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Si chiude questo anno tra violenti contrasti commerciali, con lo schierarsi
dei blocchi imperiali per il controllo delle materie prime e, all’ultimo,
con una lunga serie di sconvolgimenti naturali dai costi terribili in termini
umani e materiali. Come viatico per i tempi a venire non c’è male, ma,
nel migliore dei mondi possibili, l’importante è non perdere la fiducia.
Ed ecco allora che, seppure la pace appare sempre più lontana, se la spartizione dei mercati è terreno sempre più minato, anche se l’approvvigionamento delle materie prime proietta bagliori minacciosi di guerra, per le sofferenze del pianeta e per quelli che l’abitano forse qualche rimedio si potrebbe trovare. E quindi si ritorna ad un gran parlare di studi sull’ambiente e su possibili prevenzioni. I derelitti accordi internazionali, firmati non da tutti gli Stati, ma da tutti sistematicamente disattesi, ritornano argomento di dibattito nelle assise mondiali e sono posti di nuovo all’attenzione dell’inebetito pubblico.
Perché, se il capitalismo, alla scala locale e mondiale, non ha mai sussulti di cattiva coscienza, si premura però, per la decenza, di ordinare ad alcuni dei suoi servi e sacerdoti di intonare per esso il mea culpa: questi stupiscono, vacillano e si stracciano vesti e chiome sotto l’urto di terribili sventure che, ammettono, aumentano di anno in anno. Poiché la unica vera regola di questo sistema assolutamente inumano è ormai evidentemente, sempre e solo la ricerca del profitto, lo stesso ha rinunciato a farsi spacciare come garante delle magnifiche sorti e progressive per l’esistenza in generale della specie. Puntualmente – tra guerre commerciali e guerre vere, tra bombardamenti ed atrocità di ogni genere, in nome degli interessi superiori della Democrazia e della lotta ai nemici occulti della Libertà e dei sempiterni Valori dello sfruttamento – i disastri che provoca il suo forsennato estendersi, oltre a disseminare miseria ed orrore tra le centinaia di migliaia di esseri umani travolti dalle catastrofi "naturali", e il suo violare le basi di ogni equilibrio naturale colpiscono le sensibilità delle anime belle. Allora i riformatori, i teorici dello "sviluppo sostenibile" e i politici di buona volontà decidono che sia il momento rinnovare gli accordi alla scala mondiale per disciplinare in qualche modo ciò che è per sua natura anarchico e indisciplinabile.
Per contro, nei cataclismi e nelle distruzioni, se per i diseredati sono colpi mortali, il capitale vi trova nuovi spazi per la "ricostruzione" e campo felice di buoni affari. Al pari delle guerre, locali o generali, per il capitale bagni di ringiovanimento. Come per le guerre, che terminate suscitano la sbornia della pacificazione, degli accordi di pace, il dopo catastrofe è lastricato di buone intenzioni, e contratti per la ricostruzione. Cambiare gli svantaggi in opportunità, si dice.
Assente alla scala mondiale un movimento rivoluzionario classista, è facile per i corifei del capitalismo fare e disfare, accordarsi per poi denunciare gli accordi, baloccarsi cinicamente con le sofferenze umane per trarne vantaggi ed utili. Sicché possiamo assistere, senza ridere prego!, a teatrini come quello di Rio de Janeiro, nel 1992, quando le Nazioni Unite stipularono una convenzione, che a Kyoto nel 1997 diede origine ad un protocollo internazionale per il taglio di emissioni, entrato in vigore il 16 febbraio di quest’anno; protocollo che prevede pene e multe, avendo ogni nazione un proprio tetto di emissioni da non superare, ma con la possibilità di vendere e acquistare quote di emissione da altri paesi. L’inquinamento come merce di scambio, in un allegro mercato che si pretende voler disciplinare.
