|
|||||||
|
|||||||
|
Quando uscì il precedente numero della Rivista la guerra nei Balcani ancora fiammeggiava, mostrando nell’ennesima carneficina di proletari e contadini ai confini della “civile” Europa delle Nazioni uno degli innumerevoli passi che porteranno allo scontro aperto tra gli Stati capitalistici. Un’altra carneficina, che stavolta la grancassa dei notiziari riporta sottotono, si va svolgendo nelle disperate repubbliche caucasiche del dissolto impero sovietico, alimentata dai conflitti imperialistici che si paludano malamente con l’ideologia religiosa, mischiata a quella nazionalistica.
Troppo facile previsione era affermare che ad una guerra, che non avrebbe risolto nulla, altri macelli sarebbero seguiti; che l’instabilità è ormai l’essenza del sistema capitalistico, soggetto a crisi cicliche che si rovesciano con conseguenze terribili sul proletariato. Troppo ovvio rendere evidente che il sistema produttivo del profitto si basa ormai essenzialmente sulla truffa e la grassazione alla scala e delle società e degli Stati, sulla spregiudicata e sistematica violazione di ogni patto e regola, sulla sopraffazione del più debole, con lo stravolgimento alla scala del pianeta ormai di ogni equilibrio di natura fino a minacciare, in prospettiva, l’esistenza stessa della specie.
I piagnistei su questi registri continuano da ogni sponda, fra il rassegnato e il compiaciuto dei millenarismi impotenti; in ogni caso argomentazioni coscientemente incapaci di deviare di un pollice la corsa folle e disumana, moralismi per ventri satolli e istupiditi, mistico terrorismo contro i proletari delle metropoli come delle sterminate periferie del terzo mondo perché, dimenticata la prospettiva di riscatto comunista, si volgano a cercar sollievo nell’integralismo delle religioni, tanto più rigide e prescrittive quanto più senza speranza, in questo mondo, la miseria dei vivi.
Il quadro che appare ora al pensiero debole degli amanti della pace, dei democratici convinti, degli spiriti belli che sperano nella buona volontà, gronda ogni giorno di più sangue sudore e lacrime, proprio come la promessa al suo popolo fatta dal grande macellaio borghese d’Inghilterra allo scoppio della Seconda Guerra; e sono passati più di cinquanta anni da una vittoria della Democrazia, della Ragione, che pareva eliminare per sempre il mostro della guerra.
Alla chiusura di questo anno di lavoro, l’ultimo del secolo che avrebbe dovuto essere della nostra Grande Rivoluzione, vogliamo guardar oltre la retorica del fine millennio, e legare il secolo che passa al domani che sappiamo maturare.
La generosa e ardente prospettiva dei “cinquanta anni di attesa”, dopo l’Ottobre Rosso ed il suo tracollo sotto i colpi della controrivoluzione e di una successiva e micidiale guerra mondiale, non si è realizzata in questo secondo mezzo secolo.
Quella stessa prospettiva, che i compagni rimasti saldi sul terreno della rivoluzione internazionale e del Comunismo dopo questi terribili eventi ben sapevano non si potesse concretizzare all’indomani della guerra vinta dal più forte imperialismo, ed avevano traguardato all’ultima parte “del difficile secolo”, resta però immutata e non smentita per quanti sono oggi schierati sul fronte di allora. Se il secolo si è ormai chiuso senza un secondo assalto al cielo, siamo certi restano intatte le possibilità future della Rivoluzione.
Da materialisti constatiamo che le previste possibilità che giocavano a sfavore della ripresa della Rivoluzione si sono tutte determinate; da materialisti valutiamo la profondità dell’abisso in cui è caduto il proletariato internazionale e l’estrema durezza della futura ripresa di classe.
Il guasto causato dalla controrivoluzione staliniana e stato troppo profondo per la ricostituzione, nel ciclo storico in questo dopoguerra, del fronte rivoluzionario del Partito con la sua classe. L’apertura, sotto la spinta irrefrenabile del vittorioso imperialismo statunitense, degli immensi mercati d’oriente, il loro balzare prepotente sulla scena mondiale ha ridato, per un altro ciclo ancora, energia e vita al declinante meccanismo capitalistico.
Possibilità previste, né era certo in nostro potere, né di quanti ci hanno preceduto, fermare o piegare la storia secondo il nostro volere; in questa coscienza abbiamo, in questa metà del secolo, lavorato per il Comunismo di domani, senza volontarismi ma con l’entusiasmo dei rivoluzionari. Sappiamo che la futura crisi generale del capitalismo mondiale non consentirà più spazi e condizioni per essere assorbita, per che ne sia controllata e domata la immane energia disgregatrice di ogni struttura.
Alla scala degli individui – borghesi o proletari – il processo storico appare un faticoso attendere, una voragine che il proletariato mondiale non sembra più in grado di risalire. Dall’alto della nostra scientifica dottrina di classe invece abbiamo registrato, finanche in un passato recente, i sussulti di un meccanismo produttivo morente scuotere violentemente gli assetti borghesi, ed abbiamo misurato la giustezza delle nostre tesi, benché ancora la debolezza del movimento proletario organizzato e la riduzione a quasi sola “qualità” della compagine internazionale del Partito di classe fossero impedimento alla ripresa rivoluzionaria. Il nostro programmatico lavoro non ne è stato scalfito.
Alla scala storica, sola significativa per il materialismo dialettico, il ciclo passato è temporalmente poca cosa. Anche se l’esausta generazione presente non dovesse “vedere” il risorgere della Rivoluzione, alla luce della dottrina e dell’esperienza viva di tutte le generazioni di rivoluzionari, essa “è cosa certa, cosa viva”.
Il Comunismo, vinto, sbeffeggiato e insozzato dalla rovina dell’Ottobre e da tutte le nefandezze dell’opportunismo è ancora oggi accusato di ogni infamia e turpitudine; alle montagne di morti che gli si attribuiscono non basterebbero tutti i tribunali del mondo, secondo il grido di esecrazione che sgorga dai petti dei suoi nemici. Morto e sepolto, continua però a far paura, tanta paura che non si cessa dal celebrarne continuamente il funerale, tanta che i sicofanti del capitalismo non sentano il bisogno di ripetersi lo scongiuro “mai più”.
Tanta paura che più nessun filosofo, pensatore o professore è in grado ormai di pensare all’incerto futuro se non in relazione alle miserie, alle cialtronerie, alle falsità propalate per glorificare le magnifiche sorti e progressive di questo marcio sistema; tutti sanno soltanto proiettare il miserabile presente nelle terrificanti, per essi e per le folle, “sfide” del domani.
Basterebbe questa assoluta incapacità del nostro avversario di classe
a pensare storicamente il domani a confermarci, malgrado le apparenze e
le difficili condizioni in cui opera la compagine rivoluzionaria, della
inevitabilità del Comunismo e della necessità materiale storica oggettiva
e impersonale della milizia di partito. Il loro terrore è la nostra forza
e sicurezza nel domani.
Rapporto esposto alla riunione generale a Torino, ottobre 1999.
I PRECEDENTI LAVORI
Il nostro Partito ha sempre seguito con attenzione lo svolgersi degli eventi economici e storici nell’Africa australe ed in special modo nel Sudafrica per la particolare condizione in quell’area geostorica di unico paese ad elevata produzione e concentrazione industriale, in cui, per precise cause storiche, le divisioni fra le classi coincidono praticamente con le divisioni di razza.
Questo rapporto ripercorre e sintetizza il lavoro precedente confermando le immutate posizioni teoriche e lo aggiorna con i dati più recenti dopo il primo mandato elettorale dalla fine dell’apartheid, contraddistinto dalle democratiche elezioni del primo presidente negro, Nelson Mandela, nel 1994.
Nell’articolo apparso sui numeri 13 e 14 del 1956 dal titolo: Rapporti fra classi e razze nel Sudafrica, ed in quello sui numeri 25 e 26 dello stesso anno titolato: L’anticolonialismo e noi si chiarisce e ribadisce il concetto che il carattere dello sfruttamento razziale perpetrato contro le masse negre era un portato non di una pretesa inferiorità della popolazione di colore rispetto a quella bianca ma un indispensabile fattore economico del regime capitalista, ben radicato in Sudafrica.
Così scrivemmo: «La secolare lotta contro l’imperialismo britannico retaggio della borghesia sudafricana, e precisamente della parte di essa che discende dai boeri, si ispira agli interessi e alle ideologie della conservazione capitalista. Necessariamente non può esplicarsi che nelle forme del nazionalismo borghese, il quale si traduce immancabilmente, nel caso di Stati a contenuto plurirazziali, in sfrenato razzismo (...) Per chi sa leggere la storia, la situazione originale esistente nel Sudafrica svela il contenuto vero della rivoluzione borghese industriale. La mentalità imprenditoriale dell’inglese sudafricano rifugge dalle rigurgitate libidini schiaviste che infiamma l’africaner. Mentre costui, ereditando i pregiudizi agrari dei suoi progenitori boeri, si sbraccia a chiedere l’isolamento dei negri in “riserve” e prende ad ideale la completa separazione delle razze, l’erede dei paladini dell’antischiavismo è per la ”eguaglianza” delle razze. Che cosa lo muove? Non certo la filantropia, non certo le credenze religiose. L’imprenditore sudafricano vuole che il negro sia “libero”, cioè libero di vendere a lui la propria forza lavoro. Vuole che il negro bantù diventi operaio salariato, produttore di plusvalore nella sua azienda. Con lui non può non essere d’accordo il finanziere della City che investe miliardi nelle miniere diamantifere o aurifere. Così le divergenze che dividono le due grandi sezioni della classe-razza dominante sudafricana aiutano a comprendere che panni vesta la “libertà” e l’”uguaglianza” dei borghesi».
Da questi concetti noi comunisti rivoluzionari ricavammo la comprensione dei ristretti limiti democratoidi di tutti i roboanti movimenti anti-apartheid e ci hanno permesso di prevedere che nemmeno con l’elezione di Mandela, figura carismatica della comunità negra, con il suo programma di transizione e di riconciliazione, potessero cessare lo sfruttamento e la miseria dei negri. Noi abbiamo sempre sostenuto la necessità della rivoluzione proletaria contro il capitalismo sudafricano che ha reso la segregazione razziale un suo fattore economico indispensabile.
La profonda crisi capitalista a livello mondiale che ha avuto il suo apice nel 1974 ha provocato anche nel Sudafrica dure rivolte e scontri di classe, sempre ben celati dietro il comodo schermo dell’oppressione razziale, a partire dai moti di Durban del 1972-1973 contro l’aumento del costo della vita, fino alla sanguinosa rivolta di Soweto del 1976. Quei fatti furono commentati nella stampa di partito da una serie di articoli e dal testo completo della Riunione di lavoro dell’ottobre del 1976 Sviluppo economico e sociale dei paesi dell’Africa australe pubblicato nei numeri 28/29/30/31, seguìto ai numeri 32/33 dall’analisi degli avvenimenti della vicina Rhodesia.
Da quel corposo rapporto e da nuovo materiale traiamo un breve estratto
che ricollega i periodi essenziali di tutta la storia del Sudafrica, in
cui mutamenti economici e sociali conducono necessariamente ai mutamenti
politici culminati nella politica dell’apartheid: la feroce azione
della borghesia locale contro le masse proletarie negre.
UNO SCALO SULLA VIA DELLE INDIE
Questi periodi possono essere ricondotti a tre grandi momenti: il primo, 1652/1867, che va dalla prima fondazione della Colonia del Capo da parte della Compagnia Olandese delle Indie Orientali alle scoperte dei grandi giacimenti minerari; il secondo che arriva alla seconda guerra mondiale; il terzo che dalla guerra arriva ai giorni nostri. Al momento è prematuro affermare, poichè nulla ci autorizza a sostenerlo, come conferma l’aggiornamento dei dati economici, che si possa parlare di un quarto periodo a partire dal 1994.
La necessità di una via marittima sicura per i mercati delle Indie, Cina e Giappone spinse le potenze marinare europee alla ricerca di approdi protetti e permanenti ove effettuare gli scali per il rifornimento di viveri e la riparazione delle navi, assolutamente necessari per viaggi che duravano 7-8 mesi. La zona del Capo di Buona Speranza era un luogo ideale in un lungo tratto di costa che non offre molte alternative. Durante il primo lungo periodo di dominio olandese fino alla guerra europea del 1794 la Compagnia delle Indie attuò una politica di forte controllo della piccola e ristretta colonia ed ostacolò fortemente ogni sua espansione e colonizzazione della regione interna.
Le popolazioni che vivevano nel perimetro sudafricano prima della colonizzazione europea sono divise in due razze: ottentotti e boscimani, mentre la bantù, che oggi rappresenta una grossa percentuale della popolazione negra, emigrò dal nordafrica in un lunghissimo periodo che, iniziato già prima della colonizzazione, arriva, come dimostrano gli scontri che i boeri dovettero sostenere, sino al 1800. Boscimani e bantù possedevano un’organizzazione sociale su base tribale, i primi traevano il proprio sostentamento dalla semplice raccolta e caccia senza agricoltura ed allevamento ed erano necessariamente gruppi nomadi molto piccoli, mentre i bantù possedevano un’organizzazione sociale più elevata basata sulle tribù, comunità altamente centralizzate con un proprio nome, territorio ed un capo con poteri trasmessi in modo ereditario. Le principali attività economiche erano l’agricoltura cui si dedicavano le donne e l’allevamento del bestiame cui si dedicavano gli uomini. Il capo tribù suddivideva il territorio tribale in lotti assegnati alle singole famiglie e riservandone una parte per i pascoli comuni.
Dunque popolazioni costituite da piccole entità distribuite in territori grandi quattro volte l’Italia, in minima parte stabili, indipendenti fra loro, che non si sono mai integrate e non hanno mai costituito una presunta nazionalità negra sudafricana. Questo aspetto, apparentemente marginale, fu abilmente ripreso per rispondere alla domanda su chi erano i nativi, chi i primi stabili colonizzatori e a chi spettasse la cospicua eredità fondiaria, con relativi storici confini, specialmente dopo la scoperta degli immensi giacimenti minerari.
Sterminati i boscimani e fortemente ridotti gli ottentotti restano le popolazioni bantù, gli eredi dei coloni boeri e gli inglesi. Fin dall’inizio le popolazioni negre locali si rifiutarono di lavorare per la Compagnia, che quindi decise di importare schiavi prima da Giava, che si integrarono rapidamente tramite matrimoni interrazziali, e successivamente schiavi negri dall’Angola e dalla costa malgascia, dando così inizio al popolamento negro e stabile della zona del Capo.
L’Inghilterra durante il periodo delle guerre europee occupava le colonie olandesi a Ceylon e Città del Capo e qui avviava una diversa politica tendente a concedere facilitazioni ai coloni e a stipulare patti con le popolazioni negre al fine di evitare scontri che l’avrebbero costretta ad accrescere il proprio apparato militare e a investire senza profitti. Rendendosi conto dell’importanza strategica della colonia promosse l’allargamento degli insediamenti tramite l’arrivo di nuovi coloni, prevalentemente inglesi, la distribuzione di territori su base semi permanente con affitti basati sulla diversa fertilità del suolo e la costruzione di una serie di cittadine che rappresentano la prima vera ed organizzata forma della colonizzazione.
Dal 1800 iniziava il contrasto tra i boeri ed il potere britannico. Questi pretendevano una legislazione che costringesse i negri a lavorare al loro servizio in regime di semi schiavitù, senza il diritto del possesso delle terre, e fomentavano la rivolta delle tribù con le quali invece l’Inghilterra cercava buoni contatti. Al contrario la politica inglese dell’abolizione della schiavitù, che si può considerare completamente realizzata nel 1838, la negazione di aiuti militari inglesi ai coloni, la ricerca di nuove terre e l’insicurezza della frontiera orientale provocò la grande emigrazione dei boeri che portò alla colonizzazione della parte nord del Sudafrica con la successiva formazione, non senza grandi scontri, di due repubbliche libere.
Da quel momento il Sudafrica fu diviso in due sezioni distinte: una
settentrionale boera ed una meridionale britannica, contraddistinte da
esigenze sociali diverse che portavano a rapporti diversi con gli indigeni,
formalmente liberi ma costretti ad un rapporto di sottomissione che provoca
condizioni economiche a livelli bassissimi. Al nord fu applicata una politica
basata sulla sottomissione razziale, che permetteva di contenere al minimo
le retribuzioni degli autoctoni impiegati nelle grandi fattorie o al servizio
dei coloni, al sud invece maggiori libertà permettevano all’imperialismo
inglese più libertà di movimento verso le tribù locali, compreso il
diritto di voto ai colorati a partire dalle elezioni del 1854.
LA RICCHEZZA MINERARIA
Il secondo periodo della storia economica e politica del Sudafrica parte dalla scoperta degli enormi giacimenti di minerali preziosi, che evidentemente provocarono un radicale mutamento della politica inglese che, adesso sì, vista la facile prospettiva di ricavare grossi proventi, tende ad organizzare il subcontinente sotto un unico governo sottomesso all’Inghilterra. Parallelamente si rafforzava il nazionalismo delle repubbliche indipendenti ed altre potenze tentavano di entrare nella partita.
Oro e diamanti, oltre ad attrarre grandi masse d’immigranti, aprirono le porte ai capitali europei che permisero l’organizzazione su scala industriale dell’estrazione mineraria. L’improvviso impatto con il modo di produzione capitalista sconvolse, a partire dal 1884, il sistema economico delle Repubbliche, ancora agricolo e pastorale. Le maggiori Compagnie, per assicurarsi la stabilità del gigantesco finanziamento necessario e per ottenere una maggiore efficienza, si mossero verso la formazione di trust, tra i quali nel 1892 assunse rilievo la Compagnia di Rhodes, che tentava di costruire una grande federazione sudafricana e un asse ferroviario, e quindi controllo territoriale, dal Cairo a Città del Capo. Scoppiarono inevitabilmente delle guerre contro le Repubbliche boere che nel 1902 persero formalmente la loro indipendenza e divennero colonie britanniche.
Le guerre Anglo-Boere rappresentano lo scontro tra due modi di produzione: quello capitalistico moderno e quello agricolo e pastorale. Il conflitto e la vittoria inglese rappresenta non tanto lo schiacciamento della nazionalità boera a favore dell’imperialismo britannico, quanto la manifestazione del processo che vede la trasformazione dell’agricoltore boero in commerciante ed industriale, la nascita delle città, delle fabbriche, di un vero tessuto produttivo e mercantile nazionale. In breve il conflitto Anglo-Boero rappresenta la gestazione del moderno Stato sudafricano che si completa, anche se non con la piena autonomia, nel 1910.
La nuova produzione mineraria, la nascente industria manifatturiera e il commercio estero ingigantito mutano necessariamente il rapporto con le popolazioni indigene, che passa da una fase di difesa contro le scorrerie ed il nomadismo incontrollabile ad una impellente necessità economica per il reperimento e sfruttamento intensivo di mano d’opera a bassissimo prezzo. Dato che il problema della mano d’opera era legato a quello della proprietà terriera indigena, il democratico Partito Laburista dette inizio alla politica dell’apartheid, rivelandone da subito il carattere economico.
Nel 1913 varò una legge, il Nactives Land Act, che divideva il paese in zone riservate unicamente agli indigeni ed altre destinate solo per gli europei; stabiliva il principio che la residenza degli africani al di fuori delle aree loro assegnate potesse essere giustificata solo da un rapporto di lavoro con padroni ed imprenditori bianchi. In sostanza creò delle riserve, pari a solo il 7,3% di tutto il Sudafrica, veri magazzini di forza lavoro a basso costo in zone lontane dai centri minerari, non collegate alla rete ferroviaria, terre di scarto, paludose o desertiche da cui prelevare alla bisogna la quota strettamente e contingentemente necessaria. Ogni salariato negro doveva portare con sé il “libretto”, vidimato mensilmente dal datore di lavoro, senza il quale, fuori dalla propria riserva tribale che gli era stata assegnata dal governo o dal ghetto procuratogli dall’azienda capitalista, poteva essere arrestato immediatamente. Calcoli attendibili affermano che in tutto il periodo dell’apartheid furono operati circa 18 milioni di tali arresti.
Poichè la forza lavoro bianca era una piccola quota, prevalentemente operai qualificati e tecnici, si stabilì già dal 1911 una Colour Bar, cioè un rapporto fisso, inizialmente di 3,5 operai di colore contro 1 bianco, con scarto fra le paghe similare. Tale rapporto venne ripetutamente aggiustato secondo le esigenze del capitale alimentando costantemente la separazione di classe fra i proletari di tutte le razze, organizzati sindacalmente in differenti sindacati.
Il Sudafrica partecipò affianco l’Inghilterra alla Prima Guerra Mondiale nel tentativo di ampliare ed ovest, a scapito della Germania, i suoi confini e di ottenere la completa indipendenza, obiettivi che non raggiunse completamente mentre ottenne vantaggi nel potenziamento del suo apparato produttivo e commerciale che durò per anni.
Nel 1922 scoppiò una violenta agitazione operaia a conseguenza del brusco calo del 30% del prezzo dell’oro passato da 130 a 90 scellini l’oncia: la Camera delle Miniere nel tentativo di limitare le perdite decise di abbassare il salario giornaliero, di licenziare 4.000 operai bianchi per sostituirli con mano d’opera negra, che accettava salari dieci volte inferiori, e di portare la Colour Bar al rapporto di 1 bianco ogni 10,5 bantù. I “Piccoli Bianchi”, come venivano chiamati i proletari europei o sudafricani bianchi privi di risorse e disposti a far qualsiasi lavoro, altrove chiamati anche “Poveri Bianchi”, insorsero in venti o trentamila ingaggiando duri scontri armati contro la Camera delle Miniere, sedati addirittura con l’intervento dell’artiglieria. Nel giro di una settimana la rivolta fu stroncata con una bilancio di 230 morti e quasi 1.000 feriti fra i minatori bianchi. Lo sciopero fallì anche perché ai bantù fu ordinato di continuare il lavoro, impedendo così il formarsi di un unico fronte di lotta di classe, come era già successo nel 1920 quando 60.000 minatori negri entrarono in sciopero per aumenti salariali e la possibilità di accedere a lavori qualificati e non fu dato loro appoggio dai sindacati dei minatori bianchi.
Questo episodio dimostra chiaramente che il razzismo sudafricano ha precisi fondamenti economici tesi unicamente a mantenere al più basso possibile il valore della forza lavoro: lo prova la facilità con cui a cannonate non hanno esitato a massacrare minatori qualificati di razza bianca in sciopero, per sostituirli con quelli negri a salari molto più bassi.
Il 1929, anno della grande depressione mondiale, vede la caduta delle quotazioni dei diamanti, per il crollo del mercato americano, e il ribasso del prezzo della lana che causarono un generale arresto dell’economia sudafricana. Ma le forti riserve auree, il naturale vigore del suo giovane capitalismo ed il forsennato sfruttamento della classe operaia permisero al Sudafrica di superare agilmente la crisi giungendo addirittura nel 1934 a colmare il deficit della bilancia dei pagamenti e nel 1938 a registrare un attivo di 19 milioni di sterline. Il tutto grazie alla tanto disprezzata massa bantù che con il suo lavoro aveva permesso il raddoppio del prodotto nazionale dal 1933 al 1939.
Sentendosi molto forte la borghesia sudafricana rafforzava la sua politica contro il suo proletariato ormai praticamente costituito dalla popolazione negra: nel 1936 promulgò la Representation of Natives Act che privava i negri, a partire dalla Provincia del Capo ed in breve estesa a tutta l’Unione, dei diritti elettorali che godevano dal 1853: da ora poterono scegliersi solo tre deputati di origine europea delegati a rappresentarli, affiancati dai Natives Representative Councils composti da negri, in parte eletti ed in parte nominati dall’alto. Il terrore di un partito di proletari negri di ispirazione comunista era certamente forte. Inoltre la nuova Natives Trust and Land Act, portando dal 7% al 13% i territori inalienabili riservati alle tribù, accompagnata dal divieto per i bantù di acquistare terre al di fuori delle riserve così costituite, dava l’avvio alla successiva politica dei Bantustan.
Il Sudafrica partecipò alla seconda guerra mondiale a fianco degli Alleati con uomini e mezzi, nonostante il suo fosse più che un esercito di tipo europeo un gigantesco corpo di polizia. Nonostante ciò, favorito dalla sua lontananza dai fronti bellici, riconvertendo parte del suo apparato industriale ed acquistando il resto grazie alle sue forti riserve, costituiva una discreta forza, al punto che «alla fine del 1944 l’aviazione sudafricana costituiva il 28% dell’intera forza aerea alleata impegnata sul fronte italiano; unità sudafricane parteciparono alla campagna d’Italia e nell’aprile 1944 furono le prime ad entrare a Firenze» (Storia del Sudafrica, B.Lugan, 1989).
Lontano dal teatro di guerra, il Sudafrica era una base di rifornimento ideale e per questo la sua economia ricevette una spinta gigantesca che durò per tutto il periodo bellico. Sorsero nuove industrie di produzione e trasformazione, sia industriale sia agricola, al punto che il prodotto industriale netto quadruplicò dal 1933 al 1945 passando da 61 a 276 milioni di rand; analogamente quello agricolo crebbe passando da 75 a 276 milioni. Lo sviluppo del comparto agricolo fu così radicale che l’agricoltura di quel paese uscì da un cinquantennio di crisi divenendo alla fine della seconda guerra mondiale una delle ricchezze del paese.
Non siamo riusciti a trovare alcuna documentazione circa il contributo
di energie e sangue strappato al proletariato bantù per ottenere questi
poderosi risultati, ma non è difficile immaginare che esso fu enorme e
doloroso.
PRIMO METODO: L’APARTHEID
Il terzo periodo, dalla seconda guerra mondiale ad oggi, lo riscriviamo completamente perché possiamo qui considerare un arco di tempo maggiore in cui meglio si chiariscono i vari episodi, che vengono a confermare la struttura e l’impostazione del precedente rapporto, concludendo con una analisi dei dati economici.
Già in quel lavoro si rilevava che nella ripartizione del P.I.L. nei tre settori: agricoltura (7,6%), minerario (12,4%) ed industriale (21,6%), la somma delle ultime due parti, il 34%, poneva il Sudafrica fra i paesi industrializzati, essendo tali percentuali leggermente superiori a quelle dell’Italia, inferiori di poco a quelle dell’Inghilterra. È importante notare che già nel 1932 la percentuale della sola produzione industriale (13,6%) superava quella agricola (12,2%); quella mineraria è in testa col 24,3%. Il livello di proletarizzazione era del 70% della popolazione attiva contro il 51% dell’Italia, inoltre la forza lavoro si trovava concentrata nelle poche zone minerarie ed industriali: il 40% degli attivi nel 4% del territorio. Altro dato importante riportato era l’alta percentuale della produzione agricola proveniente da aziende private di grandi dimensioni, anche se dotate di una bassa meccanizzazione, 0,9 trattori per ettaro contro i 3 dell’Italia, dovuto al carattere estensivo delle colture.
Nel terzo periodo di quest’ultimo mezzo secolo si possono individuare due segmenti temporali strettamente legati fra loro: il primo dal 1948 al 1986 durante il quale si dispiega la politica dell’apartheid, per poi rivelare i suoi limiti pratici, economici e il suo fallimento; il secondo dal 1986 al 1994 in cui si rinuncia a tale politica e si creano le condizioni per un passaggio “morbido” del potere parlamentare alla maggioranza negra, culminato nell’elezione di Mandela, fatti salvi tutti i diritti economici politici e di sicurezza personale dei capitalisti bianchi e della piccola e media borghesia meticcia ed asiatica.
Nel 1948 le elezioni politiche decretarono la forte vittoria del nuovo schieramento borghese nazionalista e conservatore ed ora il fronte dell’apartheid ebbero via libera dalla maggioranza parlamentare. Il concetto di apartheid, un neologismo comparso per la prima volta nel 1929, consistente nella “netta separazione di carattere politico e sociale tra le diverse componenti della popolazione sudafricana”, fu discusso e calibrato nel periodo bellico e di fatto costituì il vero nodo e significato delle elezioni dell’immediato dopoguerra. Fu precisato che apartheid non significava sterminio ma separazione fra negri e bianchi e noi abbiamo sempre precisato che si trattava di separazione di classe. Ovviamente lo sterminio dei bantù avrebbe significato la chiusura di fabbriche, miniere e aziende agricole, oppure ricorrere all’immigrazione di una decina di milioni di proletari bianchi o, ancor peggio, che la piccola borghesia sudafricana e famiglie entrassero loro direttamente nel vulcano della produzione.
