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"COMUNISMO" n. 34 - gennaio-giugno 1993
L’APOLOGO DI TANGENTOPOLI: Intelligenti, sprovveduti banditi, stupidi in scena
CRISI CAPITALISTICA E COMUNISMO [RG55] Produzione industriale sempre più in calo - La crisi ventennale vista da noi e dai borghesi - La dinamica della crisi nella teoria e nei dati reali - Fine del bipolarismo USA-URSS - Anche il Giappone nella crisi - In crisi le tangenti? - I rapporti di forza nel mercato mondiale - L’Europa e i mutati rapporti di forza tra i capitali - Il costo della crisi viene scaricato sul proletariato mondiale - Ultime conclusioni da un nostro testo del 1858.
RIPRODUZIONE IN GRAFICI DEI PROSPETTI STATISTICI DEL “CORSO” [RG50] Integrazione sulla consistenza, condizione e combattività della classe operaia.
AZIONE E TEORIA, CLASSE E PARTITO NELLA CONCEZIONE MARXISTA E NELLA RIVOLUZIONE [RG55] Conclusione
Appunti per la storia della Sinistra [RG55]:
      - Spagna 1931: Dalla rivoluzione spagnola alla guerra di Spagna
Dall’archivio della Sinistra:
     - Introduzione
     - Il capitalismo mondiale drizza in Ispagna il palo d’esecuzione del proletariato spagnolo ed internazionale (Prometeo, 1 novembre 1936)
    - Contro la "industrializzazione" dei cadaveri sui fronti militari  (Prometeo, 22 novembre 1936)

 
 
 
 
 
 



L’apologo di tangentopoli
Intelligenti, sprovveduti banditi, stupidi in scena

Un maestro della storia economica, C. M. Cipolla, in un suo abbastanza recente apologo ha parlato di quattro tipi di individui che da sempre, nella storia, reciterebbero il loro ruolo: gli intelligenti, gli sprovveduti, i banditi, gli stupidi. Sembra proprio che la crisi del Capitale abbia deciso di esporli nel pubblico teatro tutti insieme, ciascuno con la propria maschera perfettamente calzata per la grande rappresentazione.

Chi sono gli Intelligenti? Sono i capaci di fare il loro tornaconto, ma anche di favorire il vantaggio degli altri nel commercio sociale, reale o figurato che si voglia. Sono i tipi meno diffusi, i più rari ed anche i più cari; quasi introvabili, oggi, perché le ragioni dello scambio tra equivalenti appaiono anche ad i più ottusi ampiamente manomesse.

Poi vengono gli Sprovveduti; capaci di fare il bene degli altri, ma non il proprio. Merce non solo rara, ma quasi introvabile. Si potrebbe pensare a qualche santo o eroe residuo, rara avis nella giungla capitalistica. A meno che non si pensi a certi ingenui che si trovano a fare il gioco d’altri. Può succedere.

Ed eccoci ai Banditi: tanti, moltiplicati, una vera accolita, tanti quanto le merci che occhieggiano invendute nei mercati dei rioni, ma soprattutto negli empori metropolitani. Essi sono capaci di fare solo gli affaracci “sua”, mai e poi mai quelli degli altri. Non abbiamo bisogno di spiegare ai proletari chi sono: risparmiamo nomi e cognomi, perché sono sulla bocca di tutti, ed il menzionarli ormai sminuirebbe il gusto di vederli alla gogna. Il grande regista, il Capitale, tende a rappresentarceli nel teatro dei pupi menati a gran colpi dall’eroe Di Pietro: ma le cose non stanno esattamente così.

All’ultim’ora ci si viene a dire che i Banditi non sono soltanto identificabili nei cosiddetti politici, il comitato d’affari della borghesia rappresentato dal personale dello Stato, dagli uomini di partito “al di sotto” d’ogni sospetto... Anche alcuni grands commis del Capitale si trovano impelagati nella ganga, i suoi uomini migliori, tecnocrati tutto fabbrica e famiglia, estranei alla tangente in nome dell’etica cattolica o calvinistica, e rivelatisi invece manutengoli dei ladroni.

Infine gli Stupidi: i più fitti di tutti, presenti in tutte le classi, specie piccolo-borghesi, ipocriti e romantici, bottegai e scialacquatori, capaci di tutto, dall’egoismo più rozzo all’altruismo più irresponsabile. Purtroppo, ma noi ne abbiamo un residuo rispetto, essi sono presenti anche tra gli operai, che hanno creduto di poter godere delle briciole cadute dal banchetto, di schierarsi a gran voce intorno alla squadra del padrone, a vociare negli stadi o a farsi turlupinare nel grande bazar televisivo. Ne abbiamo ancora una certa considerazione perché sappiamo, in virtù della nostra implacabile teoria che, appena si risveglieranno dal sonno e dalla sbronza, tireranno botte da orbi sulla testa dei banditi che si presero gioco di loro a buon mercato.

Naturalmente la laica rappresentazione è soltanto agli inizi, nonostante la lunga storia che l’ha preparata. Né vogliamo sciupare il gusto dell’intreccio dicendo subito come andrà a finire. Per il momento basta avere un minimo di senso del teatro e d’immaginazione ed osservare i Banditi presi con le mani nel sacco, il coro dei mandanti tenutisi ben al riparo, ormai chiamati in scena. Il gioco delle parti, con il proscenio largamente occupato dagli Sprovveduti alla Di Pietro, l’eroe positivo capace solo di bene e di sacrificio, sta per esaurirsi. Anche lo Sprovveduto comincia ad averne la nausea (quello che abbiamo sempre pensato e sostenuto) e fa appello alle vittime perché si mettano d’accordo in qualche modo, altrimenti si corre il rischio di non veder la fine, a meno che non cali dall’alto qualche deus ex-machina, un qualche generale Salan, come ha evocato l’ineffabile picconatore Cossiga. Naturalmente Di Pietro si guarda bene dal fare appello agli Stupidi, troppo imprevedibili; si compiace del loro appoggio morale, mentre la platea si spella le mani per gli applausi ed a tratti trattiene il respiro, sperando che la trama presenti qualche imprevisto colpo di scena. Gli Intelligenti (a proposito, sembra che la parola in greco antico significhi “quelli che hanno fiuto”, che “annusano”) preparano qualche colpo mancino nella speranza di fare i soli interessi propri... facendo finta di fare quelli di tutti.

Chi sono gli Intelligenti? Questo è il colpo di teatro che ci aspetta. Noi degli Intelligenti abbiamo un’immagine tutta nostra: sono i peggiori, perché vogliono dare ad intendere che esiste una sana ragione storica al di sopra delle parti, imparziale, giusta, incorruttibile. È l’illusione dei giacobini di sempre, che considerano il popolo “polulace”, incapaci d’un minimo d’ironia per capire che gli Stupidi non sono da condannare, perché saranno proprio loro i milites che faranno giustizia dei Banditi, e forse anche degli Intelligenti. Dove stanno abitualmente gli Intelligenti? Ma naturalmente in seno alla “intellighentsia”, e si propongono come i Dottor Sottile della situazione, anche se non riescono ad essere credibili.

La nostra ricetta è, come al solito, tutt’altra. Noi, della classe dei somari, che da secoli ripetono le stesse litanie, siamo dalla parte degli Stupidi, di quelli che vanno anche allo stadio, anche se fin da ora preferiamo quelli che si disciplinano e lottano, che domani saranno pronti a seguire il partito della classe, ad agire sotto le sue bandiere. Sappiamo bene che non siamo noi a determinarne le condizioni, ma non siamo in grado di far riacquistare il senno agli istupiditi con la bacchetta magica.

Si dirà, bella compagnia! Ebbene: la migliore e l’unica in queste contingenze storiche, la più capace di “dotta ignoranza”, perché non si illude di disarmare i banditi con le prediche, ma non temerà di farlo quando sarà necessario, non tanto per recuperare il maltolto di qualche giorno o decennio trascorso, bensì il plusvalore estorto a tutti i proletari di tutti i tempi e di tutti i luoghi.

 

 

 


Crisi capitalistica e Comunismo
Il perdurare, l’estendersi e l’aggravarsi della crisi vedranno lo spettro del comunismo aggirarsi non più nella sola Europa ma in tutto il Mondo

 

1. Produzione industriale sempre più in calo

Nei nostri lavori in tema economico partiamo sempre cocciutamente, altro modo di ribattere i nostri soliti e solidi chiodi, dalla produzione materiale, quale essa si svolge nella società capitalistica e quale che sia lo stadio più o meno avanzato che attraversa nei vari paesi del mondo.

L’indagine sulla produzione di una moltitudine di merci, sulla loro circolazione, distribuzione e consumo è per il marxismo solo un mezzo; il fine essendo lo scoprire sia i reali rapporti che intercorrono tra gli uomini nella produzione e nel consumo, sia la necessità storica che detti rapporti siano infranti per consentire un nuovo modo di produrre, una nuova organizzazione adeguata alle potenziate tecniche produttive.

D’altronde la produzione materiale è il punto di partenza ottimale, la base unica e sufficiente che ci consente di spiegare quanto si produce nel campo delle idee; in specie in quel suo settore che è l’economia politica ove oggi risulta massima la produzione di fesserie; e questo è un altro nostro consistente chiodo.

In particolare, nell’analizzare il modo in cui si produce in questa società sottoponiamo al nostro esame quella branca dell’economia che è l’asse portante del sistema capitalistico, la produzione industriale; e lo è a tal punto che, da sottilissimo cuneo, insinuatosi agli albori del capitalismo in un tessuto al 100% agricolo, nella attuale fase che stiamo vivendo di tramonto del capitalismo è divenuto un enorme macigno che ha lasciato all’agricoltura un brandello di quel tessuto il cui peso percentuale arriva al massimo a 5%. Questo per i principali Paesi e che già accentrano oltre l’80% della produzione materiale mondiale.

L’esame della produzione industriale lo svolgiamo servendoci di un indice che assomma le più disparate produzioni, che sono tutte il frutto della combinazione degli strumenti di produzione e delle materie prime con la forza-lavoro.

L’attività lavorativa dei proletari, utilizzando le macchine, trasforma le materie prime in una miriade di merci che i capitalisti gettano sul mercato al solo fine di ricavarne plusvalore, un valore superiore a quello che il capitalista impiega nella produzione. Ciò grazie all’uso della forza-lavoro che costa 100, ma è in grado di produrre almeno 200.

Le varie serie degli indici della produzione industriale dei principali Paesi, in uno con quella del Mondo, del complesso di quelli, nel loro evolvere storico evidenziano le inesorabili leggi oggettive che marcano il cammino dei vari capitalismi e che noi abbiamo sintetizzato nelle fasi di nascita-gioventù, maturità-sviluppo, vecchiaia-morte; senza tralasciare di spiegare scostamenti positivi o negativi come anche incidenti di percorso, riconducibili a cause materiali bene individuabili.

Il nostro lavoro di Partito Il Corso del capitalismo mondiale nato e portato a termine nella sua stesura definitiva negli ultimi anni ’50, ha visto la luce in volume a stampa solo recentemente, per il quale è stato ritenuto utile l’aggiornamento trentennale dei dati statistici: se per qualche serie si è spinto fino al 1989, nell’insieme dei dati si ferma al 1985.

La Tabella ”Incremento relativo storicamente decrescente del capitalismo con confronto tra i principali Paesi per periodi paralleli”, nel IV Ciclo, riguardante il periodo dal 1973 o 1974 o 1975 (i relativi anni di indice massimo crescente) al 1985, dava gli incrementi percentuali annui medi per Inghilterra, Francia, Germania, Stati Uniti, Giappone ed URSS (v. pagine 60-61).

Il Ciclo di 10/12 anni era abbastanza ristretto rispetto ai precedenti 3 Cicli.

L’aggiornamento degli indici al 1991, prolungando il ciclo a 16/18 anni, conferma in pieno la tendenza delineata fino al 1985. Riportiamo qui le due serie relative ai 6 Paesi, ai quali abbiamo aggiunto l’Italia e il Mondo. La prima serie ha subìto solo qualche ritocco per successivi aggiustamenti delle statistiche.

UK F D Usa J Urss I Mon-
do
1973-1985 0,7 0,8 1,0 2,1 2,8 4,1 1,3 2,8
1973-1991 0,8 1,3 1,8 2,1 3,3 2,7 1,7 2,8

L’URSS cala vistosamente; gli USA e il Mondo sono fermi. L’Inghilterra resta stazionaria, ben salda nell’ultima posizione che le spetta per anzianità.

Il Giappone e l’Italia accusano sussulti, che non convincono per il vento che tira. La Francia sembra avere avuto una certa ripresa ma solo perché è partita da un dato alquanto basso. Infatti si tiene alla penultima posizione, che le compete storicamente. Lo stesso vale per la Germania, che passa dalla terz’ultima alla quart’ultima posizione.

Non sono ancora disponibili i dati ufficiali per il 1992. La loro uscita mostrerà che il processo economico in atto nei sette principali Paesi e nel mondo alla scadenza dell’anno testé concluso avrà avuto per tutti un andamento negativo rispetto al periodo 1973-1985.

Come conferma basterà dare un rapido sguardo agli incrementi annuali degli ultimi anni.

CROLLO GENERALE
DEGLI INCREMENTI PERCENTUALI
MEDI ANNUI
DELLA PRODUZIONE INDUSTRIALE
DEI 7 PRINCIPALI PAESI E DEL MONDO
DAL 1985 AL 1991
Anni UK F D Usa J Urss I Mon-
do
1985  
2,8 0,0 2,9 0,9 0,0 5,0 3,1 3,0
1986
2,7 2,0 0,0 5,3 3,4 3,2 4,0 3,7
1987
3,5 4,9 3,7 5,0 9,8 3,9 5,8 5,6
1988
-0,8 3,7 5,4 0,0 6,0 1,5 3,6 3,8
1989
-0,8 1,8 5,1 4,0 4,9 -0,7 0,0 0,1
1990
-2,5 0,0 2,4 -2,3 2,0 -8,1 -1,8 0.4
1991
 

Nell’esame passiamo dal paese che è andato meno male a quello che ha accusato il peggiore risultato. La Germania da un incremento di 5,4% nel 1989 cala di poco a 5,1% nel 1990, ma crolla a 2,4% nel 1991. Il Giappone tra il 1987 e il 1991 arretra vistosamente da 9,8% a 6,0% a 4,9% e a 2,0%. La Francia dal 1987 al 1990 presenta il calo crescente degli incrementi da 4,9% a 3,7% e a 1,8%. Infine nel 1991 la produzione industriale francese si è fermata del tutto. L’Italia nel biennio 1988-1989 scende dall’incremento 5,8% a 3,6%; nel 1990 si blocca; nel 1991 arretra di 1,8%. Dal 1988 al 1991 presenta un incremento medio annuo di appena lo 0,6%.

Gli Stati Uniti presentano un andamento diverso. Dal 1986 al 1988 frenano leggermente dal notevole incremento del 5,3% al 5,0%. Nel 1989 si fermano di botto. Nel 1990 ripartono col buon incremento 4,0%; nel 1991 arretrano di colpo a -2,3%.

L’Inghilterra tra 1987 e 1991 va dall’incremento 3,5% a 0,8% e a -2,5%.

L’Urss tra il 1987 e il 1991 va dall’incremento 3,9% (migliore del 3,5% inglese) a 1,5% a -0,7% e a -8,1% (molto peggio del -2,5% inglese). Questo record negativo tra i sette principali Paesi spiega il passaggio dall’Urss alla Russia, e non viceversa, come falsamente vogliono far credere gli economisti, che lo smembramento dell’Urss sia la causa del crollo di quell’economia. Quando la macchina dell’economia si inceppa, è d’obbligo una nuova conduzione politica; sempre, s’intende, nell’ambito del sistema capitalistico. L’Urss di fronte alla crisi, più pesante nel suo caso perché fattasi attendere più a lungo, ha fatto quello che le altre potenze avevano fatto decenni prima: ha mollato l’impero coloniale per scaricare su di esso le conseguenze della crisi, illudendosi che così poteva venire a capo della crisi. Questa manovra, che non è riuscita agli altri Paesi che si trovano oggi in piena crisi, a maggior ragione non riuscirà alla Russia ex-Urss: ambedue ieri e oggi capitalistiche.

Concludiamo con un accenno agli incrementi del Mondo. Dal 1987 al 1990 si frena dal buon incremento 5,6% a 3,8% per poi praticamente arrestarsi allo 0,1%. Nel 1991 l’incremento 0,4% indica che la macchina economica mondiale stenta a ripartire. Tenuto conto del peso preponderante dei sette principali Paesi, che come blocco ha senz’altro arretrato, quello stentato avvio denunciato a livello mondiale va attribuito all’insieme degli altri 150 Paesi e più, sulla via, da alcuni già imboccata da tempo, della industrializzazione.


2. La crisi ventennale vista da noi e dai borghesi

Sono oltre 20 anni che la crisi di sovrapproduzione a livello mondiale ha investito il sistema capitalistico appesantendone notevolmente la marcia, già da tempo abbastanza rallentata, da quando cioè la fase giovanile e matura del capitalismo avevano compiuto il loro ciclo cedendo alla fase senile. Con l’inizio di questo 1993 non si intravedono vie d’uscita né si palesano sintomi di ripresa. Se nelle fasi di gioventù e di maturità l’obiettivo del capitalismo è “vivere”, nella fase di senilità l’obiettivo è “sopravvivere”, nel senso di “tirare a campare” in attesa di una morte sicura.

L’ultraventennale crisi mondiale di sovrapproduzione (fenomeno questo esclusivo del modo di produzione capitalistico), che non dà segnali di un prossimo epilogo, non può essere correttamente vista e studiata se non nel quadro dei fenomeni permanenti e contingenti che si manifestano nella fase senile del capitalismo. Se la crisi dura da più di 20 anni, è questo il periodo che va preso in blocco ed analizzato. Contano i due estremi: l’anno di inizio della crisi e quello in cui si esaurisce. In questi 20 anni e più si sono alternate fasi di recessione a fasi di ripresa, come ben documenta il continuo lavoro del Partito. L’economia borghese per bocca dei suoi preti, gli economisti, ubriaca il povero cristo magnificando le stentate riprese succedute alle rovinose cadute, su cui stendono veli e silenzi imbarazzati.

Nelle fasi di gioventù e di maturità del capitalismo, nel lungo periodo il collegamento dei vertici massimi crescenti nella serie degli indici delle produzioni mostrava una vitalità che dava spazio alla scienza apologetica. Nella attuale fase di senilità il collegamento degli indici massimi, non più crescenti, evidenzia una stagnazione, un’assenza di vitalità per cui l’economia borghese, per il ruolo che deve svolgere, mette apertamente da parte la “scienza”. L’attuale fase senile controrivoluzionaria è contraddistinta da una tale totalità di dati oggettivi che consente agli economisti di fare apologia solo interpretando intervalli temporali e spaziali sempre più ristretti. Espungendo ad arte periodi a scala storica microscopici la disonesta scienza borghese può dimostrare di tutto, sia in senso negativo sia positivo.


3. La dinamica della crisi nella teoria e nei dati reali

È sulla base di queste considerazioni – dopo aver accertato che la produzione industriale dei Paesi “che contano” e del Mondo intero, dopo aver toccato un apice tra il 1973 e il 1975, ha nell’ultimo ventennio frenato sempre più la sua marcia, fino a bloccarsi e a rinculare negli ultimi anni – che noi riscontriamo in questo ciclo il persistere di una crisi di sovrapproduzione che, iniziata 20 anni fa, è andata estendendosi al mondo intero senza avere toccato ancora il suo fondo.

Per comprenderne il decorso bisogna tener presente qual è la dinamica dell’accumulazione nel mercato mondiale dei capitali. È questa una società basata sul capitale; è ad una infinità di capitali piccoli, medi, grandi e enormi, in lotta spietata tra di loro, che bisogna riandare come causa prima di ogni evento economico. Ma il capitale è un modo di produrre; ed è dunque il campo della produzione l’arena in cui tutti i capitali si scontrano per perpetuarsi come tali, o per sparire.

