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COMUNISMO
n. 48 - giugno 2000
ASSOCIAZIONE INTERNAZIONALE DEI LAVORATORI
CONFLUIRE GRANDIOSO DELLE LOTTE DEL PROLETARIATO E DELLA SUA COSTITUZIONE IN PARTITO RIVOLUZIONARIO

 
 

Presentazione

PARTE PRIMA - 1864-1866
   Una giovane Classe Operaia si afferma e sfida Borghesie vecchie o impotenti.
1. Repetita iuvant - 2. Sua Maestà l’Inghilterra - 3. La questione tedesca - 4. Il lassallismo in Germania - 5. Una classe internazionale in formazione - 6. Origine della Associazione - 7. Cosa vuol essere l’Associazione Internazionale - 8. Il suffragio universale - 9. La Guerra di Secessione - 10. Importanza delle lotte economiche - 11. Sviluppo in Europa - 12. Marx, il marxismo, l’Associazione - 13. L’Associazione e le lotte operaie - 14. Imperialismo in Europa - 15. La Guerra austro-prussiana.

PARTE SECONDA - 1866-1869
   Crescita organizzativa e affinamento dottrinario.
1. Il Congresso di Ginevra (1866) - 2. Risorgente proudhonismo - 3. Una forza proletaria mondiale - 4. Il Congresso di Losanna - 5. Il Capitale per la classe operaia - 6. Crisi economica e risposta operaia - 7. Il Congresso di Bruxelles - 8. La scottante questione degli scioperi - 9. Posizioni corrette sugli scioperi - 10. Le risoluzioni di Bruxelles - 11. Trade Unions e questione irlandese - 12. Una classe che sa difendersi - 13. Il Partito Socialdemocratico Tedesco - 14. L’anarchismo - 15. Il «personaggio» Bakunin - 16. Il Congresso di Basilea.

PARTE TERZA - 1870-1871
   La Comune di Parigi.
1. La Guerra franco-prussiana - 2. I prussiani verso Parigi - 3. La Repubblica - 4. L’assedio di Parigi - 5. "A la Commune! Aux armes!" - 6. La dittatura del proletariato - 7. La sconfitta - 8. La Comune e l’Internazionale.

PARTE QUARTA - 1871-1872
   Il Congresso dell’Aja, approdo storico del comunismo.
1. Controrivoluzione - 2. Per l’azione politica della classe - 3. Le tesi degli "antiautoritari" - 4. Anarchismo e piccola borghesia - 5. In Italia e in Russia - 6. Rivoluzione borghese in Spagna - 7. Il Congresso anarchico di Rimini - 8. Le grandi consegne storiche del Congresso dell’Aja - 9. Per il partito di domani.
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Presentazione

Questo semestre l’intera Rivista è dedicata a ripercorrere vicende, lotte, vittorie e sconfitte che stanno alle radici e sono la continuità storica del Partito traverso i tempi e le generazioni.

Il tema della Prima Internazionale, del suo sorgere e formarsi, del prestigio conquistato, delle sue lotte e del concludersi della sua funzione storica dopo il primo "assalto al cielo" del proletariato parigino, è stato uno degli argomenti di studio recenti del partito. L’esposizione del rapporto qui pubblicato si è protratta su cinque riunioni generali: a Torino nell’ottobre 1998 abbiamo ascoltato la Parte Prima, a Firenze nel gennaio successivo la Parte Seconda, a Genova nel maggio la Parte Terza, infine a Torino nell’ottobre e a Firenze nel gennaio scorso la Parte Quarta.

La stampa del resoconto esteso degli altri rapporti di Napoli è quindi rimandato al prossimo numero: lo splendido retaggio di lotta rivoluzionaria dell’Associazione e la ricchezza di importanti lezioni che se ne debbono trarre costringe ad una sua presentazione organica.

La borghesia satolla e rincretinita delle cittadelle del capitalismo trionfante approda al secondo millennio, con le allucinazioni del “post-industriale” e della “new economy”, priva ormai di qualsiasi prospettiva, incapace di interessarsi, di comprendere, di dare un senso al passato come al presente mentre il futuro, quando esiste, è solo un incubo minaccioso.

Certo, per chi poco o nulla ci conosce o segue sporadicamente il nostro lavoro, la decisione di dare spazio a lontane e dimenticate vicende della seconda metà del diciannovesimo secolo può sembrare incomprensibile: un compito da ricercatore di un istituto borghese che ha deciso di troncare la sua carriera. Il partito, però, non fa lavoro di “cultura” ma preparazione rivoluzionaria: ripercorre usualmente, nell’affinamento delle armi di dottrina, la propria storia, dal passato remoto al comunistico futuro. Non esiste un presente di moda che faccia aggio, sul piano della teoria, sul nostro passo costante.

Funzione del Partito è anche proteggere la classe dai paradigmi alla moda. L’infame mistificazione della tecnica al servizio del dio mercato, alla sempre più forsennata e veloce rotazione del capitale, non ci commuove né ci fa dubitare delle tesi che a fine ’800, un secolo addietro, abbiamo scritto sulle nostre bandiere e che suonano condanna sul destino del capitalismo. Proprio nella massima esaltazione del mercato leggiamo la mortale necessità del capitalismo di allargare senza posa i suoi confini per frenare la inesorabile caduta dei margini di profitto, innegato e fatale fenomeno che chiama ogni giorno di più alla società comunista, post-capitalista e post-mercantile.

Non eravamo più “luddisti” ai tempi di che trattasi nello studio che qui segue. Ma quanto manca oggi quell’istintiva giovanile fierezza di classe e odio e disprezzo per gli idoli del nemico, giustamente individuati come nuove e peggiori catene per chi lavora! Oggi il miracolismo da iper-baraccone “tecnologico” di questa infame seconda epoca dei lumi, cela la realtà di uno sfruttamento sempre più intenso e scientifico e di un’oppressione che pervade ogni piega della compagine sociale.

Denunciamo l’illusione che la “belle epoque” del tecnicismo possa far mutare di natura al mostro inumano della produzione per il Profitto ed allontani l’ombra minacciosa del conflitto tra gli imperialismi. Quel Ballo Excelsior di fine Ottocento terminava mentre, da un lato dell’orizzonte, si addensavano bagliori di guerra, il primo grande macello imperialistico, e dall’altro il proletariato preparava troppo tardi, purtroppo la sua di guerra alla guerra, cercando di strappare ai traditori di allora il Partito comunista e il Sindacato di classe.

Oggi alla scala storica un altro ciclo capitalistico sta finendo. Quanto sia il tempo che resta da vivere al presente e putrescente ciclo capitalistico qui non è dato antivedere, ma l’alternativa Guerra o Rivoluzione, è sempre più certa, sempre più provata. La stessa è la consegna, quella del 1871 e quella del primo dopoguerra in Europa: senza partito comunista ben formato sulle sue tesi la vittoria è impossibile e la classe operaia, nonostante il suo coraggio e generosità, rimane un giocattolo nelle mani della classe dominante, dei suoi infiltrati, politici e nei sindacati, e della sua perfida propaganda.

È con questa certezza e per questo bisogno che torniamo indietro, alle radici della formazione del partito della rivoluzione, per preparare un futuro finalmente di riscatto per l’esercito del lavoro.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

PARTE PRIMA - 1864-1866

Una giovane Classe Operaia si afferma
e sfida Borghesie vecchie o impotenti
 

1. Repetita iuvant

Questo lavoro non vuole riscrivere una storia organica della Prima Internazionale a modo di opera di storiografia; nostra intenzione è invece scandire le tappe della costituzione della classe operaia in partito politico poiché riteniamo che ogni trascorso progresso del proletariato verso la sua emancipazione possa dare al futuro partito rivoluzionario mondiale esempi storici e fondamentali lezioni, conferme e affinamenti della sua dottrina. Per questo nel lavoro volutamente abbondano citazioni da Marx e da Engels, tanto dai loro scritti pubblicati al tempo quanto dal loro carteggio, perché in essi si identifica la tradizione del Partito Comunista successivo e di oggi e la critica rivoluzionaria degli stessi rapporti sociali capitalistici che intendiamo accompagnare a storica sepoltura.

Il marxismo è dottrina impersonale di una classe e non prodotto del cervello di un singolo individuo geniale o illuminato. Scrivemmo nel 1952: «La storia la fanno gli uomini, soltanto che sanno assai poco perché la fanno e come la fanno. Ma in genere tutti i "patiti" dell’azione umana, e i dileggiatori di un preteso automatismo fatalista, da una parte sono coloro che accarezzano – nel proprio foro interiore – l’idea di avere nel corpicciuolo quel tale UOMO predestinato, dall’altra sono proprio quelli che nulla hanno capito e nulla possono nemmeno intendere che la storia non guadagna o perde un decimo di secondo, sia che essi dormano come ghiri, sia che realizzino il sogno generoso di dimenarsi come ossessi» (Le gambe ai cani, in "Battaglia comunista" n.11).

Il ripetere dunque le solite cose dette cento e più volte, tanto riguardo alla Associazione Internazionale quanto riguardo ai suoi nemici, non è dovuto al fatto che nun ce sta n’cazzo a`fa in questo buio periodo, ma semplicemente perché, secondo il marxismo, la teoria è la prima delle armi per distruggere questa infame società. Le armi vere e proprie vengono dopo e servono solo quando esista una teoria che le sappia dirigere! Marx stesso riteneva che Il Capitale fosse il migliore proietto fino a quel momento mai scagliato dal proletariato contro la rispettabile normalità borghese.

Ben si capisce quindi che per il partito ripetere la "solita lezioncina" sulla Prima Internazionale non è operazione né di rito né casuale. Il partito ha il compito primario di consegnare al proletariato, in un domani nuovamente illuminato dai bagliori della rivoluzione, l’intero corpus della sua dottrina storica, la sola che possa guidare la classe lavoratrice nel difficile trapasso, cercando di evitare i deleteri e tragici errori del passato. La scelta del partito di dedicare oggi parte considerevole delle sue forze alla precisazione teorica è determinata da fattori ben più grandi del partito stesso ed è perfettamente in linea con la tradizione della Sinistra rivoluzionaria. Il partito difende nell’oggi il programma, latente nella specie umana, di una futura società comunista, bisogno che oggi, dopo ottant’anni di controrivoluzione trionfante, è tanto più forte quanto più appare lontano. Il partito nel suo lavoro impugna la lente possente del materialismo storico, mediante la quale unico conosce la società attuale e il percorso per poterla abbattere.

Questo rapporto è risultato di volontà e lavoro collettivi, nulla intende "scoprire" di clamoroso od originale; solo ha per scopo riportare alla coscienza della compagine operante del partito i numerosi e significativi insegnamenti di un ciclo fondamentale di lotte proletarie e di affermazioni dottrinarie quale è stato quello tracciato dalla pur breve vita della Associazione Internazionale dei Lavoratori.
 

2. Sua Maestà l’Inghilterra

Quando nel 1850 Marx scrisse le Lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, partì nella sua analisi dai rapporti sociali e di produzione della Francia del tempo, dalla crisi economica fino alle diverse formazioni di classe presenti nel paese. Siccome non è nostra abitudine lasciare per aria gli argomenti trattati iniziamo questo romanzo di classe con uno sguardo ai rapporti economici, sociali e politici del tempo, all’ambiente nel quale l’Associazione venne a muoversi nei suoi dieci anni circa di esistenza.

Nell’anno di fondazione dell’Associazione, il 1864, il capitalismo aveva raggiunto in Europa e negli Stati Uniti la propria maturità, ed aveva posto quindi le basi per la sua dialettica negazione. L’incremento mondiale della produzione industriale viaggiava ad una velocità media di circa +5,4% l’anno. Su tutti dominava incontrastata l’Inghilterra, che vantava il grado di industrializzazione più alto nel globo e il più vasto impero coloniale, da cui attingeva tutte le materie prime indispensabili alla propria macchina produttiva. La intensità qualitativa dell’industrializzazione inglese, ovvero il rapporto fra produzione industriale e popolazione (vedi Il Corso...), raggiunse nel 1870 la ragguardevole cifra del 1878%, 3 volte maggiore di quella statunitense, tedesca o francese.

La maturità capitalistica dell’Inghilterra si può inoltre leggere nel fatto che l’attività agricola fosse, già a quell’epoca, relativamente poca cosa rispetto all’industria: si può constatare, ad esempio, che fra il 1841 e il 1861 la popolazione attiva in agricoltura scendeva dal 28 al 24%. L’Inghilterra era il paese in cui la maggioranza della popolazione apparteneva d’altronde alla classe del proletariato. Essendo la nazione più forte e solida, in Inghilterra era ovviamente anche più grande la concentrazione dei capitali rispetto che in altri paesi. Nello splendido Indirizzo Inaugurale dell’Associazione di Marx viene constatato che «3.000 persone, pressappoco, dividono fra loro una rendita annuale di più o meno 25.000.000 di lire sterline, superiore alla somma totale distribuita annualmente fra tutti i lavoratori d’Inghilterra e del Galles».

Ma l’Inghilterra, mentre è avanguardia borghese del mondo, è però allo stesso tempo fautrice di una politica internazionale tendente ad alleanze con le vecchie potenze feudali, affinché vengano contrastate le nuove e concorrenti forze del capitalismo nascente: un esempio può essere l’appoggio inglese dato agli Stati del Sud nella Guerra di Secessione Americana. Nella nostra rivista, Comunismo, n.35, concludevamo che «l’Inghilterra stava svolgendo un ruolo rivoluzionario da un punto di vista economico, e un ruolo conservatore da un punto di vista politico» (Origini e storia della classe operaia inglese).

L’espansione economica del 1864, indotta anche dalla scoperta dell’oro in California ed in Australia, ed il successivo ciclo di espansione relativa non potevano però cancellare il ricordo delle crisi che si erano avute nei vent’anni precedenti con recessioni periodiche che toglievano alla borghesia la maschera dell’invincibilità. Marx aveva allora già ben chiara la fragilità economica di base del capitalismo.

La crisi seriamente acuta esploderà nel 1866, due anni dopo la fondazione dell’Associazione, per poi ampliarsi sempre più nel 1870. Nel 1866 l’Inghilterra avrà un incremento produttivo nullo, cifra che scenderà ancora al -3,1% nell’anno successivo. La Francia, anch’essa in fase recessiva, giungerà nel 1870 ad un decremento produttivo del 6,9% (per i dati vedi sempre Il Corso...).

Dunque se questi non sono ancora gli anni di un capitalismo in declino, però mostrano già le sue tare e l’incapacità di poter progredire all’infinito. La relativa effervescenza sta nel fatto che esso non ha ancora completato la sua diffusione in tutto il pianeta e nemmeno in tutta Europa.

Vediamo le condizioni generali di altri Stati europei.

La Prussia, sebbene in sviluppo costante delle forze produttive, presentava un carattere ancora per molti aspetti feudale. Dal 1859 però era partita per la sua evoluzione capitalistica, che potrà essere definitivamente agevolata soltanto dall’unificazione tedesca ultimata nel 1871. Ben più forte della Prussia dal punto di vista capitalistico era ancora la Francia di Napoleone III, che presentava inoltre un proletariato urbano molto combattivo.

La Russia era fra le nazioni ancora feudali e il capitalismo vi era solo embrionale; però risultava decisiva nello scacchiere internazionale per la sua funzione di baluardo della conservazione. Da essa emanava il falso ideale del panslavismo ed in suo nome la Russia aveva stroncato nel sangue nel 1863 la Rivoluzione di indipendenza polacca. È però da notare che negli anni ’60 dell’800 il capitalismo stava penetrando nella società russa, sebbene non per merito di una classe borghese, come in Prussia, ma per diretto intervento dello stesso Stato zarista.

Il comunismo marxista appoggia i moti di affrancamento nazionale e le rivoluzioni borghesi finché queste non abbiano adempiuto al loro compito: così l’Associazione, fin dalla sua fondazione, appoggerà tanto l’Unione degli Stati americani del Nord guidati da Lincoln, quanto l’insurrezione polacca contro la Russia, tanto la borghesia tedesca perché, emancipandosi dall’aristocrazia, conquisti la sua unità nazionale, quanto le lotte risorgimentali per l’unificazione italiana. I comunisti daranno appoggio a tutto ciò, ma non in forza di un astorico principio patriottico o canagliate simili, ma perché ritengono che la vittoria borghese sul feudalesimo sia risultato indispensabile per porre le basi di quel progresso delle forze produttive che dovrà preparare il terreno alla presa del potere da parte del proletariato a livello internazionale.
 

3. La questione tedesca

Nella prima metà dell’800 la Germania era divisa in una miriade di piccoli staterelli. Nel 1859 la Prussia, il più grande e il più potente di questi, dava inizio ad una politica d’espansione nella regione allo scopo di costituire una nuova grande nazione in contrapposizione con l’Impero Austroungarico, la Francia e la Russia.

Nella visione marxista l’unificazione tedesca avrebbe costituito un fattore positivo per la rivoluzione in quanto avrebbe permesso alla Germania di sviluppare completamente le potenzialità capitalistiche che avrebbero spazzato via inesorabilmente tutto il vecchio pattume feudale. La Germania non aveva goduto di una rivoluzione borghese come la Francia e l’Inghilterra: la classe borghese era entrata in scena in modo servile e poco determinato contro l’aristocrazia terriera e militare, gli Junkers. Quando tentò di rendersi rivoluzionaria e abbattere l’antico ordine feudale subito si ritrasse dai suoi bellicosi propositi per il timore della classe proletaria e dei contadini che aveva lei stessa incitato all’insurrezione.

La speranza dei nostri maestri era che il proletariato riuscisse ad esprimere una tale forza da imporre che la rivoluzione borghese fosse spinta sino infondo dando così una spinta radicale alla struttura economica e sociale tedesca, indipendentemente dalla capacità della borghesia.

Sarà invece l’aristocratico Bismarck a guidare il processo che, fra il 1859 e il 1871, vedrà anche la Germania entrare nell’agone del capitalismo. Come in Russia il capitalismo penetrerà in Germania senza avvalersi dell’opera di una vera e propria classe borghese, ma appoggiandosi direttamente all’apparato dello Stato, ancora formalmente feudale e reazionario.

Al 1864, dunque, la Germania non era ancora un paese del tutto capitalistico: la classe aristocratica era ancora al potere e, sebbene stesse virando verso gli interessi borghesi, rimaneva comunque sempre elemento reazionario che frenava il libero sviluppo sociale ed economico. Il problema dunque da affrontare era su come la classe operaia tedesca si dovesse comportare nei riguardi dello scontro aristocrazia-borghesia. I marxisti hanno avuto da sempre una posizione ben chiara in proposito, ma in Germania le troppe influenze sugli operai dei lassalliani e dei sindacalisti facevano sbandare i proletari dinanzi al quesito aristocrazia o borghesia?.

Engels era intervenuto risolutamente nella questione con il suo lavoro La questione militare prussiana e il partito operaio tedesco, scritto in occasione della discussione in Prussia della riforma dell’esercito. Sulla questione borghesia-aristocrazia il "cristallino Engels" afferma che il proletariato tedesco deve appoggiare la borghesia affinché quest’ultima possa un domani essere abbattuta dal proletariato stesso. «Per il partito reazionario l’esistenza di borghesia e proletariato è una spina nel fianco. La sua esistenza si basa sul presupposto che il moderno sviluppo sociale sia di nuovo annullato o quanto meno frenato. In caso contrario tutte le classi superiori andranno gradualmente trasformandosi in capitalisti, tutte le classi oppresse in proletari, è così il partito reazionario scomparirà da sé (...) La macchina a vapore, i filatoi e i telai meccanici, gli aratri a vapore e le trebbiatrici, le strade ferrate ed i telegrafici elettrici e le presse a vapore di oggi (...) distruggono progressivamente ed inesorabilmente ogni residuo di situazioni feudali e corporative, e risolvono tutti i piccoli contrasti sociali ereditati dal passato nell’unico contrasto, di portata storica universale, fra capitale e lavoro (...) Nella misura in cui ha luogo questa semplificazione dei contrasti tra le classi sociali aumenta la potenza della borghesia ma aumenta in misura ancora maggiore la potenza, la coscienza di classe, la capacità di vittoria del proletariato».

Da questa splendida citazione segue la giusta tattica marxista: poiché la rivoluzione proletaria è più facile dopo che una rivoluzione borghese si è affermata sul feudalesimo, il proletariato ha interesse ad appoggiare l’emancipazione borghese, dove è possibile. Affermare questo allora era importante in quanto la borghesia premeva ancora per emanciparsi in molte nazioni, Germania, Russia, Spagna e nell’Europa sudorientale. Ma questa tattica va collocata nel suo contesto storico: basti pensare, per esempio, che in Italia l’ordinovismo di Gramsci invocava ancora un fronte unico contro Mussolini ritenendo il suo dispotismo un tentativo di restaurazione feudale, tesi che la Sinistra liquidò facilmente: l’ultimo baluardo del feudalesimo in Europa era crollato nel 1917 in Russia.

Engels insiste nel suo scritto sulla necessità che il proletariato tedesco si renda totalmente autonomo dalla borghesia radicale costituendosi in partito: «Il proletariato diventa una potenza dal momento in cui viene a formarsi un partito operaio autonomo, e c’è perciò una potenza con cui fare i conti». Un proletariato è effettivamente forte quando lotta per la difesa delle proprie condizioni di vita, senza accettare i falsi doni che i governanti gli promettono: «un dono si accoglie col giavellotto in pugno, punta contro punta».

Fra gli obiettivi contingenti che il proletariato tedesco avrebbe dovuto ottenere attraverso l’aperta lotta di classe vi era l’obbligo del servizio militare, dirompente rivendicazione rivoluzionaria borghese.

Secondo Marx ed Engels il proletariato tedesco si doveva dare come obiettivo immediato in Germania l’ottenimento del diritto di coalizione. Scrive Marx in una lettera a Schweitzer il 13 febbraio 1865: «In Prussia, e in generale in Germania, il diritto di coalizione è una frattura nel dominio poliziesco e nel burocratismo, spezza l’ordinamento servile e l’economia feudale nelle campagne (...) È fuor di ogni dubbio che sarà delusa la funesta illusione di Lassalle di un intervento socialista da parte del governo. Parlerà la logica delle cose. Ma l’onore del partito esige che esso rifugga da tali chimere, ancor prima che la loro vuotaggine sia messa alla prova».
 

4. Il lassallismo in Germania

Le simpatie del proletariato tedesco si dividevano tra il comunismo scientifico di Marx e il socialismo reazionario di Lassalle, gradualista ed opportunista. Nonostante l’ormai lungo esilio in Inghilterra, fra gli operai tedeschi Marx era ancora ritenuto fondamentale per il movimento: alla morte di Lassalle, 1864, gli chiedono di candidarsi come successore alla guida dell’Associazione Tedesca degli Operai e nel novembre 1864 l’Associazione Generale degli Operai Tedeschi propone a Marx e ad Engels di collaborare al suo organo ufficiale, "Der Social-Demokrat". Questi accettano in quanto il giornale di Berlino non era ancora del tutto permeato di lassallismo e si poteva ancora recuperare ad una linea rivoluzionaria.

Nel dicembre, prima che il "Social-Demokrat" venisse confiscato dalla polizia, sempre più frequenti vi si fanno gli articoli di Marx contro Lassalle, accusato addirittura di aver complottato con Bismarck. Nella corruzione piccolo-borghese di molti membri della Associazione risiederà uno dei motivi delle difficoltà dell’Associazione Internazionale ad attecchire in Germania. Secondo Marx solamente nella Renania l’Associazione avrebbe potuto sperare di trovare basi solide e rivoluzionarie. Nel febbraio Marx ed Engels chiuderanno ogni rapporto col "Social-Demokrat".

Con gli operai influenzati dalle tesi dei lassalliani, tanto criticate da Marx e da Engels, l’Associazione Internazionale avrà seri problemi fino alla fine. Ferdinand Lassalle in realtà era morto un mese prima della fondazione dell’Associazione, ma gli errori associati al suo nome gli sopravvivevano e per molti anni determineranno alcune gravi scissioni e degenerazioni del movimento tedesco.

La prima seria rottura fra i nostri e Lassalle si era avuta alla fine degli anni Cinquanta dell’Ottocento riguardo alla posizione da assumere nella guerra fra Francia ed Austria, guerra in cui i due Stati si giocavano le sorti dell’unificazione italiana. Marx ed Engels asserivano che la vittoria dell’Austria avrebbe rafforzato la reazione e bloccato la progressiva unità d’Italia; ma, allo stesso tempo, che una vittoria di Napoleone III avrebbe permesso una futura guerra con la Russia: dunque i comunisti non avrebbero dovuto appoggiare né l’uno né l’altro dei contendenti. Per Lassalle, il quale ragionava da un punto di vista prussiano e non internazionalista, la Francia rappresentava nel conflitto il liberalismo, il progresso e la civiltà moderna, al contrario dell’Austria, feudale e reazionaria.

Ma innanzitutto l’errore di Lassalle risiedeva nell’affermare che, nella Germania di allora, «dinanzi al proletariato» tutte le altre classi formavano «una sola massa reazionaria», ponendo così sullo stesso piano aristocrazia feudale, borghesia e ceti medi. Il marxismo rispondeva asserendo che la vittoria della borghesia sull’aristocrazia era un tassello fondamentale per la Rivoluzione proletaria, come già affermato chiaramente nel 1848 sul Manifesto. Soltanto dopo che la borghesia ha preso il potere e può liberamente perseguire i propri interessi, essa diviene classe reazionaria e dunque da abbattere.

Al di fuori di ogni dialettica storica, Lassalle riteneva lo Stato un ente autonomo da ogni rapporto sociale e di produzione: invece di recepire le nuove scoperte della teoria proletaria, tornava indietro di decenni, rispolverando il pensiero idealistico di Hegel e Fichte. Lo Stato, entità superiore alle leggi sociali, avrebbe dovuto, secondo Lassalle, intervenire direttamente per la liberazione del "popolo" attraverso l’istituzione di cooperative di produzione (dalle quali sarebbe poi nata la società socialista) e di una scuola popolare e gratuita per tutti. Marx rispondeva che lo Stato di Lassalle altro non era che lo Stato democratico borghese che si è sempre spacciato come difensore del cosiddetto popolo. La stessa parola "popolo" non è termine usato nel linguaggio comunista rivoluzionario poiché il comunismo mette in evidenza le diverse classi che lo compongono e difende solo una parte di esso, la classe proletaria, contro l’altra.

Marx, con sferzante sarcasmo, vergherà, nel 1875, nella Critica del programma di Gotha: «Poiché non si ha il coraggio di chiedere la repubblica democratica non si sarebbe dovuto ricorrere alla finta, che non è né "onesta" né "dignitosa", di far richieste ad uno Stato che non è altro se non un dispotismo militare, mascherato con appendici feudali, influenzato già dalla borghesia, tenuto assieme da una burocrazia, difeso con metodi polizieschi; e per giunta assicurare solennemente a questo Stato che ci si immagina di strappargli qualcosa di simile con "mezzi legali"».

La nostra impietosa dottrina sia alla dittatura sia alla democrazia borghese oppone la violenza che sovverte lo Stato, lo distrugge e lo sostituisce con la dittatura proletaria: la dittatura borghese e la democrazia sono per i marxisti due diverse forme di governo, emanazione entrambe degli interessi borghesi, e dunque da abbattere. Il fatto è che questo programma di Lassalle sull’utilizzo dello Stato borghese per una via pacifica al socialismo non resterà poi fra le teorie negli scaffali delle biblioteche, ma sarà anzi la bandiera prima del revisionismo della Seconda Internazionale, poi dei partiti nazional-comunisti nel ’900, sia stalinisti sia, peggio ancora, antistalinisti.

Lassalle inoltre poneva la lotta di classe su un esclusivo piano nazionale, mentre il marxismo ha sempre dichiarato che il proletariato ha natura ed orizzonte internazionale.

Corona e spiega tutte le false interpretazioni lassalliane la povertà della sua previsione della società socialista. I lassalliani ritenevano il socialismo la «organizzazione collettiva del lavoro complessivo con giusta ripartizione del frutto del lavoro». Il socialismo antevisto dal marxismo è tutt’altra cosa. Sempre nella Critica, Marx mette in evidenza la pochezza di contenuto del concetto di "giusta ripartizione": non è forse vero che già molti partiti borghesi lottano per una meno ingiusta ripartizione della ricchezza? Il socialismo non si riduce a una giusta ripartizione del prodotto in parti eque per tutti. Il socialismo è soprattutto un nuovo modo di produrre, significa abolizione del lavoro salariato, si distingue qualitativamente e non quantitativamente, per un "più giusto" salario, dal capitalismo.
 

5. Una classe internazionale in formazione

Nei diversi paesi europei la struttura sociale veniva ad influenzare in modo determinante le ideologie e i programmi politici.

Dato che nella visione marxista proprio il paese che è capitalisticamente più forte reca nel suo seno in misura maggiore i germi della futura società socialista, nel 1864 l’Inghilterra poteva venire considerata come base principale per l’avanguardia proletaria. Ne Il Capitale Marx scriverà: «In Inghilterra il processo di sovversione si può toccare con mano. Raggiunto un certo livello, esso non potrà non ripercuotersi sul continente, e qui si svolgerà in forme più brutali o più umane a seconda del grado di maturazione della stessa classe operaia». Qualche anno dopo aggiungerà: «Se la grande proprietà terriera e il capitalismo sono caratteristiche classiche dell’Inghilterra, d’altra parte, le condizioni materiali per la loro distruzione sono qui le più mature» (Il Consiglio Generale al Consiglio Federale della Svizzera Francese, 1870).

Sebbene numericamente più forte, Marx ed Engels giudicavano il proletariato inglese meno combattivo di quello francese. Continua: «Gli inglesi hanno tutto il materiale necessario per la rivoluzione sociale. Quel che loro manca è lo spirito di generalizzazione e l’ardore rivoluzionario. Solo il Consiglio Generale (dell’Associazione) è in grado di fornirglieli, accelerando in tal modo il movimento veramente rivoluzionario in questo paese, e di conseguenza ovunque (...) L’Inghilterra non può essere trattata come un paese come tanti altri. Essa deve essere trattata come la metropoli del Capitale».

L’interesse che Marx dedicò al proletariato inglese era dovuto principalmente al fatto che, parte del capitalismo maggiormente sviluppato, era quello più lontano dalle suggestioni delle ideologie piccolo borghesi. Il più combattivo proletariato francese, al contrario, conservava nel suo seno posizioni che si rifacevano a Proudhon, riflesso del minore progresso raggiunto dal capitalismo francese e della sua composizione sociale che comprendeva una diffusa piccola borghesia.

Ma l’Associazione nascerà dichiaratamente come movimento sovranazionale, non limitato alle sole Inghilterra e Francia. Nella Germania, divisa al tempo in vari staterelli di cui il maggiore era la Prussia, il proletariato era numericamente esiguo rispetto alle altre componenti sociali; ed alle classi del capitalismo nascente si affiancavano ancora preponderanti e radicate le vecchie e reazionarie strutture feudali. Ciò determinava deviazioni del proletariato secondo le idee di Lassalle, reazionarie nonostante si tingessero di socialismo.

L’Italia, rispetto alla Germania, presentava una situazione ancora diversa. La scarsissima diffusione numerica della classe proletaria non facilitava l’accettazione del programma marxista. Al contrario il sovrapporsi di una miriade di diversissime componenti sociali (nobili, borghesi, piccolo borghesi, artigiani, salariati, contadini proprietari, mezzadri, braccianti, studenti, intellettuali, artisti, ecc.) facilitava la diffusione delle idee anarchiche di Bakunin che, a differenza del marxismo, si rivolgevano indistintamente a tutte le classi e settori sociali.

Questo quadro composito, insieme alla immaturità teorica del movimento, spiega il perché delle varie differenze ideologiche in seno all’Associazione. La linea marxista si troverà a coesistere con altri indirizzi, primo perché non aveva ancora potuto dimostrare nella viva esperienza storica la sua rispondenza alla realtà fattuale; secondo perché le diverse scuole giustificavano la loro presenza in rappresentanza di settori della classe operaia non ancora del tutto proletarizzati, nelle variegate situazioni economico-sociali dell’Europa del tempo.

Le lotte di classe erano riprese nel 1862, dopo un loro riflusso dal 1848. L’Inghilterra era ovviamente la più coinvolta: con vigore il proletariato inglese si era opposto, nella prima metà degli anni ’60, ad un appoggio militare dell’Inghilterra agli Stati del Sud nella Guerra di Secessione. Alle intenzioni del governo di appoggiare con le armi i proprietari di schiavi, il proletariato aveva preso in massa la posizione di solidarizzare invece con gli Stati del Nord antischiavisti. Dal 1863, poi, con l’esplosione della Rivoluzione in Polonia, soffocata nel sangue dall’esercito zarista, il proletariato inglese aveva tentato a più riprese di collaborare con i rivoluzionari polacchi. Esso era inoltre ben attivo riguardo alla questione irlandese e fieramente in opposizione ai metodi terroristici con cui l’imperialismo britannico si contrapponeva ai movimenti di liberazione dell’isola. Dunque un periodo fervido di lotte contro Sua Maestà l’Inghilterra nel biennio che anticipa la Prima Associazione, con un proletariato che aveva dimostrato a più riprese di essere in grado di opporre alla borghesia le sue ragioni di classe.

Nei quindici anni precedenti il proletariato inglese era uscito vincitore nella dura battaglia sulla conquista della legge delle dieci ore. Nonostante la legge, però, le condizioni degli operai, e non solo in Inghilterra, erano al limite della sopportabilità e le stesse dieci ore rimanevano sovente sulla carta e non rispettate dai capitalisti. In proposito Marx riporterà su Il Capitale la testimonianza di un ispettore di fabbrica del tempo: «Il profitto extra che si può realizzare sembra una tentazione troppo forte perché molti fabbricanti sappiano resistervi. Essi contano sulla probabilità di non essere scoperti, e calcolano che, quand’anche lo fossero, data l’esiguità delle ammende e delle spese di giudizio, ci guadagnerebbero sempre». La spiegazione di Marx a «questa anomalia di una legge non rispettata» è ben chiara: «Queste leggi moderano l’impulso del Capitale a spremere la forza lavoro senza riguardi né misura, mediante limitazione coatta ad opera dello Stato della giornata lavorativa; è ad opera di uno Stato che capitalisti e proprietari fondiari dominano insieme». Marx con sdegno dimostra la falsità delle leggi borghesi attraverso numerosi esempi di casi in cui la giornata lavorativa supera assai le 10 ore giornaliere, raggiungendo le 16, 18, 20 e addirittura, in alcuni casi, le 24 ore continuative di massacro! E tutto ciò anche sulla pelle di donne e bambini.

Invero non possiamo che constatare che oggi, nell’anno 2.000, il massacro continua ad essere perpetrato con gli stessi sistemi e con la stessa feroce intensità, e per di più con una produttività immensamente superiore ad allora, da una borghesia decisa a non permettere che la propria crisi precipiti nella ripresa rivoluzionaria.

Contro tutto ciò, nel 1862, il proletariato aveva rialzato la testa e si era posto il sacro compito della lotta di classe: per questo aveva bisogno di un’organizzazione internazionale che unificasse le sue lotte isolate. Un borghesuccio del tempo, tale Charles de Remusat, di fronte allo sfacelo del suo mondo, doveva già ammettere nel 1863, sulla "Revue des Deux Mondes": «Solo la classe operaia sembra che si salvi».
 