Con l’esclusione, a mo’ di beneficenza, dei paesi cosiddetti "in via di sviluppo", dove guarda caso, i principali inquinatori sono proprio le multinazionali dei paesi pienamente sviluppati – Bophal in India, tanto per fare un esempio. Ma non basta, perché anche Cina, India e Brasile sono esenti dagli obblighi di riduzione delle emissioni. Proprio lì dove la totale mancanza di difesa delle masse operaie, in gironi infernali di produzione, rende il lavoro, per durata e qualità, una schiavitù intollerabile. Ma qui intervengono esclusivamente i rapporti politici tra gli Stati, le alleanze ed i fronti che le stesse multinazionali dell’imperialismo hanno interesse a sviluppare e mantenere. A queste condizioni poco importa che il primo imperialismo del mondo, per mostrar boria, si sia rifiutato di aderire al protocollo.
Questo carognesco, più che pietoso, tentativo di arginare le catastrofi
è una creatura nata morta e putrefatta, quali e quanti che siano gli Stati
aderenti e quali che siano le loro motivazioni. Lo stravolgimento, il collasso
a lungo termine del pianeta sono "naturalmente" iscritti nel modo di produzione
capitalistico. Il suo perdurare oltre i limiti della sua lunga fase storica
va contro la stessa razza umana e le sue condizioni di esistenza. È ormai
di solare evidenza, non nella "opinione pubblica" ma nella maturità storica
oggettiva, che l’unico futuro possibile per l’umanità è la Rivoluzione
Comunista.
Studio esposto nelle riunioni del partito dal maggio 2003 al maggio
2005.
(Continua dal numero scorso)
La rivoluzione borghese
Il colpo di Stato degli Ufficiali Liberi
La monarchia hascemita in Irak cade il 14 luglio 1958, rovesciata dal colpo di Stato mosso da un gruppo di ufficiali.
Le cause sono ben riassunte nello scritto, redatto pochi mesi dopo da un generale statunitense, H. G. Martin: «L’abisso che divideva i ricchi dai poveri costituiva un perenne incitamento alla rivolta: il costo della vita era salito alle stelle; gli studenti, gli impiegati e gli operai dell’industria e i miserabili affittuari delle campagne versavano tutti in uno stato di grave bisogno. Il comunismo era molto diffuso. L’odio per Nuri [il capo del governo] e per i latifondisti – sceicchi arabi e aga curdi – che rappresentavano il suo partito, costituiva ormai un fenomeno patologico. Vi erano poi altri due oggetti di esecrazione generale: l’accordo per il petrolio sulla base del 50% stipulato con l’Irak Petroleum Company nel 1952 [secondo il quale allo Stato iracheno spettava il 50% dei profitti e l’altro 50% restava nelle mani delle Società che coltivavano i pozzi] e l’adesione al Patto di Baghdad, sottoscritto nel 1955 da Irak, Turchia, Gran Bretagna, Pakistan e Iran [che schierava l’Irak contro l’Egitto e la Siria]» (Un decennio di guerra fredda, in "Middle Eastern Affairs", marzo 1959).
La rivolta irachena ebbe caratteristiche particolari. Scrive Guido Valabrega: «Mentre la rivoluzione egiziana del ’52 ebbe quasi il carattere d’una resa della monarchia di fronte all’incalzare dell’opposizione per l’impotenza a risolvere i problemi del paese, la rivoluzione irachena del 1958 ebbe aspetti di scontro più violento e cupo, esaltante e travolgente» (La rivoluzione araba, 1967).
Già alcuni mesi prima del colpo di Stato i principali partiti d’opposizione alla monarchia, il Partito dell’Indipendenza (Istiqlal), il Partito Nazionaldemocratico, il Partito Comunista e il Ba’th, si erano alleati formando un Fronte Nazionale Unitario clandestino. Reclamavano la repubblica, libertà di associazione, libere elezioni, affrancamento dal controllo della Gran Bretagna, ma divergevano su molti punti fondamentali, il rapporto con la Iraq Petroleum Company e la questione della nazionalizzazione del petrolio, la questione agraria, le libertà sindacali e la questione sociale, gli schieramenti internazionali.
