il
pubblico tutto di nazisti che si permettevano di lanciare contro gli
accusati continue grida di scherno e di insulti. Davanti al palazzo
di giustizia manifestavano le orde degli SA reduci dal congresso del
partito, al grido di impiccateli, impiccateli... Il più spaventoso
fu per gli accusati l’intervento dell’ex membro del partito
comunista Schröder che, passato ai nazisti, venne a deporre contro
gli ex compagni».
Questi
gli assassinii legali del regime, senza contare le esecuzioni
sommarie, nelle case, nelle strade, nei luoghi di lavoro. Migliaia
di comunisti ed operai rinchiusi nelle carceri e nei campi di
concentramento. Nel periodo tra l’aprile e il luglio 1933, secondo
dati ufficiali, nelle prigioni si verificarono 1.327 suicidi, cioè
ben 15 al giorno. Basti questo a descrivere le condizioni di vita
all’interno delle carceri, senza contare che il più delle volte
“suicidio” è un eufemismo per dire assassinio. La tortura veniva
applicata a scala generale secondo istruzioni redatte
“scientificamente” allo scopo di abbinare il massimo dei tormenti
con il minimo delle tracce. Medici ed infermieri venivano assunti a
tale scopo.
Abbandonato
inerme allo sterminio, senza nessuna possibilità di difesa di
classe, il proletariato tedesco riceveva l’ultima pugnalata alla
schiena da parte del partito stalinista. In una situazione in cui la
reazione era determinata a sterminare le forze proletarie, il PCT si
poneva sul piano della totale legalità negando ai proletari il
diritto alla propria difesa con la violenza individuale. Come se il
fatto che i proletari dovessero ricorrere alla disperata violenza
individuale per salvarsi la vita, non fosse dipeso anche dal fatto
che proprio il partito aveva sbandato le organizzazioni proletarie
di massa, aveva diviso la classe operaia, aveva scimmiottato un
programma di liberazione nazionale interclassista arrivando perfino
alla unità di azione con il nazismo.
Una
risoluzione del C.C. del partito comunista tedesco diceva: «Il
partito comunista tedesco ha espresso nettamente, a più riprese, il
suo punto di vista sulla violenza individuale (...) Esso non ha
esitato ad espellere dalle sue file i membri del partito che hanno
violato i principi marxisti-leninisti e le risoluzioni del partito
sulla violenza individuale. In questa situazione grave il C.C. del
PCT invita tutti gli operai ed i lavoratori rivoluzionari a
raddoppiare la vigilanza di fronte allo spionaggio ed altre
provocazioni. Il partito non perdonerà coloro che violeranno le
risoluzioni del partito e la disciplina proletaria».
Turati
nel 1921, aveva dato agli operai questa indicazione: «Non
raccogliete le provocazioni, non fornite pretesti, non rispondete
alle ingiurie. Siate buoni, siate santi. Lo foste per
millenni, siatelo ancora. Tollerate, compatite, perdonate anche».
Questa era l’indicazione che il massimo esponente della
socialdemocrazia italiana dava alla classe operaia mentre veniva
attaccata dal ferro e dal fuoco fascista. Ma nemmeno Turati era
arrivato a dire che: «Il partito non perdonerà coloro che
mancheranno di sangue freddo di fronte alle provocazioni del
nemico di classe». Per dire questo ci voleva lo stalinismo.
Questo
atteggiamento stalinista ufficiale fu tenuto durante il processo di
Lipsia nel 1933 per l’incendio del Reichstag. Dimitrov, che in un
primo tempo aveva tenuto un contegno ammirevole, nella sua ultima
dichiarazione affermava: «Io non sono d’accordo con le
conclusioni del procuratore generale per la assoluzione per mancanza
di prove. Chiedo quindi che Van der Lubbe sia condannato per avere
lavorato contro il proletariato». Di conseguenza i giudici
nazisti, condannando a morte Van der Lubbe, lavorarono a favore del
proletariato, ed il boia che gli tagliò la testa vendicò il
proletariato!
Per
i nazisti l’incendio del Reichstag da parte del “comunista” Van
der Lubbe rappresentava la prova che il partito comunista si
accingeva a far scoppiare la rivoluzione e che, di conseguenza,
tutte le misure prese dal regime erano state necessarie per la
difesa della patria, della legalità e della stessa democrazia. Per
democratici, socialdemocratici e stalinisti questo atto compiuto
contro il Sancta Sanctorum della democrazia era la prova di una
macchinazione nazista per distruggere i residui di libertà. In
questo gioco il partito comunista doveva recitare la parte di
legalitario, pacifista, difensore delle libertà ed istituzioni
borghesi. Le due teorie, la fascista e la democratica, avevano il
medesimo scopo: negare la violenza proletaria in vista della sua
emancipazione dalla schiavitù del capitale.
Ancora
una volta la nostra Frazione fu l’unica che affrontò la questione
in termini di classe. Innanzi tutto dobbiamo premettere, come scriveva “Prometeo” del 14 gennaio 1934, che non vi è
mai stata alcuna prova certa che Van der Lubbe fosse stato «uno
strumento anche incosciente di Göring: in effetti se questo fosse
vero non si spiegherebbe come mai il fascismo non abbia preparato
delle condizioni di fatto favorevoli per dimostrare la complicità
del partito con Van der Lubbe (...) invece di fare le cose talmente
stupidamente da permettere ai complici di cavarsela così a buon
mercato, come si è verificato durante il processo attraverso degli
alibi inconfutabili».