6. Origine della Associazione

L’occasione per la fondazione della Associazione è la sconfitta della Rivoluzione polacca e la conseguente volontà del proletariato inglese di difendere gli insorti dalle persecuzioni zariste. I lavoratori londinesi si rivolgono dapprima al primo ministro Lord Palmerston con l’esplicito invito di appoggiare anche militarmente la causa polacca, a cui segue un appello ai lavoratori di Parigi per sollecitarli ad un’azione comune.

Ufficialmente sorta il 28 settembre 1864, l’Associazione Internazionale degli Operai si pone come compito la unificazione delle lotte operaie sparse e divise per l’Europa, al di sopra dei confini di razza e nazione, in vista di una possibile e prossima presa del potere da parte della classe operaia.

L’Associazione raggruppa organizzazioni di difesa operaia di Europa e di America. Queste sono ispirate e dirette da lavoratori di diverse fedi politiche: marxisti, tradeunionisti, proudhoniani, lassalliani, mazziniani, anarchici.

Alla nascita dell’Associazione viene subito nominato un Comitato, provvisorio, nel quale è eletto anche Marx. Il 5 ottobre, alla prima seduta di questo, si incarica il Comitato di stendere un programma politico per l’Associazione. Redatto in assenza di Marx, che non può parteciparci, il programma presenta esplicite influenze mazziniane e patriottiche, di matrice extra-proletaria. Il 18 ottobre però, ad una successiva seduta del Comitato, Marx sottopone il programma ad una critica serrata e propone una sua stesura dell’Indirizzo Inaugurale dell’Associazione Internazionale degli Operai, che è approvato all’unanimità.

Nell’Indirizzo Marx ripercorre innanzitutto la storia delle lotte operaie svoltesi dal 1848 al 1864, nonché le condizioni oggettive dei lavoratori, via via peggiorate con gli anni. Contro ogni progressismo borghese, l’Indirizzo è lapidario: «Né il perfezionamento delle macchine, né l’applicazione della scienza alla produzione, né la scoperta di nuove comunicazioni, né le nuove colonie, né la creazione di nuovi sbocchi, né il libero scambio, né tutte queste cose insieme sono in grado di sopprimere la miseria delle classi lavoratrici».

Nonostante poi la relativa calma sociale imposta in quell’ultimo ventennio del secolo, l’Indirizzo bene mette in risalto le due significative conquiste ottenute dal proletariato inglese. La classe operaia aveva ottenuto la legge sulle 10 ore lavorative: su questa grande vittoria del proletariato, Marx afferma nell’Indirizzo che «per la prima volta l’economia politica della classe media risultò completamente soccombente di fronte alla economia della classe operaia». L’altra grande conquista per il proletariato era stato l’esperimento delle cooperative teorizzate da Owen: la loro utilità non consisteva nel compiere un passo verso l’economia socialista né tantomeno verso la Rivoluzione, tuttavia esse dimostrarono che era possibile la produzione in grande senza la presenza di un padrone borghese. Il loro fallimento inoltre dette nuova conferma am materialismo storico nel liquidare come utopistiche le teorie che prevedevano una trasformazione graduale dell’economia capitalista in socialismo.

Nell’Indirizzo Marx deve, come dice in una lettera ad Engels, esporre il punto di vista comunista in modo tale che potesse venire accettato. «Era impossibile – commenterà Rjazanov in Marx ed Engels – usare il linguaggio ardito e rivoluzionario del Manifesto comunista (...) Il Manifesto era stato scritto a nome di un piccolo gruppo di rivoluzionari e di comunisti per un movimento operaio ancora molto giovane. Già allora i comunisti sottolineavano che non ponevano nessun principio particolare con l’intenzione di imporlo al movimento operaio, ma si sforzavano unicamente di mettere in luce all’interno del movimento gli interessi del proletariato di tutti i paesi, indipendentemente dalla nazionalità. Nel 1864 il movimento operaio era notevolmente cresciuto, aveva acquisito un carattere di massa, ma dal punto di vista dello sviluppo della coscienza di classe era decisamente in ritardo sulla piccola avanguardia rivoluzionaria del 1848. Il suo nuovo stato maggiore, a nome del quale scriveva allora Marx, era altrettanto in ritardo su quella avanguardia».

Marx è inoltre incaricato di riscrivere lo Statuto. Nello Statuto l’Associazione si proclama «centro di collegamento e di cooperazione tra le società operaie esistenti nei diversi paesi» e dichiara il suo unico scopo: «l’emancipazione della classe operaia non deve tendere a costituire nuovi privilegi e monopoli di classe, ma a stabilire per tutti diritti e doveri uguali e ad annientare ogni predominio di classe». Inoltre lo Statuto afferma che «la soggezione economica del lavoratore nei confronti dei detentori dei mezzi di lavoro, cioè delle fonti della vita, è la causa prima della schiavitù in tutte le sue forme, di ogni miseria sociale, di ogni pregiudizio spirituale e di ogni dipendenza politica», stabilendo infine che «l’emancipazione economica della classe operaia è di conseguenza il grande scopo al quale ogni movimento politico deve essere subordinato come mezzo».

L’organo di rappresentanza è il Consiglio Centrale, eletto in seno all’Associazione. È composto da elementi per lo più proletari. Hermann Jung scriverà, riguardo al Consiglio, che è formato da compagni «abituati a maneggiare il martello e la lima, e che soltanto a prezzo di sacrifici personali riescono a sostituirli con la penna» (Lettera a "L’Echo de Verviers", 20 febbraio 1866).
 

7. Cosa vuol essere l’Associazione Internazionale

L’Associazione è composta dall’adesione di diverse società operaie che fanno capo ad un unico centro. Esprime in sé sia la coscienza della necessità di una disciplina unica internazionale della lotta proletaria al capitale, sia la ricerca di una unitaria dottrina che possa informare una forma partitica che universalmente la diriga. Tutta la vicenda storica dell’Internazionale vedrà l’impegno, in particolare di Marx e di Engels, in difesa di questa necessità costitutiva, contro gli arretramenti e le infiltrazioni autonomiste e localiste.

Certo non è da ascrivere la nascita della Associazione alla volontà di singoli uomini, tantomeno di Marx, che scrive sul "World" del 13 ottobre 1871: «Il grande successo che finora ha coronato i nostri sforzi è dovuto a circostanze che esulano dal potere dei suoi membri. La stessa fondazione dell’Associazione è stato il risultato di queste circostanze, e per nulla il merito degli uomini che si consacrarono a tale compito. Essa non è stata l’opera di un pugno di uomini abili; tutti i politici di questo mondo presi assieme non avrebbero potuto creare le condizioni e le circostanze che furono necessarie al successo dell’Associazione».

Le lotte le più generose del proletariato, culminate con la presa del potere nella Comune di Parigi, vanno ad onore imperituro di quella Prima Internazionale, di una classe ancora giovane in esperienza e in dottrina ma che già manifesta appieno la sua abnegazione e coraggio, fisico e intellettuale, quando organizzarsi in sindacato era spesso possibile solo clandestinamente, compensato col licenziamento e chi scioperava sfidava la prigione se non il piombo delle truppe. Il proletariato di oggi, corrotto e satollo di cultura borghese, ha troppo da imparare da quei suoi antenati certo ignoranti ma forti di sani sentimenti e istinti di classe. Quei suoi strenui predecessori, data la loro esperienza di lotta ancora esigua, non potevano ancora riconoscere nel marxismo l’adeguata loro dottrina. Ma era ben chiaro dove fosse il nemico da battere: il padronato borghese di tutti i paesi trincerato nelle sue istituzioni statali e chiesastiche.

Le dispute fra le più disparate correnti durante il percorso storico della Associazione non negavano al proletariato europeo il grado di maturità di classe tale da consentirgli di lanciarsi all’assalto al cielo del 1871.

Marx ed Engels, nel 1872, in Le cosiddette scissioni nell’Internazionale, scriveranno: «In contrasto con le organizzazioni fantastiche e antagoniste delle sette, l’Internazionale è l’organizzazione reale e militante della classe proletaria in tutti i paesi, solidale nella lotta comune contro i capitalisti, i proprietari fondiari e il loro potere di classe organizzato nello Stato. Perciò gli Statuti dell’Internazionale riconoscono soltanto le semplici organizzazioni operaie che perseguono tutte lo stesso scopo e accettano tutte lo stesso programma, un programma che si limita a tracciare le grandi linee del movimento proletario e ne lascia l’elaborazione teorica all’impulso dato dalla necessità stessa della lotta pratica, oltre allo scambio di idee che si svolge nelle sezioni, ammettendo nei suoi organi e nei suoi congressi tutte le convinzioni socialiste». Ancora, scrive Engels a Paul Lafargue il 19 gennaio 1872: «All’interno di questa grande Associazione sono rappresentate le più diverse concezioni non solo dell’organizzazione futura della società, ma perfino dell’azione nel presente. L’Internazionale discute di queste questioni nel corso dei suoi congressi generali, ma non impone in nessun paragrafo dei suoi Statuti alcun sistema, alcun criterio impegnativo per le sezioni. Vincolante solo il principio di fondo: la liberazione della classe operaia tramite gli operai stessi (...) Comunisti e individualisti operano fianco a fianco e si può ben dire: non c’è nessuna concezione economico-sociale che non sia rappresentata nell’Internazionale (...) nonostante che l’Internazionale si presenti sempre compatta di fronte ai nemici esterni».

Con lo Statuto l’Associazione si presenta come partito formale del proletariato, sebbene ancora carente di unicità di indirizzo sui mezzi per pervenire ai fini. Il comunismo nasce e combatte prima del marxismo. Il sangue versato dai proletari parigini di tutte le tendenze, delle quali nessuna si tirò indietro, ce le fa assurgere a dignità di classe e di appartenenza al nostro partito. L’Associazione fu partito comunista e rivoluzionario, della sola classe operaia, in quel ciclo storico tendente ad un programma e ad una disciplina unica internazionale, e non un fronte interclassista di forze di sinistra.

La milizia dei singoli viene documentata tramite tesseramento. La tessera serve anche come "passaporto": chi, tesserato, è costretto all’emigrazione dalle persecuzioni borghesi, viene riconosciuto ed aiutato, per quello che possono, dai compagni all’estero. A capo di tutta l’Associazione è il Presidente del Consiglio Centrale, carica che verrà abolita nel settembre 1867 su proposta di Marx.

Già nei primi mesi l’Associazione ottiene un buon successo e alcuni interi sindacati di categoria, come quelli dei minatori, dei muratori e dei tipografi, aderiscono in massa all’Associazione. Il punto di forza della Prima Internazionale è l’Inghilterra dove tutto va a gonfie vele per il movimento proletario. Alla sezione inglese, francese e tedesca si unisce poi quella svizzera che diverrà in pochi mesi molto attiva.

L’Associazione nel maggio del 1866 solo in Inghilterra conta quasi 12.000 aderenti. La Francia, nonostante qualche serio problema, è poi ben attiva grazie alle continue lotte operaie in fabbrica. Il 1° maggio 1865 Marx può scrivere ad Engels con soddisfazione: «Tutti i tentativi dei borghesi di far deviare la classe operaia li abbiamo sventati». E Engels risponde: «L’Associazione internazionale in breve tempo ha effettivamente conquistato un terreno vastissimo».

Gli scontri ovviamente non mancano, come quando in un comizio il dirigente della Lega per l’Indipendenza della Polonia afferma che la Polonia doveva chiedere l’intervento a proprio favore della Francia, unica nazione storicamente benevola nei suoi confronti. A queste pretese Marx risponde duramente in Consiglio dimostrando come storicamente la Francia, come tutti gli altri Stati borghesi, avesse fatto dei polacchi carne da macello per i propri tornaconti.
 

8. Per il suffragio universale

Discussione fondamentale nella Prima Associazione, già dai suoi esordi, fu quella sulla questione del suffragio universale, caposaldo tattico del marxismo fino alla Prima Guerra Mondiale. Marx in prima persona contribuì attivamente nel 1865 alla creazione in Inghilterra della Reform League, Lega per la Riforma della legge elettorale, principale organizzazione nazionale inglese del proletariato che si poneva appunto come programma l’ottenimento del suffragio universale.

Per il marxismo il suffragio universale era una questione di principio: quando la borghesia nega ai proletari i diritti politici, il partito rivoluzionario li rivendica come riconoscimento della maturità politica della classe e sfida sociale. Coerentemente dopo, ed oggi, quando la puttana borghese offre ammiccante la scheda elettorale ai lavoratori, al medesimo scopo di impedire la loro affermazione politica, i comunisti rispondono con la consegna di disertare elezioni e parlamenti.

Però il marxismo, oltre a rigettare il borghese principio democratico in tutte le sue premesse e conseguenze, vide sempre nel suffragio universale e nella presenza operaia nei parlamenti borghesi non molto di più che un mezzo per propagandare la distruzione dei parlamenti e dello Stato borghese e la necessità della dittatura del proletariato. Dirà Marx nel 1871 alla Conferenza di Londra, contro coloro, gli anarchici, che non volevano per principio che si utilizzasse il parlamento per i nostri fini: «Non si deve credere che il fatto di avere degli operai in parlamento sia irrilevante. Se si soffoca la loro voce come nel caso De Potter e Castiau, o se li si caccia come Manuel, queste rappresaglie e questa repressione esercitano una profonda influenza sul popolo. Se invece, come nel caso di Bebel e Liebknecht, essi possono parlare dalla tribuna del parlamento, tutto il mondo li ode. Sia nell’uno sia nell’altro caso ciò assicura una larga propaganda ai nostri principi». Chiarissimo: la cosa migliore che ci può succedere è di esserne cacciati per dimostrare al proletariato quel che in realtà sono! Nessuna concessione quindi di una attività parlamentare "a favore del proletariato", come propagandato dall’opportunismo; al massimo il parlamento può servire come megafono per diffondere il programma rivoluzionario.

In questo periodo la visione marxista della presa violenta del potere e della dittatura proletaria ancora conviveva con la prospettiva che postulava all’opposto una via pacifica al socialismo perché la storia non aveva ancora dimostrato l’impossibilità della seconda ipotesi. Per tutto ciò il Consiglio centrale e Marx stesso diedero un forte contributo alla costituzione della Reform League: essa si poneva il primario compito dell’allargamento del diritto di voto a tutta la popolazione adulta maschile, senza distinzione di classe e di ceto sociale. Ad essa si contrapponevano svariate organizzazioni fra cui l’Unione Nazionale per la Riforma che, di stampo piccolo borghese, richiedeva l’allargamento del suffragio solo alla piccola borghesia e agli strati più benestanti del proletariato. Tuttavia, mentre i comunisti ponevano il suffragio ad obiettivo primario del movimento in Inghilterra, in Prussia non lo consideravano utile per i fini della rivoluzione. I tedeschi invece lottavano nel Parlamento, dove la propaganda dei Liebknecht e dei Bebel era tutt’altro che democratica e poneva costantemente all’ordine del giorno le parole d’ordine internazionaliste.

Insomma, suffragio universale ma solo se utile alla propaganda proletaria: la democrazia non è mai stata considerata dal marxismo un bene superiore comune a tutte le classi! Parlamenti e democrazia sono stati dei mezzi, non il fine, che era e sarà antidemocratico e antiparlamentare. Anche come tribuna il parlamento verrà ritenuto non più utilizzabile dalla Sinistra comunista dagli anni Venti del Novecento. I parlamenti dell’800, sebbene borghesi, erano ancora elementi non trascurabili dello scontro politico fra le classi, non erano le indegne cloache del nostro secolo. Giova a questo proposito notare che la parola d’ordine dell’utilizzazione dell’attività parlamentare da parte dei partiti comunisti ha portato ad equivoci così gravi nel partito e nel proletariato da sormontare di molto la loro utilità sul piano della propaganda.
 

9. La Guerra di Secessione

La questione delle nazionalità e delle rivendicazioni borghesi in alcune nazioni ancora in fase di assestamento rivoluzionario si imponevano come tematiche fondamentali fra le sezioni dell’Associazione anche per i riflessi sui loro atteggiamenti quotidiani.

Nonostante la lontananza geografica degli Stati Uniti d’America il proletariato europeo sentì l’esigenza di appoggiare con tutte le proprie forze le istanze borghesi degli Stati del Nord contro i reazionari Stati del Sud.

Solo la vittoria dell’Unione nella Guerra di Secessione avrebbe consentito infatti lo sviluppo pieno del capitalismo. La guerra fu l’ultimo atto che consentì di affondare le strutture pre-capitalistiche in Nord America liberando le infami, ma allora prorompenti, forze produttive borghesi. Il grado di violenza rivoluzionaria decise la futura configurazione strutturale degli Stati Uniti.

La guerra segnò allo stesso tempo la definitiva consacrazione dell’autonomia degli Stati Uniti dalla madrepatria inglese. L’Inghilterra basava la potenza della propria industria tessile sulle balle di cotone provenienti dalle coltivazioni a ridottissimo costo nelle piantagioni del Sud. La guerra provocò innanzi tutto la sconfitta degli interessi economici inglesi, che al tempo erano i più potenti del globo, convergenti con quelli dello schiavismo e dei proprietari fondiari del Sud. Da qui l’importanza del gesto del proletariato inglese di appoggio ai nordisti, nonostante la martellante campagna in favore del Sud condotta dai giornali borghesi inglesi. Come ogni borghese propaganda di guerra, dal 1861 i giornali avevano bombardato il proletariato sulle "atrocità" perpetrate dai nordisti nei confronti del Sud. Questa campagna propagandistica era sbattuta in faccia ai proletari in vista di un intervento dell’Inghilterra contro il Nord. Le lotte del proletariato inglese contribuirono ad impedirlo, il che si configurò come un esempio classico di vero e proprio disfattismo di classe.

L’Inghilterra, non potendo muovere direttamente sul piano militare per l’opposizione del proletariato, spinse allora la Francia e la Spagna ad una spedizione comune nel Messico, in modo di riservarsi quell’avamposto verso l’America del Nord. Ma la situazione già nel 1863 era divenuta sfavorevole per le continue vittorie militari dei Nordisti che oramai lasciavano prevedere la totale disfatta dei Confederati.

Marx ed Engels a più riprese scrissero numerosi articoli riguardo alla Guerra di Secessione, studiandola attentamente innanzitutto in quanto atto di nascita di una grande potenza capitalistica nonché, di conseguenza, di un immenso proletariato che avrebbe potuto porsi come avanguardia internazionale. Delle mire inglesi Marx aveva potuto identificare nei suoi articoli la fondamentale: non la vittoria del Sud sugli Stati del Nord, bensì il perpetuarsi della guerra per più tempo possibile. «Per l’Inghilterra, aveva scritto il 18 settembre 1861 sul "New York Daily Tribune", ciò che si giudica, in fondo, più favorevolmente nel grande conflitto attuale, il quale potrebbe ristabilire una nuova e più potente unità politica, è l’alternativa di un gran numero di conflitti e di un continente diviso ed indebolito che l’Inghilterra non dovrebbe più temere».

Coerente con questa linea la Prima Internazionale fin dalla sua nascita aveva postulato l’appoggio incondizionato ai nordisti e come compito la diserzione da ogni istanza inglese pro-schiavisti.

La Guerra di Secessione cessò nel 1865 con la disfatta totale dei sudisti. Marx la giudicherà poi anche come «la prima guerra condotta con moderni mezzi capitalistici». Fu una mobilitazione di massa che, oltre ad arricchire le nascenti industrie, coinvolse e ferì profondamente tutta la compagine sociale, sia al Sud come al Nord.

Come previsto essa determinò anche la riorganizzazione del proletariato statunitense, che diverrà in brevissimo tempo fra i più combattivi del mondo. Nell’agosto del 1866 verrà fondato la National Labor Union che immediatamente si pose come obiettivo, per la prima volta nel mondo, la conquista delle 8 ore lavorative.
 

10. Importanza delle lotte economiche

Nel mese di maggio, sempre nel 1865, un carpentiere oweniano, tale John Weston, presentò sul "The Bee-Hive Newspaper", organo ufficiale delle Trade Unions e dell’Associazione, due tesi che fecero molto discutere. Queste affermavano che, 1°, un generale aumento dei salari non avrebbe portato alcun miglioramento alle condizioni di vita degli operai poiché avrebbe provocato una corrispondente inflazione, e, 2°, le Trade Unions, lottando per questi aumenti, avrebbero addirittura portato un danno al proletariato. Marx venne incaricato dal Consiglio centrale di stendere una relazione di risposta alle tesi di Weston. La relazione, non semplice dati i temi che venivano affrontati, fu letta da Marx in due sedute, il 20 e il 27 giugno, e verrà poi pubblicata postuma con il celebre titolo di Salario, prezzo e profitto. Nei suoi contenuti la relazione di Marx fece anche da anticipazione dei contenuti de Il Capitale, su cui stava finendo in questo periodo di lavorare e sul quale le questioni descritte nella relazione saranno ben più ampiamente approfondite.

Attraverso la possente analisi delle leggi dell’economia e della storia, Marx confutò tutte le tesi di Weston, riconfermando in chiari termini quanto la lotta economica delle Trade Unions fosse indispensabile agli operai. Marx dovette partire nella sua dimostrazione dalle teorie del valore e del plusvalore, di difficile comprensione nella loro grandiosità distruttiva di miti radicati.

Marx presentò quindi al Consiglio una corposa critica della società borghese andando ben oltre la formula di Proudhon per cui "la proprietà è un furto": «Nei loro sforzi di riportare la giornata di lavoro alla sua primitiva durata (ovvero la giornata di 6 o 8 ore), oppure, là dove non possono strappare una delimitazione legale della giornata di lavoro normale, nei loro sforzi per porre un freno all’eccesso di lavoro mediante un aumento dei salari che non sia soltanto proporzionale all’eccesso di lavoro spremuto, ma gli sia superiore, gli operai adempiono solamente un dovere verso se stessi e verso la loro razza. Essi non fanno altro che porre dei limiti all’appropriazione tirannica, abusiva del capitale. Il tempo è lo spazio dello sviluppo umano. Un uomo che non dispone di nessun tempo libero, che per tutta la sua vita, all’infuori delle pause puramente fisiche per dormire e per mangiare e così via, è preso dal suo lavoro per il capitalista, è meno di una bestia da soma. Egli non è che una macchina per la produzione di ricchezza per altri, è fisicamente spezzato e spiritualmente abbrutito. Eppure, tutta la storia dell’industria moderna mostra che il capitale, se non gli vengono posti dei freni, lavora senza scrupoli e senza misericordia per precipitare tutta la classe operaia a questo livello della più profonda degradazione».

Marx spiegava poi che la lotta fra capitale e lavoro risulta incessante poiché «il capitalista cerca costantemente di ridurre i salari al loro limite fisico minimo e di estendere la giornata di lavoro al suo limite fisico massimo, mentre l’operaio esercita costantemente una pressione in senso opposto». Nel concludere la relazione Marx avvertiva poi che le conquiste quotidiane sono sì fondamentali al movimento, ma non devono illudere più di tanto gli operai in quanto essi saranno sempre costretti a lottare contro il capitale fino a quando esso non sarà annientato dalla più generale lotta politica. «Perciò la classe operaia non deve lasciarsi assorbire esclusivamente da questa inevitabile guerriglia, che scaturisce incessantemente dagli attacchi continui del capitale e dai mutamenti del mercato. Essa deve comprendere che il sistema attuale genera nello stesso tempo le condizioni materiali e le forme sociali necessarie per la ricostruzione economica della società».
 

11. Sviluppo in Europa

Nel giugno del 1866 a Paul Lafargue venne affidato il compito di redigere una relazione per il Consiglio sulla situazione delle sezioni in Europa e sui progressi dell’Associazione. Lafargue poté felicemente concludere che il risultato di questi primi due anni doveva ritenersi decisamente soddisfacente.

In Inghilterra l’Associazione era ormai ricca di prestigio grazie soprattutto al suo deciso intervento nelle lotte di classe. Erano ben 14.000 gli aderenti all’Associazione in Inghilterra. Lafargue scrisse: «Il movimento per la Riforma ha assorbito per qualche tempo tutta l’attenzione della classe operaia e tutta l’attività del Consiglio centrale. Ma, da qualche tempo a questa parte, delegazioni del Consiglio centrale sono inviate presso tutte le società operaie per far conoscere i principi e per sollecitare ad aderire. Queste delegazioni dappertutto sono accolte con calore».

Il 12 dicembre del ’65 si era ad esempio organizzato un pubblico comizio della Reform League. Il grande successo ottenuto da questo comizio si può leggere in questo commento di Marx a Engels il 26 dicembre 1865: «La Lega per la Riforma ha conseguito un enorme trionfo al comizio nella St. Martin’s Hall, il maggior comizio e il più genuinamente operaio che abbia avuto luogo a Londra in tutto il tempo della mia dimora. Le persone del nostro comitato furono alla sua testa e parlarono nel nostro senso». Ma questo movimento non regge a lungo: il 12 marzo 1866 il cancelliere dello scacchiere Gladstone aveva presentato un disegno di legge sulla riforma elettorale che prevedeva un abbassamento insignificante del censo richiesto per votare. Davanti a ciò, la Reform League sbanderà completamente accettando il compromesso con il governo. Marx dovrà scrivere ad Engels il 6 aprile: «In Inghilterra il movimento per la riforma, che era stato chiamato in vita da noi, ci ha quasi ammazzato».

A seguito di dissensi fra il Consiglio centrale e i direttori dell’organo ufficiale dell’Associazione, il "The Bee-Hive Newspaper", il Consiglio decise di scegliere un altro giornale come portavoce delle sue decisioni: fu "The Workman’s Advocate", poi denominato "The Commonwealth". Il giornale veniva finanziato dalla Compagnia Giornalistica Industriale, nel cui consiglio di amministrazione figurava anche Marx. Con ciò si rispose alla necessità che si faceva sempre più pressante di rendere completamente indipendente la stampa operaia da quella borghese, anche dal punto di vista finanziario. Veniva sancito che «dobbiamo porre l’opera della nostra salvezza nelle nostre stesse mani, e ciò può avvenire soltanto acquisendo una posizione più importante nella stampa e sulla base della piattaforma che vi abbiamo finora proposto. Onde potersi proteggere contro falsi amici, abbiamo bisogno di una stampa indipendente» (Ai lavoratori di Gran Bretagna e di Irlanda).

Oltre che dall’Inghilterra, altri successi dell’Associazione arrivarono dalla giovane sezione svizzera. All’inizio del 1866 si avevano 250 iscritti a Ginevra, 150 a Losanna e 150 a Vevey, nonché altri sparsi per molte città. Fra i tre giornali che uscivano in Svizzera, uno assunse in breve tempo gran prestigio, il "Vorbote": in poco più di un anno raggiunse le 1.300 copie e fu venduto, oltre che in Svizzera, in Germania, in Austria, in Ungheria, a Parigi, a Londra, a New York, a Chicago e in altre città. Il lavoro poi svolto da questa sezione in difesa delle condizioni dei lavoratori era impeccabile: l’Associazione si procurava in Svizzera del lavoro da distribuire fra i soci nelle stagioni cattive, aveva creato una banca denominata Caisse de Credit Mutuel, nonché un fondo per la costruzione di case operaie. Dato l’ottimo funzionamento della sezione il Consiglio centrale trasferì al Comitato centrale ginevrino, sezione tedesca, la direzione della sezione e dei soci della Germania, almeno fino a quando questo paese non riuscisse a crearsi un forte centro nazionale.

La Germania, infatti, non navigava in buone acque, sebbene qualche cosa sembrasse finalmente muoversi. La situazione era resa ancora più difficile dalla capillare repressione della polizia e dalla dura legislazione che vietava, tra l’altro, l’iscrizione ad associazioni straniere. Wilhelm Liebknecht, allora fidato corrispondente di Marx, non riusciva a creare una solida sezione che donasse finalmente alla Germania una guida rivoluzionaria sicura.

Un punto a favore dell’Associazione, per quanto riguarda la Germania, fu il fatto che la situazione si faceva pesante per i seguaci di Lassalle e per il loro giornale, il "Social-Demokrat". Questo «conta ora solo un 300 abbonati e i lassalliani sono scesi a poche centinaia di persone deluse e deludenti, divise in due fazioni che si combattono in una battaglia stizzosa, tanto disgustosa quanto ridicola», scrive W. Liebknecht. Bismarck aveva inoltre messo sotto processo John Schweitzer, direttore del giornale, mentre Bernhard Becker, l’erede di Lassalle, era stato costretto dalle circostanze a lui avverse a mettersi da parte. Scrive Engels soddisfatto a Marx il 2 dicembre 1865: «Così non la nostra intromissione, ma la nostra mancata intromissione ha fatto saltare in aria tutta la baracca. Con ciò il "lassallianesimo" ha raggiunto ufficialmente la sua meta estrema».

Nella Francia di Napoleone III la legislazione era ancora più restrittiva che in Germania per il proletariato, in quanto erano assolutamente vietate molte associazioni operaie. Risultava però positivo che nonostante la repressione, in Francia l’Associazione contasse migliaia di operai (di cui 2.000 solo a Parigi). Come si è detto Marx vedeva il proletariato francese ben più combattivo di quello inglese, come sarà dimostrato nel 1871 con la Comune. Ciò che però rimaneva in Francia come ingombrante eredità è la diffusione fra le file operaie delle idee proudhoniane, contro cui Marx aveva polemizzato anni prima con il suo scritto Miseria della filosofia, in risposta alla Filosofia della Miseria di Proudhon.

Una buona sezione era presente in Belgio, mentre serie difficoltà si ebbero nel proselitismo in paesi come la Spagna e l’Italia; quest’ultima tardava a scrollarsi di dosso l’ideologia mazziniana e quando lo farà la sostituirà con l’anarchismo.

Nel settembre del 1865, ad un anno dalla fondazione, si tenne una riunione internazionale preliminare cui parteciparono 9 delegati stranieri più i membri del Consiglio centrale. In essa furono decisi gli ordini del giorno del Congresso di Ginevra, che si celebrerà nel settembre dell’anno successivo. Gli ordini del giorno erano: la riduzione dell’orario di lavoro, il lavoro cooperativo, il lavoro femminile ed infantile, la questione polacca ed infine la questione degli eserciti permanenti e la loro influenza sulla classe operaia. Dopo di che si faceva nella conferenza il punto della situazione. Si constatava, ad esempio, che in Inghilterra era «la prima volta che un’associazione con implicazioni politiche viene accettata dai sindacati».
 

12. Marx, il marxismo, l’Associazione

Il centralismo corrispondeva alla necessità oggettiva del proletariato mondiale di tendere ad un’unica dottrina, ad un’unica battaglia e ad un unico organo dirigente, avendo ben fisso davanti a sé il supremo fine ultimo, la rivoluzione comunista.

Siamo costretti, in questo lavoro, a citare spesso il nome di Marx. Non è, ben lo sappiamo, idolatria per il "grande capo" da mitizzare come essere ultraterreno. Nessuna di queste scorciatoie è consona al nostro metodo e alla nostra visione del mondo. Il partito, in determinati periodi storici, ha avuto degli uomini, di grande valore, che hanno svolto la funzione di capi. Prodotto della storia e dell’ambiente, questi compagni meglio e prima di altri hanno saputo rappresentare la classe a se stessa. Ma che il programma di classe debba sempre essere "rivelato" da un uomo di eccezione non è assolutamente previsto, semmai il contrario, a misura che si perfeziona e consolida la dottrina di partito, a tutti accessibile. Così, il compagno Carlo Marx, non per abilità d’arrampicatore politicantesco, ma organicamente, per le sue capacità, di fatto se non ufficialmente fu il centro dirigente ed organizzativo della Prima Internazionale.

Già alla sua fondazione Marx era quasi ovunque riconosciuto come il maggior teorico della causa proletaria nonché l’unico dei vecchi capi non passato, negli anni, dall’altra parte della barricata. Marx scriveva a Kugelmann il 13 ottobre 1866: «Di fatto ho da dirigere l’intera associazione». Ma il partito, deterministicamente, sceglie Marx non solo per le sue eccezionali qualità personali, disinteresse, disponibilità, generosità e capacità di lavoro, cioè per il suo "stile" proletario e comunista, ma perché istintivamente già riconosce il marxismo come sua dottrina. Il marxismo, sapevamo fin dal Manifesto, non è una teoria particolare accanto ad altre del proletariato, è la teoria del proletariato, l’unica che comprende tutte le altre, parziali, ingenue, utopiche.

Marx era cosciente della potenza della teoria del materialismo dialettico a fronte delle fragili ed infantili teorie proudhoniane ed anarchiche. Ma combatteva costantemente all’interno dell’Associazione non per far trionfare ad ogni costo le "sue" tesi, che sapeva che il partito avrebbe abbracciato spontaneamente nel suo maturare, ma per impedire che questo prendesse strade senza sbocco, che gli avrebbero impedito o ritardato quella maturazione. Ritenendo che la crescita politica del proletariato sia possibile solo superando i particolarismi e localismi e nello scambio delle esperienze fra i diversi paesi, possiamo definire la Prima Internazionale una costante lotta di Marx per difendere la disciplina internazionale del movimento. È una resistenza incessante contro le ideologie particolari o sorpassate che mano a mano pretendono di imporsi, anche con metodi truffaldini, nell’Associazione. Continui, ad esempio, sono i rischi di un cedimento alle tesi proudhoniane.

Fra il dicembre 1865 e l’inizio del ’66 il Consiglio centrale, e Marx in modo particolare, subirono pubblicamente, sui giornali, delle dure calunnie da parte della sezione francese di Londra, di stampo appunto proudhoniano. Particolarmente violenti furono gli attacchi di Pierre Vesinier il quale accusò il Consiglio e Marx di essersi comportati da "bonapartisti" verso la questione polacca. Inoltre Vesinier asseriva che era stata data "troppa importanza" alla questione nazionale a scapito della questione sociale e dell’emancipazione proletaria. Alle accuse di Vesinier il Consiglio centrale rispose con una lettera a "L’Echo de Verviers".

Engels si assunse poi il compito, su invito di Marx, di rispondere approfonditamente ai proudhoniani riguardo alla questione polacca con una serie di articoli dal titolo Cosa ha a che fare la classe operaia tedesca con la Polonia. In essi si asseriva che «gli operai europei proclamano concordi che la ricostituzione della Polonia è componente essenziale del loro programma politico, espressione della loro politica estera». Nel coerente e lucido giudizio sulle guerre progressiste della borghesia di allora, si dice tra l’altro che «la classe operaia vuole l’ingerenza, e non la non-ingerenza; vuole la guerra con la Russia fino a che la Russia non lasci in pace la Polonia; e l’ha dimostrato ogni qualvolta la Polonia è insorta contro i suoi oppressori». E queste non sono tesi liberali ma rivoluzionarie: Marx ed Engels individuavano infatti nella Russia il bastione principale della controrivoluzione e consideravano il suo crollo un passaggio favorevole al proletariato.

La sana autorità di Marx e del Consiglio era indiscussa all’interno dell’Associazione, ma tendenze particolari tendevano sovente a prendere il sopravvento con metodi tutt’altro che limpidi, favorite talvolta da debolezze teoriche dei componenti lo stesso Consiglio. Per altro Marx non abbandonò il lavoro sull’economia e continuava a forte ritmo la definizione finale del primo volume de Il Capitale: per dedicarsi appieno a questa sua fondamentale fatica più volte Marx aveva riconosciuto necessaria una sua uscita dal Consiglio centrale, ma comprendeva bene che, in una situazione decisamente favorevole come questa per il movimento proletario, era da evitare che passasse nelle mani di intriganti o incapaci.