Lasciamo perdere, per dignità nostra, le argomentazioni teologiche delle locali Chiese Olandesi Riformate, che ovviamente hanno trovato in alcuni passi della Bibbia la derivazione e quindi la giustificazione del differente sviluppo, e di conseguenza del ritardo, delle diverse razze. Cancellare quelle differenze razziali avrebbe significhato, per i teologi della City e del Sudafrica, cancellare un preciso disegno divino, colpa assai grave per quei timorati del Dio Capitale.
Nel 1949 fu approvato il Prohibition of Mixed Marriages Act e nel 1950 lo Immorality Amendment Act: il primo vietava i matrimoni misti, il secondo ogni contatto sessuale fra razze diverse. Seguì nello stesso anno il Population Registration Act, che classificava tutte le popolazioni sudafricane in quattro gruppi razziali: Bianchi, Meticci, Indiani e Negri, ed il Group Areas Act, legge sulle zone di insediamento che stabiliva per ciascun gruppo razziale lo spazio geografico in cui avrebbe dovuto abitare. Di fatto tutto il Paese fu diviso in due settori: una zona molto vasta per la popolazione bianca, dove la nuova legge regolava l’insediamento dei non bianchi, e dieci territori nazionali, o Homelands, uno per ciascuna delle etnie negre, primo passo per l’avvio dei Bantustan. Furono poi rafforzate le leggi sul libretto di lavoro, quelle sulla separazione dei luoghi pubblici e quella sui mezzi di trasporto. Sempre nel 1950 il piccolo Partito comunista sudafricano fu messo fuori legge.
Infine arrivò il Bantustan Authorities Act che prevedeva la costituzione graduale nel tempo di otto territori nazionali all’interno dei quali i negri avrebbero dovuto tornare alla loro organizzazione tribale prima di ricevere l’autonomia sotto l’autorità dei capi tradizionali; al di fuori di questi sarebbero diventati stranieri e clandestini. I confini di queste riserve coatte, dove si pensava di relegare la maggior parte dei negri che assediavano le città e i centri industriali, ripercorrevano solo parzialmente i confini storici tribali, per il resto erano totalmente artificiali e rispondevano più ai bisogni del capitalismo locale che a discutibili criteri etnici.
L’inizio ufficiale dell’indipendenza dei Bantustan è del 1976, che chiude il lento ciclo preparatorio iniziato nel 1913 con la Legge sulle Terre Indigene. Un primo esperimento pilota risale al 1963 con la formazione del Transkei che conteneva 2.400.000 negri di etnia Xhosa e l’ultimo fu il Ciskei nel 1981 con altri 500.000; in totale secondo il piano del 1976 nei 10 Bantustan previsti dovevano risiedere 8,6 milioni di bantù su una popolazione complessiva negra di 18 milioni, pari al 47% del totale.
Questi territori tribali avevano un’economia propria che arrivava malapena alla pura sussistenza e per il resto: istruzione di base, sanità, amministrazione, polizia e poco altro dovevano dipendere totalmente dal governo centrale, cosa che portò, causa anche la crisi economica generale, a costi proibitivi. I dati sul Transkei relativi al 1972/73 così indicano le entrate del governo locale: 9,1 milioni di rand, pari al 32,3% del totale, dalla tassazione del reddito locale e 28,1 milioni dal governo centrale sudafricano. Nel 1974/75 il reddito locale produceva sempre 9,1 milioni di rand mentre sale a 64 milioni il contributo governativo. Progressivamente furono avviati gli altri Bantustan, non senza la dura opposizione della popolazione negra che dovette comunque sottostare a questa enorme pulizia etnica.
Dal 1959 iniziano le grandi agitazioni negre contro il costante indurimento delle restrizioni nei loro confronti, le quali furono tutte represse violentemente; tra queste la più feroce accadde nel 1960 a Sharpeville quando le forze di polizia, prese dal panico durante una manifestazione, aprirono il fuoco sui manifestanti negri uccidendone 69 e ferendone alcune centinaia.
Il tutto avveniva mentre la ricchezza nazionale cresceva ancor più per l’avvio dello sfruttamento intensivo delle miniere di uranio. In questa situazione di euforia economica e di repressione si svolse il referendum per la proclamazione della repubblica indipendente ed il 52% dei 1.626.336 elettori bianchi, gli unici ad averne diritto dal 1936, votò Si e, su un pressante invito di molti paesi membri, uscì dal Commonwealth. Il capitalismo mondiale e quello britannico, sanzioni o meno, come il ridicolo embargo sulle armi del 1963 che fu esteso e reso più duro nel 1977, continueranno egualmente i loro affari. Solo lamentavano la “concorrenza sleale” di un capitalismo che aveva la fortuna di poteva pagare così poco i suoi salariati.
Dal 1961 al 1970 la polizia si impegnò con gran efficacia per la repressione di tutte le organizzazione di qualsiasi tipo e livello che si opponevano al governo e i moti più vistosi cessarono.
Ma nel giugno 1976 riesplose la situazione con le violente manifestazioni degli studenti delle zone urbane ed in particolar modo di Soweto, l’enorme ghetto negro alla periferia di Johannesburg, cioè della piccola borghesia negra, organizzata dalla Black Conscioussness (Coscienza Nera) contro il tipo di insegnamento scolastico impartito ai negri, giudicato inferiore a quello dei bianchi ed umiliante, retaggio di una legge del 1922, lo Apprendiceship Act, che da quella data riservava solo ai bianchi la formazione professionale e quindi la possibilità di carriera nelle aziende.
Il grande movimento di opposizione negra era costituito dall’ANC, African National Congress, fondato nel 1912, originariamente di tendenze cristiane, liberali e non violente, anche a causa della forte influenza esercitata da Gandhi, agli inizi del secolo avvocato in Sudafrica, ma fino al 1949 rimasto un piccolo movimento. Nel gennaio di quell’anno scoppiò una violenta sommossa tra indiani ed africani, prevalentemente zulù, costata 150 morti e oltre 1.000 feriti. Questo scontro determinò un temporaneo avvicinamento delle razze non bianche che stabilirono di combattere insieme il comune nemico. L’ANC abbandonò la linea pacifista e stabilì il suo nuovo indirizzo che chiarisce subito la sua basilare inconsistenza di classe: «Azioni, non più parole; indipendenza nazionale invece che giustizia». Questo impegno si concretizzò nel giugno 1950 nel proclamare uno sciopero generale da parte dell’ANC, del Partito del Congresso indiano e del Partito Comunista per protesta contro il progetto, poi realizzato, di mettere fuori legge il Partito Comunista. La predetta fonte però non cita i dati sull’esito dello sciopero.
Le organizzazioni comuniste erano sorte in Sudafrica da una scissione del movimento sindacale bianco che, nel nome dell’internazionalismo proletario, raccolse i lavoratori ostili alla Prima Guerra Mondiale. Raggruppati nell’ISL (International Socialist League) si trasformò, sostanzialmente solo di nome, in Partito Comunista nel 1921 rimanendo però estraneo alla questione dei negri. Nel 1924 la nuova direzione decise di organizzare anche i lavoratori di colore ed il partito crebbe ulteriormente. Sono del 1928 le indicazioni del Comintern contenute nelle “ Tesi sul movimento rivoluzionario nelle colonie e semicolonie” (1 settembre 1928) per costituire una repubblica indigena indipendente interrazziale, tappa verso la costituzione di un governo di operai e contadini.
Ma già nel 1930 si capì che tutti gli sforzi per creare un unico fronte di classe si bloccavano contro le antiche barriere tribali e quelle più moderne del capitalismo bianco. Il movimento, causa anche la seconda guerra mondiale, rinculò e nel 1948 i bianchi che avevano votato per il Partito Comunista si erano ridotti a soli 1.784; due anni dopo fu messo facilmente fuori legge e buona parte dei suoi componenti entrò nell’ANC. Seguì un periodo di scissioni tra gruppi interrazziali e gruppi estremisti di soli negri fino alla rivolta di Sharpeville del 1960, che fu l’occasione che il governo utilizzò per sciogliere tutte le organizzazioni presenti ed incarcerarne i gruppi dirigenti.
La repressione poliziesca garantì al capitale il controllo del Sudafrica,
se si escludono i moti di Durban del 1972/73 contro il carovita, fino alla
rivolta di Soweto del 1976. Da quella data iniziò nelle grandi città
una protesta sempre più forte ed estesa mentre vari gruppi si fuserono
nel 1978 nell’AZAPO, Organizzazione del Popolo di Azania, il nome dato
al Sudafrica dagli indipendentisti negri. I gruppi più radicali e consistenti,
particolarmente l’ANC, che lo dichiara esplicitamente, si dotano di “santuari”
per la lotta armata, soprattutto nei paesi vicini, continuamente bombardati
dall’esercito sudafricano.
SECONDO METODO: IL GOVERNO NEGRO
La situazione evolve radicalmente dal 1982 a seguito di una concomitanza di fattori politici ed economici internazionali che avranno un ruolo importante, tra cui quello macroscopico del crollo del corso dell’oro che passa da 850 dollari per oncia del gennaio 1980 a 325 del marzo 1982 con una caduta netta del 62%; inoltre il pericolo dell’esplosione della polveriera negra e la necessità di scambi economici più agili da parte dei paesi più industrializzati premono per un allentamento dell’apartheid, condizione per una attenuazione del sistema delle sanzioni. Nel 1982 si concede ai ghetti urbani negri uno statuto particolare per ovviare le difficoltà della normativa dei Bantustan, applicata a una popolazione molto più estesa e mobile di quella prevista, e, nel 1983, una parziale e separata partecipazione al potere politico alla minoranza meticcia e asiatica, quella negra esclusa perché “cittadina” dei Bantustan.
Lo scontro si estende anche fra negri, contro quelli che hanno accettato la collaborazione, e quindi anche il posto di lavoro nel sistema centrale, compresi quelli nella polizia: sfocia in sistematiche distruzioni dei servizi pubblici nei ghetti e nel linciaggio dei funzionari negri e delle rispettive famiglie accusati di sostenere prezzolati il regime dei bianchi. E’ prassi il pneumatico incendiato intorno alle braccia. Nei grandi ghetti urbani dall’estate 1984 a tutto il 1985 avviene lo scontro per il controllo delle township che coinvolge anche occupati contro disoccupati divisi per gruppi etnici. In questo breve periodo il bilancio è di parecchie centinaia di morti, uccisi in parte dalla polizia, in parte da regolamenti di conti fra etnie diverse, economicamente contrapposte, che porta nei ghetti all’imposizione dello stato d’assedio.
«I principali disordini repressi dalla polizia sono stati quelli di Sharpeville (3 settembre 1984), di Uitenhage e dei sobborghi di Città del Capo (28 febbraio 1985) nel corso dei quali rimasero uccisi quarantacinque neri. Ma ben più gravi sono gli scontri tra neri. Nella regione di Johannesburg il 25 settembre ed il 5 novembre 1984 si affrontarono minatori in sciopero ed altri non scioperanti appartenenti ad etnie diverse, e dieci di loro trovarono la morte. Il 7 agosto 1985 nei dintorni di Durban i quartieri indiani furono attaccati dai neri, che vi massacrarono cinquanta persone e ne ferirono centinaia d’altre; nel dicembre dello stesso anno restarono uccisi sessanta neri durante i combattimenti fra 2.000 e 3.000 Pondo a Umbogintwini, a sud di Durban» (ibidem).
Le altre cause economiche dell’aggravarsi della situazione sono: una profonda crisi nel settore agroalimentare dovuta ad una lunga siccità; la carestia conseguente provocò l’allontanamento incontrollato dai territori tribali verso le città, un ancora più gravoso, ormai inutile, sostegno economico fornito ai Bantustan (mai riconosciuti come Stati indipendenti da nessuno e quindi i suoi abitanti erano privi di qualsiasi cittadinanza e passaporto) e il proliferare di bidonville illegali sorte intorno alle città, assolutamente incontrollabili, costituite da sottoproletari e sbandati di ogni genere. Semplici voci circa l’evacuazione di queste baraccopoli a Crossroads e Kayelitsha presso Città del Capo il 18 giugno 1985 provocano uno scontro con la polizia con 16 morti e 200 feriti.
Il sistema dell’apartheid, divenuto non gestibile, rischia ormai di mettere in crisi, nel caso dell’estendersi e radicalizzarsi della lotta, tutto il sistema economico. La borghesia sudafricana, giunto il momento di dar ascolto ai piagnistei pacifisti, dichiara di voler allentare la morsa verso il proletariato negro, prima con riforme parlamentari e costituzionali e concedere infine la cittadinanza sudafricana, cioè l’abolizione di tutte le restrizioni razziali nei confronti dei negri, compresi i cittadini delle Homelands che ne facciano richiesta. Il 31 gennaio 1986 il Parlamento sudafricano annuncia la fine della politica di apartheid e di dare inizio alla formazione di un’unica nazione veramente democratica costituita da minoranze razziali con pari dignità. Nel giugno 1986 il Consiglio Europeo all’Aia richiede sanzioni economiche contro il Sudafrica a sostegno della richiesta di liberazione di Mandela, designandolo così come il capo del nuovo comitato d’affari in quel Paese.
Due anni dopo però il governo proibisce l’attività politica delle organizzazioni antirazziste sia bianche sia negre e si svolgono le prime elezioni amministrative multirazziali, ma su base ed per organismi separati, che sono boicottate dall’ANC, dalla Chiesa Anglicana e dal COSATU, il potente sindacato sorto nel 1985, mentre quelle politiche con il medesimo sistema sono previste alla fine del 1989. La situazione peggiora ed infine si dimettono i falchi del regime, rappresentati dal 1978 dal premier Botha ed arrivano le colombe, con De Klerk che porta il ramo d’ulivo, per preparare l’ormai necessario cambiamento. In quei pochi mesi e nel mandato successivo fino al 1994 si organizza il passaggio delle consegne alla maggioranza negra in modo indolore, controllato e soprattutto garantista per i diritti economici del capitale locale, compreso l’accordo di escludere ogni forma di nazionalizzazione dell’apparato produttivo e fondiario privato esistente. Occorre ricordare che già il 60% dell’economia è nazionalizzata.
La figura simbolo e garante di questo progetto è Mandela che viene dapprima liberato (1990) poi insignito del Nobel della pace (1993). Parallelamente al riconoscimento legale dell’ANC, si provvede a ridurre d’importanza i partiti estremisti tramite bande di sicari che eliminavano i dirigenti più radicali, sia bianchi sia negri; tale fu l’impegno che dal 1990 più di 10.000 attivisti politici e sindacali furono assassinati da forze irregolari, perfettamente armate e protette dall’esercito e dalla polizia, come emerse da successive inchieste della magistratura.
L’ANC intanto dichiara di volere essere un partito populista, interclassista e per la riconciliazione nazionale, cercando di fare marcia indietro rispetto le precedenti posizioni di tendenza trotskista sulle nazionalizzazioni dei mezzi di produzione e sul controllo operaio, che le erano servite per chiamare a sé l’ala più combattiva e radicale del proletariato negro. In questo periodo è tutto un fiorire di organizzazioni politiche che si agitano per ritagliarsi una fetta di potere e affari nella nuova èra; tra queste la Chiesa Anglicana locale, con a capo Monsignor Tutu, altro Nobel per la pace, forte della teologia della liberazione, diventa una importante alleata del Fronte democratico unito (UDF); l’Inkata, potente organizzazione politica zulù, inizialmente pacifista, riformista e nata a sostegno di quell’etnia, rompe poi con l’ANC quando questa opta per la linea interrazziale, la lotta armata ed il sostegno dell’URSS e si schiera con i gruppi reazionari occupandosi con le sue organizzazioni paramilitari di vergognose rappresaglie contro altri negri e indiani. Risorge anche un Partito Comunista.
I lavoratori sono diretti dalla COSATU, sorta nel dicembre 1985, dalla unificazione di 34 Union tra cui la FUSATU, federazione di sindacati nei settori industriali, e la NUM che raggruppava essenzialmente i minatori. A differenza della CUSA, sindacato razzista ispirato al movimento di Coscienza Negra, la COSATU tende a raggruppare tutti i lavoratori su una base di classe e non razziale.
Nel 1994 si considera completata la preparazione per il passaggio delle consegne e il 9 maggio si svolgono le prime elezioni interrazziali. Come da copione Mandela viene eletto presidente e tutti applaudono per il Sudafrica dove inizia l’era di vera democrazia, di riconciliazione, di sviluppo e di risanamento degli enormi squilibri sociali, politici ed economici di un passato che si vuole frettolosamente dimenticare. Il risultato di questo primo mandato appena concluso con l’elezione di Mbeki, un collaboratore di Mandela, è ben misera cosa, come ammesso dal presidente stesso in una relazione al parlamento: il 42% dei negri è disoccupato!
Emerge dunque che la via democratica, non essendocene state altre di
classe, né lì né altrove, per il momento può fregare ed incatenare
una seconda volta il proletariato africano, principale preoccupazione della
borghesia nazionalista negra e bianca di tutta l’Africa australe. Questa
paura era ben chiara già da tempo, dall’indipendenza dello Zimbabwe
e dalla lunga crisi del Mozambico il cui presidente, in un’intervista
a “Le Monde” nel 1985, avvertiva che una rivoluzione in Sudafrica sarebbe
più radicale e potrebbe avere maggiori conseguenze di quella francese
del 1789. Proprio per questo borghesia negra e bianca costituiscono un
fronte unico contro tutto il proletariato dell’Africa australe.
UNA GRANDE TRADIZIONE DI CLASSE
Un nostro successivo rapporto, del 1985, Prospettive della Rivoluzione in Sudafrica (P.C. n.135/1985), si incentra sullo sviluppo economico e sulla formazione delle organizzazioni sindacali, lavoro poi completato in Nuovi Sindacati operai in Sudafrica per un Fronte interrazziale contro il Capitale (P.C. n.152/1987).
Il primo sindacato negro ICU sorse nel 1919 e già nel 1920 organizzò come già detto il primo sciopero a cui parteciparono 60.000 minatori negri, che non ricevettero alcun sostegno dai colleghi bianchi i quali temevano, come poi avvenne gradualmente nel tempo, li sostituissero nel lavoro. È del 1922 lo sciopero contro questo inevitabile processo, finito a cannonate dopo una settimana di scontri armati. Negli anni dal 1934 al 1945 si contano 304 scioperi per aumenti salariali con 58.000 partecipanti; il salario medio di un negro rispetto quello di un bianco passa dal 20% del 1930 al 27% del 1941.
Con l’entrata in guerra dell’URSS, il Partito Comunista Sudafricano si oppose ad ogni azione sindacale che potesse indebolire il rifornimento bellico verso l’Inghilterra e gli Alleati contro la Germania, contro la quale il Sudafrica aveva vecchi conti in sospeso sulla Namibia, e manovrò per la scissione della grande centrale sindacale negra la CNETU (Council of Non-european Trade Unions). Al contrario la minoranza che uscì per fondare la PTU (Progressive Trade Union) argomentava giustamente che i lavoratori non avevano niente da guadagnare aiutando il governo a vincere la sua guerra. Nonostante le misure di guerra il numero dei giorni di sciopero nel periodo 1940/45 raddoppiò rispetto il 1930 culminando nel grande sciopero dei 100.000 minatori negri del 1946, fermati con l’esercito e che costò la morte di 12 proletari.
Nell’immediato dopoguerra inizia la politica dell’apartheid e della forte repressione ma la lotta di classe non si arresta e le poche forze operaie con un minimo di organizzazione nel 1955 si raggruppano nel SACTU che condusse subito lotte per un salario minimo di una sterlina al giorno. Questa organizzazione crebbe fino ai grandi scontri di Sharpeville del 1960 costati 69 morti e centinaia di feriti, ma in seguito, pur non essendo formalmente messo fuori legge come accadde per l’ANC, il sindacato fu disperso a causa dell’immediato arresto di 160 fra membri e dirigenti.
Lo sviluppo industriale del dopoguerra è intenso ed accresce enormemente l’esercito dei lavoratori, che si diversifica nettamente tra semplici lavoratori negri, che crescono di numero, ed aristocrazia operaia esclusivamente bianca. I numeri di questo incremento sono eloquenti: dal 1951 si passa, solo nell’industria, da 742.000 addetti, di cui 360.000 negri e 250.000 bianchi, al 1972 con 1.650.000 in totale di, cui 950.000 negri e 340.000 bianchi.
La cappa di pace sociale si spezza nel 1972 a partire da uno sciopero di una piccola fabbrica tessile che innesca la forte lotta dei conduttori di autobus, che ogni giorno garantiscono il trasporto di centinaia di migliaia di lavoratori dai quartieri negri alle fabbriche, i quali ottengono un aumento salariale del 33%; il periodo di lotta si estende per due anni mobilitando l’intero paese nei settori industriali e dei servizi.
La crisi economica del 1975, superata dal capitalismo sudafricano grazie alle sue forti riserve, provoca invece un consistente peggioramento al 40% del tasso di povertà del proletariato, che ne deve sopportare tutti i danni. Nel 1973 l’80% di esso riceve salari insufficienti per sollevarsi dalla povertà e dal 1971 al 1975 i disoccupati crescono di 11.000 al mese. Seguono inoltre fortissimi rincari degli alimenti di base mais e granturco. Nei Bantustan la situazione è catastrofica e la miseria dilaga: l’89% dei bambini è sottoalimentata e 1.000.000 di persone vivono di sola carità.
Questa concatenazione di scioperi determina la riorganizzazione sindacale. Nel 1969 sopravvivevano 13 sindacati con 16.000 iscritti; nel 1973 se ne formarono altri 17, ma è la grande crisi degli anni ’80, come espressione locale di quella mondiale, a determinare un gigantesco rafforzamento degli iscritti: 35.000 nel 1997; 360.000 nel 1981; 550.000 nel 1983 e 1.500.000 nel 1984.
Le Union che sorgono, eccetto la CUSA che è influenzata dal movimento Coscienza Nera, non prevedono alcune distinzione razziale e, nonostante la grande differenza di condizioni retributive e di lavoro, sono aperte anche ai lavoratori bianchi, una minoranza dei quali vi milita, benché la pressione sociale che subiscono renda instabile la loro adesione. Nonostante i numeri vi è una grande frammentazione in tante Union, sovente a livello di singola piccola azienda; basti considerare che il sindacato più forte, il FOSA, creato nel 1979, nel 1983 raggruppava 109.000 operai in 490 fabbriche, questa situazione rendendo improbabile una continuativa azione di lotta generale.
Il movimento di concentrazione delle forze operaie inizia dalle tre organizzazioni più grandi: la FOSATU nel settore industriale, la NUM nel settore minerario e la CUSA. Quest’ultima però, oltre al problema razziale, avanza difficoltà sulla questione della registrazione legale, cui si oppone sostenendo che malgrado il suo non riconoscimento ufficiale essa è accettata nelle aziende sia dai lavoratori sia dal padronato; questi due argomenti le impediranno di aderire alla COSATU, sorta nel giugno del 1985 dalla fusione delle altre organizzazioni.
Alla crescente necessità di manodopera qualificata e di tecnici da parte dell’industria locale si era finora sopperito principalmente con l’immigrazione di quadri di razza bianca, ma con gli anni ’80 tale saldo diventa negativo e le stime a breve termine indicano già in quel periodo la carenza di 750.000 tecnici. Ecco una valida motivazione economica per la borghesia sudafricana per iniziare ad allentare il blocco della segregazione razziale. Un’altra determinante economica consiste nei bassi salari e nel regime di segregazione dei negri, che ostacolano il formarsi di un mercato interno sostenuto dai consumi del proletariato.
Quel nostro articolo in P.C. n.152/1987 salutava la nascita e l’affermarsi della COSATU, che al momento della sua formazione contava mezzo milione di iscritti, paganti regolarmente le quote, per giungere in breve tempo a raddoppiarne il numero al termine del processo di unificazione. Ai militanti dell’organizzazione appariva chiaro che il nodo dell’emancipazione dei lavoratori non risiedeva nel superamento dell’oppressione razziale poiché i recenti esempi di Mozambico, Zimbabwe, Angola e Zaire, dove al potere c’era la locale borghesia negra, mostravano chiaramente negri che opprimono e sfruttano altri negri e che la condizione della classe operaia vi era spesso peggiore di quella del Sudafrica. L’ostacolo maggiore per l’unificazione di tutto il movimento operaio sudafricano stava nelle profonde differenze economiche tra lavoratori bianchi e non bianchi, precedentemente organizzati in distinti gruppi tendenti a conservare i propri vantaggi acquisiti.
Il programma della COSATU si incentra su quattro punti fondamentali di difesa classista: 1) salario minimo garantito valido in tutto il Sudafrica; 2) riduzione del tempo di lavoro a 40 ore settimanali, senza riduzione di salario, e dello straordinario; 3) l’organizzazione dei disoccupati in una Union affiliata che fornisca un fondo di sussistenza e cure mediche gratuite; 4) l’eliminazione del pass-book, ovvero il libretto di lavoro valido come passaporto interno, sostituito poi nel 1986 con un’unica carta di identità per tutti i cittadini del Sudafrica.
Il primo sciopero generale, organizzato per celebrare il 1° Maggio nel 1986, ha un’enorme adesione al punto che le fonti ufficiali dell’Anglo-Americano, il maggior conglomerato minerario-industriale, denuncia un’assenza dal lavoro dell’83%; il secondo sciopero generale, indetto per ricordare il decennale dei fatti di Soweto, ha altrettanta adesione.
Una spina nel fianco della COSATU è rappresentata dall’organizzazione zulù Inkata che opera per la preminenza di quell’etnia proponendo un programma di opposizione al gruppo bianco, portatore del capitalismo distruttore della vecchia società, si rivolge agli strati rurali più arretrati, fomenta gli odi razziali, lavora per organizzare un proprio sindacato in opposizione alla COSATU giungendo a provocare gravi scontri soprattutto contro gli indiani.
In breve tempo la COSATU ha rafforzato la propria posizione all’interno
della società sudafricana divenendo la cinghia di trasmissione dell’ANC
fra i lavoratori, principalmente nel periodo precedente le elezioni multirazziali,
che prevedono anche miglioramenti per i lavoratori negri. In seguito, quando
l’ANC ha abbandonato le rivendicazioni radicali ed il programma di nazionalizzazione
dell’apparato produttivo e delle grandi imprese agroalimentari, e poi,
nel periodo appena concluso di Mandela, quando è congelato il piano di
ridistribuzione delle terre, ma soprattutto con l’inasprimento dell’Iva
sui prodotti alimentari di base, la COSATU ha rivendicato una maggiore
autonomia dall’ANC per quanto riguarda il piano economico. La grande
organizzazione sindacale ha invece rinsaldato il suo legame con il SACP
(Partito Comunista Sudafricano) dalle cui file proviene Mbeki, dal quale
prudentemente si dimise prima delle elezioni del 1994 per divenire subito
vice presidente, ed ora successore di Mandela.
LO SFONDO ECONOMICO DEL TRAPASSO
Il capitale mondiale ha seguito con la dovuta attenzione l’evolversi della situazione in Sudafrica e suoi numerosi centri di studi economici hanno puntualmente riferito lo svolgersi dell’economia di quel paese durante il passaggio che ha portato alla pacifica elezione di Mandela. In realtà questi documentati lavori ci descrivono non le difficoltà di un cambiamento sociale ma il degradarsi del corso del capitalismo in quel paese; non è la “nuova democrazia” ad arrancare col fiato corto ma è il processo di riproduzione e circolazione delle merci e dei capitali a mostrare tutta la sua senilità.
Il prima durante e dopo Mandela ci vengono descritti minuziosamente come il decorso di una terapia secondo la quale una nuova medicina, la fine dell’apartheid, è utilizzata in estremo per salvare dallo stato di coma permanente un ammalato grave che non si sa come altrimenti salvare; invero la sua agonia, pur lenta e non senza sussulti, è irreversibile, ma cesserà solo quando la rivoluzione proletaria, con il dovuto atto di forza, lo fredderà per sempre.
Seguiamo quindi la crisi economica in Sudafrica, riflesso di quella mondiale, attraverso le relazioni economiche apparse puntualmente a cadenza annuale su “Problèmes Économiques”.