Non fu infatti il Fronte Nazionale ma un gruppo di ufficiali dell’esercito, denominatosi Ufficiali Liberi sull’esempio dell’organizzazione che aveva preso il potere in Egitto alcuni anni prima, a decidere all’inizio del 1958 di passare all’azione sotto la spinta dell’aumentata tensione nella regione, divenuta terreno di confronto tra i due blocchi imperialisti, lo statunitense e il russo.
Il Libano, che era sull’orlo di una guerra civile, e la Giordania, ambedue sotto influenza occidentale, temevano la neonata unione tra Egitto e Siria, cosiddetta Repubblica Araba Unita, benedetta da Mosca. La monarchia irachena, unita strettamente alla monarchia giordana, aveva deciso quindi di inviare alcune unità militari sul confine occidentale, pronte ad intervenire in aiuto di quel regime. Le truppe, di stanza nell’Est del Paese, comandate dal giovane colonnello ’Abd al-Salam ’Arif, che aderiva agli Ufficiali Liberi, dovevano passare vicino a Baghdad per raggiungere il confine giordano. I cospiratori approfittarono dell’occasione: le unità militari, giunte vicino alla capitale, vi penetrarono e, in un’azione veloce, ne occuparono gli edifici strategici, compresa la stazione radio, da cui il colonnello ’Arif annunciò la caduta della monarchia e la costituzione della repubblica.
Il 14 luglio 1958, mentre la radio trasmetteva la Marsigliese, in ricordo dell’altro, lontano, 14 luglio, del 1789, quando la popolazione di Parigi aveva preso d’assalto la Bastiglia, le truppe assalivano il palazzo reale. Dopo un breve bombardamento la guardia reale si arrese e Re Faisal II, il principe ereditario ’Abd al-Ilah e diversi altri membri della famiglia reale, arrestati, furono immediatamente passati per le armi. Il primo ministro Nuri Said, che tentava di fuggire vestito da donna, venne riconosciuto da alcuni soldati e subito fucilato; l’odio popolare verso questo personaggio era tale che il suo corpo fu trascinato in trofeo per le vie di Baghdad dalla folla inferocita.
In appoggio al colpo di Stato i militari fecero appello alla popolazione perché scendesse nelle strade a manifestare contro la monarchia, l’imperialismo e i suoi agenti e per scoraggiare eventuali interventi di potenze esterne. Fecero anche appello ai partiti che costituivano il Fronte Nazionale Unitario perché si mobilitassero. Le masse risposero con entusiasmo e Baghdad e le altre città irachene divennero immediatamente teatro di enormi manifestazioni di piazza, alcuni uomini d’affari statunitensi e dei ministri giordani vennero uccisi; si verificano massicci fenomeni di saccheggi e di espropri.
Gli stessi Ufficiali Liberi ne furono allarmati e nei giorni successivi al colpo di Stato fu proclamato il coprifuoco e imposta la legge marziale. La situazione sociale irachena era talmente esplosiva che il nuovo governo, rappresentante gli interessi della classe borghese in ascesa, si trovò fin dalle sue prime mosse a dover fare i conti, da una parte, con il proletariato urbano e agricolo, organizzato e combattivo, dall’altra con una classe di proprietari fondiari ancora arroccata e potente.
Uno dei criteri per misurare la radicalità di una rivoluzione borghese è sicuramente quello della sua politica agraria: la rivoluzione è tanto più profonda quanto più riesce ad estromettere dal potere la classe fondiaria, imponendo con la forza provvedimenti di esproprio della terra che possono arrivare fino a trasferirne la titolarità allo Stato. Ma la borghesia si è sempre mostrata molto prudente quando si è trattato di attaccare il diritto di proprietà della terra, nonostante il fatto che una radicale riforma agraria favorirebbe enormemente lo sviluppo del sistema di produzione capitalistico. Il timore di un processo rivoluzionario, mosso dal proletariato delle città e delle campagne, che travalichi anche i rapporti di produzione fondati sulla proprietà privata dei prodotti del capitale, spinge la classe borghese al compromesso con la fondiaria, sicuro alleato contro le classi sfruttate.