Un "colpo basso" all’Associazione venne perpetrato poi da Mazzini. Questi, approfittando dell’assenza di Marx per malattia, inviò il suo seguace Luigi Wolff al Consiglio per criticare la condotta di Marx, appoggiandosi al recente caso Vesinier. Con il suo intervento Wolff convinse i fragili compagni dell’Associazione a ritirare tutte le accuse pubbliche del Consiglio fatte a Vesinier, ottenendo addirittura che il Consiglio presentasse pubblicamente le sue scuse ai proudhoniani londinesi. Nell’occasione Wolff riuscì addirittura a far pubblicare, con la firma in calce del Consiglio, tesi di stampo puramente mazziniano. Marx commentò in una lettera ad Engels, il 24 marzo 1866: «Mazzini pretendeva di venir riconosciuto dagli inglesi quale capo della democrazia continentale, come se i signori inglesi avessero da nominare i nostri capi!». Immediatamente i segretari stranieri del Consiglio, assenti anche loro durante la seduta di Wolff, chiesero l’intervento di Marx contro le tesi mazziniane fatte passare nel documento pubblico. Marx intervenne criticando aspramente tutto il programma "patriottico e teologico" di Mazzini, concludendo che niente aveva a che fare col movimento in quanto il proletariato, nella sua prassi quotidiana, era già lontanissimo da certe tesi.
 

13. L’Associazione e le lotte operaie

Era stato il riaccendersi delle lotte di classe a determinare nel proletariato europeo la necessità di un organismo sovranazionale, l’Associazione appunto. Necessità che partiva in modo particolare da Inghilterra e Francia, avanguardie del movimento operaio, ma anche da paesi quali Polonia, Belgio e Svizzera, e che era, nonostante tutto, presente anche in Germania ed in Italia, nonché addirittura negli Stati Uniti dove, di lì a poco, sorgerà spontaneo un fortissimo movimento operaio. L’Associazione aveva come scopo di coordinare in unico disciplinato movimento questi fermenti, sia che si mantenessero sul piano difensivo sia che si portassero su quello politico e rivoluzionario.

In Francia numerose continuavano le agitazioni nelle fabbriche e il proletariato dimostrava continuamente la propria combattività anche nelle situazioni più difficili. Il governo francese doveva anche subire, oltre alle lotte operaie, le diserzioni dei soldati costretti a partire per una guerra di rapina in Messico. Grande eco inoltre aveva avuto l’esplodere dei moti studenteschi a Parigi, segno che anche tra le file della piccola borghesia vi era del ribellismo. Ai moti studenteschi seguì una dura repressione che portò ad arresti ed espulsioni dei maggiori rappresentanti del movimento. Sulla questione studentesca notevoli furono gli scontri fra Marx e i proudhoniani: mentre questi ultimi appoggiavano incondizionatamente i moti e li applaudivano da tutta Europa, Marx (e noi con lui) provammo sempre decisa diffidenza verso le rivendicazioni studentesche.

Ma è in Inghilterra, dove è più forte in quanto a numero e a capacità di intervento, che l’Associazione dimostrò la propria unitaria volontà di difendere la causa proletaria. Si può ad esempio ricordare una gloriosa lotta proletaria del tempo, vinta grazie all’intervento diretto del Consiglio centrale. Nel marzo del 1866 esplodeva a Londra lo sciopero dei sarti con rivendicazioni di tipo salariale: ad esso la borghesia rispose assoldando crumiri sul continente in modo di spezzare il movimento. Su questa vera tratta di proletari, lapidario è il giudizio di Marx: «Lo scopo di questa importazione è analogo alla importazione dei braccianti indiani a Giamaica: la perpetuazione della schiavitù». Alla controffensiva padronale l’Associazione rispose energicamente sventando la mossa e facendo ottenere ai sarti l’aumento salariale per cui combattevano. L’intervento vincente dell’Associazione le procurò grande prestigio nella classe operaia, tanto che l’intero sindacato dei sarti aderì all’Associazione.

L’esempio della lotta dei sarti londinesi in breve tempo venne ripetuto in Scozia. Ad Edimburgo i sarti scesero in sciopero ed anche qui gli imprenditori risposero assoldando crumiri dalla Germania. Da Londra intervenne nuovamente il Consiglio centrale, appoggiato dall’Associazione londinese dei sarti, cercando di sventare il piano degli imprenditori come aveva fatto in precedenza. Gli operai scozzesi resistettero al lungo sciopero soprattutto grazie ad una provvidenziale colletta indetta dagli operai di Londra. Alcuni inviati dal Consiglio riuscirono poi ad indurre gli operai tedeschi giunti ad Edimburgo a sciogliere i contratti e a tornare in Germania.

L’opportunismo ottenne invece la meglio in un’altra lotta che esplose a fine luglio. A causa della crisi di governo e della possibile andata al governo dei conservatori, esplosero "spettacolose" dimostrazioni operaie a Londra guidate dall’Associazione tramite i suoi membri nella Reform League. La tensione raggiunse l’apice quando il 23 luglio la Lega indisse un comizio ad Hide Park a Londra, nonostante il divieto governativo. Qui la polizia aggredì i dimostranti e ne arrestò 50. Come risposta nei due giorni successivi decine di migliaia di operai si radunarono nuovamente, e molti si presentarono in piazza armati. Per evitare lo scontro il governo optò allora per l’allontanamento della polizia e delle truppe e utilizzò alcuni capi sindacali "destri" affinché convincessero gli operai a retrocedere dai propri propositi. Commenta Marx ad Engels il 27 luglio che gli operai «non concluderanno niente senza un vero scontro sanguinoso con la classe dominante».
 

14. Imperialismo in Europa

Noi comunisti poniamo solitamente il 1871 come spartiacque storico di due fasi distinte del potere borghese: mentre fino ad allora le guerre borghesi furono giudicate generalmente progressiste contro i reazionari vecchi sistemi feudali, dal 1871 in poi affermammo che la borghesia in Europa entra nella fase imperialistica, che raggiunse poi l’apice di crudeltà sterminatrice di lavoratori di tutti i paesi nel conflitto mondiale del 1914. Ma già nel 1871 la borghesia scatenava appieno tutto il suo apparato repressivo contro i Comunardi di Parigi dimostrando che, nel momento del pericolo rivoluzionario, essa era disposta a superare ogni divisione nazionale e ogni interesse parziale per unirsi in difesa dei comuni privilegi.

Nel decennio precedente il 1871 in realtà molte nazioni si erano sbloccate dai vecchi sistemi feudali che cadevano uno dopo l’altro dinanzi al vortice borghese che tutto inglobava. Dal 1859 la Prussia aveva cominciato la lunga guerra per l’unificazione dell’intera regione tedesca, la futura Germania, e dunque era in grado di avviarsi a diventare potenza capitalistica a tutti gli effetti. Nel 1861 l’Italia, con la sua unificazione, eliminava i residui pre-borghesi delle sue istituzioni. Nello stesso anno anche la Russia, con l’abolizione della servitù della gleba, si apriva al capitalismo, sebbene in regime autocratico. Nel 1865 gli Stati Uniti si potevano avviare con decisione a divenire in pochi decenni una grande potenza imperialistica. Dinanzi a queste trasformazioni radicali e rivoluzionarie il proletariato non poteva non rivendicare la propria rivoluzione.

L’Inghilterra, ben matura di merci e capitali, era costantemente impegnata al controllo del suo grande impero coloniale. Alla fine del 1865 esplose in Giamaica la rivolta contro i colonialisti. Gli inglesi soffocarono la rivolta nel sangue: circa 2.000 negri vennero impiccati, fucilati o fustigati, e numerosi villaggi messi a ferro e fuoco. Marx commenta ad Engels il 20 novembre: «I rivoltosi negri godevano della libertà, fra l’altro, di venir tassati a sangue per procurare ai piantatori i mezzi con cui importare dei servi e così far abbassare il loro proprio mercato di lavoro al di sotto dei minimi». Nel settembre di quell’anno il governo inglese si era già reso protagonista di arresti e torture contro i principali capi della Fratellanza Irlandese Repubblicana, gruppo per l’autodeterminazione dell’Irlanda legato all’Associazione. Numerosi in tutta Inghilterra furono gli scioperi operai contro questa repressione.

Mentre a Parigi si estendevano le lotte studentesche, la Francia continuava la sua guerra in Messico con lo scopo di trasformare la repubblica messicana in una colonia delle grandi potenze e in una base sicura per poter appoggiare gli Stati del Sud nella Guerra di Secessione. Le più grandi difficoltà della Francia in questa spedizione erano dovute alle continue diserzioni fra le proprie file. Marx scrive ad Engels il 26 dicembre: «Bonaparte mi sembra più traballante che mai. La faccenda degli studenti è sintomo di brutti accenni d’opposizione entro l’esercito, ma soprattutto l’affare messicano è il peccato originale del basso Impero, i debiti! Durante l’anno al gaglioffo non è riuscito un sol colpo».

Ma è in Europa che la miccia della guerra pareva potesse esplodere da un momento all’altro. Gli interessi fra le diverse nazioni andavano a scontrarsi proprio nel centro Europa. La Prussia di Bismarck, impegnata poco prima contro la Danimarca per la regione dello Schleswig-Holstein, ora indirizzava le sue mire verso gli altri staterelli della regione tedesca, ma soprattutto contro lo strapotere nella regione dell’Austria. Dietro la facciata assolutistica, addirittura aristocraticamente feudale, del governo Bismarck si muovevano in realtà la complessa e potente macchina del regime borghese, ovvero banche, grande industria, apparato militare. La Russia, dal canto proprio era interessata alle mene di Bismarck in quanto avrebbero distolto la Prussia dalle sue mire espansionistiche verso la Polonia. L’Austria, timorosa di una guerra con la Prussia, cercava l’appoggio di Napoleone III. Scriveva Engels a Marx il 13 aprile: «La borghesia non ha la stoffa per dominare essa stessa direttamente, e quindi dove una oligarchia non può, come qui in Inghilterra, assumersi la guida dello Stato e della società, contro buon pagamento, nell’interesse della borghesia una semi-dittatura bonapartista è la forma normale; essa attua gli interessi della borghesia persino contro la borghesia, ma non le lascia nessuna partecipazione al potere».
 

15. La Guerra austro-prussiana

Nel maggio del 1866 la guerra austro-prussiana si fa sempre più vicina. Fra le diverse carte in suo possesso Bismarck gioca quella dell’Italia, che vorrebbe strappare il Veneto agli Austriaci. Fra questi movimenti bellici nasce in Engels una speranza che così si esprime in una lettera a Marx il 1° maggio: «Spero che, se gli riesce, i berlinesi insorgano. Se essi la proclamano la repubblica, allora tutta l’Europa può essere sovvertita in 15 giorni».

L’esercito prussiano appare d’altronde in pessime condizioni, il morale non è alle stelle e Marx ed Engels ritengono che la Prussia può vincere la guerra solamente nel caso che l’Austria attacchi per prima. Continua Engels l’11 giugno: «Se questa occasione passa senza che se ne tragga profitto, e se la gente si adatta a tutto questo, allora noi possiamo tranquillamente far fagotto con tutti i nostri cenci rivoluzionari e gettarci sulla sublime teoria».

La guerra con l’Austria si combatte fra il giugno e il luglio del 1866. Engels puntualmente ne analizza le vicende partendo dalle minute questioni delle operazioni di guerra. Scopo del lavoro è di «indagare il loro presumibile influsso sulle operazioni militari future». Engels individua negli Austriaci una certa superiorità su diversi fronti, fra cui il numero e la migliore organizzazione dell’esercito. Ma i Prussiani, in deficit organizzativo a causa di cinquant’anni di pace, hanno dalla loro innanzitutto l’armamento, decisamente più moderno e funzionale. Ed è proprio questa tecnica superiore che darà il 3 luglio la vittoria alla Prussia nella decisiva battaglia di Konniggratz.

Ma non è l’unico fronte su cui la Prussia si trova vincitrice: in breve tempo le truppe di Bismarck occupano gli Stati dell’Hannover, dell’Assia Elettorale e della Sassonia. La conseguenza prima di queste strabilianti vittorie sono per Engels chiare: «In una sola settimana l’esercito prussiano si è conquistato la posizione migliore che abbia mai avuto. Ora può essere sicuro della propria superiorità su qualsiasi altro nemico». E ancora: «La storia è semplicemente questa: la Prussia ha 500.000 fucili ad ago e il resto del mondo non ne ha 500» (Lettera a Marx del 9 luglio).

Engels, attraverso le sue continue e profonde analisi della questione militare tedesca, è potuto giungere alla conclusione di ritenere il conflitto non concluso, ma solo iniziato. Intuisce molto bene che la Russia, ora timorosa della potenza prussiana, sarà costretta ad allearsi con l’Austria. Ma soprattutto comprende appieno che il futuro grande conflitto che la Prussia intraprenderà sarà contro la Francia. Anche su tutto questo Marx ed Engels hanno posizioni precise, solide come tesi di partito: la Prussia si avvia all’unificazione di una futura nazione tedesca e ciò è fattore decisamente progressista in quanto portatore della vittoria della borghesia sulle svariate aristocrazie degli staterelli tedeschi. Ancora Engels: «Bismarck, che, per poter governare alcuni mesi con apparenze feudali e assolutistiche, persegue all’estero furiosamente la politica della borghesia, prepara il potere a questa, si incammina su una strada sulla quale si può procedere solo con mezzi liberali, anzi rivoluzionari». Prosegue scrivendo a Marx il 25 luglio: «Bismarck sarà costretto ad appoggiarsi alla borghesia, di cui abbisogna contro i prìncipi dell’Impero. Forse non in questo momento, poiché adesso gli bastano ancora il prestigio e l’esercito. Ma già per assicurarsi dal parlamento le condizioni necessarie per il potere centrale, deve concedere qualche cosa ai borghesi, e il corso naturale delle cose costringerà sempre lui e i suoi successori a far nuovamente appello ai borghesi; cosicché, anche se è possibile che Bismarck adesso non conceda ai borghesi niente di più di quanto proprio debba, dovrà tuttavia spingersi sempre più verso di loro».

Nell’agosto dello stesso anno veniva stipulata la pace a Praga. Con essa la Prussia otteneva buona parte della Germania del Nord, nonché il controllo militare sugli staterelli della Germania del Sud. L’Austria, oltre a questo, perdeva il Veneto che passava al Regno d’Italia. Inoltre i fatti mettevano in evidenza che Napoleone III era impotente a condurre una guerra vittoriosa e che la Russia avrebbe dovuto radicalmente mutare il suo rapporto amichevole con la Prussia.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

PARTE SECONDA - 1866-1869

Crescita organizzativa e affinamento dottrinario
 

1. Il Congresso di Ginevra (1866)

Il primo congresso dell’Associazione si svolse a Ginevra tra il 3 e l’8 settembre del 1866 con lo scopo di tirare le doverose conclusioni dei primi due anni di attività, di trarne prospettive e piani razionali sui movimenti da intraprendere nell’immediato futuro. Il Congresso, riporta Tullio Martello (un avversario) nella sua Storia dell’Internazionale del dicembre 1872, «fu convocato nell’aula magna della birreria Treiber, e fu presieduto dal sig. Jung. Vi erano rappresentate le sezioni operaie di Ginevra, Chaux-de-Fonds, Losanna, Montreux, Zurigo, Wezikon, Colonia, Solingen, Stoccarda, Magdeburgo, Parigi, Lione, Roano, ed il Comitato centrale di Londra, in tutto sessanta delegati». Rappresentavano sezioni internazionaliste e società operaie.

La relazione ufficiale del Consiglio centrale venne redatta da Marx, il quale però non si presentò al Congresso. Nella relazione vennero riconosciuti gli Statuti provvisori come adeguato piano organizzativo dell’Associazione. Londra fu riproposta nuovamente come sede del Consiglio centrale e fu ribadito che il segretario generale, eletto per un anno, era il solo funzionario stipendiato dell’Associazione. Tutte queste proposte furono votate a maggioranza. La relazione dichiarava apertamente il fine a cui l’Associazione tendeva, la società comunista. Si affermava: «Uno dei grandi fini dell’Associazione è sviluppare negli operai dei diversi paesi non soltanto il sentimento ma il fatto della loro fraternità e di unirli per formare l’armata dell’emancipazione».

Il Congresso propose a Marx di assumersi l’incarico di presidente del Consiglio centrale, carica che però Marx rifiutò.

Sul campo delle conquiste quotidiane l’Associazione assunse con determinazione i suoi nuovi compiti, come l’ottenimento delle otto ore giornaliere di lavoro. La relazione di Marx affermava, tra l’altro: «È necessario far recuperare l’energia e la salute alla classe lavoratrice che costituisce la gran massa di ogni nazione. Non è meno necessario fornire ad essa la possibilità di sviluppo intellettuale, di relazioni sociali, e di attività sociale e politica. Proponiamo otto ore di lavoro come limite legale della giornata lavorativa. Tale limite viene generalmente richiesto dagli operai degli Stati Uniti d’America e il voto del congresso ne farà lo stendardo comune di tutte le rivendicazioni delle classi operaie del mondo».

C’e da notare che il grido delle otto ore scaturiva non da un "desiderio" di un capo o di un partito ma dalla realtà del movimento nel suo avamposto. Scrive Marx a Kugelmann il 9 ottobre: «Le rivendicazioni da me avanzate a Ginevra furono quelle imposte dal giusto istinto degli operai». Conclusa da un anno la Guerra di Secessione, il proletariato americano sùbito si era posto obiettivi classisti che vennero definiti poi nell’agosto del 1866 a Baltimora con la fondazione del National Labor Union, che immediatamente istituì il suo programma proprio sulla conquista della giornata lavorativa di otto ore. Il Congresso di Baltimora e il Congresso di Ginevra si dettero dunque contemporaneamente gli stessi obiettivi.

La relazione del Consiglio approfondiva poi le questioni sul lavoro minorile e femminile, proponendo che l’Associazione si desse l’obiettivo di ottenere leggi decisamente restrittive sull’orario di lavoro dei bambini e allo stesso tempo invitava i propri aderenti a non consentire che la propria prole fosse impiegata in lavori nocivi e controproducenti rispetto la crescita sana ed educata. Della relazione vennero accettati dal Congresso anche i punti sul lavoro cooperativo e sulle armate permanenti delle nazioni. Su quest’ultimo punto Marx disse: «Proponiamo l’armamento universale del popolo e la sua completa istruzione all’uso delle armi». Si riconobbe poi nella relazione la grande vittoria che l’Associazione aveva conseguito verso le Trade Unions le quali, con il Congresso di Sheffield di due mesi prima, avevano deciso di sposare la causa dell’Associazione per l’emancipazione generale dei lavoratori.

Due punti della relazione non vennero accettati: quello sulla questione polacca, per una ricostituzione della Polonia su base democratica, pronta a far da cuscinetto proletario all’avanzata reazionaria della Russia zarista; quello per l’abolizione delle imposte indirette, proposta da Marx in quanto, egli affermava, «il metodo delle imposte indirette nasconde al contribuente ciò che egli paga allo Stato, mentre le tasse dirette non consentono la simulazione».
 

2. Risorgente proudhonismo

Ma il Congresso di Ginevra è da ricordare anche per le polemiche che i proudhoniani francesi sollevarono contro la relazione di Marx e contro alcuni fondamenti dello Statuto dell’Associazione. L’inconsistenza delle tesi piccolo borghesi di Proudhon e dei suoi Marx l’aveva già dimostrata in passato col suo scritto La Miseria della filosofia e altri lavori, ma la polemica con costoro non era finita e sarà anzi una costante del percorso storico dell’Associazione. Così, rispolverando vecchie ma ancora vegete obiezioni, i proudhoniani al Congresso criticarono l’indirizzo di Marx sulla futura società comunista, rigettandone la previsione della distribuzione sociale dei prodotti e dell’abolizione di ogni forma di merce. Attivi come un tempo, affermarono al Congresso che lo scontro dialettico servo-padrone, o meglio proletario-borghese, ad altro non era dovuto che ad un’ingiustizia di principio: si trattava ora di "ristabilire la giustizia violata". L’ingiustizia sarebbe stata nel fatto che alla prestazione che il lavoratore fa della propria forza-lavoro, il borghese non corrisponde l’intera contropartita.

I proudhoniani dicevano ai borghesi: «Vi è stato reso un servizio per il quale i vostri concittadini vi chiedono oggi la contropartita; e, in nome della solidarietà, della reciprocità tra tutti, vi ingiungono di compiere i vostri doveri come avete goduto dei diritti; o praticate lo scambio alla pari, o vi escludono dal gruppo» (Memoria dei delegati francesi al Congresso di Ginevra). Nella società idealizzata dai proudhoniani tutti si sarebbero scambiati i prodotti a piacimento, tutti avrebbero avuto lo stesso salario, tutti sarebbero diventati piccoli borghesi proprietari di denaro. Affermavano: «Ciò che vogliamo è la libertà di organizzare lo scambio tra produttori, servizio per servizio, lavoro per lavoro, credito per credito. In ogni speculazione commerciale, uno dei due contraenti perde ciò che l’altro ha guadagnato: è lo stato di guerra. A noi spetta il compito di organizzare la pace nell’industria con la soppressione graduale dei rischi del commercio, con la cooperazione che, basata sulla reciprocità e la giustizia, non può ammettere, tra i contraenti, che un mutuo scambio di servizi equivalenti». Nulla, dunque, a che vedere con le tesi comuniste che si battono per una società fondata sull’abolizione dello scambio fra equivalenti, sostituita da misere utopie, che se fossero attuabili sarebbero reazionarie, tipiche della mentalità piccolo-borghese.

I proudhoniani attaccavano poi al Congresso la formula comunista «da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni». Per contro le tesi francesi, mentre da una parte appoggiavano volgarmente il ruolo quasi divino dello Stato, dall’altro criticavano aspramente il centralismo dell’Associazione propugnando invece una cooperazione che non prevedesse gerarchie e capi ma che era in realtà «il potere, la facoltà che ha ognuno di godere delle forze economiche».

Ancora peggiori erano le tesi, decisamente enigmatiche, riguardo all’inutilità degli scioperi per gli operai, che facevano presagire ulteriori involuzioni.

Infine i proudhoniani, attraverso Tolain, volevano far passare la risoluzione apertamente strumentale secondo la quale «solo gli operai potevano rappresentare gli operai». La proposta, scopertamente strumentale, venne fortunatamente bocciata, grazie anche all’intervento di alcuni delegati che sottolinearono che l’Associazione doveva la propria fondazione anche e soprattutto a cittadini borghesi che avevano sposato la causa proletaria.

Sulla opposizione proudhoniana riportiamo un commento che Marx al riguardo scrive a Kugelmann il 9 ottobre: «Essi cianciano di scienza e non sanno nulla. Disdegnano ogni azione rivoluzionaria, cioè ogni azione che scaturisca dalla lotta di classe stessa, ogni movimento sociale concentrato, tale cioè che si possa attuare anche con mezzi politici (come per es. riduzione della giornata di lavoro per legge), col pretesto della libertà e dell’antigovernativismo o dell’individualismo antiautoritario – questi signori che da 16 anni hanno sopportato e sopportano tanto tranquillamente il più miserabile dispotismo! – e predicano in realtà la volgare economia borghese, soltanto proudhonianamente idealizzata! Proudhon ha fatto un male enorme. La sua parvenza di critica e la sua parvenza di opposizione agli utopisti (egli stesso non è che un’utopista piccolo borghese, mentre nelle utopie di un Fourier, di un Owen, ecc., vi è l’intuizione e l’espressione fantastica di un mondo nuovo) conquistò e corruppe dapprima la jeunesse brillante, gli studenti, poi gli operai, specialmente quelli parigini che, come operai di lusso, sono ancora molto legati, senza saperlo, al vecchio sudiciume. Ignoranti, vanitosi, arroganti, chiacchieroni, enfaticamente tronfi, erano sul punto di rovinare tutto perché accorsero al congresso in numero per nulla corrispondente al numero dei loro membri».
 

3. Una forza proletaria mondiale

L’Associazione si imponeva all’attenzione dell’Europa. Lo stesso Congresso di Ginevra aveva suscitato largo eco anche sulla stampa borghese. Una potenza nuova era riconosciuta: l’organizzazione proletaria mondiale! La crescita dell’Associazione nel 1867 fu in stretto rapporto con il rafforzarsi delle lotte internazionali del proletariato.

Nonostante che non fossero state votate al Congresso, le tesi di Marx sulla questione polacca ottennero un grande successo il 22 gennaio 1867, in un comizio che celebrava il 4° anniversario dell’insurrezione polacca. Nella sua relazione Marx rendeva appunto comprensibile a chiunque la propria posizione riguardo alla Russia, e cioè che essa rappresentava il principale elemento reazionario dell’Europa. Da una parte Marx ammoniva che l’abolizione della servitù della gleba, avvenuta nel 1861, non era, come si sarebbe potuto pensare, fattore che di per sé avesse portato la Russia fra le nazioni capitalisticamente in evoluzione, era bensì portatore di una maggiore centralizzazione del potere zarista contro la nobiltà.

Marx faceva poi notare all’uditorio come la Russia avesse svolto una politica offensiva in Asia (guerre nel Caucaso e nel Mar Nero) e come ora si ponesse come sue nuove mete le regioni dell’Europa orientale. La Russia era dunque un paese, nella analisi di Marx, che mirava alla conquista di ampi territori e che aveva inoltre sempre svolto, tanto nelle rivoluzioni del 1830 quanto in quelle del 1848, il ruolo di gendarme europeo. Nel febbraio del 1848, per esempio, la Russia, soffocando la Rivoluzione in Ungheria e minacciando la sua repressione sulle rivoluzioni di Austria e Prussia, aveva ricevuto applausi e consensi da parte delle borghesie occidentali. Constatava Marx: «Tutte le borse d’Europa andarono al rialzo con le vittorie sui magiari e persero ad ogni sconfitta russa».

Marx vedeva la Polonia come l’unico Stato in grado di opporsi all’autocrazia zarista e quindi invitava il proletariato occidentale ad appoggiare con tutte le forze una rivoluzione polacca per l’indipendenza. Così concluse il discorso, tenuto all’Associazione polacca di Londra: «La Polonia è il grande strumento per l’esecuzione dei progetti mondiali della Russia, ma anche il suo ostacolo insormontabile, fino a quando i polacchi, stanchi dei continui tradimenti dell’Europa, diventeranno la sferza nelle mani dei moscoviti». Infine: «C’e solo un’alternativa in Europa. La barbarie asiatica contro la direzione moscovita cadrà sulla sua testa come una valanga, oppure restaurerà la Polonia, mettendo così tra sé e l’Asia 20 milioni di eroi e prendendo fiato per completare la sua rigenerazione sociale».

Il più sostanzioso ruolo che cominciava ad assumere il proletariato tedesco si può constatare dalla seguente affermazione di Marx fatta a sua figlia Laura in una lettera del 13 maggio 1867: «La classe operaia dei centri maggiori della Germania comincia ad assumere un atteggiamento più minaccioso e risoluto. Un bel giorno tutto si mette a ballare ben bene!». Il timore di Marx ed Engels è che però il moto rivoluzionario o la futura guerra della Prussia contro la Francia scoppiassero troppo presto, senza dare il tempo all’Associazione di maturare politicamente: «Per quanto riguarda la guerra, sono completamente del tuo parere. Adesso non avrebbe che effetti dannosi. Rimandarla, anche soltanto di un anno, per noi sarebbe tanto oro» (Marx a Engels, 7 maggio 1867).

In Inghilterra l’Associazione era ormai una potenza, grazie anche al prestigio che aveva ottenuto nei suoi interventi nelle lotte operaie. Ad un tentativo padronale di diminuire del 5% i salari, gli operai di alcune fabbriche avevano risposto con la richiesta, e la conquista, dell’orario ridotto. L’Associazione era intervenuta in appoggio allo sciopero dei cestai di Londra, nell’ottobre del 1866, riuscendo a bloccare la mossa, oramai più volte collaudata dalla borghesia, di richiamare crumiri dall’estero. L’Associazione si oppose risolutamente anche all’attacco perpetrato dalla Reale Commissione nei confronti delle Trade Unions che, con il pretesto di alcuni atti di violenza, si volevano dichiarare illegali. La risposta del Consiglio è grandiosa, attraverso riunioni in ogni principale città ed una conferenza nazionale. Per il resto l’attenzione del proletariato britannico era indirizzata verso la Reform League. Però il Consiglio dovrà constatare al Congresso di Losanna, nel settembre del 1867, che «risulta impossibile al Consiglio Generale richiamare l’attenzione degli operai sulle questioni sociali, di cui costoro non vedono la soluzione che in un avvenire molto lontano».

Anche in Francia il prestigio dell’Associazione cresceva ogni giorno. Quando nel febbraio del 1867 esplose a Parigi lo sciopero dei lavoratori del bronzo il Consiglio Generale intervenne direttamente tramite collette ed inoltre convinse le Trade Unions ad appoggiare finanziariamente il proletariato parigino. Da questa azione e dal suo conseguente successo, in molte città della Francia l’Associazione vide crescere i suoi membri da poche decine a qualche centinaio. A Neville-sur-Saône venne fondata una cooperativa operaia, a Caen gli operai ottennero la diminuzione dell’orario di lavoro a parità di salario, a Fuveau molti minatori aderirono all’Associazione per la fiducia che questa si era conquistata nell’appoggiare le loro lotte.

Sorse poi una sezione negli Stati Uniti, appena usciti e assai provati dalla guerra di secessione, nonostante le ovvie difficoltà di comunicazione. Il National Labor Union, nato nell’agosto del 1866, ponendosi l’immediato obbiettivo delle 8 ore, aderì all’Associazione. Vi aderì anche uno dei più importanti sindacati americani, l’Unione nazionale dei fonditori in ferro, sindacato che contava militanti dal Canada alla Colombia britannica, nonché il Club comunista di New York.

Ben ventun sezioni si erano ormai costituite in Svizzera. Anche in Belgio la situazione si faceva più rosea grazie all’intervento risoluto del Consiglio sui fatti della rivolta di Manchiennes, dove ad uno sciopero dei minatori i militari avevano risposto col fuoco. L’intervento dell’Associazione fu provvidenziale nell’aiutare le vedove degli uccisi i feriti. In un volantino il Consiglio affermava: «Al momento presente, in tutti i paesi civili la classe operaia sta risorgendo con forza, e particolarmente laddove, come in America e in Inghilterra, l’industria è più progredita, l’organizzazione della classe operaia stessa è più compatta e la lotta contro la borghesia è più veemente».

Rimaneva più difficile l’inserimento dell’Associazione in nazioni quali la Spagna e l’Italia, sebbene in quest’ultima sezioni incominciassero a formarsi nelle principali città quali Napoli, Genova, Milano e Bologna. In queste due nazioni, la mancanza di un proletariato maturo, costringeva i militanti rivoluzionari in vaghe formule fra il democraticismo e l’estremismo che sarebbero sfociate nell’ideologia anarchica.
 

4. Il Congresso di Losanna

Il secondo Congresso dell’Associazione si svolse a Losanna fra il 2 e l’8 settembre del 1867. In contemporanea si teneva a Ginevra il Congresso della Lega della Pace e della Libertà, di stampo democratico, in cui militavano uomini come Giuseppe Garibaldi, Victor Hugo e John Stuart Mill. Al tentennamento di alcuni militanti dell’Associazione di formare un "fronte" comune con la Lega, Marx riuscì a far passare la delibera che nessuna partecipazione ci poteva essere a livello ufficiale.

La relazione del Consiglio centrale a Losanna metteva in chiaro due punti dolenti: 1° l’Associazione viveva economicamente fra grossi debiti, 2° la repressione del governo francese contro il proletariato rendeva i contatti del Consiglio con la sezione francese decisamente difficili. Il Consiglio poteva invece gioire nella propria relazione riguardo ai progressi numerici e politici fatti nell’ultimo anno e degli interventi nelle lotte di classe vittoriose del proletariato europeo. Inoltre il Congresso ebbe da risolvere alcuni problemi pratici di organizzazione.

Ciò che risultava da questo secondo congresso dell’Associazione era la accresciuta influenza delle tesi proudhoniane, soprattutto tra i delegati francesi. Mentre il precedente vedeva le proposte di Marx spontaneamente accettate, a Losanna il Congresso lasciava passare molte tesi che si richiamavano ai concetti di Proudhon. Solo al Congresso del 1868, a Bruxelles, tali dottrine saranno riconosciute erronee e respinte.

A Losanna il proudhoniano Cesar de Paepe, ad esempio, enfatizzava oltre misura l’obiettivo per lui fondamentale della trasformazione delle banche nazionali in banche di credito gratuito, quasi implicassero la società comunista. I proudhoniani tiravano fuori, nelle loro relazioni, continue miserie piccolo borghesi poste in modo tale che potessero sembrare ricchezze rivoluzionarie. Parole quali "libertà" e "giustizia" erano continuamente ripetute senza comprendere che questi "valori" appartengono alla classe borghese e non alla proletaria.

Rispetto al Congresso di Ginevra, a Losanna i proudhoniani trovarono un terreno più propenso ad accogliere il loro ideale piccolo borghese di società futura e poterono riproporre all’uditorio le famose formule per cui il problema della società capitalistica sarebbe stato essenzialmente il suo fondarsi su una "ingiusta ripartizione della ricchezza", ingiustizia da risolvere in seno ad essa. Così i proudhoniani riaffermavano la loro utopia di un socialismo in cui sussistesse ancora lo scambio delle merci, ovvero un capitalismo che rendesse ogni rappresentante della società un piccolo borghese pari ad un altro.

Esclamava il francese Chemale al Congresso: «il prodotto si scambi con un prodotto di analogo valore, altrimenti c’è imbroglio, frode, furto!». Per il proudhoniano il vero problema stava in uno scambio ineguale rispetto ai valori delle merci. Per Marx invece (cosa che verrà compiutamente dimostrata su Il Capitale) la disuguaglianza sociale nel mondo capitalista si basava proprio sullo scambio "onesto", di equivalenti; dietro la "giustizia" e la "libertà" dello scambio si celava l’oppressione reale di classe. Per il proudhoniano il problema sociale starebbe nel fatto che l’operaio non è pagato al suo giusto valore, quando Marx già nella Miseria della filosofia aveva enunciato che il giusto valore del prodotto corrisponde al tempo di lavoro necessario per produrlo e che di conseguenza il "giusto valore dell’operaio", merce come un’altra in questa schifosa società, corrisponde al tempo di lavoro necessario per produrre ciò di cui esso ha bisogno per la sopravvivenza propria e della famiglia.

Il delegato Vasseur fece poi passare delle tesi riguardo allo Stato che decisamente si allontanavano dal comunismo rivoluzionario. Vasseur asseriva nella sua relazione che lo Stato era un ente autonomo, indipendente dai rapporti sociali esistenti, nonché frutto di un patto sociale dei cittadini che in esso esprimevano il proprio libero arbitrio. Eresie per noi marxisti in quanto ciò avrebbe voluto dire tornare indietro alle tesi di un secolo prima e negare la verità rivoluzionaria che afferma che lo Stato null’altro rappresenta se non il comitato d’affari della borghesia e che da quest’ultima è di conseguenza determinato. Il proudhoniano Vasseur concludeva asserendo che la questione dello Stato "ingiusto" era risolvibile attraverso la riformulazione ex novo del "senso di giustizia" e un grande impegno collettivo "autentico e reciproco".

Altre tesi proudhoniane passate al Congresso riguardavano la necessità delle cooperative, la richiesta di monopolio economico dello Stato, la ricerca di "un’eguale ripartizione del lavoro e del profitto". Tutte formulazioni queste riprese e propalate ampiamente in tutte le successive ondate degenerative del movimento: il linguaggio dell’opportunismo, che pretende di essere sempre "nuovo" è invece sempre lo stesso!