Nel 1990 viene eletto De Klerk e, con le dovute precauzioni, è rimesso in circolazione Mandela. A quella data la popolazione della Repubblica Sudafricana è calcolata in 31 milioni, con l’esclusione dei quattro Bantustan più grandi, considerati indipendenti a tutti gli effetti, di cui 5 milioni di bianchi, 3 milioni di meticci, 1 milione di asiatici e 22 di negri. Attualmente essa è stimata in 40 milioni dopo l’accorpamento nello Stato centrale dei Bantustan, che fa da salire a 30 milioni la popolazione negra. La temuta fuga di una parte della classe dirigente bianca non è avvenuta se non a livelli bassissimi. Inoltre è stimata la presenza di oltre 1 milione di clandestini negri provenienti dai paesi confinanti, arrivati in Sudafrica in cerca di un lavoro. Secondo “Le Monde Diplomatique”, marzo 1999, il fenomeno è così vasto che «Le autorità hanno intensificato la caccia agli immigrati clandestini, venuti soprattutto dai paesi vicini; ne sono stati arrestati 100.000 durante i primi otto mesi del 1998».
I dati riportati nella relazione del 1992 della banca Parisbas sono confortanti: parlano di un paese che assicura l’autosufficienza alimentare, esporta anche il 20% della sua produzione agraria con un tasso di crescita delle produzioni alimentari superiore a quella dell’aumento della popolazione. Il fatto che le sue ingenti esportazioni siano costituite prevalentemente da materie prime, il 58% di tutto, piuttosto che di prodotti industriali e manifatturieri, pongono però il Sudafrica ancora tra i paesi in via di sviluppo la cui economia è fortemente legata al corso dei prezzi delle materie prime, calcolati nelle grandi capitali della finanza borghese, e quindi fortemente ed immediatamente esposta alle crisi della sovrapproduzione capitalista. Prova ne sia che il tasso di crescita nel periodo 1974/81 scende al 2,4%, ristagna allo 0% nel 1981/84, risale all’1,9% nel 1984/88, nel 1989 è in crescita per un 2,1% mentre nel 1990 è in negativo per 0,9%. Le sue esportazioni sono costituite inoltre per il 29% di prodotti manifatturieri e dal 3% di prodotti agroalimentari. La popolazione attiva è stimata in 13 milioni di cui 8 inseriti nel settore formale, 2,5 in quello “informale”, 1 vive di autosufficienza ed il rimanente 1,5 è disoccupato.
Secondo questi confortanti parametri il tasso di disoccupazione sarebbe del 10% scarso di tutta la popolazione attiva, valore che contrasta irrimediabilmente con quelli del 40% riferiti da altre fonti. Come già accennato Mandela nella sua relazione parlamentare a conclusione del suo mandato ammetterà che nel 1999 è salita al 42%. Probabilmente Parigi intende rastrellare capitali da convogliare in Sudafrica per cui, utilizzando certamente sistemi di calcolo diversi, per il momento presenta un quadro più ottimista.
Gli investimenti interni nel periodo 1985/90 sono pari al 20% del P.I.L. e sono ripartiti in 7,6% pubblici e 12,2% privati in cui fanno una buona parte i fondi pensione privati che per il momento non possono ancora operare all’estero. Nel 1990 l’attivo dei fondi pensione era di 21 miliardi di dollari e quello delle assicurazioni a lungo termine di 43,6 miliardi, pari a circa la metà del P.I.L. annuale stimato in 128 miliardi. Prima della fine dell’apartheid i disinvestimenti stranieri, soprattutto USA, a scopo di pressione sul governo centrale, sono solo di facciata e si tratta di puri trasferimenti di proprietà a società di comodo. È invece il corso delle materie prime che pesa sull’economia sudafricana, e di conseguenza sugli investimenti finanziari stranieri: ma, nonostante il mutevole andamento delle loro quotazioni, la bilancia commerciale è in attivo e il valore del P.I.L. pro capite è aumentato.
Questa è la situazione all’inizio della concertazione fra De Klerk e Mandela: secondo i dati dell’esercizio finanziario del 1985 si trova che il P.I.L. del Sudafrica come massa è un settimo di quello italiano ed un terzo come valore pro capite; rapportato all’Africa sempre come massa è uguale a quello di tutti i paesi del Maghreb più l’Egitto messi insieme, che hanno però una popolazione maggiore.
Nel 1994, al termine del mandato preparatorio di De Klerk, il dipartimento delle finanze per l’Africa del Sud di Zurigo ha redatto un dettagliato rapporto sull’economia sudafricana che è stato pubblicato in sintesi su “Problèmes Économiques” di ottobre di quell’anno. Stimava in 40 milioni la popolazione di tutto il paese dopo l’unificazione dei Bantustan sotto il governo centrale, stabiliva in 2,4% il tasso di crescita annuale medio della popolazione, la cui composizione razziale era la seguente: 76% di negri, 13% di bianchi, 8,6% di meticci e 2,6% di asiatici.
L’economia sudafricana dopo la fine delle sanzioni economiche ha potuto sviluppare liberamente il settore finanziario che si è ben dispiegato sia nel mercato interno sia in quello esterno, rafforzando così i settori estrattivi e manifatturieri. Per prevenire un’eventuale fuga in massa di capitali viene introdotta la clausola che le finanziarie sudafricane possono esportare capitali in misura equivalente all’ingresso di capitali esteri. Nel 1995 questo tetto era fissato in 10 miliardi di rand mentre si stimava in 150 miliardi la cifra dei capitali che lascerebbero il paese in assenza dei controlli sui cambi.
La recessione iniziata nel marzo del 1989 ha toccato il livello più basso nel 1992 per risalire debolmente nel 1993. Essa non ha causato una considerevole caduta del P.I.L. reale ma è stata duramente sopportata dalla popolazione a causa di un significativo aumento della disoccupazione e ha subito un tasso di inflazione medio del periodo del 14%, Anche l’Iva è salita dal 10% al 14%, particolarmente sentita sugli alimenti di base, mentre i tassi di interesse bancario salgono dal 12% al 17%.
Man mano che il processo di trasferimento del potere si attua in modo lineare e pacifico anche il rapporto di parità tra rand e dollaro commerciale e finanziario si avvicina alla parità, segno di stabilità e tranquillità per buoni affari, e, pur svalutandosi, la differenza fra rand commerciale rispetto quello finanziario scende dal 38% del 1985 al 21% del 1993.
Complessivamente le esportazioni sono in costante crescita, nel 1993
sono di 79,5 milioni di rand e superano del 27% le importazioni; il 32,5%
di queste vanno in Europa, il 18% in Asia e l’8,5% in America. Le importazioni
seguono lo stesso flusso con rapporto un po’ diverso: 45% dall’Europa,
26,5 dall’Asia ed il 16% dall’America; la differenza consiste principalmente
per quanto riguarda le esportazioni nel continente nero, dove il Sudafrica
esporta senza reimportare adeguatamente. I settori merceologici del commercio
estero sono nell’ordine, calcolati in rand, nel 1993: pietre preziose
e semilavorati 12,7%; metalli di base 12,4%; minerali 10,6%; prodotti chimici
4,2%; macchinari 3,5%; veicoli ed equipaggiamenti per trasporto 3,4%; carta
2,4%. I prodotti alimentari complessivamente con il 4% costituiscono la
quarta voce del bilancio.
CONTINUA L’ALTALENA DELLA CRISI
Basandosi su questa analisi l’ANC lancia, al momento delle prime votazioni interrazziali che lo portano inevitabilmente al potere, un programma di ricostruzione e sviluppo economico di 39 miliardi di rand in 5 anni (il P.I.L. del 1994 è stato di 422 miliardi). Il partito di opposizione più forte, il National Party, ovviamente contesta tali cifre considerandole irrisorie e parla di una cifra ben più grande: 600 miliardi di rand. Praticamente il NP ha contabilizzato i suoi debiti economici nei confronti del proletariato sudafricano poiché la sua dettagliata lista prevede spese di base: istruzione obbligatoria e gratuita per tutti i giovani, lotta all’analfabetismo per gli adulti, sanità diffusa ed opere per la maternità ed infanzia, sostegno alimentare ai più bisognosi, salario minimo garantito, costruzione di case, acquedotti, elettrificazione, riduzione dell’Iva sui prodotti di base, ridistribuzione delle terre e rimborsi per gli espropri delle zone minerarie. Questa è solo una parte di una lista completa di 23 voci del programma e dei relativi costi che il NP prevede necessari per sanare le evidenti ingiustizie presenti. Siamo grati per il minuzioso computo fatto da lor signori perché così facendo hanno avuto il coraggio di quantificare l’attuale minimo rimedio al loro secolare furto di ricchezze della terra e di plusvalore del proletariato.
Secondo una relazione dell’IFO, istituto di studi economici di Monaco (la Germania è il primo partner commerciale del Sudafrica con il 16,7% delle sue importazioni) l’anno successivo, il 1995, dal punto di vista finanziario è stato un anno positivo poiché il tasso di crescita si è attestato al 3,5% nonostante una caduta del 15% della produzione agricola a causa della siccità e del 3,5% della produzione mineraria. Il problema più preoccupante riguarda la produzione dell’oro, dovuto sia alla costante diminuzione del tenore di minerale delle miniere in esercizio, che calano dalle 1.000 tonnellate del 1970 alle 522 del 1995, sia alle sue quotazioni che continuano a scendere; ciò provoca la chiusura delle miniere meno redditizie, nonostante che la svalutazione del rand favorisca le esportazioni.
Terminata la siccità l’agricoltura riprende la sua crescita ed il suo apporto all’export; la produzione manifatturiera cresce del 7,5% rispetto all’anno precedente, il reddito pro-capite aumenta del 2,5% nel 1995 producendo un allargamento del mercato interno del 5%, principalmente rivolto ai beni durevoli e alle automobili. A causa della continua svalutazione del rand la bilancia commerciale con l’estero si deteriora notevolmente anche per la forte crescita delle importazioni, del 20% in volume e del 29% in valore, parzialmente attenuata da un aumento delle esportazioni del 16% in volume e del 24% in valore.
Le forti riserve auree e di valute pregiate hanno attutito il colpo ma si sono ridotte al livello di coprire 7 settimane di importazioni. Il corso del rand sul dollaro resta molto mutevole e rispecchia l’incertezza sulle capacità della nuova ed inesperta classe dirigente negra a controllare la situazione, considerata instabile nonostante l’euforia della prim’ora e la congiuntura economica ancora favorevole. Prova ne è che da febbraio ad aprile 1996 voci infondate circa una grave malattia di Mandela fece cadere del 16% il corso del rand.
Tutti si chiedono, anche noi, con attese e prospettive diverse dalle loro, che cosa accadrà quando la crisi economica svelerà tutta la sua durezza.
Nonostante i risultati economici positivi non c’è stato un aumento dell’occupazione: tra il giugno 1994 e ’95 è inferiore all’1%, corrispondente a 44.335 nuovi posti di lavoro nei settori non agricoli quando ogni anno si presentano per la prima volta sul mercato del lavoro 700.000 nuovi giovani. Il fatto è ancora più grave se si considera che nel 1995 per restrizioni di bilancio sono stati soppressi 32.000 posto di lavoro nelle amministrazioni regionali. Malgrado il settore informale, cioè precario e senza garanzie, assorba buona parte di questa forza lavoro, le stime più ottimiste parlano di un 35% fra disoccupati e sottoccupati.
È annunciata, come da programma elettorale, una revisione generale della legislazione sul lavoro ma non vi è più cenno del salario minimo. Grazie al basso costo del lavoro per unità di prodotto, vi è stato un aumento di produttività del 2,6% e l’inflazione è scesa, nel 1995, dall’11% al 6,9% mentre l’Iva rimane al 14%. Ciò vuol dire che ancora una volta la classe operaia non ha tratto alcun vantaggio dalla congiuntura favorevole ma ha dovuto sopportare il peso del risanamento economico. Basti pensare che agli inizi del 1994, poco prima delle elezioni di Mandela, il presidente uscente De Klerk, come gesto di distensione fra le parti, decise di annullare tutti i debiti che i ghetti negri urbani avevano con le amministrazioni municipali per quanto riguardava la fornitura di acqua, luce, raccolta dei rifiuti ed altri servizi urbani; due anni più tardi lo stesso Mandela ammise che la cifra di tali debiti era già risalita a 2 miliardi di rand, giacché meno del 10% della popolazione utilizzava “regolarmente” i servizi pubblici. Inoltre lo Stato riuscì a costruire solo 12.000 abitazioni contro le 50.000 realizzate nell’ultimo anno di apartheid.
Contemporaneamente nell’ambito dei rapporti fra le classi, i problemi più discussi per la stesura del testo della nuova Costituzione riguardano le restrizioni della legislazione fondiaria al fine di evitare una riforma agraria radicale e, sul piano del lavoro, l’inserimento o meno del diritto alla serrata per i datori di lavoro, che lo rivendicano per contrastare il già riconosciuto diritto di sciopero. Dopo aver indetto lo sciopero generale il 30 aprile 1996, la COSATU, sostenuta da Mandela, fa marcia indietro quando ottiene delle garanzie in merito, ma dovrà accettare una soluzione legale di compromesso.
La mole dei problemi, delle contraddizioni economiche e dei continui cedimenti verso gli interessi del grande capitale obbligano la cricca di Mandela a ritirare, dopo soli due anni, il già debole programma economico pre-elettorale e a presentarne un secondo che addirittura in un arco di 10 anni prevede una crescita annua del 6% e la creazione di 500.000 posti di lavoro per anno, basandosi sulla previsione di una crescita delle esportazioni, oro escluso, del 10% annuale. Queste favorevoli prospettive derivano dal fatto che il Sudafrica è ora ammesso nel SADC, una comunità economica di libero scambio di 12 paesi dell’Africa australe, in cui il P.I.L. sudafricano è 4 volte superiore a quello degli altri 11 paesi messi insieme, verso i quali si può ora esportare senza restrizioni e vincoli doganali, mentre le importazioni sono minime, con un rapporto di 6 a 1 e che va sempre aumentando.
Al contrario delle nazionalizzazioni sbandierate in campagna elettorale
ora invece si parla di privatizzazioni delle aziende nazionali e dei conseguenti
piani di ristrutturazione che significano sempre licenziamenti ed aumento
non di salario ma di sfruttamento. Questi piani appena lanciati hanno provocato
una serie di scioperi selvaggi, bloccati con la promessa di un controllo
sindacale e del mantenimento dei posti di lavoro.
BORGHESIA NEGRA ALLA PROVA
Tutti questi buoni risultati per il capitale hanno permesso a Mandela, nella primavera del 1996, di effettuare un giro politico in Europa allo scopo di rastrellare capitali da investire in Sudafrica e per mostrare che il processo di formazione di una classe dirigente e di una borghesia negra prosegue, anche se con le sue lentezze ed incertezze. A parole si parla moltissimo del trasferimento dei poteri verso i negri, ma nei fatti i capitali non hanno cambiato proprietà ed i nuovi dirigenti negri nelle aziende hanno un potere limitato riguardante prevalentemente questioni di gestione e non di controllo degli investimenti, il quale rimane ben saldo nelle mani della vecchia dirigenza.
Le poche aziende gestite esclusivamente da negri, inizialmente nel campo della produzione e distribuzione di birra e bevande varie di provenienza americana, dopo un breve periodo di espansione sono entrate in grave crisi ed alcune sono fallite. In sostanza si è trattato, nel primo momento, di una colossale azione della Pepsi Cola che tentava di penetrare nel paese e sottrarre quote di mercato alla Coca Cola utilizzando a tale scopo l’immagine e la presenza di personaggi dello spettacolo e dello sport della comunità negra americana. Successivamente in tutti i settori economici, e ove necessario anche con pressanti inviti, vi è stato l’inserimento di quadri dirigenti negri. Fino a venti anni fa i negri non possedevano alcun diritto di proprietà, di residenza permanente e di accesso ai capitali ed al grande credito, nel 1990 nessuna azienda detenuta e amministrata da negri era quotata alla Borsa di Johannesburg, mentre ora 17 imprese su 625 quotate sono controllate da negri con una capitalizzazione complessiva di 28,4 miliardi di rand.
In questo processo di formazione e di ampliamento di una piccola e media borghesia negra i sindacati svolgono un ruolo attivo di mediazione borghese: da una parte difendono gli interessi dei lavoratori contro le enormi storture presenti, dall’altro impiegano una buona parte dei loro fondi per la creazione di una classe dirigente negra mediante l’acquisto di quote societarie nelle aziende. Nessuna transazione sfociata in questo tipo di aumento di potere ai negri è avvenuta senza un congruo intervento economico dei sindacati, che in questo modo, oltre ad ottenere l’assunzione di quadri di loro gradimento, diventano, più che garanti, veri e propri soci in affari. Si tratterà di vedere che cosa succederà quando lo sviluppo della crisi imporrà i ben noti piani di ristrutturazione.
A conclusione del mandato presidenziale di Mandela, appena terminato nel giugno 1999 il quadro riassuntivo per quanti attendevano un reale miglioramento per la grande massa proletaria negra è desolante e descrive la situazione in un paese in cui la quasi totalità della popolazione, nonostante le grandi potenzialità economiche, vive in enormi e miseri quartieri ghetto ai margini delle grandi città o in centri periferici dove mancano ancora i servizi primari di luce, acqua e fognature.
Secondo le fonti governative sono state costruite soltanto 500.000 nuove abitazioni, attivate 10.000 nuove classi scolastiche, portata l’acqua potabile per 3 milioni di persone (spesso però di tratta si una semplice fontanella pubblica), elettricità per 2 milioni, telefoni per 1.700.000 fra ambulatori e piccoli ospedali. L’inflazione è scesa all’8% con però il 42% di lavoratori negri ed il 4% di bianchi disoccupati.
Eppure gli ultimi dati calcolano il P.I.L. del Sudafrica in 125 miliardi di dollari, uguale al 45% del totale dell’Africa e al 75% dell’intera regione subequatoriale. Rapportato alla scala mondiale il suo peso scende notevolmente allo 0,5% mentre a livello europeo grosso modo è paragonabile alla Bulgaria ed all’Ucraina.
Attualmente non vi sono clamorosi sviluppi in positivo, difficilmente pensabili in questo contesto di crisi economica a scala mondiale, anzi altri dati ci dicono che la situazione, pur rimanendo sotto controllo a causa della positiva fase di assestamento democratico, dal punto di vista economico ha fatto soltanto modesti progressi dovuti all’incremento degli scambi commerciali, non più limitati dalle sanzioni economiche. Tra questi è sensibile la vendita di armi, per 216 milioni di dollari nel 1997, il 34% in più rispetto il 1996; dal 1994 questa industria ha esportato per 600 milioni di dollari con un portafoglio di 91 clienti in tutto il mondo ed è diventata per importanza il secondo settore di esportazione manifatturiera, benché dia lavoro a solo l’1% della manodopera industriale.
Ma il continuo calo del prezzo dell’oro minaccia la chiusura di quasi la metà delle miniere in funzione, che attualmente debbono estrarre il minerale tra i 2.000 e 4.000 metri di profondità con costi molto elevati, controbilanciati sempre meno dai bassi salari che, ora più di prima, tendono a salire sensibilmente.
La forte disoccupazione è causa di una considerevole criminalità diffusa e le statistiche in merito sono impressionanti: secondo l’Istituto per gli Studi sulla Sicurezza, ogni giorno si registrano una cinquantina di morti violente, il tasso più alto del mondo, sei volte superiore a quello degli Stati Uniti. La pena di morte è stata abolita, con molti contrasti, nel 1995, un anno dopo il governo Mandela; all’epoca dell’apartheid il Sudafrica deteneva il record di esecuzioni capitali nel mondo occidentale e attualmente, sempre secondo “Le Monde D.” del marzo 1999, «L’insicurezza ha favorito lo sviluppo di una florida industria della protezione privata. Le case dei bianchi benestanti sono tutte dotate di dispositivi di allarme. L’ultimo grido in materia è farsi installare un lanciafiamme optional sull’automobile. Le società private – 300.000 tra agenti ed impiegati – dispongono ormai di effettivi ben superiori a quelli della polizia (134.000 agenti). E anche tra i negri si assiste alla proliferazione di polizie private».
Sul fronte estero il Sudafrica si presenta come una potenza subcontinentale
in fase di espansione che non disdegna l’intervento armato esterno “per
motivi di sicurezza interna”, come avvenne in Lesotho nel settembre 1998
quando l’esercito sudafricano ricevette l’ordine di penetrarvi per
porre fine ai gravi disordini sorti in quel minuscolo paese per le forti
contestazioni di parte della popolazione e dell’esercito causate dai
brogli elettorali appena avvenuti. Questo avvenimento fu commentato sulla
nostra stampa di partito come la conferma di una continuità del Sudafrica
nel ruolo di garante dell’ordine imperialista nell’Africa australe.
In realtà c’è la profonda convinzione che il Sudafrica voglia annettersi
questo piccolo regno, rimasto sempre indipendente già dai tempi della
colonizzazione inglese, per realizzare un progetto di un grande complesso
di dighe necessarie a fornire l’acqua a tutta la regione per potenziare
il settore agricolo e l’allevamento.
VERSO LOTTE DI CLASSI E NON DI RAZZE
Le nostre previsioni sul breve periodo riguardano: il rafforzamento del “potere negro” e il completamento dell’ubriacatura democratica – che speriamo breve – specialmente del proletariato negro, usata come antidoto temporaneo alla miseria profonda della classe operaia. Parliamo di antidoto e non di vaccinazione perché di democrazia non si vive ma si muore: quando questa menzogna cadrà e si innescheranno profonde lotte di classe e non più di razza.
Vi sarà il consolidamento di una classe dirigente negra, in questo caso particolarmente aggressiva ed arrivista, che in brevissimo tempo esaurirà il suo dinamismo per divenire redditiera, conservatrice e prona agli interessi del grande capitale. Si avvertirà un certo dinamismo per il rafforzamento del suo apparato produttivo e commerciale nell’area subcontinentale, con una prevedibile estensione verso nord, tramite il SADC, verso le grandi ricchezze del Congo, ex Zaire, e dei suoi Stati satelliti Uganda, Rwanda e Burundi. Queste linee di espansione sono già in atto e, crisi generale mondiale a parte, nel breve e medio periodo è probabile che si realizzi; al più può essere ritardata od ostacolata dall’esplosione violenta e prolungata della collera proletaria.
Al momento non abbiamo l’esatta misura di quel che certo si muove
minaccioso alla base dell’economia capitalistica sudafricana, quali siano
le genuine organizzazioni classiste, sicuramente diverse da quelle che
agli inizi degli Anni Venti scrissero sulle loro bandiere “proletari
bianchi di tutti i paesi unitevi”. Una cosa è certa, che quando in quella
parte del continente subafricano scoppierà la scintilla della ripresa
della lotta di classe, essa sarà un rosso così vivo ed intenso da accendere
tutto il fuoco della forza proletaria. A presto!
Rapporto esposto alle riunioni generali di ottobre 1997, maggio e
ottobre 1999.
Le parti precedenti di questo ricaccio storico si leggono nei numeri
33 e 35 sotto il titolo “Le lotte di classe in Italia tra 1850 e il 1895”,
nei numeri 37 e 38 col titolo “Partito e sindacato in Germania e in Italia
tra vecchio e nuovo secolo”, nel numero 39 con “Sindacalisti rivoluzionari
e riformisti aspiranti becchini del partito di classe”, per addivenire
ad una prima conclusione nel numero 41 con “Il Partito Socialista Italiano
al 1914”.
IL PARTITO SOCIALISTA ITALIANO DAL 1914 AL 1918
Nel maggio 1918, mentre l’Italia stava per entrare in guerra, si riuniva a Bologna un convegno tra la Direzione del partito, il Gruppo parlamentare e la Confederazione del Lavoro. Già il persistere di tale “trinità”, a noi convinti “antitrinitari” non faceva presumere nulla di buono: infatti da tale convegno vennero fuori affermazioni piuttosto generiche e, sembra, il famoso “non aderire né sabotare” del segretario Lazzari, che trovò però una forte opposizione nel partito a cominciare da Serrati, divenuto direttore dell’”Avanti!” dopo il passaggio di Mussolini “dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante”, vale a dire all’interventismo a favore dell’Intesa. Ai deputati e ai capi sindacali, che vedevano la questione sul piano parlamentare, si opponevano gli esponenti della frazione intransigente che sostenevano che il problema della guerra andava affrontato dal partito, alle cui decisioni parlamentari e sindacalisti avrebbero dovuto attenersi. Ai sindacalisti che definivano impossibile la riuscita dello sciopero generale contro la mobilitazione fu risposto: voi non temete che lo sciopero non riesca, voi temete che riesca.
Di fronte al tradimento dei partiti della II° Internazionale, ormai in preda alla superstizione patriottica, comune anche ai centristi, la sinistra del partito continuò assieme a Lenin e a piccole minoranze dei vari partiti socialisti, a portare avanti le posizioni di classe. Nel maggio del 1915 sull’”Avanti!” nell’articolo Il fatto compiuto leggiamo: «O fuori o dentro dal preconcetto nazionale e dagli scrupoli patriottici. O verso uno pseudo socialismo nazionalista o verso una nuova Internazionale».
La Federazione giovanile socialista con il suo giornale “L’Avanguardia” fu nettamente sulle posizioni della sinistra, ribadendo molte volte in vari articoli la necessità di trasformare la guerra tra i predoni imperialisti in guerra di classe. Da un bellissimo articolo del novembre 1914, che riporta le posizioni dei rivoluzionari sulla guerra, non potendosi riassumere essendo già una potente sintesi, ci limitiamo a riportare alcuni brani: «I soldati non sanno perché combattono: devono combattere. Sapranno dopo l’infame inutilità del sacrificio. Sono oggi poco mutabili le condizioni del conflitto immane. Ma nessun vantaggio saprebbe compensare l’enorme sperpero di vite umane e di ricchezze. Noi stessi, rivoluzionari convinti, non sapremmo augurare una redenzione proletaria che costasse la vita alla metà degli oppressi insorti in armi. La vita è il bene supremo. Eppure, molti rivoluzionari che oggi sono per la guerra si armano di pacifismo! E molti sono oggi per la guerra, riformisti e democratici, che negavano alla causa santa del socialismo la vita di pochi proletari caduti sul campo della lotta di classe, e vorrebbero oggi sacrificarne migliaia in una azione che, se anche ci avviasse ad una maggior libertà, sarebbe sempre la via più stranamente indiretta per raggiungerla».
È più che evidente la distanza tra queste parole e il farisaico pacifismo borghese da una parte, e l’altrettanto borghese esaltazione del bagno di sangue purificatore. Continua: «Scatenare i turpi valori del militarismo statale, rinunziare all’autonomia di partito o di classe per affidare ogni direttiva a quella autorità militare che abbiamo sempre sognato di fiaccare e di distruggere, da liberi pionieri della Rivoluzione diventare i pretoriani di Sua Maestà. Ah no, anche se giusta e santa fosse la causa per cui muoverebbe in guerra l’Italia; il che non è. Pacifismo? No. Noi siamo fautori della violenza. Siamo ammiratori della violenza cosciente di chi insorge contro l’oppressione del più forte, o della violenza anonima della massa che si rivolta per la libertà. Vogliamo lo sforzo che rompe le catene. Ma la violenza legale, ufficiale, disciplinata all’arbitrio di un’autorità, l’assassinio collettivo irragionevole che compiono le file di soldatini automaticamente all’echeggiare di un breve comando, quando dalla parte opposta non meno automaticamente vengono incontro le altre masse di vittime e di assassini vestiti di un’altra casacca, questa violenza che i lupi e le iene non hanno, ci fa schifo e ribrezzo».