Il nuovo governo iracheno non sfuggì a questa regolarità del dominio di classe. Cercò l’appoggio dei fondiari per tenere soggiogata la turbolenza dei contadiname e dei proletari; da qui una politica estremamente moderata, non solo in campo agrario ma in generale in materia sia di politica interna sia nelle relazioni con l’estero.
Già il 18 luglio venne dichiarato il rispetto degli accordi petroliferi siglati dai precedenti governi mentre il rappresentante iracheno all’ONU confermava l’adesione del suo paese al Patto di Baghdad, venendo così meno a due dei temi fondamentali della propaganda antimonarchica. Nell’agosto successivo il nuovo primo ministro, il generale Qasim, ricevendo il sottosegretario di Stato americano, Bob Murphy, lo rassicurò di «non aver fatto la rivoluzione nell’Iraq per offrire il suo paese all’URSS o all’Egitto».
Nonostante questa politica prudente gli angloamericani reagirono al colpo di Stato con la forza, soprattutto per impedire che la rivolta si estendesse: la VI flotta sbarcò 10 mila uomini in Libano, più di quanti ne contava all’epoca l’intero esercito libanese, mentre gli inglesi inviarono 2.500 paracadutisti, i famosi "diavoli rossi" in difesa della fedele monarchia giordana.
Appena insediatosi al potere il gruppo di ufficiali rivoluzionari, alla cui testa si trovava il generale di brigata ’Abd al-Karim Qasim, varò una nuova costituzione che proclamava la repubblica e conferiva al generale Qasim il titolo di primo ministro, ministro della difesa e comandante in capo dell’esercito; al colonnello ’Arif, che aveva contribuito direttamente alla riuscita del colpo di Stato, fu affidata la carica di vice primo ministro e ministro degli interni; i restanti membri del governo furono scelti soprattutto tra personalità civili del Partito Nazionale Democratico.
Nessun membro del Partito Comunista vi fu cooptato; anche il Partito Democratico curdo di Massud Barzani ne fu tenuto fuori. Eppure sarà proprio valendosi di questi due partiti, ambedue con un forte sostegno popolare, che Qasim riuscirà a far prevalere la sua linea politica, incentrata sull’esaltazione del nazionalismo iracheno. Il Partito Comunista iracheno era contrario ad ogni ipotesi di avvicinamento alla RAU, dove i comunisti erano fuorilegge e perseguitati, e contrario all’unione con la RAU era anche il partito curdo, consapevole che la trasformazione del paese in una provincia di un più vasto Stato avrebbe reso ancora più ardua la lotta per l’autonomia e l’indipendenza delle regioni curde.
L’importanza attribuita alla questione curda dal nuovo governo si riflesse nella costituzione del 1958 che stabiliva che «gli arabi e i curdi sono associati nella nazione» e che i loro «diritti nazionali» sono garantiti nell’ambito della «unità irachena». Quest’associazione era simboleggiata dalla nuova bandiera sulla quale il disco d’oro emblema del Saladino (che era di origine curda) e il pugnale ricurvo curdo si univano alla scimitarra araba. I riconoscimenti verso i curdi non andarono però molto oltre e la situazione economica nelle regioni del Nord rimase caratterizzata da grande arretratezza e povertà.
«L’obiettivo della rivoluzione nazionale - ha scritto lo storico Samira Haj - come definito dai suoi dirigenti era liberare l’Iraq dalla monarchia oligarchica e dal suo creatore, l’imperialismo britannico; e ricostruire la nazione promuovendo lo sviluppo sociale ed economico nell’interesse della sua popolazione. La rivoluzione, rappresentando la "volontà della nazione", aveva obiettivi "universali" che trascendevano differenze di classe, etniche, religiose e di genere» (The Making of Iraq 1900-1963, New York 1997).
Naturalmente questo programma "universalista" esisteva solo nella testa degli ideologi borghesi; in pratica esso non poteva che significare difesa degli interessi della borghesia e dei proprietari fondiari sulla pelle del proletariato e dei contadini poveri, così come era accaduto nella Grande Rivoluzione francese: combattuta al grido di Uguaglianza, Libertà, Fraternità ma culminata nella dittatura borghese e nel terrore antiproletario.