Il Congresso riusciva comunque a dichiarare: «Nella situazione presente dell’industria, che è di guerra, ci si deve prestare aiuto reciproco per la difesa del salario; ma ritiene suo dovere proclamare che c’è un fine più elevato da perseguire: la soppressione del salariato». Inoltre il Congresso individuava nella diffusione della piccola borghesia un fenomeno inedito che meritava di essere studiato approfonditamente. Veniva poi riconosciuto nell’introduzione delle macchine nell’industria un indispensabile e necessario progresso della società, nonostante che questo significasse nello stesso tempo la fine di ogni libertà dell’uomo nel mondo del lavoro e spingesse l’operaio nella più completa alienazione.
 

5. Il Capitale per la classe operaia

Subito dopo il Congresso di Losanna Marx riuscì finalmente a dare alle stampe l’opera per la quale aveva sacrificato gran parte della sua vita privata e familiare. Personale atto d’amore per la classe operaia, risultato della passione e delle notti insonni di Carlo Marx, è incandescente materiale, energia che erompe dal sottosuolo sociale, la non mai dimenticabile Bibbia di una nuova Rivoluzione, parole che dovevano essere scritte, ciclopico monolite che a mezzo Ottocento annunciava ad amici e nemici la necessità di una liberazione di forme nuove. È un testo quindi di classe, e di partito, dal sottotitolo ben chiaro: Critica dell’economia politica. Il 17 aprile del 1867 Marx scriveva a Johann Philipp Becker, compagno della sezione di Ginevra, riguardo a Il Capitale: «Si tratta certamente del proietto più tremendo che sia mai stato scagliato in testa ai borghesi (inclusi i proprietari fondiari)». Scrive Engels, in una delle sue recensioni de Il Capitale: «Si può dar per certo che tutte le frazioni del partito saluteranno questo libro come la loro Bibbia teoretica, come l’arsenale dal quale attingere i loro argomenti più essenziali».

Il Capitale riscosse subito enorme prestigio perché, da una parte, trasportava definitivamente l’ideologia comunista entro i limiti della conoscenza scientifica, dall’altro, usciva proprio nel momento in cui l’economia politica borghese entrava nella sua irreversibile crisi. Il capitalismo del tempo andava cedendo alle sue illusioni positiviste: i problemi e i contrasti sociali venivano sempre più a smentire le belle parole borghesi di una società futura in cui ogni problema sarebbe stato risolto per via pacifica. Marx individuava in David Ricardo l’ultimo grande economista della borghesia, l’ultimo a porre la sua economia politica su basi scientifiche. Andare oltre i risultati ottenuti da Ricardo voleva dire riconoscere non solo l’incapacità della borghesia di far teoria, ma soprattutto riconoscere nella società presente i presupposti per la sua distruzione e le premesse di una nuova società. Per la cruda realtà del processo evolutivo la società borghese si incamminava verso la sua ultima fase, quella senile dell’imperialismo.

Ricardo era morto nel 1823, quasi cinquant’anni prima della pubblicazione de Il Capitale. Da quell’anno in poi l’economia politica borghese navigava nel nulla, fingendo od illudendosi di scoprire nuovi antidoti per i mali della sua società, inebriandosi per scoperte o fasulle o che erano già state messe in luce in precedenza, addirittura da secoli. In una nota de Il Capitale Marx spiega: «Intendo per economia classica tutta l’economia che, a partire da W. Petty, indaga il nesso interno dei rapporti di produzione borghesi, in contrasto con l’economia volgare che gira a vuoto entro i confini del nesso apparente, rimastica sempre di nuovo il materiale da tempo fornito dall’economia scientifica per rendere plausibilmente comprensibili i cosiddetti fenomeni più grossolani e soddisfare il fabbisogno quotidiano dei borghesi; ma, per il resto, si limita a dare forma pedantesca e sistematica alle concezioni banali e compiaciute degli agenti della produzione borghese sul loro proprio mondo, il migliore dei mondi possibili, proclamandole verità eterne».

Questa economia politica che, timorosa delle sue possibili e dialettiche conclusioni, si era ritirata dal porsi teoria scientifica e preferiva crogiolarsi nel romantico idealismo addirittura pre-hegeliano, poteva a questo punto solo attendere che qualcosa o qualcuno la liquidasse completamente sul piano teorico. Questo qualcosa fu Il Capitale. Esso doveva la sua importanza al fatto che, oltre a dimostrare la struttura caduca e transeunte di questa società e il suo futuro crollo, fondava la critica dei grandi fra i pensatori dell’economia borghese: così Marx rilegge Smith e Ricardo, mentre disprezza e scaglia la verità sociale sul viso degli economisti volgari allora in voga quali John Stuart Mill, Malthus, Bastiat.

Marx era cosciente della fondamentale necessità de Il Capitale per la causa dell’emancipazione del proletariato. L’importanza, la necessità, di una salda teoria è la condizione affinché il partito cresca e si rafforzi e possa guidare senza tentennamenti la classe proletaria. Marx il 23 agosto del 1866 aveva spiegato in questo modo, a Kugelmann, il fatto che non avrebbe partecipato al congresso di Ginevra: «Sebbene io dedichi molto tempo ai lavori preparatori per il Congresso di Ginevra, non potrò andarvi, né lo voglio, perché non è possibile un’interruzione di qualche durata del mio lavoro. Ritengo molto più importante per la classe operaia ciò che io faccio con questo lavoro che non tutto ciò che potrei fare personalmente in qualunque congresso».

Uno stretto rapporto legava la pubblicazione de Il Capitale e i fatti della Associazione. Essendo pubblicato in tedesco, la sua prima diffusione si ebbe in Prussia e nei vari staterelli in cui era allora divisa la Germania. Il successo fu quello atteso da Marx: la parte più avanzata della borghesia tedesca che lo ebbe fra le mani colse la grandiosità dell’opera e del suo fine. Ma quello che stupisce l’odierna "civiltà dello spot" è la diffusione che il libro ebbe fra la classe proletaria: quella classe, oggi decerebrata da dosi massicce di cultura borghese e da tutti bistrattata come incolta e facile preda delle mode, aveva allora saputo dedicarsi allo studio e comprendere l’arduo contenuto – mortale per i suoi nemici – de Il Capitale. Sei anni dopo, nel 1873, quando venne pubblicata la seconda edizione, Marx poteva constatare nel Poscritto: «La comprensione che il Capitale ha rapidamente trovato in una vasta cerchia della classe operaia tedesca è la migliore ricompensa del mio lavoro. Un uomo che sul piano economico esprime il punto di vista della borghesia, il signor Mayer, fabbricante viennese, ha giustamente notato, in un opuscolo apparso durante la guerra franco-prussiana, che la grande sensibilità teorica, già ritenuta patrimonio ereditario tedesco, è stata completamente smarrita dalla cosiddette classi colte della Germania, e invece si ravviva nella sua classe operaia».

Va riconosciuto alla classe lavoratrice di un secolo addietro, pur nelle sue immaturità e anche nei suoi gravi errori di prospettiva e di metodo, uno giovanile slancio verso la lotta la più decisa e una disponibilità sincera a studiare e conoscere il mondo e i propri destini. Una freschezza di forze, limpidezza di linguaggio e dirittura di intenti che oggi fa risaltare tutto quanto dal carognume politico "operaio" e del sindacalismo borghese è reso contorto, indecifrabile, vile.

Per un edizione francese bisognerà aspettare il 1875 (e sarà un’edizione tradotta magistralmente dal punto di vista scientifico), mentre per quella inglese, a cui Marx teneva in modo particolare, addirittura il 1886. Dunque la classe operaia inglese vide rinviato lo studio de Il Capitale di ben vent’anni, dieci anni dopo la fine dell’Associazione. Invece la prima traduzione fu quella in russo, ultimata da Nikolaj Francevic Danielson nel 1872. La prima edizione tedesca si diffonderà nel Regno Unito, come anche negli Stati Uniti e in Russia, esclusivamente fra i socialisti più avanzati che avevano fatto del tedesco il proprio esperanto.
 

6. Crisi economica e risposta operaia

L’Inghilterra del 1868 non è ancora uscita da una grave crisi economica: in quell’anno il suo incremento produttivo fu del 3,2%, cifra che non può ritenersi di ripresa dato il decremento dell’anno precedente del 3,1%. La Francia, ancora più scossa dalla crisi, nel 1868 presenta un +3,8%, che segue un incremento nullo della produzione nell’anno precedente. La Germania crolla invece del -6,7%, regresso che proseguirà fino al 1871. Solo gli Stati Uniti macinano profitti, dato il loro giovane capitalismo, a livello di una crescita del +20% all’anno (cfr. Il Corso...).

In un abbozzo di una storia dell’Associazione redatto da Wilhelm Eichoff nell’estate del ’68, con l’appoggio teorico di Marx, questo periodo viene magistralmente analizzato: «Gli anni 1866-1868, tanto in Inghilterra quanto sul continente, furono particolarmente ricchi di scioperi e di serrate di fabbriche da parte dei capitalisti. Causa generale di questi fu la crisi del 1866 con le sue conseguenze. La crisi aveva paralizzato la speculazione, grandi imprese erano bloccate e molti fra gli stessi imprenditori, non avendo potuto far fronte ai loro impegni finanziari dell’epoca, nella quale le ondate della speculazione erano state altissime, fecero bancarotta. Si raggiunse un vertice di stagnazione estrema di tutte le operazioni commerciali, che venne superato soltanto grazie alla straordinaria abbondanza di oro nelle banche di Inghilterra e di Francia, quell’oro che era stato accumulato nelle banche perché non era riuscito ad avere usi più continuativi per scopi commerciali. Ne risultò un ristagno generale dei traffici, accompagnato da una caduta generale dei prezzi. Soltanto i beni alimentari videro salire i loro prezzi, ed in particolare il genere di prima necessità dell’operaio, il pane, in conseguenza dei cattivi raccolti del 1866 e del 1867. E proprio mentre si manifestavano questi rincari diffusi, sopravvenne la pressione della crisi generale, che incise sull’operaio facendo diminuire l’arco temporale della sua occupazione e facendo abbassare il suo salario da parte del datore di lavoro. Ne derivarono molteplici interruzioni del lavoro e chiusure di fabbriche. Si aggiunse che soltanto negli ultimi tempi erano state abrogate in Francia e negli altri Stati continentali le leggi contro le coalizioni operaie. È pure indubbio che le risoluzioni approvate dai congressi operai di Ginevra e di Losanna esercitarono un influsso morale, ancora accresciuto per la consapevolezza che dovunque gli operai avevano nell’Associazione un retroterra efficace» (L’Associazione Internazionale degli Operai, La sua fondazione, organizzazione, attività politico-sociale e diffusione).

Il periodo successivo al Congresso di Losanna vide in Inghilterra la questione irlandese all’ordine del giorno. Il 18 settembre 1867 un gruppo di indipendentisti assalì una carrozza carceraria liberando due capi feniani. Nello scontro venne ucciso anche un poliziotto. La reazione della borghesia inglese fu da manuale: montò un processo su misura a cinque feniani, costruito con prove contraffatte o del tutto inventate. L’Associazione intervenne in appoggio ai feniani e contro la repressione poliziesca attraverso interventi e dichiarazioni ufficiali e con manifestazioni. Dell’appoggio dato dai proletari inglesi alle rivendicazioni irlandesi Marx ed Engels poterono veramente dirsi soddisfatti, non tanto per simpatia con la causa feniana, non proletaria ma democratica e repubblicana, ma per ciò che questo orientamento anti-nazionale significava realmente per il movimento operaio inglese. Engels scrisse a Kugelmann l’8 novembre 1867: «I proletari di Londra si dichiararono ogni giorno più apertamente a favore dei feniani, cosa che qui è inaudita e veramente grandiosa, a favore di un movimento che è in primo luogo violento e poi anti-inglese».

In questo periodo fecero scalpore al Consiglio Generale gli attacchi mossi in Germania al governo e ai capitalisti da Wilhelm Liebknecht, eletto in Parlamento. I suoi duri interventi provocarono tentativi da parte dei politici borghesi di zittire una fastidiosa voce ma ebbero forte risonanza fra l’opinione pubblica, soprattutto proletaria. L’8 ottobre ad esempio Liebknecht presentò, con l’appoggio da lontano di Marx, una mozione per l’insediamento di una commissione d’inchiesta sulle condizioni di vita degli operai. Il 17 ottobre chiese al Parlamento l’introduzione di un esercito nazionale in luogo dell’esercito permanente e accusò poi la Confederazione prussiana di altro non essere che "la foglia di fico dell’assolutismo". Il 19 ottobre propose, con l’appoggio di Bebel, il mantenimento e la difesa delle leggi esistenti sulla limitazione e sul controllo del lavoro dei fanciulli. Liebknecht poi riuscì a farsi strada fra l’opinione pubblica pubblicando un nuovo giornale che si proponeva d’essere paladino del programma dell’Associazione, il "Demokratisches Wochenblatt".

Ma è proprio da quanto sarà pubblicato in questo giornale che Marx ed Engels comprenderanno che la loro principale spalla tedesca, Liebknecht appunto, andava assumendo atteggiamenti di un attivismo frenetico fatto di mediazioni con la piccola borghesia tedesca e di volontà di far aderire al suo movimento politico più gente possibile, di qualsiasi estrazione. La linea che imboccherà Liebknecht si allontanerà da quella rigorosa di Marx. I sani atteggiamenti comunisti in Germania però guadagneranno di influenza in città come Berlino o in zone come l’Hannover, dove, tra gli altri, militava Ludwig Kugelmann, un medico con cui Marx fu in stretta corrispondenza epistolare per lunghi anni.

In Germania si sentiva nell’aria l’avvicinarsi di una nuova guerra, i pretesti, stavolta, venivano dall’Italia, dove le imprese garibaldine tendevano ad annettere all’Italia lo Stato della Chiesa. Un nuovo timido tentativo di intervento da parte di Napoleone III, ovviamente in difesa del Papa, si inseriva nel quadro di una possibile alleanza in funzione anti prussiana. Il fatto era che, sebbene la guerra venisse rinviata ancora di qualche anno, l’Europa non reggeva più la crisi produttiva e la saturazione dei mercati; quindi una situazione che si prospettava decisamente nervosa per la classe borghese e per i suoi interessi. A questo proposito Liebknecht cadrà in errore nei primi mesi del 1868, giudicando preferibile, in caso di guerra, una vittoria dell’Austria, da lui ritenuta nuovo baluardo rivoluzionario.

Scriveva Engels a Marx il 5 novembre 1867: «La danza può scatenarsi ogni giorno (...) Se le cose si fanno serie, la rivoluzione si troverà dovunque di fronte a tutt’altra situazione da quella del 1848. In Germania dall’anno scorso non è più possibile la confusione di allora, e anche se una subitanea rivoluzione armata non ha molte probabilità a Berlino, tuttavia il cozzo produrrebbe anche là tali sconquassi che finirebbero con la caduta dell’attuale regime. Ben presto il signor Bismarck non sarebbe più padrone della situazione. E poi questa volta anche l’Inghilterra verrebbe subito trascinata nella faccenda e innanzi tutto noi avremmo subito la questione sociale all’ordine del giorno in tutta Europa».

In Francia Napoleone III si dedicava alacremente alla repressione della sezione francese dell’Associazione. Nel dicembre del 1867 la polizia perquisì e mise sotto sequestro molte case di compagni parigini. La polizia venne in possesso così di importanti documenti di carattere rivoluzionario e in particolar modo di appoggio alla causa feniana; inoltre sequestrò il materiale che doveva servire ai francesi per allestire l’ordine del giorno del prossimo congresso dell’Associazione. La magistratura francese, in appoggio a tutto ciò, decretò illegale l’Associazione e sancì il suo ufficiale scioglimento.

L’ottima sezione svizzera otteneva grandi adesioni nel 1868 grazie soprattutto al diretto appoggio che l’Associazione aveva dato alle lotte del proletariato ginevrino nel marzo-aprile. In questo periodo infatti scesero in sciopero gli operai di Ginevra con la richiesta della riduzione della giornata lavorativa da 12 a 10 ore, nonché di un aumento salariale e di un salario calcolato ad ore invece che a giornata. L’Associazione intervenne principalmente tramite la sezione tedesca e la sezione romanza di Ginevra, nonché attraverso imponenti azioni di solidarietà di classe in tutta Europa, soprattutto in Germania. L’intervento dell’Associazione permise agli operai di Ginevra di vincere la loro lotta ottenendo non solo la giornata lavorativa di 11 ore ma soprattutto l’ottenimento di un notevole aumento salariale, pari al 10%.

L’Associazione ebbe successo anche in Belgio grazie a simili interventi. Nella primavera del 1868 gli operai del distretto minerario di Charleroi scesero in sciopero contro la limitazione della produzione e la diminuzione del salario. I fatti degenerarono il 26 marzo con sanguinosi scontri con la gendarmeria il cui risultato fu di molti feriti e 22 persone arrestate e processate. La sezione belga dell’Associazione, con il diretto appoggio del Consiglio Generale, intervenne massicciamente in favore degli scioperanti e soprattutto in favore di un’immediata scarcerazione degli operai processati. Il caso Charleroi venne dichiarato dal Consiglio Generale causa comune di tutta l’Associazione.
 

7. Il Congresso di Bruxelles

Il terzo Congresso dell’Associazione si svolse a Bruxelles tra il 6 e il 13 settembre 1868. Vi parteciparono circa 100 delegati provenienti da Inghilterra, Francia, Germania, Belgio, Svizzera, Italia e Spagna. Il Congresso fu importante soprattutto per il prevalere delle convinzioni marxiste su quelle della altre correnti, in modo particolare su quelle proudhoniane. Il Consiglio generale aveva nell’ultimo anno acquistato enorme prestigio fra gli operai europei per il suo coerente e determinato comportamento in diverse situazioni e in particolare Marx era ritenuto al Congresso il capo teorico degli operai di tutto il mondo, grazie anche alla grande risonanza avuta dalla pubblicazione de Il Capitale.

Il mese precedente al Congresso di Bruxelles, la lassalliana Assemblea Generale degli Operai tedeschi aveva, proposto un programma che sempre più si allontanava da quello di Schweitzer, seguace di Lassalle, e che si avvicinava al marxismo. L’Assemblea aveva riconosciuto che la libertà politica era presupposto delle vittorie in campo sociale (tesi enunciata tre anni prima da Engels ne La questione militare prussiana), riconosceva anche che Il Capitale di Marx aveva reso un servigio inestimabile alla classe proletaria, e incominciava a porsi il compito di azioni comuni a livello internazionale (sebbene il lassalliano in pectore Schweitzer riuscisse ad evitare l’adesione all’Associazione) e a porsi il compito della costruzione dei sindacati (sebbene anche questo risultato venisse impedito da Schweitzer). La Lega delle Associazioni Operaie Tedesche, fondata fra gli altri da Liebknecht e Bebel, aderì con il suo Congresso di Norimberga all’Associazione e inoltre si separò definitivamente dagli influssi al suo interno della borghesia liberale.

Il 28 luglio precedente Marx aveva presentato al Consiglio centrale una relazione dal titolo Le conseguenze dell’uso delle macchine da parte dei capitalisti con lo scopo che il Congresso di Bruxelles affrontasse l’argomento, trattato ne Il Capitale, strettamente teorico, puntando alla diffusione dell’economia politica nel partito del proletariato. Le tesi della relazione divennero tesi del Congresso, che riprese i seguenti punti: 1° L’introduzione delle macchine non aveva determinato, come molti borghesi sbandieravano, la netta limitazione della giornata lavorativa, ma un aumento sostanziale che andava dalle 10 ore di fine del ’700 alle 16 o 18 ore di allora; 2° aveva costretto donne e bambini a lavori disumani all’interno delle fabbriche; 3° aveva provocato la proletarizzazione sempre più diffusa fra la popolazione, trasformando ad esempio i lavoratori delle campagne, proprietari dei loro strumenti di lavoro, in operai di fabbrica proprietari di niente; 4° aveva causato un più forte accentramento di potere del capitalista sui proletari e una maggiore capacità di controllo poliziesco su di essi; 5 aveva causato la morte sul lavoro di molti operai; 6° infine l’introduzione delle macchine non aveva significato assolutamente progressiva diminuzione della miseria, ma aumento di essa e disoccupazione sempre più diffusa.

Il 4 agosto, Marx aggiungeva a queste tesi la seguente conclusione, che diverrà alla lettera risoluzione del Congresso di Bruxelles: «L’uso delle macchine si è dimostrato da un lato uno degli strumenti più potenti del dispotismo e dello sfruttamento nelle mani dei capitalisti; dall’altro lato, lo sviluppo della meccanizzazione crea le condizioni materiali necessarie per la soppressione del lavoro salariato mediante un effettivo sistema sociale di produzione».

Sempre su proposta di Marx, il Congresso di Bruxelles affrontò molto bene la questione della riduzione della giornata lavorativa, asserendo che questo punto del programma, già votato a Ginevra due anni prima, doveva ottenere un effetto pratico. Il rapporto di Marx risolveva anche abilmente le magagne piccolo borghesi dei proudhoniani al riguardo, asserendo che questa rivendicazione non avrebbe creato nessun problema all’operaio e al suo salario, né determinato per forza l’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, piuttosto avrebbe indotto una ricerca maggiore da parte dei capitalisti riguardo al perfezionamento delle macchine; inoltre avrebbe creato le condizioni indispensabili per la crescita morale della classe operaia.

Marx aveva compreso che il miglior metodo per combattere le tesi vane dei seguaci di Proudhon era smascherare le loro utopiche idealità sulla società futura, mettendo il Congresso di fronte a risoluzioni riguardo il programma pratico della società comunista. Così passarono importanti risoluzioni secondo le quali ciò che al presente era in mano ai capitalisti e ai proprietari fondiari nella futura società sarebbe divenuto proprietà comune dei lavoratori.

Dando un grande appoggio alle tesi marxiste, il compagno Moses Hess condannava poi in una relazione l’utopica teoria proudhoniana del credito gratuito e della banca di scambio, invitando i compagni delle singole sezioni a studiare la Miseria della filosofia di Marx, testo che confutava proprio queste tesi. I delegati tedeschi proposero ed ottennero di dare a Il Capitale di Marx il giusto riconoscimento da parte dell’intera Associazione. La loro risoluzione era la seguente: «Noi tedeschi delegati al Congresso internazionale degli operai raccomandiamo agli uomini di tutte le nazioni l’opera di Marx Il Capitale e li sollecitiamo di far tutto il possibile onde quest’opera importante sia tradotta nelle lingue in cui non lo è ancora, e dichiariamo che Karl Marx ha il merito inestimabile di essere il primo economista che abbia analizzato scientificamente il capitale e che l’abbia ridotto ai suoi elementi primordiali». I delegati tedeschi aggiungevano: «È il più bel contributo scientifico a favore del proletariato che la scuola tedesca abbia prodotto fino ad oggi».

Nel rapporto del Consiglio centrale a Bruxelles, ripercorrendo poi lo sviluppo delle varie sezioni, si trattava anche dell’attività oltreoceano del proletariato statunitense, scoprendo come sua deficienza la mancanza di collegamenti con il proletariato europeo. La relazione conclusiva, redatta da Marx, affermava: «Soltanto un collegamento internazionale può assicurare alla classe operaia la sua vittoria definitiva. Fu questo il bisogno che provocò la nascita dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori. Questa non è la pianta di serra generata da una setta o da una teoria: è il prodotto naturale del movimento proletario, risultato esso stesso delle tendenze normali e non reprimibili della società moderna. Profondamente penetrata dalla grandezza della propria missione l’Associazione Internazionale degli Operai non si lascerà né intimidire né sviare. Il suo destino è ormai inseparabilmente intrecciato con il progresso storico della classe che racchiude nel suo grembo la rigenerazione dell’umanità».

Da tutto ciò sin può ben comprendere il ruolo centrale che non solo Marx ma, ormai si può dire, il marxismo si era guadagnato, nonostante le opposizioni in seno all’Associazione. Il Congresso di Bruxelles del 1868 può quindi esser letto come la chiara dimostrazione che nel marxismo vengono ad intersecarsi il piano teorico con quello politico militante.
 

8. La scottante questione degli scioperi

La risoluzione fondamentale del Congresso riguardava la legittimità e l’importanza degli scioperi. La risoluzione mise definitivamente a tacere l’ala proudhoniana e impose come questione di principio quella delle società di resistenza per le lotte proletarie. All’ordine del giorno del Congresso era la questione dello sciopero, la sua importanza e la posizione che l’Associazione doveva assumere riguardo ad esso. Su questo argomento al Congresso vi fu uno scontro fra diverse sezioni: da una parte chi, come i marxisti, dichiaravano lo sciopero essenziale per lo scopo dell’emancipazione finale del proletariato; dall’altra i proudhoniani asserivano l’inutilità dello sciopero, considerato anzi dannoso per le conseguenze sui proletari.

Diciamo, a difesa degli avversari di allora, che i proudhoniani asserivano le proprie tesi anti-sciopero non in quanto frutto di quel bieco opportunismo senile che ostentano oggi, nell’anno 2000, sindacati di regime e falsi "comunisti" ben pagati. Al tempo le tesi proudhoniane erano originate da una diversa visione, ingenua più che opportunista, della società futura e dei mezzi per giungervi. Quelle tesi erano frutto di un’utopia: credere che al socialismo si potesse addivenire non attraverso l’elevarsi delle lotte di classe sul terreno della politica e del potere, bensì mediante l’estendersi progressivo delle cooperative e di varie forme di associazionismo; la diffusione capillare di queste creazioni economiche avrebbe poi, probabilmente in modo pacifico, gradualmente superato i limiti della società borghese.

Noi marxisti invece riteniamo da sempre una pericolosa illusione, spesso alimentata dalla stessa borghesia, il ritenere che le associazioni operaie possano mai scalfire i rapporti capitalistici, così come ritenemmo utopica la società futura professata da Proudhon. Economicamente a "superare" il capitalismo ci pensa il capitalismo stesso, e anche meglio delle cooperative operaie; le premesse materiali del comunismo sono contenute nel più puro e assoluto capitalismo. Il comunismo non si costruisce, si libera. Si tratta non di alimentarlo a farlo crescere a forza di piccole buone azioni, ma di spezzare le catene che lo trattengono.

Lo scontro sulla questione degli scioperi in seno al Congresso fu importantissimo per il futuro dell’Associazione. La sezione di Liegi presentò un Rapporto a riguardo che fiancheggiava e sosteneva fermamente la tesi proudhoniana della inutilità dello sciopero. La relazione batteva a più riprese su questo asserendo che lo sciopero era innanzitutto controproducente per l’operaio, un po’ come aveva detto il signor John Weston qualche tempo prima, e che inoltre esso era addirittura rovinoso per la creazione di una società futura più giusta e più equa. La formula usata dalla relazione era: «Il solo mezzo per sopprimere lo sciopero è di arrivare a uno stato sociale basato sulla giustizia, in cui la mutualità prenderà il posto dell’antagonismo». Il Rapporto spiegava poi, in una veste pseudo-scientifica, che ciò a cui l’operaio doveva in realtà puntare era il fine della "giustizia" e della "cessazione di ogni antagonismo" attraverso lo sviluppo del "senso di mutualità" nell’operaio. Raggiunto questo, secondo i proudhoniani, lo sciopero non avrebbe avuto utilità alcuna e sarebbe stato arma dannosa per proletari stessi nonché per la classe avversa.

Il rapporto proseguiva: «Gli operai devono unirsi, associarsi e sostituire le fabbriche in cui cento individui sono sfruttati da uno solo con altre, in cui cento associati si appoggiano mutuamente e ripartiscono tra loro i profitti così realizzati. Le fabbriche così costituite devono, secondo i principi di solidarietà, garantirsi la reciprocità dello scambio e la gratuità del credito». Al posto dunque del fatto rivoluzionario politico i proudhoniani di Liegi mettevano innanzi la costruzione pezzo per pezzo di varie cooperative di operai che a nient’altro avrebbero potuto giungere che ad una nuova, ma neanche inedita per noi di inizio 2000, forma di capitalismo.

Oltre che dal rapporto della sezione di Liegi, la linea dei proudhoniani contro l’uso dello sciopero veniva rappresentata anche dal Rapporto presentato al Congresso dalla sezione di Rouen. In testa a questa relazione veniva affermato che l’emancipazione del proletariato potrà avvenire soltanto quando si arriverà alla "determinazione relativa del valore dei prodotti", formula vaga ma che nasconde nient’altro che una società ancora sfacciatamente capitalista, oltre che l’ignoranza dei proudhoniani riguardo alla legge del valore che Marx aveva appena svelata ne Il Capitale. Il gruppo di Rouen dice inoltre: «L’illegittimità dell’interesse sappiamo essere la sola e unica causa delle nostre miserie».

Il peggio della relazione stava nella sua pretesa scientificità, soprattutto quando era affrontata, volgarizzando e distruggendola nella sostanza, una sorta di teoria del plusvalore. Si leggeva nel rapporto: «Siamo convinti, cittadini, che nessun codice, nessuna dottrina di giurisprudenza, nessuna morale possano in un mondo civile giustificare un simile modo di praticare lo scambio dei prodotti, e se ne può dare una dimostrazione scientifica; è impossibile che un essere ragionevole possa sanzionare che un prodotto, che racchiude una somma di ore equivalente a 4, sia scambiato a 5 o a 6, ecc., altrimenti bisognerebbe riconoscere che chi rende 3, quando gli è prestato 4, è perfettamente onesto!». La relazione si scagliava poi contro la rivendicazione della riduzione dell’orario di lavoro. A difesa di queste tesi il gruppo di Rouen adduceva che l’ottenimento dell’orario ridotto avrebbe comportato l’aumento dei prezzi di prima necessità e che, in secondo luogo, avrebbe provocato il collasso della produzione e la conseguente diffusione della disoccupazione. Si concludeva nella relazione: «Già da molto tempo l’economia sociale ha dimostrato che l’aumento dei salari era uno specchietto per le allodole per gli operai, perché ha come equivalente l’elevarsi del valore del prodotto, senza accrescerne per nulla né la quantità né la qualità».
 

9. Posizioni corrette sugli scioperi

Se queste tesi fossero passate al Congresso sarebbero state percepite dall’intera Associazione come un tradimento ed avrebbero provocato un grave sbandamento nelle file del proletariato che proprio a quei tempi era molto attivo nelle lotte di classe. Ma non passarono grazie ai risoluti interventi di alcune sezioni.

La sezione di Ginevra, che non aveva alcun dubbio sull’utilità dello sciopero, poneva anzi all’ordine del giorno la necessità di creare ovunque delle casse centrali di previdenza che aiutassero il proletariato ove fosse in difficoltà nelle sue lotte quotidiane. Nel rapporto dei ginevrini veniva spiegato che un tale tipo di cassa esisteva già da 15 anni a Ginevra e che questo aveva permesso alle lotte operaie di avere successo.

Contro le tesi proudhoniane si oppose nettamente in particolar modo l’articolato rapporto della sezione di Bruxelles. La relazione si apriva nel seguente modo: «Crediamo di dover reagire contro i cooperatori esclusivisti che, al di fuori della società di consumo, di credito e di produzione, non vedono tra i lavoratori nessun movimento serio e in particolare considerano lo sciopero inutile, o addirittura funesto per gli interessi dei lavoratori». L’ampio intervento seguiva poi con l’attaccare la tesi di Adam Smith sugli scioperi, tesi che da sempre era stata sbandierata dai borghesi. Questa tesi affermava che al proletariato nulla serve scioperare in quanto non è in grado di resistere molto tempo senza lavorare; mentre, al contrario, il borghese ha tutti i mezzi a disposizione per poter resistere a lungo allo sciopero dei propri lavoratori. La sezione belga affermava che mentre una tale tesi poteva essere attuale e realista al tempo della sua formulazione, vale a dire nel secolo precedente, ora non poteva più essere valida in quanto gli operai, rispetto ad allora, erano oggi in grado di resistere a lungo grazie alle casse delle loro associazioni e grazie all’appoggio del proletariato di altri settori. D’altra parte si doveva considerare che il borghese avrebbe resistito oggi un tempo molto inferiore, in quanto aveva la necessità continua di nuove entrate per far fronte ai propri creditori e alle enormi spese fisse.

La sezione di Bruxelles passava poi ad accusare coloro che deprecavano l’interruzione del lavoro in quanto avrebbe interrotto anche la produzione. Si dice con sdegno nella relazione: «Deplorano il tempo che gli operai perdono con esso; si ferma la produzione, dicono, come se i prodotti facessero difetto! Aggiungono anche che, quando l’operaio rimane 8 o 15 giorni senza far niente, non per questo consuma meno. Questo tipo di linguaggio è semplicemente ridicolo, quando si pensi che nella società ci sono uomini che nella loro vita non hanno mai prodotto un bel niente, non hanno mai lavorato un quarto d’ora».

Con buon rigore scientifico il discorso dei compagni di Bruxelles passava ad affrontare la questione particolare delle lotte per aumenti salariali. Si affrontavano e si criticavano le tesi sull’argomento poste da economisti quali Mac Culloch e Ricardo: queste affermavano che il salario fosse corrispondente ai prezzi degli oggetti di prima necessità e che nessun sforzo avrebbe potuto distruggere la naturalità di questa legge economica. La sezione di Bruxelles confutava le tesi tramite cristallini esempi in cui questa legge era negata. Si constatava: «Una semplice occhiata sui fatti basta a dimostrare che la dipendenza del livello dei salari in relazione al prezzo dei generi di prima necessità non è molto rigorosa». Il rapporto faceva notare che «nei vent’anni appena passati i prezzi dei generi di prima necessità erano costantemente aumentati, mentre i salari in molti tipi di mestieri si erano abbassati».

La sezione di Bruxelles, così come aveva già fatto Marx nel Consiglio Generale, dimostrava la a-scientificità della opinione borghese che afferma che ad un aumento salariale corrisponde sempre un aumento dei generi di prima necessità, illustrando ai presenti che il prezzo di una merce dipende, a differenza del suo valore, anche dalla concorrenza fra i singoli capitalisti, nonché dalla diffusione del monopolio costretto a difendere l’ampia diffusione delle vendite. Dunque il prezzo è indipendente dall’aumento o dalla diminuzione del salario.

La relazione dei belgi condannava le tesi proudhoniane concludendo che lo sciopero era sempre legittimo ed utile alla causa proletaria. Ci si augurava, piuttosto, che ogni sciopero futuro potesse essere sorretto da una ben collaudata organizzazione funzionale ad esso, che favorisse la resistenza degli operai permettendo loro di essere più forti nello scontro e nella trattativa con il padronato, e che infine favorisse la possibilità di solidale appoggio di altre categorie operaie. «Siamo convinti che lo sciopero non debba più essere una guerra condotta a caso, un combattimento in ordine sparso, ma dev’essere ben organizzato, dovutamente meditato in anticipo e studiato a lungo».