Conclude l’articolo: «Noi pacifisti? Noi sappiamo che in tempo
di pace non cessano dal cadere frequentissime le vittime dell’ingiusto
regime attuale. Noi sappiamo che i bimbi degli operai sono falciati dalla
morte per mancanza di pane e di luce, che il lavoro ha la sua percentuale
di morti violente come la battaglia, e che la miseria fa, come la guerra,
le sue stragi. E di fronte a ciò non è la supina rassegnazione cristiana
che noi proponiamo, ma la risposta con la violenza aperta a quella violenza
ipocrita e celata che è il fondamento della società attuale. Ma la violenza
sacra della ribellione per non essere colpevole sacrificio deve colpire
giusto e dare al tronco. Furono ben morti le migliaia di comunardi caduti
sotto il piombo dei versagliesi. Ma il mandare al massacro in nome della
rivoluzione un milione di uomini, consegnandoli ai dominatori di oggi perché
siano impegnati in un’impresa di successo incerto, che trova le sue ragioni
in una discutibile e bolsa retorica incosciente e contraddittoria, non
si giustifica col dirsi immuni da tenerezze pacifiste, no, perdio, ma è
opera insana da macellai impazziti. E contro essa noi restiamo al nostro
posto, per il socialismo, antimilitaristi domani come ieri e come oggi,
perché desideriamo al sacrificio delle nostre vite, quando fosse necessario,
una DIREZIONE molto diversa».
LA CONFEDERAZIONE GENERALE DEL LAVORO
Abbiamo già visto come il Segretariato Centrale della Resistenza, nato nel 1902 per unificare l’azione tra la Federazione delle CdL e le Federazioni di mestiere, non riuscisse ad essere un organo di direzione ma solo di coordinamento e di mediazione tra i due tipi di organizzazione, senza riuscire neanche a sanarne i contrasti. Quando poi nel 1905 il Segretariato della Resistenza passò da una direzione riformista ad una sindacalista rivoluzionaria perse ulteriormente influenza sulle federazioni di mestiere, dirette in gran parte dai riformisti, mentre le Camere del Lavoro continuavano a muoversi autonomamente. Venne decisa quindi la formazione di una confederazione nazionale, imperniata sulle federazioni di mestiere, sul modello della francese Confédération Générale du Travail. Su proposta del segretario della Federazione dei metallurgici Ernesto Verzi, i rappresentanti di molte federazioni tennero una riunione per nominare un comitato incaricato della preparazione del primo congresso della nuova organizzazione.
Scrive lo storico Giorgio Candeloro nella sua Storia dell’Italia moderna: «In questo comitato entrarono, dopo non facili trattative, anche i membri del Segretariato della Resistenza, sicché il Congresso costitutivo della Confederazione poté riunirsi a Milano dal 29 settembre al 1° ottobre 1906 con la partecipazione di riformisti, sindacalisti rivoluzionari ed anche di repubblicani e di apolitici; in tutto circa 500 delegati, rappresentanti 700 leghe con più di 200.000 iscritti». Continua: «Nel Congresso di Milano prevalsero nettamente i riformisti, il cui ordine del giorno ottenne 114.533 voti contro 53.250 ottenuti dall’ordine del giorno sindacalista rivoluzionario».
I delegati della minoranza abbandonarono quindi il Congresso senza creare una propria organizzazione. Il Congresso elesse un Consiglio Nazionale di 30 membri, un Consiglio Direttivo di 9 membri e un Comitato Esecutivo di 5 membri, quattro dei quali erano anche membri del Direttivo. Direttivo ed Esecutivo costituirono di fatto la guida della Confederazione, di cui Rinaldo Rigola fu eletto Segretario Generale nel gennaio 1907, mantenendo la sua carica fino al 1918, con un aperto, coerente e pernicioso collaborazionismo di classe. La CGdL cercò di rafforzare le Federazioni di mestiere rispetto alle Camere del Lavoro le quali, come abbiamo già avuto occasione di dire, per la loro organizzazione su base territoriale permettevano ai proletari di trovarsi uniti in quanto tali senza rimanere prigionieri di quel settorialismo che un’organizzazione di categoria inevitabilmente comporta. Sempre nel gennaio del 1907 la CGdL creò un’alleanza con la Lega Nazionale delle Cooperative e con la Federazione Nazionale delle Società di mutuo soccorso, che avrebbero agito insieme per “la conquista di quelle riforme che si riterranno mature per la loro pratica attuazione”.
La concezione del sindacato espressa dai dirigenti della CGdL trovò conforto nel 7° Congresso della II Internazionale, al quale la Confederazione mandó una propria delegazione. Tale Congresso respinse sia le posizioni delle Trade Unions britanniche sia quelle sindacaliste rivoluzionarie della CGT francese, apparentemente opposte ma concordanti nella svalutazione della funzione del Partito, che scompare per i secondi, mentre per i primi è solo un’emanazione dei sindacati. Il Congresso accettò invece la posizione sostenuta dai sindacati tedeschi, non meno equivoca delle altre, secondo la quale, essendo il sindacato organizzazione della lotta economica del proletariato ed il partito organizzazione della lotta politica, quest’ultimo non poteva pretendere di dirigere da solo la lotta di classe. Il sindacato, rappresentando l’intero proletariato, anche se nei confini della lotta economica, poteva quindi stabilire rapporti con vari partiti che rappresentavano settori del proletariato. Nella CGdL ad esempio, c’erano leghe influenzate dal partito repubblicano, per cui il sindacato si riteneva legittimato a stringere accordi anche con tale partito: era l’ennesima versione del bloccardismo.
Secondo tale concezione, molto diffusa tra i sindacati tedeschi, la direzione del proletariato avrebbe dovuto essere costituita da una diarchia tra la Direzione del Partito e quella del Sindacato. Nell’ottobre del 1907, a Firenze, ci fu infatti un accordo in tal senso tra PSI e CGdL, per cui a quest’ultima spettava “la direzione e il coordinamento degli scioperi economici, limitatamente alle organizzazioni ad esse aderenti”, e al partito spettava di dirigere il movimento politico. In caso di scioperi promossi da organizzazioni esterne alla CGdL, il partito doveva avere l’approvazione della Confederazione per appellarsi alla solidarietà, e in caso di sciopero politico questo doveva essere “deciso tra Partito e Confederazione, i quali mediante le rispettive segreterie” dovevano “procedere concordi anche per ogni probabile eccezionale movimento”.
L’accordo di Firenze fu respinto dal Sindacato Ferrovieri Italiani, nato nel 1907 dalla fusione del Riscatto Ferroviario e del Sindacato Ferrovieri, sotto l’influenza del sindacalismo rivoluzionario. I sindacalisti rivoluzionari infatti, nel loro primo congresso del luglio 1907 a Ferrara, avevano deciso di uscire dal partito ma di aderire alla CGdL per conquistarla dall’interno. I dirigenti riformisti accettarono l’adesione dei sindacalisti, decidendo però caso per caso sull’accettazione delle CdL e delle leghe dissidenti, pretendendo da queste la sostituzione dei dirigenti sindacalisti con dirigenti allineati sulle posizioni della Confederazione. Nel novembre dello stesso anno, a Parma, i sindacalisti rivoluzionari decisero quindi di creare un comitato nazionale della resistenza in opposizione alla CGdL, per dirigere le CdL e le leghe rimaste sotto la loro influenza. ll Direttivo della Confederazione, nel condannare tali posizioni, disse anche che lo sciopero generale era “un atto insurrezionale in contrasto col movimento di progresso e di elevamento del proletariato”, accettabile “soltanto nei casi estremi di violazione dei diritti fondamentali e delle libertà”.
Da ogni parola vediamo emergere il positivismo e l’evoluzionismo sociale che è la base ideologica dei riformisti, la cui adesione all’ideologia borghese è totale: quando sentiamo parlare dei diritti fondamentali e delle libertà che i proletari dovrebbero difendere, il pensiero va a Marx quando ci ricorda che i diritti dell’uomo scaturiti dalla rivoluzione francese sono in realtà i diritti dell’uomo proprietario e quindi i diritti del borghese. Quanto alle libertà i proletari ne hanno una sola, quella di vendere la propria forza lavoro: evidentemente è questa la libertà che essi dovrebbero difendere strenuamente secondo i riformisti di ieri e di oggi.
Con l’avvicinarsi delle elezioni generali i dirigenti riformisti spingevano il partito ad allearsi con repubblicani e radicali. Al Secondo Congresso della CGdL nel settembre 1908, a Modena, un ordine del giorno che metteva sullo stesso piano il PSI e i partiti “che non ostacolano la lotta di classe del proletariato” fu cambiato con “che accettano la lotta di classe”. Era un modo per salvare un legame preferenziale con il PSI, lasciando però la porta aperta per accordi con repubblicani e radicali.
Nel 1906 fu fondata la Lega Industriale Torinese, che cercò fin dell’inizio di stabilire dei contatti con la CGdL e con le varie federazioni di mestiere, anche per non dover ricorrere alla mediazione governativa nelle controversie di lavoro, mediazione che era ormai diventata una norma. Si cominciarono a stipulare i primi contratti collettivi tra aziende di un settore e federazione corrispondente. Gli industriali si servivano delle direzioni riformiste della CGdL e delle federazioni di mestiere per fare opera di mediazione tra loro e i proletari e per impedire la interferenza dei sindacati nelle loro fabbriche. Ovviamente i dirigenti sindacali, per quanto propensi a svolgere tale funzione collaborazionista, non potevano restare a lungo su tali posizioni e, per non perdere l’appoggio dei proletari iscritti alle loro organizzazioni, furono costretti ad assecondarne le lotte e gli scioperi, accodandosi ad essi mentre fingevano di dirigerli.
Sulla nascita della Confederazione Generale del Lavoro, è interessante vedere cosa scrive Adolfo Pepe nella sua Storia della CGdL dalla fondazione alla guerra di Libia: «Le Camere del lavoro erano gli organi che avevano di fatto la direzione sindacale e il controllo del movimento di classe. Al processo di accentramento della produzione industriale su scale sempre crescenti era direttamente legato il fiorire delle Federazioni di mestiere e il loro irrobustirsi, proprio per la rispondenza delle loro funzioni (definizione dei contratti di lavoro e delle tariffe, agitazioni settoriali, ecc.) ai nuovi meccanismi produttivi. Di pari passo però crebbe la confusione delle competenze e delle funzioni con le CdL e con il loro organismo centrale, e si iniziò un’aspra lotta per l’assunzione della direzione del movimento di classe. Sotto l’incalzare delle necessità organizzative unitarie e della concentrazione delle forze, per resistere ai primi bruschi effetti delle innovazioni produttive, fra la Federazione delle CdL e la Federazione nazionale d’arti e mestieri si resero indispensabili un disciplinamento delle rispettive funzioni e un loro coordinamento centrale».
Arriviamo quindi al Segretariato centrale della resistenza, a proposito del quale il Pepe prosegue: «Il segretariato mantenne fino al 1904 un’impostazione riformista. Poi, come abbiamo visto accadere nel P.S.I., con l’inizio della crisi riformista l’opposizione rivoluzionaria prese corpo anche all’interno del movimento sindacale. Essa si configurava con caratteri, seppure ancora confusi, autonomi, attinti dalle teorie elaborate da G.Sorel che in quegli anni venivano divulgate in Italia come sindacalismo rivoluzionario». Poi continua: «Al modificarsi della situazione economica e sindacale del 1905, queste aspre contese delle tendenze portarono alla testa dell’organismo centrale, sulla spinta anche delle gravi agitazioni ferroviarie di quell’anno, il gruppo sindacalista rivoluzionario. Questo dominerà nel Segretariato per tutto il 1905, ma paleserà una totale incapacità politica e organizzativa, svuotando con la sua inconsistenza anche lo strumento che si era trovato a dirigere, il Segretariato centrale della resistenza. D’altra parte per l’opposizione riformista era pressoché impossibile una riconquista del segretariato: sia per i rapporti di forza al suo interno – dove erano nettamente prevalenti gli interessi delle CdL, a tendenza sindacalista – sia perché sarebbe stata una conquista vana, data la fatiscente struttura di esso e il suo assai scarso potere di controllo effettivo e di direzione unitaria del movimento sindacale e di classe. La polemica dei riformisti si orientò quindi verso un’impostazione diversa e più audace, volta a sovvertire i rapporti di forza non entro l’organismo centrale della resistenza, ma attraverso la sostituzione ad esso di una struttura del tutto diversa, grazie alla quale ristabilire una propria direzione complessiva sul movimento sindacale e di classe. Il punto di forza dei riformisti erano le Federazioni di mestiere. Sia per la loro composizione e il loro ruolo nella dinamica sindacale, sia per motivi di prestigio e di rivincita nei confronti delle CdL, queste divennero le sostenitrici più fervide della costituzione di un diverso organismo centrale del movimento operaio e sindacale».
La proposta del Verzi di costituire una Confederazione del lavoro fu accolta con grande favore dalle Federazioni di mestiere, in mano ai riformisti, ma non certo dai sindacalisti rivoluzionari. Al Convegno preparatorio di Milano venne approvato un ordine del giorno in cui si stabiliva che il Congresso si sarebbe svolto a Milano, e perché non apparisse che il «nuovo organismo possa sorgere coll’idea di volersi sostituire al Segretariato della resistenza, il Convegno stabilisce di mettersi d’accordo col Segretariato stesso, perché il Congresso avvenga nel tempo e nelle forme desiderate, nominando all’uopo una Commissione».
Torniamo al Pepe: «È chiara la linea perseguita dai riformisti: evitare in primo luogo che l’operazione di sostituzione dell’organismo esistente ma fatiscente apparisse come una deliberata azione di rottura della unità sindacale; e costringere quindi, a tal fine, i sindacalisti rivoluzionari del segretariato ad accettare una corresponsabilità subordinata nell’iniziativa, attraverso la creazione di un organismo temporaneo unitario, nel quale essi di fatto fossero maggioranza. I sindacalisti rivoluzionari, per parte loro, resisi conto della sterilità di una opposizione pregiudiziale, scelsero l’accettazione forzata del progetto volto alla costituzione di una Confederazione. In tal modo la complessa manovra riformista si avviava al suo coronamento: si preparava cioè un rovesciamento della direzione sindacale, senza spezzare l’unità del sindacato e senza indebolire il prestigio del nuovo organismo agli occhi delle masse lavoratrici». Ancora: «Mentre le Federazioni criticavano come inadeguati e imperfetti i mezzi e l’ambito delle lotte sindacali locali, dato il carattere nazionale assunto dall’avversario di classe, le Camere del lavoro rimproveravano alle Federazioni il carattere di gretto riformismo economico e di chiuso corporativismo su cui si fondavano. A queste contrapposizioni ideologiche si aggiungevano accesi contrasti circa la definizione del ruolo e della funzione di ciascuno dei due organismi in relazione al movimento operaio». «Le Federazioni tendevano a sottrarre alle Camere del lavoro tutte le loro attribuzioni più direttamente collegate con la vita produttiva del lavoratore, mirando a trasformarle in organi nominali di propaganda dei principi dell’organizzazione federale e della solidarietà a livello provinciale o cittadino».
Della concezione dei rapporti tra sindacato e partito propria dei dirigenti confederali abbiamo già parlato, ma è interessante leggere cosa scrive Rigola, il più importante dirigente confederale e noto riformista, su “La Confederazione del Lavoro” del 22 giugno 1907: «Nelle principali battaglie del lavoro (scioperi di Argenta e Terni) non corse mai la benché minima intesa fra partito e confederazione. Ciascuno operó per conto proprio, quasi avesse voluto fare all’insaputa o magari contro il volere dell’alleato. Ora bisogna che ci si convinca che il sindacato è uno strumento tipico della lotta anticapitalistica nelle attuali condizioni di classe, mentre il partito per la sua stessa natura è un organismo che rappresenta interessi multiformi e non specificamente proletari. Tra i due però si devono stabilire dei rapporti ben diversi da quelli che corsero fin qui tra sindacati e partito socialista, se si vuole rendere ancora tollerabile una vita in comune. Non pretendiamo che il partito socialista debba mettersi in coda al nostro movimento; né al di sopra né al di sotto dei partiti, questa fu sempre la nostra formula preferita. Ma non vogliamo neppure che le organizzazioni debbano servire da comodino ai partiti politici; intendiamo che i rapporti tra i partiti e organizzazione siano chiari e leali e che l’opera politica non intralci e ostacoli l’opera della Confederazione».
Da questo scritto risulta più che evidente la concezione di un partito interclassista, che rappresenta interessi multiformi e non specificamente proletari. Risulta pure evidente la concezione già vista di una direzione del proletariato a mezzadria tra partito e sindacato, nonché, parlando di partiti al plurale, l’intenzione del sindacato di cercare accordi con vari partiti considerati espressione del proletariato, favorendo possibilmente tra essi un accordo elettorale su un programma concordato tra essi e il sindacato. Scrive il Pepe: «Tutto il movimento economico del proletariato doveva ricadere sotto la giurisdizione direttiva della Confederazione, la quale ne diveniva la sola responsabile di fronte al proletariato. Il partito vedeva circoscritto il suo ambito alla pura sfera politica, e la sua relazione egemonica con le classi operaie, che finora nessuno aveva osato revocare in contestazione, era scalzata alla radice. Giacché, non potendo agire e condizionare la direttiva della lotta economica, esso diveniva oggettivamente un apparato subordinato alla vera e autentica rappresentante delle classi lavoratrici, la CGdL».
I dirigenti confederali, pur con maggior prudenza nei termini, avranno certamente condiviso ciò che scrisse Salvemini sulla “Critica Sociale”: «Il rimedio alle malattie del partito e del gruppo nessuno mai lo troverà anche se il consulto dovesse durare un altro secolo. Il Partito socialista non è ammalato, è morto; e ora non è che spettro; il gruppo parlamentare è lo spettro di uno spettro».
Una delle definizioni più lucide della funzione di un sindacato da parte di un riformista viene non a caso da Filippo Turati, che sulla sua “Critica Sociale” del 1° dicembre 1907 scrive: «La Confederazione del lavoro, che tradusse il nostro pensiero nel mondo delle lotte economiche, deve ora con uno sforzo ulteriore seguirci, secondarci, assillarci, precederci anche in quest’altra necessaria e connessa funzione della multiforme attività socialista. Essa è con noi in parlamento. Essa è con noi nello Stato. Non diserti il suo posto. Duplice vuole essere la trama dell’opera sua. In basso corre la sua spola a intrecciare l’ordito delle organizzazioni proletarie. In alto nei congegni dello stato, nell’officina della legislazione nazionale, è il coronamento necessario della sua fatica. Questa è tela di Penelope se al duplice sincrono lavoro non son pronti l’occhio e la mano del tessitore...».
La necessità di precisare e definire il linguaggio corretto per muovere un qualsiasi passo nella scienza, o scienze, come si preferisce, al plurale, è senza dubbio ineludibile. Non ci riferiamo ad un “linguaggio assoluto”, che a tutti si imponga, ma di linguaggi rigorosi, che riducano al massimo la libertà di usare le parole secondo come aggrada sul momento.
Per Galileo il mondo è un grande libro, scritto in caratteri matematici, in quadrati, cerchi, triangoli... Quindi, se il linguaggio col quale Dio ha compilato il mondo è un linguaggio matematico, tale sarà pure il discorso degli uomini.
Ma il linguaggio matematico è l’unico linguaggio possibile, tenuto conto che oggi si propongono più “linguaggi” matematici? Certamente no, determinate premesse possono dare adito a diversi linguaggi matematici. Insomma che due più due dia quattro dipende dalle premesse da cui si decide di partire. Non si creda che la questione sia di lana caprina: basta a questo proposito far riferimento alle nostre nozioni di “classe”, “comunismo”, “rivoluzione” o ad altra definizione o categoria attraverso la quale identifichiamo con un termine un insieme differenziato di enti e di condizioni.
Noi siamo ostili alle definizioni generiche (anche se apparentemente “generali”) quali “progresso”, “popolo”, “opinione pubblica”, o altre definizioni neutre che nella veste generica impediscono di cogliere la complessità e ricchezza della realtà. Marx scrive, in Per la critica dell’economia politica - Il metodo: «Quando consideriamo un dato paese dal punto di vista dell’economia politica, cominciamo con la sua popolazione, con la divisione di questa in classi, in città, la campagna, il mare, le diverse branche della produzione, esportazione e importazione, produzione e consumo, prezzi delle merci, ecc. Sembra corretto cominciare col il reale ed il concreto con l’effettivo presupposto, quindi per esempio nell’economia con la popolazione, che è la base e il soggetto dell’intero atto sociale di produzione. Ma, ad un esame più attento, ciò si rivela falso. La popolazione è un’astrazione, se tralascio le classi da cui è composta. A loro volta queste classi sono una parola priva di senso se non conosco gli elementi su cui esse si fondano, per es. il lavoro salariato, capitale ecc... Se cominciassi quindi con la popolazione, avrei una rappresentazione caotica dell’insieme, e ad un esame più preciso, perverrei, sempre più analiticamente, a concetti più semplici, dal concreto rappresentato ad astrazioni sempre più sottili, fino a giungere alle determinazioni più semplici. Da qui si tratterebbe poi di intraprendere di nuovo il viaggio all’indietro, fino ad arrivare finalmente di nuovo alla popolazione, ma questa volta non come a una caotica rappresentazione d’un insieme, bensì come a una totalità ricca, fatta di molte determinazioni e relazioni».
Occuparsi dell’”Essere in quanto essere”, o del “qualcosa in generale”, come diceva Husserl, non significa così attenersi ad una generica “ontologia” (studio dell’Essere), ma dell’identità e della natura delle cose, delle loro condizioni di persistenza nel tempo, delle loro relazioni di reciproca interdipendenza, in generale delle precondizioni del nostro parlare del mondo.
E così, insomma, che, dopo essere stati tacciati di esasperato teoreticismo, oggi ci accorgiamo che il presunto fior fiore dei filosofi, specie americani, riscopre la necessità della “teoria”. Non solo senza Teoria niente Rivoluzione, ma senza Teoria niente Realtà! Sono così serviti quei figuri che hanno tentato di ironizzare sulla nostra Invarianza, gabellata per una sorta di Metafisica da strapazzo, di Determinismo volgare. Oggi che tutti civettano col pensiero “americano”, dei Putman, Searle, Davidson, Nozick, Rawls ed altri, sono costretti a prender atto che la Teoria è la condizione per la Trasformazione, a maggior ragione se rivoluzionaria, dell’insopportabile realtà borghese del mercato e della impresentabile stagnazione, impaludamento e rovina dello stesso ambiente naturale.
Il legame tra Pensiero e Realtà, l’esistenza degli oggetti del senso comune, di tutti i giorni, non sono temi estranei alla lotta per la trasformazione della società nella direzione del comunismo. Noi abbiamo sempre rivendicato la necessità di non perdere di vista il nesso tra Pensiero ed Azione; non ci siamo mai illusi di mettere da parte la teoria ormai imparata per darci all’azione a tutti costi; come mai ci siamo illusi che l’azione di per sé potesse produrre la teoria, che è invece una questione storica di lungo e largo respiro, capace di affrontare e di porsi i temi più astrusi ed apparentemente estranei alla lotta politica e sociale, avessero a che fare con l’astronomia o la logica pura, la religione o l’arte.
Non saranno certo, oggi, le rivisitazioni di moda, dello “spirituale” o dello ”ideale” a farci perdere la bussola. Non è da ora, alla nostra scuola, che si discute e si specula non solo di cose visibili e controllabili, secondo i dettami del fenomenismo e della fenomenologia, ma anche di quelle incorporee, che per certuni costituirebbero il terreno e la prerogativa delle correnti reazionarie.
Già il pensiero giuridico antico distingueva tra cose “corporee” e cose “incorporee” (res corporales et res incorporales), questo perché il pensiero giuridico antico non si allontanò mai completamente dalla verità del senso comune. Res è in primo luogo un corpo che occupa uno spazio. Corporee sono le cose che si distendono nell’intero orizzonte della vita quotidiana e ne soddisfano i bisogni. Una loro caratteristica è la visibilità.
Ma nel gioco sottile tra “invarianza” e “differenza” si insinua inevitabilmente, da sempre, il demone della “definizione” che pretende (specie da parte di certe correnti metafisiche che più che la scienza hanno a cuore i dogmi) di dire la ”ultima parola” e chiudere una volta per tutte la polemica. Se la nostra corrente ha puntato sulla invarianza della dottrina non lo ha fatto a cuor leggero, cieca ed ottusa di fronte al variare incessante della realtà in movimento, che anzi è movimento! Lo ha fatto per sottolineare che se la “differenza” non si misura con un termine di confronto non può nemmeno essere percepita.
La polemica sulla questione se il Differenziale sia “ideale” o “reale” (o dovremmo dire più brutalmente “materiale”) è annosa e vide in tensione cervelli/menti del calibro di Leibniz e Newton. È chiaro che quando dalla differenza si passa al differenziale, cioè diventa infinitamente piccola, si assottiglia la possibilità di percepirla, soppesarla, fare in modo che conti, sia pure a livello simbolico, nel calcolo!
Nel gioco antico tra Essere e Divenire noi abbiamo sempre sostenuto le ragioni del divenire/polemos, ma non tanto contro l’Idea dell’Essere, quanto piuttosto contro l’Idea di un Essere astratto, ossificato, imbalsamato. In realtà, nella dialettica materialistica, la tensione e lo scambio tra Essere e Divenire è continuo ed aperto, né ci illudiamo di risolverla a colpi di Metafisica! Eppure, tutti, più o meno onestamente, hanno interpretato che il materialismo dialettico colla sua versione del “comunismo” ha preteso di scrivere la parola fine sulla questione “dialettica”.
Invarianza per la nostra corrente ha significato scandire ritmi, leggi tendenziali nell’ambito del movimento storico: per questo abbiamo detto che le grandi dottrine non sorgono tutti i giorni e rimangono globalmente valide per lunghi periodi, dominati da questioni che aspettano di risolversi relativamente in nuovi rivoluzionari assetti di tipo sociale ed umano.
Tornando alla questione della “definizione” sappiamo bene come determinate “cose” da “corporee” si fanno “incorporee”. Nella nostra versione del rapporto che si instaura tra la scienza e la teoria non è previsto che ci sia incomunicabilità tra le generalizzazioni massime a cui siamo giunti e le nuove sfaccettature che il “particolare”, in qualche modo infinito, è in grado di mostrare all’occhio attento della ricerca e dello studio incessante della realtà. Nel corso della difficile, e a volte tesa, sconcertante dialettica tra scienza e teoria generale si è assistito a incomprensioni e sordità inaudite; noi al contrario abbiamo perfino prefigurato una fusione felice e completa tra i due poli della conoscenza.
Oggi la scienza misura perfino la “velocità del pensiero”: ricercatori americani guidati da J.Hart della Università J.Hopkins di Baltimora hanno misurato che per capire il significato d’un oggetto raffigurato in un’immagine si richiederebbe al cervello umano da mezzo a tre quarti di secondo. Altri 250/450 millisecondi sarebbero necessari per definire completamente l’oggetto. La dissociazione tra la prima e la seconda fase spiega l’esistenza di una “convinzione subliminale”. Perché un oggetto concreto, “in carne ed ossa”, diventi “immagine/forma” sono necessarie due fasi, un processo reale, che non è dunque istantaneo, come ci si potrebbe immaginare. La dialettica spazio/temporale è confermata. Non solo: perché un oggetto, o res corporalis, perda i suoi contorni strettamente legati alla percezione e diventi patrimonio formale, fino a poter essere considerato res incorporalis, o mentale, c’è bisogno di un passaggio che il nostro cervello registra, ma a livello “inconscio”, subliminale. Quanti effetti “coca/cola” nella complicata storia della conoscenza!
Noi, dal nostro punto di vista materialistico/dialettico, non siamo
disposti a chiudere tutti e due gli occhi sulla questione. Se lo facessimo
trascureremmo il valore della teoria, ma soprattutto la sua fisiologia.
Tra materialismo volgare, materialismo dialettico, e idealismo puro, c’è
una certa gradazione e differenze da non sottovalutare.
LA “GENERALIZZAZIONE MASSIMA” È UN RISULTATO
La Generalizzazione dunque, sia a livello linguistico sia teoretico, è la massima delle conquiste della coscienza, che, riconoscendo un qualsiasi tipo di ente, è in grado di coglierne l’individualità oggettività senza contraddirla, e con ciò la riconosce come Risultato.
Ma, come tanti oggi lamentano, il rischio insito in ogni generalizzazione è quello di cadere in generalizzazioni abusive, come quando diciamo: “tutti gli inglesi sono bugiardi”, o “tutti gli italiani sono ladri e mafiosi”... La generalizzazione impedisce cioè di distinguere, o meglio, può comportare che s’incorra facilmente in questo tipo di abuso. Fin qui, almeno nel linguaggio comune, tutto è chiaro e scontato. Ma ci si domanda: in che consiste questa possibilità da un punto di vista “teoretico”. Perché insomma nella conquista della capacità di generalizzare, in cui si esalta la tendenza elastica e comprensiva del nostro pensiero, si annida il pericolo del suo uso improprio.