Il capitale è tale solo se la produzione di merci fa parte del suo ciclo vitale; solo la produzione di merci provoca la sua crescita. Per contro la produzione di merci è possibile solo se è conveniente per il capitale, solo se provoca il suo accrescimento, la sua moltiplicazione. È sempre a questo nesso inscindibile tra capitale e produzione di merci, in entrambe le direzioni, che bisogna ostinatamente riallacciarci. La difficoltà di vendita delle merci al loro valore provoca inevitabilmente una diminuzione dei profitti. È la caduta generalizzata del saggio del profitto il fattore che scatena la crisi di sovrapproduzione. Se c’è difficoltà a vendere le merci prodotte, si verifica senz’altro un aumento delle scorte di merci invendute. Se il fenomeno persiste e si accentua i capitalisti sono costretti a ridurre la capacità produttiva utilizzata degli impianti. Se la crisi perdura si assisterà ad una diminuzione del livello dei nuovi investimenti. Questa operazione restrittiva provocherà una diminuzione complessiva dell’ammontare del Prodotto Interno Lordo. L’insieme di questi fenomeni evidenzia la sovrapproduzione di capitale costante nelle sue varie forme. Parallelamente si produce una sovrappopolazione relativa, che si manifesta con la diminuzione dell’occupazione.

Dimostriamo come questo concatenamento si è riprodotto nella realtà della vita economica di quest’ultimo ventennio di crisi persistente ricorrendo ad uno scarno ma essenziale corredo di dati statistici ufficiali.

Precisiamo che la crisi di sovrapproduzione che stiamo indagando prende l’avvio negli Stati Uniti ed evolve propagandosi al mondo intero; e perciò è da quel paese che inizieremo l’indagine.

Nel biennio dal 1964 al 1966 la produzione industriale statunitense tira al massimo con un incremento medio annuo del 9,4% che segue, si badi bene, ad una media nei 3 anni precedenti, dal 1961 al 1964, del 6,7%. L’euforia produttiva non consente al mercato di smaltire la pletora di merci per cui nel 1966 il livello delle scorte raggiunge la quota più elevata dal dopoguerra con 4,6 miliardi di dollari. Tra il 1965 e il 1967 la crisi si propaga ad Inghilterra, Francia, Germania ed Italia con i livelli delle scorte che battono ogni record precedente. Negli Stati Uniti gli investimenti subiscono un drastico rallentamento passando dal 14,9% del 1964-65 all’1,2% di crescita del 1966-67 con una contrazione di ben 12,5 volte. La quota dell’occupazione industriale sul totale diminuisce rapidamente dalla fine degli anni ’60 in poi. Nonostante la funzione di assorbimento della forza-lavoro nel settore dei servizi, il tasso di disoccupazione cresce progressivamente dall’inizio degli anni ’70, senza più ritornare ai livelli degli anni ’60.

Nei quattro Paesi europei la produzione industriale rallenta dalla metà degli anni ’60; la variazione media annua passa per l’Inghilterra dal 3,0% al 2,7%, per la Francia dal 6,4% al 5,1%, per la Germania dall’8,5% al 5,5%, con primato negativo, e per l’Italia dall’8,1% al 7,6%.

Nonostante le reazioni ai primi sintomi della crisi, ecco le recessioni mondiali degli anni ’70, che si sono volute far credere conseguenze della crisi petrolifera. La boccata d’ossigeno di un certo sviluppo nei primi anni ’80 non ha risolto ma riproposto le contraddizioni ad un livello più elevato. Infatti negli Stati Uniti il livello delle scorte rispetto al 1966 è raddoppiato nel 1973, è diventato 4 volte maggiore nel 1978, si è moltiplicato per 16 nel 1984; e nel 1989 risultava ben 5 volte più grande. Inoltre in tutti i principali Paesi gli incrementi della produzione industriale si sono ulteriormente contratti ed i livelli di disoccupazione sono aumentati costantemente.

Il nuovo rapporto sull’economia CEE, uscito agli inizi di febbraio, prevede che «forse solo alla fine del 1994 si invertirà la tendenza alla crescita del tasso di disoccupazione». Il peggiore dato nella storia della Comunità Europea del 10,8% nel 1985 verrebbe superato nel 1994 dall’11,4%, con 17 milioni di senza lavoro; e se lo dicono loro potrebbe anche risultare un dato in difetto. Nel 1992 nella CEE c’è stata una perdita secca di 2 milioni di posti di lavoro rispetto al 1991. L’Irlanda che si porterà al 20,4%, la Spagna al 19,9%, l’Inghilterra al 12,8% e la Germania all’8,8% sono i quattro Paesi CEE che nel 1994 presenteranno i maggiori deterioramenti dei loro mercati del lavoro. Dal 1990 al 1993 l’OCSE è passata da un tasso di disoccupazione del 6,2% al 7,5%, il Nord America è andato dal 5,8% al 7,4% e l’Oceania dal 7,1% al 10,6%. Complessivamente sono 30 milioni di lavoratori a spasso nel mondo “economicamente sviluppato”.

Passando al Prodotto Interno Lordo i tassi medi annui di crescita sia in termini reali sia come pro-capite dal 1973 alla fine degli anni ’80 si sono dimezzati rispetto al periodo 1950-1973. Uguale contrazione ha subito il volume delle esportazioni. Per i 16 maggiori Paesi dell’OCSE ecco i dati: la crescita del Pil in termini reali cala dal 4,9% al 2,4%; il Pil pro-capite cala dal 3,8% all’1,9%, le esportazioni dall’8,6% al 4,2%. Ossia persistono gli effetti di una crisi di sovrapproduzione non risolta.


4. Fine del bipolarismo USA-URSS

La dinamica della sovrapproduzione ha portato ad una nuova divisione internazionale del lavoro fra i tre poli imperialistici di Europa, Stati Uniti e Giappone. La diversa capacità di resistenza delle imprese in conseguenza della crisi ha delineato i nuovi rapporti di forza sul mercato mondiale. Ne esaminiamo alcuni settori.

L’informatica è la branca più giovane e dinamica. Nata oltre 30 anni fa negli Stati Uniti, era monopolio esclusivo delle multinazionali USA. Oggi che ha raggiunto un giro d’affari pari al 6% del Pil mondiale, il quadro è radicalmente cambiato. Sulle prime 20 società mondiali nel 1989 ben 8 sono giapponesi con un fatturato pari al 42%, solo 6 sono statunitensi col 31,7% di fatturato, le restanti 6 sono europee con un fatturato del 25,3%.

L’industria automobilistica, altro settore che fino a 20 anni fa vedeva l’egemonia mondiale della triade USA di General Motors, Ford e Chrysler, vede il netto declino del terzetto: è sufficiente rilevare che nel 1990 le imprese automobilistiche giapponesi detenevano oltre il 30% del mercato USA. Le statistiche dicono che la penetrazione USA in Giappone è a livello di briciole, passata dallo 0,4 all’1,0% nel 1992. E queste briciole per oltre il 50% recavano il marchio Honda-USA: erano state costruite in uno o più degli impianti transplant della marca nipponica in USA. Se le auto CEE vendute in Giappone sono passate dall’1,2 al 2,5%, dal 1992 le auto giapponesi si erano conquistato il 12,0% del mercato europeo. D’altronde quella quota del 2,5% CEE andrà drasticamente ribassata quando le fabbriche giapponesi in Inghilterra opereranno a pieno regime, al massimo nel 1995.

L’industria siderurgica mondiale è in declino da quasi 20 anni. Riferendoci solo ai tre poli imperialistici, nel 1989 la quota giapponese sul totale mondiale di acciaio prodotto era del 14,7%, quella europea del 18,4%, quella USA, che al termine delle due Guerre mondiali ha sfiorato il 60% (la guerra, che pacchia per il capitale!), è caduta oggi ad appena l’11,6%.

Nel presentare dati statistici non lo facciamo per “tifo” sportivo: anche se non è ribadito di continuo, quel che ci sta a cuore è il riflesso sulle masse proletarie del mondo intero delle vicende economiche, sia negativo come disoccupazione, abbassamento dei livelli di vita, sia politico positivo di un loro risveglio rivoluzionario, che risulta in ritardo rispetto all’attuale fase economica.

Ecco un caso tra tanti, abbastanza significativo. All’inizio degli anni ’80 si risolse la crisi dell’acciaio in Europa con una “ristrutturazione” che avrebbe buttato sul lastrico più della metà della forza-lavoro. Si passò infatti dagli 800.000 addetti del 1980 ai circa 370.000 attuali con un calo del 53,7%. La capacità produttiva è passata da 225 a 190 milioni di tonnellate con una contrazione del 15,6%. Ma l’introduzione di nuovi processi produttivi ha aumentato la potenzialità produttiva del 20%.

La sovrapproduzione che ne è scaturita è tornata nuovamente a far crollare i prezzi. L’Eurofer, l’associazione di categoria, ha chiesto l’aiuto finanziario della Commissione Europea che ha manifestato la disponibilità ad impegnare 1.000 miliardi di lire di aiuto al settore siderurgico (oltre gli ulteriori contributi che verranno richiesti ai rispettivi governi europei che si preoccuperanno di elargirli con la massima speditezza) al fine di facilitare ulteriormente fusioni, nuovi tagli alla produzione ed eliminazione di altri 50.000 posti di lavoro, ad un ulteriore calo dell’occupazione del 13,5%.

L’industria chimica presenta questo quadro. L’Europa detiene il 32% del mercato mondiale, gli USA il 26% e il Giappone il 13%. Fra le 16 maggiori imprese mondiali, le prime tre sono tedesche (Basf, Hoechst e Bayer) con una quota di oltre il 30%. Così quella quota del 32% mondiale dell’Europa è praticamente tutta in mano alle tre multinazionali tedesche.

Diamo un rapido sguardo per ultimo al settore dell’industria tessile, primogenita del capitalismo di madre inglese che deteneva allora il 100% della produzione mondiale. Ne è passata da allora di acqua sotto i ponti del Tamigi! La quota mondiale inglese nel 1980 si era ridotta al 5,5%, per attestarsi nel 1989 al 3,5%. I confratelli USA negli stessi 9 anni sono scesi dal 7,0 al 4,5; come la Francia dal 6,0 al 5,0. La Germania mantiene la sua posizione dell’11,5%; mentre l’Italia la migliora leggermente passando dal 7,5 all’8,0. In forte crescita solo 3 paesi asiatici, la Corea del Sud, Hong Kong e Taiwan con le rispettive quote mondiali al 1989 del 5,5%, del 7,5% e del 5,5%; nel complesso quasi 1/5 della produzione mondiale. La sovrapproduzione del settore ha provocato la saturazione dei mercati a livello mondiale; per cui i singoli monopoli possono ampliare le loro quote di mercato solo a danno dei concorrenti, tra i quali gli USA e l’Inghilterra sono i Paesi che hanno subito le perdite maggiori proprio per la maggiore obsolescenza dei loro macchinari.


5. Anche il Giappone nella crisi

L’imperialismo giapponese si è messo in evidenza imponendosi con una capacità di estrazione del plusvalore superiore a chiunque altro. Ciò ha determinato negli anni ’80 un notevole acuirsi della lotta concorrenziale mondiale, condotta in posizione preminente dagli Stati Uniti, nel tentativo di contrastare la propria decadenza. La lotta è condotta sia a livello della circolazione monetaria sia a livello commerciale. La guerra tra i vari imperialismi per la spartizione delle aree e dei settori da valorizzare ha provocato un aumento crescente dei flussi di investimenti diretti all’estero (IDE) al fine di contrastare il rallentamento della dinamica dell’accumulazione.

La superiore capacità dei capitalisti giapponesi nell’uso della forza-lavoro dei proletari ha dato loro quei margini di profitto che li ha fatto emergere con un balzo in 10 anni degli IDE di 4,5 volte, di fronte ad un tracollo del 56,6% USA e ad un aumento del 33% CEE. La quota giapponese dei flussi mondiali di IDE in uscita è passata dal 6,2% degli anni ’70 al 27,6% del 1988-1990. Tra gli anni ’70 e gli anni ’80 la quota USA è passata dal 46 al 20% e quella CEE dal 42 al 56%. Ovviamente nella quota CEE i capitali tedeschi sono egemoni. L’ammontare degli IDE negli anni ’80 è passato da 500 a 1.500 miliardi di dollari.

Nell’ambito IDE la crescita degli investimenti di capitali con acquisizioni e fusioni di imprese prova l’estrema difficoltà dei capitali a livello mondiale nel trovare nuove aree di valorizzazione, per cui cercano di controllare masse di capitali attraverso la centralizzazione in una lotta senza esclusione di colpi.

L’estendersi e il perdurare della crisi mondiale ha investito nel più recente periodo anche i poli imperialistici emergenti che mostravano una certa immunità alla crisi. Certe attribuzioni non sono più scontate: l’economia giapponese non è più “florida”, come quella tedesca non è più “solida”. Segni di debolezza nell’economia giapponese erano emersi negli anni passati, in seguito al ciclo mondiale della valorizzazione dei capitali speculativi, che aveva coinvolto la Borsa di Tokyo e molta parte del sistema finanziario nipponico. I dati ufficiali comunicano che la produzione industriale vi è diminuita ad agosto 1992 del 4,2% rispetto a luglio, ma era già in calo dal settembre 1991 segnando un record negativo dal dopoguerra. Le scorte di merci sono aumentate, su base annua, del 4,4%, il livello più alto dal 1963. Fra aprile e settembre 1992 gli utili lordi di quattro delle più grandi catene commerciali sono crollati del 50% circa. Le multinazionali Nissan e Toyota mostrano i bilanci in passivo. Sul fronte monetario la liquidità del sistema è declinante da 10 mesi: a settembre 1992 ha raggiunto una variazione annua dello 0,4%, record negativo dal 1968. La maggior efficienza nell’estrazione di plusvalore, all’interno e all’estero, ha consentito ai monopoli giapponesi di attraversare quest’ultimo ventennio di crisi meglio di USA e CEE, conquistandosi l’egemonia come modello produttivo. Ma il vorticoso aumento della massa di merci prodotte è andata infine a saturare un mercato mondiale stagnante. Era inevitabile che la crisi tornasse ad emergere palesemente anche in Giappone.

Il sistema bancario giapponese registra quasi 200.000 miliardi di lire di crediti inesigibili, o “in sofferenza”, come amabilmente si suol dire. Il fatto dipende dalla stagnazione in atto ed è strettamente collegato allo sgonfiamento della speculazione edilizia e fondiaria con un conseguente crollo dei titoli di proprietà immobiliari: 200/300 milioni al metro quadro per una casa al centro di Tokyo era diventato troppo anche per la decadenza nipponica. Dimezzati i prezzi correnti di case e terreni, il governo giapponese fa capire di poter intervenire per salvare le banche dalla crisi. L’intervento costerà ai contribuenti giapponesi almeno 100.000 miliardi di lire, che pro-capite equivalgono al costo del salvataggio delle casse di risparmio sostenuto dal governo USA in questi ultimi anni. Sono tutti sintomi di vera crisi.


6. In crisi le tangenti?

Cade a proposito un’annotazione di tono scherzoso suggeritaci dalle vicende pagliaccesche della nostra Italietta. Un “pizzo” tra i più elevati riguarda l’immobiliare Gerini che per un edificio dell’erario ha versato una tangente di 15 miliardi di lire. Ora gli esperti del Ministero delle Finanze sanno, anzi fanno sapere, che l’evasione fiscale dei commercianti non è inferiore ai 150.000 miliardi, altri 150.000 riguardano l’evasione e l’elusione di liberi professionisti ed imprese di varia dimensione che lo Stato si guarda bene dal recuperare, ulteriori 200.000 miliardi sono versati regolarmente alle banche come interessi passivi: in questo caso lo Stato ci tiene ad onorare la sua firma. Complessivamente si tratta di 500.000 miliardi di “fondi intoccabili”. Non basta: la CEE denunzia lo Stato italiano per l’indebito sostegno protezionistico a favore delle imprese nazionali per un importo che si aggira sui 100.000 miliardi. Sono senz’altro cifre inferiori alla realtà, prendiamole per buone. Si tratta di un giro di 600.000 miliardi, rispetto al quale i 15 contestati all’immobiliare Gerini rappresentano appena lo 0.0025%.

Farebbe solo ridere lo zelante impegno profuso da magistrati, politici e culturame vario nel dare la caccia e smascherare poche centinaia di Gerini, se non sapessimo che questo operare serve a distrarre le masse dal vero Grande Furto che non ha mai sosta in qualsiasi Paese contro la classe proletaria e salariata e che si perpetua non nella redistribuzione del plusvalore fra borghesi, ma direttamente all’origine, nella sfera della produzione, della vendita della forza lavoro, per quanto “onesti” possano essere i padroni e il loro Stato.


7. I rapporti di forza nel mercato mondiale

La crisi persistente sta delineando sempre meglio, in base ai nuovi rapporti di forza che ne sono scaturiti, una dinamica imperniata sui tre poli imperialisti di CEE, Giappone e Stati Uniti.

Il Prodotto Interno Lordo indica il valore monetario della produzione annua di beni e servizi di un dato Paese. Alla scadenza degli ultimi quattro decenni, posto il Pil degli Stati Uniti uguale a 100, l’Europa dalla quota 59 è passata a 71, poi a 125 e infine a 111. Il Giappone da quota 8,6 si è portato prima a 20,4, poi a 40 per attestarsi a 52,6. Nei 30 anni dal 1960 al 1990 il Pil degli USA è aumentato di 9 volte quello europeo di 17 volte e quello giapponese di ben 55 volte. Le valutazioni sono date a prezzi correnti. Quelle a prezzi costanti danno una crescita meno rapida, ma i rapporti reciproci non subiscono alterazioni. Se si tiene conto delle popolazioni, il Giappone, quanto a Pil pro-capite, passa in testa nel 1990 e l’Europa passa in coda. Se invece fissiamo a 100 l’insieme dei Pil dei tre poli imperialistici, ecco le quote al 1950, al 1965, al 1973 e al 1990: gli USA, dal 52,3% al 46,5% al 42,6% e infine al 36,6%, sono in continua discesa; la CEE, dal 37,7% al 39,0% al 38,5% e infine al 37,4%, è stazionaria; il Giappone, dal 4,8% al 9,2% al 13,2% e infine al 21,1%, ha volato di quasi 4,5 volte, anche se come dato globale è distante da USA e CEE; ma, come dicevamo, li supera nel pro-capite.

La forza del processo produttivo, che si concretizza nel Pil, è il risultato della accumulazione del capitale, bene indicata dal livello degli investimenti fissi annui.

Per gli ultimi tre decenni ecco come è variato in % del P.I.L. in ognuno dei tre poli imperialistici: per gli USA sono stati il 18%, il 18,8% e il 17,4%; per la CEE abbiamo il 22,9%, il 22,6% e il 19,9%; il Giappone ci dà il 32,2%, il 32,7% e il 29,8%. C’è la tendenza generale del rallentamento dell’accumulazione, che è manifestazione della crisi di sovrapproduzione del mercato mondiale. Le diverse velocità di crescita portano ad una riduzione delle distanze tra i tre poli nel corso dei 30 anni. Il perché delle diverse crescite è bene espresso dal valore aggiunto pro-capitale, in termini reali, nell’industria: per spiegare ciò che ha determinato l’evoluzione dell’accumulazione occorre indagare l’accrescersi dello sfruttamento.

1960-1968 1968-1973 1973-1979 1979-1987
USA 2,5 1,4 -0,1 2,0
EUROPA 4,6 4,6 2,6 2,6
GIAPPONE 9,3 8,5 3,5 4,3

Questi i ritmi medi annui di aumento in percentuale del Pil.

La dinamica della produttività del lavoro, risultato della sua quantità e della sua intensità, vista la diversità negli orari medi annuali, la saturazione dei tempi di lavoro che distingue i tre poli, è parallela a quella dell’accumulazione. Dunque: tutti storicamente in calo, ma preminenza di Giappone su Europa e Stati Uniti e dell’Europa sugli Stati Uniti.

Passiamo all’evoluzione storica dei salari, come variazione della percentuale delle masse salariali in percentuali dei Pil.