L’organizzazione migliore era vista, come dai ginevrini, nella formazione di società di resistenza: «Crediamo che lo sciopero debba essere diretto da società di resistenza. Senza di queste, pur essendo talvolta necessari, gli scioperi correranno sempre il rischio di andare contro gli interessi dei lavoratori e quasi sempre si concluderanno con disordini, designati più volgarmente, e con intenzione malevola, col nome di sommosse». E ancora: «Persecuzioni e repressione si potrebbero facilmente evitare con una saggia organizzazione da parte delle società di resistenza. E i lavoratori del carbone del bacino di Charleroi l’hanno ben capito: dopo essersi lasciati andare tante volte a scioperi non organizzati e, perciò, alla sommossa, hanno ora imboccato risolutamente una nuova via, dando vita alle società di resistenza, e il bacino di Charleroi si sta già intessendo di questo genere di società (...) Fare sciopero al di fuori delle società di resistenza significa voler intraprendere una lotta impari, perché i padroni, poco numerosi, favoriti dalla fortuna e protetti dal potere, si metteranno sempre facilmente d’accordo. È come fare la guerra senza tattica e munizioni. Tuttavia non ci si inganni sulla portata delle nostre parole: nonostante tutto quello che abbiamo appena detto contro lo sciopero non organizzato da una società di resistenza, sosteniamo che esso è legittimo, giusto e necessario, quando le convenzioni vengono violate dai datori di lavoro, ed anche in questa situazione vale la pena di tentare malgrado le probabilità dell’insuccesso. Non è sempre bello e grande vedere lo schiavo protestare contro misure barbare ed inumane? E quale misura può essere più barbara ed inumana di quella che consiste nel ridurre continuamente la quota di beni di coloro che già vivono solo di privazioni?».
 

10. Le risoluzioni di Bruxelles

Come abbiamo visto il Congresso di Bruxelles dette una conferma su più fronti alle tesi marxiste. Le impostazioni dei proudhoniani furono rifiutate tanto riguardo al programma contingente, quanto al programma storico. Riproduciamo i dieci punti programmatici approvati al Congresso, altrettante tesi definitive per il futuro movimento comunista.

1. Proprietà fondiaria, miniere, ferrovie, ecc. dovranno appartenere, nella futura società comunista, allo Stato e da esso dovranno essere distribuite alla comunità;
2. Il suolo coltivabile e le foreste dovranno essere proprietà comune della società;
3. Canali, strade e telegrafi saranno proprietà comune della società (queste prime tre risoluzioni contro le teorie proudhoniane sull’essenza della società socialista);
4. L’introduzione delle macchine nell’industria ha accentuato notevolmente il dispotismo della borghesia sul proletariato ma ha allo stesso tempo posto la condizione necessaria per la nascita della futura società comunista;
5. Lo sciopero è sempre un’arma legittima in mano al proletariato (risoluzione contro le tesi cooperativiste dei proudhoniani);
6. Necessità della creazione di società di resistenza affinché si abbia successo nelle lotte quotidiane del proletariato;
7. Dare il dovuto effetto pratico alla rivendicazione della riduzione ad otto ore di lavoro;
8. Invito affinché nelle singole sezioni si svolgano corsi di pubbliche letture su argomenti scientifici o economici;
9. Opposizione risoluta ad una qualsiasi futura guerra fra nazioni in quanto nessuna guerra borghese non può più venir giudicata progressista;
10. Avviare un’inchiesta statistica sulla situazione delle classi lavoratrici;
11. Nessuna collaborazione da parte dell’Associazione con la democratica Lega per la Pace.
 

11. Trade Unions e questione irlandese

Come un po’ in tutta Europa e negli Stati Uniti, anche il proletariato inglese diveniva più minaccioso con l’acutizzarsi della crisi e del dispotismo sempre più esplicito del governo sugli operai. In questi anni però, come d’altronde nel seguito della sua storia, il proletariato inglese non andò gran ché oltre le rivendicazioni immediate; anche se, come per la Polonia e la Guerra di Secessione, la spinta di quei tempi rivoluzionari lo avrebbe portato a scontrarsi sul piano politico e su posizioni internazionaliste.

Fra il ’68 e il ’69, il rapporto fra Trade Unions ed Internazionale si fece più stretto. Alle lotte sindacali l’Internazionale cercava costantemente, sebbene con grande difficoltà, di dare una prospettiva che superasse l’angusto limite economico.

La lotta per il riconoscimento legale è quella che più interessava il movimento delle Unions, in vista di una prossima unificazione nazionale. Al congresso di Birmingham dell’agosto ’68, il movimento sindacale, dopo aver affermato che la classe proletaria non sarebbe mai stata in pace finché fosse esistito l’ordine borghese, considerò che «la realizzazione dei principi dell’Internazionale porterà la pace duratura fra le nazioni della terra».

Unions ed Associazione intervennero congiuntamente in uno sciopero del marzo nel Lancashire, il che permise agli operai di tenere duro fino all’agosto. Nell’estate 1869 in Galles si era avuto un massacro di operai sotto il fuoco dei soldati. Scrisse Engels a Marx il 6 luglio: «L’idea che si aveva finora della legislazione inglese era del tutto errata sotto quest’aspetto: qui regna del tutto il punto di vista prussiano». Anche nella democratica Inghilterra, nazione regina delle costituzioni borghesi, lo Stato democratico mostrava infatti la sua vera faccia: gli operai arrestati vennero condannati a dieci anni di lavoro forzato alla catena.

Un tentativo di elevazione politica del movimento fu la fondazione, su ispirazione del Consiglio Generale, della Land and Labour League, Lega della Terra e del Lavoro, nell’ottobre 1869. Nel suo programma figuravano la nazionalizzazione della terra e la riduzione della giornata lavorativa. Ma presto questa organizzazione, che all’inizio volle rompere con il partito borghese, passò a programmi sempre meno proletari e sempre più riformisti.

Più spessore politico aveva il movimento indipendentista irlandese, visto come fondamentale da Marx e da Engels; specialmente il combattivo movimento feniano dell’estate e dell’autunno del 1869, soprattutto in favore della scarcerazione dei propri prigionieri politici. Il Consiglio Generale, e Marx in modo particolare, presero posizione denunciando il governo Gladstone per la sua avversione all’amnistia politica e per le sue alleanze con gli Stati del Sud, mentre si incoraggiavano i feniani a proseguire la lotta.

Un gesto eclatante fu compiuto dai feniani per le elezioni alla Camera dei Comuni, per le quali presentarono come candidato un prigioniero politico, Jeremiah O ’Donovan Rossa, che per di più venne eletto. Commentava Engels a Marx il 29 novembre: «Le elezioni di Tipperary sono un avvenimento. Gettano i feniani dalla vuota cospirazione e dalla fabbricazione di piccoli colpi sulla via dell’azione, che è sempre molto più rivoluzionaria di quanto hanno fatto dopo il fallimento della loro insurrezione, anche se in apparenza è legale. In realtà, accolgono il metodo degli operai francesi, e questo è un progresso enorme. Purché la cosa venga proseguita come è nell’intenzione».

Sulla questione irlandese, allora di importanza capitale, ecco cosa scriveva Marx in una lettera a Kugelmann il 29 novembre: «Io mi sono vieppiù convinto – e si tratta ora soltanto di inculcare questa convinzione nella classe operaia inglese – che qui in Inghilterra essa non potrà mai fare qualcosa di decisivo fintanto che non separerà la sua politica riguardo all’Irlanda nel modo più categorico dalla politica delle classi dominanti, fino a quando non solo farà causa comune con gli irlandesi, ma prenderà l’iniziativa per l’Unione fondata nel 1801 e per la sostituzione con un libero rapporto federale. E questo anzi deve essere fatto (...) come una rivendicazione fondata sull’interesse del proletariato inglese. Altrimenti il popolo inglese rimane al guinzaglio delle classi dominanti perché con queste deve fare causa comune di fronte all’Irlanda (...) La prima condizione dell’emancipazione qui – il crollo dell’oligarchia terriera – rimane impossibile, poiché qui la posizione non può essere presa d’assalto fintanto che questa mantiene il suo avamposto fortemente trincerato in Irlanda». Lo stesso Marx scriverà a Laura e Paul Lafargue il 5 marzo 1870: «Se l’Irlanda va perduta, lo "Empire" britannico è finito, e la lotta di classe in Inghilterra fino ad ora sonnacchiosa e lenta, assumerà forme violente».
 

12. Una classe che sa difendersi

La pressione del proletariato nel ’68 e nel ’69 fu continua in tutta Europa, in Francia come in Svizzera, in Belgio come in Spagna, in Germania come in America. Segno dei tempi e di un’Internazionale sempre più affermata sono i contatti che il Consiglio Generale stabiliva con regioni fino a quel momento poco interessate della lotta sociale, quali l’Italia, la Spagna, l’Impero Austro-ungarico e addirittura la tenebrosa Russia. Frequenti in questo periodo in Svizzera gli scontri aperti tra proletariato e polizia, in una nazione che fino a ieri aveva avuto un proletariato totalmente sottomesso al tallone di ferro di una borghesia reazionaria e di mentalità medievale e che solo dal 1866 si stava rendendo autonomo, liberandosi dai propri rappresentanti borghesi radicali.

Uno scontro, esemplare tra tanti altri fu la vera rivolta degli operai di Basilea in risposta alla "slealtà" dei borghesi che violavano i patti. La repressione fu affidata al piombo, allo sfratto forzato dalle case di proprietà degli imprenditori e al divieto ai commercianti di vendere agli scioperanti, a conferma che verso il proletariato la liberalità borghese non c’è mai stata. Cinque mesi di lotta furono stroncati dallo stato d’assedio invocato dal Gran Consiglio di Basilea. L’Internazionale venne accusata d’esser causa dei disordini e dovette subire, come poi in Francia, una pesante campagna di calunnie.

Un’enorme risonanza ebbe un altro massacro di operai, in Belgio. A dire di Marx, che ricordava il precedente eccidio di Charleroi, «per questo Stato costituzionale modello un massacro di lavoratori non è un incidente, ma un’istituzione» (Rapporto del Consiglio Generale al Congresso Generale di Basilea). In un Indirizzo steso da Marx si affermava: «Vi è soltanto un paese nel mondo civile nel quale ogni sciopero viene colto avidamente e ben volentieri come pretesto per compiere ufficialmente carneficine della classe operaia. Questo paese così singolarmente felice è il Belgio (...) il piacevole e ben protetto piccolo paradiso del proprietario fondiario, del capitalista e del prete». L’Internazionale con una capillare sottoscrizione aiutò le vedove e i figli delle vittime del massacro e ne sostenne la difesa legale.

Ma era la Francia che vedeva il proprio proletariato sempre più radicale nella lotta politica e ben preparato a rispondere alle persecuzioni di Napoleone III.

Fra gli episodi di eroiche lotte ricordiamo lo scontro nel dicembre del ’68 in diverse città della Normandia in cui i raccoglitori di cotone si rivolsero all’Internazionale e al proletariato inglese. «Era una grande occasione (riferì Marx) per dimostrare ai capitalisti che la loro guerra internazionale, sostenuta grazie alla diminuzione dei salari ora in un paese, ora in un altro, infine sarebbe stata bloccata dall’unione internazionale degli operai». Anche nelle rivolte operaie del giugno 1869 a Lione gli operai vollero chiedere aiuto all’Internazionale e, come disse Marx, «non fu l’Internazionale a gettare gli operai nello sciopero, ma, all’inverso, fu lo sciopero a gettarli nelle braccia dell’Internazionale». Sempre nell’estate violenti furono gli scontri fra i minatori della regione di Saint-Etienne e la gendarmeria, con un altro massacro, e quelli con protagoniste le operaie della seta. L’intervento provvidenziale dell’Internazionale portò le lotte di queste ultime alla vittoria: l’Internazionale «in poche settimane reclutò più di 10.000 nuovi aderenti in questa eroica popolazione».

La repressione capillare effettuata dal bonapartismo aveva insegnato al proletariato qualcosa di importante: «Gli operai del continente, come quelli degli altri paesi, cominciano a comprendere che il mezzo più sicuro per assicurarsi saldamente i propri diritti è di esercitarli senza permesso e a proprio rischio e pericolo».

Il 15 luglio ’69 Marx constatava scrivendo a Kugelmann: «A Parigi si può toccare con mano il crescente movimento». La parodia del II Impero si rivelava sempre più per quello che era. «In Francia le cose procedono bene. Da un lato gli antiquati strilloni demagogici e democratici di tutte le tendenze si stanno compromettendo. Dall’altro lato Bonaparte viene spinto su di una strada di concessioni, su cui dovrà rompersi il collo». Anche la figlia di Marx, Jenny, scriveva a Kugelmann, il 30 gennaio 1870: «Il tumulto e l’agitazione che regnano nella capitale sono incredibili. Tutti i partiti, anzi, tutti gli individui sono in lite tra loro (...) Per quanto riguarda Bancel, Gambetta, Pelletan, Favre, ecc., ecc., questa banda di chiacchieroni altisonanti, sono scomparsi completamente: non significano più nulla. L’esperienza ha insegnato al popolo cosa può attendersi dalla "gauche" dei retori».

Negli Stati Uniti un proletariato combattivo continuava la sua lotta per l’ottenimento delle otto ore e si rafforzavano i contatti con l’Internazionale.

Nel maggio ’69, quando si prospettò lo spettro di una guerra tra Inghilterra e Stati Uniti, il Consiglio Generale inviò un Indirizzo all’Unione Nazionale del Lavoro degli Stati Uniti per invitare il proletariato statunitense all’aperta opposizione al conflitto: «La classe operaia non incede più sul teatro della storia come un corteo al seguito, ma come potenza indipendente, cosciente della propria responsabilità e in grado di imporre la pace, e di dichiarare guerra a coloro che vogliono imporsi ad essa». I tempi della Guerra di Secessione appartengono ormai al passato e qui si formula magistralmente, parola per parola, la consegna del disfattismo a una potenza cosciente e indipendente. Imporre la pace dichiarando guerra, contro una guerra che sarebbe venuta a «cacciare indietro per un periodo di tempo indeterminato il movimento». Messi in chiaro gli interessi del conflitto Marx spiega: «Negli Stati Uniti è sorto un movimento operaio indipendente, che viene visto di malocchio dai vecchi partiti e dai loro politici di professione. Per dare frutti, esso ha bisogno di anni di pace. Perché sia possibile reprimerlo si vuole una guerra tra gli Stati Uniti e l’Inghilterra». Questa la valenza politica e sociale delle guerre

Compaiono sulla scena poi i proletariati periferici dell’Austro-Ungheria, dell’Italia e della Spagna. In Austria e in Ungheria, a seguito della sconfitta militare del 1866, prende forza il movimento, represso però duramente con l’appoggio dei ceti medi.

In Italia il giovane proletariato tenta di darsi un’organizzazione sindacale, soprattutto per difendersi dalle repressioni continue, intensificate in seguito alle imprese garibaldine contro lo Stato della Chiesa. L’operaio Stefano Caporusso dirà al Congresso di Basilea: «Se la repubblica fosse proclamata domani, non cambierebbe nulla nella sua miserevole condizione: si limiterebbe a cambiare l’oppressore».

In Spagna era esplosa alla fine del 1868 la Rivoluzione borghese. Arrivò ad ottenere una costituzione, ma avrebbe però fallito in pochi anni.

«Questa lotta contro Monsieur le Capital, sia pure nella forma subordinata dello sciopero, scriveva Marx ad Engels il 18 agosto 1869, liquiderà i pregiudizi nazionali ben diversamente che non le declamazioni sulla pace dei signori borghesi».
 

13. Il Partito Socialdemocratico Tedesco

Nella prima metà del 1868 l’Alleanza, di stampo lassalliano, guidata da Schweitzer, si spostava, spinta dagli eventi, sempre più a sinistra. La Lega delle Associazioni Operaie Tedesche di Liebknecht e Bebel entrava intanto ufficialmente nell’Internazionale. Abbiamo visto le ripetute critiche di Marx, perlopiù espresse privatamente, agli atteggiamenti di Liebknecht e al suo giornale, il "Demokratisches Wochenblatt". Liebknecht manifestava vari tentennamenti, da una parte per concessioni ai ceti medi e alle loro istanze democratiche, dall’altra per l’appoggio alle rivendicazioni autonomiste degli Stati tedeschi del Sud che si ponevano sotto l’egida militare della Prussia. La peggiore eredità del lassallismo era l’accettazione da parte della Lega a contenere la propria azione nei limiti della legalità. Scrive Marx a Engels il 26 settembre 1868: «Per la classe operaia tedesca la cosa più necessaria è che cessi di fare agitazione con il permesso delle superiori autorità. Una razza addestrata così burocraticamente deve fare un corso completo di "auto-aiuto". D’altra parte hanno indiscutibilmente il vantaggio di cominciare il movimento in condizioni storiche molto più evolute che non gli inglesi e di avere sulle spalle, in quanto tedeschi, teste per la generalizzazione».

Engels scriveva a Marx l’8 novembre 1868: «Nel momento in cui l’azione rivoluzionaria si fa più vicina, è cosa assolutamente contraria all’interesse del nostro partito che i nostri si trovino legati mani e piedi a favore di una delle parti dell’antagonismo, già di per sé molto dubbio, fra una grande Prussia e una grande Germania austriaco-federalistica». I nodi vennero al pettine quando Liebknecht fece presentare la lista operaia alle elezioni dell’Hannover a fianco dei borghesi federalisti: i candidati borghesi voltarono le spalle ai candidati operai. Lapidario ancora Engels il 2 aprile 1869: «Contro gli operai le canaglie sono tutte unite, ma questo a Liebknecht non dà nessuna noia». La polemica Liebknecht-Schweitzer intanto era continuata soprattutto a mezzo di articoli sui giornali. La situazione si sbloccò quando nel marzo 1869, all’Assemblea generale dell’Associazione, Liebknecht e Bebel denunciarono Schweitzer di complottare con Bismarck e di operare per la divisione del movimento operaio tedesco. A seguito di questo si generò una dura opposizione a Schweitzer nella sua stessa Associazione.

Il nome della Lega aveva al contrario risonanza fra i proletari, soprattutto in seguito agli emendamenti presentati da Bebel al Reichstag per la giornata di 10 ore, per il divieto di lavoro ai bambini al di sotto dei 14 anni, per la libertà di associazione ai sindacati e la dichiarazione a favore dell’Internazionale.

Dal suo canto Schweitzer dichiarò nel giugno del ’69 la fusione con l’Associazione Generale lassalliana senza aver consultato l’opposizione; quest’ultima si decise allora a prendere contatto con Bebel e Liebknecht per l’organizzazione di un congresso in cui gli operai che allora si dicevano socialdemocratici confluissero in un unico partito pan-tedesco. Marx, soddisfatto, sebbene con prudenza, della nascita di un forte partito in Germania, decise però di non aderire personalmente al Congresso per i seguenti motivi, come scriveva ad Engels il 3 luglio: «Se venissimo ora, dovremmo parlare contro il partito popolare, il che certo non farebbe piacere a Wilhelm e a Bebel! E anche se essi lo consentissero – mirabile dictu – noi dovremmo gettare direttamente il nostro peso sulla bilancia contro Schweitzer e consorti, mentre il rivolgimento dovrebbe apparire come libera azione degli stessi operai». La prudenza di Marx era poi dovuta alle cattive premesse del Congresso, fra dichiarazioni pro-federalistiche e affermazioni secondo le quali da Bismarck si sarebbe potuto ottenere delle concessioni politiche. Come scrive Marx all’amico il 16 agosto: «quel che Wilhelm non capisce è che gli attuali governi civettano, sì, con gli operai, ma sanno benissimo che il loro unico sostegno è la borghesia, che perciò intimoriscono quest’ultima con frasi filo-operaie, ma non possono mai procedere realiter contro di essa».

Il Congresso di Eisenach si svolse nell’agosto e portò alla fondazione del Partito socialdemocratico tedesco. Dal Congresso furono esclusi i militanti dell’Associazione di Schweitzer. Il programma approvato del partito si rifaceva agli Statuti dell’Internazionale, con alcune concessioni alle teorie lassalliane. Al primo punto, ad esempio, si rivendicava l’importanza della lotta per il conseguimento di un "libero Stato popolare", più avanti veniva descritta la futura società come l’ottenimento del "diritto al ricavo integrale del lavoro". Vi si rivendicava "il conseguimento del suffragio universale, uguale, diretto e segreto per tutti gli uomini". Il "Demokratisches" divenne l’organo ufficiale del partito con il nome di "Volkstaat".
 

14. L’anarchismo

Fino ad ora abbiamo visto le lotte teoriche fra il Consiglio Generale, con Marx in testa, e gli utopismi più diffusi: il lassallismo e il democratismo in Germania, il proudhonismo in Francia e il tradeunionismo in Inghilterra. Dalla fine del 1868 sarebbe cominciato il duro scontro fra la linea dell’Internazionale e di Marx da una parte e quella degli anarchici dall’altra; lotta spesso invelenita per le continue mene cospirative nel partito tessute da Bakunin, conflitto che sarebbe culminato con la netta e irrevocabile scissione del 1872, che ci vide attestati dal lato della difesa del centralismo nel partito e della necessità storica della dittatura del proletariato.

Un opuscolo anarchico, La guerra e la pace di A. Schwitzguébel, pubblicato nell’autunno 1870, bene riassumeva le tesi anarchiche. Iniziava individuando come causa primaria della guerra l’esistenza di un’organizzazione militare. Lo Stato veniva definito come un organo sorto dai "comuni interessi" di un popolo, nello stile del "contratto sociale", astraendo del tutto dalle condizioni produttive. Lo Stato è certamente il garante dei privilegi della classe dominante, riconosceva l’opuscolo, ma il proletariato quando fosse diventato classe dominante non avrebbe dovuto costruire il proprio di Stato. «Come verrà organizzata la proprietà collettiva? Attraverso lo Stato trasformato, ci diranno i comunisti autoritari; attraverso i gruppi di produttori-scambisti, diremo a nostra volta noi collettivisti anarchici. Il principio autoritario è condannato dalla ragione filosofica: la libertà si concilia con l’ordine, esclude l’autorità. Lo Stato, nelle sue diverse manifestazioni storiche, è parimenti condannato; ogni Stato non può essere che l’organizzazione di un’autorità qualsiasi». La società futura descritta nell’opuscolo non è altro che una compagine di piccoli produttori di merci, alla Proudhon.

Sono da ricordare i meriti che vanno riconosciuti alla prima diffusione dell’anarchismo nella classe operaia. Le ideologie di una classe sono determinate dalle condizioni oggettive in cui questa si trova ad operare: così spieghiamo il lassallismo in Germania e il proudhonismo in Francia. L’anarchismo nell’Internazionale di manifestò dapprima nelle sezioni svizzere, ma si sarebbe diffuso prevalentemente nelle meno sviluppate Spagna ed Italia. In queste nazioni l’anarchismo fra operai e braccianti sarebbe stato la prima manifestazione di una fiera coscienza anticapitalistica che rompeva con la sottomissione ad ideologie arcireazionarie come quella di Mazzini. La situazione oggettiva di questi due paesi, in cui ancora mancava un forte proletariato, permise il passaggio, per far dei nomi, da Mazzini a Bakunin, e non da Mazzini a Marx. L’ideologia anarchica infatti non si rivolgeva esclusivamente alla classe proletaria ma a tutti gli individui della società, indipendentemente dalla propria classe di appartenenza, appoggiandone lotte e rivendicazioni.
 

15. Il «personaggio» Bakunin

Bakunin non espresse un’ideologia che, seppure idealista, si potesse ritenere coerente con se stessa. Testi e articoli, a seconda del periodo in cui vennero scritti, pur nel breve spazio di pochi anni hanno posizioni decisamente contrastanti.

Marx lo aveva conosciuto già nel 1843, quando dovette contestargli duramente il suo acceso panslavismo, visione che in Bakunin non si estinse mai del tutto. Come scrisse Marx, Bakunin «formula la sua denuncia contro la borghesia occidentale nel tono in cui gli ottimisti moscoviti sogliono attaccare la civiltà occidentale per presentare in buona luce le loro barbarie». Mentre Marx attendeva impaziente il crollo dello zarismo russo per spazzar via il peggior pericolo reazionario d’Europa, Bakunin auspicava invece che l’Impero Russo schiacciasse sotto il suo tallone tutti i territori slavi. Ma come questo poi si collegasse alla sua teoria libertaria della soppressione dello Stato resta un mistero irrisolvibile!

Nel settembre del 1867, mentre i proletari internazionalisti d’Europa si riunivano in Congresso a Losanna, Bakunin apparteneva ancora al Comitato esecutivo della democratica Lega della Pace e della Libertà, che teneva contemporaneamente il proprio congresso a Berna. Fallito il tentativo di trarre alle proprie posizioni la Lega, al successivo congresso Bakunin si presentò in veste di agitatore per poter clamorosamente uscirne e passare "con trombe e fanfare" all’Internazionale. Già al Congresso di Bruxelles presentò al Consiglio Generale il progetto di un’organizzazione parallela all’Internazionale, che verrà fondata nell’ottobre, col nome di Alleanza della Democrazia Socialista, a Ginevra, dove ebbe il proprio Consiglio Generale nel quale operava lo stesso Bakunin, "antiautoritario" capo indiscusso.

Il programma, decisamente "infantilista", fu spedito nel novembre al Consiglio Generale di Londra. In esso l’Alleanza dichiarava di combattere per «l’eguaglianza economica e sociale delle classi e degli individui», frase roboante ma di nessun significato. La eguaglianza degli individui era stata una rivendicazione della borghesia rivoluzionaria del 1789 che, nel suo linguaggio ipocrita, voleva pur significare la distruzione politica, economica e sociale della classe feudale. Il proletariato comunista chiede invece che le classi vengano abolite, principio centrale indiscusso che accomunava già tutte le pur diverse concezioni rivoluzionarie alberganti nell’Internazionale. Come nella risposta de Il Consiglio Generale dell’Associazione Internazionale degli Operai all’Ufficio centrale dell’Alleanza della Democrazia Socialista, «l’eguaglianza delle classi, interpretata letteralmente, sfocia nell’armonia del capitale e del lavoro, quale viene predicata importunamente dai socialisti borghesi».

Oltre che per le posizioni eterodosse l’Alleanza scendeva in conflitto disciplinare con l’Associazione in quanto si autoproclamava anch’essa organizzazione internazionale, proponendosi per una lotta politica in rappresentanza e mobilitando le "proprie" sezioni nei confronti dell’Associazione, con la quale, tuttavia, si dichiarava pronta a fondersi!

"Autoritaria" la inevitabile risposta del Consiglio Generale: «L’Alleanza Internazionale della Democrazia Socialista non viene accolta come branca dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori». Marx appunta: «Vogliono comprometterci, e sotto il nostro patrocinio».

Un mese prima del congresso di Eisenach, con il quale nasceva il Partito socialdemocratico tedesco, Johann Philip Becker pubblicò sul "Vorbote", sotto impulso di Bakunin, una dichiarazione nella quale veniva negata la necessità di un partito politico di stampo socialista in Germania e nella quale si individuava nei sindacati la forma ideale di organizzazione. Su questa eresia tradeunionista Engels sbottava con Marx il 30 luglio ’69: «Se questo maledetto russo pensa davvero di giungere a furia di intrighi alla direzione del movimento operaio è ora che lo si serva a dovere e gli si domandi se un panslavista possa in genere essere un membro di un’associazione internazionale degli operai. È molto facile prenderlo in castagna costui. Non deve immaginarsi di poter fare dinanzi agli operai il comunista cosmopolita e dinanzi ai russi l’acceso panslavista».

A seguito del rifiuto di ammissione dell’Alleanza nell’Internazionale, Bakunin, fallita la "cospirazione", passò alla polemica aperta. Alla fine del 1869, dalle pagine del settimanale "Egalité", accusò il Consiglio Generale di non aver adempiuto a certi obblighi previsti dagli Statuti, di aver dato troppa importanza alla questione irlandese e di essersi preoccupato esclusivamente delle sorti del proletariato inglese. La mossa venne sconfessata dal Consiglio Generale tramite una circolare interna accompagnata per alcuni compagni dalla celebre Comunicazione confidenziale. A Bakunin veniva rimproverato di aver utilizzato un giornale che non era dell’Internazionale, mentre avrebbe dovuto chiedere spiegazioni direttamente al Consiglio; veniva poi ribadita l’importanza della questione irlandese per il proletariato internazionale.

Nell’aprile 1870, al Congresso ordinario della federazione della Svizzera Romanza, i bakuninisti pretesero d’esser riconosciuti come Comitato centrale della federazione, in contrapposizione al Comitato di Ginevra. Dallo scontro uscirono due distinti comitati: oltre a quello di Ginevra, che era ufficiale, operava ora quello di La Chaux-de-Fonds. Lo scontro al Congresso fu dovuto, tra l’altro, alla dichiarazione dei bakuninisti per cui il proletariato non avrebbe dovuto dedicarsi alla lotta politica. Il 28 giugno il Consiglio Generale non riconobbe il nuovo comitato.

Scrisse Marx a De Paepe, un compagno francese, il 24 gennaio 1870: «Questi democratici sono autoritari, non tollerano contraddizioni (...) Hanno cercato di esercitare pressioni sul comitato federale, cosa che non gli è riuscita; noi non vogliamo lasciarci implicare in avventure da costoro e provocare la scissione nelle nostre sezioni. Mi creda, l’Alleanza è pericolosa per noi, proprio ora. Il suo piano a Ginevra (...) era di mettere nella direzione di tutte le società gente dell’Alleanza, per porre la federazione sotto il proprio controllo. Se sapesse i mezzi di cui si son serviti: calunniare nelle sezioni coloro che non si vogliono sottomettere; hanno fatto di tutto per far fallire la mia candidatura a Basilea; con Grosselin la stessa cosa... Vede, la loro manovra era di mandare a Basilea soltanto membri dell’Alleanza: Herg, Brosset, Bakunin».

Si noti che i criteri dei bakuninisti, qui condannati da Marx, sono quelli consacrati e statutari all’interno dei partiti borghesi e proletari degenerati, ove la manovra tra personaggi, correnti e gruppi locali è l’essenza della cosiddetta dialettica democratica e il metodo, che a noi schifa, di "far pressioni" sugli organi centrali o "mettere nella direzione gente propria" è naturale e apprezzata abilità politica. L’Homo capitalisticus, col cervello regredito a porcina forma di salvadanaio, non potrà mai comprendere la nostra esigenza e pretesa di metter avanti agli uomini l’impersonale Programma Rivoluzionario di Classe e il sano ed organico, a volte abbiamo detto onesto, convincimento del partito sulle sue complesse Tesi. La parola onesto significa pesante, risultato di un duro lavorare collettivo, non di contingenti umori congressuali.
 

16. Il Congresso di Basilea

Nel percorso storico dell’Internazionale che va dal Congresso di Bruxelles alla Guerra franco-prussiana del 1870, oltre alle controversie teoriche che opponevano "autoritari" ad "anti-autoritari", diverse altre se ne posero e furono dibattute al Congresso di Basilea, che si svolse nel settembre 1869. Come ai precedenti congressi anche in questo prevalse la linea marxista su diverse questioni.Registra il Martello: «Al congresso si contavano undici delegati d’Inghilterra, cinque di Germania, diciotto di Francia, cinque della Svizzera, uno dall’Italia e cinquantaquattro dal Belgio. Tralasciamo di citare i paesi da cui prendono il nome perché sono troppi (...) oggi, quattr’anni appena dal congresso di Bruxelles, se si volesse registrare le sezioni operaie dell’Internazionale si compilerebbe un piccolo dizionario geografico». Risulta altresì la presenza di delegati spagnoli e statunitensi. Neanche qui Marx si presentò personalmente, ma i principali discorsi e le principali proposte da votare provenivano dalla sua penna.

Visti i progressi dell’Internazionale nell’anno passato e i principali avvenimenti il Congresso decise innanzitutto l’abolizione della carica di presidente in quanto "principio monarchico ed autoritario". Inoltre venne votata la possibilità da parte del Consiglio Generale di poter espellere le sezioni che agissero contrariamente agli Statuti dell’Internazionale; l’ultima parola però sull’espulsione doveva essere lasciata ai voti del Congresso successivo. Al Consiglio venivano poi affidati i pieni poteri sulla volontà di accettare o meno una determinata sezione in seno all’Internazionale (risoluzione votata anche dagli anarchici).

Uno dei punti teorici discussi al Congresso, sul quale dominò il punto di vista marxista, fu quello sulla questione fondiaria. Nella relazione sull’argomento, preparata da Marx, si respinsero le richieste dei proudhoniani di far partecipare al Congresso rappresentanti della classe contadina. Nella relazione si notava che gli interessi dei contadini, borghesi e reazionari, erano di fatto rappresentati, non da loro stessi ma dalla ideologia proudhoniana. Affermava la relazione: «Il piccolo contadino è solo un proprietario di nome, eppure è molto pericoloso, perché pur sempre immagina d’essere un proprietario effettivo». Si concludeva con uno sguardo al futuro: «In Inghilterra la terra potrebbe essere trasformata in proprietà comune da un atto del parlamento nel giro di due settimane».

Le Risoluzioni sulla proprietà fondiaria, condivise dal marxismo, approvate sulla questione, recitano: 1° «la società ha il diritto di abolire la proprietà individuale della terra e di far gestire il suolo dalla comunità»; 2° «oggi è necessario che la terra venga coltivata come proprietà collettiva».

Bakunin, nel suo intervento sulla proprietà fondiaria, asserì al Congresso che la futura società sarebbe stata sì collettiva, ma che per distruggere la proprietà individuale si sarebbe dovuto innanzitutto abolire lo Stato. Illustrò la necessaria esistenza del senso di collettività nell’uomo e la sua essenza naturalmente anti-individualistica, sebbene lo inquadrasse in un ambito tutt’altro che materialista. «La collettività forma la base dell’individuo. È la società a formare gli individui, e uomini isolati non avrebbero imparato a parlare, a pensare. Gli uomini di genio, i Galilei, i Newton ecc., non avrebbero inventato nulla, non avrebbero scoperto nulla, senza le acquisizioni delle generazioni precedenti».

La risoluzione sulla proprietà fondiaria avrebbe fatto molto discutere il partito in Germania e si sarebbero protratte accese polemiche per un certo periodo, con Liebknecht tentennante fra una posizione e l’altra. Ma dei buoni frutti di questa discussione al Congresso Engels scriveva a Marx il 1° novembre 1869: «La risoluzione sulla proprietà fondiaria ha fatto dei veri miracoli: per la prima volta, da quando Lassalle cominciò la sua agitazione, essa costringe quei tipi in Germania a pensare, il che finora era considerata cosa superflua».

Altra divergenza importante al Congresso fu quella sul diritto d’eredità, sollevata su proposta di Bakunin. Secondo l’Alleanza l’abolizione di questo diritto era punto programmatico di primaria importanza, ciò confermato dal fatto che era posto all’inizio del suo programma: «l’Alleanza vuole in primo luogo l’eguaglianza politica, economica e sociale degli individui dei due sessi, cominciando con l’abolizione del diritto d’eredità».

Marx dimostrò nella sua relazione quanto l’abolizione del diritto d’eredità fosse rivendicazione propria del semplicismo piccolo-borghese e della sua vista corta rispetto alle prospettive del proletariato. I proletari hanno da lottare per l’abolizione del generale istituto della proprietà borghese, del quale l’abolizione del personale diritto d’eredità sarà solo una conseguenza. «Se la classe operaia avesse la forza per abolire il diritto di successione, avrebbe anche la forza per passare all’espropriazione, passo molto più semplice ed efficace (...) I nostri sforzi devono essere tesi a non lasciar alcuno strumento di produzione in mani private. La proprietà privata dei mezzi di produzione è una finzione, in quanto i proprietari non li possono usare direttamente, ai proprietari essa assicura soltanto il potere sui mezzi di produzione, un potere a mezzo del quale costringono altri uomini a lavorare per loro (...) Tutti i mezzi di produzione debbono venir socializzati (...) Finché le cose non stanno così, il diritto ereditario familiare non può venire abolito» (Sul diritto di successione). «Poniamo che i mezzi di produzione siano stati trasformati da proprietà privata in proprietà comunitaria; in tal caso il diritto d’eredità (nella misura in cui è socialmente rilevante) scomparirebbe da sé, perché un uomo può lasciare solo ciò che ha posseduto in vita» (Relazione del Consiglio Generale sul diritto di successione).