La scoperta della forma comporta che una realtà o un comportamento sia valido in sé, indipendentemente da ogni situazione materiale concreta. Ma la “forma in sé” rimanda sempre a situazioni materiali e concrete, altrimenti si riduce a rito o rappresentazione astratta. Tra la “generalizzazione massima” e il “puro fatto”, due estremi probabilmente inesistenti in senso concreto, ci deve pur essere qualcosa.
Ci volle la mente geniale d’un Leopardi (il poeta che tutti, specie in questi tempi di “ermeneutica selvaggia” si tirano dalla propria parte) per individuare “cosa”. «Cartesio (il principe dei razionalisti moderni) distrusse gli errori dei peripatetici e corse sulle tracce della verità, e talvolta giunse ad afferrarla. Ma questa spesso sfuggì davanti a lui e lo lasciò in braccio all’errore. Non fidarsi dei sensi fu il primo errore, che gli divenne fatale. Una più matura riflessione gli avrebbe mostrato che non i sensi, ma i temerari giudizi, che noi formiamo sopra le nostre sensazioni, sono quelli che ci portano all’inganno» (“Storia dell’astronomia”).
Il materialismo dialettico non sposa né l’uso sconsiderato ed abusivo della “generalizzazione massima” né s’inginocchia positivisticamente al “puro fatto”. Se il metodo della generalizzazione è necessario per stabilire i confini “possibili” dell’ente, nello stesso tempo la riduzione del “reale” al fatto senza teoria è una tentazione che nella “scienza” ha sempre solleticato, in nome d’una “verità” assolutamente reale non carica di soggettivismo di qualsiasi specie. «L’esame fondato dei particolari nello studio della natura toglie spazio all’immaginazione» – che, per Leopardi – «è il primo fonte della felicità umana», la «sorgente della ragione, come del sentimento, delle passioni, della poesia». Contrariamente alle forme riduzionistiche del materialismo storico in versione “DiaMat” staliniano, la nostra corrente non ha mai accettato di negare a se stessa ed al proletariato di “sognare”, alla condizione che il sogno non prendesse una via senza ritorno e che ci rapportasse alla “nuda e cruda” realtà dei fatti. Non abbiamo mai guardato con gli occhi della “pura e fredda ragione” che lasciamo ai borghesi, oggi schifati anche di essa.
Ma in quanti modi si può dire l’”Essere”? Quale civiltà o cultura non ha preteso di averne l’esclusiva? Il “relativismo culturale” di oggi, tanto vituperato, ha comunque un pregio, quello di ammettere che non esiste un unico modo di predicare l’Essere.
Significa forse riconoscere che se i modi di dire l’Essere sono più d’uno, anzi molti, quante sono le culture di società diverse tanti sono gli “Esseri”. Per poter dirimere la questione dovremmo poter avere la prova che, mentre anche d’un semplice “ente” si possono dare più versioni, in realtà ognuna di queste si occupa di quell’unico “ente”. Ad esempio: tutti vediamo davanti a noi questa bottiglia, eppure il punto di vista su di essa non è e non può essere identico. Significa allora che parliamo ognuno della “sua” nozione di “bottiglia” o di “questa” bottiglia? Quando applichiamo i nostri codici interpretativi che ci permettono di decodificare i singoli oggetti, che lo ammettiamo o no, noi siamo debitori della cultura alla quale ci siamo formati. La bottiglia in generale, o questa bottiglia che sta davanti a me non sono la stessa cosa per appartenenti a società o classi diverse. Non sempre davanti ad “una bottiglia” è possibile intendersi, sia in rapporto all’uso sia in rapporto al senso, o all’oggetto in quanto tale.
Tutti i termini usati fino ad ora – “in quanto tale”, ad esempio,
“come oggetto”, “per l’uso” – stanno alla base d’una determinata
cultura che nel mio caso è quella occidentale. Siamo certi che la cultura
cinese tradizionale contempli, nel modo detto, il termine e la posizione
“in quanto tale”? È molto opinabile. I modi di predicare l’essere
presuppongono che ci si “rapporti” all’Essere. Ma non è detto che
tutte le culture si rapportino all’Essere. Questa è una dimensione specifica
che non si presenta nello stesso modo non solo ai singoli individui, ma
soprattutto alle singole culture. Come intenderci allora sulla natura del
“generalizzare” oppure dell’aderire a specifiche questioni o problemi?
È sufficiente il “relativismo culturale” a giustificare i nostri diversi
atteggiamenti?
“IL DELIRIO DEI MOLTI”
Non solo l’Essere può essere predicato in molti modi, ma in determinate epoche storiche può diventare “il delirio di molti” (Musil), quando «la vertigine della realtà contemporanea, che non poggia su nulla ed è “campata in aria”, quando il tramonto dell’Io individuale, mero agglomerato di qualità senza l’uomo, senza un centro che le unifichi, la mutazione radicale del mondo e dell’uomo stesso diventa un fatto compiuto» (Magris, “Corriere della Sera”, 25 giugno).
Ma come si è prodotta questa condizione per l’essere umano? Su questo punto è vano attenersi alle inconcludenti considerazioni generalizzanti, proprie dell’ideologia borghese, che attribuisce il risultato alla “natura umana”, alla sua incapacità di dar corpo ad una convivenza umana degna; ad una “forma politica” compiuta. La nostra versione del mondo non si chiude in giudizi generali che non siano il prodotto di analisi concrete, prodottesi storicamente, e non per via “metafisica”.
Ci rendiamo conto che l’attribuzione di colpa nei confronti del modo di produzione capitalistico non può ridursi ad una sorta di demonizzazione: prova ne sia che dialetticamente il materialismo storico ha non solo riconosciuto ma esaltato la funzione rivoluzionaria della borghesia nel suo momento storico ascendente. Ancora una volta la generalizzazione di comodo si risolverebbe in una nostra “deresponsabilizzazione”, in una forma di scarico di impegno e di valutazione della realtà. Il “delirio di molti” si produce non a caso, ma allorché l’essere umano, assimilato alla merce, diventa un valore tra valori, interscambiabile, vendibile, come l’agglomerato di merci nell’ambito del mercato. Non dimentichiamo l’incipit del “Capitale”: «il Capitale è una accolta di merci».
Come può essere predicato in modo univoco il proclamato “Essere” una volta che non si riconosca il corso storico, la sua tendenza inevitabile alla società comunista? Se l’Essere non è uno solo, ma molti, come si può pretendere che non venga inteso secondo le esigenze contingenti dei molti? I “molti in delirio”, una volta smarrito il “senso della storia”, saranno in grado di dare all’Essere una connotazione unitaria, un significato che permetta loro di non disperdersi, come sembra minacciare l’attuale andamento delle cose? Non è una domanda facile da evadere. Ma se è vero che il “male della domanda sta nella risposta” non è neanche il caso di affrettarsi a dare una soluzione purchessia. È necessario avere la pazienza (che è la vera chiave rivoluzionaria) di lasciare che gli eventi abbiano corso, non tanto secondo la loro esclusiva logica interna, che pure esiste, ma senza la pretesa di interventi dettati dalla volontà a tutti i costi, perché prendano la piega preferita.
L’Essere, nella sua dinamica infinita, non “se ne sta lì” davanti a noi per essere plasmato o determinato, perché noi, gli uomini, organizzati nelle forme storiche che nessuna “volontà” può piegare a piacimento, siamo in grado di assecondarli e volgerli al fine desiderato soltanto entro certi limiti, che si aprono e si estendono in modo inequivocabile in determinati svolti, mai ripetibili, ma pur riconoscibili alla luce della teoria e della conoscenza.
I “molti in delirio” possono essere l’alibi a cui una forma economica e sociale in crisi inevitabile fa ricorso per “uscire” fortunosamente dal suo declino e dal suo esito rovinoso. È da almeno un secolo che si fa appello al “caos”, sia come “immagine della realtà” sia come risorsa a cui si chiede di rimescolare il tutto perché ne esca una qualche soluzione. La nostra concezione, che pur rivendica la potenza delle determinazioni sociali e naturali, non ha mai fatto leva sul turbinio degli eventi in quanto tale: la formula “c’è disordine sotto il cielo, ed allora tutto va bene” rispecchia un certo grado di affidamento al caso ed alla logica interna degli avvenimenti che ci sfugge, e perde di vista la necessità di non deviare dalla retta teoria rivoluzionaria, che sta relativamente ferma – e deve farlo – perché non si cada nella possibilità estrema della “rovina di tutte le classi”.
Il punto d’arrivo “teoricamente” più avanzato a cui siamo giunti nella nostra esperienza storica e dialettica è che l’Essere è di “natura viva e sensibile”, anche quando, come è giusto, non mettiamo termine alla ricerca sulla natura della Materia, che non può, nella nostra versione, essere definita in assoluto.
Già gli alchimisti (quando l’Alchimia era concepita letteralmente come Grande Opera) riconoscevano nella natura solo “qualità”, la quantità era per loro un concetto del tutto marginale e comunque relativo. Essi ignoravano il dualismo cartesiano di materia e di spirito. «Il Filosofo (così gli alchimisti pensavano se stessi) conosceva solo un organismo vivente e sensibile (la Natura) del quale sapeva i ritmi, le peculiarità, tempi e le tendenze. Cosi la fisica alchemica era un dialogo non un sistema. Per questo non esiste una dottrina univoca, non esiste omologazione: la costante riproducibilità della scienza sperimentale galileiana era un assurdo per gli alchimisti, i quali riconoscevano solo percorsi individuali, interiori, fondamentalmente inesprimibili» (Paolo Cortesi, Introduzione al Trattato della pietra filosofale attribuito a Tommaso d’Aquino).
Lontani mille miglia, si direbbe, dal nostro determinismo, se non avessimo la pazienza di situare le conoscenze e le teorie nel loro proprio tempo! Ma dopo la dialettica hegeliana e la sua filosofia speculativa, il materialismo storico, partito apparentemente dal “dualismo di spirito e materia” e risoltolo nella “Natura come dialettica”, si dimostrerà meno lontano da certe intuizioni. Le Tesi su Feuerbach stanno lì a rivendicare la “sensibilità e la vitalità” della natura, di cui lo spirito umano costituisce l’estrema e superiore forma evolutiva. Finiva il tempo del soggetto da una parte e dell’oggetto dell’altra, in nome della filosofia della prassi, scoperta non tanto come soluzione filosofica del dualismo, ma come riconoscimento che mai c’è stata una filosofia “puramente speculativa” se non nell’astrazione dei filosofi di scuola. Certamente non nella mente degli alchimisti, allorché essi presentirono che la “Grande Opera” riguarda uomo e natura, nella loro interazione e reciproca modificazione.
Ne consegue che le teoreticissime Generalizzazioni massime, come del resto le Riduzioni al minimo della forma concettuale, vanno sempre considerate nel loro valore strumentale ed interpretativo, mai in quanto tali, come definitive ed avulse dai contesti a cui si riferiscono.
Scoperta, si direbbe, dell’acqua calda, se non fosse che la Metafisica, o le Metafisiche, di ritorno, oscillano tra una riviviscenza equivoca di misticismi e un loro uso strumentale troppo evidentemente piatto, almeno per quanto riguarda la loro utilità nel campo delle metodologie scientifiche, tutte preoccupate di “ridefinizioni” che diano risultato, specie in rapporto al Profitto.
Oltre un certo limite, nella nostra logica, la generalizzazione diventa una bolla di sapone che scoppia lasciando nelle mani vuote solo un certo viscidume che non produce niente. Ma, prima di quel limite, costituisce al contrario una conoscenza e una risorsa d’ordine logico che ci permette di distinguere, di assimilare, di trovare confini credibili tra discipline, di operare insomma in termini di rigore e di scienza. In questo senso la teoria rivoluzionaria è guida per l’azione, e, come abbiamo sempre sostenuto: “niente azione rivoluzionaria senza teoria”.
L’accusa che ci viene rivolta di teoriticismo inconcludente e dogmatico fa riferimento proprio a questa banalità, un “truismo” che non dovrebbe aver bisogno di giustificazione.
Ed invece sappiamo quanto c’è bisogno di ribattere i chiodi, per
la ragione che si è preteso, nel momento cruciale di scelte senza possibilità
di ritorno, di mettere da parte i principi e di operare indipendentemente
dalle definizioni a cui la nostra scienza era pervenuta con grande fatica.
Ci riferiamo alle distinzioni capitali di classe, partito, rapporti tra
le classi, scontro, alleanze possibili e via di questo passo. Si è potuto
così creare “accademie” di materialismo storico e nello stesso tempo,
anzi, proprio in questo modo e per questo tramite, fare strame di esso.
LA PACE DEGLI IMPERIALISMI
Capitolo esposto alla riunione generale del gennaio 1999.
Grecia 1944: Primo esempio di “Difesa della Democrazia”
Il caso Grecia può essere considerato esempio classico del carattere imperialistico del dopo-guerra.
In un rapporto da Atene del 26 ottobre 1944 di Mons. Giacomo Testa, segretario della Delegazione Apostolica di Grecia, (in Le Saint Siège et la Guerre Mondiale, vol.11) si legge: «Questo ultimo mese è stato un periodo di massima tensione. Gli occupanti tedeschi si disponevano a partire e si sapeva che le truppe alleate preparavano sbarchi in territorio greco. Questo era più che sufficiente perché la fantasia degli ateniesi, già tanto accesa e feconda, lavorasse senza posa alla costruzione di castelli, più o meno cartacei, per un domani di libertà, di grandezza e di benessere (...) Intanto i tedeschi dando prova di sangue freddo e di senso di disciplina, che anche i greci sono stati costretti ad ammirare, disponevano uomini e cose per la partenza (...) Di fatto i greci si guardarono bene dal molestarli, e per la inferiorità delle forze e per le feroci rappresaglie che seguirono immediatamente ai primi fatti ostili compiuti da patrioti e comunisti (...) Gli ateniesi si accorsero che gli occupanti avevano lasciato la capitale solo il venerdì mattina 13 corr. Immediatamente le case e gli edifici pubblici vennero imbandierati e la popolazione si riversò nelle strade (...) Già dalla sera di tal giorno, e specialmente l’indomani sabato, le manifestazioni presero un colore particolare e ricevettero un indirizzo tipicamente “eamita” (comunista). Cominciarono i cortei con bandiere, scritte e canti. Con la bandiera nazionale si notava sempre più la bandiera rossa (...)»
«Domenica 15 corr. si attendeva una grande parata degli adepti al partito nazionalista EDEZ, quasi in risposta alle troppo chiassose ed impertinenti dimostrazioni eamite. Cominciarono infatti i cortei nella mattinata, ma si notò ben presto che la cosa non piaceva ai partigiani dell’EAM, che si permisero di ostacolare e contrastare la sfilata. Poco dopo le 12 (...) cominciarono colpi di arma da fuoco e si ebbero parecchi morti e diverse decine di feriti. Gli inglesi intervennero ed invece di una parata, che tutti aspettavano, si videro i carri armati alleati sfilare per la città con le mitragliatrici spianate. L’indomani un ordine del comandante greco della Piazza, col. Stiliotopulos, proibì i cortei di manifestanti ed obbligò alla consegna delle armi entro 48 ore. Non ci si fanno però illusioni circa l’esecuzione di tali ordini, specie per ciò che riguarda la consegna delle armi. Coloro infatti che seppero affrontare tanti rischi e pericoli pur di non presentarle agli occupanti italiani e tedeschi sapranno ben nascondere le proprie armi anche alla polizia greca (...)»
«Mercoledì mattina 18 c.m. sulla corazzata “Averoff” è giunto al Pireo il presidente del consiglio signor Papandreu, con i ministri del governo (...) Manifestazioni straordinarie ad Atene, così all’Acropoli, dove si recò per l’alzabandiera verso le 10, come dentro e fuori la chiesa metropolitana “ortodossa”, dove si cantò un solenne “Te Deum” (Doxologia) di ringraziamento, prima che il Presidente venisse accompagnato al palazzo del Governo. Quivi giunto rivolse al popolo un discorso (...) C’è una grande abilità di parola, uno sforzo massimo di accontentar tutti e quasi la preoccupazione di non dir nulla, di non stabilire cioè un preciso programma per l’avvenire (...) Il signor Papandreu non durerà molto in carica, se non saranno gli alleati a volerlo mantenere a qualunque costo».
In un successivo rapporto del 16 dicembre si legge: «Da oltre 10 giorni siamo chiusi in casa: Atene è trasformata in un vero e proprio campo di battaglia dove la polizia, la truppa nazionale (specialmente la brigata greca reduce dal fronte italiano dopo l’occupazione di Rimini) e le forze militari inglesi di occupazione si battono contro i gruppi partigiani comunisti dell’EAM. Giorni fa (29 novembre p.p.) s’è determinata una crisi in seno al Governo, seguita quasi subito dalle dimissioni in massa del gruppo di ministri di sinistra, che non avevano voluto accettare l’invito di disarmo stabilito dal Governo per tutti i patrioti partigiani, comunisti (EAM) e nazionalisti (EDEZ), che s’erano battuti contro l’occupante tedesco-italiano durante questi anni di guerra. I ministri dimissionari avrebbero voluto che allo stesso obbligo di disarmo venisse sottoposta anche la brigata reduce dal fronte italiano e composta esclusivamente da nazionalisti e realisti quasi fanatici. Tale non era l’intenzione del Governo che aveva richiamato dall’Italia la suddetta brigata per farne il nerbo della ricostituenda armata nazionale e per servirsene come di truppa d’ordine. Alle dimissioni dei ministri di sinistra seguirono subito manifestazioni popolari intese ad ottenere un governo di popolo (“laocratia”) ed invitanti il Capo del Governo Papandreu a ritirarsi».
«Domenica 2 c.m., i cortei cominciarono a farsi un po’ minacciosi e ad un certo momento la polizia, provocata, si dice, da alcuni manifestanti, fece uso delle armi. Si ebbero una decina di morti ed oltre un centinaio di feriti. L’indomani la folla chiese le salme delle vittime ed avutole, quasi a forza, preparò straordinari cortei per il funerale. Ma i canti rituali erano quasi soffocati dal grido di “vendetta”, “abbasso il governo”, “morte a Papandreu” scandito a gran voce dal popolo (...) Verso mezzogiorno di martedì 4 c.m. tutta la forza di polizia e l’intera brigata nazionale da poco giunta da Rimini iniziarono la perlustrazione della città per ridurre al silenzio i centri comunisti più pericolosi. La capitale si cambiò immediatamente in un vero campo di battaglia. Nelle strade, nelle piazze, dalle finestre e dai terrazzi delle case cominciò un nutrito fuoco di fucili, di mitraglie e di bombe esplosive che continuò tutta la giornata e la notte ancora. L’indomani, visto che i posti di resistenza sembrava quasi si moltiplicassero, anche tutte le forze inglesi di occupazione, con tutto l’equipaggiamento militare, carri armati, cannoni ed aerei compresi, intervennero contro i ribelli comunisti».
«L’azione è tuttora in corso e non si prevede se la fine sarà così prossima come si spera. Si sa che gli inglesi hanno chiesto molti rinforzi e sono già stati sbarcati considerevoli gruppi di militari e soprattutto buona copia di carri armati e di artiglierie (...) Intanto i ribelli tengono tutti i sobborghi di Atene e gran parte della Capitale stessa è sotto loro controllo. Soltanto il centro è in mano del Governo e le continue pressione dei partigiani dell’EAM sono contenute dalla polizia, dalla truppa nazionale e dalle forze alleate. Dalle due parti si fanno le cose sul serio e si impiegano tutti i mezzi per riuscire (...) Si può immaginare la condizione di tanta povera gente asserragliata in casa senza quasi mezzi di sussistenza. Non si ha pane da domenica 2 corr. e nessuno aveva pensato a provviste dopo la gioia della liberazione e le illusioni del regno dell’abbondanza. Non c’è luce, non gas, l’acqua è misurata e pochissimi numeri di telefono aperti (...) Intanto si continua nelle strade l’erezione di barricate da una parte e dall’altra (...)».
Dai due rapporti inviati in Vaticano si vede bene come l’opposizione al governo, imposto con la forza dagli anglo-americani, fosse un fenomeno di massa e non opera di semplici gruppi di provocatori partigiani, si capisce inoltre come gli incidenti tra gli aderenti all’EDEZ ed i militanti dell’EAM facessero parte di una provocazione organizzata da parte dei governativi e delle truppe alleate di occupazione per poter procedere poi ad una violenta repressione. La formazione partigiana EDEZ era stata creata dagli inglesi per contrastare il Fronte Nazionale di Liberazione (EAM), guidato dai partiti di sinistra. Gli organizzati nell’EDEZ, che praticamente erano delle truppe mercenarie stipendiate dagli inglesi, a detta dello stesso Churchill erano stati «originariamente simpatizzanti repubblicani, ma con il passare del tempo diventarono solo degli anticomunisti fanatici».
A questa repressione che avrebbe dovuto stroncare ogni atto di insubordinazione ai dettami dei vincitori, gli inglesi si erano preparati già da prima del loro sbarco in Grecia e l’avevano iniziata già nel marzo precedente. Nel marzo 1944, infatti, al Primo Ministro Tsouderos era stata presentata una mozione, firmata dalla stragrande maggioranza dei soldati, marinai ed ufficiali greci di stanza al Cairo, in cui si chiedeva la costituzione di un “governo nazionale” sulla base di quello del Fronte Nazionale di Liberazione. Per tutta risposta Churchill ordinò il disarmo immediato di un reggimento greco. Ne seguì un ammutinamento, quindi un assedio da parte delle truppe inglesi: 11 furono i soldati greci uccisi e 20 mila quelli disarmati e deportati nei campi di concentramento di Libia e di Eritrea.
Abbiamo visto come gli inglesi entrarono in Atene non appena che i tedeschi se ne furono andati. «Era indispensabile – affermò Churchill – che non si verificasse in Grecia alcun vuoto politico».
Il 5 dicembre Churchill trasmetteva al generale Scobie il seguente telegramma: «Non esitate a sparare su qualunque uomo armato che in Atene si opponga alle autorità britanniche o a quelle greche con cui stiamo collaborando (...) Non esitate ad agire come se vi trovaste in una città conquistata dove è in corso una rivolta locale (...) Sarebbe una gran cosa se riusciste ad avere successo, se possibile senza spargimento di sangue, ma se è necessario anche con spargimento di sangue». Lo spargimento di sangue non mancò, grazie anche alla totale passività della Russia che, come ebbe a notare Churchill, aveva aderito fedelmente all’accordo sulle percentuali fatto a Mosca nell’ottobre precedente.
Dal 15 al 25 dicembre, 1.650 voli aerei trasportarono in Grecia 4.374.000 libbre di materiale bellico, due divisioni britanniche al completo e grosse unità di fanteria coloniale. Nelle sue memorie Churchill ricorda di avere dato carta bianca al generale Alexander, per «bombardare alcuni quartieri di Atene».
Forse non è male ricordare che, durante la campagna di Grecia, gli eserciti aggressori, italiano e tedesco, si erano astenuti dal bombardare Atene in considerazione dell’inestimabile valore artistico di quella città e analogamente avevano fatto con Il Cairo. Gli inglesi, portatori della moderna civiltà capitalistica, trattandosi di sterminare il proletariato e le masse popolari in rivolta, se ne fregarono altamente delle vestigia dell’antichità: non il passato, ma il presente capitalista, doveva essere salvato!
La sanguinaria e spietata repressione in Grecia venne criticata perfino da alcuni ambienti americani ed anche inglesi. Ecco come Churchill se la ricorda: «Il Dipartimento di Stato, diretto da Stettinius, diramò una dichiarazione nettamente critica che doveva a sua volta rimpiangere, o quanto meno capovolgere, negli anni successivi. In Inghilterra il turbamento fu grande. Il “Times” ed il “Manchester Guardian” espressero il loro biasimo per quella che essi definivano una “politica reazionaria”. Stalin, tuttavia, si attenne strettamente e fedelmente al nostro accordo dell’ottobre: durante tutte le lunghe settimane di combattimenti con i comunisti per le vie di Atene, neppure una parola di rimprovero apparve sulla “Pravda” o sulle “Izvestia”».
Nel febbraio del 1947 l’Inghilterra dovette schiantare prima di essere potuta venire a capo della situazione e fu costretta a ritirarsi dalla Grecia. L’imperialismo inglese ormai non era che un sogno, la grande potenza che fino a pochi anni prima era stata la dominatrice del mondo dovette capitolare di fronte ai partigiani greci. Ma il suo posto venne immediatamente preso dagli Stati Uniti che, il 12 marzo, a proposito della Grecia, enunciarono la “dottrina Truman” della difesa del “mondo libero”.
Eisenhower, all’inizio del 1948, dichiarò che abbandonare il Mediterraneo sarebbe equivalso a scardinare il sistema difensivo degli Stati Uniti. A questo scopo il governo USA fin dal gennaio/febbraio inviò un proprio rappresentante militare, non con funzione di osservatore o consigliere militare ma con funzioni deliberative all’interno del consiglio di difesa, allo stesso titolo di qualunque altro membro greco. Del resto era del tutto naturale che gli americani, che avevano fornito armi e capitali al governo “legale” di Atene, volessero assicurarsi del buon utilizzo degli aiuti “umanitari” concessi. Scrivemmo in “Battaglia Comunista”, n.8 del 28 febbraio 1948: «L’esperimento è, almeno formalmente, nuovo: il creditore non si limita più a crearsi i suoi uomini di paglia in seno al governo debitore, ma s’inserisce in esso. Divenuta baluardo della difesa americana, la Grecia si avvia ad essere sempre più il teatro di una guerra fredda e calda, il destino della Spagna di dieci e più anni fa. E il famoso “Mare Nostro” diventa sempre più “Mare Loro”».
Il Fronte di Liberazione Nazionale (EAM), oltre ad avere circa 20 mila uomini organizzati nelle sue formazioni militari, godeva del favore e dell’appoggio della stragrande maggioranza della popolazione lavoratrice di Grecia. Per potere avere ragione dei ribelli, gli eserciti del “Mondo Libero” impiegarono i mezzi più crudeli e barbari: i sospetti aderenti o simpatizzanti dell’EAM venivano indiscriminatamente arrestati e sottoposti a torture, oppure passati sommariamente per le armi. Come già avevano fatto gli italo-tedeschi durante la loro occupazione, i villaggi ritenuti possibili rifugi dei guerriglieri venivano rasi al suolo e la popolazione deportata. Per la prima volta venne usato il napalm. A navi intere i deportati venivano avviati ai campi di concentramento libici. Va ricordato inoltre che a fianco degli eserciti greco ed inglese parteciparono attivamente alla repressione anche organizzazioni terroristiche di estrema destra che erano state armate dai tedeschi e con essi avevano collaborato durante l’occupazione.
La guerra civile, che si estese per tutto il paese e che, malgrado vari accordi di cessate il fuoco, si protrasse fino all’agosto del 1949, ebbe un bilancio tremendo: quasi 100 mila i morti, poco meno di 10 mila fucilati, oltre 40 mila tra arrestati e deportati, 60 mila profughi, mezzo milione di contadini sradicati dalle loro terre.
Ma le masse lavoratrici greche che contrastarono con eroica disperazione le armate indigene ed inglesi non furono tradite soltanto dalla Russia di Stalin, ma anche dagli stessi loro dirigenti. Il capo dei guerriglieri greci, Markos, nel settembre 1947 rilasciava la seguente intervista alla stampa internazionale: «Forse deluderò qualcuno dichiarando apertamente fin da ora che l’armata democratica greca persegue soltanto obiettivi ed aspirazioni democratiche e niente altro. Tali obiettivi possono essere così riassunti: democrazia all’interno, integrità nazionale e indipendenza; per quanto riguarda gli affari esteri, pace, comprensione e collaborazione sia con l’Occidente sia con l’Oriente. Oggi decine di migliaia di greci, uomini e donne, combattono e rischiano la vita. Dozzine di essi affrontano ogni giorno con modesto eroismo il plotone di esecuzione».