Solo i dirigenti del Partito Comunista iracheno, stalinizzati e ben indottrinati per difendere la suicida teoria della "rivoluzione per tappe", non vollero vedere la realtà e, nonostante le severe avvisaglie, la severità cioè con cui si era posto fine alle manifestazioni di massa e l’esclusione del loro partito dal governo, diedero il loro pieno sostegno all’azione del nuovo regime, come spiegava uno dei dirigenti più importanti del Partito, ’Amer ’Abdallah: «Il nostro partito appoggia gli interessi economici della borghesia nazionale come condizione fondamentale per lo sviluppo di uno Stato borghese democratico... Lo scopo della rivoluzione è di stabilire delle riforme sociali ed economiche nel quadro delle relazioni capitalistiche di produzione... Noi consideriamo questa rivoluzione una rivoluzione popolare» (citato da Ilario Salucci, al-Wathbah Movimento comunista e lotta di classe in Iraq 1924-2003, Milano 2004).
Seguendo questa politica il Partito Comunista iracheno determinò non
soltanto il suo suicidio politico, ma consegnò il proletariato iracheno,
legato mani e piedi, nelle mani dei suoi aguzzini.
Fin dai primi giorni del suo insediamento il nuovo governo si trovò ad affrontare questioni fondamentali, sia di politica interna sia di politica estera, tutti problemi sui quali non c’era unanimità di vedute neppure all’interno del ristretto gruppo che esercitava il potere.
In politica interna si trattava di decidere in merito: alla realizzazione di una riforma agraria; del rapporto da tenere con le società petrolifere straniere; sulla questione fondamentale della libertà di associazione per partiti e sindacati; sulla politica sociale da adottare; emergeva inoltre il nodo dell’indipendentismo curdo.
In politica estera, una volta spezzato il legame con la Gran Bretagna, si trattava di scegliere, in un momento in cui stava riacutizzandosi lo scontro tra le due superpotenze per il controllo dell’area mediorientale, tra una politica panarabista, che avrebbe in breve portato all’unione con Egitto e Siria, e una politica nazionalista, che puntava a fare dell’Iraq una potenza regionale, cercando di sfruttare le possibilità aperte dallo scontro tra USA e URSS.
La prima spaccatura nel governo si verificò proprio sulla questione della politica estera tra la tendenza panaraba, sostenuta dal Partito Ba’th e dal colonnello ’Arif, che richiedeva l’immediata unione alla RAU, e la tendenza nazionalista irachena, appoggiata dai liberali, dal Partito Comunista e dal Partito Democratico Curdo e difesa dal generale Qasim.
Il ministro degli Interni ’Abd-ul-Salam ’Arif era convinto che solo l’unione con la RAU avrebbe potuto permettere la sopravvivenza dell’Iraq e, per trovare appoggi, nelle convulse giornate dell’agosto del 1958, iniziò a percorrere la provincia cercando di mobilitare il contadiname povero, tenendo veementi quanto demagogici discorsi in appoggio ad una «repubblica popolare, patriottica e socialista», contro ogni «differenza, privilegio rango di potere», provocando persino delle sommosse tra i contadini che, insofferenti della loro oppressione, lasciavano cadere le zappe per saccheggiare ed impossessarsi della terra degli sceicchi.
Il primo ministro Qasim passò immediatamente all’offensiva e, con l’appoggio del Partito Comunista – che denuncio ’Arif e i suoi slogan, che «portavano strati sociali patriottici nelle braccia dell’Imperialismo» (ma quali strati patriottici, i proprietari fondiari?) – sollevò il colonnello dalle sue cariche e lo spedì a fare l’ambasciatore nella Repubblica Federale Tedesca. ’Arif tornò clandestinamente in Iraq, ma fu arrestato, processato e condannato a morte; la condanna fu poi commutata in ergastolo.