1961-1970 1971-1980 1981-1990
USA -1,2 1,1 -0,3
EUROPA 0,0 1,1 -2,4
GIAPPONE -6,5 4,5 0,0

Solo gli anni ’70 della crisi del capitale mostrano per i salari dei guadagni reali significativi. E questo è un altra nostra posizione cardine circa i rapporti economici tra le classi, in contrasto irriducibile, proletaria e borghese: quando il capitale arranca il proletariato proporzionalmente sta meglio; con la ovvia deduzione che il proletariato starà finalmente bene quando il capitale sarà morto.

Negli anni ’80 i tassi di sfruttamento sono di nuovo aumentati. La loro evoluzione spiega la parallela crescita dell’accumulazione e la loro diversa velocità nei tre blocchi. Infatti i profitti lordi, come percentuale del valore aggiunto, variano insieme ai tassi di sfruttamento. Nel periodo 1973-1979 diminuiscono per Stati Uniti, Germania e Giappone, anche se a livelli diversi. Se prendiamo in esame il periodo che va dal 1960 al 1987 vediamo che in media quelli USA sono diminuiti del 32,6%, quelli tedeschi del 34,5% e quelli giapponesi del 45,2%.

Passiamo all’interscambio commerciale. Si produce per conquistare mercati strappandoli ad altri Paesi. Vediamo l’export e l’import dei tre poli in un unico quadro in % del Pil.

  1961-1970 1971-1980 1981-1990
Exp Imp Exp Imp Exp Imp
USA 5,3 4,7 7,9 8,2 8,5 10,5
EUROPA 19,4 19,2 24,8 24,8 28,4 27,8
GIAPPONE 9,9 9,5 12,2 11,5 13,2 11,0

Gli USA vanno da un attivo ad un passivo sempre più accentuato. L’Europa da un dinamico pareggio passa ad un modesto attivo. Il Giappone accentua in progressione il suo attivo.

Si fa notare il diverso livello di apertura all’interscambio dei tre poli in cui primeggia l’Europa. I livelli differenziati di profittabilità hanno condotto alla situazione attuale delle bilance commerciali. Nel decennio 1981-1990, più che negli altri, al deficit USA fa riscontro l’attivo commerciale giapponese ed europeo (soprattutto tedesco).

Per quanto riguarda l’Export queste le quote percentuali sul mercato mondiale per il 1970 e il 1987: gli USA calano dalla già bassa quota del 14,8% al 10,5%, con perdita del 29%; la CEE (9 paesi) sostanzialmente tiene: va dal 39,5% al 38,9%; il Giappone aumenta andando dal 6,7% al 9,9% affiancando gli USA. Considerati i minori livelli di crescita del volume della produzione e delle esportazioni mondiali, si è determinata una redistribuzione delle quote di plusvalore a favore dell’imperialismo giapponese e di quello tedesco (che ha un peso preponderante nell’ambito CEE) e a danno dell’imperialismo USA.

Per quanto riguarda l’estensione multinazionale delle imprese delle tre aree vediamo le ripartizioni dell’ammontare degli investimenti diretti all’estero. Nei tre anni 1960, 1975 e 1980 gli USA scendono dal 50% al 45% e infine al 42%. La CEE tiene scendendo dal 37% al 30% per poi risalire al 36%. Il Giappone sale dall’1% al 1,6% e infine al 7,4%. Per quelli scambiati nell’ambito dei tre poli al 1988: gli USA ricevono da CEE e Giappone 247 miliardi di dollari, la CEE riceve da USA e Giappone 133 miliardi, il Giappone riceve da CEE ed USA 20 miliardi.

Nell’esportazione di capitali investiti la CEE esporta 196 miliardi, gli USA esportano 149 miliardi, il Giappone 65 miliardi. Per i capitali investiti la CEE è prima, seguita dagli Stati Uniti.

Le differenti capacità di valorizzazione del capitale, o di sfruttamento della forza-lavoro, si ripercuotono sulla possibilità delle multinazionali di ciascun blocco di conquistare fette più o meno grandi della produzione e circolazione mondiale. Vedi la conquista parziale del settore auto USA da parte di imprese giapponesi, l’invasione dell’elettronica in Europa da parte di Giappone e USA.

Gli scontri internazionali in atto coinvolgono quindi sia la possibilità degli sbocchi per il capitale-merce (controversia sull’agricoltura in sede Gatt) sia la localizzazione degli impianti di produzione (scontro sulle imprese automobilistiche giapponesi in Europa).

Un’ultima tabellina evidenzia il perché le merci giapponesi battono tutti i concorrenti sul mercato. Negli anni ’80 rispettivamente nella CEE, negli USA e in Giappone la produttività si è incrementata, rispettivamente, dell’1%, dello 0,5% e del 2,4%. I salari si sono incrementati dello 0,7%, dello 0,1% e dell’1,5%. Gli oneri sociali sono percentualmente il 50%, il 35% e il 10%. Gli orari di lavoro annuo sono 1650, 1950 e 2150 ore.

I compagni e i proletari ci scuseranno se abbiamo prelevato sic et simpliciter dalla rigattiera della terminologia borghese la lurida espressione mistificante di “oneri sociali”, che non esprimono altro che una quota dell’appropriazione del capitale su quanto prodotto dalla forza-lavoro dei proletari.


8. L’Europa e i mutati rapporti di forza tra i capitali

In tutto l’arco ventennale della crisi la marcia verso il nuovo squilibrio mondiale vede il polo imperialistico europeo formarsi per lottare contro quelli USA e giapponese. È solo nel contesto dell’evoluzione dell’economia mondiale che i movimenti profondi del sistema industriale e finanziario europeo possono trovare una comprensione adeguata. I tempi e i modi del processo dell’integrazione europea sono in rapporto dialettico con lo stato della competizione rispetto ai poli imperialistici concorrenti degli Stati Uniti e del Giappone.

La creazione del Mercato Comune Europeo negli anni ’60 raggiunse risultati parziali per la preponderanza economica politica e militare a livello mondiale dell’imperialismo USA. Risalgono a quella nascita le radici strutturali della sfida odierna per l’egemonia sul mercato mondiale. Negli anni ’50 e ’60 l’intenso processo di internazionalizzazione dei capitali produttivi e commerciali ha per protagonista le imprese multinazionali USA.

Il rapporto a livello mondiale tra investimenti diretti all’estero e investimenti di portafoglio passò allora da 1/2 a 4 volte. I primi rappresentano investimenti per lunghi periodi, sotto forma di capitale azionario, di valore “strategico” nella conduzione degli affari. I secondi sono investimenti di brevi periodi in azioni e titoli, pubblici e privati, con carattere speculativo legato ai differenziali dei tassi di cambio e di interesse. I flussi di investimenti diretti all’estero caratterizzavano quella fase dell’imperialismo, di estensione a livello multinazionale dei cicli di produzione e di circolazione del capitale.

I Paesi imperialistici europei e il Giappone, bersagli privilegiati di questi flussi di investimento USA, furono costretti a reagire alla sfida americana. Nel corso della crisi degli anni ’70 il ruolo sui mercati internazionali delle multinazionali europee e giapponesi inizia a crescere mentre accade l’inverso per quelle USA. In quegli anni il declino dei profitti induce lo scatenamento della lotta concorrenziale tra i vari monopoli industriali, commerciali e monetari.

All’inizio le multinazionali USA perdono sì terreno, ma tengono in scacco i monopoli europei; e ciò porta ad uno stallo dell’unificazione europea.

Negli anni ’80 il processo di resistenza alla crisi vede l’espansione delle multinazionali europee e giapponesi, mentre quelle USA si bloccano. La lotta concorrenziale sfocia in una ripartizione della sfera produttiva, che provoca un aumento della centralizzazione dei capitali in unità monopolistiche sempre più grandi in grado di aumentare i profitti puntando più sulla loro massa che sul saggio del profitto.

Operando in questo modo è possibile estendere geograficamente lo spazio attraversato dai cicli di produzione e di circolazione delle singole imprese multinazionali. A tal fine è necessario che anche la sfera della circolazione del capitale (mercati monetari e finanziari) sia riorganizzata adeguatamente. Il mutamento in questo ferreo concatenamento di causa ed effetto si è avuto nell’ultimo ventennio.

Alcuni apologeti economisti borghesi esaltano l’ampliamento della ricchezza finanziaria (vedi politiche economiche “reaganiane” e similari); altri condannano la “finanziarizzazione” dell’economia con un vago sapore moralistico, completamente fuori luogo in un’indagine rigorosa di fatti economici. Nel caso dei primi va detto che l’enorme espansione del capitale fittizio, causata da un’insufficiente accumulazione di capitali, se non è ben gestita, indebolisce la base strutturale dell’accumulazione con gli effetti negativi perduranti emersi nel corso della recessione internazionale. Per quanto attiene ai secondi va sottolineato che la creazione di capitale fittizio, vero contenuto della speculazione, è un aspetto necessario dell’accumulazione, non una frenesia irrazionale soggettiva di singoli operatori economici.

Il processo di centralizzazione dei capitali in Europa subisce un salto di qualità a partire dal 1984-1985, anche in risposta all’analogo fenomeno verificatosi negli USA dopo la recessione del 1982. Il numero di operazioni passa da 480 nel 1984-1985 a 1122 nel 1988- 1989 con un’ascesa che porta a ben oltre il raddoppio nel quinquennio. A livello settoriale quelle riguardanti il capitale produttivo sono maggioritarie con quote del 70%, a riprova della tesi sulla centralità del fatto produttivo. Quelle riguardanti la distribuzione commerciale diminuiscono, mentre aumentano quelle rivolte alle banche e alle assicurazioni.

Le operazioni di centralizzazione industriale all’interno della CEE sono sempre superiori all’80%, a riprova che la costruzione oggettiva del polo imperialistico europeo è la base che sostiene la costruzione istituzionale riavviata nel 1985. In questa dinamica i monopoli capitalistici europei si battono per ottenere progressi nell’unificazione reale del mercato con l’abbattimento delle “barriere non tariffarie”. I progressi istituzionali facilitano il raggiungimento di una scala di produzione adeguata alla competizione internazionale.

In un raffronto dell’ampiezza del fenomeno, l’ammontare in valore delle operazioni di fusioni ed acquisizioni, sia di produzione sia di circolazione, è stato nell’ambito della CEE di 50 miliardi di dollari nel 1989 aumentando a 60 nel 1990, con un guadagno del 20%, mentre negli USA da 55 miliardi nel 1989 si è scesi a 43 nel 1990, con una perdita del 22%.

Nel processo delle operazioni di fusione il ruolo degli agenti della circolazione del capitale è fondamentale, in quanto la centralizzazione può svolgersi solo con l’intervento del “sistema del credito”, che per Marx comprende: a) il capitale bancario, b) la gestione del debito pubblico dello Stato e c) la forma azionaria del capitale delle imprese.

Tra il 1983 e il 1990 il credito bancario erogato alle imprese è stato per Germania, Inghilterra, Francia e Italia superiore alla dinamica del Prodotto interno lordo.

L’aumento dei profitti delle imprese negli anni ’80, ha fatto crescere il loro autofinanziamento, grazie alla fase di ripresa produttiva, con una diminuzione nelle quote di indebitamento e un aumento delle quote di finanziamento azionario.

Questo ruolo ridotto del capitale bancario nel finanziamento delle imprese l’ha spinto ad un aumento della centralizzazione passando dalle 52 operazioni del 1984-1985 alle 170 del 1988-1989 con un aumento di oltre tre volte. Nel decennio ’80 la diminuzione della quota del plusvalore totale intascato dalle banche per le operazioni di intermediazione è stata bilanciata dall’aumento del loro carattere monopolistico, a spese di istituzioni minori.

A livello mondiale le banche giapponesi hanno accresciuto più di tutte la loro dimensione nell’ultimo decennio, in linea con il ruolo più dinamico della loro economia, scalzando i grandi monopoli bancari USA. Nel 1990, delle 30 maggiori banche mondiali, 16 erano giapponesi, 11 europee e solo 1 statunitense.

Parallelamente c’è stato negli ultimi anni un più spinto processo di integrazione fra diversi agenti del “sistema del credito”. I motivi di tale fenomeno risiedono nel processo di creazione del capitale fittizio che ha coinvolto tutto il mercato mondiale nello scorso decennio.

In teoria la speculazione è un processo di espansione del “capitale fittizio“. Dice Marx:

     «La formazione del capitale fittizio la si chiama capitalizzazione. Si capitalizza ogni reddito regolare e periodico, considerandolo in base al saggio medio dell’interesse come provento che verrebbe ricavato da un capitale dato in prestito a questo saggio d’interesse (…) Svanisce così anche l’ultima traccia di qualsiasi rapporto con l’effettivo processo di valorizzazione del capitale e si consolida l’idea che rappresenta il capitale come un automa che si valorizza di per sé stesso» (“Il Capitale”, Libro III, Volume 20, Capitolo 29).

Il “capitale fittizio” sono i titoli di Stato, le obbligazioni e le azioni di società private, ecc. il cui valore-capitale è del tutto “illusorio”, indipendentemente dal fatto che questi titoli rappresentino un capitale realmente operante oppure no. Le azioni di imprese “rappresentano”, ma non “sono” capitale reale, perché il capitale non si duplica. Esse sono titoli giuridici sulla proprietà del plusvalore futuro che verrà prodotto da un dato capitale.

Nel confronto tra crescite accelerate dei corsi azionari e crescite modeste dei profitti risalta il carattere, appunto, fittizio del “capitale fittizio“. La sua gestione consente però all’oligarchia finanziaria di ripartire in maniera “disuguale” la svalorizzazione che segue sempre dopo che esso si è gonfiato e costituisce così un potente strumento di centralizzazione del capitale. Il crollo dei mercati azionari dell’ottobre 1987 e 1989 ha facilitato enormemente in Europa l’ondata di fusione ed acquisizione. Gli “investitori istituzionali”, concentrando l’afflusso di capitali monetari dispersi, possono fornire il denaro per la formazione del capitale fittizio e al momento opportuno sopportare l’onere della svalorizzazione.

 Afferma Grossmann:

     «La speculazione è un mezzo per supplire all’insufficiente valorizzazione dell’attività produttiva con profitti che affluiscono dalle perdite sul corso delle azioni di estese masse di piccoli capitalisti, la cosiddetta “mano debole”, ed è quindi un potente mezzo per la concentrazione del capitale monetario» (“Il crollo del capitalismo”).

Si cerca di creare degli intermediari finanziari che siano presenti in maniera costante (perciò “istituzionali”) sul mercato azionario con la funzione di subire periodicamente le svalorizzazioni a beneficio altrui. Oggi con l’uso dei fondi pensionistici si coinvolgono intere masse di lavoratori salariati, che direttamente non investirebbero parte del loro salario diretto o differito nel mercato azionario. Con questi investitori istituzionali i processi di privatizzazione delle imprese a capitale pubblico vengono facilitati.

Attraverso il debito pubblico statale, in paesi come l’Italia con scarso sviluppo del mercato azionario, lo Stato svolge una funzione di intermediario finanziario con la gestione dei titoli del debito. Intervenendo per sostenere la riconversione industriale con aiuti alle imprese, sia fiscali sia finanziari, lo Stato svolge concrete modalità di gestione del debito pubblico. Gli aiuti alle imprese da parte dello Stato, che in Inghilterra sono l’1,8% del Prodotto interno lordo, arrivano in Italia al 4,2% con un’incidenza di 2,3 volte maggiore.

In tema di moneta nel ’71 gli USA sanciscono la fine dell’egemonia monetaria mondiale del dollaro e mettono fine al Sistema di Bretton Woods. Nel ’72 nasce il sistema del “serpente monetario” che si riduce ad un’area monetaria, l’Europa, ancorata al Marco. La guerra concorrenziale sul sistema dei prezzi scatena l’inflazione internazionale. Nel 1979 nasce il Sistema Monetario Europeo, tentativo dei paesi imperialistici europei di neutralizzare l’inflazione internazionale trasmessa attraverso la manovra sul corso del Dollaro. Si costituisce in effetti una zona monetaria abbastanza coesa che fronteggia bene il confronto con il Dollaro e lo Yen. Il Marco costituisce ora l’ancora del sistema monetario europeo. Dal 1985 è la principale valuta utilizzata negli interventi sul mercato comunitario dei cambi legato allo SME, emarginando il ruolo del Dollaro. A livello internazionale la percentuale delle riserve ufficiali di una valuta mostra la sua posizione concorrenziale nella sfera monetaria. Quelle in Dollari calano di un buon terzo, dall’84,5% del 1973 al 55% del 1990. Quelle in Marchi salgono di più di 3 volte, dal 6,7% del 1973 al 21% del 1990. Quelle in ECU e in Yen nel 1990 raggiungono rispettivamente il 5% e il 10%.


9. Il costo della crisi viene scaricato sul proletariato mondiale

Già nel 1967 era iniziato un processo di turbolenza del mercato mondiale che in un paio d’anni aveva spazzato via gli equilibri post-bellici formalmente siglati a Bretton Woods, non più ristabiliti come tanti altri fino ad oggi, neppure negli anni ’80 del monetarismo e della privatizzazione.

Finché l’imperialismo non sarà in grado di ridefinire con la forza degli eserciti la divisione internazionale del lavoro e la spartizione del mercato mondiale, nuovi equilibri non potranno essere instaurati sulle macerie di quelli crollati. Qui è la spiegazione dei fatti accaduti nella società capitalistica in una lunga serie concatenata di cause ed effetti per 25 anni alla ricerca affannosa del suo Nuovo Ordine Mondiale.

La successione delle fasi e dei tempi della crisi, oltre che con la caduta ciclica del tasso di profitto per la sovrapproduzione generale che ha saturato i mercati, si è palesata prima con l’inflazione e un primo arresto dell’accumulazione, poi con la stagnazione, ripetute recessioni e la ricostituzione dell’esercito industriale di riserva, con la crisi del lavoro. Seguiva una nuova ripartizione dei cicli produttivi a livello internazionale, per differenziare luoghi e settori su cui scaricare le conseguenze più gravi della crisi, a vantaggio della parte di capitale capace di tenere il mercato residuo, fino al trasferimento della pletora di capitale monetario nei fasti fugaci della speculazione. Questo processo ha significato nell’ambito globale internazionale.

La speculazione, ultimo stadio della crisi, nel suo ciclo periodico ricorrente, diviene dunque lo snodo intorno al quale si decidono i diversi possibili esiti della crisi stessa. Lì si giocano i primi rapporti di forza tra i “fratelli nemici“ della classe dominante, ciascuno dei quali è lo stesso che ora vuole investire produttivamente, ora vuole speculare, per appropriarsi, con le buone o con le cattive, con lo scambio o con la corruzione il ricatto e la violenza, una quota maggiore nella spartizione del plusvalore divenuto insufficiente per tutti i capitali. La speculazione perciò non è un’anomalia del ciclo del capitale, o una cancrena rispetto alla presunta sua laboriosità.

Finché i rapporti di forza interni alla borghesia multinazionale non approdano a rapporti di forza tra le classi. Con il 1992 concluso, constatiamo che la crisi economica, affiancata da crisi finanziarie e valutarie, manifestatasi per prima negli Stati Uniti, ha investito poi l’Europa per coinvolgere infine il Giappone divenendo così mondiale. Saltano agli occhi il rallentamento mondiale negli investimenti e la difficoltà del credito a svolgere un’azione propulsiva, l’uno e l’altra per l’insufficienza del plusvalore realizzato sul mercato mondiale in conseguenza della crisi di sovrapproduzione. Le scarse prospettive di profitto industriale scoraggiano gli investimenti produttivi e rendono cauti i prestatori di capitale monetario, timorosi di non potersi appropriare della quota sufficiente di profitto nella forma loro spettante di interessi.

Quando, nel momento più elevato della crisi, l’eccesso di capitale sul mercato mondiale risulterà sufficientemente svalorizzato, si troverà spianata la strada dalle distruzioni di merci e dalle macerie dei concorrenti e l’accumulazione riprenderà la sua marcia. I tassi di profitto riprendono quota solo se la crisi di sovrapproduzione viene superata. L’aumento dei tassi di profitto stimola i nuovi investimenti e spinge i capitalisti del credito ad essere ben disposti ad aumentare i prestiti. Si crea così quel risparmio che nel momento acuto della crisi si era volatilizzato.