Quanto ci sia di limitato nella visione anarchica lo dimostra la replica di Bakunin: «Fra i collettivisti che giudicano inutile votare l’abolizione del diritto d’eredità e quelli che ritengono necessario votarla si ha la differenza che segue: i primi considerano come punto di partenza l’avvenire, vale a dire danno come già realizzata la proprietà collettiva della terra e degli strumenti di lavoro, mentre noi altri assumiamo come punto di partenza il presente, cioè la proprietà individuale ereditaria nella sua piena potenza». Marx commentò, scrivendo a Paul Lafargue il 19 aprile: «Tutta la faccenda deriva da un idealismo antiquato che prende l’attuale giurisprudenza come base della nostra situazione economica, invece di capire che la nostra situazione economica è la base e la fonte della nostra giurisprudenza».

L’altro dibattito teorico importante al Congresso fu quello sulla questione dell’educazione dei bambini. È ancora Marx a tirare le file sulla questione e a rintuzzare cedimenti al riformismo premettendo ancora che «occorre un mutamento delle condizioni sociali per creare un corrispondente sistema di educazione». La questione venne risolta al congresso limitatamente alla previsione dell’abolizione del lavoro minorile. Contro la falsa alternativa scuola pubblica - scuola privata Marx si schierava però per una scuola organizzata a livello nazionale, ma «senza il controllo governativo»: come nelle fabbriche, il controllo doveva essere lasciato a degli ispettori appositi. Bisognava opporsi all’introduzione di materie d’insegnamento che ammettessero «interpretazioni di parte o di classe (...) Unicamente materie come le scienze naturali, la grammatica ecc. potrebbero venire insegnate nelle scuole (...) le regole di grammatica non mutano ove esse vengano spiegate da un tory religioso o da un libero pensatore». Ancora squarci su amplissimi orizzonti.

Questo il giudizio finale di Marx sul Congresso come espresso alla figlia Laura il 25 settembre: «Sono contento che il Congresso di Basilea sia finito e che sia andato relativamente bene. Mi preoccupa sempre quando il partito si presenta in questo modo pubblicamente "con tutte le sue piaghe". Nessuno degli attori era all’altezza dei princìpi, ma l’idiozia delle classi superiori rimedia agli errori della classe lavoratrice».
 
 
 
 
 
 
 
 
 

PARTE TERZA - 1870-1871

La Comune di Parigi
 

1. La Guerra franco-prussiana

A metà luglio 1870 la Francia di Napoleone III dichiarava guerra alla Prussia di Bismarck, guerra fra i due cesari che Marx ed Engels attendevano da almeno quattro anni, ovvero dalla vittoria del 1866 della Prussia sull’Austria.

Questa guerra riveste per i marxisti un’importanza enorme: sul piano politico sarà l’ultima guerra progressista borghese in Europa occidentale; sul piano militare unificherà la Germania, nazione che diviene così centro nodale del movimento rivoluzionario mondiale; sul piano economico aprirà la fase imperialistica del capitalismo. La Guerra franco-prussiana avrebbe partorito inoltre il primo tentativo rivoluzionario del proletario, la Comune di Parigi.

Le cause della guerra non stanno ovviamente nella volontà del Boustrapà o del Bismarck di turno, ma nella necessità di dare ossigeno agli interessi borghesi attraverso le armi. Se l’Italia prima dell’unificazione era frammentata in diversi Stati di dimensioni regionali, la Germania era invece ricca di staterelli spesso piccoli come una città. Il Regno di Prussia nel 1859 era uno di questi, sebbene il più grande e già una potenza militare non secondaria dal XVIII secolo. Perché potesse tenere il passo con le potenze capitalistiche europee doveva lasciare libero spazio a concessioni economiche e politiche di tipo borghese, che si riflettevano socialmente nell’indebolimento della sempre più parassitaria classe aristocratica.

L’unificazione tedesca, che si può dire frutto della politica militare esercitata da Bismarck tra il 1859 e il 1871, è da ritenersi fenomeno positivamente rivoluzionario per lo sviluppo economico della Germania. Carattere peculiare di questa rivoluzione è che essa non fu prodotta da un urto popolare guidato dalla borghesia, come in Inghilterra, negli Stati Uniti ed in Francia, ma fu svolta dall’alto, dal potere monarchico. La monarchia di Bismarck, a differenza di quella dei Romanov in Russia, porterà a compimento l’opera lasciando la classe borghese tedesca a crogiolarsi nella sua incapacità e codardia storica.

Già da alcuni decenni la Prussia aveva il controllo economico sui diversi staterelli tedeschi e li spingeva fortemente a distruggere i residui feudali. Dal 1859 estendeva su di loro il diretto controllo politico. Fra il 1859 e il 1870 la Prussia conquistò la regione dello Schleswig-Holstein, al confine con la Danimarca; sconfisse l’Impero austro-ungarico, suo diretto avversario a sud; occupò prima la miriade di staterelli della Germania settentrionale e poi quelli del meridione. La Russia aveva reagito con il controllo sulla Polonia nel 1863 e ora alla Prussia toccava rispondere alla Francia per proteggere i territori dell’Alsazia e della Lorena.

Marx ed Engels prevedevano che nel seno di questa guerra fossero già contenuti i motivi di una futura guerra fra Prussia e Russia. Scrissero Marx ed Engels al Comitato Operaio Socialdemocratico: «Chiunque non sia assordato dal clamore del momento e non abbia un interesse ad assordare il popolo tedesco, deve capire che la guerra del 1870 porta necessariamente in sé i semi di una guerra tra Germania e Russia, proprio come la guerra del 1866 ha generato quella del 1870». Da una parte la Francia avrebbe chiesto aiuto alla Russia per la riconquista dell’Alsazia e della Lorena, dall’altra Germania e Russia si sarebbero contese violentemente tutta la regione balcanica. Il disegno della Guerra Mondiale del ’14 era dunque, nei suoi contorni fondamentali, già disegnato.

La previsione di Marx ed Engels non si limitava a questo: «Questa Guerra n. 2 farà anche da levatrice all’inevitabile rivoluzione sociale in Russia» (lettera a Sorge del 1 settembre 1870).

Marx ed Engels rilevavano l’affermazione crescente del proletariato tedesco, del quale intravedevano il grande ruolo nella futura nostra rivoluzione: «La preponderanza tedesca sposterebbe il centro di gravità del movimento operaio dell’Europa occidentale dalla Francia alla Germania, e basterà paragonare il movimento nei due paesi dal 1866 fino ad ora per vedere che la classe operaia tedesca è superiore a quella francese sia dal punto di vista teorico sia da quello organizzativo. La sua preponderanza nei confronti di quella francese sulla scena universale sarebbe allo stesso tempo la preponderanza della nostra teoria nei confronti di quella di Proudhon, ecc.» (Marx ad Engels, 20 luglio 1870).

L’incapacità della classe operaia tedesca di porsi ancora all’altezza della propria responsabilità storica si mostrerà sia nella sconfitta della Comune, quando non sarà capace di affratellarsi al proletariato di Parigi abbandonato alla reazione versagliese, sia nel 1919, cinquant’anni dopo, quando la sconfitta della Rivoluzione in Germania sarà il segnale della sconfitta della dittatura proletaria in Russia. Finché il proletariato tedesco non saprà essere all’altezza del suo ruolo storico, abbiamo più volte detto, per i rivoluzionari europei difficile sarà la vittoria.
 

2. I Prussiani verso Parigi

Lo svolgersi della Guerra e i caratteri che andò ad assumere sono importanti per la nostra trattazione perché saranno questi a spingere il proletariato parigino, già da anni decisamente combattivo, a rovesciare il Governo francese e a instaurare il potere proletario.

Il 15 luglio il Corp Legislatif votava i crediti di guerra e il 19 la guerra veniva ufficialmente dichiarata. Mentre i proletariati delle due nazioni si mandavano animati messaggi di fratellanza, subito il Consiglio Generale dell’Internazionale incaricava Marx di stendere un Indirizzo al Proletariato Francese e Tedesco, che venne approvato il 26 e immediatamente tradotto dall’inglese in francese, tedesco e russo. Grande previsione dell’Indirizzo fu: «Qualunque possa essere il corso della guerra di Luigi Bonaparte contro la Prussia, a Parigi è già suonato il rintocco funebre del Secondo Impero». La condanna iniziale era per Luigi Bonaparte, che con il plebiscito del maggio precedente aveva tentato di dare una legittimità al suo potere, che l’astensionismo dei proletari gli negò. Dal plebiscito Luigi Napoleone iniziava la repressione sistematica dei militanti dell’Internazionale, che però non riusciva a far condannare.

Riguardo alla guerra si afferma: «Da parte della Germania, la guerra è una guerra di difesa. Ma chi ha messo la Germania nella necessità di doversi difendere? Chi ha reso possibile a Luigi Bonaparte di condurre una guerra contro di essa? La Prussia! È Bismarck che ha cospirato con lo stesso Luigi Bonaparte con l’intento di schiacciate l’opposizione popolare all’interno e di annettere la Germania alla dinastia degli Hohenzollern».

Se la Francia avesse vinto il conflitto, il bonapartismo si sarebbe consolidato per anni. In questo caso il tanto sperato movimento operaio autonomo in Germania avrebbe stentato a delinearsi e a rafforzarsi, portandosi verso posizioni nazionaliste. Se avesse vinto invece la Germania, sarebbe stato sconfitto il bonapartismo, permettendo più libertà di movimento agli operai francesi, e la classe operaia tedesca si sarebbe organizzata su più vasta scala nazionale; inoltre una vittoria avrebbe spazzato le antiche rivalità regionalistiche diffuse tra i tedeschi.

L’Internazionale invitava poi i proletari tedeschi a difendere questa sorta di rivoluzione borghese dando così allo stesso tempo una mano al proletariato francese per liberarsi di Napoleone III. Il proletariato tedesco avrebbe dovuto però opporsi alla guerra nel momento che essa avesse preso un carattere non più difensivo ma offensivo, e si fosse posta cioè l’obiettivo antiproletario e imperialistico dell’occupazione dell’Alsazia e della Lorena. In breve: la Germania doveva difendersi dalla Francia per salvare la propria rivoluzione borghese e non far tornare la storia indietro di decenni; era da appoggiare da parte degli internazionalisti fintanto che non avesse espresso mire espansionistiche.

La sconfitta avrebbe inoltre contribuito a sgonfiare il troppo radicato sciovinismo dei francesi. Scrisse Engels a Marx il 13 agosto 1870: «Fintanto questo sciovinismo non sarà colpito alla testa e come si deve, la pace tra Germania e Francia è impossibile. Ci si poteva aspettare che questo lavoro sarebbe stato compiuto da una rivoluzione proletaria; ma dal momento che c’è la guerra, ai tedeschi non rimane che farlo loro stessi e subito (...) Bismarck ora, come nel 1866, fa sempre un pezzo del nostro lavoro, a modo suo e senza volerlo, ma lo fa».

Napoleone III aveva l’intenzione di attraversare velocemente il Reno entrando in territorio tedesco prima che il nemico potesse approntare la difesa. Ma l’esercito francese non riuscì a prepararsi con la velocità sperata e gli ufficiali temporeggiarono dinanzi all’attacco. Già il 22 luglio Engels poteva constatare: «Come le cose stanno ora, ritengo cosa impossibile una campagna favorevole a Bonaparte». Fu la Prussia ad organizzare più velocemente l’esercito e fu essa dunque ad attraversare il Reno, ad attaccare l’esercito francese nelle proprie fortificazioni mettendo da subito in difficoltà i francesi. Già il 29 luglio, in una delle analisi sulla guerra che Engels teneva quasi giornalmente sulla "Pall Mall Gazette", poteva prevedere che «il vantaggio dei tedeschi è destinato a crescere, aumenterà se lo scontro decisivo verrà procrastinato, e raggiungerà il culmine alla fine di settembre». L’esercito europeo più prestigioso, quello francese, faceva improvvisamente flop!

Il 31 agosto Engels poteva ancora scrivere: «L’organizzazione militare fa acqua da tutte le parti; una nazione nobile e valente vede vani tutti gli sforzi dispiegati in sua difesa perché ha tollerato per vent’anni che i suoi destini fossero affidati ad una banda di avventurieri che hanno trasformato l’amministrazione, il governo, l’esercito, la marina, la Francia tutta in una fonte di personale profitto». Con la sconfitta di Sedan del 2 settembre 1870 la fine per il Secondo Impero era segnata. Dopo aver sbaragliato l’esercito francese sul fronte orientale, i Prussiani distrussero sul nascere il tentativo di avanzata da Nord-Est: le principali fortezze francesi erano sfondate e l’esercito di Bismarck e di Guglielmo I poté marciare su Parigi.
 

3. La Repubblica

Già all’inizio di agosto l’insurrezione proletaria a Parigi si era posta all’ordine del giorno. Il 10 agosto Engels scriveva a Marx: «Pare che la rivoluzione sarà resa molto facile alla gente; tutto si sfascia da sé, come non era da aspettarsi diversamente». Nella situazione di instabilità che si era creata, da una parte gli orlèanisti puntavano ad una restaurazione monarchica (anche provvisoriamente sotto veste repubblicana); dall’altra c’era la minaccia rivoluzionaria. Marx scriveva però preoccupato ad Engels l’8 agosto: «Se a Parigi scoppierà una rivoluzione, rimane il problema se hanno i mezzi e i capi per opporre una resistenza seria ai prussiani».

Il 2 settembre era fatto prigioniero di guerra Napoleone III, il 4 era proclamata la Repubblica. Questa subito si svelò per ciò che veramente era, cioè una vera e propria farsa orlèanista con a capo il generale Trochu. Commentava Engels sulla "Pall Mall Gazette": «È nel fato del Secondo Impero e di ogni cosa che lo riguardi di cadere senza ispirare pietà. Neppure la commiserazione che in un modo o nell’altro viene mai a mancare a tante disgrazie, sembra venirgli negata. Nonostante l’honneur au courage malheureux (onore al coraggio sfortunato, ndr.) di questi tempi non si può evocare un francese senza una certa ironia». In guerra le cose vanno necessariamente male «quando le operazioni militari vengono costantemente subordinate a considerazioni politiche».

La disfatta di Sedan mise definitivamente in moto il proletariato. Scrivemmo su La questione militare: fase della costituzione del proletariato in classe dominante, ne "il Programma Comunista" n. 2/4 del 1966: «Esso insorge, armi alla mano e con alla testa internazionalisti e socialisti proudhoniani e blanquisti travolge gli sbarramenti di guardie di città davanti al palazzo del Corpo Legislativo ed entra nell’aula, dove il blanquista Granger intima ai deputati di decretare la caduta dell’Impero e la proclamazione della Repubblica. Si ripete la scena del febbraio 1848 in cui la Seconda Repubblica veniva imposta dall’operaio Raspail avendo dietro a sé il popolo armato. Ma, come allora, anche questa volta il proletariato, generoso e bonario, si lascia sfuggire il potere che pur gli apparteneva di diritto essendo questo fondato unicamente sulla forza». Il proletariato viene abilmente raggirato in nome della formazione di un governo di Difesa nazionale con repubblicani e orlèanisti.

Il 5 settembre era formato per ogni circondario un comitato di vigilanza il quale nominava quattro delegati che facevano parte di un comitato centrale. A Parigi, col tempo, venendo però meno le promesse fatte dai repubblicani (amnistia politica, abolizione della polizia, coscrizione obbligatoria), il 30 settembre i proletari e la Guardia Nazionale ripresero le agitazioni e il 5 e l’8 ottobre ricominciarono le manifestazioni armate. La terra tremava sempre di più.

L’insurrezione non era esplosa soltanto a Parigi ma in diversi punti della Francia, fra cui a Lione. Racconta Marx in una lettera a Beesly del 19 novembre: «All’inizio andò tutto bene. Sotto la pressione dell’Internazionale fu proclamata la repubblica ancor prima che Parigi avesse fatto questo passo. Subito fu costituito un governo rivoluzionario – La Commune – composto in parte da operai aderenti all’Internazionale, in parte da repubblicani borghesi e radicali. Gli octroits (tasse sui consumi, ndr.) furono subito aboliti, e a ragione. Gli intriganti bonapartisti e clericali furono intimoriti. Furono prese energiche misure per armare il popolo intero (...) L’azione di Lione ebbe subito ripercussione a Marsiglia e a Tolosa dove le sezioni dell’Internazionale sono forti».

Riguardo a Lione Marx scriverà più tardi: «I somari Bakunin e Cluseret arrivarono a Lione e guastarono tutto. Poiché ambedue fanno parte dell’Internazionale ebbero purtroppo abbastanza influenza per condurre i nostri amici sulla strada sbagliata. Si impadronirono – per breve tempo – del municipio ed emanarono le folli leggi sulla abolition de l’Etat e simili assurdità». Successe che «lo Stato, sotto le sembianze di due compagnie di guardie nazionali borghesi, entrò da una parte che ci si era dimenticati di sorvegliare, ripulì la sala, e ricacciò in tutta fretta Bakunin sulla strada di Ginevra».
 

4. L’assedio di Parigi

Con la caduta di Napoleone III e la disfatta di Sedan si apriva la seconda fase della guerra: i Prussiani cinsero d’assedio Parigi e rintuzzavano le sortite francesi, sebbene i civili combattessero una vera e propria guerriglia difensiva.

Le due previsioni enunciate da Marx nell’Indirizzo si erano avverate, ovvero la caduta di Napoleone III e la falsità del preteso carattere difensivo della guerra. Il Consiglio Generale incaricò Marx di redigere un Secondo Indirizzo ai proletari su questa nuova fase della guerra. In esso aspra è la critica alla classe media tedesca chiamata da Guglielmo I all’impresa patriottica: «Questa classe media, che anche nelle sue lotte per le libertà civiche, dal 1846 al 1870, aveva dato un esempio inaudito di irresolutezza, di incapacità, e di vigliaccheria, si sentì naturalmente profondamente lusingata di poter fare il suo ingresso sulla scena europea recitando la parte del leone ruggente del patriottismo tedesco».

Nel Secondo Indirizzo Marx confuta la pretesa che esistano dei "giusti confini" per una nazione, spiegando che ogni confine nuovamente ottenuto avrebbe già in sé il germe di una futura guerra per renderlo ancora "più sicuro". Viene a relativizzare i concetti di attacco e di difesa: «Tale è la lezione di tutta la storia: per le nazioni come per gli individui, per togliere la possibilità di attaccare dovete privarli di tutti i mezzi di difesa. Non basta solo prenderli per la gola, bisogna ucciderli (...) La storia distribuirà le sue sanzioni non dal numero di chilometri quadrati strappati alla Francia, ma dall’enormità del crimine di aver fatto rivivere, nella seconda metà del secolo decimo nono, la politica di conquista».

Il Partito Socialdemocratico Tedesco avrebbe dovuto opporsi al proseguimento della guerra, all’annessione dell’Alsazia e della Lorena e combattere per ottenere immediatamente «una pace dignitosa per la Francia e il riconoscimento della Repubblica francese». Non che Marx nascondesse quanto di reazionario vi era in quella neo-proclamata Repubblica, la sua difesa, spiegava, era solo un momento di passaggio, prima del suo abbattimento da parte del proletariato. I proletari francesi «con calma e risolutezza devono approfittare della libertà repubblicana per procedere con metodo alla loro organizzazione di classe».

L’Indirizzo si chiudeva con il riconoscimento del coraggio del proletariato inglese che con scioperi e dimostrazioni aveva imposto al Governo il riconoscimento della Repubblica francese, opponendosi allo smembramento della Francia.

La Francia borghese era invece sempre più inchinata dinanzi all’esercito prussiano. La scomparsa dell’esercito regolare fin dal settembre aveva consegnato la difesa a nuove reclute inesperte e a gruppi partigiani formati da civili. Sarebbe stata la guerriglia fra Prussiani e partigiani francesi a creare dei serissimi problemi ai prussiani fiaccati per ben quattro mesi.

La Parigi borghese invece vivrà quattro mesi di completa immobilità: Trochu non oserà minimamente attaccare i Prussiani, come del resto questi non tenteranno di entrare a Parigi. Lo spettro della Rivoluzione proletaria era ben più tremendo dei Prussiani agli occhi di Trochu e della combriccola che con lui aveva assunto le redini del potere.

Nel novembre e dicembre i Prussiani si lasciarono andare a requisizioni e a fucilazioni di civili che provocarono in vari punti delle vere e proprie rivolte popolari. Battaglie importanti però non se ne vedevano più. Engels scriveva in Note sulla Guerra: «Non sono più le grandi battaglie a riempire gli elenchi dei morti ma le scaramucce in cui uno, due, cinque uomini vengono uccisi. L’erosione costante delle onde della guerra popolare sgretola, disperdendone in frantumi nella risacca, anche i più grossi eserciti che – ed è ciò che più pesa – sembrano non ottenere alcun risultato».

Il 31 ottobre, all’eco della caduta della fortezza di Metz, Parigi nuovamente insorse. Gli operai in armi fecero prigioniero l’intero governo, ma il cosiddetto "governo di Giuda" ancora una volta circuì il proletariato e riuscì addirittura ad ottenere la maggioranza in un plebiscito-farsa. Scrivemmo in "il Programma Comunista": «Ancora una volta, la spiegazione del magro risultato di quella grande giornata è nella mancanza di coesione fra i rappresentanti degli operai: Blanqui, Blanc, Flourens, Delescluze, ecc. e nella incapacità del C.C. dei 20 Circondari di esercitare funzioni dirigenti, oltreché nella bonarietà di coloro che, sperando ancora che la lezione riconduca i membri del governo all’osservanza dei propri doveri, risparmiano loro la vita (...) Il 28 novembre il generale Ducret, che doveva guidare la "grande sortita" fuori Parigi e che aveva giurato di tornare indietro solo da vincitore, dopo avere esposto le guardie nazionali a inutili e sanguinosi sacrifici ordina la ritirata ed entra per primo a Parigi. Non contento di ciò, il governo di questi eroi ha la sfacciataggine di "epurare" le guardie nazionali dei battaglioni "indisciplinati", e dar loro come nuovo capo il gen. Thomas, colui che aveva fatto sparare sugli operai nel giugno ’48. Il 21 dicembre si ha un’altra azione "eroica" del genere di quella precedente: il "piano Trochu" si dimostra sempre più un piano per la difesa di classe. Di qui altre manifestazioni operaie e il "manifesto rosso" fatto affiggere il 6 gennaio dal Comitato Centrale dei 20 Circondari. Il 20 gennaio, Trochu dà l’ultimo spettacolo: nuova "sortita torrenziale", nuova ritirata che si trasforma in rotta; per reazione nuova giornata del 22 gennaio contro il governo, e quindi altro sangue versato degli operai che non vogliono assolutamente la capitolazione».

Riferisce Engels ancora in Note sulla Guerra: «Trochu, malgrado tutto, persiste nella sua inerzia, "magistrale" o meno che sia. Le poche sortite fatte negli ultimi giorni sono state troppo "platoniche", per usare un termine di un accusatore di Trochu sul "Siècle". C’è stato riferito che i soldati rifiutavano di seguire gli ufficiali. Se fosse vero, questo proverebbe una sola cosa: hanno perso la fiducia nella direzione suprema».

A fine gennaio Parigi è sempre più isolata e si insinua lo spettro della fame. Continua Engels: «Tutte le informazioni in arrivo concordano nell’attribuire la mancanza di successi alla sfiducia dei soldati nel comando supremo. E a buon diritto. Trochu, non bisogna dimenticarlo, è un orlèanista, che vive letteralmente nella paura di La Villette, Belleville e degli altri quartieri "rivoluzionari" di Parigi. Aveva più paura di loro che dei Prussiani. Non è solo una deduzione o una supposizione da parte nostra. Sappiamo, da una fonte del tutto attendibile, di una lettera fatta uscire da Parigi da un membro del governo nella quale si asserisce che Trochu è stato sollecitato da ogni parte a prendere energicamente l’offensiva, ma che egli vi si è sempre sottratto, ritenendo che questa avrebbe consegnato Parigi nelle mani dei "demagoghi"».

Il 23 gennaio Parigi capitolò.
 

5. "A la Commune! Aux armes!"

Come abbiamo visto la Rivoluzione a Parigi era in atto dai primi di settembre e fu essa, e solo essa, a determinare i connotati degli ultimi mesi di guerra. La borghesia francese si dimostrava incapace di sferrare una controffensiva: i motivi stavano nel suo costituzionale timore del proletariato in armi. La borghesia parigina sapeva bene che non sarebbe stata in grado di tornare ai propri affari fino a quando il proletariato non fosse stato disarmato e i suoi capi resi innocui.

I Prussiani dal canto loro per ben 131 giorni d’assedio non osarono entrare nella Parigi rossa. Il 23 gennaio con la capitolazione di Parigi, i Prussiani «osarono occupare solo un piccolo angolo di Parigi che per giunta consisteva di parchi pubblici; e anche questo solo per alcuni giorni! E durante questo tempo essi, che avevano cinto d’assedio Parigi per 131 giorni, erano a loro volta assediati dagli operai parigini armati, i quali vigilavano accuratamente perché nessun "prussiano" varcasse i ristretti confini di quell’esigua area ceduta al conquistatore straniero. Tale era il rispetto che gli operai parigini ispiravano all’esercito davanti al quale tutte le truppe dell’Impero avevano deposte la armi» (Engels, Introduzione del 1891 a La guerra civile in Francia).

L’8 febbraio 1871 si tenevano le elezioni per l’Assemblea nazionale: si decideva un nuovo governo e la forma della pace. I prussiani avevano concesso ben volentieri l’Assemblea, piuttosto che affrontare con l’invasione i ben armati civili parigini. Il partito di Thiers era il diretto strumento della controrivoluzione e nel suo seno si rifugiavano i proprietari fondiari, gli orlèanisti e i legittimisti. La velocità con cui si arrivò al voto era dovuta alla consumata astuzia borghese su come sconfiggere elettoralmente il proletariato.

Una volta eletto, Thiers tentò subito di ottenere il disarmo della Guardia nazionale e il ritorno all’ordine. Ma come poteva imporlo disponendo di soli 3.000 poliziotti e 15.000 soldati contro i 300.000 della Guardia Nazionale? Fino alla metà del marzo il C.C. della Guardia Nazionale, sempre più prestigioso fra i parigini, si mantenne sulla difensiva. In un suo rapporto del 10 marzo affermava: «Quello che noi siamo l’hanno fatto gli eventi (...) Noi siamo la barriera inesorabile eretta contro ogni tentativo di rovesciare la Repubblica». Certamente una certa coscienza formatasi negli ultimi sette anni in esso non mancava. Continuavamo su "Programma": «Per la guardia nazionale e per il loro C.C. la repubblica doveva possedere un contenuto sociale: doveva essere una Repubblica del lavoro e non una Repubblica del Capitale. Quel che manca al C.C. della guardia nazionale è la chiara visione strategica di una giusta politica rivoluzionaria, per cui ciò che di positivo esso farà sul piano militare sarà in parte merito degli eventi e degli errori del nemico di classe».

La vera e propria guerra civile si aprì quando Thiers mandò le truppe a impadronirsi delle armi della Guardia Nazionale. Non solo la spedizione notturna fallì in pieno, ma la fanteria impiegata da Thiers fraternizzò con la Guardia Nazionale. Dopo la sconfitta Thiers, sempre più timoroso della piega degli eventi, annunciò di "voler" mantenere armata la Guardia Nazionale ma la richiamò alla sottomissione agli ordini del governo repubblicano. Quando all’appello risposero appena 300 soldati su 300.000 a Thiers non restò che fuggire a Versailles. Era il 18 marzo e la Guardia Nazionale, senza volerlo e spinta dagli eventi, dovette passare all’offensiva. Furono erette le barricate, uccisi i generali Lecomte e Thomas e occupati i principali edifici della città. La sera il C.C. assumeva i pieni poteri. Come scrisse Marx ne La guerra civile in Francia, «l’Europa parve per un istante dubitare se quei sensazionali spettacoli politici e militari avessero una qualche realtà o non fossero il segno di un passato da lungo tempo scomparso».

Il governo della Comune peccò già subito di indulgenza. Non solo fu permesso a qualsiasi controrivoluzionario di fuggire liberamente da Parigi, ma fu tollerato anche che i borghesi si ritrovassero in assemblee e manifestazioni. Cosicché il 22 marzo, quattro giorni dopo l’insurrezione, la borghesia tenterà già di recuperare il potere, armi alla mano. «In guerra, scrivevamo su Programma, anche per il proletariato deve vigere la morale di guerra e non è ammissibile bonarietà di sorta».

Gli otto giorni che seguirono il 18 marzo, anziché passare all’offensiva, il C.C. si preoccupò più che altro di darsi un’inutile legittimità formale tramite la preparazione di nuove elezioni. «Davano importanza alla forma e dimenticavano la sostanza in base alla quale essi avevano già agito: ciò era certo un’eredità funesta delle concezioni borghesi e delle loro funzioni in materia: si era dimenticato che "la rivoluzione (del 4 settembre) era diventata il regime legale della Francia". E se pure quella non ci fosse stata la sola rivoluzione del 18 marzo – aggiungiamo noi – sarebbe stata più che sufficiente a dare titolo legale a quel governo che era il C.C., e perciò esso non doveva avere alcuna fretta a sbarazzarsi del potere».
 

6. La dittatura del proletariato

La Comune era stata proclamata il 28 marzo, dieci giorni dopo l’insurrezione. Contemporaneamente diverse città della Francia del Sud e dell’Est insorsero, sebbene i tentennamenti del governo di Parigi determinassero la sconfitta immediata di queste insurrezioni sparse per il paese.

Il 3 aprile i Versagliesi di Thiers cominciarono la controffensiva verso i Comunardi: il primo scontro rappresentò una dolente sconfitta e un grave monito per la Guardia Nazionale. A seguito di ciò i borghesi radicali, già indecisi, uscirono dal C.C.: i compagni rimasti alla sua guida, invece di assumersi il potere come avrebbero dovuto, indissero nuovamente le elezioni formando un Consiglio diviso fra giacobini, blanquisti e proudhoniani. Mancava la compattezza programmatica e tattica propria del partito marxista: sia i proudhoniani sia i blanquisti, questi certamente grandi barricadieri e, come dice Engels, "socialisti soltanto per istinto rivoluzionario", erano privi di una conoscenza generale della dinamica rivoluzionaria, ben lontani dal socialismo scientifico. La "velleità" dello Stato appena nato si svelò appieno quando il 19 aprile si tentò di stendere un programma politico ed economico.

Nonostante questa "bonarietà", gli eventi obbligarono i Comunardi a fare delle scelte che istintivamente spingevano il governo rivoluzionario ad una vera e genuina dittatura proletaria. Non solo, ma le stesse leggi che vennero decretate erano ben lontane dalle teorie proudhoniane e si avvicinavano decisamente a ciò che era proprio della dottrina di Marx: un esempio sono i provvedimenti sull’associazione della produzione che doveva essere un apertura alla futura società senza scambio né denaro. «Malgrado tutto, e contro tutte le apparenze di democrazia, la realtà di dittatura rivoluzionaria della Comune si andava affermando sotto la spinta dei fatti (...) Essa era un organismo che si allontanava sempre più dal parlamentarismo e dalla sua falsa divisione dei poteri, perché diventava ogni giorno più un organismo al tempo stesso legislativo ed esecutivo (...) Rendendo poi revocabili ad ogni momento i suoi membri, e attribuendo loro il salario di un operaio, la Comune aveva spezzato i due pilastri del vecchio Stato borghese: la burocrazia militare e quella civile. La Comune era uno Stato del tutto nuovo per la storia: era la prima dittatura proletaria che, per essere uno strumento della maggioranza del popolo sfruttato per schiacciare la resistenza della minoranza sfruttatrice, non era già più uno Stato nel senso proprio della parola, ma una Gemenweisen, parola tedesca che non indica una distinta comune, ma una comunità, un sistema organico di comuni» (La questione militare).

Fra i provvedimenti emanati dalla Comune nella sua breve esistenza vi furono l’abolizione dell’esercito permanente e la sua sostituzione con il popolo in armi. Fu poi emanata l’elezione a suffragio universale dei consiglieri municipali e la loro revocabilità in ogni momento. Inoltre venne ricompensato ogni lavoro, anche amministrativo, con un salario da operaio. I magistrati poi non erano più "autonomi e super partes" secondo la finzione borghese, ma anch’essi eleggibili e revocabili in ogni momento. Venne poi decretata la separazione della Chiesa dallo Stato e l’espropriazione di tutte le chiese e di tutte le proprietà clericali. «I sacerdoti – può ironizzare Marx, che non si perde nell’anticlericalismo piccolo borghese di poca lena – furono restituiti al tranquillo riposo della vita privata, per vivere delle elemosine dei fedeli, ad imitazione dei loro predecessori, gli apostoli. La totalità degli istituti di istruzione furono aperti gratuitamente al popolo e liberati in pari tempo da ogni ingerenza della Chiesa e dello Stato. Così non solo l’istruzione fu resa accessibile a tutti, ma la scienza stessa fu liberata dalle catene che le erano imposte dai pregiudizi di classe e dal potere governativo» (La guerra civile in Francia).

Molti hanno accusato la Comune di avere avuto un carattere prettamente cittadino. Marx nell’Indirizzo spiega la falsità di tale asserzione: «Una volta stabilito a Parigi e nei centri secondari il potere della Comune, il vecchio governo centralizzato avrebbe dovuto, anche nelle provincie, cedere il posto all’autogoverno da parte dei produttori (...) La Comune doveva essere la forma politica anche del più piccolo villaggio e nelle regioni rurali l’esercito permanente doveva essere sostituito da una milizia popolare, con un periodo di servizio estremamente breve. Le comuni rurali di ogni distretto dovevano amministrare i loro affari comuni mediante un’assemblea di delegati con sede nel capoluogo, e queste assemblee distrettuali dovevano a loro volta inviare i propri rappresentanti alla delegazione nazionale a Parigi. I delegati dovevano essere revocabili in ogni momento e legati da un mandat imperatif dei propri elettori (...) Mentre era importante amputare gli organi puramente repressivi del vecchio potere governativo, le sue funzioni legittime dovevano essere strappate a una autorità che usurpava una posizione dominante al di sopra della società stessa, e restituite agli agenti responsabili della società».

Il 16 aprile si ordinava il censimento delle fabbriche parigine affinché si potessero rimettere in funzione creando aziende cooperative prive di padronato. Il 20 fu abolito il lavoro notturno per i fornai. Il 30 vennero aboliti i monti di pietà.

La piccola borghesia da subito aveva appoggiato la Comune e l’iniziativa storica del proletariato, avendo ormai compreso che la classe borghese e il regime del Secondo Impero la stavano trascinando nella loro rovina: la classe operaia rimaneva la sua unica alternativa. A favore della classe media la Comune aveva decretato l’estinzione dei debiti e delle obbligazioni. Veniva inoltre decretato il condono dell’affitto degli ultimi tre trimestri.