Il Partito Comunista iracheno si opponeva ai nazionalisti panarabi appellandosi alle "peculiarità nazionali" dell’Iraq. Secondo la sua analisi la Rivoluzione di Luglio era nazionale borghese e un’unione con Siria ed Egitto (quest’ultimo aveva uno sviluppo industriale di gran lunga superiore a quello iracheno) sarebbe stata di ostacolo allo sviluppo di una industria e di un capitale nazionale. Secondo le parole di Aziz al-Hajj, all’epoca un dirigente di primo piano del Partito Comunista iracheno: «È naturale che ci opponiamo ad una unione di "stile prussiano"... Noi siamo per una forma federale di unificazione che garantisca gli interessi di tutte le classi in ciascun singolo Stato arabo... un’unificazione che prenda in considerazione lo sviluppo ineguale di questi paesi... che rispetti la scelta popolare di "governo democratico". Siamo contro un’unione antidemocratica che porti alla crescita e all’espansione della borghesia nazionale egiziana a spese dei lavoratori, dei mercanti e dei capitalisti degli altri paesi arabi. In questo stadio è per noi naturale lottare dalla parte della borghesia nazionale irachena, per il suo sviluppo».
Schierandosi contro l’Unione il Partito Comunista non faceva altro
che agevolare la politica indicata da Mosca, che non vedeva di buon occhio
un rafforzamento troppo rapido dell’Egitto, alleato ancora inaffidabile.
Allo stesso tempo si faceva strumento degli interessi più ristretti della
borghesia nazionalista, e si veniva anche ad evitare una qualunque possibilità
di solidarietà regionale del proletariato. Quando la divergenza con i
panarabisti passò sul terreno dello scontro di piazza il Partito Comunista
fu la principale forza a reprimere chi si batteva per l’Unione araba,
in una serie di scontri sanguinosi, con la repressione e l’espulsione
dai sindacati dei lavoratori favorevoli all’Unione.
Lo scontro culminò nella sconfitta per le strade della rivolta militare di Mossul del marzo 1959, diretta da un gruppo di Ufficiali Liberi di tendenza panarabista, anticomunista e pro-nasseriana. È un episodio di grande importanza per la comprensione dei rapporti di classe in quei mesi di enorme effervescenza sociale.
Il comandante della guarnigione di Mossul ordinò alle truppe di disperdere un massiccio raduno dei Partigiani della Pace, un’organizzazione legata al Partito Comunista iracheno; una parte dei soldati, con l’appoggio della popolazione, oppose resistenza all’ordine rivolgendo le armi contro gli ufficiali e innescando la rivolta.
È stato notato che, nel movimento, si verificò un alto grado di correlazione
tra le divisioni economiche, etniche e religiose: per esempio molti dei
soldati non solo venivano dagli strati più poveri della popolazione, ma
erano anche curdi; gli ufficiali appartenevano per lo più alla classe
media e arabi; molti dei contadini poveri nei villaggi intorno a Mossul
erano cristiani aramei; i latifondisti erano per la maggior parte musulmani
arabi. Ma, dove la divisione economica non coincideva con quella etnica
o confessionale, fu il fattore di classe che prevaleva, non quello razziale
o religioso: i soldati arabi si unirono non agli ufficiali arabi, ma ai
soldati curdi; i capi clanici latifondisti curdi si unirono ai capi latifondisti
arabi; le vecchie e ricche famiglie cristiane di mercanti non fecero causa
comune con i contadini cristiani. Quando agivano di propria iniziativa
i contadini, qualsiasi fosse la loro etnia, indirizzavano la loro ira contro
i latifondisti in modo indiscriminato e senza considerare neanche la posizione
politica. Per parte loro i poveri e i lavoratori dei quartieri arabi si
unirono ai contadini curdi e cristiani aramei contro i latifondisti arabi
musulmani.
La repressione contro il proletariato
La situazione era giudicata pericolosa anche a Washington e Allen Dulles, direttore della CIA, la descriveva «la più pericolosa nel mondo odierno». Spontaneamente si mobilitavano, si inquadravano e insorgevano grandi masse, entusiaste, nei sindacati operai e nelle associazioni contadine, i giovani, le donne. Il Partito Comunista, che cresceva nel numero degli iscritti, arrivati in poco tempo a 25 mila, dava l’impressione di una forza formidabile, ma utilizzata per volgere quel movimento in senso non rivoluzionario e portalo alla dispersione e alla sconfitta. Una trappola verniciata di rosso.