Il processo per eliminare sul mercato mondiale l’eccesso di capitale prodotto svalorizzandolo adeguatamente si è svolto negli anni ’80 in modo tale da spiegarci l’origine della eccessiva speculazione, denominata in termine tecnico “finanziarizzazione”. La speculazione finanziaria è il processo di creazione del “capitale fittizio”, definito così scientificamente da Marx, in quanto, pur non essendo produttivo di plusvalore, appare tale perché rappresenta un diritto ad appropriarsi di quote del plusvalore futuro. Esso è formato da azioni, obbligazioni, titoli di Stato, contratti finanziari e molti degli scambi valutari. Il mercato mondiale giornaliero degli scambi monetari è valutato oggi in 900 miliardi di Dollari. Solo 45 miliardi, il 5%, è giustificato da transazioni commerciali, mentre il 95%, sono pura speculazione.

Se sul mercato c’è un eccesso di capitale monetario inattivo, definito dalla scienza marxista “pletora di capitale monetario da prestito”, il capitale fittizio si espande.

Il processo globale di svalorizzazione si arresterà solo quando tutto il capitale in eccesso, sia quello monetario, sia quello produttivo, sia quello commerciale, sarà stato distrutto secondo una ripartizione abbastanza differenziata tra i singoli capitali individuali, la cui dinamica sarà impersonata nella forma più spietata mors tua vita mea, dalla concorrenza, “libera” o monopolistica.

Nelle vicende economiche degli anni ’80 la speculazione monetaria e creditizia è partita dal mercato USA e si è riversata sul mercato mondiale. Per evitare la svalorizzazione del capitale monetario eccedente i monopolisti statunitensi avviarono quel grande processo di creazione del capitale fittizio che contraddistingue il “reaganismo”. Il mercato interno USA diventò così il centro mondiale della speculazione. Le possibilità di espansione creditizia all’estero si erano saturate negli anni ’70 con la speculazione creditizia della sfera d’influenza USA “a favore” dei Paesi del Terzo Mondo. Si crearono così le premesse della crisi debitoria dei Paesi del Terzo Mondo. Tutti i monopolisti degli altri Paesi, data la pletora di capitale monetario che opprimeva i loro mercati, hanno dovuto necessariamente seguire questa strada.

Ma il fenomeno della svalorizzazione, a seconda della forma prevalente assunta dal capitale fittizio, si è imposta nei vari mercati con tempi e modalità diversi. Abbiamo avuto le crisi borsistiche internazionali del 1987 e del 1989, la crisi bancaria ed immobiliare negli USA e in Giappone, la crisi della finanza pubblica in molti paesi europei e negli USA; e infine lo scossone sui mercati valutari europei.

Nella dinamica della crisi di sovrapproduzione, lo sviluppo e la successiva contrazione del capitale fittizio consentono la centralizzazione dei capitali monetari dispersi: riunisce nelle “mani giuste” una molteplicità di piccoli capitali che per forma e quantità non sarebbero utilizzati autonomamente, facilitando la realizzazione di operazioni di fusione acquisizione e ristrutturazione delle imprese necessarie nella lotta concorrenziale per aumentare almeno la massa del profitto, anche con bassi tassi. Inoltre viene consentita la ripartizione dell’onere della svalorizzazione a carico dei capitali non monopolistici e delle classi medie non capitaliste (il “parco buoi” della Borsa). Coloro che hanno creduto alle suadenti promesse dei creatori del capitale fittizio pagano prevalentemente il costo della svalorizzazione. Chi sognava di potersi trasformare in capitalista o, se lo era già in piccolo, in grande capitalista, solo perché in possesso di una somma di denaro da investire, viene espropriato in misura più o meno cospicua. Gli enormi profitti speculativi dell’oligarchia finanziaria nascono di solito dalla “tosatura” di piccole quote su vaste “greggi”.

L’operazione va condotta nel modo più indolore per la coesione del blocco sociale dominante. Le classi medie a cui vanno parte delle rendite finanziarie, come premio tangibile della loro fedeltà al grande capitale, non debbono essere troppo maltrattate. Dei mercati finanziari sviluppati ed ampi hanno il notevole pregio di far apparire le inevitabili perdite come frutto impersonale della “mano invisibile”.

In Italia i mercati finanziari non sono adeguatamente sviluppati: si è scoperto con la gestione del debito pubblico. Gli alti tassi d’interesse sui titoli (accoppiati all’impunità fiscale) hanno sostenuto materialmente la coesione del blocco sociale egemone, legando la piccola e media borghesia, gran parte del lavoro autonomo e dei piccoli intermediari commerciali al carro dell’oligarchia finanziaria.

L’operazione di “tosatura” presenta dei rischi politici perché può innescare una rivolta reazionaria di questi ceti (vedi in Italia il successo della Lega di Bossi). La vasta area della piccola intermediazione commerciale è perdente di fronte al processo di centralizzazione del settore. Ma l’oligarchia finanziaria italiana è contraria ad ipotesi separatiste. Per competere a livello internazionale ha bisogno di tutto il peso dell’economia nazionale. E allora blandisce questi ceti, fomentando il loro astio contro i lavoratori salariati privati e pubblici. Si è servita poi della svalutazione per espropriare lo stesso questi ceti; lo ha fatto solo in modo meno avvertibile.

Parallelamente nelle crisi si ha la svalorizzazione del capitale variabile, cioè il salario complessivo, che viene corrisposto a quella parte della classe proletaria che ha la fortuna di essere occupata per la produzione di plusvalore. Se di merci se ne sono prodotte troppe, al punto di non far realizzare il plusvalore sotto forma monetaria nelle tasche dei capitalisti, esse merci vengono distrutte al fine di riportare la realizzazione del plusvalore a livelli decenti, se non ottimali. Da buon drogato il capitalista, costi quel che costi, non può ridurre la dose di plusvalore ingerito, senza plusvalore non può vivere.

Sui salari vengono così scaricati tutti quei costi che l’oligarchia finanziaria non può far pesare sulle classi medie. Contro i lavoratori salariati, contro la classe proletaria schiera il fronte dei possessori dei titoli di Stato, che aggrega il capitale monopolistico-finanziario, ossia il coordinamento di capitale industriale e monetario, che svolge il ruolo egemone, il capitale non monopolistico, commerciale, industriale e creditizio, e buona parte del lavoro autonomo e dei liberi professionisti. Questo blocco si batte affinché sia salvaguardata la intangibilità degli interessi sul debito pubblico. La politica economica in Italia che ha cementato negli ultimi anni questa alleanza, ha aggredito a fondo il capitale variabile nei suoi vari aspetti riducendo quella quota di salario sociale reale che i lavoratori ricevevano sotto forma di servizi, mentre la restante quota dei salari corrisposta in denaro come retribuzione a livello individuale si sta contraendo con la scomparsa della “scala mobile”, la svalutazione, il blocco dei contratti e il blocco della contrattazione aziendale.

Negli altri paesi possono cambiare gli aspetti formali, ma la sostanza resta la stessa.


10. Ultime conclusioni da un nostro testo del 1856

Tutto questo è potuto accadere perché, nonostante i tempi siano più che maturi a livello economico per l’“assalto al cielo” da parte delle masse diseredate del mondo intero, permane ancora un ritardo, una sfasatura che impedisce ai proletari di tutto il mondo di ricostituirsi in classe in lotta, non solo per tutelare, in forma tangibile finalmente, i loro interessi contingenti, ma soprattutto per realizzare il loro programma storico, la loro finalità di distruzione del modo di produzione capitalistico.

Per spiegarci questa sfasatura dobbiamo risalire ai tempi della Prima Guerra mondiale. Risale ormai a 70 anni fa la sconfitta subita dal proletariato mondiale che, con forze nettamente inferiori a tutti i livelli, già ampiamente falcidiate e dilaniate dalla guerra, ebbe il coraggio e l’ardire di scatenare la sua guerra contro il capitalismo mondiale.

Dopo il vittorioso avvio folgorante della rivoluzione mondiale contro il dominio del Capitale nell’Ottobre rosso del 1917, la preponderanza schiacciante dell’apparato economico-politico-militare borghese ebbe la meglio in un breve volgere di anni.

Le condizioni della resa incondizionata sotto il profilo storico-sociale furono le più pesanti che si potesse concepire e imporre: l’annientamento totale del proletariato come classe, e dunque come partito politico, per ridurlo ad un insieme amorfo di individui. Per la borghesia mondiale queste misure, che miravano ad impedire che il proletariato potesse risorgere come classe e come partito, non furono ritenute sufficientemente rassicuranti al punto che si sentì il bisogno, come ulteriore garanzia, che si pervenisse al proliferare di una miriade di partiti sedicenti socialisti e comunisti, sotto l’aspetto formale in linea con il marxismo, salvo casuali distinguo, per ingabbiare centinaia di milioni di proletari del mondo intero, e servire come valvole di sfogo per la rabbia proletaria che inevitabilmente e con una certa frequenza sarebbe esplosa per il peggioramento costante delle condizioni di vita e di lavoro.

Come se questo non bastasse si è assistito alla nascita e allo sviluppo di una serie di paesi spacciati per socialisti e comunisti, formalmente tesi alla “costruzione” di società socialiste e comuniste, anche se ogni tanto costretti a massacrare i proletari in rivolta contro quello sfruttamento capitalistico.

Tutto ciò che nasce è destinato a morire. L’equilibrio sociale, faticosamente conseguito, non in un giorno né in un anno, riflesso della vittoria della classe borghese contro il proletariato insorto, dopo 70 anni, sotto l’incalzare di eventi che sovrastano le esigenze vitali del capitalismo, è crollato. Sono crollati tutti i pretesi partiti socialisti e comunisti che immobilizzavano l’energia del proletariato mondiale. Sono crollati tutti i paesi sedicenti socialisti e comunisti che per oltre mezzo secolo hanno convogliato le masse proletarie verso obiettivi che erano agli antipodi degli interessi contingenti e storici della classe. Sono crollati i sindacati operai diabolicamente efficienti nell’ottenere il sostegno dei loro iscritti per misure che servivano solo a perpetrare e rafforzare il dominio, la dittatura del capitale sui proletari. Tutto l’equilibrio derivato dalla sconfitta dell’Ottobre rosso del 1917 sulla distanza è andato in frantumi. Si è sfasciata la corazza impenetrabile che la borghesia si era forgiata a sua difesa. Ecco perché noi plaudiamo alla crisi e riconosciamo che essa ha ben lavorato per noi e per la rivoluzione comunista.

Ma tutto questo appartiene ancora agli aspetti negativi della crisi dal punto di vista borghese. L’aspetto positivo, dal punto di vista proletario, che noi ci aspettiamo dalla crisi, a coronamento di tutti i crolli a cui abbiamo e stiamo assistendo, è proprio quell’evento contro il quale tanto hanno lavorato i vertici delle borghesie del mondo intero: quella ricostituzione del proletariato mondiale in classe, che sancirà ad un livello superiore, grazie alle esperienze acquisite dalle sconfitte subite, l’incontro tra la classe proletaria e il suo partito politico, rivoluzionario e internazionale, in lotta per la rivoluzione comunista mondiale, la dittatura comunista permanente per l’annientamento del capitalismo come modo di produzione.

Tutto ciò è balzato alla ribalta con l’incalzare e il perdurare della ventennale crisi tuttora in atto, che rende sempre più evidente l’acuirsi delle contraddizioni che attanagliano sempre più il capitalismo. Lo sviluppo delle forze produttive ha raggiunto livelli talmente elevati da essere in netto contrasto con il modo di produzione capitalistico. L’enorme consistenza delle forze produttive mondiali attuali, l’energia che da esse promana, è soffocata, compressa dall’involucro capitalistico. Le forze produttive sono ormai in contraddizione permanente con il capitalismo, come dimostrano le crisi sempre più intense nel tempo e nello spazio e dalle soluzioni sempre più precarie.

Siamo nella fase in cui l’accumulo massiccio di cause di destabilizzazione del capitalismo dovrà sortire, in un arco di tempo non più calcolabile a mezzi secoli, l’inevitabile effetto, l’ultimo e il più temuto dal filisteismo dominante: il risveglio del gigante proletario, il suo riapparire sul proscenio della storia per compiervi da protagonista, e da solo, contro tutti i difensori del sistema, il ruolo di distruzione del più sanguinario e inumano modo di produzione, quello capitalistico, nelle sue più svariate forme di cui si è ammantato in tutto il mondo e in tutto il periodo della sua esistenza, da quelle apertamente controrivoluzionarie e fasciste a quelle equivocamente riformiste e democratiche a quelle falsamente progressiste e “comuniste”. Settant’anni di controrivoluzione hanno consentito al Partito della classe proletaria mondiale, genuinamente comunista e inevitabilmente internazionale, con il suo lavoro teorico, prioritario e che non si è mai arrestato, anche nei momenti più tenebrosi e, quando possibile, con il suo lavoro pratico, linfa vitale insopprimibile per lo stesso lavoro teorico, di custodire e di tenere in perfetta efficienza, con gli affinamenti e gli affilamenti necessari, tutto l’armamentario dottrinario e di lotta grazie al quale il proletariato sarà in grado di uscire vittorioso nella guerra contro il Capitale.

Il Capitale, contro la sua stessa volontà e nel suo sconquassato procedere odierno, sta sensibilmente portando il proletariato a ridestarsi e a riprendere la sua marcia. Questa marcia sarà contraddistinta dall’incontro con il suo Partito. Da quando è nato il Proletariato si è incontrato varie volte con il Partito e sotto la sua guida è riuscito a terrorizzare il capitalismo o a minacciarlo da vicino. Era prematuro che riuscisse a scalzarlo dalle fondamenta. Oggi, come non mai, le armi proletarie sono talmente affilate e i tempi sono a tal punto maturi per cui è lecito prevedere che il nuovo incontro del Proletariato con il Partito potrà finalmente far scoccare quel corto circuito che in un immenso rogo ridurrà in cenere il Capitale mondiale. A conferma che l’ottimismo rivoluzionario delle nostre rigorose previsioni di stampo politico, che affondano nella dottrina e sono le mille miglia lontane da qualsiasi utopismo, è formidabile corredo del bagaglio teorico, riportiamo un vibrante testo del 1856 che sembra scritto alla luce della crisi attuale. Crisi che fa intravvedere meno lontano il risorgimento di classe.

Questo testo meraviglioso è nascosto alle pagine 655-656 del Volume XIV delle Opere di Marx-Engels: nascondere e travisare era la funzione controrivoluzionaria delle “Opere omnia”. Mancato il sostegno finanziario dei falsi Stati comunisti e dei falsi Partiti comunisti per stravolgere ogni testo della nostra scuola, oggi questi non vengono più stampati. Buon segno: tornano ad essere pericolosi. Senza quei falsi tutori riacquistano la loro genuina fisionomia sovversiva comunista. Grazie alla crisi siamo gli unici a rivendicare testi che solo nelle nostre mani tornano ad essere formidabili armi di lotta del proletariato rivoluzionario. Diamo posto al testo del 1856, un breve discorso di Marx per l’anniversario del giornale “People’s Paper” in cui illustrò il ruolo storico mondiale del proletariato.

     «Le cosiddette rivoluzioni del 1848 furono soltanto dei poveri episodi – piccole rotture e crepe nella dura crosta della società europea. Eppure esse resero visibile una voragine. Esse rivelarono, al di sotto della superficie apparentemente solida, un magma di materia fluida, che appena si fosse sollevato avrebbe mandato in frantumi continenti di roccia compatta. Rumorosamente e confusamente annunciarono l’emancipazione del proletariato, vale a dire il segreto del XIX secolo e della sua rivoluzione.
     «Questa rivoluzione sociale non fu certamente una novità inventata nel 1848. Il vapore, l’elettricità e la filatrice automatica erano rivoluzionari ben più pericolosi che non i cittadini Barbès, Raspail e Blanqui. Ma anche se l’atmosfera in cui viviamo grava su ciascuno di noi col peso di 20.000 libbre, forse lo percepiamo? Né più né meno di quanto la società europea prima del 1848 percepisse l’atmosfera rivoluzionaria che la circondava e la premeva da tutte le parti.
     «C’è un grande fatto, significativo per questo nostro XIX secolo e che nessuno osa contestare. Da un lato sono nate forze industriali e scientifiche di cui nessun’epoca precedente della storia umana ebbe mai presentimento. Dall’altro, esistono sintomi di decadenza che superano di gran lunga gli orrori tramandatici sulla fine dell’impero romano. Ogni cosa oggi sembra portare in sé la sua contraddizione. Macchine, dotate del meraviglioso potere di ridurre e potenziare il lavoro umano, fanno morire l’uomo di fame e lo ammazzano di lavoro. Un misterioso e fatale incantesimo trasforma le nuove sorgenti della ricchezza in fonti di miseria. Le conquiste della tecnica sembrano ottenute a prezzo della loro stessa natura. Sembra che l’uomo, nella misura in cui assoggetta la natura, si assoggetti ad altri uomini o alla propria abiezione. Perfino la pura luce della scienza sembra poter risplendere solo sullo sfondo tenebroso dell’ignoranza. Tutte le nostre scoperte e i nostri progressi sembrano infondere una vita spirituale alle forze materiali e al tempo stesso istupidire la vita umana, riducendola a una forza materiale.
     «Questo antagonismo fra l’industria moderna e la scienza da un lato e la miseria moderna e lo sfacelo dall’altro; questo antagonismo fra le forze produttive e i rapporti sociali della nostra epoca è un fatto tangibile, macroscopico e incontrovertibile. Qualcuno può deplorarlo; altri possono desiderare di disfarsi delle tecniche moderne per sbarazzarsi dei conflitti moderni o possono pensare che un così grande progresso nell’industria esiga di essere integrato da un regresso altrettanto grande nella politica.
     «Da parte nostra non disconosciamo lo spirito stregato che si manifesta in tutte queste contraddizioni. Sappiamo che per far funzionare le nuove forze della società occorrono semplicemente degli uomini nuovi – e questi sono gli operai. Essi sono l’invenzione dell’epoca moderna, come lo sono le macchine. Nei segni che confondono la borghesia, la nobiltà e i meschini profeti del regresso riconosciamo la mano del nostro valente amico, Robin Goodfellow, la vecchia talpa che scava tanto rapidamente, il grande minatore: la rivoluzione.
     «Gli operai inglesi sono i primogeniti dell’industria moderna. Perciò non saranno certo gli ultimi a dare una mano alla rivoluzione sociale generata da questa industria; una rivoluzione che significa l’emancipazione della loro classe in tutto il mondo e che è altrettanto universale quanto il dominio del capitale e la schiavitù del salario. Conosco le eroiche lotte sostenute dalla classe operaia inglese dalla metà del secolo scorso in poi – lotte meno famose perché lasciate nell’oscurità e passate sotto silenzio dagli storici inglesi.
     «Nel Medioevo, in Germania, per vendicare i delitti della classe dominante esisteva un tribunale segreto chiamato Santa Vema. Se si vedeva una casa segnata con una croce rossa, la gente sapeva che il proprietario era stato condannato dalla Vema. Ora tutte le case d’Europa sono segnate con la misteriosa croce rossa. La storia è il giudice e il proletariato il suo esecutore».







Riproduzioni in grafici dei prospetti statistici del “Corso”

(continua dal numero 33)


Integrazione sulla consistenza, condizione e combattività della classe operaia

La protesta operaia che nello scorso autunno ha percorso le piazze d’Italia non è stata della durata e incisività necessaria e che ancora attendiamo. I lavoratori che pur si sono mobilitati in massa non hanno potuto efficacemente difendersi contro lo sfruttamento capitalista per una serie di motivi, il più grave dei quali è rappresentato dall’operato dei venduti delle Confederazioni CGIL-CISL-UIL, che hanno fatto di tutto per arginare l’ondata delle proteste, come ben si conviene ad organizzazioni che “mediano” i conflitti di lavoro sempre e solo ad esclusivo vantaggio della classe sfruttatrice. I lavoratori l’hanno finalmente capito ed hanno conseguentemente “esternato” il loro parere ai bonzi sindacali nei modi poco civili che abbiamo visto.

Le organizzazioni di lotta e di difesa economica sorte “a sinistra” sono ancora vittime di tentennamenti e confusioni per cui alla fine il movimento di protesta proletaria, dopo lo sfogo nelle piazze, è stato ricondotto a mani vuote nelle fabbriche e viene tenuto a bada dalla paura della perdita del posto di lavoro per la temuta chiusura a catena degli stabilimenti.