Per
la nostra Frazione l’incendio del Reichstag fu un gesto tipico di
terrorismo anarchico, non certo compiuto da un «semi-deficiente»
come la storiografia vuol fare apparire il suo autore.
Comunque, che si fosse trattato di un attentato di tipo anarchico, ovvero di una azione orchestrata dai nazisti, non sarebbe dovuto cambiare l’atteggiamento del partito comunista. «Se il partito avesse risposto alle accuse che ci venivano mosse, proprio da quei partiti che non rispettavano minimamente la propria legalità borghese, con il rivendicare per i proletari il diritto alla propria difesa con la violenza rivoluzionaria, i risultati sarebbero stati differenti e sicuramente più vantaggiosi per il proletariato tedesco ed internazionale. Invece per un partito che voleva mantenersi su di una posizione completamente legalitaria, anche quando la situazione non lo permetteva, e che voleva andare placidamente alle elezioni era naturale che l’incendio del Reichstag dovesse apparire come una provocazione e facesse prosternarlo davanti alla borghesia internazionale per dimostrare che mai i comunisti potevano compiere simili atti» (“Prometeo”,- 12 novembre 1933).
La
posizione della Sinistra italiana nei confronti del terrorismo
individuale è ben nota e ben netta. Noi abbiamo sempre preconizzato
tutt’altro metodo, ma non per questo la nostra voce si è mai unita
a quella di coloro che chiedevano la condanna dei terroristi.
Nel
1921, in occasione dell’attentato al Diana, il nostro partito
affermò senza mezzi termini l’inutilità «di sconfessare con
pubbliche dichiarazioni un atto di cui non venivano accusati che per
inscenare una speculazione politica». Non ci si poteva illudere «di far cadere la speculazione protestando la distanza
tra i nostri metodi politici e quelli degli autori di tale atto». Anzi, un simile atteggiamento avrebbe avuto il solo
effetto di «spargere il disfattismo tra i lavoratori e agevolare
la manovra degli avversari (...) Proletari, Comunisti! Ben altra
sia la nostra, la vostra parola. L’incanata avversaria non ci
impegna a dire il nostro giudizio su atti che essa sceglie ad
argomento gradito delle sue manovre. Il nostro programma è noto:
non va rabberciato o scusato per dare spiegazioni all’insolenza
della stampa antiproletaria e della propaganda controrivoluzionaria
(...) Il proletariato (...) dunque in questi momenti non deve
lasciarsi impressionare dalla abile messa in iscena di un simulato
cordoglio (...) L’avversario non deve avere la soddisfazione di
vederlo associarsi alle sue attitudini di ipocrisia (...) Il proletariato (...) non dimentico del suo passato, sarà al suo posto per difendersi, per difendere l’onore della sua rossa bandiera, le sorti della offensiva di domani» (“Il
Comunista”, 30 marzo 1921).
Coerente a questa linea della difesa di classe la Frazione all’estero ribadiva:
«Politicamente occorre bene caratterizzare questi attentati e metterli sulla linea dell’inevitabilità dell’esplosione della violenza. Il nemico che assassina decine e decine di proletari vorrebbe rifarsi una verginità ed assurgere a difensore della legalità e dell’ordine? Di contro a questa speculazione di iene occorre opporre la volontà ben dichiarata, ben ferma, di appello al proletariato perché si disponga immediatamente sulla linea della risposta, della difesa, dell’organizzazione armata di questa difesa (...) Quando un partito esiste per la difesa della classe operaia, allora le conseguenze dell’attentato non saranno abbandonate alla prova giuridica della provocazione, ma il partito, riaffermando la sua posizione contraria
al terrorismo individuale, afferma altresì la necessità impellente di passare alla difesa armata delle istituzioni proletarie che il nemico cercherà di distruggere poggiando sull’ipocrita mobilitazione dei sentimenti putridi dell’antiviolenza che provengono dalle santità innocenti degli Hitler e compagnia i quali hanno distrutto centinaia e migliaia di vite di proletari, schiacciato centinaia e migliaia di famiglie operaie. Così la questione essenziale non è più quella dell’attentato ed è su questo terreno che deve poggiare l’azione del partito» (“Prometeo”, 15 ottobre 1933).
Il
10 gennaio 1934, alle 6 del mattino, a Van der Lubbe venne
notificato il rifiuto del presidente Hindenburg ad accordargli la
grazia. Condotto nel cortile della prigione ascoltò la sentenza
senza fare apparire emozione alcuna e si limitò a scuotere la testa
quando gli fu chiesto se volesse fare qualche dichiarazione. Van der
Lubbe seguì impassibile il boia sul patibolo. La mannaia cadde alle
7 e 25 minuti.
Prometeo
scriveva:
(continua)
Primo Maggio 1933
Ricostruire
il patrimonio di lotta del proletariato
(Prometeo,
n. 87, 30 aprile 1933)
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