Così spiega Marx: «La Comune doveva servire da leva per estirpare le basi economiche sulle quali si fonda l’esistenza delle classi, e quindi dell’oppressione di classe». Lo scopo era dunque aprire le porte alla futura società comunista senza classi: «La classe operaia non ha da realizzare ideali, ma soltanto liberare gli elementi della nuova società dei quali è gravida la vecchia società in via di disfacimento». «Non si trattò per la Comune di una rivoluzione contro questa e quell’altra forma di potere dello Stato, legittimista, costituzionale, repubblicana e imperiale. Fu una rivoluzione contro l’essenza stessa dello Stato, questo aborto sovrannaturale della società; fu la riappropriazione da parte del popolo della propria vita sociale» (Marx, Primo abbozzo di redazione per la Guerra civile in Francia).
 

7. La sconfitta

Le circostanze rivoluzionarie avevano creato nel proletariato la capacità di darsi una propria dittatura. La mancanza però in esso della sua avanguardia unitaria marxista portò ad una serie di tragiche ingenuità. Si dava troppo onore ad un nemico vile e spietato e fiducia nella possibilità di rapporti leali con esso; si ebbe poca risolutezza nell’instaurare l’indispensabile Terrore rosso contro di esso. L’incertezza della dittatura proletaria a Parigi si rispecchia nei continui mutamenti di personale nella guida rivoluzionaria, nonché nell’ingiustificato rispetto dei Comunardi dinanzi alla Banca di Francia, che non fu occupata.

Dopo che il 3 aprile i Comunardi avevano subito una dura sconfitta tentando una sortita contro i versagliesi che assediavano Parigi, questa veniva completamente circondata, a Nord-Est dai prussiani e a Sud-Ovest dai versagliesi, formalmente in guerra fra loro. L’errore fatale del governo della Comune fu il mantenersi sulla difensiva. L’esercito controrivoluzionario di Thiers nel maggio era passato da 22 mila soldati a circa 130 mila; dei cinque corpi d’armata, due erano formati da prigionieri di guerra liberati per l’occasione dai "nemici" prussiani! L’esercito dei Comunardi sarebbe stato invece ben superiore se solo il C.C. avesse provveduto ad un’offensiva. Il numero dei combattenti effettivi non supererà invece i 15 o 16 mila soldati e delle 1.200 bocche da fuoco soltanto 200 ne vennero utilizzate. L’incapacità inoltre di centralizzare radicalmente l’esercito creò decisivi casi di indisciplina nel pieno degli scontri e una tattica militare decisamente povera.

Nella prima metà di maggio i combattimenti si fecero continui. Grazie all’appoggio dei prussiani le truppe di Thiers sconfissero a più riprese l’esercito rivoluzionario. Il 21 maggio, quando Parigi era già fiaccata dai duri combattimenti, un tradimento aprì le porte all’esercito versagliese. L’Hotel de Ville, invece di organizzare una difesa solida e unitaria, «lascia che i consiglieri raggiungano ognuno il proprio circondario per apprestare la difesa, staccata da ogni collegamento con l’azione degli altri, così come avrebbe voluto un piano di difesa comune» (La questione militare...).

Il giorno dopo i versagliesi occuparono diverse porte e senza troppa resistenza giunsero a Montmartre. Fu a questo punto che la Rivoluzione si ridestò e la popolazione accorse ad impugnare le armi. Per tutta la città donne e uomini, vecchi e bambini eressero barricate. Grande eco fecero i proclami di Delescluze per un’eroica difesa della Comune. Ma l’errore militare della poca centralizzazione si ripeté: «Gli stessi proclami di Delescluze teorizzano la "autonomia" delle difese di quartiere come la sola giusta soluzione militare, e criticano le "dotte manovre" dei militari di professione. Come si vede, non si avevano le idee chiare sul militarismo, perché si confondeva con esso ogni disciplina di organizzazione della lotta: disciplina inevitabile se non ci si vuole affidare alla spontaneità, che è, questa sì (specie quando è esclusiva) fonte di sicura sconfitta».

Il 23 maggio le truppe di Thiers avevano già occupato diversi punti della città, sebbene la resistenza dei Comunardi, anche di piccoli gruppi, fosse veramente eroica e indimenticabile per il proletariato e per il suo partito. Fra il 24 e il 28 ci furono gli ultimi tentativi dei Comunardi di difendersi, ma i massacratori versagliesi decisero il tutto versando sangue a volontà. Chi non fu ucciso sulle barricate affrontò il plotone d’esecuzione. La gloriosa Comune veniva stroncata nel sangue dal proprio nemico storico.

Commenterà Marx: «La civiltà e la giustizia dell’ordine borghese si mostrano nella loro luce sinistra ogni volta che gli schiavi e gli sfruttati di quest’ordine insorgono contro i loro padroni. Allora, questa civiltà e questa giustizia mostrano il loro vero volto come pura barbarie e rozza vendetta al di là della legge, senza inutili mascherature. Ogni nuova crisi nella lotta di classe tra gli accaparratori della ricchezza e i produttori di essa mette in luce questo fatto con sempre maggiore chiarezza. Persino le atrocità dei borghesi del 1848 scompaiono di fronte all’indicibile infamia del 1871. L’eroico spirito di sacrificio col quale la popolazione di Parigi – uomini, donne e ragazzi – combatté per otto giorni dopo l’entrata dei versagliesi, rispecchia in maniera evidente la grandezza della loro causa, quanto le imprese efferate della soldatesca riflettono lo spirito innato di questa civiltà di cui essi sono i mercenari e i difensori. Gloriosa civiltà, invero, il cui problema principale è di sapere come riuscire a sbarazzarsi dei mucchi di cadaveri sul campo dopo che la battaglia è terminata» (La Guerra civile...).
 

8. La Comune e l’Internazionale

In una lettera a Kugelmann del 12 aprile Marx aveva scritto: «Ad ogni modo questa attuale insurrezione di Parigi –anche se sarà sopraffatta dai lupi, dai porci e dai volgari cani della vecchia società – è l’azione più gloriosa del nostro partito dopo l’insurrezione di giugno».

Della Comune i borghesi furono immediatamente terrorizzati. Prima reazione all’insurrezione fu la caccia ai membri dell’Internazionale da parte dei principali governi d’Europa: per la borghesia la maglia della democrazia diveniva sempre più stretta. L’Internazionale e il "Red Terror Doctor" Karl Marx vennero considerati coloro che dietro le quinte avevano "cospirato" per fare insorgere i parigini, coloro che avevano dato determinati e precisi ordini di prendere le armi e rovesciare il governo francese. In realtà abbiamo visto che non sono gli ordini a determinare le rivoluzioni ma specifiche circostanze oggettive.

La campagna spietata verso gli internazionalisti ebbe partecipi non solo le polizie di tutta Europa ma anche i vari giornali borghesi e l’Indirizzo di Marx, ripubblicato come La guerra civile in Francia, fece sbraitare di rabbia la borghesia paurosa che, sotto la minaccia della Rivoluzione rossa, si era unificata in un unico partito e in un’unica ideologia, la Controrivoluzione. I governi di Francia, Prussia, Austria e Italia si coalizzarono in una Santa Alleanza contro gli internazionalisti. Scrive Engels a proposito: «Si è scatenata una caccia generalizzata agli aderenti all’Internazionale. Tutti i poteri del vecchio mondo, tribunali militari e civili, polizia e stampa, Junker e borghesi fanno a gara nelle persecuzioni, e su tutto il continente quasi non esiste un posticino in cui non si faccia di tutto per dichiarare illegale la grande fratellanza che incute tanta paura» (Il Congresso di Sonvillier e l’Internazionale).

Per quanto la componente marxista nell’Internazionale non potesse agire direttamente, noi rivendichiamo alla nostra classe e al suo partito tutto l’onore dell’eroico tentativo parigino. Sempre su "Programma" del ’66 concludemmo: «L’Internazionale aveva avuto essenzialmente il merito di preparare ideologicamente il proletariato. Dichiarando che "la emancipazione della classe operaia dev’essere l’opera della classe operaia stessa" o che "il grande compito della classe operaia è diventato la conquista del potere politico" (Indirizzo Inaugurale), l’Internazionale rischiarava le coscienze sul compito generale della questione militare, che è l’insurrezione armata e la difesa armata della Stato proletario sorto dalla demolizione dello Stato borghese. Dichiarando poi che "la classe operaia possiede un elemento del successo, il numero; ma i numeri pesano sulla bilancia solo quando sono uniti dall’organizzazione e guidati dalla conoscenza", Marx in quell’Indirizzo, metteva in piena luce la funzione insostituibile del Partito nella rivoluzione proletaria».

Il 13 giugno 1871 comparivano a Londra i 1.000 esemplari dell’Indirizzo che il Consiglio Generale aveva fatto redigere a Marx; in pochi mesi l’opuscolo avrà diverse edizioni in inglese distribuite fra gli operai e in un solo anno verrà tradotto in francese, tedesco, russo, italiano, spagnolo e olandese. In esso Marx condensava, oltre che la storia delle trascorse vicende, gli insegnamenti che la classe operaia doveva ricavarne per l’interesse della propria emancipazione. Il programma dell’Internazionale così decisamente si affermava.

Marx innanzitutto concludeva che il proletariato in Europa occidentale non aveva più da concedere il suo appoggio alla borghesia in qualsivoglia guerra nazionale: nessuna poteva più avere carattere progressista e antifeudale. La Comune aveva dimostrato che «contro il proletariato i governi nazionali sono tutti federati».

La parte principale dell’Indirizzo riguardava la questione dello Stato proletario. Marx salutò i provvedimenti che lo Stato della Comune aveva preso in soli tre mesi, ma allo stesso tempo ne rilevava i limiti. In una lettera a Kugelmann del 12 aprile 1871 spiegava: «Se rileggi l’ultimo capitolo del mio 18 Brumaio troverai che affermo che il prossimo tentativo della rivoluzione francese non consisterà nel trasferire da una mano all’altra la macchina militare e burocratica, come è avvenuto fino ad ora, ma nello spezzarla, e che tale è la condizione preliminare di ogni reale rivoluzione popolare sul continente. In questo consiste pure il tentativo dei nostri eroi parigini».

In una lettera del 6 aprile a Liebknecht così Marx criticava il carattere troppo "bonario" del governo comunardo: «Sembra che i parigini stiano soccombendo. È colpa loro, ma è una colpa che, di fatto deriva da una eccessiva honnéteté (bonarietà, ndr.). Il Comitato Centrale e la Comune hanno dato tempo al mischievous avorton (aborto maligno, ndr.) Thiers, di concentrare le truppe nemiche, 1° perché, stupidamente, non hanno voluto aprire la guerra civile, come se non l’avesse già iniziata Thiers con il suo tentativo di disarmare con la forza Parigi (...); 2° Per non destare l’apparenza di usurpare il potere, perdono momenti preziosi (...) per eleggere la Comune, la cui organizzazione ecc. ha richiesto, di nuovo, tempo».

Marx nell’Indirizzo mette bene a nudo la natura dello Stato borghese moderno che, con il suo esercito, polizia, magistratura, burocrazia, clero, ecc. ha origine dalle monarchie assolute del XVII secolo ed è divenuto maturo soltanto con la Rivoluzione francese e l’Impero napoleonico che spezzarono gli ultimi residui feudali. Da quel momento lo Stato è divenuto il moderno mezzo di repressione della classe borghese sulla classe proletaria. I fatti della Comune confermano che «dopo ogni rivoluzione, che segna un progresso nella lotta di classe, il carattere puramente repressivo del potere dello Stato risulta in modo sempre più evidente». E poi: «In presenza della minaccia di sollevazione del proletariato, la classe dominante riunita utilizzò il potere dello Stato, senza riguardi e con ostentazione, come pubblico strumento di guerra del Capitale contro il lavoro». Queste le verità che l’Internazionale insegnava nel 1871 al proletariato.

«La Comune fu la diretta antitesi dell’Impero. Il grido di "République sociale", col quale il proletariato di Parigi aveva iniziato la rivoluzione di Febbraio non esprimeva che una vaga aspirazione ad una Repubblica che non avrebbe dovuto eliminare solamente la forma monarchica del dispotismo di classe, ma lo stesso potere di classe. La Comune fu la forma positiva di questa Repubblica».

L’Internazionale non si limitò alla diffusione dell’Indirizzo. Per l’Inghilterra vennero svolte varie conferenze in cui compagni che avevano partecipato alla Comune, quali Robert Reid e Auguste Serrailier, raccontarono al proletariato gli eroici momenti delle barricate e la dura repressione borghese che seguì. Vennero inoltre organizzati scioperi e manifestazioni in appoggio dei Comunardi. Per molti mesi il Consiglio Generale dovette occuparsi del mantenimento dei profughi parigini, dato che per questi trovare un lavoro era divenuto estremamente difficile.

Il Consiglio Generale nel periodo della Comune aveva inoltre mantenuto una fitta corrispondenza con le sezioni dei vari paesi in cui il proletariato tentava di ribellarsi. In Spagna, soprattutto a Barcellona, diffusi furono gli scioperi politici. In Belgio il Consiglio Generale dovette intervenire in aiuto di un imponente sciopero dei sigarai e grazie a questo aiuto lo sciopero poté durare fino a settembre e vincere. In Germania notevoli furono le lotte organizzate dal Partito socialdemocratico tedesco contro la guerra, nonché gli arresti e le dure repressioni.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

PARTE QUARTA - 1871-1872

Il Congresso dell’Aja, approdo storico del comunismo
 

1. Controrivoluzione

Forte della sconfitta della Comune la reazione imperversava in tutto il continente. I Comunardi e gli internazionalisti, quelli non fucilati o incatenati ai lavori forzati nell’inferno della Caienna, erano dovuti fuggire dalla Francia e militavano nella più completa illegalità. In Germania lo stesso: i capi internazionalisti, Liebknecht e Bebel tra gli altri, erano stati arrestati e le sezioni dell’Associazione Internazionale sciolte con la forza. Durissima la repressione in Spagna ed in Italia, mentre in Inghilterra, nonostante il mantenimento della legalità, la repressione e la propaganda contro l’Internazionale e la Comune fu sistematica. Il Papa cattolico non era da meno: davanti ad una delegazione svizzera dichiarò: «Il vostro governo (...) assicura il diritto d’asilo a una quantità della peggiore specie, tollera questa setta dell’Internazionale che intenderebbe trattare l’Europa intera nel modo nel quale ha trattato Parigi. Questi signori dell’Internazionale, che non sono affatto dei signori, sono temibili, perché operano per conto dell’eterno nemico di Dio e dell’uomo».

Queste repressioni, che non impedivano all’Internazionale di acquistare militanti e simpatie per l’entusiasmo ancora vivo dell’insurrezione parigina, creavano costanti difficoltà nei collegamenti fra le sezioni e fra queste e il Consiglio Generale e non era facile trovare nuovi capi locali che sostituissero gli arrestati. Nonostante ciò l’Internazionale per più di un anno e almeno fino al Congresso dell’Aja rimase un gigante minaccioso per l’ordine costituito di tutta Europa. L’eco della sua potenza penetrò, oltre che in Russia, nelle lontane Australia e Argentina. È indicativo che la produzione di articoli e opuscoli borghesi contro l’organizzazione proletaria fiorì maggiormente che in precedenza.

Ma, come è solito succedere ai movimenti rivoluzionari, le sanguinose sconfitte impongono loro che ne traggano insegnamenti di principio. La maturazione storica esige questi parti dolorosi nelle coscienze dei partiti e la conseguente separazione da chi ne tira lezioni diverse e talvolta opposte. Nell’Internazionale divampò la lotta intorno alla improcrastinabile definizione dei princìpi. Alla corrente marxista vennero ad opporsi: l’anarchismo, che si muoveva come società segreta, predicava la immediata soppressione dello Stato e condannava la centralizzazione programmatica e militante nel partito; il movimento blanquista che teorizzava la cospirazione, fiducioso che la volontà di pochi potesse rimettere in marcia il corso della Rivoluzione. In Inghilterra si doveva invece fare i conti con tendenze moderate: da una parte i proletari erano sempre più corrotti con le briciole dei benefici che la borghesia inglese aveva ricavato dalla Guerra franco-prussiana, dall’altra i capi sindacali non erano ormai altro che dei venduti al capitale.

La sconfitta della Comune provocava la diffusione del volontarismo, consistente nel non riuscire a comprende i motivi della sconfitta e quindi incapace di una "buona ritirata", come avrebbe detto Lenin. È in questo terreno che si diffonde l’anarchismo, a dispetto del materialismo marxista che riconosce invece la necessità della preparazione del partito nell’attesa della prossima ondata rivoluzionaria.

In Italia si erano formate, come in Spagna, numerose sezioni che si pretendevano aderenti all’Internazionale ma che, grazie soprattutto al brigare di Bakunin, non avevano alcun contatto con il Consiglio Generale di Londra. In Italia l’immaturità sul piano teorico era massima: la sezione di Macerata aveva, ad esempio, nominato presidenti onorari Garibaldi, Marx e Mazzini.

Ma ciò che segna l’Internazionale dalla fine del 1871 e nel 1872 è lo scontro fra il marxismo e l’anarchismo, scontro che porterà alla scissione nel settembre del 1872 al Congresso dell’Aja, dove il partito addivenne alle splendide risoluzioni di principio sul carattere centralista assoluto del partito rivoluzionario e sullo scopo della dittatura politica di classe. Quello dell’Aja è uno di quei frutti che nascono dalle sconfitte che i rivoluzionari più tengono a tesoro nel proprio attuale programma.

All’Aja inoltre, alla fine di un ciclo di guerra internazionale di classe, si decise di trasferire, dopo otto anni di permanenza a Londra, il Consiglio Generale a New York. Quattro anni dopo l’Internazionale non esisterà più.
 

2. Per l’azione politica della classe

A causa della guerra nel settembre del ’70 non si era potuto tenere l’annuale congresso. A seguito, poi, della Comune e della dura repressione seguita, neanche nell’anno successivo il congresso si poté tenere. Scrissero Marx ed Engels in Le cosiddette scissioni dell’Internazionale: «Nello stato in cui si trovava la Francia non poteva eleggere dei delegati. In Italia l’unica sezione organizzata era allora quella di Napoli: proprio nel momento in cui doveva eleggere un delegato, venne dissolta dall’esercito. In Austria e in Ungheria gli elementi più attivi erano in carcere. In Germania alcuni dei membri più noti erano ricercati per alto tradimento, altri erano in prigione e i mezzi finanziari del partito erano assorbiti dagli aiuti alle famiglie». Si tenne allora nel settembre ’71 una conferenza a Londra con 32 delegati che, data la situazione, avrebbe dovuto risolvere indilazionabili questioni organizzative e cercare di venire a capo della lotta interna scatenata dai bakuninisti.

Il blanquista Vaillant apriva la discussione alla conferenza su questi scontri teorici, mettendo in luce quanto le tesi anarchiche fossero pericolose per il movimento rivoluzionario data la loro contrarietà all’azione politica della classe. Marx in un suo intervento ribadì che per l’Internazionale la prerogativa dell’azione politica era sancita già negli Statuti del ’64 e nell’Indirizzo Inaugurale e che era stata proprio la sottovalutazione dei compiti politici uno dei motivi del fallimento della Comune.

Contro gli anarchici del Giura, in quanto anti-politici contrari all’uso del Parlamento a fini rivoluzionari, Marx obiettò che la cosa andava valutata in base all’utilità che il partito poteva trarne. Rivolto a coloro che sventolavano la bandiera del rifiuto della lotta politica Engels aggiunse: «Noi vogliamo l’abolizione delle classi. L’unico mezzo è il potere politico nelle mani del proletariato. E noi non dovremmo fare politica? Tutti gli astensionisti si definiscono rivoluzionari. La rivoluzione è l’atto supremo della politica, e chi la vuole deve volere anche i mezzi che preparano la rivoluzione» (Sull’azione politica della classe operaia).

In un intervento sulla questione sindacale Marx mise in mostra i limiti tipici dei sindacati inglesi: «Se vogliono far uso della loro forza, col nostro aiuto, possono fare qualunque cosa. Nei loro statuti c’era un paragrafo, che vietava loro di occuparsi di politica: sono scese nel campo dei movimenti politici soltanto sotto l’influenza dell’Internazionale».

Su proposta di Marx si vietò nell’Internazionale la formazione di società segrete: esse, spiegava Marx, «invece di educare gli operai, li assoggettano a leggi autoritarie e mistiche che ostacolano la loro autonomia e indirizzano la loro coscienza in una direzione sbagliata». Altro insegnamento: il partito, in date fasi, dovrà assumere atteggiamenti difensivi che implicano diversi gradi di segretezza, verso l’esterno e, in una certa misura anche verso l’interno. Ma il partito non è una società segreta. Vennero approvati i deliberati sull’azione politica e sulle società segrete e, contro il caotico raggrupparsi anarchico, si decise che «tutte le organizzazioni esistenti dell’Internazionale (...) d’ora in poi debbono semplicemente ed esclusivamente denominarsi branche, sezioni, federazioni, ecc.».

Ribadito è inoltre lo scopo finale della abolizione delle classi nonché la necessità per il proletariato di rendersi completamente indipendente della politica borghese.

Le sezioni dissidenti in Svizzera vennero invitate a configurarsi come una federazione dell’Internazionale. Marx concluse: «la conferenza si appella allo spirito di solidarietà e di unione, che più che mai deve animare gli operai».

Il 25 settembre Marx tenne un discorso per il settimo anniversario della fondazione dell’Internazionale: «Quando le condizioni presenti dell’oppressione verranno eliminate tramite la consegna dei mezzi di produzione ai lavoratori produttori, per cui ogni essere umano capace di lavorare sarà costretto a lavorare per mantenersi, verrà anche rimossa l’unica base del predominio e dell’oppressione di classe. Ma, prima che una tale trasformazione possa venire eseguita, sarà necessaria una dittatura del proletariato, e la sua prima premessa sarà un esercito del proletariato. Le classi lavoratrici dovranno conquistare combattendo sul campo di battaglia il diritto alla loro emancipazione. Compito dell’Internazionale è di organizzare e di unificare le forze degli operai per la futura battaglia».
 

3. Le tesi degli "antiautoritari"

Alla Conferenza di Londra in fondo si erano solo esplicitati princìpi già contenuti negli Statuti. Ma l’Alleanza ne approfittò per passare all’offensiva aperta contro il Consiglio Generale. Il 31 ottobre l’alleanzista Schwitzguébel inviava, a nome della Federazione Romanza, una circolare alle sezioni del Giura e della Svizzera francese per la convocazione di un congresso a Sonvillier da tenersi il 12 novembre.

A Sonvillier «su sedici delegati, quattordici rappresentano delle sezioni morte o morenti (...) Su ventidue sezioni soltanto dieci erano rappresentate al Congresso; sette non avevano mai risposto alle comunicazioni del Comitato e quattro erano state dichiarate definitivamente morte. Ecco la federazione che si credeva destinata a sconvolgere da cima a fondo l’organizzazione dell’Internazionale» (Marx-Engels, L’Alleanza della democrazia socialista e l’Associazione internazionale dei lavoratori).

Al Congresso venne dato vita alla Federazione del Giura e approvata una circolare da inviare a tutte le sezioni dell’Internazionale. In essa si accusava il Consiglio Generale di aver contravvenuto ai poteri affidatogli dagli Statuti e di volere imporre la propria autorità sulle sezioni negando la loro "naturale autonomia". Il Consiglio Generale avrebbe deciso di volta in volta arbitrariamente le sorti dell’Internazionale, decretando regole senza avere più convocato alcun congresso da due anni. La circolare richiedeva poi l’immediata convocazione di un congresso dell’Internazionale affinché il Consiglio «ritorni alle sue funzioni normali, che sono quelle di un semplice ufficio di corrispondenza e di statistica».

Nella circolare era riportata anche questa efficace "summa" dell’anarchismo: «Vi è un fatto non contestabile, comprovato migliaia di volte dall’esperienza: è l’effetto corruttore prodotto dall’autorità su coloro nelle cui mani viene affidata. È assolutamente impossibile che un uomo, che eserciti del potere sui suoi simili, resti un essere morale». Si afferma poi: «La società futura non dev’essere altro che l’universalizzazione dell’organizzazione che l’Internazionale si sarà data. Dobbiamo dunque preoccuparci di ravvicinare quanto più possibile questa organizzazione al nostro ideale. Come si potrebbe immaginare una società egualitaria e libera nata da un’organizzazione autoritaria? È impossibile. L’Internazionale, embrione della futura società umana, è tenuta a essere, fin da ora, l’immagine fedele dei nostri prìncipi di libertà e di federazione, e a respingere dal suo seno ogni principio tendente all’autorità».

Oltre a non poter noi marxisti riconoscere alcun significato alla parola Autorità al di fuori di un dato contesto storico, né princìpi astratti come Libertà e Federalismo, che riteniamo comprensibili solo all’interno della borghese visione del mondo, il nostro concetto di partito prefigurazione della società comunista, come affermato anche in Tesi recenti della Sinistra Comunista, ben si distingue da quello biologico e solo quantitativo di embrione, cui si rifanno gli anarchici. L’anarchico – specie post-Aja – è un piccolo-borghese: si disegna un comunismo reazionario che generalizza la mancanza di generalità delle minime sfere in cui si frammenta il suo mondo, fatto di piccola produzione, piccolo commercio, ecc.. Una somma di individui soli e impauriti di fronte allo strapotere statale. Condannato al riformismo non rinuncia a cominciare a fare il comunismo nel sottoscala, incurante del senso di ridicolo che suscita. Per il marxista, al contrario, il partito è organo cosciente e militante nel cui seno debbono potersi esprimere i sentimenti di indignazione e disprezzo per il mondo presente e le aspirazioni a postcapitalistici rapporti fra gli uomini. Ma giammai può il partito, fortezza assediata, darsi a modello di rapporti produttivi che richiedono ben altri spazi, tempi e catene spezzate.

«Le dottrine anarchiche, scrivemmo nel 1957, ne I Fondamenti del Comunismo Rivoluzionario, sono la espressione della tesi: il male è il potere centrale; e assumono che nella sua rimozione sta tutto il problema della liberazione degli oppressi. L’anarchico non arriva che come concetto accessorio alla classe; egli vuole liberare l’individuo, l’uomo, facendo proprio il programma della rivoluzione liberale e borghese. Le imputa solo di avere eretta una nuova forma di potere, senza osservare che ciò è necessaria conseguenza del fatto che non ha avuto per contenuto e per forza motrice la liberazione della persona o del cittadino ma la conquista del dominio di una nuova classe sociale sui mezzi di produzione».

Il Congresso di Sonvillier fu solo l’inizio della guerra dichiarata al Consiglio Generale, che dalla Svizzera si estenderà a Spagna, Italia, Russia, nonché a Londra, e che impiegherà mezzi assai poco "antiautoritari".

Engels rispose al Congresso di Sonvillier con un articolo sul "Volkstaat" dove ribadiva perché era impossibile tenere un congresso in Europa e confutava l’accusa che alla Conferenza londinese si fossero date risoluzioni "autoritarie". Ma è contro il propugnato "antiautoritarismo" che il nostro si scaglia: «Un’associazione operaia che sulle sue bandiere ha scritto la lotta per l’emancipazione della classe operaia, alla sua testa dovrebbe avere non già un comitato esecutivo, bensì un semplice ufficio statistico e di corrispondenza (...) Proprio ora che dobbiamo batterci con mani e piedi per salvare la pelle, il proletariato dovrebbe organizzarsi non in base alle esigenze della lotta che gli viene imposta ogni giorno e ogni ora, bensì in base alle concezioni che alcuni visionari si fanno di un’indeterminata società futura!».
 

4. Anarchismo e piccola borghesia

Nel Manifesto Marx ed Engels avevano scritto, venticinque anni prima, un mirabile capitolo contro il socialismo utopistico, sferrando la sua dura critica soprattutto contro il cosiddetto socialismo piccolo borghese. Nonostante la breve esperienza delle lotte proletarie, già nel 1847 i comunisti avevano individuato nei cosiddetti ceti medi un’accozzaglia spuria di elementi sociali, privi di determinazione storica e ricchi solo di vigliaccheria.

Se escludiamo il 1848, il 1871 e il periodo 1917-1923, anni in cui la crisi sociale e fattori soggettivi hanno portato il proletariato sul terreno della rivoluzione, in 150 anni, in ripetute ondate, il socialismo piccolo borghese si è diffuso enormemente, influenzando in serie partiti ex-socialisti ed ex-marxisti. L’ideologia piccolo borghese, dietro la quale oggi spesso si nasconde la lunga mano della conservazione grande-borghese e degli Stati, ha sempre coltivato il sogno di un ritorno ad un capitalismo più arretrato, dove trovi ancora spazio la concorrenza fra piccoli produttori e il libero mercato. Anche quando questa ideologia si è travestita da rivoluzionaria non ha mancato di nascondere, sotto l’apparenza della sovversione sociale e anche del "terrorismo", il gradualismo, il riformismo e il generico antiautoritarismo. Il proletariato non lotta contro l’autorità del capitale, lo vuole distruggere.

L’anarchismo nell’Associazione puntava ad un’organizzazione non centralizzata, federalista, in cui ogni sezione fosse completamente autonoma: il sentimento rivoluzionario da solo, nella grande giornata, avrebbe unificato le forze in lotta. Dalla esperienza della Comune gli anarchici trassero l’insegnamento del comunalismo, noi marxisti la conferma dell’internazionalismo. La Rivoluzione, o meglio la pandistruzione bakuninista, avrebbe previsto nell’immediato la costruzione di una libera federazione di liberi produttori, una società non dissimile da quella preconizzata da Proudhon e sconfessata dagli stessi proudhoniani durante la Comune. Mentre per noi la Rivoluzione, essendo una guerra, ha bisogno della disciplina più assoluta nell’azione internazionale, per gli anarchici sarebbe stata vinta fidando negli istinti e nella spontanea pratica rivoluzionaria.

Il marxismo è la teoria negatrice del capitalismo e dunque teoria del proletariato, dell’unica classe che sia negazione della classe al potere. L’anarchismo è invece teoria "senza classe", si rivolge indistintamente agli individui, vuota astrazione della quale pretende essere la fedele espressione. Il marxismo vede la Rivoluzione come atto collettivo del proletariato, storicamente inevitabile, anti-individualista in quanto necessario prodotto di irrefrenabili forze economiche e sociali. Per l’anarchismo la Rivoluzione è invece prodotto di coscienza e di volontà, e non di partito ma di singoli individui. Atto inoltre prevalentemente intellettuale: per essi il grande problema è la sovrastruttura, ovvero l’oscurantismo delle Chiese, la Giustizia violata, l’Autoritarismo, ecc., senza poter comprendere che questi sono sottoprodotti del modo economico di produzione e dei suoi naturali effetti sulla società.

L’anarchismo di fine Ottocento si era diffuso prevalentemente fra i lavoratori in Spagna, nel Sud della Francia e in alcune regioni svizzere, dove il capitalismo era meno maturo, ma l’anarchismo-proudhonismo, in quanto portavoce dell’insoddisfazione delle classi spurie e reazionarie, morirà solo con il capitalismo.

Così come i proudhoniani, gli anarchici dell’Alleanza rifiutavano la lotta economica e sindacale (sebbene non ovunque) nonché la lotta politica organizzata dei proletari contro lo status quo. Contro l’esercizio del potere politico da parte del proletariato Bakunin è poi esplicito: «Chi dice Stato, dice violenza, oppressione, sfruttamento, ingiustizia, eretti a sistema e diventate altrettante condizioni fondamentali per l’esistenza della società (...) Chi vuole con noi l’instaurazione della libertà, della giustizia e della pace, chi vuole il trionfo dell’umanità, chi vuole l’emancipazione radicale e completa delle masse popolari, deve volere come noi la dissoluzione di tutti gli Stati nella federazione universale delle associazioni produttive e libere di tutti i paesi» (Ai compagni della Federazione delle Sezioni Internazionali del Giura).

Risponde Engels scrivendo a Cuno il 24 gennaio 1872: «Bakunin ha una sua teoria particolare, un accozzo di proudhonismo e di comunismo; il punto essenziale è che egli vede il maggior male da eliminare non già nel capitale, che attraverso lo sviluppo della società crea i contrasti di classe tra capitalisti ed operai salariati, ma nello Stato. Mentre la grande massa dei lavoratori socialdemocratici pensa con noi che il potere statale non è altro se non l’organizzazione che le classi dominanti – latifondisti e capitalisti – si sono data per proteggere i propri privilegi sociali, Bakunin pretende che lo Stato crei il capitale, che il capitalista abbia il suo capitale soltanto grazie allo Stato. L’abolizione dello Stato, se non è preceduta da una rivoluzione sociale, è un non senso; la soppressione del capitale costituisce appunto la rivoluzione sociale ed implica una trasformazione di tutto il modo di produzione».

Ancora sbottava Engels con Paul Lafargue il 30 dicembre 1871: «Appena ai bakuninisti va male qualcosa, dicono: è autoritario! e credono così di aver emesso l’eterna condanna. Se invece di essere borghesi, giornalisti, ecc. fossero operai o se solo avessero studiato un poco i problemi economici e le condizioni dell’industria moderna, saprebbero che non è possibile nessuna collaborazione senza imporre una volontà esterna, cioè un’autorità. Che questa sia la volontà di una maggioranza di elettori, di un comitato direttivo o di una singola persona, si tratta pur sempre di una volontà che viene imposta ai dissenzienti; ma senza quest’unica volontà dirigente nessuna collaborazione è possibile. Si provi a far funzionare una della grandi fabbriche di Barcellona senza direzione, cioè senza autorità! O ad amministrare una ferrovia senza la sicurezza che ogni ingegnere, ogni fochista, ecc. al momento giusto sia là dove deve essere!».

Qui abbiamo cercato di trarre le linee principali del pensiero anarchico, almeno per quello che interessa la polemica col marxismo. Ma in realtà l’anarchismo un’unica coerente teoria politica non l’ha mai espressa. Anche Bakunin, secondo la opportunità si rivela come ultrarivoluzionario per eccellenza, altrove invece civetta con il marxismo, altre volte ancora appare allineato alla ideologia giacobina della borghesia rivoluzionaria. Quando è fomentatore di sedizioni cospiratrici e di terrorismo individualistico e quando invece è legalitario. Chi era il vero Bakunin, dunque? Bakunin è tutto questo insieme, rappresenta l’involuzione post-marxista dell’anarchismo, ormai solo espressione di ceti spuri e declassati, privi di collocazione sociale e di prospettive storiche, quindi incapaci di elevarsi alla scienza della Politica e condannati ai traffici del politicantismo.

Non si perita, per attaccare Marx, di vergare pagine di banali pregiudizi antisemiti. Dall’antisemitismo passa all’antigermanismo, dall’antigermanismo alla slavofilia. Per l’organizzazione ricorre ai metodi della setta segreta con criteri a gerarchia chiusa e questi sì davvero "autoritari". È insomma il precursore del ribellismo tardo borghese, tanto roboante quanto impotente, che tutt’oggi appesta ma che nulla ha più a che fare con la classe operaia.
 

5. In Italia e in Russia

Il proletariato in Italia, decisamente minoritario, alle soglie degli anni ’70 dell’800 non aveva ancora esperienza di lotta di classe. I tentativi di coalizioni operaie dei decenni precedenti erano decisamente primitivi rispetto alla maturità delle lotte di classe in Inghilterra, Francia e Germania. Il movimento operaio era poi invischiato con l’ideologia reazionaria di Mazzini.