Altre dure prove prossimamente interesseranno i lavoratori sul fronte dell’unità e della solidarietà di classe; la scelta se chiudere le fabbriche del Sud invece di quelle del Nord, o viceversa, a seconda degli interessi capitalistici, come purtroppo sta avvenendo in Germania tra Est e Ovest, tra lavoratori tedeschi ed immigrati.

Solo un Sindacato di Classe potrà smascherare ed impedire queste lotte fratricide e solo un vero Partito Comunista potrà indirizzare queste energie nel senso giusto della Rivoluzione Proletaria.

Senza una grande crisi economica, a carattere generale, e quella attuale si preannuncia adeguata, con le piazze in movimento spinte dalla fame e dalla disperazione, non si hanno le condizioni di partenza per le battaglie decisive della lotta di classe per la presa del potere del proletariato.

Leggiamo così le cifre degli scioperi come elenchi di battaglie in cui i lavoratori si sono mossi insieme per i loro interessi di classe e si sono “allenati” per la loro successiva più grande e duratura liberazione.

Occupazione, disoccupazione e scioperi in Italia dal 1950 al 1992
Anno Popola-
zione

(x1000)
Lavoro
Dipen-
dente
%
To-
ta-
le
Agri-
colt.
Indu-
stria
Altre
Attiv.
Lavo-
ro
Auto-
nomo
Totale
Occu-
pati
Incr.
%
Occu-
pati
Disoc-
cupati

(x1000)
Dis-
occu-
pati
%
Ore
Scio-
pero

(x1000)
Ore
sciop.
dipen-
dente
1950 46.438 8.440 49 2002 3964 2474 8610 17.050 1572 8,4 62.088 7.3
51   8.838 51 2018 4192 2628 8257 17.095 +0,2 1511 8,1 32.912 3.7
52   9.183 53 1981 4428 2744 8021 17.174 +0,4 1493 7,9 28.248 3.0
53   9.513 55 1942 4572 2999 7673 17.186 +0,06 1528 8,1 46.624 4,9
54   10.148 59 1993 4892 3263 7155 17.303 +0,7 1669 8,8 43.016 4,2
1955 48.308 10.568 58 2031 5041 3496 7602 18.170 +5,0 1491 7,6 44.976 4,2
56   10.803 60 1987 5132 3684 7091 17.894 -1,5 1867 9,4 33.096 3,0
57   11.137 60 1978 5407 3752 7371 18.508 +3,4 1662 8,2 36.952 3,3
58   11.021 58 1793 5350 3878 8400 19.421 +4,9 1340 6,4 33.376 3,0
59   11.325 58 1842 5561 3922 8239 19.564 +0,7 1128 5,4 73.520 6,5
1960 50.285 11.848 59 1763 5904 4181 8121 19.696 +2,0 836 4,0 46.289 3,9
61   12.225 60 1710 6187 4328 8042 20.267 +1,5 710 3,4 79.128 6,4
62   12.414 62 1725 6429 4260 7480 19.894 -1,8 611 3,0 181.736 14,6
63   12.698 63 1679 6623 4396 7268 19.966 +0,3 504 2,5 93.560 7,4
64   12.590 62 1547 6633 4410 7540 20.130 +0,8 549 2,7 104.712 8,3
1965 51.861 12.278 62 1550 643 4294 7642 19.920 -1,0 721 3,6 55.943 4,5
66   12.102 64 1473 6290 4339 6702 18.884 -5,2 769 3,9 115.792 9,6
67   12.458 65 1489 6521 4448 6649 19.107 +1,2 689 3,5 68.552 5,5
68   12.539 63 1377 6482 4680 7233 19.763 +3,4 694 3,5 73.920 5,9
69   12.725 65 1394 6752 4579 6809 19.534 -1,1 663 3,4 302.600 23,7
1970 53.870 12.944 66 1263 6920 4761 6627 19.571 +0,2 615 3,1 146.212 11,3
71   13.078 68 1263 6516 5299 6217 19.295 -1,4 1109 5,4 103.592 7,9
72   13.081 69 1270 6416 5395 5895 18.976 -1,5 1297 6,4 136.480 10,4
73   13.330 70 1250 6429 5651 5815 19.145 +1,0 1305 6,4 163.936 12,3
74   13.702 70 1231 6597 5874 5837 19.539 +2,1 1113 5,4 136.264 9,9
1975 55.217 13.879 71 1174 6599 6106 5756 19.635 +0,1 1226 5,9 190.324 13,7
76   14.033 71 1193 6500 6340 5724 19.757 +0,6 1420 6,7 177.643 12,6
77   14.272 71 1179 6560 6533 5666 19.938 +0,9 1538 7,2 115.963 8,1
78   14.261 71 1124 6489 6648 5756 20.017 +0,3 1560 7,2 71.239 5,0
79   14.492 72 1106 6502 6885 5720 20.212 +0,9 1686 7,7 192.713 13,2
1980 56.431 14.673 72 1088 6535 7050 5814 20.487 +1,3 1685 7,6 115.201 7,2
81   14.678 71 1008 6467 7203 5866 20.544 +0,2 1895 8,4 71.239 4,8
82   14.668 72 964 6327 7377 5825 20.493 -0,2 1923 8,6 129.940 8,8
83   14.567 71 930 6148 7489 5990 20.557 +0,3 2140 9,4 98.021 6,7
84   14.437 70 876 5881 7719 6156 20.629 +0,3 2304 10,1 60.923 4,2
1985 57.108 14.648 71 857 5750 8041 6088 20.736 +0,5 2381 10,3 23.815 1,8
86   14.704 70 828 5659 8217 6153 20.857 +0,6 2311 11,1 39.506 2,6
87   14.710 71 795 5569 8346 6126 20.836 -0,01 2832 12,0 32.240 2,2
88   14.947 74 779 5626 8542 6156 21.103 +1,2 2885 12,0 23.206 1,5
89   14.937 71 788 5594 8555 6067 21.004 -0,4 2865 12,0 31.052 2,0
1990 58.092 15.363 72 786 5777 8799 6033 21.396 +1,8 2751 11,4 36.269 2,4
91   15.479 72 711 5727 9009 6113 21.592 +0,9 2653 10,9 19.743 1,3
1992 58.203 15.378 72 701 5606 9071 5989 21.367 -0,8 2955 12,1 *16.221 *1,1
(*) gennaio-ottobre 1992

In questa tabella compaiono i dati completi a partire dal 1950 ricavati dalle raccolte statistiche dell’ISTAT. Prima, cioè dal 1946, le statistiche sono parziali e sovente, per cause legate agli eventi bellici, solo per alcune aree geografiche. Dal 1971, come risulta evidente dai dati, cambiano, in seguito ad accordi comunitari, i criteri di valutazione della disoccupazione. Prima di tale anno i sottoccupati, cioè coloro che lavorano meno di 35 ore la settimana per cause legate direttamente a questioni aziendali o di produzione, fanno parte integrante degli occupati, mentre i disoccupati veri e propri sono coloro che avendo perso il posto di lavoro non riescono a trovarne un altro più quelli in concreta ricerca di una prima occupazione. Dal 1971 si aggiunge la voce “altri” che, con un peso variabile dal 30% al 50% delle altre due componenti, comprende un eterogeneo universo di lavoratori di riserva. Ciò evidentemente chiarifica e modifica le statistiche. Nel gennaio 1993 i disoccupati hanno superato la soglia di 3 milioni.

I dati asteriscati per il 1992 sono aggiornati soltanto fino ad ottobre ed al momento non sono ancora diffusi i dati relativi all’anno intero.

La colonna “Incr. % Occupati” riporta l’incremento percentuale degli occupati rispetto l’anno precedente; la colonna delle ore di sciopero per dipendente è data dal rapporto fra le complessive ore di sciopero e il numero dei  lavoratori dipendenti e dà una indicazione, oltre del costo economico sostenuto dai lavoratori, della combattività nel periodo. Le statistiche borghesi invece considerano e contano solamente i partecipanti agli scioperi.

Da questa serie di cifre si possono realizzare dei grafici per una migliore lettura dello scontro fra capitale e lavoro.

La popolazione nel periodo considerato ha un incremento del 25%; gli occupati totali aumentano della stessa quota percentuale e, pur tenuto conto di quanto specificato prima, i disoccupati raddoppiano come cifra assoluta. La colonna dell’incremento percentuale degli occupati rispetto l’anno precedente evidenzia, pur tra marcate oscillazioni, la tendenza al rallentamento nella crescita: sempre meno occupati e più espulsi dal mondo del lavoro.

Il primo grafico rappresenta le colonne del lavoro dipendente, delle sue ripartizioni fra agricoltura, industria e altre attività, e, in altro totale, del cosiddetto lavoro autonomo. Tutti i dati in milioni di lavoratori. La curva del lavoro dipendente totale è sempre crescente, in assoluto e in percentuale sul totale degli occupati: dalla metà degli occupati nel 1950 arriverà certo ai tre quarti a fine secolo. Benché non tutti i “lavoratori dipendenti” siano proletari e nemmeno tutti “lavoratori” (poliziotti, ecc.), e benché non tutti i “lavoratori autonomi” siano piccoli capitalisti (cottimisti, ecc.), grosso modo si può in queste proporzioni misurare la proletarizzazione della società italiana fra i due estremi temporali. La qual cosa gioca per ora solo a vantaggio del capitale patrio che accresce il suo esercito di schiavi.

Da notare però il rallentamento nella crescita dei dipendenti, continuo in tutto il dopoguerra e più accentuata dopo il 1975. Il lavoro autonomo, che come detto parte nel 1950 circa con gli stessi 8 milioni e mezzo di lavoratori dipendenti, diminuisce fino ai 5,7 del 1977 per poi rimanere pressoché stazionario.

I dipendenti occupati nell’agricoltura nel 1950 erano circa la metà degli industriali, ma quelli diminuiscono costantemente, questi prima crescono, fino al 1975, poi diminuiscono leggermente. Nel primo caso si ha una tendenza generale del capitalismo che relativamente “disinveste” in agricoltura e in assoluto ne riduce gli addetti per la accresciuta produttività del lavoro. Il secondo fenomeno è invece una eccezione dovuta alla crisi recessiva non solo italiana: relativamente i manuali diminuiscono rispetto ai lavoratori non immediatamente addetti alla produzione materiale, ma in assoluto gli operai dell’industria non diminuiscono, nei lunghi periodi.

Sempre crescente la curva del “terziario”, che raggruppa di tutto: dai proletari dei trasporti a quelli della distribuzione fino appunto ai non proletari funzionari statali, ecc. È evidente però che per la maggior parte trattasi di membri a pieno titolo della classe operaia come la intendiamo noi: di classe destinata a negare se stessa.

La composizione sociologica del proletariato dunque cambia, le sue dimensioni si accrescono enormemente, compreso nelle fasi del “benessere” economico, che producono non borghesucci ma proletari, magari di mentalità piccolo-borghese.

Il secondo grafico mostra il tasso di incremento annuo del numero di occupati: si nota come, dopo le forti impennate degli anni dal 1955 al 1958, la crisi del 1966 e le forti riprese occupazionali del 1967 e 1968, la curva accusi un abbassamento verso lo zero con incrementi minimi.

Il terzo grafico descrive l’andamento della disoccupazione come percentuale sugli occupati. Nonostante le molte furberie della statistica borghese per il misurare un fenomeno così imbarazzante per la sua apologesi, l’andamento della curva è quanto mai significativo. Intanto si può osservare che, in Italia, ma altrove non sarebbe molto diverso, il periodo del cosiddetto “pieno impiego”, se c’è stato, è durato pochissimi anni, appena dal 1961 al 1970, con tassi di disoccupazione inferiori al 4%. Prima e dopo la disoccupazione ha imperversato pesantemente dimostrando essere un fattore costante di ogni fase del ciclo economico capitalistico. Dopo il 1970 l’aumento dei disoccupati è impressionante e supera assai i minimi del dopoguerra. La stazionarietà recente del fenomeno, intorno al 12%, è da attribuire solo ad artifizi statistici che di volta in volta vengono ad escludere dal conteggio maggiori categorie di senza lavoro.

Il quarto grafico, sull’andamento delle ore di sciopero in Italia medie per occupato, fa parte del terzo gruppo di dati e ci rivela la drammaticità della situazione attuale: un periodo così basso di lotte sindacali non è mai esistito; come dato finale per il 1992, aggiornato ad ottobre, abbiamo un valore di meno di un’ora di sciopero all’anno per occupato.

Si osserva come i grafici terzo e quarto siano fra loro opposti: si hanno molti scioperi quando la disoccupazione è minima e nella fase immediatamente successiva a quella di pieno impiego; tanti meno scioperi quanto più la concorrenza fra lavoratori morde. Il massimo degli scioperi, nel 1969 con una media di 24 giornate per lavoratore, si determina alla fine del ciclo prospero del capitalismo.

Questa non è evidentemente una regola assoluta, ma solo del mercato della forza lavoro ove si incontrano offerta e domanda; ed è il limite di ogni impostazione “sindacalista” della lotta operaia.

Rapportata alla scala internazionale, con gli altri paesi più industrializzati, la classe operaia italiana risulta la più combattiva, come dimostrano il quinto e sesto grafico, pur adottando le diverse statistiche parametri diversi nel panorama trentennale.

Le lotte sindacali nei paesi più industrializzati: Giappone, Germania e Francia sono state al livello più basso; in Italia è sempre stato nettamente più alto e solamente negli ultimi anni si è allineato al basso con gli altri paesi; l’Inghilterra presenta un andamento molto contrastato: fino al ‘68 in basso, poi rabbiose impennate e subitanei crolli nel ‘72, nel ‘79 e nell’84. Per gli USA vale sempre il discorso che hanno una popolazione di poco superiore dell’insieme di Italia, Francia, Inghilterra e Germania Ovest ed hanno espresso fino al 1968 un livello di combattività più elevato di quello europeo. I dati del quinto e sesto grafico sono tratti dal bollettino Euro Stat.

Il grafico sette rappresenta i dati forniti della “Rassegna di statistiche del Lavoro” per l’incremento delle retribuzioni reali dei dipendenti dell’industria per il comparto degli operai non coniugati (quindi senza assegni familiari) uomini e donne nel complesso. Al 1938 è posto l’indice 100 di riferimento. Si evidenzierebbe come in 54 anni e attraversata una guerra mondiale il salario reale sarebbe quadruplicato, mostrano comunque un marcato rallentamento della crescita a partire dalla “crisi petrolifera” del 1974. La stessa fonte ponendo il 1990 come nuova base 100 per le future statistiche attribuisce al 1991 un misterioso indice 109,5 di cui nessun operaio ha certamente trovato traccia nella busta paga “reale”. Secondo questa fonte padronale lievi riduzioni del potere di acquisto dei salari si sarebbero avute negli anni: 1951, 1952, 1986 e 1989.

Siccome “qua nessuno è fesso”, abbiamo voluto buttar giù un controllino. Sorgerebbe infatti la domanda: se gli operai oggi guadagnano tanto da poter mantenere quattro famiglie stile 1950, perché mai vanno tutte le mattine a lavorare? Basterebbe ci andassero un giorno su quattro o, se proprio non resistono al “consumismo”, un giorno su due! La tabellina che osiamo opporre a quella dei centri studi sindacal-confindustriali considera le retribuzioni annue lorde di un Applicato dipendente statale e i prezzi correnti di alcune merci, secondo l’ISTAT, fino al 1955. I dati del 1970 e del 1990 per un operaio medio ce li fornisce gentilmente la Unione Industriale di Torino, gli altri li abbiamo calcolati da noi, fino al 1955, considerando lavorate 1.600 ore annue. Ecco il risultato: al 1990 un chilo di pane costa 13 minuti di lavoro, la pasta 17, la carne 156, ecc. Pane e pasta costano poco meno che nei 130 anni precedenti, la carne è triplicata, il prezzo delle scarpe è raddoppiato; costa meno l’olio e il caffè. Ma si dirà: la televisione e il “videoregistratore” però costano meno che nel... 1861! Appunto quella televisione che serve per convincere i proletari che il loro salario è quadruplicato... Noi, marxisti dogmatici, eppure lo sapevamo che il salario non può eccedere gran che la somma dei mezzi di sussistenza.

Anni Retrib.
Annua
 Appli-
cato
 Lire
Prezzi Correnti in Lire Prezzi in Minuti di Lavoro
Pane Pasta Carne Olio Caffè Scarpe Pane Pasta Carne Olio Caffè Scarpe
1861 1.500 0,40 0,60 0,87 1,44 2,20   27 40 58 96 144  
1901 1.800 0,37 0,51 1,34 1,49 3,60   21 28 75 84 200  
1913 2.350 0,41 0,55 1,77 1,86 4,13 13,52 18 23 75 79 176 580
1921 8.161 1,41 2,14 12,96 11,21 23,72 54,06 17 26 158 138 290 660
1938 9.660 1,91 2,43 10,88 7,67 31,03 60,61 20 25 112 80 323 630
1955 688.300 110 159 959 556 2058 5092 16 23 138 81 300 740
1970               18 23 210 66 222 720
1990               13 17 156 36 96 1.080

Il grafico sette è quindi certamente esagerato e non di poco. È invece convincente il diverso grado di crescita della curva nel tempo: basso fino al 1960, accelerato poi e fino al 1980, in rallentamento fin quasi all’orizzontale successivamente e fino ad oggi. Con un metodo di rilevamento corretto, probabilmente, i due periodi estremi segnerebbero una diminuzione dei salari reali.

Nelle curve – materialmente connesse – tre, quattro e sette è la chiave di questo torbido mezzo Novecento, economico e sociale. Un ciclo è iniziato e finito e la classe operaia vi ha combattuta la sua battaglia difensiva, ma come classe della società borghese. D’ora in poi questa difesa sarà più necessaria ma anche più difficile e sono da attendersi nuove correlazioni crisi-salari-lotta di classe, imposte da un risorto movimento proletario in spregio di ogni legge, crisi e compatibilità capitalistica.

(continua)

 

 

 

 

 

 


Azione e teoria, classe e partito nella concezione marxista e nella rivoluzione

Esposto a Torino nel gennaio 1993 [RG55]

(continua dal numero 33)
 
[ È qui ]


 

 

 

 

 

 


Appunti per la Storia della Sinistra

Esposto alla riunione di ottobre 1992 [RG54]

(continua dal numero 33)

Spagna 1931: Dalla rivoluzione spagnola alla guerra in Spagna

Dopo che, all’inizio del 1932, il governo a partecipazione socialista ottenne alle Cortes la unanime fiducia per il modo in cui aveva soffocato i movimenti proletari, si assisté nell’agosto al primo tentativo della destra di impadronirsi con le armi del potere.

A Madrid alcune centinaia di soldati, capitanati da ufficiali monarchici, tentarono di impadronirsi del ministero della guerra, ma si sbandarono alla prima resistenza incontrata. Si disse che il presidente Azaña, con fare indifferente e con la sigaretta in bocca avesse assistito agli scontri dal balcone del palazzo del Ministero della guerra. Chissà se sarà vero?

A Siviglia, invece, fu il famigerato generale Sanjurio che si impadronì a sorpresa della città per dichiararsi “dittatore della nuova repubblica spagnola”, in contrapposizione alla “dittatura anticlericale di Azaña”. Il generale Sanjurio, dichiarandosi dittatore, adoperò le stesse parole che, due anni prima, erano state usate dai repubblicani dopo l’uscita di scena di Alfonso XIII: «Dalla viscere del popolo si eleva una ardente richiesta di giustizia, e noi sentiamo il dovere di soddisfarla (...) La rivoluzione sarà sempre un delitto o una pazzia ovunque prevalgono la giustizia e il diritto, ma è giustizia e diritto ove prevale la tirannia».

Ma poche ore dopo, mentre la guarnigione si arrendeva, il dittatore a bordo di una automobile tentava di raggiungere il confine portoghese. Durante una sosta fu riconosciuto da un poliziotto che gli intimò l’alt, ed il generale che alla pelle (alla sua) ci teneva, si arrese alzando immediatamente le mani tranquillizzando l’eccitato poliziotto: «Non temere nulla amico e... non sparare».