Anche in Grecia, come dieci anni prima in Spagna, scrivevamo su “Battaglia Comunista” n.22 del 7 ottobre, da ambo le parti del fronte di guerra veniva dichiarato che «unico scopo della morte e delle distruzioni seminate in zone già tanto sconvolte dalla guerra è il desiderio di aprire un’era di pacifici ludi elettorali che potrebbero dar la vittoria sia al partito di Markos che a quello di Sofulis o di Damaskinos: e purtroppo vi sono proletari che ci credono, che li seguono e che pagano con la vita la propria ingenuità (...) Lodevole cosa è morire per i principi democratici: biasimevole lottare per il comunismo. Ecco il progresso che i revisionisti del marxismo hanno realizzato (...) Per noi, la causa della Grecia si salverà mandando al muro insieme a Papandreu e Sofulis anche il capo dei guerriglieri Markos».
Ironia della sorte, i maggiori dirigenti della resistenza greca, rifugiatisi nei Paesi del Socialismo, vennero accusati di trotskismo e titoismo e finirono i loro giorni in altrettanto socialiste galere.
Il fatto che Mosca abbia lasciato scannare i combattenti greci, diretti da “comunisti” di osservanza staliniana, non significa però che la Russia si disinteressasse della Grecia, tanto più che contatti diretti tra la Russia e la resistenza ellenica erano stati presi fin dal luglio 1944 quando una missione di otto uomini, capeggiata dal tenente colonnello Popov, venne paracadutata nella montagna greca. E sarebbe stato impensabile che una così lunga attività di guerriglia fosse stata possibile senza la “benevolenza” delle confinanti Iugoslavia, Albania e Bulgaria.
La Russia, a differenza degli occidentali, non è mai intervenuta in prima persona nei conflitti regionali, nemmeno nei tempi successivi: Iran, Turchia, Indocina, Corea... In più, nel caso specifico, tra Churchill e Stalin era intercorso l’accordo che dava alla Russia la Romania in cambio della Grecia agli inglesi.
Due esempi classici di tentativo di penetrazione russa, sono l’Iran e la Turchia, ambedue risoltisi in una solenne sconfitta. Tra l’autunno 1945 e l’estate 1946 la Russia sviluppò una serie di iniziative diplomatiche nei confronti dell’Iran la cui unica forza derivava dall’essersi messo sotto la tutela degli anglo-americani. All’azione diplomatica la Russia affiancava azioni di sovvertimento interno che miravano a sfruttare le forti rivendicazioni indipendentiste delle tribù curde e l’azione del partito “comunista” Tudeh. Quando però i russi si trovarono di fronte ad una decisa reazione americana che sembrava non escludere un intervento diretto, fecero immediata marcia indietro. Il separatismo curdo, non più sostenuto dalla Russia, fu ridotto al silenzio e gli aderenti del Tudeh furono abbandonati ai rigori di una spietata reazione.
L’azione promossa nei confronti della Turchia fu differente da quella
usata nei confronti dell’Iran, anche se si concluse allo stesso modo.
In mancanza di una forza interna su cui fare leva la Russia fu costretta
a condurre la sua azione su di un piano puramente diplomatico, senza però
poter evitare che ne venissero coinvolti Gran Bretagna e Stati Uniti. La
pressione russa verteva su una diversa regolamentazione del regime degli
Stretti e l’istituzione di una base sovietica sui Dardanelli. Secondo
la Convenzione di Montreux, del 1936, gli Stretti erano stati affidati
all’esclusivo controllo della Turchia, mentre i sovietici chiedevano
di esservi associati. Se tale richiesta di compartecipazione fosse stata
assolta la Russia avrebbe facilmente acquisito una influenza dominante
che, dal controllo degli Stretti, si sarebbe poi estesa anche ad una influenza
sullo Stato turco. Le ripetute pressioni della Russia si avvalevano anche
delle rivendicazioni territoriali sulle provincie armene di Kars e Ardahan.
Gli americani che non potevano tollerare ingerenze altrui in quei territori
che essi ritenevano loro riserva esclusiva, a scopo intimidatorio inviarono
nel Mediterraneo orientale una potente flotta navale di cui faceva parte
anche la gigantesca portaerei “Franklin Delano Roosevelt” per verificare,
come affermò Truman, «se i russi avessero già iniziato i loro sforzi
di dominazione mondiale oppure se avessero intenzione di rinviarli di cinque
o dieci anni». Forte delle armi americane, la Turchia respinse le
richieste sovietiche e la cosa non ebbe più serio seguito.
1945: L’ONU e lo strapotere dei vincitori
Quando il 12 aprile 1945 morì Franklin Delano Roosevelt, il presidente a vita degli Stati Uniti (infatti in barba alla costituzione si era fatto democraticamente eleggere per quattro volte consecutive) nessuno si ricordava più delle sue trascorse simpatie per il fascismo e della sua cordiale amicizia con Benito Mussolini. Ormai, assieme al Generalissimo Stalin e a Sir Winston Churchill, era diventato un campione della democrazia, della libertà, della pace e, con loro, conduceva una guerra senza quartiere per liberare il mondo dalla barbarie nazi-fascista. Non c’è quindi da meravigliarsi se, dinanzi a tanta tragedia, tutti gli uomini amanti della pace abbiano inchinato le loro bandiere nel tributargli l’estremo saluto.
Anche una delegazione del Partito Comunista Italiano si recò presso l’ambasciata americana di Roma per consegnare, a nome della Direzione, il seguente messaggio: «La Direzione del Partito Comunista Italiano, a nome di tutto il partito e degli operai e dei lavoratori italiani d’avanguardia, esprime il suo profondo cordoglio per la perdita del presidente Roosevelt, caduto al suo posto di combattimento, in vista della vittoria alla quale Egli ha dato un così grande contributo. Il popolo italiano che, dopo aver sofferto per oltre vent’anni un regime di ignominia, combatte oggi per la rinascita della patria, vede, onora e ama in Roosevelt uno degli uomini che più hanno operato per la liberazione dell’Italia dalla tirannide e dalla vergogna del fascismo. La riconoscenza dei lavoratori italiani per il Grande scomparso non verrà mai meno; le idee di libertà e di giustizia al cui trionfo Egli ha dedicato la sua esistenza saranno loro di guida sulla via dell’avvenire» (“L’Unità”, 14 aprile).
Ma “gli operai e i lavoratori italiani d’avanguardia” non avrebbero avuto niente da temere perché “le idee di libertà e di giustizia al cui trionfo Egli aveva dedicato la sua esistenza” non furono dimenticate e vennero portate a compimento da altri campioni della pace, della libertà e della democrazia. Fu così che il 26 giugno 1945, quando la sorte del Giappone era ormai chiaramente segnata, 50 governi alleati sottoscrissero a San Francisco lo Statuto delle Nazioni Unite con il deliberato intento di «salvare le future generazioni dal flagello della guerra, mantenere la pace e la sicurezza internazionale, comporre le controversie che fossero sorte in futuro». Quindi compito delle Nazioni Unite avrebbe dovuto essere anche quello di istituire una cooperazione internazionale per l’attuazione di tali enunciati.
Il preambolo della Carta recita testualmente: «Noi popoli delle Nazioni Unite – Decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili sofferenze all’umanità, E a riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella uguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole; E a stabilire condizioni mediante le quali la giustizia e il rispetto degli obblighi imposti dai trattati e dalle altre fonti del diritto internazionale possano essere mantenuti; E a promuovere il progresso sociale e un più alto tenore di vita di una ampia libertà; E a tale fine: Praticare la tolleranza e a vivere in pace l’uno con l’altro da buoni vicini; Unire le nostre forze per mantenere la pace e la sicurezza internazionale; Assicurare, mediante l’accettazione di principi e l’istituzione di procedimenti, che le forze armate non saranno usate che nel comune interesse, e a impiegare strumenti internazionali per promuovere il progresso economico e sociale di tutti i popoli – Abbiamo deciso di unire i nostri sforzi per il conseguimento di tali scopi. In conseguenza, i nostri rispettivi governi, per mezzo dei loro rappresentanti riuniti nella città di San Francisco, muniti di pieni poteri che sono stati trovati in buona e dovuta forma si sono accordati sul presente Statuto delle Nazioni Unite e costituiscono con questo atto un’organizzazione internazionale che sarà denominata Le Nazioni Unite».
Del Capitolo Primo della Carta, che stabilisce “Fini e Principi”, l’Articolo 1 recita: «I fini delle Nazioni Unite sono: 1. Mantenere la pace e la sicurezza internazionale, e a questo fine: prendere misure collettive efficaci per la prevenzione e la cessazione delle minacce alla pace, per la soppressione degli atti di aggressione e le altre infrazioni della pace e pervenire con mezzi pacifici, e conformemente ai principi della giustizia e del diritto internazionale, alla sistemazione o alla soluzione delle controversie internazionali o di quelle situazioni che potrebbero portare alla violazione della pace; 2. Sviluppare relazioni amichevoli tra le Nazioni, fondate sul rispetto del principio dell’uguaglianza dei diritti e dell’autodecisione dei popoli e adottare altre misure adeguate per rafforzare la pace universale; 3. Attuare la cooperazione internazionale nella soluzione dei problemi internazionali di carattere economico, sociale, culturale e umanitario, e promuovere e incoraggiare il rispetto per i diritti dell’uomo e per le libertà fondamentali di tutti senza distinzione di razza, di sesso, di lingua, o di religione; 4. Costituire un centro per coordinare l’attività delle Nazioni verso il conseguimento di questi fini comuni». Prosegue poi nello stesso tono fino all’articolo sei.
Era passato poco più di un mese dalla solenne firma quando, il 6 agosto, gli americani sganciarono su Hiroshima la prima bomba atomica: le case furono rase al suolo per un raggio di circa due chilometri dall’epicentro dell’esplosione; 90 mila furono i morti; 40 mila i feriti; 13 mila i dispersi; molti, apparentemente indenni, morirono nei mesi successivi per effetto delle radiazioni tra sofferenze indicibili. L’annuncio di tanta strage fu dato al mondo dal presidente Truman in persona, 16 ore dopo il lancio della bomba. La comunicazione era di tono trionfalistico: «I giapponesi iniziarono la guerra dell’aria a Pearl Harbor. Essi sono stati ripagati molteplicemente (...) Che non ci siano equivoci (...) se essi non accettano le nostre condizioni possono attendersi una pioggia di rovine dall’aria tale che una simile cosa non si è mai vista sulla terra». Truman non concludeva il suo annuncio senza avere prima ringraziato l’Eterno Onnipotente con un «Siamo grati alla Provvidenza». Il 9 agosto una seconda bomba veniva sganciata su Nagasaki con gli stessi terrificanti effetti della prima. Il 14 agosto, con la capitolazione giapponese, la pax imperialista tornava a regnare.
Di fronte ad una strage di esseri inermi tanto disumana ed orrenda da far impallidire le atrocità naziste gli stalinisti non ebbero nulla da dire. Non ne gioirono solo perché gli Stati Uniti, a scopo terroristico nei confronti dell’URSS, avevano già categoricamente dichiarato di voler mantenere il monopolio dell’armamento atomico. “L’Unità” trovava però il modo di vantare il fatto che due scienziati italiani avevano contribuito alla realizzazione della micidiale arma e faceva proprie le dichiarazioni di Truman secondo cui le due bombe atomiche «erano state usate per abbreviare l’inumana strage, tanto di americani che giapponesi, che sarebbe stata portata da un prolungarsi della guerra» (11 agosto).
D’altra parte, pochi giorni prima l’URSS aveva dichiarato guerra al Giappone per lo stesso motivo. Nella dichiarazione di guerra Stalin e Molotov avevano avuto il coraggio di affermare che «il governo sovietico considera tale sua decisione come l’unico mezzo atto ad abbreviare il corso della guerra, a risparmiare ai popoli ulteriori sacrifici, a dare al popolo giapponese la possibilità di evitare una distruzione simile a quella tedesca» (“L’Unità”, 9 agosto).
Era questo lo spirito filantropico con cui era stata costituita l’organizzazione delle Nazioni Unite!
Ad onta delle melliflue dichiarazioni di un pacifismo che non riusciva a nascondere il volto di iena dietro i suoi altisonanti impegni, e ad ulteriore dimostrazione delle nostre valutazioni teoriche e dottrinarie, enunciate sulla scorta dei principi programmatici del marxismo, il carattere imperialista della II guerra mondiale apparve nella sua completa chiarezza proprio appena fu ristabilita la “pace”. I due imperialismi vincitori si arroccavano sulle proprie conquiste territoriali imponendovi la loro dittatura militare, economica e politica ed allo stesso tempo tentando di impadronirsi delle posizioni dell’avversario, specialmente in quei paesi dove l’equilibrio politico appariva meno stabile.
Non a caso i governi dell’Asse, che ben sapevano come la guerra non
sarebbe terminata con il tacere del cannone, anzi i contrasti tra gli Alleati,
e in special modo tra USA ed URSS, avrebbero dominato gli anni a venire,
proposero a più riprese agli anglo-americani di cambiare il fronte di
una guerra ormai per loro perduta, mettersi al servizio delle potenze democratiche
occidentali e gettarsi assieme ad esse contro il comune nemico di Mosca.
Se gli americani non accettarono la proposta degli agonizzanti governi
nazi-fascisti non fu per ragioni di ordine morale, ma perché erano coscienti
che sarebbero stati loro i dominatori incontrastati di tutto il periodo
post-bellico.
La spartizione dell’Europa
Quando dal ministero della guerra inglese, all’inizio del 1947, venne pubblicato il libro bianco sulla situazione economica del paese, la stampa lo definì come la dichiarazione più preoccupante mai fatta da un governo di Sua Maestà: nel 1946 il deficit della bilancia dei pagamenti aveva raggiunto la bella cifra di 380 milioni di sterline; il prestito americano di 3.750 milioni di dollari era sul punto di esaurirsi senza che fosse stata raggiunta quella stabilità per la quale era stato richiesto e quando, nel luglio 1947, per fare fronte agli impegni assunti con gli americani fu dichiarata la convertibilità della sterlina con il dollaro, appena un mese dopo il governo britannico fu costretto a sospenderla a causa della ressa di possessori di sterline che si precipitavano a convertirle in dollari. Con grande dispendio finanziario l’Inghilterra era impegnata in Grecia a sostegno della monarchia, in Palestina contro il movimento sionista, nel Mediterraneo orientale a sostegno della Turchia, in India ad arginare la spinta delle forze indipendentiste. In pochi mesi, sotto la pressione delle crescenti difficoltà economiche tutti questi impegni vennero considerevolmente ridotti o revocati.
Il 1° gennaio 1947 in Germania le zone di occupazione britannica ed americana furono unificate e gli USA si assumevano quasi totalmente le responsabilità amministrative e finanziarie. Nel febbraio la Gran Bretagna si disimpegnava dalla questione palestinese che passava alle Nazioni Unite. Nello stesso mese avvenne anche il ritiro dalla Grecia. In agosto le truppe inglesi si ritirarono dall’India anticipando la concessione dell’indipendenza annunciata per la fine del 1948. L’Inghilterra, malgrado le sue velleità imperialistiche, aveva perduto la guerra proprio come l’Italia e la Germania, perché la sconfitta non era stata dei paesi dell’Asse, bensì della intera Europa. Ciò a dimostrazione di come tutta la politica dello Stato borghese americano tra le due guerre fosse stata una diretta e continua preparazione ad una penetrazione espansionistica ai danni dell’Europa (compresi i paesi dell’Est). Piano questo che non era certo un segreto per nessuno. (Per nessuno tranne che per il segretario del PCUS Zdanov il quale vedeva «il passaggio dell’imperialismo americano ad una politica aggressiva ed apertamente espansionistica, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale»).
Lo stucchevole condimento di menzogne umanitarie e democratiche aveva fiancheggiato l’allestimento economico, industriale e militare le cui tappe si sviluppavano in venti anni di storia. Scrivemmo in “Prometeo” n.13 dell’agosto 1949: «Gli aggressori storici europei che si dannavano per una provincia o una città a tiro di cannone, fanno ridere di fronte alla improntitudine con cui si discute in pubblico – ed è facile arguire di che tipo saranno i piani segreti – se la incolumità di Nuova York e di San Francisco si difenderà sul Reno o sull’Elba, sulle Alpi o sui Pirenei. Lo spazio vitale dei conquistatori statunitensi è una fascia che fa il giro della terra; è il punto di arrivo di un metodo cominciato con Esopo quando il lupo disse all’agnello che gli intorbidava l’acqua pur bevendo a valle. Bianco, nero e giallo, nessuno di noi può ingollare un sorso d’acqua senza intorbidire i cocktails serviti ai re della camorra plutocratica nei nightclubs degli Stati».
La Germania, sconfitta nella Prima Guerra Mondiale, perché prostrata militarmente in battaglie combattute su territori altrui, aveva mantenuti intatti i possenti impianti moderni che una acceleratissima industrializzazione le aveva permesso di attuare in pochi decenni. I conquistatori della Germania, nella Seconda Guerra Mondiale, si guardarono bene dal proclamare il giorno della vittoria prima di avere percorso tutto il territorio del vinto, già sistematicamente raso al suolo dai bombardamenti umanitari della civiltà americana, tanto per controllarne la residua consistenza degli impianti produttivi quanto per impedire le convulsioni rivoluzionarie delle masse sacrificate. Non potendo più giustificare come azioni di guerra compiute contro obiettivi militari i loro bombardamenti indiscriminati che portavano alla distruzione totale di intere città, con conseguente sterminio di massa, gli anglo-americani avevano coniato l’espressione “Area-bombing”, bombardamenti di zona.
La Russia si incorporò la zona della Prussia orientale ad Est di Danzica (Koenigsburg fu ribattezzato Kaliningrad), mentre le regioni tedesche ad Est dell’Oder-Neisse passarono alla Polonia. Queste annessioni di territorio tedesco, oltre a smembrare la Germania, producevano un doppio vantaggio per la Russia. Innanzi tutto i territori incorporati dalla Polonia, Stato soggetto alla Russia, costituivano quasi un quarto dell’area coltivata della Germania al 1937; inoltre i territori oggetto di cessione comprendevano le miniere della Slesia ed i grandi porti baltici. Il secondo vantaggio era che la Russia, dopo avere tolto alla Germania una grossa fetta di territorio nazionale, era riuscita a fare accettare la sua tesi del sistematico smantellamento del potenziale industriale tedesco in conto riparazioni nel restante territorio tedesco. I russi, oltre ad avere avuto dagli alleati, a Postdam, l’autorizzazione ad un illimitato prelievo di impianti industriali nella zona da loro controllata, in considerazione della maggiore industrializzazione della zona occidentale della Germania furono autorizzati anche a smantellare il 25% delle installazioni industriali «non necessarie all’economia del paese».
Per il resto la Germania venne divisa in quattro zone di occupazione (americana, russa, inglese, francese) approssimativamente sulla base della dislocazione delle forze militari quale era risultata al termine delle ostilità. La stessa Berlino, capitale del Reich, che territorialmente faceva parte della zona russa, venne divisa anch’essa in quattro settori: la zona Ovest sotto il controllo delle potenze occidentali e la zona Est sotto il controllo russo. Ad ognuna delle zone era stato preposto un governatore, unica autorità nella sua zona, ma che per gli affari generali tedeschi si riuniva agli altri formando un Consiglio di Controllo che rappresentava l’organo supremo.
Ma non erano solo la Germania e l’Italia, nazioni sconfitte e distrutte, a subire i tremendi contraccolpi della guerra, era tutta la vecchia Europa ad avere fame, a non avere abbastanza da mangiare, a non produrre viveri a sufficienza e a non avere più la forza di un tempo per andare a predare nei più lontani angoli del mondo. Si legge in “Prometeo” del novembre 1947: «Il rapporto di forze economiche e quindi di dominazione politica sorge nello stesso modo per i paesi che hanno bruciata la loro attrezzatura tecnica nel combattere contro la Germania, come l’Inghilterra e la Russia. Le masse di questi paesi dovranno lavorare follemente per ricolmare il vuoto prodotto in ciò che i borghesi chiamano ricchezza nazionale. In questo investimento grandioso di capitale variabile si genereranno per il capitale ricostruttore profitti giganteschi. Ma il ciclo non si può avviare senza anticipi e per ora non abbiamo uno spettacolo di intenso lavoro, ma di disoccupazione e di fame. Chi con la forza del proprio attrezzamento intatto può anticipare i dollari e le scatolette diventa il padrone e lo sfruttatore delle masse europee schiavizzate».
E le direttive dell’UNRRA, secondo la dottrina Truman, erano chiare: gli stanziamenti elargiti dall’America, paese per paese, sarebbero dipesi essenzialmente dal colore politico del governo locale e dal grado di “affidabilità” (leggasi pure: soggezione nei confronti degli USA); nei casi dubbi gli stanziamenti non sarebbero stati erogati. In tal modo il dollaro, con i suoi cristianucci interventi, soggiogò economicamente e politicamente l’Europa sconfitta. «Non è guerra – scrivevamo in “Prometeo”, maggio/giugno 1947 – ma è sempre far leva sulla morte».
La corsa ad accaparrarsi il dollaro era inevitabile e nemmeno la Russia lo avrebbe disdegnato. Neanche i nazional-comunisti nostrani si opponevano al fatto che il governo De Gasperi andasse a battere cassa presso lo Zio Sam e, a scopo puramente propagandistico, affermavano però che si sarebbero dovuti prendere i quattrini evitando le interferenze americane nella politica interna del paese, «ma da quando sono saltati i confini tra le economie dei vari paesi e le loro aree commerciali e monetarie, è finita la differenza tra politica estera ed interna». Prendendosi gioco delle fantasie picciiste sul modo di salvaguardare l’indipendenza nazionale dalle ingerenze imperialistiche, “Prometeo” proseguiva: «I socialcomunisti dicono che bisogna dare per i dollari garanzia sulle industrie, non sullo Stato, garanzie economiche e non politiche. Secondo tali marxisti si può dare una garanzia economica senza che questa si rifletta in influenza politica... Ma poi quelle industrie, nel programma di quei signori, e in ispecie le grandi industrie monopolistiche (brr... e leggi le sole che hanno tra noi la potenzialità atta a garantire un po’ di dollari e si stanno già per loro conto coprendo di ipoteche oltremarine) non dovevano essere nazionalizzate, coi soldi dello Stato (presi dal prestito), e non avremmo quindi la vendita e l’affitto dello Stato? (...) Abbiamo già detto che per il proletariato essere venduto al capitale straniero o a quello indigeno è una pari sventura».
Nei mesi che andarono dalla primavera all’estate 1947 l’intera situazione europea subì cambiamenti profondi. In Italia nel febbraio 1947 venne dato il primo colpo al blocco socialcomunista con la provocata scissione filo-americana di Saragat. Questi, staccatosi dal PSI, fondò un nuovo partito dichiaratamente anticomunista e filo-americano: il PSLI che poi divenne PSDI. Il 31 maggio successivo si ebbe per la prima volta un governo monocolore a seguito dell’estromissione dei partiti socialista e comunista. La stessa cosa successe in Francia dove già dall’aprile il generale De Gaulle era tornato alla politica attiva con il suo Rassemblement du Peuple Français (RPF). Il 4 maggio il presidente del Consiglio, il socialista Paul Ramadier, in carica dal gennaio 1947, approfittando di un voto di sfiducia del PCF (che formava il governo di coalizione con socialisti e cattolici), dichiarava dimissionari i ministri comunisti e li sostituiva.
Il discorso pronunciato il 15 marzo 1946 da Churchill a Fulton (USA), nel quale il leader britannico aveva denunciato che una cortina di ferro calata sull’Europa orientale andava da Stettino a Trieste, rappresentò la premessa della “dottrina Truman”. Nel discorso tenuto al Congresso degli Stati Uniti il 12 marzo 1947 il presidente enunciò la sua “dottrina” intesa a legittimare ogni intervento americano, politico, economico e militare, ovunque si profilasse la minaccia del comunismo. Con tale dichiarazione gli Stati Uniti si fecero garanti, contro la “confusione ed il disordine” dello status quo internazionale.
«In questa fase della storia del mondo – affermava Truman – ogni nazione deve scegliere tra due diversi sistemi di vita. La scelta, troppo spesso, non è libera affatto. Un sistema di vita è fondato sulla volontà della maggioranza, ed è caratterizzato da libere istituzioni, governo rappresentativo, libere elezioni, garanzie di libertà individuali, libertà di parola e di religione, libertà di espressione politica. L’altro sistema si fonda sulla volontà di una minoranza imposta con la forza alla maggioranza. Poggia sul terrore e l’oppressione, sul controllo della stampa e della radio, su elezioni prefabbricate, e sulla soppressione delle libertà personali. Io credo che debba essere politica degli Stati Uniti sostenere i popoli liberi che resistono ai tentativi di soggiogamento effettuati da minoranze armate o mediate pressioni esterne. Credo che noi dobbiamo aiutare i popoli liberi a costruire il loro destino alla loro propria maniera». E, non c’era dubbio che le libere scelte dei paesi e degli uomini liberi non potessero che essere quelle americane. Le campagne “anticomuniste” scatenate negli Stati Uniti non avevano certo nulla da invidiare, nella loro rozzezza e nella loro tracotanza, a quelle di ispirazione moscovita.
Dal 1946 al 1949 lo spirito di crociata “anticomunista” imperversò in modo parossistico negli Stati Uniti. Pochi esempi sono sufficienti a darci un’idea del clima che la propaganda bellicista americana aveva prodotto. Il 12 febbraio 1946, il dott. Virgil Jordan, presidente della National Industrial Conference Board, dopo avere affermato che due erano le soluzioni prospettate all’umanità, «o libertà economica o servaggio socialista», proseguiva: «Dobbiamo offrire il meglio dei nostri mezzi di ricostruzione a tutti i paesi che siano disposti ad abolire tutte le spese militari ed a disarmare fino al livello delle gendarmerie; dopo di che chiediamo il diritto illimitato di ispezionare in permanenza tutte le operazioni e i processi industriali, nonché di controllare ogni direttiva politica che abbia anche la più lontana connessione con gli armamenti e con la guerra. Infine, teniamoci le nostre bombe atomiche, miglioriamole, costruiamone delle altre; fissiamo il principio che su ogni posto del mondo ove abbiamo motivo di sospettare una violazione delle norme del disarmo pende idealmente una bomba atomica; e, se c’è pericolo, sganciamo la bomba immediatamente, senza rimorsi».
Il maggiore George Fielding Eliot era uno degli assertori più convinti della necessità del blitz atomico contro la Russia, anche per scongiurare la minaccia del massacro che i russi avrebbero potuto compiere nei confronti delle popolazioni dell’Europa occidentale, nei confronti delle quali gli Stati Uniti rivendicavano a loro l’esclusivo diritto di sterminio. «Per scongiurare o mitigare questo massacro bisognerebbe piombare sui centri vitali sovietici, spezzando la volontà e la forza del mostro; in tal modo le sue reazioni contro gli europei indifesi sarebbero in sostanza solo le convulsioni di un morente. Ogni uomo, ogni chilo di metallo, ogni energia che non sia assolutamente indispensabile per altri impieghi difensivi, devono servire a preparare l’offensiva aerea contro il terribile nemico che ci minaccia, l’Unione Sovietica».
Il 6 febbraio 1949 il cardinale di New York, Francis Spelman, dal pulpito della cattedrale di San Patrizio chiese la distruzione dei “comunisti”, definiti come «gli assassini più diabolici e perversi del mondo»: «Soltanto se tutto il popolo americano, senza altre mosse e finte da struzzo, si unirà per fermare il dilagare del comunismo nella nostra patria, i nostri figli non saranno per la terza volta strappati (...) alle loro case, alle loro famiglie per impugnare le armi contro nemici volti a profanare le case e a distruggere le famiglie». Il cardinale si domandò per quanto tempo ancora gli Stati Uniti avrebbero sopportato «gli insulti e le ferite che i russi infliggono al nostro onore di americani ed al nostro senso della giustizia, mentre assoggettano le nazioni e perseguitano i popoli». Poi, rivolto al suo datore di lavoro, esclamò: «Per quanto tempo ancora, o mio Dio, dovremo vedere i tuoi popoli che ti amano, oltraggiati, perseguitati e assassinati dai comunisti atei, ispirati da Satana?».
Fallita la conferenza di Mosca (marzo/aprile 1947) per la ricostituzione di uno Stato tedesco, continuò quel processo di riorganizzazione autonoma delle zone occidentali. La fusione delle zone americana e britannica provocò una violenta protesta da parte dei russi, ma questa non impedì la costituzione di un Consiglio Economico (si trattava di uno pseudo-governo sotto falso nome) composto di 52 membri eletti dalle assemblee dei Lander in cui le zone occidentali erano state divise secondo lo schema federale. Nel giugno furono i russi a formare nella loro zona la Commissione Economica Permanente (altro pseudo-governo sotto falso nome), composta di 25 membri. Il nuovo fallimento della conferenza di Londra (novembre/dicembre 1947) tra i rappresentanti delle quattro grandi potenze, aprì la strada alla formazione di due distinti Stati tedeschi.