Mazzini all’esplodere della Comune si schierò contro i Comunardi. In un suo scritto, L’Internazionale, si legge: «Primo nostro dovere è quello di separarci apertamente, dichiaratamente dalle due parti e provvedere a che non si smarrisca in Italia il senso morale perduto purtroppo in Francia. Guai a noi se non sentiamo nell’anima che ogni nostro progresso futuro è a quel patto! Guai se la santa battaglia fra il Bene e il Male, tra la Giustizia e l’Arbitrio, tra la Verità e la Menzogna combattuta nella piena luce del cielo e sotto l’occhio di Dio in Europa si converte in guerra condotta nelle tenebre senza norma determinata, senza un faro che guidi i combattenti, senz’altra ispirazione che d’impulsi d’un’ora e delle misere passioni di ogni individuo! (...) Noi dobbiamo separarci solennemente dagli uni e dagli altri. Né cogli uni né cogli altri stanno la Giustizia e l’eterno Diritto». Ai princìpi dell’Internazionale sull’abolizione delle classi, Mazzini contrappone esplicitamente «Dio, l’Immortalità della Vita, la Patria, il Dovere, la legge Morale che sola è sovrana, la Famiglia, la Proprietà, la Libertà, l’Associazione». Non male come programma rivoluzionario!

In questa fase storica allo sviluppo del proletariato tanto materiale quanto spirituale, si accompagna in Italia un acceso dibattito teorico che vedrà nel novembre ’71 l’apice della vivacità. Mazzini per il 1° novembre aveva infatti convocato un congresso a Roma delle società operaie, tentando con questa mossa di vincere in anticipo sull’Internazionale. Bakunin, che si era intanto presentato al proletariato italiano come uno dei principali elementi dell’Internazionale, guidò allora l’opposizione completandola con la sua propaganda sull’abolizione dello Stato e spacciando addirittura questo suo personale programma come proprio dell’Internazionale. Contro Mazzini Engels aveva scritto articoli su "La Plebe" di Lodi e su la "Roma del popolo".

Crebbe l’influenza anarchica: diverse sezioni dell’Internazionale furono aperte, convinte al programma dell’anarchia e che non presero contatto con il Consiglio di Londra. Engels spiegava a Becker il 5 agosto 1872: «In tutta Italia abbiamo solo una sezione, Torino, di cui siamo sicuri; forse anche Ferrara. Milano, da quando Cuno è partito, è completamente nelle mani dei bakuninisti, Napoli lo è sempre stata e il Fascio operaio in Emilia, Romagna e Toscana è saldamente in mano a Bakunin. Questa gente rappresenta un’Internazionale a sé, non ha mai chiesto l’ammissione, non ha mai pagato le quote, ma si comporta come se appartenesse all’Internazionale».

Ben più che l’Italia, la Russia era il paese in cui il proletariato era ultraminoritario e un’azione radicale della borghesia in funzione antifeudale stentava a delinearsi. All’inizio degli anni ’60 erano però cominciate le lotte degli studenti che, con una certo radicalismo si protrarranno per anni e che avevano come anima teorica il socialista Cernicevskij, deportato poi in Siberia. A seguito delle dure repressioni zariste gli studenti ripiegarono nelle società segrete. I meno fortunati finirono in quella che aveva Necaev come organizzatore e Bakunin come capo dall’estero. Qui si poté assistere ad un nuovo travestimento del figuro, quello da "terrorista". Da notare che si hanno qui anticipazioni di pratiche di lotta politica borghese e comunista degenerata che avranno grande applicazione nel secolo successivo: le calunnie, i complotti e le azioni di terrorismo della sètta erano previste non solo contro le classi e le istituzioni nemiche ma ugualmente ad uso interno contro individui e gruppi che non si sottomettessero alla "linea".
 

6. Rivoluzione borghese in Spagna

Anche in Spagna l’Alleanza conduceva un’attività parallela all’Internazionale e a più riprese aggredì gli "internazionalisti autoritari". L’Alleanza era stata qui fondata da politici borghesi come Fanelli (membro del Parlamento italiano) e Garrido (deputato alle Cortes di Spagna). In breve tempo si diffuse in Spagna, nonché in Portogallo, grazie anche al fatto che agli internazionalisti spagnoli era stato fatto credere che l’Alleanza fosse un organismo riconosciuto dall’Internazionale e parte integrante di essa.

Il primo duro scontro fra alleanzisti e internazionalisti avvenne alla Conferenza di Valencia del settembre 1871 in cui gli internazionalisti proposero, stanchi di mesi di squallidi intrighi, l’entrata di tutto il Consiglio federale spagnolo nell’Alleanza, proposta a cui gli alleanzisti si opposero vivacemente in quanto avrebbe significato "voler subordinare l’Alleanza all’Internazionale". La guerra interna era esplosa.

Gli alleanzisti non osarono prendere direttamente posizione in favore alle risoluzioni di Sonvillier, cosicché gli internazionalisti, confortati dai risultati della Conferenza di Londra e venuti a conoscenza di quale fosse il vero ruolo dell’Alleanza, tentarono di scioglierla. Dichiararono quindi le loro intenzioni di fondare in Spagna un partito operaio autonomo e sferrarono duri attacchi ai repubblicani borghesi, alleati degli alleanzisti. Gli internazionalisti del Consiglio federale vennero invece sconfitti e da esso sospesi. Nell’aprile, dopo il congresso di Saragozza, gli internazionalisti, appena riammessi, vennero nuovamente espulsi dal Consiglio federale. Risposero fondando la Nueva Federaciòn Madrilena che il Consiglio di Londra riconobbe come unico Consiglio federale ufficiale.

In Spagna gli anarchici, maggioritari, avrebbero continuato a rappresentare l’Internazionale, invece la Nuova Federazione Madrilena, in linea con il Consiglio Generale, stentava a conquistarsi un’efficace influenza sulla classe operaia. Dal 1868 poi la Spagna era percorsa dalla rivoluzione borghese, dal superamento cioè del pattume feudale difeso da monarchici e carlisti, ed il partito che più si troverà forte all’inizio del 1873, cioè all’abdicazione di re Amedeo, sarà quello degli intransigenti borghesi che non solo otterranno la Repubblica, ma tenteranno di spingere questa sulle loro posizioni e di prenderne il potere, per decretare lo stato federale rivendicato nel loro programma.

Alle elezioni per le Cortes gli internazionalisti rifacentisi al Consiglio Generale di New York, rivendicheranno che era il momento decisivo per prendere l’iniziativa, inizialmente entrando al Governo massicciamente grazie a una opposizione operaia che si era fatta favorevole e portando così a compimento la distruzione dei partiti monarchici. Gli anarchici invece, non sapendo cosa fare, dal momento che entrare al Governo sarebbe andato contro i loro princìpi antiautoritari, daranno "libertà di scelta" ai loro militanti per le elezioni, cosicché la disorganizzazione operaia nelle elezioni determinerà una sonora sconfitta, mentre diversi alleanzisti non avranno alcun problema di principio ad essere eletti.

Ma la loro incapacità politica si rivelerà quando nel giugno gli intransigenti borghesi spingeranno all’insurrezione diverse città. Nella città spagnola operaia per eccellenza, Barcellona, in cui gli alleanzisti saranno particolarmente forti, non si inviterà il proletariato a prendere le armi ma si proclamerà... uno sciopero generale. Nelle analisi di Engels fatte sul "Volkstaat", dal titolo I Bakuninisti al lavoro, giustamente si noterà che se Barcellona avesse partecipato all’insurrezione, per il Governo spagnolo sarebbe stato decisamente difficile salvarsi. Dove poi gli alleanzisti guideranno l’insurrezione, ad Alcoy e a Sanlùcar de Barrameda, non solo assumeranno i poteri nella neonata Junta rivoluzionaria locale ma non faranno nulla per organizzare i proletari per una difesa delle città dall’esercito, cosicché questo non avrà alcun problema a reprimere la rivolta. Neanche in Andalusia, dove diverse città insorgeranno, gli anarchici avranno alcun problema a sedere nei governi delle diverse città, nonché di seguire il carro politico degli intransigenti. Oltre a ciò la propaganda per il federalismo e per l’autonomia locale nelle insurrezioni decreterà il fallimento in pochi giorni di tutte le rivolte.

Commenterà Engels: «Non appena si sono trovati confrontati con una seria situazione rivoluzionaria, i bakuninisti sono stati costretti a sbarazzarsi di tutto il loro programma tradizionale. Dapprima sacrificarono la dottrina dell’obbligo dell’astensione politica e in particolare dell’astensione elettorale. Poi seguì l’anarchia, l’abolizione dello Stato; invece di abolire lo Stato, tentarono piuttosto di creare un gran numero di piccoli, nuovi. Poi rinunciarono al principio che gli operai non debbono partecipare ad alcuna rivoluzione la quale non abbia come fine l’immediata e completa emancipazione del proletariato, e parteciparono a un movimento puramente borghese e dichiaratamente tale. Infine violarono un principio che avevano appena enunciato: che la costituzione di un governo rivoluzionario non è altro che un nuovo inganno e un nuovo tradimento della classe operaia – figurando tranquillamente nei comitati governativi delle singole città, e per di più quasi ovunque nella veste di una minoranza impotente, dominata numericamente e politicamente sfruttata dai borghesi (...) In sintesi, in Spagna i bakuninisti ci hanno offerto un insuperabile esempio di come non si deve fare una rivoluzione».
 

7. Il Congresso anarchico di Rimini

Per cercare di smontare il mito personale, oggi si direbbe "mediatico", di Bakunin che veniva allora influenzando l’Internazionale, i nostri, costretti a difendere l’organizzazione, si risolsero a denunciarne pubblicamente le infamie. Per chiudere definitivamente lo scontro e per chiarire alle varie sezioni la natura della polemica fra il Consiglio Generale e gli anarchici, Marx ed Engels inviarono nel marzo 1872 una circolare dal titolo Le Pretese Scissioni dell’Internazionale. Il 5 marzo il Consiglio Generale aveva deciso all’unanimità di diffondere il documento, ciò rappresentando nell’Internazionale, dato che fino a quel momento il Consiglio di Londra aveva preferito evitare ogni polemica. «Il vantaggio che la reazione europea trae dagli scandali provocati da questa società nel momento in cui l’Internazionale attraversa la crisi più seria dal momento della sua fondazione costringe il Consiglio Generale ad esporre apertamente la storia di questi intrighi».

La sede del V Congresso dell’Internazionale era stata decisa nei Paesi Bassi, all’Aja. Ciò dette il pretesto per ulteriori strepiti fra gli anarchici, in quanto difficilmente raggiungibile da spagnoli, italiani e svizzeri. Ma come si poteva indire il Congresso in un altro luogo se l’Internazionale era negli altri paesi illegale e la polizia tallonava i suoi militanti in tutti i loro movimenti?

Polemicamente gli anarchici organizzarono un congresso di una pretesa Federazione Italiana da tenersi fra il 4 e il 6 agosto a Rimini. Il Congresso dichiarò ufficialmente la scissione dall’Internazionale e la fondazione dell’Internazionale Antiautoritaria.

Fra gli anarchici presenti al congresso di Rimini sono da ricordare Andrea Costa (che qualche anno dopo passerà al socialismo), Carlo Cafiero (già in contatto epistolare con Engels e autore di un bel Compendio del Capitale) e il ventunenne Errico Malatesta. La maggioranza delle sezioni rappresentate erano dell’Emilia-Romagna e dell’Italia centrale. I milanesi della "Plebe" non aderirono e mantennero il proprio atteggiamento oscillante fra l’Internazionale ufficiale e quella anarchica. Gli spagnoli si limitarono a mandare un messaggio in cui si esortava a portare battaglia al Congresso dell’Aja. Come si vede in realtà il Congresso di Rimini non ebbe respiro internazionale, come già quello di Sonvillier.

A Rimini si decretò la costituzione di una Federazione Italiana con proprio statuto, con proprie quote ma con la dichiarata volontà di aprirsi all’Europa. Al Congresso si accettarono i Consideranda degli Statuti dell’Internazionale nella traduzione però edulcorata e non ufficiale che fra i tanti errori vedeva la sostituzione di "classe operaia" con il più generico "lavoratori", che meglio si adattava, si disse, alla "situazione italiana".

Si decise di non aderire al Congresso dell’Aja e di organizzare invece un contro-congresso a Neuchatel da tenersi contemporaneamente al Congresso dell’Internazionale. Su pressione però di spagnoli, belgi e russi alla fine i bakuninisti accettarono la presenza all’Aja, pronti però a lasciare il Congresso non appena si fosse andati contro le scelte di Rimini. La Federazione del Giura asseriva infatti: «Se il Congresso non accoglie le basi dell’Internazionale qui sopra enunciate (abolizione del Consiglio Generale, ecc.) i delegati, in accordo con i rappresentanti delle Federazioni Antiautoritarie, dovranno ritirarsi» (Mandato Imperativo dei Delegati della Federazione del Giura per il Congresso dell’Aja).

La definitiva indipendenza dal Consiglio di Londra e dall’Internazionale venne dichiarata a metà settembre al Congresso di Saint-Imier dove si proclamò tra l’altro un patto fra le libere federazioni autonome che avrebbero potuto decidere autonomamente la linea politica da condurre. A Saint-Imier si dichiarò che «la distruzione di ogni potere politico è il primo dovere del proletariato» e che «ogni organizzazione di un potere politico, per quanto proclamantesi provvisoria e rivoluzionaria, per venire alla suddetta distruzione, non può essere che un inganno ulteriore e per il proletariato sarebbe pericoloso quanto tutti i governi esistenti oggi».

Engels si incaricò di rispondere ai "riministi": «Importa constatare che delle 21 sezioni, i cui delegati hanno firmato questa risoluzione, v’è una sola (Napoli) che appartiene all’Internazionale. Nessuna della altre 20 sezioni ha giammai adempiuto alcuna delle condizioni prescritte dai nostri statuti e regolamenti generali per l’ammissione di nuove sezioni. Non esiste dunque una Federazione Italiana dell’Associazione degli Operai. Apparterrà al congresso dell’Aja di statuire sopra cotali usurpazioni» (Indirizzo del Consiglio Generale alle sezioni italiane sulla Conferenza di Rimini).

Dopo il congresso dell’Aja l’Internazionale Antiautoritaria cercherà di svilupparsi in Italia e di approfittare della scomparsa dell’Internazionale dal resto dei paesi europei. Gli anarchici che si dichiaravano i successori storici della gloriosa Associazione Internazionale degli Operai prenderanno piede grazie soprattutto a elementi quali Bakunin, Andrea Costa, Carlo Cafiero ed Errico Malatesta. Conteranno in Italia 130 sezioni e 25.000 seguaci dislocati per lo più in Emilia-Romagna, Toscana e Centro-Italia. In soli due anni però la situazione sempre più sfavorevole influirà notevolmente nell’organizzazione, che vedrà una discesa numerica drastica dei propri militanti.

La prassi dell’organizzazione sarà lasciata alla libera iniziativa e alle improvvisate opinioni delle singole sezioni, cosicché in breve tempo si avrà un’organizzazione in cui alcuni lotteranno nelle file del tramite le lotte economiche, altri tenteranno colpi di mano avventuristi che nelle intenzioni dovevano essere dimostrativi, altri ancora opteranno per il vero e proprio atto terroristico e individualista.

Scrive L. Faenza in Marxisti e riministi: «Quell’ansia di fare, quella febbre d’azione, che nel 1874, due anni dopo la Conferenza di Rimini, avevano provocato il moto di Bologna, fallito sul nascere ai Prati di Caprara (...) avevano raccolto, prima di quel moto, Costa, Cafiero e Malatesta alla Baronata, e proprio alla Baronata si erano tradotti in quel fantastico progetto che avrebbe dovuto provocare uno "sfascio" in Italia e dare inizio ad un nuovo ordine fondato sul "comunesimo" anarchico e libero. Partendo dalle colline emiliane, il moto avrebbe dovuto dilatarsi subito alla Toscana e alle Puglie, dove Malatesta, pronto ad agire, si era invece trovato quasi solo (...) Dopo il fallito moto di Bologna, quei giovani, nel 1877, avevano ritentato la prova nel Matese: non più assalti ai palazzi e alle chiese, secondo il grido lanciato da Costa tre anni prima alle bande dirette su Bologna, ma offensive dalla campagna per sollevare le masse contadine. Nella zona impervia e desolata del Matese (...) una banda esigua di internazionalisti, tra cui quattordici emiliano-romagnoli (...) capeggiata da Cafiero, Malatesta e dal savignanese Pietro Cesare Ceccarelli, era andata così incontro ad un secondo disastroso fallimento, nel tentativo di dar esca al grande incendio dopo aver messo a soqquadro gli archivi di alcuni comunelli di montagna».

Alla fine degli anni ’70 l’Internazionale anarchica sarà ormai in crisi acuta. Nel 1879, con una scissione, Andrea Costa, fino ad allora personaggio simbolo dell’anarchismo italiano, passerà ufficialmente al socialismo. Nel 1881 Andrea Costa fonderà il Partito Socialista rivoluzionario di Romagna, che per Costa doveva rappresentare un’iniziale nucleo di un futuro partito nazionale; in Lombardia sorgerà la Federazione dell’Alta Italia, sostanzialmente anti-anarchica e alla quale Engels guarderà con speranza. Al Sud, dove invece Malatesta riuscirà a resistere maggiormente all’avanzata socialista, si dovrà fare i conti con il movimento socialriformista di Benoit Malon.
 

8. Le grandi consegne storiche del Congresso dell’Aja

Dopo Ginevra, Losanna, Bruxelles e Basilea, il V Congresso dell’Internazionale si tenne all’Aja in un clima decisamente difficile, tanto per la controrivoluzione ormai dominante in Europa, quanto per gli scontri interni con gli anarchici. Marx commentava a Sorge il 21 giugno 1872 che «a questo congresso è in gioco la vita o la morte dell’Internazionale».

Il Congresso fu tenuto fra il 2 e il 7 settembre e il rapporto ufficiale del Consiglio Generale fu redatto come al solito da Marx, questa volta presente al Congresso, e venne approvato all’unanimità. Il rapporto ripercorreva gli avvenimenti delle lotte di classe degli ultimi due anni e marcava l’eroismo di un proletariato che, nonostante le grandi difficoltà, continuava la propria lotta per l’emancipazione. Il rapporto di Marx si concludeva nel seguente modo: «La differenza fra una classe operaia senza Internazionale e una classe operaia con un’Associazione Internazionale si manifesta nei termini più significativi se noi guardiamo indietro al 1848. Erano stati necessari lunghi anni perché la classe operaia stessa riconoscesse la sua propria avanguardia nell’insurrezione del 1848. La Comune di Parigi è stata subito accolta con dalle acclamazioni del proletariato di tutti i paesi».

Nello storico congresso furono quattro i punti salienti: 1° ripudio definitivo delle tesi anarchiche; 2° conferma delle funzioni del Consiglio Generale, cioè della centralizzazione, 3° necessità della dittatura proletaria come forma rivoluzionaria transitoria; 4° trasferimento del Consiglio Generale da Londra a New York.

Riguardo alla questione anarchica venne istituita una vera e propria commissione d’inchiesta che studiasse le prove che da più parti giungevano sull’atteggiamento disfattista dell’Alleanza. Nella commissione figurava anche Engels. Lo scopo era pubblicare, una volta raccolto, il materiale che dimostrasse la vera natura alleanzista. Il testo venne pubblicato nei primi mesi del 1873 con il racconto di tutta la vicenda. Sulla questione Engels disse al Congresso: «L’Alleanza a mezzo della sua organizzazione segreta, mira ad imporre il suo programma settario a tutta l’Internazionale. Il mezzo più efficace per venire a questo fine consiste nell’impossessarsi dei Consigli Federali locali e del Consiglio Generale facendovi eleggere dei membri dell’Alleanza, sfruttando il potere fornito dalla organizzazione segreta. Ed è esattamente quello che l’alleanza ha fatto laddove riteneva di avere prospettive di successo (...) È chiaro che nessuno potrebbe rimproverare i membri dell’Alleanza di avere propagandato il loro programma. L’Internazionale si compone di socialisti di differenti sfumature. Il suo programma è piuttosto largo proprio al fine di comprenderle tutte; la setta bakuninista è stata ammessa nell’Internazionale alle stesse condizioni di tutti gli altri. Ciò che le si rimprovera è proprio di aver violato queste condizioni».

La questione non era esclusivamente disciplinare. L’Internazionale, il nostro partito, come lo definisce Marx, capeggiando gloriosamente, benché non marxista, l’assalto al cielo della Comune, si confermò sano organismo politico della classe e giusta la nostra previsione che l’esperienza storica avrebbe fatto riconoscere al proletariato, fra i tanti, il suo genuino indirizzo comunista. Questo è di fatto avvenuto, col trionfo in essa del marxismo. Ma questa ricerca della giusta strada implicava il disinteresse di tutti, affratellati nella comune battaglia. Gli anarchici vennero a tradire questa originaria intesa e ruppero quindi con la disciplina e col metodo comune. C’è un rapporto necessario fra il maturare della coscienza di classe e il rifiuto, da parte degli anarchici, di rinunciare alle vecchie ideuzze da setta e il loro ricorso a metodi non da comunisti. Stava nascendo un altro partito.

E sulla concezione del partito fondamentali furono i risultati dell’Aja, un punto di arrivo, da cui ripartiranno tutte le esperienze successive del movimento, dalla Seconda alla Terza internazionale alla Sinistra comunista. Negli Statuti fu inserito il seguente Articolo, gigantesco monolito che segna il culmine di quel ciclo glorioso di lotte proletarie e su cui si attesteranno le generazioni di combattenti a venire:

«Nella lotta contro il potere collettivo delle classi possidenti, il proletariato non può agire come classe se non costituendosi esso stesso in partito politico distinto, opposto a tutti i vecchi partiti formati dalle classi possidenti. Questa costituzione del proletariato in partito politico è indispensabile per assicurare il trionfo della rivoluzione sociale e del suo fine supremo: l’abolizione delle classi.

«La coalizione delle forze operaie, già ottenuta attraverso la lotta economica, deve anche servire da leva in mano a questa classe, nella lotta contro il potere politico dei suoi sfruttatori.

«Poiché i signori della terra e del capitale si servono dei loro privilegi politici per difendere e perpetuare il loro monopolio economico e asservire il lavoro, la conquista del potere politico diventa il grande dovere del proletariato».

Otto anni di vita dell’Associazione, culminata nella prova del fuoco della Comune parigina, hanno dimostrato sperimentalmente la giustezza dell’indirizzo marxista: chi non vide allora non avrebbe visto mai più. Per il fine supremo, l’abolizione delle classi, la Rivoluzione si dispiega, nei tre accapi, in Partito, Sindacato, Dittatura, sugli interconnessi piani del Programma, dell’Economia, della Politica. I ruoli del partito e del sindacato, che fino ad allora nell’Associazione erano apparsi ancora non pienamente differenziati, assumono qui contorni precisi e definizione formale e viene stabilito con chiarezza il necessario loro rapporto reciproco. Per il sindacato ("già ottenuto") si adotta il paragone della leva ("servire anche da leva"), preso dalla meccanica come quello della cinghia di trasmissione di Lenin, nella lotta contro il potere politico degli sfruttatori. La classe, guidata da un partito centralizzato, utilizza le sue lotte difensive come una leva allo scopo dichiarato della presa e dell’esercizio rivoluzionario del potere, in vista della distruzione della struttura economica capitalistica e dell’abolizione definitiva delle classi.

Il Congresso votò l’affidamento di maggiori poteri al Consiglio Generale il quale era tenuto «a seguire le risoluzioni dei congressi e a provvedere in ogni paese alla rigida osservazione dei principi e degli statuti e regolamenti generali dell’Internazionale». In caso di indisciplina il Consiglio Generale poteva espellere una sezione fino alla decisione del successivo congresso. In un’assemblea dell’8 settembre ad Amsterdam Marx dichiarerà: «Il Congresso dell’Aja ha ritenuto giusto e necessario ampliare i poteri del Consiglio Generale e, per la lotta che ora si prepara, centralizzare tutte le azioni che se isolate sarebbero vane. Chi del resto potrebbe essere inquietato dei poteri attribuiti al Consiglio Generale, se non i nostri nemici? Dispone esso di una burocrazia, di una polizia armata che gli permettano di imporre l’obbedienza? La sua autorità non è forse un’autorità esclusivamente morale, e non è forse vero che esso sottopone le sue decisioni al giudizio delle federazioni che le debbono mettere in atto?».

La Comune aveva dato lezione di intransigenza tanto per l’organizzazione contingente quanto per lo Stato futuro del proletariato, lezioni già tratte in quel magnifico Indirizzo. Il proletariato soltanto ora poteva porsi dinanzi alla borghesia, nei momenti rivoluzionari, ad armi pari, non solo con una propria dottrina e "visione del mondo", ma anche con una propria e indipendente scienza militare della guerra rivoluzionaria, nel ’17 in Russia solo restaurata e confermata.
 

9. Per il partito di domani

Apparve inattesa al Congresso la decisione del trasferimento, su spinta soprattutto di Engels e Marx, del Consiglio Generale da Londra a New York. Di tutte le risoluzioni questa fu la più difficile da approvare: dopo una lunga discussione soltanto 30 votarono a favore, 14 votarono per Londra, 13 si astennero. I blanquisti soprattutto lamentavano che il trasferimento avrebbe decretato la morte dell’Internazionale.

Perché dunque Marx ed Engels spinsero per questa soluzione? La questione è istruttiva.

Innanzitutto l’estinzione in breve dell’Internazionale sarebbe comunque avvenuta. La controrivoluzione non solo imperversava in tutta Europa rendendo difficilissima la situazione dell’Internazionale, ma il proletariato stesso dopo i massacri della Comune temeva il ritorno alla lotta rivoluzionaria.

In otto anni l’Internazionale aveva raggiunto dei traguardi enormi, programmaticamente segnati nel percorso che va dall’Indirizzo Inaugurale alle risoluzioni di Ginevra, Bruxelles e Basilea, dall’Indirizzo sulla guerra civile in Francia alle definitive risoluzioni dell’Aja. Tutto ciò rappresentava un enorme patrimonio per il proletariato futuro che occorreva difendere, nel ciclo sfavorevole che si stava aprendo, dalle manovre anarchiche, dai possibili carrieristi nonché dal volontarismo cospiratore dei blanquisti. Il vincente programma rivoluzionario, appena formulato all’apice estremo di una battaglia perduta, sarebbe stato raccolto, quando i tempi maturassero, non più da una associazione di varie ideologie rivoluzionarie ma da un partito costituito fin dalla nascita su di un corpo dottrinario e su un bilancio storico unico e indiscusso.

Questo non potevano comprendere i blanquisti che optarono per la loro scissione dell’Internazionale. Rivoluzionari volontaristi, essi misuravano la capacità rivoluzionaria in un dato periodo dalla volontà nell’azione e dall’energia cospiratrice di un pugno di rivoluzionari. «Non dimentichiamo, affermarono al congresso, che il valore di un gruppo dipende meno dal numero che dall’energia di coloro che lo compongono (...) Attorno alla Comune rivoluzionaria si unisca e si raggruppi il proletariato, attorno alla Comune si levi l’appello di battaglia e ben presto di vittoria della rivoluzione sociale».

I blanquisti erano, nel campo socialista, come ammetterà nel ’74 Engels, non lontani dal nostro comunismo marxista, ma il loro insufficiente maneggio della dialettica storica li portava su un terreno di tattiche errate e ad errate conclusioni politiche.

Nella lettera a Bebel del 20 giugno Engels è ben chiaro su quale fosse la sua concezione del partito e quale dovesse essere la prospettiva dell’Internazionale: «Non bisogna farsi fuorviare dalle invocazioni "all’unità". Coloro che hanno sempre in bocca questa parola sono i più grandi fomentatori di discordia, come proprio adesso i bakuninisti svizzeri del Giura, gli autori di tutta la scissione, non fanno altro che gridare all’unità. Questi fanatici dell’unità sono o menti limitate che vogliono mescolare tutti in un miscuglio indistinto che basta solo che si depositi per riprodurre le differenze in contrasti ben più aspri, proprio perché si trovano in un unico vaso (...) oppure gente che vuole falsare, inconsapevolmente (...) o consapevolmente il movimento. Per questo i più grandi settari e i più grandi mestatori e furfanti sono, in determinati momenti, coloro che invocano più forte l’unità. Con nessuno, nella nostra vita abbiamo avuto più difficoltà e scontri che non con i fanatici dell’unità.

«Naturalmente ogni gruppo dirigente di partito vuole vedere risultati, e ciò è anche bene. Ma ci sono circostanze in cui bisogna avere il coraggio di sacrificare il successo momentaneo a cose più importanti. Specialmente in un partito come il nostro la cui vittoria finale è assolutamente certa e si è sviluppata in modo così colossale nel corso della nostra vita e sotto i nostri occhi, non c’è affatto bisogno, sempre e a tutti i costi, del successo momentaneo. Prenda ad esempio l’Internazionale. Dopo la Comune essa ha conosciuto un successo colossale. Perfino l’attonita borghesia riconobbe la sua onnipotenza. La grande massa dei membri credeva che sarebbe durata in eterno. Ma noi sapevamo bene che il pallone doveva scoppiare. Tutta la marmaglia si attaccava ad essa. I settari in essa presenti rialzarono la testa, cercarono di servirsi dell’Internazionale nella speranza che sarebbero state loro permesse le più grandi sciocchezze e bassezze. Noi non lo tollerammo. Ben sapendo che il pallone doveva scoppiare, non si trattava per noi di rimandare la catastrofe ma di badare che l’Internazionale ne uscisse pura e genuina.

«All’Aja il pallone scoppiò e Lei sa che la maggioranza dei delegati se ne tornò a casa con la sgradevole sensazione della disillusione. Eppure quasi tutti i disillusi, che pensavano di trovare nell’Internazionale l’ideale della fratellanza e della riconciliazione generale, avevano a casa propria contrasti ben più aspri di quello che era scoppiato all’Aja! Adesso i rissosi settari predicano la riconciliazione e imprecano contro di noi, intrattabili e dittatori! Ma se all’Aja ci fossimo comportati in modo conciliante, se avessimo soffocato la scissione, quale sarebbe stata la conseguenza? I settari, cioè i bakuninisti, avrebbero ricevuto un lungo anno di tempo per compiere in nome dell’Internazionale sciocchezze e infamie ancora più grandi: gli operai dei paesi più sviluppati si sarebbero allontanati nel disgusto; il pallone non sarebbe esploso, si sarebbe sgonfiato lentamente, a forza di punture di spillo (...)

«Già il vecchio Hegel, d’altra parte, ha detto: un partito rimane vincente quando si scinde e può sopportare la scissione. Il movimento del proletariato percorre necessariamente diversi livelli di sviluppo: ad ogni livello una parte delle persone ne rimane attaccata e non va più avanti; già da questo si capisce perché la "solidarietà del proletariato", nella realtà, si realizza ovunque tramite diversi raggruppamenti di partito che si combattono per la vita o per la morte, come le sette cristiane nell’impero romano in mezzo alle più aspre persecuzioni».

Come non ricordare a questo punto la celebre frase di Lassalle del 1852 che Lenin riporterà all’inizio del Che fare?: «La maggior prova di debolezza di un partito è la sua dispersione e la scomparsa di barriere nettamente definite; epurandosi, un partito si rafforza».

Nel settembre 1872 il Consiglio Generale era dunque trasferito a New York. Tra i suoi elementi annoverava Friedrich Adolph Sorge, amico di Marx ed Engels e loro fidato corrispondente. New York fu la guida dell’Internazionale fino al 1876, anno dello scioglimento ufficiale. In realtà però, anche volendo ridursi al cronachistico, nulla si aggiunse in questo periodo di importante per la lotta di classe del proletariato.

Scrive Marx a Kugelmann il 18 maggio 1874: «Nonostante tutte le manovre diplomatiche, una nuova guerra un peu plus tot, un peu plus tard è inevitabile e, prima della fine di questa, difficilmente si arriverà da qualche parte a movimenti popolari violenti e tutt’al più essi non potranno rimanere che localizzati e di poca importanza».

Nonostante gli sforzi, l’ordine regnava sovrano in Europa. Il proletariato francese era stato piegato dalla reazione di Thiers, ma anche in Belgio, Olanda, Italia, Germania e Impero austro-ungarico il proletariato era sconfitto dalla repressione poliziesca e dalla situazione così improvvisamente ribaltatasi in favore della borghesia. In Portogallo, nonostante il proliferare improvviso di sezioni internazionaliste, soprattutto a Lisbona, l’apparato poliziesco dello Stato aveva la meglio. Soltanto in Inghilterra il proletariato continuava audacemente a lottare, ma ormai irreversibilmente incanalato nell’alveo della direzione borghese delle Trade Unions.

La Spagna vedeva invece delle vere e proprie insurrezioni, ma la guida anarchica dimostrava appieno il proprio carattere disfattista.

Era inevitabile dunque che il Consiglio Generale di New York non potesse agire in modo significativo. È indicativo che quando si organizzò per il settembre del 1873 il VI Congresso dell’Internazionale a Ginevra gli elementi ad esso partecipanti fossero esclusivamente svizzeri. New York non potè che spedire il proprio Rapporto ma nessun delegato proprio né degli altri paesi giunse a Ginevra.

Queste le limpide parole di Marx scritte a Sorge, il 27 settembre 1873, preoccupato per il fallimento del Congresso: «Secondo me, nella situazione europea, è assolutamente necessario far passare in secondo piano l’organizzazione formale dell’Internazionale per un qualche tempo e non farsi sfuggire di mano, se possibile, il centro di New York, affinché degli idioti come Perret o avventurieri come Cluseret non si impadroniscano della direzione e compromettano tutto. Gli avvenimenti e l’inevitabile sviluppo e implicazioni delle cose, si preoccuperanno essi stessi del risorgere dell’Internazionale in forma migliore. Per il momento è sufficiente non perdere i contatti con i migliori nei diversi paesi, e non attribuire alcun valore alle prese di posizione locali a Ginevra».

Un anno dopo, nel settembre del 1874, Engels potè dire a Sorge che «la vecchia Internazionale era ormai completamente finita». Lo scioglimento formale dell’Internazionale avverrà a Filadelfia il 15 luglio 1876. Nel documento ufficiale si afferma: «L’Internazionale è morta, griderà di nuovo la borghesia di tutti i paesi, strombazzando il suo disprezzo e la sua gioia per le decisioni della Conferenza, che essa considererà la prova della sconfitta del movimento internazionale dei lavoratori. Non ci facciamo sconcertare dalle grida dei nostri nemici! Tenendo conto della situazione politica in Europa abbiamo abbandonato l’organizzazione dell’Internazionale, ma, in suo luogo, vediamo i suoi princìpi riconosciuti e difesi dai lavoratori progressisti di tutto il mondo civile. Lasciamo ai nostri compagni europei un po’ di tempo per recuperare le forze e provvedere nelle faccende nei loro paesi e, fra non molto, essi saranno senza dubbio in grado di abbattere tutte le barriere che li separano gli uni dagli altri e li allontanano dai lavoratori delle altre parti del mondo».

Si avverte però che tanto la direzione dell’appena fondato Workingmen’s Party of the United States, quanto il Consiglio Federale mantenevano il compito di riconvocare un congresso internazionale in Europa «appena gli avvenimenti lo permetteranno», nonché promettevano di conservare «tutti i documenti del Consiglio fino alla costituzione di un nuovo organo internazionale».

La nuova Internazionale risorgerà, dopo 15 anni, Engels ancora in vita, fondata esclusivamente sulla dottrina di Marx. Ma questa, come si dice, è un’altra storia, che un prossimo studio di partito tornerà paziente a sdipanare.