La rivolta in campo internazionale avrebbe dovuto essere spalleggiata dall’Italia, dove erano stati presi contatti con il regime fascista, senza però che quest’ultimo si mostrasse entusiasta; sul campo interno invece doveva ricevere l’appoggio di un neonato gruppo fascista: il cosiddetto Partito Nazionalista di Burgos. Quest’ultima rivolta si dice che sia andata a monte grazie alla delazione di una prostituta; del resto, della “insurrezione” si parlava, da settimane, nei caffè.

Il momento non era ancora propizio, il compito della sinistra borghese non era ancora esaurito ed il colpo di mano di Sanjurio fallì. Sanjurio, processato con altri 150 ribelli, venne condannato a morte. La pena venne poi commutata in carcere a vita. Due anni dopo, amnistiato, partiva per Lisbona da dove, per altri due anni, tenne le file della organizzazione della rivolta militare.

Nel settembre 1932 fu finalmente votata la riforma agraria. Ma le condizioni poste ai contadini, divenuti “proprietari”, furono tali che essi avrebbero dovuto attendere secoli prima di liberarsi dagli impegni contenuti nell’atto di acquisto.

Nel giugno 1933 l’azione repressiva del governo raggiunse il suo apice: gli operai in sciopero furono massacrati a Malaga, Bilbao e Saragozza. Dopo queste imprese, quando la stanchezza e la demoralizzazione avevano fatto breccia tra le masse lavoratrici, furono allora mature le condizioni per il cambio del personale governativo e la sinistra venne temporaneamente messa a riposo.

L’8 settembre 1933 Azaña rassegnava le dimissioni e le elezioni del 19 novembre diedero la maggioranza ai partiti di destra. I partiti che negli ultimi anni avevano appoggiato il governo ottennero solo 99 seggi dei quali 58 andarono al Partito Socialista, che, a sua volta, perse la metà precisa dei suoi deputati. Il centro, guidato dai radicali di Lerroux, ebbe 167 seggi (104 radicali; 25 la “Lliga”, il partito degli industriali catalani). Le destre che avevano impostato le loro campagne elettorali non sulla alternativa repubblica o monarchia, ma su quella fra borghesia e socialismo, passarono dai 42 ai 207 seggi.

 All’interno della coalizione di destra fece la parte del leone un partito di nuovissima costituzione: la CEDA (Confederacion Espanola de Derechas Autonomas), una Democrazia Cristiana ante litteram. Dopo le elezioni la CEDA divenne il più importante dei partiti spagnoli ed il suo leader, Gil Robles, ammiratore di Dollfuss e di Hitler, fu chiamato, assieme al radicale Lerroux, a formare il nuovo governo.

Il governo di destra dimostrò la sua continuità politica con i precedenti di sinistra passando immediatamente alla repressione antioperaia. Il massacro proletario del dicembre 1933 fece comprendere alla reazione che era ormai giunta l’ora della brutale riscossa.

In quella occasione la nostra Frazione lanciò il seguente appello per la solidarietà e la lotta internazionale del proletariato:

     «Centinaia di proletari cadono sulla breccia eroicamente nella lotta armata contro gli sgherri della finanza. A prescindere dalle divergenze politiche che ci separano dalla direzione di questo movimento, dalle circostanze sfavorevoli in cui è stato dichiarato, un fatto emerge e si impone. QUELLO DELLA SOLIDARIETÀ FATTIVA ED IMMEDIATA DEL PROLETARIATO MONDIALE. Solidarietà fattiva ed immediata verso i compagni di classe che con le armi alla mano preferiscono morire sulle barricate che arrendersi al loro carnefice. Solidarietà per strappare dalle grinfie del boia e della Guardia Civil, i prigionieri, gli arrestati, i feriti. Mentre la borghesia mondiale in coro incita ad una sommaria repressione contro gli “estremisti” nemici dell’“ordine” e della “civiltà”, il proletariato mondiale non può restare spettatore passivo se non vuole rendersi complice del massacro sommario che oggi pesa su centinaia di sfruttati della sua classe».

Quando nell’ottobre del 1934 scoppiò l’insurrezione delle Asturie, ancora una volta il governo clerico-fascista ricorse alla violenza sanguinaria. 23 mila soldati (quanti ne bastarono a Napoleone a Marengo per riconquistare l’Italia) dotati oltreché d’artiglieria di tutti i calibri, dei più moderni mezzi bellici, carri armati, autoblinde, aviazione, gas asfissianti, i mitragliatori marocchini, la legione straniera, tutto questo lo Stato borghese dovette mettere in campo per soffocare nel sangue la rivolta delle Asturie. I generali spagnoli, sempre ed ovunque battuti, dagli insorti cubani nel 1893, dagli americani nel 1895, dai marocchini nel 1917 e nel 1925, raccolsero finalmente i loro allori nella guerra contro il proletariato.

I minatori delle Asturie, che al loro attivo avevano ben 250 scioperi negli ultimi 10 anni, di cui 42 solo nel 1932, presero spontaneamente nelle loro mani la causa del proletariato spagnolo. Tutta la zona mineraria fu presto in loro potere, vennero prese d’assalto le caserme della Guardia Civil e fu ovunque soppresso il potere statale. Si trattò di una autentica lotta di classe tra proletariato e borghesia, senza l’inquinamento di parole d’ordine separatiste e democratiche. Al di fuori dei partiti si formò il Fronte Unico di Classe, la vera unità operaia di lotta per la conquista del potere.

Per tre settimane il proletariato fronteggiò con eroismo le forze della repressione statale. Nell’esercito stesso si verificarono casi di “tradimento”, ossia di fraternizzazione con gli insorti; lo prova il reiterato trasferimento di corpi d’armata dal campo delle operazioni in altre zone più tranquille, lo provano i processi contro gli ufficiali che si rifiutarono di dare ordine di sparare contro le popolazioni, lo prova la dichiarazione del ministro della guerra, il radicale Diego Hidalgo, che decise che era necessario sostituire la truppa con “Unità che la Spagna mantiene per la sua difesa, il cui mestiere è quello di combattere e di morire nell’adempimento del suo dovere”, che, tradotto in parole semplici, significa: assassini di mestiere.

Malgrado l’intervento del generale Franco, della Legione Straniera, dei marocchini, l’esercito fu costretto, per avere ragione della rivolta, a concludere con i rivoltosi un armistizio in piena regola.

Belarmino Tomàs, che aveva guidato la rivolta, si rivolse ai minatori in questi termini:

     «Compagni, soldati rossi! Qui, dinanzi a voi, sicuri di aver assolto al mandato che ci avete dato, veniamo a parlarvi della triste situazione in cui si trova oggi il nostro glorioso movimento insurrezionale. Dobbiamo rendervi conto dei colloqui che abbiamo avuto in merito alla resa con il generale dell’esercito nemico. Siamo stati sconfitti solo provvisoriamente. Tutto quello che possiamo dire è che nelle altre province della Spagna i lavoratori non hanno fatto il loro dovere, che era quello di appoggiarci. Per questo il governo ha potuto domare l’insurrezione delle Asturie. Inoltre, benché abbiamo fucili, mitragliatrici e cannoni, non abbiamo più munizioni. Tutto ciò che possiamo fare è perciò concludere la pace. Ma ciò non significa che noi abbandoneremo la lotta di classe. La nostra resa odierna è soltanto una sosta nel nostro cammino, una sosta in cui ripareremo agli errori che abbiamo compiuto, preparandoci alle prossime battaglie che dovranno terminare con la vittoria finale degli oppressi».

Una delle clausole dell’armistizio era che il governo avrebbe dovuto ritirare dalle Asturie la Legione Straniera ed i “regulares” marocchini. Ma, non appena fu rotto il fronte proletario, fu proprio a questi due corpi di assassini che fu dato il compito di “normalizzare” la regione. I legionari, che portavano spillata in petto l’immagine del Sacro Cuore di Gesù ed alla cintura le teste mozzate dei minatori, si abbandonarono ai più spietati bagni di sangue. (Il giornalista Luis Sirval, al quale fu trovato materiale che provava i delitti dell’esercito, fu arrestato ed assassinato in prigione). Alle decine e decine di fucilazioni “legali” seguirono massacri di massa; i comunicati degli stessi massacratori annunciavano trionfalmente cifre di oltre tremila vittime.

Intanto a Madrid il generale Franco veniva celebrato come il salvatore della patria.

Il grido di Belarmino Tomàs era il grido dell’intero proletariato delle Asturie: “Nelle altre province di Spagna i lavoratori non hanno fatto il loro dovere”!!!

Da parte loro i socialisti e l’ UGT avevano sconfessato l’insurrezione delle Asturie definendola una forma di lotta selvaggia e gli stessi anarchici avevano ordinato la ripresa del lavoro.

L’8 dicembre 1934, “Prometeo” scriveva:

     «Ciò (la sconfitta proletaria - ndr) è necessario ripeterlo a sazietà, è stato favorito grandemente dalla attitudine incomprensibile e ingiustificabile dei dirigenti dell’anarco-sindacalismo che, mentre nei luoghi di lotta la loro base partecipava eroicamente, si sono rifiutati di allargare il movimento nelle regioni da loro controllate permettendo così al governo di concentrare 30 mila uomini, dei più sicuri, contro le Asturie mentre a Barcellona, per reprimere eventuali movimenti restavano, oltre alla Guardia Civil e ai poliziotti, solamente 400 soldati».

Noi dobbiamo essere franchi ed affermare con la massima serietà che l’anarchismo, in Spagna, e lo vedremo ancora meglio, nel corso della guerra civile, al pari dello stalinismo, ed il fatto che poi ne fu vittima non lo riscatta, si è macchiato di vero e proprio tradimento. Gli anarco-sindacalisti (e qui non stiamo a fare le sottili distinzioni tra anarchici puri, anarco-sindacalisti, sindacalisti rivoluzionari, distinzioni che servono solo nel gioco di coprire le responsabilità) che avevano una influenza predominante sul proletariato spagnolo, che ai tempi della dittatura dei Primo de Rivera sciolsero il sindacato, che nel 1931 flirtarono con la repubblica borghese definendola “forma più avanzata della democrazia”, che si erano abbandonati al putschismo innalzato a sistema, dopo avere provocato almeno tre putsch suicidi, questi stessi anarchici abbandonarono il proletariato proprio quando si batteva sul terreno rivoluzionario, con il pretesto che si trattava “di una lotta per il potere tra marxisti e fascisti” e che quindi non li riguardava.

Per tutto il 1935 si ebbe una pausa delle tensioni sociali; ma ciò non impedì ai governi di destra di esercitare una forte repressione legale. Al momento delle elezioni politiche del 1936 nelle carceri di Spagna erano rinchiusi oltre 30 mila prigionieri politici.

Nel 1936, in connessione con l’atmosfera internazionale che conoscerà i grandiosi movimenti proletari di Francia e di Belgio, si riaprì in Spagna un periodo di tensione sociale ancora più alta di quella del 1931/33 e, di conseguenza, la borghesia spagnola richiamerà al potere i suoi servi di sinistra, riuniti sotto l’etichetta del Frente Popular. La campagna elettorale del febbraio 1936 era stata condotta per il Fronte Nazionale (coalizione di destra) dal monarchico Calvo Sotelo, già ministro delle finanze sotto la dittatura di Primo de Rivera. Il Fronte Popolare, al contrario, fu diretto dal socialista Largo Caballero che, sotto la dittatura di Primo de Rivera, era stato consigliere di Stato.

I risultati delle elezioni permisero al Fronte Popolare di schierare alle Cortes 267 deputati contro i 132 del Fronte Nazionale ed i 32 del Centro. Ma l’enorme disparità del numero dei rappresentanti eletti falsifica, e di molto, l’orientamento espresso dai votanti. In quanto a numero di voti il Fronte Popolare superò di ben poco il Fronte Nazionale. Se il Centro si fosse alleato alla Destra, il Fronte Popolare sarebbe stato sconfitto. La grande disparità dei seggi ottenuti risultava dal premio di maggioranza concesso dalla legge elettorale alla coalizione vincente. Ma il fatto più significativo è un altro: nel 1933 la Destra aveva ottenuto 3.385.000 voti, nel 1936 ne ottenne 3.997.000 con un aumento di ben 600 mila voti. In più gli autonomisti baschi, che nel 1936 erano entrati a far parte del Fronte Popolare, nel ’33 avevano votato per la Destra. È un dato di fatto quindi che nel 1936 l’elettorato spagnolo, ancor più che nel ’33, si era orientato in senso reazionario, e che la sconfitta della Destra non fu affatto tale, in barba al numero dei culi frontepopolaristi che andarono ad occupare le Cortes. Se il Fronte Popolare, nella competizione elettorale, risultò vittorioso fu perché circa un milione e mezzo di anarchici andarono a votare. Un anarchico, Angel Pestana, fu perfino eletto alla Cortes.

In questo clima sociale arroventato gli anarchici non mancarono di allinearsi alle esigenze della nuova situazione. Gli anarchici della FAI e della CNT, che si erano tenuti fuori dalla rivolta delle Asturie perché era un fatto che non li riguardava, nel 1936 si astennero dal lanciare il loro abituale ordine “NO VOTAD”! La CNT riaffermava, a parole, la propria apoliticità, ma lasciò dapprima i propri iscritti liberi di votare, poi, due giorni prima delle elezioni, a Barcellona, fece apertamente propaganda a favore delle liste del Frente Popular. Giustificarono questo atteggiamento con la motivazione che il Fronte Popolare, nel suo programma aveva inserito l’amnistia per tutti i prigionieri politici. Il programma del Fronte Popolare prevedeva, inoltre, la riassunzione di tutti i licenziati per motivi politici, l’abrogazione delle leggi repressive, la diminuzione delle imposte, una politica di crediti agrari per i contadini.

Poiché non era possibile stabilire a quale partito appartenessero i voti caduti all’interno del calderone si sinistra, il numero dei rappresentanti alle Cortes non dipese dai voti, ma dagli accordi politici precedentemente presi. Il Partito Socialista ebbe 90 rappresentanti, 38 l’Esquerra Catalana di Companys; 37 l’Unione Repubblicana di Martinez Barrio; 16 il Partito Comunista Spagnolo; 1 il Partito Sindacalista; 1 il POUM (risultato quest’ultimo dalla fusione del vecchio blocco “operaio e contadino” di Barcellona diretto da Maurin, che nell’Internazionale aveva sempre occupato una posizione di destra, e dalla tendenza trotskista diretta da Andrea Nin).

Il 23 febbraio “Prometeo” commentava la vittoria del Fronte Popolare:

     «Sotto la portata inaspettata di questo successo il governo ha promesso, e in parte sta già attuando, la liberazione dei prigionieri politici: le camere del lavoro riaprono con o senza l’autorizzazione governativa, alcuni degli elementi più responsabili dei passati regimi di reazione quali l’ex ministro degli interni dell’ottobre 1934, il governatore delle Asturie e il banchiere finanziario della destra hanno pensato bene per tutte le evenienze di passare la frontiera (...) Che sia commedia, anzi tragedia perché ci sono di mezzo i mucchi di cadaveri proletari culminati nella ecatombe dell’ottobre ’34, basta tener presente che sono gli stessi partiti e gli stessi uomini da Azaña a Largo Caballero che si apprestano a riassumere il potere in Ispagna. Non furono essi forse che sotto il nome di Alleanza Repubblicana-Socialista dal 1931 al 1933 permisero ai partiti della controrivoluzione di riorganizzarsi e di consolidarsi, schiacciarono qualsiasi tentativo del movimento proletario: spianarono il terreno alla riscossa clerico-fascista e ai bagni di sangue delle Asturie? Il fatto che oggi, nel 1936, dopo questa esperienza conclusiva della funzione della democrazia nel gioco della conservazione del regime di sfruttamento di classe, si sia potuto, nuovamente, come nel 1931-34, spingere le masse spagnole a schierarsi sul piano anticlassista della lotta per la difesa della repubblica, contro le forze della monarchia, del clerico-fascismo, della reazione, dimostra quanto sia profondo anche nel settore spagnolo lo sbandamento e il disorientamento di un proletariato che pure ci ha dato recentemente così fulgidi esempi di eroismo e di sacrificio».

Riferendosi poi agli anarchici, “Prometeo” concludeva: «L’aver trascinato gli operai spagnoli sul terreno del binomio democrazia-fascismo significa aver assassinato per la seconda volta gli eroici combattenti di Oviedo, Gijòn, Langreo, Mieres».

Dopo le elezioni si formò il governo Azaña con soli rappresentanti delle sinistre.

Il Partito Socialista, guidato da Largo Caballero, al quale fu affibbiato il sopranome di “Lenin spagnolo”, improvvisamente scoprì che il governo del Fronte Popolare era un governo borghese che niente aveva a che fare con il socialismo. Quindi, il Partito Socialista, che lottava (non ridete!) per la dittatura del proletariato, non avrebbe fatto parte di questo governo; lo avrebbe solamente appoggiato dall’esterno. In ogni suo discorso Largo Caballero ripeteva il solito ritornello: «La rivoluzione che vogliamo può essere portata a compimento solo con la violenza. Per realizzare il socialismo in Spagna occorre trionfare sulla classe capitalista e andare noi al potere».

Il Partito Socialista, tentando di rifarsi una verginità politica rivoluzionaria, mirava a riacquistare credito tra le masse proletarie e deviare la loro lotta dagli obiettivi di classe. Dall’altro lato il governo di sinistra, costituito esclusivamente da partiti di tradizione borghese, avrebbe potuto rendersi maggiormente accetto al capitalismo spagnolo ormai schierato apertamente su posizioni di tipo fasciste. Ma, mentre la tensione sociale si aggravava di ora in ora, la borghesia non poteva limitarsi a delegare la difesa dei suoi interessi alla sola sinistra, e già nell’aprile, in occasione dell’anniversario della repubblica, i partiti di destra organizzarono una contro-manifestazione che venne qualificata come “rivolta”.

Il presidente Azaña si affrettò a dichiarare alle Cortes che «il governo ha preso serie misure, ha allontanato o trasferito i fascisti che si trovavano nell’amministrazione. La destra è presa dal panico e non oserà più rialzare la testa».

Il 4 aprile Azaña aveva concesso una intervista al giornalista americano Louis Fischer; alla domanda «perché non epurate l’esercito?» Azaña aveva risposto: «E perché mai?». «Perché qualche settimana fa c’erano i carri armati per le strade, e lei rimase al Ministero degli Interni fino alle 2 del mattino?». «Chiacchiere da caffè», disse Azaña. «Ma io le ho sentite dire alle Cortes», replicò l’intervistatore. «Ah, quello si che è un gran caffè», fece il capo del governo ed aggiunse: «L’unico spagnolo che ha sempre ragione è Azaña. Se tutti gli spagnoli fossero azanisti, tutto andrebbe bene».

Il governo si rifiutava di epurare l’esercito che, alla luce del sole, si predisponeva alla rivolta, ma non cessava neppure per un istante la sua funzione di boia della classe lavoratrice. Neanche 15 giorni prima, nel paese di Yeste, la Guardia Civil aveva sparato sui contadini che avevano occupato le terre facendo 23 morti e più di 100 feriti. Frattanto nelle campagne i pistoleros assoldati dagli agrari spargevano terrore e morte fra i contadini, mentre nelle città la Falange compiva attentati contro i proletari, borghesi di sinistra, bruciava chiese per aumentare l’odio contro gli anarchici, ecc... La Falange si comportava esattamente come le squadre fasciste in Italia ed in Germania.

Nel luglio, il tenente Castillo, aderente al Fronte Popolare, venne assassinato; per rappresaglia, il dirigente monarchico Calvo Sotelo fu, a sua volta, ucciso.

Il 17-18 luglio l’esercito di stanza in Marocco insorge, il generale Franco dal suo “esilio” alle Canarie, lancia il proclama della rivolta: «L’esercito ha deciso di ristabilire l’ordine in Spagna (...) Il generale Franco è stato posto a capo del movimento ed egli si appella al sentimento repubblicano di tutti gli spagnoli».

Franco, immediatamente dopo, parte alla volta dell’Africa con un aereo pilotato da un inglese ed atterra nel Marocco francese. Da lì passerà poi nel territorio spagnolo per mettersi a capo dei rivoltosi.