In effetti la Germania rappresentava il punto più sensibile dei contrasti interimperialistici. Un rapidissimo acutizzarsi ed irrigidirsi delle posizioni opposte tra Russia e Stati Uniti scoppiò alla metà del 1948. Due monete distinte, una gigantesca città tagliata in due, una parte delle quale rifornita dal cielo, come una roccaforte assediata, la fine della Kommandantur quadripartita, lo sviluppo di una duplice offensiva propagandistica dalle due parti (Berlino Ovest veniva tappezzato da fotografie che ritraevano Stalin mentre stringeva la mano a Von Ribbentrop; a Berlino Est, viceversa, si distribuivano le foto di Chamberlain che discorreva sorridente con Hitler), accordo tra le tre potenze occidentali per il nuovo regime da imporre alla Germania Occidentale, tutta una serie di colpi e controcolpi che sancivano anche formalmente l’irreparabile divisione della Germania.
Il 20 marzo, durante una riunione della Kommandantur alleata, l’alto commissario russo, maresciallo Sokolovskij, dopo avere letto un lungo documento di accusa ai colleghi occidentali, abbandonava la riunione. L’episodio segnò la fine dell’organismo che, in nome delle potenze vincitrici, avrebbe dovuto governare la Germania. Dopo questo fatto le potenze occidentali procedettero con fulminea rapidità a dar veste ufficiale alla creazione di un nuovo Stato tedesco sotto la loro egida. Ed annunciarono che: 1) nelle regioni occidentali della Germania, a mezzo di elezione democratica, sarebbe stata istituita una Assemblea Costituente; 2) L’Assemblea avrebbe dovuto redigere la nuova Costituzione democratica a base federale. La nuova costituzione, prima di essere sottoposta all’approvazione popolare tramite plebiscito, avrebbe però dovuto ricevere l’approvazione delle potenze occupanti. Per facilitare il compito dell’Assemblea Costituente le potenze democratiche di occupazione avrebbero designato degli incaricati straordinari allo scopo di seguire giorno per giorno i lavori dell’Assemblea assistendola con i loro... consigli.
Ai governi tedeschi ed agli organi legislativi previsti dalla costituzione federal-democratica (made in USA) sarebbero state riservate le competenze legislative, amministrative e giudiziarie, mentre ai governi militari delle tre potenze “liberatrici” sarebbero restate tutte le competenze imposte dalle finalità generali dell’occupazione e cioè: a) direzione e mantenimento dei rapporti fra Germania Ovest e resto del mondo; b) controllo sul commercio estero della Germania e su tutti i provvedimenti di ordine interno che con esso, direttamente od indirettamente, avrebbero interagito; c) controlli (già stabiliti e da stabilire) sulla Ruhr, sulle riparazioni, sul livello industriale, sul disarmo, sulle ricerche scientifiche, ecc.; d) difesa del prestigio delle forze di occupazione, della loro sicurezza, del loro mantenimento; e) controllo sull’applicazione degli articoli della costituzione approvata dalle potenze di occupazione. Per finire, un diritto di “consulenza” su tutte le questioni relative alla istituzione di un regime il più possibile democratico e la facoltà di esercitare i pieni poteri militari in caso di “stato di emergenza”.
Scriveva “Battaglia Comunista” n.24 del luglio 1948: «Quello
che oggi avviene non è che la conseguenza del passato: l’urto imperialistico,
l’esercizio del più spietato controllo sul vinto, la suddivisione in
parti non sono che il prolungamento dell’essenza stessa della II guerra
mondiale. Solo chi vedeva, e aveva tutto l’interesse a far vedere in
questa uno sfondo ideologico, etico, sociale, poteva credere che i vincitori
facessero della pace uno strumento di conciliazione, di ricostruzione,
di disarmo. Non hanno perciò nessun senso né la finta aria scandalizzata
degli occidentali per la spregiudicatezza russa, né il finto sdegno dei
russi per la durezza e l’intransigenza degli occidentali nel perseguire
i loro scopi. Tutti sanno di aver fatto quello che era nella logica della
condotta della guerra: lo sdegno è soltanto per il pubblico che ha creduto
e continua a credere in loro come nei portatori e nei rappresentanti di
una civiltà che ha soltanto nome dai cannoni. Agli occhi del proletariato
rivoluzionario sono e sono sempre stati dei briganti quelli che chiamano
“democrazia” la colonizzazione della Germania occidentale, così come
briganti sono e sono sempre stati quelli che chiedono l’”unità tedesca”
per poter spogliare a proprio piacimento anche la parte che, dopo le razzie
compiute nella zona occidentale, è rimasta riserva di caccia della parte
avversa. Briganti entrambi: e del resto, non sono loro i primi a confermarlo,
mantenendo in vita una organizzazione come l’ONU che fa di essi, in lotta
aperta e continua, in polemica aspra ed inconciliabile, una famiglia di
“pari”?».
Le “Democrazie Popolari”
I compari d’Oriente non si davano pena di ammantare le loro vessazioni sul proletariato tedesco di ornamenti democratici e senza tanti problemi mettevano a nudo la cruda realtà. Così i nazional-comunisti del “Partito Socialista Unitario di Germania” rendevano pubblico il piano biennale per lo sviluppo dell’economia nel settore tedesco da loro controllato. La sostanza di tale piano consisteva nella soluzione del problema dell’aumento della produttività industriale. Questo piano si realizzava innanzi tutto mediante una campagna contro la diffidenza operaia nei confronti dei tecnici, degli intellettuali, ecc. per il riconoscimento della loro essenziale importanza ai fini della produzione. In secondo luogo con l’estensione del lavoro a cottimo, dei premi di produzione, delle differenze salariali. Scopo del piano sarebbe stato quello di raggiungere nel 1950 l’81% del livello produttivo dell’anteguerra, il puntuale pagamento (al padrone russo) delle riparazioni, l’esenzione per le società russe di qualsiasi restrizione. «Insomma quello che i nazional-comunisti hanno di mira è la soddisfazione degli interessi sovietici nella rispettiva zona, allo stesso modo del resto che i piani di ripresa e di sviluppo economico della zona occidentale si modellano sugli interessi fondamentali delle nazioni occupanti. Evviva dunque la differenziazione salariale e il lavoro a cottimo, se serve ai padroni del “socialismo in un solo paese”» (“Battaglia Comunista”, n.25, luglio 1948).
Con l’intervento diretto in Grecia e Turchia, prima attraverso la dottrina Truman (che oltre all’intervento economico prevedeva anche quello militare), poi con il piano Marshall, il governo americano era passato in modo palese all’attacco del vecchio continente. Alla Russia non rimaneva che fare altrettanto, anche se con altri metodi. Se Zdanov alla riunione di costituzione del Comin-form dichiarava imminente lo scoppio di un confronto armato mondiale, che allora non avvenne, è però vero che per rispondere alla iniziativa americana la Russia dovette accelerare la sottomissione dei “satelliti”, imponendo il controllo diretto alla fascia dei paesi dell’Est europeo. Tra luglio ed agosto 1947 la Russia stipulava una serie di contratti commerciali con tutti i paesi dell’Est gettando le basi di una zona economica dominata da Mosca e, scimmiottando Marshall, varava il suo “Piano Molotov”.
Riferendosi a quegli anni Truman, nelle sue “Memorie” scrive: «L’unica cosa che i russi comprendono è la forza». È vero: gli Stati Uniti imponevano il loro dictat al mondo attraverso le scatolette, i dollari e la forza delle armi; ai russi, privi dei primi due elementi, non rimanevano che le armi per imporre la loro volontà.
Ad eccezione della Iugoslavia e dell’Albania, dove il partito nazional-comunista si trovava di fatto ad avere il monopolio politico, negli altri paesi dell’Est europeo i vari partiti stalinisti non erano in grado (ed in alcuni casi non vollero) assumere il potere, specialmente in Polonia, Ungheria e Romania, dove atavici sentimenti antirussi rappresentavano un ostacolo non indifferente. Ma con ritmo accelerato durante il 1946 i nazional-comunisti, mantenendo in vita le coalizioni antifasciste e talvolta continuando a servirsi di figure dell’ancien régime, come Tatarescu in Romania e Piasecki in Polonia, passarono da posizioni di minoranza ad occupare i posti chiave del governo e della vita pubblica. La tecnica era dappertutto la stessa: ottenuto il controllo della polizia segreta, dell’esercito, della radio, della stampa attraverso una politica di pressioni che costringeva i capi dei partiti di opposizione al ritiro dalla politica o all’esilio, di manipolazioni elettorali e di tutti gli altri mille imbrogli che si possono fare con l’ausilio delle armi, i partiti nazional-comunisti emergevano come i veri arbitri della situazione. Anche se re Michele rimase sul trono di Romania fino al 1947 ed in Cecoslovacchia il partito nazional-comunista si impadronì del potere solo nel febbraio 1948 (nonostante avesse potuto arrivarci molto prima), già alla fine del 1946 la sorte dei governi di coalizione era segnata ovunque ed appariva chiaro che inevitabilmente gli stalinisti avrebbero preso tutto il potere.
Nell’agosto le elezioni ungheresi segnarono la sconfitta del partito dei piccoli proprietari ed aprirono la strada al potere della coalizione socialcomunista, destinata a sfociare l’anno dopo nel partito unico: il Partito Unitario dei Lavoratori. Comunque gli stalinisti ungheresi, pur avendo preso il potere in modo “illegale” ed instaurato lo Stato dittatoriale, cercarono tuttavia di non alienarsi i favori del clero. «Il ministro ungherese Ortulai ha dichiarato che nelle scuole nazionalizzate l’istruzione religiosa sarà mantenuta e i catechisti di tutte le religioni saranno esortati ad educare la gioventù in un profondo spirito religioso, assicurando nel contempo che lo Stato darà i fondi necessari per la ricostruzione delle chiese danneggiate dalla guerra» (“Battaglia Comunista”, n.20, giugno 1948).
Nell’ottobre Mikolajczyk, leader polacco del partito dei contadini, dopo la disfatta elettorale del suo partito pensava bene di darsi alla fuga in occidente.
Nel febbraio 1948, a seguito del colpo di Stato cecoslovacco, Gottwald costituiva un governo di soli “comunisti” e, nel giugno assumeva anche la carica di presidente della repubblica consacrata con un solenne “Te Deum”. Non c’è da meravigliarsi affatto per questo amore dimostrato nei confronti dei preti se si tiene conto che qualche anno dopo con la motivazione della “grande opera patriottica” al Santo Padre moscovita, al patriarca di tutte le Russie Alessio II venne conferito l’Ordine della Bandiera Rossa. Su “Programma Comunista”, n.1 del gennaio 1953 scrivemmo: «Un’ovvia e indissimulata logica vuole che la stessa patacca fregi il petto del Maresciallo, capo del governo e duce del Cominform e del patriarca Alessio: l’uno con le falsificazioni spudorate del marxismo, l’altro con i predicozzi, svolgono la stessa funzione di asservire il proletariato al Capitale».
Americani e russi adottarono, nei paesi rispettivamente dominati, politiche differenti: la politica americana poteva permettersi di non sostituire le forme degli apparati politici preesistenti e la loro azione, anche quando assumeva un carattere manifestamente repressivo, tendeva a servirsi dei vigenti strumenti costituzionali, potevano cioè presentarsi come difensori della legalità e dell’ordine. L’intervento sovietico, al contrario, si trovò a dover cambiare gli ordinamenti istituzionali ed era quindi costretto ad assumere un carattere di extra legalità o di illegalità. Dal 1945 al 1948 in tutti i paesi dell’Europa orientale le opposizioni politiche vennero sistematicamente eliminate ed i governi di coalizione si trasformarono in regimi diretti da partiti docili strumenti di Mosca. La debolezza dell’imperialismo russo nei confronti di quello americano faceva sì che il primo avesse bisogno di imporre con la forza di eserciti e polizie quell’obbedienza assoluta da parte degli Stati assoggettati che i compari americani ottenevano coi dollari.
Dopo la eliminazione delle opposizioni politiche, la repressione passò all’interno dei partiti al potere. Sotto la guida della polizia russa dal 1948 al 1952 vennero scoperte moltitudini di “nemici del popolo” tra i dirigenti dei partiti “comunisti” ungheresi, bulgari, rumeni, polacchi, cecoslovacchi e albanesi. Molti di loro furono spediti in Russia per essere sottoposti ad inchiesta e puniti. «La prigione di Vladimir (...) era sovraffollata di comunisti provenienti dalle democrazie popolari» (Medved’ev, Lo Stalinismo). I processi nelle “repubbliche popolari” ricalcavano quelli russi degli anni 1936/38, le accuse erano le solite: agenti del fascismo, spie del nemico, sabotatori della produzione. Fra i “nemici del popolo” che avevano avuto la fortuna di non essere stati impiccati e che ancora alla morte di Stalin erano ospitati nelle galere del “socialismo realizzato” troviamo: Gomulka, primo segretario del PC polacco; Kliszko, altro leader polacco; Kadar, segretario del PC ungherese; Patrascanu, segretario generale del PC rumeno durante il periodo clandestino; Luca, ex vicepresidente del Consiglio dei Ministri rumeno; Anna Pauker, ministro degli esteri rumeno...
La costituzione delle “democrazie popolari” avvenne seguendo i classici canoni della prassi stalinista e forse non sarà mai possibile misurare con esattezza il numero degli oppositori politici che nell’Europa dell’Est furono liquidati. Il privilegio di essere messo semplicemente fuori dal governo, come era capitato ai Togliatti ed ai Nenni, oltre cortina non era contemplato. Ma, a ragion del vero «è fondamentale ricordarsi – scrive lo storico americano D.F.Fleming – che la Grecia è stato il primo dei paesi liberati ad essere apertamente e violentemente costretto ad accettare il sistema politico della grande potenza occupante. È stato Churchill che ha agito per primo e Stalin ne ha seguito l’esempio in Bulgaria e in Romania» ed in tutti gli altri paesi.
Era in atto un gigantesco processo di concentramento economico, politico e militare delle forze contrapposte dei due imperialismi. I metodi adottati dai due lati della barricata erano diversi mentre l’obiettivo era identico. Era nella logica della evoluzione russa che l’integrazione delle zone di influenza nell’Europa orientale si svolgesse con metodi radicali e totalitari e con la soppressione non delle presunte “libertà democratiche”, di cui cianciavano le vestali dell’Occidente, ma del tradizionale meccanismo parlamentare e costituzionale. Era invece nella logica dell’evoluzione del capitalismo che l’integrazione della zona di influenza americana avvenisse senza la soppressione degli istituti parlamentari, ma anzi servendosi di essi come suo naturale veicolo.
Il rapidissimo ed incontrastato processo di assorbimento che si verificava nell’Est europeo e che nel breve volgere di giorni, o anche di ore, cancellava le sopravvivenze formali di una indipendenza nei fatti già morta e sepolta, sottomettendo all’imperialismo russo l’economia e la compagine politica di una catena di nazioni, era la proiezione sul piano dei rapporti fra Stati dell’ostentato totalitarismo della Russia di Stalin. Era l’insufficiente maturità e la debolezza di questa economia a regolare il ritmo e le forme esteriori dello sviluppo politico nella zona orientale: il cosiddetto “capitalismo di Stato” richiedeva l’eliminazione, non con la “mano invisibile” ma con quella “visibile” armata, di qualsiasi resistenza periferica e un più stretto controllo sul gioco delle forze antagonistiche della iniziativa privata, con il suo riflesso politico nella sopravvivenza del gioco dei partiti. Erano le esigenze specifiche e storicamente determinate di quella evoluzione economica che portavano a travestire di apparenze “progressive” e “popolari” un processo di riassestamento interno della grande industria capitalistica sulla base della gestione statale.
L’evoluzione di queste economie, nel tentativo di affrettare la concentrazione
totalitaria dei fattori produttivi nelle mani dello Stato, aveva necessità
di poggiare sul consenso, altrettanto totalitario, delle masse popolari
e del proletariato, spinti a combattere la battaglia in favore dello Stato
espropriatore e monopolizzatore come una prima fase della battaglia di
classe per la realizzazione del “socialismo”. Da qui la rapidità,
l’estremo dinamismo, il carattere impositivo con cui si verificò l’integrazione
all’imperialismo russo dei paesi dell’Europa orientale.
Stile diverso, stessi fini: il Piano Marshall
Più complesso nei suoi movimenti era il meccanismo dell’assoggettamento economico e politico dell’Europa occidentale all’America. L’integrazione avveniva con i metodi classici della concentrazione economica realizzata dai grandi monopoli privati: attraverso accordi formalmente alla pari, ma in realtà già preventivamente legati da vincoli coercitivi senza che la violenza sembrasse aver luogo. Nei fatti la violenza stava nel fatto stesso che gli accordi si verificassero e non potessero non verificarsi, l’integrazione europea alle regole americane avveniva ed era ferrea, ma sulla sua strada non lasciava rovine di parlamenti. La bandiera della libertà di commercio sventolata senza posa dagli Stati Uniti in realtà significava solo libertà per gli Stati Uniti di esportare e di imporre la propria politica imperiale a tutti gli altri paesi del mondo.
Un esempio di ciò lo si deduce dalla inchiesta condotta dalla commissione parlamentare americana per il controllo dei finanziamenti ERP (Programma di Ricostruzione Europea, altrimenti chiamato “Piano Marshall”) che nell’aprile/maggio 1948 indagò sulle relazioni economiche tra Gran Bretagna ed Unione Sovietica. All’Inghilterra, accusata di fornire a Mosca motori per aerei di tipo Rolls Royce, gli Stati Uniti minacciarono di sospendere ogni tipo di fornitura di acciaio.
L’ERP rappresentava un gigantesco meccanismo di natura commerciale, funzionante con la sistematicità e la centralizzazione di un Trust, dove ogni elemento della catena era strettamente subordinato agli interessi ed alle necessità di dominio americano; «la pretesa ad una autonomia di movimento da parte di una qualunque delle nazioni aderenti equivarrebbe alla pretesa di un reparto singolo di una grande azienda capitalistica di agire in senso divergente dalle direttive centrali del complesso economico e tecnico di cui è parte. Né vale ribattere che l’America, avendo investito una somma così gigantesca di capitali, si preoccupa di controllarne l’impiego, giacché la successione logica è l’inversa: non è l’investimento che precede il controllo e la subordinazione dell’investimento ad un fine, ma è il fine che precede e determina l’investimento» (“Battaglia Comunista” n.16, maggio 1948).
Basta dare uno sguardo al gigantesco apparato che costituiva l’ERP per rendersi conto della sudditanza economica e politica alla quale venivano assoggettate le nazioni aderenti al “Piano Marshall”. Si trattava di una organizzazione centralizzata che faceva capo ad un Amministratore con il rango di ministro, strettamente a contatto con il Segretario di Stato americano agli Esteri e responsabile di fronte al Presidente degli Stati Uniti. All’Amministratore era affiancato un Consiglio Nazionale consultivo composto dai segretari del Tesoro, degli Esteri, del Commercio e dai presidenti delle principali banche. Oltre a questo vi era un altro Consiglio consultivo composto da personalità di vasta esperienza in campo economico. Si trattava di una organizzazione a struttura gerarchica ramificata che assicurava il controllo diretto del centro su tutti gli organi periferici. Ad esempio l’art.117 della legge con la quale il governo americano dava il via al Piano Marshall stabiliva: «L’Amministratore è invitato a non concedere ai paesi partecipanti la consegna di quei beni che servano alla produzione di qualsiasi altro bene destinato a qualunque paese europeo non partecipante, bene per l’esportazione del quale verso il suddetto paese verrebbe negata licenza di esportazione dagli USA nell’interesse della loro sicurezza nazionale». Ne è un’applicazione il caso dei motori Rolls Royce. Tale disposizione tracciava limiti severissimi alla politica commerciale dei paesi aderenti al Piano. In caso di contravvenzione a questa clausola ne sarebbe derivata la cessazione immediata di ogni aiuto. Ma gli “aiuti” avrebbero potuto cessare immediatamente anche nel caso in cui da parte dell’Amministratore si fosse constatato (art.118) «1) che tale paese non osserva gli accordi conclusi o impegna l’assistenza prevista in modo diverso dagli obiettivi del presente titolo (...); 2) che, a causa di mutate condizioni, l’assistenza non corrisponda più agli interessi nazionali degli Stati Uniti». Il che, una volta di più, significava che il diritto a ricevere gli aiuti era subordinato alla rigida osservanza, da parte del paese beneficiario, della politica generale americana.
Un giornale finanziario svizzero, commentando la traduzione in pratica del filantropico piano Marshall, lamentava la mania della pianificazione di cui davano prova i rappresentanti dell’ECA (Economic Cooperation Administration: era l’organismo esecutivo dell’ERP) in Europa e, scandalizzatissimo, notava l’incongruenza di uomini d’affari che in patria sostengono a spada tratta l’economia di mercato, mentre in Europa impongono l’economia pianificata (citato da “Battaglia Comunista” n.20, giugno 1948). In effetti non vi era nessuna incongruenza: il capitalismo americano rifiutava la teoria dello Stato-padrone negli Stati Uniti (pur ammettendo il suo intervento per disciplinare il mercato e per sostenere i Trust pericolanti), ma era ben deciso ad imporre il suo Stato-padrone nei confronti delle economie cosiddette nazionali dei paesi sottomessi. Il suo ideale era che il mondo funzionasse come una grande azienda alle sue dipendenze, ed in questo senso e con questo obiettivo imponeva la sua “libera” pianificazione.
Tanto basta a dimostrare che l’indipendenza economica e politica dei
paesi partecipanti al piano Marshall era la più sfacciata delle menzogne,
come, del resto, lo era la pretesa indipendenza dei paesi centro europei
e balcanici dalla politica estera e commerciale della Russia.
L’Ariosto narra come Orlando, paladino di Francia, avendo anzitempo messo le mani sull’arma da fuoco, la gettasse nel fondo dell’oceano ripugnandogli di ricorrere ad un mezzo sleale di lotta e temendo che potesse essere un giorno adottata dagli uomini. Leonardo da Vinci sembra che, dopo avere progettato il sottomarino, distruggesse i disegni perché riteneva disumana una simile macchina da guerra, anche qualora venisse usata contro i saraceni.
Truman, invece, puritano bigotto ma, in quanto borghese, emancipato nei confronti dei pregiudizi cavallereschi, annunciava personalmente al mondo di avere (con l’aiuto della Provvidenza divina) trovato il sistema di spazzare via in qualche secondo centinaia di migliaia di esseri umani, senza distinzioni di sesso, di età, razza o religione (proprio come il credo democratico comanda). Cosa che avrebbe fatto morire di invidia quelle buone anime di Hitler e di Himmler.
Un trust di cervelli, il fior fiore degli scienziati borghesi di tutto il mondo, 65 mila uomini, che in vario modo per alcuni anni erano stati impegnati alla realizzazione del progetto, ed un investimento della bellezza di 2 miliardi di dollari avevano permesso, sul finir della guerra, di creare quella superbomba capace di incenerire uomini e distruggere cose in modo così totale ed immediato da far sembrare ridicole tutte le più micidiali armi usate fino al giorno precedente. Se si pensa che fino a poche centinaia di anni addietro gli uomini dovevano essere scannati uno alla volta si può avere la misura del cammino percorso dalla civiltà e dalla scienza borghese.
Ma la bomba atomica, come non servì a vincere la guerra imperialistica, ed in particolare il Giappone, ormai prostrato, tantomeno avrebbe potuto vincere la successiva “pace” imperialistica se il proletariato non fosse stato prima disarmato, poi avvilito e trattenuto da quei partiti e da quello Stato che si proclamavano eredi del marxismo e della rivoluzione di Ottobre.
Nei decenni della cosiddetta “guerra fredda”, negli ambienti di sinistra e nei circoli progressisti la parola America è stata sinonimo di oppressione, sfruttamento, negazione della indipendenza nazionale e della autodeterminazione dei popoli. Cosiccome ogni tedesco si voleva far credere fosse stato nazista, ogni americano veniva dipinto come imperialista. Come non c’erano stati proletari nella Germania di Hitler, così non ce n’erano nell’America post-guerra. Questa ideologia comune a fascismo, democrazia e stalinismo serviva a far dimenticare al proletariato la propria coscienza di classe, la necessità di spezzare le catene che lo legavano agli interessi nazionali borghesi.
Anche il nostro partito ha parlato di America – si leggano due articoli qui del 1947 – non intendendo l’insieme indistinto della popolazione con cittadinanza USA, ma del “mostro statale plutocratico” che, oltre che soggiogare il proletariato e le classi sfruttate del globo terrestre, “tiene anche i nostri compagni proletari di America (...) sotto il classico tallone di ferro”.
Non si è trattato quindi di fare demagogia sui governi venduti agli interessi dello straniero in nome di presunte autonomie degli interessi nazionali – questo compito lo abbiamo ben volentieri lasciato alla vigliacca propaganda stalinista – ma di analizzare in modo oggettivo il ruolo svolto dall’imperialismo trionfante su tutti i fronti e di denunciare la funzione controrivoluzionaria dei partiti legati a Mosca. Questo rappresentava un imperialismo concorrente, più debole da un punto di vista economico e militare, ma non meno spietato ed anzi ancor più nefasto se lo si considera sotto l’aspetto sociale e di classe.
La minuscola organizzazione comunista rivoluzionaria sopravvissuta alla débâcle della III Internazionale, che non era minimamente in grado di influire su eventi storici di portata eccezionale, non per questo è mai venuta meno al suo compito ed ha svolto, in situazioni proibitive, la sua funzione di comprensione di questi eventi, della loro chiarificazione, di riproposizione della teoria e della tattica genuinamente marxista, anche se era ben consapevole di parlare non tanto ai proletari dell’oggi ma a quelli del domani.
Per questa nostra attività modesta e non appariscente siamo stati più di una volta tacciati di nullismo, di mania di purezza, ed altre cose simili. Queste critiche non ci hanno mai preoccupato perché coscienti che solo chi non ha mai puttaneggiato con altre forze politiche in vista di effimeri risultati o del vieto politicantismo potrà un giorno guidare il proletariato per spezzare, con urto violento, lo strapotere del regime capitalista internazionale. I nostri nemici diretti, stalinisti, post-stalinisti e anti-stalinisti, hanno dovuto alla fine gettare il velo dietro il quale nascondevano i loro tradimenti: i grandi partiti falsamente richiamantisi a Lenin e l’Unione sovietica, erede della Rivoluzione d’Ottobre, sono ormai defunti.
Ma il proletariato mondiale continua ad essere soggetto alla strapotenza
capitalistica e, per ora, non dà alcun segno di risveglio e riscossa.
La vecchia talpa della crisi del mondo presente deve continuare ancora
la sua inesorabile e micidiale opera di scavo: è quello l’antico spettro
che per il mondo intero si aggira. La borghesia lo sa e ne è terrorizzata.
Da “Prometeo” - n. VII, maggio/giugno 1947.
AMERICA
Il lettore quotidiano della stampa di oggi vede passare sotto i suoi occhi stanchi cifre allucinanti. Non degli scritti che volgarizzano astronomia o fisica corpuscolare, ma proprio in quelli che lo cibano di politica, sempre di più a fine politico, gli parlano di economia, e gli propinano numeri.
Miliardi di dollari. Un miliardo è mille milioni, e si scrive con uno seguito da nove zeri. Tra poco un dollaro corrisponderà a mille delle nostre lire, e giù per su finiranno col fermare la lira lì (ciò vuol dire che la lire comprerà duecento volte meno che all’inizio del secolo). Dunque un miliardo di dollari varrebbe mille miliardi di lire, un trilione (miliardo e bilione è lo stesso) e ciò si scrive con uno e dodici zeri.
Vediamo la cosa più palpabilmente. Mettiamo che il lavoratore medio guadagni 1600 lire al giorno. In trecento giorni lavorativi saranno 480 mila lire annue, su per giù 500 dollari. Forte ottimismo, come vedete.