La rivolta militare era stata minuziosamente organizzata all’interno dell’apparato statale completamente controllato dal Fronte Popolare. I preparativi della rivolta, è fatto accertato, erano a conoscenza dei vari ministri anche se Azaña continuava ad affermare che “ogni pericolo fascista era escluso”. Possiamo inoltre affermare che le misure “antifasciste” prese dal governo facilitarono tutta l’operazione dei militari.

L’“esilio” di Franco alle Canarie servì solo a metterlo in contatto diretto con le truppe del Marocco. La nomina del generale Mola in Navarra servì a piazzare il comandante ribelle proprio nel centro di uno dei più attivi focolai di rivolta. In più il governo denunciava il “desiderio criminale ed ostinato di boicottare l’esercito” da parte della stampa di estrema sinistra. Perfino dopo la proclamazione della rivolta militare il governo assunse un atteggiamento estremamente conciliante nel tentativo di trovare una soluzione pacifica.

Se l’accordo tra l’anima fascista e quella di sinistra della borghesia spagnola non poté essere trovato, ciò dipese esclusivamente dalle immediate reazioni del proletariato.

     «Il primo giorno degli avvenimenti attuali il capitalismo spagnolo pensava di poter fare una miscela fra il governo del Fronte Popolare e i generali per passare poi ad una riorganizzazione più crudele del suo dominio. Se esso non vi è riuscito è unicamente perché le situazioni hanno rivelato una decisione estrema di lotta delle masse, una impossibilità di fare pacificamente questa conversione. Allora il capitalismo ha sentito che bisognava cambiare tattica, occorreva incaricare le sue due forze di un ruolo che è apparentemente opposto ma che sostanzialmente, realmente, è analogo ed ha per obiettivo lo strangolamento delle masse» (“Prometeo”, 29 agosto 1936).

In risposta all’attacco di Franco, il 19 luglio si scatenò lo sciopero generale che ebbe un enorme successo nelle Asturie, a Valenza, a Madrid, e soprattutto a Barcellona. Lo sciopero rappresentò una fulminea esplosione della coscienza di classe del proletariato spagnolo. Solo in quei pochi giorni si assisté, non ad una lotta armata tra due eserciti borghesi, ma ad una insurrezione di classe, alla fraternizzazione degli scioperanti con i proletari in divisa, i quali, facendo causa comune con i lavoratori in lotta, distribuirono loro le armi, si aggregarono alla insurrezione di classe, disarmarono ed eliminarono anche fisicamente i corpo direttivo dell’esercito stesso.

Il governo ufficiale si rifugiava nelle cantine, la Guardia Civil si nascondeva, il proletariato rimase il solo padrone della piazza e cominciò un vasto programma di espropriazione tendenti a fare passare la produzione sotto il suo controllo, così come il commercio ed i trasporti. Il proletariato, però, tutto teso alla realizzazione di questo piano di espropriazione, trascurò purtroppo la cosa principale: il potere, la dittatura di classe. Durante quei giorni insurrezionali lo Stato borghese non fu distrutto, fu soltanto messo in aspettativa. Ancora una volta la voce della nostra Frazione fu l’unica ad indicare con chiarezza che ogni conquista proletaria è vana se si è privi del potere:

     «È un artificio grossolano e criminale di basarsi sulle conquiste ottenute dal proletariato a Barcellona ed in altri centri per credere che sia possibile procedere nella via della rivoluzione senza rompere brutalmente con tutta l’impostazione stessa della lotta. Il fiore della rivoluzione proletaria non può essere fecondato nel pantano della controrivoluzione capitalista. Il problema fondamentale è quello della tendenza da imprimere alle situazioni ed alle lotte, qui nessuno, assolutamente nessun compromesso è possibile. Nel vortice delle forze che conducono alla guerra, il proletariato si castra di già, diviene preda del nemico dal primo giorno in cui si lascia accalappiare dalla manovra borghese e le conquiste che egli crede ottenere qua e là rappresentano in realtà la forma estrema del piano economico, la estrema maglia della sua dominazione, una concessione formale in un istante contro un’abdicazione totale del proletariato su problemi fondamentali della sua classe, in Ispagna e negli altri paesi (...)
     «Il governo del Fronte Popolare non è sospeso in aria, esso è il governo del capitalismo, esso lo è perché difende questa società, perché combatte contro la rivoluzione proletaria. Ed esso non è assente dalla situazione anche quando, come a Barcellona, sembra che non esista. Se si eclissa, esso lo fa perché così unicamente è possibile impedire l’attacco proletario alla macchina dell’oppressione capitalista. E questa continua a funzionare anche se sono degli anarchici che dirigono la vita economica e politica, anche se vi fossero dei comunisti a questo posto. Anarchici e comunisti non opererebbero che sul terreno giuridico e provvisorio, mentre dal punto di vista sociale essi agirebbero non nella direzione proletaria ma in quella opposta capitalista, giacché invece di chiamare gli operai a distruggere la macchina statale dell’oppressione li chiamerebbero a sostenerla per impedire la vittoria di Franco» (“Prometeo”, 29 agosto 1936).

Queste argomentazioni che, per noi della Sinistra Comunista, sono di una chiarezza estrema, risultarono invece incomprensibili per tutti gli altri partiti cosiddetti proletari. Anarchici e trotskisti, che in quei giorni dirigevano gli operai, dimenticarono, o meglio, si rifiutarono, di prendere il potere. I primi, avversari feroci di ogni tipo di Stato, lasciarono in piedi quello esistente; i secondi seguirono la linea che già era stata fatale alla Terza Internazionale: quella di sostituire alla dittatura proletaria il governo operaio e contadino.

La sera del 20 luglio a Barcellona la rivolta militare era stata completamente sopraffatta, il proletariato era padrone incontrastato della città. I capi anarchici, guidati da Garcia Oliver e Durruti, con le armi in mano, si presentarono a Companys che nei giorni precedenti si era rifiutato di distribuire le armi alla popolazione.

     «Innanzi tutto – dichiarò Companys ai suoi interlocutori anarchici – debbo dirvi che la CNT e la FAI non sono mai state trattate come per la loro importanza avrebbero dovuto. Siete sempre stati duramente perseguitati, ed io, con grande dolore, ma stretto dalla situazione politica (...) mi son trovato a dovervi osteggiare. Oggi voi siete i padroni della città e della Catalogna, perché soltanto voi avete vinto i militari fascisti (...) Avete vinto e tutto è nelle vostre mani. Se non avete bisogno di me, o se non mi volete come Presidente della Catalogna, ditemelo subito ed io, come semplice soldato, mi unirò agli altri nella lotta contro il fascismo. Se invece credete che continuando ad occupare questa carica – carica che solo da morto avrei lasciato se il fascismo avesse trionfato – io possa con il mio nome e con il mio prestigio essere utile a questa lotta (...) Contate pure su di me e sulla mia lealtà di uomo e di uomo politico: un uomo che è convinto che oggi muore tutto un passato di vergogna e che sinceramente desidera che la Catalogna entri nel novero dei paesi più progrediti».

Per tutta risposta gli anarchici costrinsero, armi alla mano, il borghese Companys a... rimanere a capo del governo.

Immediatamente lo Stato democratico ed antifascista riprese in mano la situazione.

Alla fine di luglio CNT e POUM diedero l’ordine di sospendere lo sciopero generale. In accordo con gli anarchici, Companys dichiarava che «la macchina statale non deve essere toccata perché può essere di una certa utilità per la classe operaia».

Furono creati due organismi destinati a garantire il controllo statale: in campo militare il Comitato Centrale delle Milizie e in campo economico il Consiglio Centrale dell’Economia. Il C.C. della Milizia comprendeva 3 delegati della CNT, 2 della FAI, 1 della sinistra repubblicana, 2 socialisti, 1 dei "Rabasseros" (piccoli affittuari controllati dalla Sinistra Catalana), 1 della coalizione dei partiti repubblicani, 1 del POUM, 4 rappresentati della Generalidad di Barcellona.

Le milizie operaie e gli altri organismi nati spontaneamente dalla insurrezione furono spogliati di ogni prerogativa rivoluzionaria per diventare delle semplici appendici dello Stato borghese. Gli anarchici giustificarono tutto ciò dicendo che «per il bene del proletariato, per l’avvenire della classe operaia, non è possibile che persista la dualità dei poteri».

A Madrid il potere dello Stato fu ristabilito attraverso gli "uffici di arruolamento" controllati dal governo.

La rivoluzione spagnola era finita, la guerra di Spagna stava per cominciare.

Fin dal principio del pronunciamento militare Saragozza era caduta nelle mani di Franco e la prossimità di questo centro militare permise a Barcellona di presentare la necessità della vittoria contro il fascismo come il supremo imperativo dell’ora, imperativo a cui tutto doveva essere subordinato.

Scrivemmo in “Il Programma Comunista”, n. 13, 1965:

     «Nella formulazione di Lenin, guerra fra Stati moderni significa guerra imperialista di concorrenza diretta contro tutti i proletariati, mentre guerra civile è guerra di classe del proletariato internazionale contro tutte le borghesie. La complessità della guerra di Spagna deriva dal fatto che essa partecipa di due aspetti. Guerra civile perché il proletariato vi intervenne violentemente, sconquassando le istituzioni dello Stato borghese. Ma anche guerra capitalista, perché questo assalto rivoluzionario fu deviato in una lotta condotta sotto la bandiera ideologica della futura guerra imperialistica e secondo le regole di disciplina sociale atte a stabilire e a rafforzare l’autorità dello Stato borghese. Proprio perché, in Spagna, la rivoluzione fu immediatamente battuta dalla controrivoluzione, proprio perché due governi egualmente borghesi – il repubblicano e il franchista – aspiravano alla direzione dello stesso Stato di classe, proprio perciò il proletariato spagnolo fu tratto in inganno sulla natura della propria lotta, e, in base a questo precedente, si poterono convincere tutti i proletari del mondo che, all’interno dello stesso modo di produzione, degli Stati sfruttatori ed oppressori potessero battersi per la "Libertà" contro altri che la negavano.
     «Alla base di ogni lotta armata v’è il conflitto di interessi materiali. Quelli della reazione fascista di Franco erano fin troppo evidenti; quelli degli operai che gli risposero con l’insurrezione non erano certo più misteriosi. Il conflitto iniziale era un conflitto tra capitalismo e proletariato. Solo stornando l’insurrezione operaia dai suoi obiettivi primitivi, si poteva trasformarla in un conflitto tra "l’ideale democratico" e la "barbarie fascista". La risposta operaia all’offensiva franchista prorompe in un momento in cui la guerra internazionale, sola soluzione capitalistica alla crisi capitalista, è a due passi. Le principali condizioni per il suo scoppio sono ormai riunite, dal momento che la sola classe che poteva ostacolarla, il proletariato, è battuto ed il suo partito internazionale, diventato semplice appendice degli interessi nazionali russi, ne accetta l’eventualità.
     «L’insurrezione che scoppia a Barcellona alla notizia dello sbarco di Franco, sembra rovesciare la situazione: la borghesia ha ragione di temere che, seguendo l’esempio degli operai spagnoli, i proletari d’Europa si riprendano, e ricostituiscano il loro fronte di classe. Quindi è per lei una necessità vitale che, ad ogni costo, la lotta armata contro Franco cessi di essere una rivoluzione. Nell’imbroglio spagnolo gli interessi immediati delle grandi potenze si contraddicono, ma l’interesse del capitalismo in generale è ben chiaro: inquadrare gli insorti di Barcellona in un esercito regolare agli ordini di un governo borghese.
     «Per raggiungere questo risultato è necessaria una ideologia che non sia una ideologia rivoluzionaria; sono necessari dei partiti operai che non combattano, o non combattano più, il capitalismo. Questa ideologia è l’antifascismo, questi partiti sono i partiti delle due Internazionali degeneri; il Frente Popular ne sarà la ragione sociale. E, poiché il pericolo per il capitalismo è grande, poiché la classe operaia spagnola è risoluta ed eroica, la manovra è spietata, la lotta è terribile su tutti i fronti: sul fronte militare, dove mercenari di Franco, muniti di un armamento ultra-moderno, sterminano senza quartiere i miliziani armati di vecchi fucili, giungendo fino a massacrare i prigionieri; sul piano politico in cui le "forze dell’ordine" del campo repubblicano non indietreggiano di fronte all’assassinio per eliminare i dirigenti rivoluzionari».

Il Partito Comunista Spagnolo che prese parte in prima linea alla guerra antifascista non tollerava equivoci sulla funzione controrivoluzionaria in pieno accordo con Mosca dove, contemporaneamente, erano fucilati i presunti capi del “gruppo terroristico trotskista-zinovievista”. Questo l’infame comunicato trasmesso dalla capitale dell’ex Stato a dittatura proletaria: «L’Ufficio del C.E. dell’URSS ha respinto il ricorso di grazia dei condannati alla pena capitale dal collegio militare dell’Urss in data 24 agosto, nel processo contro il centro trotskista-zinovievista unificato. Il verdetto nei confronti dei 16 condannati è stato eseguito». “L’Humanitè”, il 28 agosto commentava: «Quando gli accusati approvarono la requisitoria di Viscinsky domandando di essere fucilati, non fecero che esprimere la loro convinzione di non potersi attendere più nessuna pietà. Essi ragionarono freddamente: noi volevamo assassinarvi, voi ci uccidete: è giusto. Questi 16 assassini sono rimasti dunque fino all’ultimo nemici accaniti del partito comunista, dello Stato del popolo sovietico, e la loro morte ha epurato l’atmosfera del paese del socialismo che appestavano con la loro presenza». Dal canto suo il procuratore Viscinsky aveva così concluso la sua requisitoria: «Chiedo che questi cani arrabbiati siano fucilati fino all’ultimo».

Furono questi stessi assassini dei comunisti russi che si misero all’avanguardia della “guerra antifascista” e scatenarono l’offensiva per rispondere all’intervento di Hitler e Mussolini in favore di Franco con un analogo intervento di altri Stati a favore del governo repubblicano.

Anche se può sembrare che stiamo andando un po’ fuori dell’argomento, non è male sbugiardare il presunto ruolo "antifascista" dell’Unione già Sovietica. Hitler prese il potere nel 1933, ma lo Stato russo, che inalberava ancora la bandiera di Lenin e dei bolscevichi, conservò nei suoi confronti la benevola diplomazia tenuta nei confronti della repubblica di Weimar. Mosca trovò perfino il suo tornaconto nella riorganizzazione politica e nella centralizzazione economica intrapresa dal Terzo Reich: il sistema nazista, controllando strettamente l’alta finanza, accelerò la sistemazione dei debiti contratti con la Russia dall’industria tedesca, il cui pagamento era rimasto fino ad allora in sospeso. Mentre i partiti comunisti di tutti i paesi strillavano contro il nazismo, la loro "casa madre" di Mosca continuava i buoni rapporti con i boia che fucilavano e decapitavano i comunisti tedeschi. La politica russa nei confronti della Germania cambiò solo nel 1935, e non per motivi ideologici e sociali, ma di pura e semplice convenienza diplomatica. Nel 1936 il ciclo di degenerazione del comunismo moscovita era compiuto; anche se gli restavano ancora molte infamie da consumare, prima e dopo il formale scioglimento della Terza Internazionale.

"Prometeo" il 29 agosto 1936 scriveva:

     «La funzione controrivoluzionaria della Russia sovietica e dei partiti comunisti che ne sono i vessilliferi, nella tragedia sociale spagnola diventa di giorno in giorno più evidente. L’Urss, fattasi paladina della pace borghese e della democrazia capitalista, aggiunge un altro crimine alla serie dei suoi attentati contro le masse operaie di tutti i paesi del mondo (...)
     «La Russia non ha interesse ad una vittoria del fascismo spagnolo ed essa combatte non con una posizione di classe, ma ponendosi dal punto di vista della conservazione della pace, dello status quo, dei rapporti di forza fra gli Stati (...)
     «Il non intervento negli affari spagnoli è una oscena finzione diplomatica, per salvare le apparenze. È noto che tutti gli Stati e non solamente la Germania e l’Italia vendono armi, munizioni e provviste di ogni sorta ai militari ribelli, non esclusa forse la Russia stessa che è già recidiva nella malleabilità del suo senso commerciale per avere fornito al fascismo italiano grano per l’esercito di occupazione in Abissinia. Il non intervento è realizzabile solo con l’azione diretta delle masse che, ponendosi in ogni paese contro la propria borghesia, trasformerebbero questa situazione ipocrita ed ermafrodita, cara al governo di Mosca e di Parigi, in un intervento di classe attivo, energico e conseguente contro Blum e contro Azaña e a favore delle masse che si battono in Ispagna.
     «La Russia, senza dubbio, teme una vittoria del fascismo, ma teme molto di più una successiva lotta del proletariato spagnolo contro il suo governo democratico, lotta che se trionfasse riporterebbe in modo più acuto e ineluttabile il problema dell’intervento internazionale armato, cioè la guerra, per schiacciare la vittima proletaria (...) E quel giorno sarà facile vedere gli operai francesi, suggestionati dai comunisti, opporsi agli operai spagnoli, che sarebbero considerati come dei “provocatori” della guerra (...) La borghesia spagnola può contare su un alleato che non farà difetto: lo Stato sovietico col corteo dei suoi servitori della Terza Internazionale.
     «Per avvalorare queste considerazioni generali esaminiamo un po’ da vicino la posizione presa sugli avvenimenti in corso dal Partito Comunista Francese (...) Un editoriale firmato da Duclos, segretario del gruppo parlamentare, batte la grancassa del rischio di accerchiamento della Francia e reclama una politica francese in questa questione. “La Francia è minacciata d’accerchiamento – egli scrive – ed è per questo che non sapremo insistere abbastanza sul danno che si avrebbe a lasciare sviluppare una situazione che ci porterebbe fatalmente alla guerra”. Per l’“interesse superiore del paese” auspica la “vittoria della repubblica” onde “portare un colpo ai cercatori d’avventure del fascismo”. Nel suo furore sciovinista il cittadino Duclos omette perfino di menzionare, almeno una volta, tanto per gettare un po’ di fumo negli occhi, gli interessi delle masse. Perfino la parola “operai” non si trova nell’articolo nemmeno una volta (...)
     «Ma la posizione controrivoluzionaria del Partito Comunista risulta in modo inequivocabile dal rapporto presentato da Thorez, segretario del Partito “Comunista”, il 6 agosto ad una assemblea di militanti parigini. Dice: “Il Fronte Popolare non è una rivoluzione. Noi abbiamo scartato dal suo programma ogni misura di socializzazione, vogliamo camminare con calma e tranquillità, senza avventure. L’unità del FP innanzi tutto. La lotta del popolo spagnolo è la lotta dell’ordine contro il disordine, cioè del governo regolare della Repubblica contro i ribelli. C’è chi parla di tentativo di instaurare dei soviet. È una calunnia affermare che laggiù si lotti per il comunismo, per la dittatura del proletariato. No, si tratta della difesa della Repubblica, della costituzione repubblicana”.
     «Dopo una leccatina al suffragio universale, al parlamento, ai sapienti, intellettuali, accademici, ai comunisti, ai socialisti, ai liberali catalani, ai cattolici tradizionalisti baschi, non manca l’elogio dell’eroismo dei fratelli di Spagna, per entrare infine nel vivo della questione. “Tutti i giorni qualche panzana parla di nazionalizzazione. In Ispagna non si è nazionalizzato, né confiscato. La Repubblica rispetta la proprietà, anche la proprietà capitalista”. Non si poteva dire di più! di meglio e con più chiarezza. Gli operai che combattono in Ispagna, quelli che li seguono con ansia fraterna in tutto il mondo. (...) possono meditare queste parole».

Non si creda che il Partito Comunista Spagnolo tenesse posizioni diverse. Fin dall’inizio il PCE formulò un programma di estremo gradimento per la piccola borghesia terrorizzata dagli eccessi rivoluzionari:

     «Noi non possiamo oggi parlare di rivoluzione proletaria in Spagna, perché le condizioni storiche non lo consentono. Noi vogliamo difendere la piccola e media industria che soffre non meno dell’operaio. Noi desideriamo lottare solo per una repubblica democratica con un contenuto sociale esteso. Non può essere questione, oggi, né di dittatura del proletariato, né di socialismo, ma soltanto di lotta della democrazia contro il fascismo» (Dichiarazione ufficiale dell’8 agosto 1936 del segretario del PCF, Josè Diaz).