Con un miliardollaro, bazzecola per gli odierni vincitori, si compra il lavoro di due milioni di persone produttive (le nostre cifre sono arbitrarie per arrotondare, ma gli arbitri finiscono per compensarsi); il miliardollaro acquista il lavoro per un anno di una popolazione di dieci milioni di anime (S.O.S. - salvate le nostre anime).
Ora non si sente discutere che della ricostruzione della distrutta Europa e del danaro che l’America deve prestarle a tal uopo. I miliardollari roteano nella polemica. Truman fa votare, per soccorrere Grecia e Turchia, per ora appena tre decimi di miliardollaro, ma già si sono accorti che il soccorso è insufficiente a distruggere i guerriglieri. Comunque a qualche timida obiezione parlamentare Truman ha risposto con tutta chiarezza che la guerra è costata agli Stati Uniti 341 miliardollari, e per la garanzia di questo “investimento”, o come dicono i francesi “placement”, sarebbe da veri pitocchi esitare a spendere quei pochi soldi in Grecia e Turchia, l’uno per mille appena del capitale messo a rischio per salvare la Libertà.
La Francia ha per ora avuto un quarto appena di miliardollaro, ma è bastato a mettere fuori dal governo Thorez e i suoi. Per l’Italia si fa balenare un miliardollaro intero, di cui uno o due decimi sarebbero già liquidati. Ma di ciò tra un momento.
Questi sono prestiti che naturalmente saranno restituiti con gli interessi, ma vi è poi la beneficenza pura, la erogazione a fondo perduto, l’ultima e sopraffina forma di piazzamento del capitale. Anche qui le direttive dell’UNRRA secondo la dottrina Truman sono chiare; paese per paese gli stanziamenti dipendono dal colore del governo locale o dalla sua soggezione alla politica d’oltreatlantico; nei casi dubbi si manda lo stanziamento a zero. Non è guerra, ma è sempre far leva sulla morte.
Ma vi è di più, la dottrina Truman, piuttosto grossolana, consiste nel maneggiare il dollaro per distruggere zona per zona l’influenza russa ed è applicata con una delicatezza da bisonte. Per fortuna nella libera America vi è il democratico urto delle opposte opinioni, e contro la dottrina Truman vi è quella di Wallace, un amicone questo della Russia, che invece adotta una raffinatissima diplomazia, e spinge il disinteresse fino al limite dell’inverosimile. Donare prestare anticipare dollari, ecco il sacro dovere dell’America, e soprattutto alla Russia bisogna subito offrirli. Le cifre qui naturalmente salgono. Occorre porre a disposizione dell’Europa 50 di quelle nostre unità, 50 miliardollari, e di questi alla Russia bisogna, secondo il signor Wallace, non esitare a darne da un quinto ad un terzo, da 10 a 17 miliardollari.
Le devastazioni della guerra, secondo un calcolo, raggiungono 150 miliardollari ed egli suppone che nei capitali locali si possa ancora trovarne 50 da investire, mentre gli altri cento miliardollari sarà l’America a prestarli al resto del mondo.
Tornando ai cinquanta che toccano a noi Europei essi valgono secondo il nostro calcoletto a comprare la forza lavoro di 500 milioni di abitanti per un anno, ossia appunto la popolazione europea.
La ricostruzione non si può fare certo in un anno, poiché tutti i prodotti dei lavoratori europei, divenuti proprietà americana almeno per i due terzi giusta la teoria di Wallace, non possono andare a rifare impianti e opere distrutte, in quanto i lavoratori stessi devono mangiare e consumare.
A consumo ridotto, come è nella quasi totalità dell’Europa, supponiamo che essi assorbano metà del loro prodotto. In tal caso, se tutti i 50 miliardi di dollari potessero, il che è certo impossibile, essere di un colpo anticipati ed investiti, in due anni l’Europa avrebbe rinnovata la sua attrezzatura, ma tutto l’utile del capitale che questa produrrebbe “per sempre” sarebbe di diritto americano per i due terzi.
Le cifre sono molto discutibili, ma è chiaro che il signor Wallace, vero pacifista, progetta un investimento di primo ordine.
Naturalmente egli ha bisogno di garanzie per il ritiro dei formidabili utili, pur essendo sempre in credito della somma anticipata. Quali garanzie? Truman, un poco volgaruccio, le vede nel disarmo altrui e nell’armamento formidabile del creditore, atto per massa e per qualità a tenere in soggezione il mondo, ed a evitare le eventuali bizze di chi non volesse pagare le rate.
Wallace invece ci spiega e spiega a quelli del Cremlino – che potranno subire, ma sarà un poco difficile che credano – come quella generosa anticipazione sarà il fondamento della pace. Le garanzie saranno puramente legali. In via di costruire il Superstato che abbia a scala mondiale le stesse funzioni che ha lo Stato, sovrano nel suo territorio, per cittadini ed enti privati, si farà funzionare in campo internazionale il sistema delle ipoteche. Strutture ed impianti nei paesi debitori garantiranno col loro valore e con la loro attività i versamenti a saldo del credito.
In questa seconda civile versione della supremazia americana vediamo avanzare sulla scena un nuovo personaggio, l’ufficiale giudiziario internazionale. Sappiamo bene come agisce nel campo nazionale. Egli è molto più potente del gendarme, se pure non rechi altre armi che una vecchia borsa di cuoio piena di carte e sia fisicamente misero ed umilmente vestito: infatti i suoi stipendi sono assai più bassi di quelli dei militari, reclutati tra giovani aitanti e rivestiti di lucenti divise. Ma la sua potenza legale e civile è tanto tremenda che molte volte la vittima, quando ha tutto esaurito negli espedienti della tragica guerra cartacea, al vederlo giungere tremolante ed inerme sbigottisce al punto che, lungi dal tentare di offenderlo e ributtarlo, si fa da sé stessa saltare le cervella. Egli guadagna la battaglia senza sporcarsi di sangue le mani, e senza imbrattarsi il certificato penale o compromettere l’assoluzione da parte del confessore.
In tal modo il dollaro, con la sua organizzazione mondiale di anticipazione ai poveri, muove alla conquista d’Europa fino ed oltre gli Urali, e ne pianifica il successo senza ricorrere alle traiettorie di siluri atomici e di aerei di invasione per via polare.
* * *
Per quanto riguarda l’Italia le cose sono già avviate a chiarirsi magnificamente, in quanto il processo più difficile si avrà in quei paesi che per ragioni geografiche sono a diretto contatto con la forza russa e sono presidiati dall’esercito sovietico. Nei paesi intermedi assistiamo a sviluppi originali. Per l’Ungheria pare che sia la stessa Russia ad offrire duecento milioni di dollari (non già di rubli) per evitare la concorrenza. Il male è che alla fine quei dollari si prenderebbero dai miliardi di Wallace, e su di essi il banchiere farà un affare duplicato.
Ma per noi tra poco tutto sarà a posto. L’inflazione si potrà frenare quando sia stabilito il prestito del miliardollaro (in verità siamo la decima parte della popolazione d’Europa e siamo tra i più disastrati, ma sui 50 miliardi di Wallace ce ne viene per ora la cinquantesima parte soltanto; è la sorte di chi non fa più paura): tra poco i grandi affari in Italia si cifreranno in dollari e non in lire, anzi lo si fa già. La lira sarà ancorata al dollaro (ma che bel termine... non resistiamo dalla tentazione di dire che sarà ancorata più saldamente di quanto le catene di Vulcano ancorassero Prometeo alla sua roccia...). La formola della vita italiana potrà essere semplice: nulla è perduto; solo l’onore.
Naturalmente non versiamo lacrime sull’onore della patria borghesia. Il concetto di onore vige nelle società divise in caste o in classi, ha un senso fin quando gli uomini sono divisi tra gentiluomini e meccanici, non interessa il proletariato rivoluzionario che non ha onori da perdere, ma solo le... ancore che lo legano alla onorata società del capitale.
L’operazione del prestito all’estero fino ad ora non viene contestata neppure dagli oppositori di oggi, ieri alleati del governo. Essi – in replica al programma di De Gasperi – scrivono disinvoltamente: «occorrono i dollari, che bella scoperta!». Sono d’accordo per i dollari e per l’UNRRA, altrimenti, dopo anni ed anni di propaganda idiota che presentava la struttura sociale del capitalismo d’America come la più altamente civile, sarebbe la bancarotta elettorale.
Questi sicofanti sostengono che si potrebbero prendere i dollari ed evitare le influenze sulla nostra “politica interna”. Ma da quando sono saltati i confini tra le economie dei varii paesi e le loro aree commerciali e monetarie, è finita la differenza tra politica estera ed interna.
I socialcomunisti dicono che bisogna dare per i dollari garanzia sulle industrie, non sullo Stato, garanzie economiche e non politiche. Secondo tali marxisti si può dare una garanzia economica senza che questa si rifletta in influenza politica... Ma poi quelle industrie, nel programma di quei signori, e in ispecie le grandi industrie monopolistiche (brrr... e leggi le sole che hanno tra noi la potenzialità atta a garantire un po’ di dollari e si stanno già per loro conto coprendo di ipoteche oltremarine) non dovevano essere nazionalizzate, coi soldi dello Stato (presi dal prestito), e non avremmo quindi la vendita e l’affitto dello Stato?
Siano nello stesso Ministero o meno, sono d’accordo tutti nella politica economica dei prestiti. Erano tutti d’accordo nel prestito interno, ed abbiamo assistito al nauseante spettacolo della pubblicità al prestito su quelli che pretendono di essere i giornali “delle classi lavoratrici”. Il prestito allo Stato, la costituzione del sempre più elefantesco debito pubblico, è uno dei cardini della accumulazione capitalistica. Marx nel primo Libro del Capitale, cap. XXVI 8, sulla genesi del capitale industriale, dice testualmente: «Il debito pubblico, o in altri termini, l’alienazione dello Stato – sia questo dispotico, costituzionale o repubblicano – segna della sua impronta l’era capitalistica. La sola parte della cosidetta ricchezza nazionale, che entra realmente nel possesso collettivo dei popoli moderni, è il loro debito pubblico. Perciò è assai conseguente la teoria contemporanea secondo la quale un popolo diventa tanto più ricco quanto più fa debiti. Il debito pubblico diventa il credo del capitale. Ed è così che la mancanza di fede nel debito pubblico, non appena questo si è formato, viene a prendere il posto del peccato contro lo spirito Santo pel quale non v’è perdono».
Una delle tesi essenziali del marxismo è che quanta più ricchezza si concentra nelle mani della borghesia nazionale, tanta più miseria vi è nella massa lavoratrice. Lo Stato-sbirro, semplice difensore del privilegio della prima, si trasforma oggi sempre più in Stato-cassa. L’attivo di questa cassa va ad incrementare l’accumulata ricchezza dei borghesi, il suo passivo pesa sulla generalità, ossia sui lavoratori. Coi prestiti nazionali si ribadisce la servitù economica del proletariato. Secondo poi l’insensata pretesa che questo addirittura sottoscriva qualche cartella dell’accredito ai suoi sfruttatori, la sua servitù viene ribadita una terza volta.
In Italia non è certo De Gasperi che rischia di peccare contro lo Spirito Santo!
Ma i suoi avversarii attuali in Parlamento, soci fino a ieri nella politica dei prestiti, soci oggi ancora nella politica della servitù dei sindacati operai, restano suoi soci nella politica del prestito dall’America con cui lo Stato italiano si aliena al capitale straniero.
Abbiamo già detto che per il proletariato essere venduto al capitale straniero o a quello indigeno è una pari sventura.
Nel caso della attuale classe politica dirigente italiana va però detto che essa, attraverso le indegne metamorfosi del suo schieramento, nella vendita dell’onore del suo Stato saprà scendere ancora qualche scalino.
L’alienazione del proprio onore non è il peggiore affare che si possa
concludere. Anche qui, e siamo sempre nella piena meccanica del mondo borghese,
che avversiamo ed odiamo, vi è una questione di prezzo. Si può vendere
l’onore sottocosto. Ed è a questo che arriveranno gli odierni gerarchi
della politica italiana, negoziando con lo straniero vincitore le condizioni
del suo intervento finanziario, preoccupati solo di contendersi tra loro,
filoamericani o filorussi che siano, le percentuali di commissione sull’affare.
Da “Prometeo” - n. VIII, novembre 1947.
ANCORA AMERICA
L’atmosfera dell’Europa, greve e torbida ancora dei fumi della guerra, è piena della polemica sull’America, sugli aiuti dell’America, sulle intenzioni dell’America.
Le stragi belliche non hanno disaffollato gli stomaci nella parte del pianeta di popolazione più addensata e più antica; la vecchia Europa ha fame, non ha abbastanza da mangiare, non produce più viveri a sufficienza, non ha più la forza di una volta di andare a predare nelle altre quattro parti del mondo.
Ed ecco che la ricca America anticipa, e pianifica l’ulteriore anticipazione. Si tratta di oro, di valuta, di titoli di credito, di tutte le altre stregonerie geniali ed idiote del mercantilismo? Si tratta in sostanza di sussistenze, nel senso più lato, non essendo sussistenza solo ciò che entra per la bocca.
Queste sovvenzioni in viveri rappresenterebbero l’apice di generosità di cui è capace il capitalismo. Si partì dal regime del cash and carry, paga e porta via, o, se vuoi mangiare, paga il conto prima di essere servito. Poi si passò alla legge di affitto e prestito, ossia, con un senso di larga fiducia, si consegnarono le merci facendo credito al compratore.
L’oste di oltre atlantico ci faceva un abbonamento ai pasti. In fine è venuta l’UNRRA, ossia si regala senza nemmeno annotare il debito, il ricco trattore fa pranzare l’affamato per amor di Dio.
Chi conosce appena gli elementi della visione marxista dell’economia sa da tempo che la graduazione di merito va fatta alla rovescia. I tre metodi presentano successivamente un grado maggiore di sopraffazione e di sfruttamento che il ricco esercita sul povero.
L’Europa nella devastazione dei suoi impianti produttivi conserva crescente una sola delle forze della produzione, la massa lavoratrice.
L’America non ha subito distruzioni, le industrie ed ogni altro impianto sono intatti, tutto il suo capitale costante è integro.
Il capitale costante rappresenta l’eredità che le generazioni passate col cumulo secolare dei loro sforzi di lavoro tramandano alle successive. Sulla strada di questa successione si accampa il privilegio di classe, poiché i miliardi di giornate lavoro lasciate dai morti non appartengono a tutti i vivi ma ad una piccola minoranza.
Tale rapporto giuridico servirebbe poco ai satrapi del capitale ove essi disponessero del solo capitale costante: ben potrebbero contemplare le foreste di macchine immote e di spente ciminiere, non sfuggirebbero essi stessi alla morte per fame.
Il capitale costante deve integrarsi, perché si generi il profitto e si continui l’accumulazione della ricchezza, di capitale variabile, ossia di lavoro umano, in quanto l’ingranaggio economico consente ai monopolizzatori degli impianti di anticipare le sussistenze dei lavoratori rimanendo beneficiari di tutto il prodotto della combinazione tra impianti e lavoro.
Fin quando nel classico capitalismo delle libere aziende tutto questo si svolge in tante isole economiche, il padrone del capitale costante non solo non ha bisogno di anticipare le sussistenze, ma sono gli operai che gli anticipano una settimana o una quindicina di lavoro. Se essi potessero senza crepare anticiparne un anno o quanto occorre per l’intiero ciclo di trasformazione delle materie prime, nei casi in cui è periodico, la legge e la morale borghese avrebbero sancito volentieri questo rapporto.
L’evolversi del capitalismo ha condotto le aziende a divenire sempre più interdipendenti, ed il problema della fecondazione del capitale fisso da parte del capitale salari viene pianificato dalla borghesia su scala mondiale.
La guerra attuale ha in certo modo allontanati tra loro i due generatori del profitto capitalistico e per riavvicinarli, sola condizione che permetterà di riportare al massimo di giri le ruote della macchina dello sfruttamento, occorrono imprecisabili intervalli di attesa.
Per superarli senza che la massa delle braccia produttrici si assottigli e si disperda il capitalismo costruisce un apparato che anticipa sussistenze alle popolazioni affamate.
Tale anticipo presentato come un dono, appunto perché la parte che veramente produce profitto è il capitale sussistenze, verrà ritirato a condizioni dieci volte più strozzinesche di quelle che corrispondevano al caso di pagamento per contanti, e a quello successivo dell’accensione di un regolare conto a debito del vacillante capitale europeo.
La letteratura del nascente tempo borghese inorridiva di Shylok che convertiva il suo effetto di credito contro il nullatenente nel diritto di tagliargli dalla persona un pezzo di carne, ma oggi l’intelligente capitalismo lo tiene invece in piedi con una scatoletta di meat and vegetable. Così l’afflato della cristiana e illuminata civiltà mercantile che, scorrendo i mari, mosse dai nostri lidi alla conquista del mondo, ci ritorna ingentilito dal Far West.
* * *
Dopo l’altra guerra perduta dalla Germania chi percorreva quel paese militarmente prostrato nelle battaglie combattute sui territori altrui restava stupito dalla integrità dei possenti impianti moderni che una acceleratissima industrializzazione aveva attuato in pochi decenni. La foresta di ferro e di cemento armato piantata nel suolo rappresenta il capitale costante in cui si cristallizza il lavoro delle generazioni, è una riserva come il carbone fossile delle foreste vegetali sepolte nei millenni geologici. Se lo Spartaco proletario, anziché cadere sgozzato ad opera di quelli che si erano dati a fare della Germania una perfetta democrazia, a simiglianza dei marxisti rinnegati di oggi, avesse potuto afferrarla nelle tenaglie della rossa dittatura, sorella a quella di Russia, forse l’imperialismo non avrebbe potuto trascinare il mondo in un altro bagno di sangue.
I conquistatori della Germania, che erano in realtà i conquistatori dell’Europa, si sono ben guardati dal proclamare il V day, il giorno della vittoria, prima di avere percorso tutto il territorio del vinto, già straziato dai bombardamenti, tanto per controllarne la residua consistenza di impianti produttivi che per impedire le convulsioni rivoluzionarie nelle masse sacrificate.
Ma non è solo capitale costante tedesco quello che è stato spiantato. Il rapporto di forze economiche e quindi di dominazione politica sorge nello stesso modo per i paesi che hanno bruciata la loro attrezzatura tecnica nel combattere contro la Germania, come l’Inghilterra e la Russia. Le masse di questi paesi dovranno lavorare follemente per ricolmare il vuoto prodotto in ciò che i borghesi chiamano ricchezza nazionale. In questo investimento grandioso di capitale variabile si genereranno per il capitale ricostruttore profitti giganteschi. Ma il ciclo non si può avviare senza anticipi e per ora non abbiamo uno spettacolo di intenso lavoro, ma di disoccupazione e di fame. Chi con la forza del proprio attrezzamento intanto può anticipare i dollari e le scatolette diventa il padrone e lo sfruttatore delle masse europee schiavizzate.
* * *
La campagna contro l’America, ossia contro il mostro statale plutocratico che tiene anche i nostri compagni proletari di America, vittime non ultime della tremenda crisi, sotto il classico tallone di ferro, non potrebbe essere condotta con speranza di successo contro la mobilitazione proteiforme di mezzi di ogni genere, che riempirà spettacolosamente di sé gli anni che stiamo per vivere, se non da un movimento e da un partito rivoluzionario coerente. Da un partito internazionale che non avesse spezzato la cordata della teoria della organizzazione e della tattica che doveva direttamente ascendere verso la rivoluzione totalitaria.
Male potranno i liquidatori di Internazionali riaccendere da comitati di provincia la fiamma della lotta operaia contro l’imperialismo, la cui centrale mondiale agisce oramai fuori d’Europa.
Per poter contrapporre a questo strapotere mondiale una resistenza paragonabile con le sue spietate risorse, bisognava non aver pascolato per tutti gli anni di guerra col gregge della imbecillità borghese d’Europa invocante dalla forza industriale e militare di America la salvezza suprema.
Bisognava non aver avuto della lotta proletaria una concezione che ammettesse in un primo periodo l’alleanza con il nazismo al fine di fare alcuni passi nell’Europa orientale, e in un secondo la guerra contro quello e la non meno disonorante alleanza con le democrazie capitalistiche nella illusione di fare altri passi fino a Berlino.
Se si trattasse non di una conquista di marescialli ma dell’incendio della rivoluzione si saprebbe che questo deve attaccare nello stesso tempo tutte le strutture, in ogni paese, del potere della borghesia.
Quindi la campagna internazionale antiamerica che si inscena con accorti passi – inguaribilmente progressivi – dagli ex comunisti di Mosca parte battuta.
Essa nel suo cauto avviarsi lascia largo adito alla eventualità, non esclusa in principio, che si rifiuti il piano Marshall non perché esso è la suprema espressione della sopraffazione di classe, rispetto a cui le fanfaronate degli Hitler e dei Mussolini erano giochi da ragazzi, ma solo, perché nei suoi capitoli di credito quello relativo alla Russia e paesi soggetti si cifra troppo basso.
Ed infatti vediamo in Italia dichiararsi, quando i delegati americani fanno presente che sarebbe la fine se si spezzasse il rosario di navicelle che cariche di grano si stendono tra i due lidi dell’Atlantico, che non si tratta di rifiutare i soccorsi.
Non vi sarebbe invece altra parola di battaglia proletaria, contro la ricostruzione di Europa secondo Marshall, che il rifiuto.
Quando nella contesa per la remunerazione del lavoro l’operaio fa ricorso allo sciopero, metodo che per qualche anno ancora i rinnegati di tutto il mondo hanno tuttavia liquidato, esso risponde alla elargizione di una scarsa quota di sussistenze proprio col rifiuto di quelle che gli restano.
Ma la consegna di Belgrado è di fare sabotaggio alla influenza di America anche con l’azione “governativa”, ossia dal di dentro dello Stato. Non hanno abbastanza provato i cicloni storici di questa ultima guerra che lo Stato è una potenza unitaria e non divisibile in fette! E per fare azione governativa occorre successo elettorale.
Di qui le posizioni anfibie e le tattiche di graduale conversione, le
quali non potranno evitare che le adesioni al cosidetto comunismo, venute
da tutta la melma delle classi medie per la convinzione che quello fosse
l’erede delle funzioni camorristiche e di protezione esercitate prima
del fascismo, svaniscano al solo odore di pochi cents di dollaro, quando
saremo giunti al punto decisivo.
Da “Battaglia Comunista” - n. 12, marzo/aprile
1948.
IL RULLO COMPRESSORE DELLE DUE DEMOCRAZIE
Antiproletarie per la prospettiva storica che fa di esse poli contrastanti del conflitto imperialistico e quindi della guerra, le forze politiche che muovono nel quadro della democrazia parlamentare e della democrazia popolare lo sono egualmente per l’opera concorde che sistematicamente svolgono per schiacciare sotto il loro modernissimo rullo compressore il proletariato. Al di sopra del contrasto imperialistico c’è fra loro una unità profonda, l’unità che si realizza nel contrasto stesso, per la difesa del dominio di classe.
Gli anni intercorsi fra la fine della guerra ed oggi hanno visto, a conferma schiacciante dell’inesistenza di un fondamentale contrasto fra democrazia e fascismo, il sistematico, metodico, inesorabile rafforzamento della macchina repressiva dello Stato. Lo Stato padrone dei fascisti ha subito, in regime di democrazia, un perfezionamento tecnico che ne fa oggi uno strumento perfetto di compressione e di stritolamento dei moti di classe del proletariato, uno strumento che ha la mobilità, l’efficienza e la spregiudicatezza dei più moderni ordigni di guerra. La democrazia di oggi, quella tal democrazia che avrebbe dovuto seppellire il fascismo come regime di violenza organizzata e totalitaria, passerà alla storia nella coscienza dei proletari come il regime degli sfollagente, dei reparti di carabinieri aerotrasportati, dei gas lacrimogeni, delle jeeps, quando, riprendendo ed ingigantendo le esperienze fasciste, non si farà ricordare come il regime dei campi di concentramento, delle deportazioni in massa, dell’eliminazione diretta od indiretta, violenta o cortese dell’avversario. E si sa che, in questa opera ricostruttrice e perfezionatrice degli strumenti di repressione a... difesa della libertà, tutti i partiti della costellazione democratica hanno una responsabilità solidale, che lega Scelba a Romita, Schuman a Thorez, i neo-dittatori dell’Europa orientale ai loro ex compari della democrazia d’occidente, Truman a Stalin e tutti insieme alle ormai pallide ombre dei loro cosidetti avversari di ieri, Mussolini e Hitler.
Lo Stato democratico ha dotato delle sue armi migliori la polizia “popolare”, ha quasi dovunque, in America come in Francia, in Russia come negli Stati balcanici, cancellato dalle sacre tavole degli eterni principi il diritto di sciopero, ha fatto dei sindacati delle succursali delle prefetture e delle questure nella santa missione di mantenere l’ordine sociale, ha stretto nel suo pugno le leve dell’economia, ha trasformato in impiegati dello stato i lavoratori delle industrie nazionalizzate.
Su scala internazionale, la democrazia antifascista ha instaurato un regime accentrato di polizia che fa dei tre grandi i questori del mondo, dei loro eserciti i corpi di P.S. dei quattro continenti, delle nazioni satelliti le docili pedine di un gioco feroce di dominazione e di repressione; ha “protetto” amici e “liberati”, giusto come Hitler, mettendo un carabiniere davanti alla loro porta di casa.
Ha risolto il problema del salario con le tregue, quello della disoccupazione con lo sblocco dei licenziamenti, non ha dato pane ma ha dato in compenso la bomba atomica. Ha ripetuto agli operai: producete di più e consumate di meno; ed ha aggiunto: a consumare ci penserò io, giacché quello che produrrete non servirà per le vostre bocche, servirà per le bocche dei cannoni.
Ed anche in questo, le responsabilità di tutti i partiti della ricostruzione democratica è unica, perché tutti insieme, anche se oggi divisi, hanno portato la loro pietra alla costruzione della gigantesca prigione in cui langue oggi, all’insegna dell’Uguaglianza, della Fratellanza, della Libertà, il proletariato di tutti i Paesi.
Ma non hanno soltanto messo intorno alla classe operaia la camicia di forza di uno Stato ferocemente oppressivo. Hanno anche ottenuto di farne lo schiavo diligente che si scava quotidianamente la tomba cantando gli inni della sua redenzione. Hanno chiesto ed ottenuto dalla classe operaia che si lasciasse scannare per il trion-fo della libertà di cui sopra; hanno chiesto ed ottenuto che ricostruisse, nell’illusione non ancora svanita di erigere la propria casa e di edificare il socialismo; che rinunciasse alle sue rivendicazioni di classe a vantaggio della patria; che producesse di più nell’unità di tempo perché le fabbriche dei suoi padroni rinascessero e le galere distrutte riaprissero i loro battenti.
Oggi, chiedono ed ottengono lo stesso risultato chiamando gli operai ad agitarsi perché trionfi il piano Molotov e perisca il piano Marshall, o viceversa. Tutto hanno falsato e distrutto: il sindacato, divenuto organo di incremento della produttività operaia; lo sciopero, divenuto arma di rincalzo dell’imperialismo; le organizzazioni politiche del proletariato, divenute strumenti di governo; il nazionalismo sostituito all’internazionalismo; la lotta contro lo “straniero” sostituita alla lotta contro lo sfruttatore; le rivendicazioni proletarie soppiantate dalle rivendicazioni patriottiche: Trieste, le colonie, Briga e Tenda gettate in pasto alla torbida demagogia dei ceti medi.
Questa è l’opera che i partiti della ricostruzione hanno svolto e continuano, in mutate condizioni, a svolgere: ed era giusto che si chiamassero “della ricostruzione”, perché ricostruire l’apparato produttivo e di governo del capitalismo non si può senza distruggere gli strumenti autonomi di classe del proletariato.
Essi, i ricostruttori dello Stato e delle chiese, gli amnistiatori dei fascisti, gli apostoli della Patria, i concorrenti nello sfruttamento delle più torbide passioni nazionalistiche, gli organizzatori di una pace da commissari di polizia e di una democrazia da manganellatori, possono ben stringersi la mano al disopra di tutte le frontiere e di tutti i temporanei contrasti, e insignirsi a vicenda dei supremi attestati di merito del progresso borghese.
Parlamentare o popolare, orientale od occidentale, la democrazia è passata come un gigantesco rullo compressore sul corpo del proletariato. Era la sua missione. Può ora, con tranquilla coscienza, pensare alla guerra.