L’atteggiamento di stalinisti e anarchici fu salutato con gioia dalla borghesia che, per bocca del repubblicano Azaña, affermava:

     «Come contraccolpo alla ribellione militare si produsse un sollevamento proletario che non si diresse contro il governo (...) Una rivoluzione deve impadronirsi del comando, installarsi al governo, dirigere il paese secondo le sue vedute. Ora essi non l’hanno fatto; l’ordine antico poteva essere sostituito da un altro: rivoluzionario. Non lo è stato. Non v’era che impotenza e disordine».

E noi possiamo affermare con tutta tranquillità che anarchici, stalinisti e POUM furono i becchini della rivoluzione spagnola. Il Fronte Popolare fu insieme la preparazione intensa degli operai alla ideologia di guerra, la resurrezione del patriottismo e perfino dello sciovinismo, la distruzione di tutti gli sforzi compiuti da Lenin per strappare il proletariato all’influenza capitalista.

Nella Spagna del 1936 all’offensiva totalitaria della borghesia si ebbe, in risposta, l’offensiva armata del proletariato. Di conseguenza il significato sociale dell’antifascismo fu l’annullamento delle espropriazioni realizzate dalla insurrezione proletaria, la restaurazione della polizia e della autorità dello Stato borghese in nome della disciplina militare, l’assassinio dei rivoluzionari sotto il pretesto della lotta contro “la quinta colonna” e della “unità contro Franco”. Se Franco trionfò, ciò è dovuto a questa opera di scalzamento dell’operato rivoluzionario. Il Fronte Popolare privò gli operai in lotta della sola forza contro cui i carri armati, gli aeroplani ed i mercenari sarebbero risultati impotenti, e cioè la convinzione rivoluzionaria e la volontà dittatoriale del proletariato. Con la complicità di stalinisti ed anarchici, attraverso il Fronte Popolare la lotta di classe fu trasformata in guerra fra due forme della stessa dominazione capitalista: la democratica e la fascista. In Spagna il capitalismo internazionale, quello fascista, quello democratico e quello sovietico, si strinsero in una Santa Alleanza per impedire che la lotta armata dei proletari superasse i quadri borghesi della competizione democrazia-fascismo, per impedire che divenisse un segnale di battaglia per gli sfruttati degli altri Paesi.

Nel pieno degli avvenimenti spagnoli, quando non era ancora terminato lo sciopero generale, e, dall’altra parte si sviluppavano gli scioperi in Francia, il capo del governo del Fronte Popolare francese, Blum, considerato che l’apertura della frontiera dei Pirenei avrebbe potuto stabilire un pericoloso contatto con gli scioperanti dei due paesi, decise di chiuderla.

Nell’agosto del 1936 fu lo stesso Blum a prendere l’iniziativa della costituzione del Comitato di non Intervento in Spagna, con sede a Londra, con rappresentati tutti gli Stati, fascisti e democratici, non esclusa l’Urss. Il ruolo di questo Comitato fu di evitare complicazioni internazionali, mentre ogni “Alta Parte Contraente” speculava sui cadaveri dei proletari caduti in Spagna in vista del successo della controrivoluzione mondiale. In Russia per massacrare gli artefici della Rivoluzione di Ottobre, negli Stati fascisti per preparare il clima della guerra mondiale, in Francia per dirottare il movimento operaio dai suoi obiettivi di classe.

La campagna militare della guerra di Spagna conobbe alterne vicende. Ma, sia le vittorie sia le sconfitte dell’antifascismo vennero utilizzate per realizzare la progressiva eliminazione di ogni iniziativa di classe e per la restaurazione del potere statale. Le sconfitte perché presentate come il frutto della mancanza di una stretta disciplina militare attorno al centro dirigente; le vittorie perché presentate come conferma dell’utilità di questa centralizzazione attorno allo Stato Maggiore Militare.

Gli anarchici abbandonarono, brandello dopo brandello, tutto il loro programma rivoluzionario. Immediatamente dopo lo sciopero di luglio, ai primi tentativi di sottomettere le milizie operaie al controllo della Generalidad, risposero: “militi si, soldati no”, ma abbandonarono ben presto questo slogan di fronte alla necessità di liberare Saragozza dai fascisti. Giunsero perfino a partecipare, attraverso i loro rappresentanti divenuti ministri, al governo Caballero ed a quello di Catalogna, assieme al POUM.

Come abbiamo detto, nel periodo che va dalla liquidazione dello sciopero generale del luglio 1936 fino al maggio 1937, mentre il governo madrileno può permettersi di mantenere perfino il vecchio apparato poliziesco della Guardia Civil, in Catalogna l’apparato classico della borghesia conosce una fase di “vacanza” nel corso della quale il controllo delle masse viene stabilito attraverso il Comitato Centrale della Milizia e il Consiglio dell’Economia. A questa fase di transizione succede l’altra di eliminazione di ogni elemento, anche periferico, che disturbi il regolare funzionamento dello Stato capitalista antifascista.

Il 4 settembre si costituì il governo di Largo Caballero, espressamente designato dal repubblicano Giral come il solo in grado di governare la Spagna in ebollizione. Ma il governo Caballero fu possibile solo, come abbiamo visto, grazie agli anarchici che si rifiutarono di prendere il potere, mentre non si vergognarono, poi, di entrare a far parte del governo borghese. Essi stessi si vantarono di avere rinunciato alla loro funzione rivoluzionaria:

     «Noi potevamo essere soli, imporre la nostra volontà assoluta, proclamare decaduta la Generalidad di Catalogna ed imporre al suo posto il vero potere del popolo; ma non credevamo alla dittatura quando si esercitava contro di noi e non la desideravamo quando potevamo esercitarla a nostra volta a spese degli altri. La Generalidad sarebbe restata al suo posto con alla testa Companys e le forze popolari si sarebbero organizzate in milizie per continuare la lotta per la liberazione della Spagna».

Rinunciato al potere proletario gli anarchici accettarono quello borghese.

     «L’entrata della CNT nel governo centrale – dichiararono gli anarchici – è uno dei fatti più importanti che la storia del nostro paese abbia registrato. La CNT è stata sempre per principio e convinzione antistatalista e nemica di ogni forma di governo. Ma le circostanze hanno cambiato la natura del governo e dello Stato spagnolo. Il governo ha cessato di essere una forza di oppressione contro la classe operaia, così come lo Stato non è più l’organismo che divide la società in classi. Tutti e due cesseranno, a maggior ragione, di opprimere il popolo con l’intervento della CNT nei loro organismi».

 In altra occasione giustificheranno il loro tradimento in questi termini:

     «La borghesia internazionale rifiutava di fornirci le armi. Dovevamo dare l’impressione che i nostri padroni erano non i comitati rivoluzionari, ma il governo legale: altrimenti non avremmo avuto nulla di tutto. Abbiamo dovuto piegarci alle circostanze inesorabili del momento, cioè accettare la collaborazione governativa».

Nell’ottobre 1936 Caballero decretò la mobilitazione delle milizie e la CNT quella degli operai. Nella sua deliberazione del 14 ottobre la CNT prescriveva infatti che non sarebbe stato più possibile al proletariato esigere il rispetto delle condizioni di lavoro, né per quanto riguardava i salari, né per l’orario di lavoro in tutte le aziende collegate, direttamente o indirettamente, alla guerra antifascista. Il che equivaleva a dire, in tutte le imprese industriali.

Il POUM, al pari degli anarchici, non mancò di fare strame di ogni suo principio rivoluzionario, ma non per questo ebbe la fortuna di essere accettato a pieno titolo, come gli anarchici, alla Corte democratica. Innanzi tutto, malgrado le sue alte proteste, fu tenuto fuori dal governo di Largo Caballero. Riuscì ad entrare nel governo della Catalogna dove Nin divenne ministro della Giustizia, ma, malgrado questo, il suo organo di stampa, “La Batalla”, continuava ad essere vittima delle mutilazioni della censura. Ironia della sorte, adesso fra i censori vi erano degli... anarchici. Il POUM arrivò a lanciare un manifesto in cui salutava l’intervento della Unione Sovietica in Spagna come l’aiuto del proletariato di Russia e non come l’intervento di un imperialismo al pari di quello italiano e tedesco. Ma quando il governo di Barcellona organizzò il 4 novembre, una manifestazione in onore della rivoluzione russa, il POUM non fu invitato a parteciparvi.

Riportiamo ora da “La Batalla”, organo del POUM, due significativi ritagli:

     «Lo Stato, sempre più nelle mani della classe operaia, deve intervenire in questo problema (quello sindacale, ndr) che si aggrava ogni giorno. È necessario istituire una disciplina sindacale, una responsabilità sindacale che non dipenda esclusivamente dai rappresentanti dei sindacati, ma altresì dal governo. Imporre questa disciplina, coordinare e centralizzare le attività sindacali, equivale ad ottenere un maggior rendimento della produzione e pertanto condurre alla rivoluzione per un cammino sicuro e necessario» (8 dicembre 1936).
     «Siamo in guerra civile. È necessario mettere in azione tutte le molle per combattere il fascismo (...) La Prefettura di polizia è un centro ufficiale che veglia per la sicurezza del regime “evolutivo” che noi abbiamo imposto per la necessità di battere il fascismo» (10 dicembre 1936).

Militarizzazione della classe operaia, dunque, ed imposizione di regime, questa era la realtà, anche se per... combattere il fascismo. Cosa aveva di particolare il governo di Barcellona? In tutti i paesi del mondo il capitalismo trova sempre un pretesto per imporre alle masse la disciplina del suo regime “evolutivo”!

Il 15 novembre 1938, la “Pasionaria” salutò, a Barcellona, l’ultimo contingente della Brigate Internazionali mentre si apprestavano a lasciare la Spagna. Si rivolse dapprima alle donne di Barcellona:

     «Madri, donne! Quando con il passare degli anni le ferite della guerra si saranno cicatrizzate; quando il fosco ricordo dei giorni dolorosi e sanguinosi si sarà convertito in un presente di libertà, di amore e di benessere, allora parlate ai vostri figli. Raccontate loro delle Brigate Internazionali. Raccontate loro come attraversando monti e mari, valicando frontiere irte di baionette e sorvegliate da cani rabbiosi, bramosi di dilaniare le loro carni, questi uomini vennero nel nostro paese, crociati della libertà. Abbandonarono ogni cosa, le loro case, e i loro beni, padri, madri, fratelli, sorelle e figli e vennero da noi e ci dissero: “eccoci, la vostra causa, la causa della Spagna, è la nostra, è la causa di tutta l’umanità civile e progressiva”. Oggi essi se ne vanno. Molti di loro, migliaia, restano qui, con la terra spagnola come sudario, e tutti gli spagnoli li ricordano con la gratitudine più profonda».

Si rivolse poi agli uomini delle Brigate Internazionali:

     «Compagni delle Brigate Internazionali! Ragioni politiche, ragioni di Stato, l’interesse di quella stessa causa per la quale con infinita generosità avete offerto il vostro sangue, vi costringono a tornarvene alcuni nella vostra patria, altri in esilio forzato. Potete partire a testa alta. Voi siete la storia. Voi siete la leggenda, l’esempio eroico della solidarietà e della università della democrazia. Noi non vi dimenticheremo, e quando l’ulivo della pace germoglierà di nuovo, intrecciando le sue foglie a quelle dell’alloro della vittoria della Repubblica spagnola, tornate!».

Il cronista racconta che in quel momento nessuno riusciva a dominare la commozione e tutti avevano il volto rigato dalle lacrime. È certamente vero, perché comunisti di tutti i paesi erano entusiasticamente accorsi in Spagna con spirito di solidarietà rivoluzionaria per combattere, a fianco del proletariato spagnolo, la guerra di classe per la rivoluzione socialista, per la dittatura del proletariato. Ma il 15 novembre 1938 molte di quelle lacrime erano di amaro pianto per sentirsi dire crudelmente che essi avevano combattuto, e molti di loro erano morti, non per la rivoluzione, non per la dittatura del proletariato, ma in favore di una frazione borghese in guerra contro un’altra frazione altrettanto borghese; che dovevano andarsene per ragioni di Stato borghesi e per ragioni politiche borghesi, le stesse ragioni per le quali, due anni prima, erano stati chiamati a prendere le armi.

Di fronte alla generale ubriacatura, che non risparmiò nessuno, anarchici, trotskisti, ecc., di fronte a questo sfacelo la Sinistra Comunista italiana fu l’unica organizzazione rivoluzionaria che denunciò immediatamente l’intervento del proletariato internazionale nella guerra di Spagna come un nuovo tradimento, pari a quello del 1914, che avrebbe aperto la strada all’inquadramento del proletariato negli eserciti nazionali per la futura guerra imperialista, che avrebbe contrapposto Stati a governo democratico contro quelli fascisti.

La sinistra italiana denunciò immediatamente la “tratta dei rossi” inviati sul fronte spagnolo a disorientare definitivamente il proletariato iberico e a legarlo ancor più saldamente al ceppo borghese. Scrivemmo su “Prometeo” del 23 agosto1936):

     «Noi non lottiamo per chiedere armi a Blum, in nome della difesa della democrazia minacciata dal fascismo. Ma abbiamo per compito di attenuare la pressione sanguinaria del capitalismo mondiale attorno alla Spagna. Per questo non vi sono che i mezzi di classe: scioperi di solidarietà contro la propria borghesia; scioperi rivendicativi che saranno tanti passi in avanti di appoggio fattivo alla lotta in Spagna. E ciascuno di questi passi varrà enormemente e di più delle vittorie militari ottenute dal Fronte Popolare con l’ausilio delle democrazie occidentali (...) Noi dobbiamo stornare l’attenzione degli operai dalla difesa dei colli di Guadarrama o di S. Sebastiano per spingerli alla lotta contro la propria borghesia, tanto che sia espressa dal Fronte Popolare che dal fascismo. Così solamente concorreremo ad impedire e lo schiacciamento degli operai spagnoli, e che gli avvenimenti odierni diventino segnale di una nuova guerra mondiale, perché avremo indicato al proletariato mondiale, la via della rivoluzione comunista in tutti i paesi».

Il Manifesto agli Operai Spagnoli lanciato dalla Frazione il 18 agosto 1936 dichiarava:

     «I complici repubblicani di Franco vi chiamano in Ispagna a cantare l’Internazionale al ritmo dell’inno repubblicano. Negli altri paesi mobilitano gli operai per incorporarli nel fronte popolare ed inviarli al macello di una nuova guerra. La mobilitazione solidale degli operai degli altri paesi attorno alle vostre lotte deve manifestarsi attraverso la lotta contro il capitalismo rispettivo. Quelli che invocano l’intervento governativo in favore del governo del Fronte Popolare sono i portavoce della guerra imperialista allo stesso titolo che i fascisti di tutti i Paesi».

L’argomentazione che lo scatenamento della lotta di classe nei territori “liberi” avrebbe solo fatto il gioco del fascismo, che avrebbe così trovato un nemico distolto dal fronte a causa della lotta intestina, non manca di logica; ma è una logica borghese che non potrà mai essere accettata dai marxisti. Tutta la tradizione del marxismo rivoluzionario, da Lenin alla Sinistra italiana, ha sempre fatto del disfattismo rivoluzionario la sua arma di vittoria. Disfattismo che porta alla rovina sia la borghesia indigena sia quella straniera.

Scriveva “Prometeo” del 20 settembre 1936:

     «Le bande bianche occupano questo o quel territorio, questa o quella regione, vincono dunque in determinati settori. Per sloggiarli non vi è che una via: continuare a Barcellona, Valenza, Madrid la lotta sulla stessa base perché solo dall’indebolimento e la successiva distruzione della borghesia di Valenza, Barcellona, Madrid, può risultare lo schiacciamento di quella di Siviglia, Cordova, Saragozza. Restare su questo fronte significa altresì sloggiare immediatamente Franco da Saragozza, affrontarlo sul solo terreno dove esso può essere sconfitto, e dove Goded fu battuto nelle piazze di Barcellona; i suoi soldati vedendo i loro fratelli di classe che combattono per le rivendicazioni comuni dirigeranno le armi non contro i veri “ribelli” della società capitalista, ma contro i loro nemici comuni».

La Frazione non esitò a tacciare anarchici e POUM di essere “pedine della manovra del capitalismo” per il fatto di voler anteporre la guerra antifascista alla lotta di classe. A questo proposito la Frazione ricordava come, anche in Russia, nel 1917, la borghesia avesse cercato di ingannare le masse facendo tutte le concessioni formali mentre essa si riservava il diritto di controllo esigendo che queste dovessero dipendere dagli zemstvos, cioè dalle municipalità che erano sotto il controllo della borghesia. I bolscevichi, al contrario, posero il problema delle milizie sul terreno di classe reclamando che queste dipendessero dai soviet, e solo dai soviet.

Mano a mano che lo svolgersi della guerra prendeva una piega favorevole a Franco il governo repubblicano spagnolo si dipingeva sempre più di rosso per poter mantenere il laccio attorno al collo della classe lavoratrice. In un primo momento bisognava dare agli operai l’impressione che marciando per il Fronte Popolare avrebbero marciato nella direzione del socialismo. Dopo le sconfitte delle Asturie la democrazia si spinse ancor più a “sinistra”, e, nel settembre venne costituito il governo Caballero dove entrarono anche gli anarchici. Si ebbe una nuova disfatta a Toledo ed immediatamente si formò, a Barcellona, un governo ancora più “rivoluzionario” con anarchici e POUM. Commentava “Prometeo” dell’11 ottobre 1936: «Era inevitabile che anarchici e POUM cadessero nel tranello giacché essi non si basano sulla politica marxista della lotta di classe. Era inevitabile che essi scavassero la tomba delle loro ideologie».

Ma quando i fiumi di sangue cominciarono ad aprire gli occhi ai lavoratori, la democrazia ricorse alla disciplina militare ed al ristabilimento della leva. Il ristabilimento della leva e l’inquadramento delle milizie nell’esercito repubblicano davano l’ultima prova, se ancora ce ne fosse stato bisogno, del carattere capitalista della guerra. In più l’intervento diretto di Italia, Germania e Russia decretava senza equivoci che in Spagna si stava combattendo la prima fase della guerra imperialista mondiale.

Di fronte a questi nuovi fatti la Frazione, che sempre aveva avuto chiaro il significato dell’intervento delle Brigate Internazionali, chiamava «i lavoratori stranieri a fare della militarizzazione delle colonne in Ispagna il segnale dell’abbandono delle legioni “Garibaldi, De Rosa, Lenin”, al fine di dare col loro atto un avvertimento agli operai spagnoli perché essi pure tentino di ritrovare il cammino della lotta contro la borghesia» (“Prometeo”, 22 novembre 1936).

In un altro articolo, del 200 settembre, Prometeo aveva scritto: «A chi ci dice che dobbiamo essere dove i proletari si battono, noi rispondiamo che combatteremo per ritirare fino all’ultimo operaio da queste armate di Unione Sacra che lavorando accanitamente in Spagna, e negli altri Paesi noi combattiamo per distruggere la macchina capitalista dell’oppressione, quella da cui sgorga il fascismo e l’antifascismo, per battere la borghesia, per cacciarla dalla comoda finestra che essa occupa attualmente e dove può fregarsi esultante le mani contemplando la carneficina del proletariato spagnolo e internazionale».

(continua)

 

 
 
 
 
 


Dall’archivio della Sinistra

 

 - Introduzione

 - IL CAPITALISMO MONDIALE DRIZZA, IN ISPAGNA, IL PALO D’ESECUZIONE DEL PROLETARIATO SPAGNOLO ED INTERNAZIONALE - Il significato reale del Comitato di non intervento negli affari di Spagna (“Prometeo”, 1 novembre 1936)

 - CONTRO LA "INDUSTRIALIZZAZIONE" DEI CADAVERI SUI FRONTI MILITARI, PER LA RIPRESA DELLE LOTTE CLASSISTE - L’unica arme di classe (“Prometeo”, 22 novembre 1936)