«Avendo contribuito efficacemente a salvare il regime – scrive P. Rondot nella suo lavoro Irak, (Parigi, 1979) – i comunisti si mostrano esigenti e chiedono di partecipare alle responsabilità del governo. I curdi e gli sciiti, che hanno trovato nei comunisti degli alleati, appoggiano queste rivendicazioni». Ma il governo Qasim, nonostante il moderatismo politico del Partito Comunista, non voleva dare l’impressione di cedere alle sue pressioni, anche per non alienarsi ulteriormente i favori delle classi ricche e degli Stati Uniti e decise anzi di passare all’offensiva contro di esso. Nel maggio 1959 furono rimessi in vigore due articoli del vecchio codice penale che punivano con una pena da sette anni all’ergastolo chi professava idee comuniste.
L’Ufficio Politico del Partito Comunista, invece di mobilitare le classi inferiori, il che era estraneo alla sua vera natura, si ostinò nella ricerca del compromesso facendo un’immediata marcia indietro, fermando la campagna per l’ingresso di propri uomini nel governo e quella per una più radicale riforma agraria. La decisione dell’Ufficio Politico venne poi fatta propria dal Comitato Centrale a luglio. È probabile che a imporre questa politica, evidentemente autolesionista, fossero anche le pressioni di Mosca, preoccupata dalla piega presa dagli avvenimenti iracheni che contrastavano con la politica di "coesistenza pacifica" che in quegli anni andava ostentando. Rimane il fatto che questa decisione costituì una svolta decisiva del Partito in appoggio al governo.
Questa politica "di destra" non evitò lo scontro finale, ma lo posticipò di quattro anni, necessari per la totale distruzione di quello che la classe operaia irachena credeva fosse il suo partito, e solo per questo ritenuto dalla borghesia un pericolo oggettivo; quattro anni di continua erosione e declino del Partito, dell’appoggio di cui godeva nei sindacati e nelle altre organizzazioni di massa.
L’azione repressiva del governo si scagliò contro i lavoratori più combattivi e contro i militanti comunisti, i quali due attributi spesso venivano a sommarsi nello stesso individuo proletario: e qui sta il portato peggiore della controrivoluzione staliniana, a scala internazionale. Tra luglio ed agosto del 1959 ne vennero arrestati centinaia, e si diffusero in tutto il paese le uccisioni (nell’ordine delle centinaia), i pestaggi e le intimidazioni contro chiunque fosse militante o anche solo simpatizzante del Partito Comunista. L’organizzazione giovanile, controllata dal Partito Comunista, che aveva raggiunto 84 mila aderenti nella primavera 1959, fu sciolta dalla polizia nel maggio 1960 (ma a quella data era già scesa a 20 mila aderenti), che procedette all’arresto di più di 200 suoi quadri. Pesanti repressioni poliziesche le conobbe anche la Lega delle donne irachene e la Federazione studentesca, anch’esse controllate dal Partito Comunista. Nei posti di lavoro si procedette nel 1960 al licenziamento di 6 mila dirigenti operai. Ma, significativamente, la repressione di Qasim nei con fronti dei comunisti mirò sempre (fino al colpo di Stato che mise fine al suo regime, nel febbraio 1963) ad indebolire e neutralizzare la base sociale dei comunisti, e non a cancellare il partito – infatti i suoi dirigenti non vennero mai colpiti da misure repressive.
Tuttavia il Partito Comunista, nonostante la svolta repressiva iniziata nel maggio 1959, continuò ad appoggiare incondizionatamente il governo, per «la necessità di rafforzare l’unità nazionale ed appoggiare i dirigenti attuali nei loro sforzi di protezione della repubblica», e fece autocritica per la sua attività nella primavera del 1959, considerata "ultrasinistra". Il 4 dicembre 1959 il Partito Comunista organizzò grandi manifestazioni in occasione dell’uscita dall’ospedale di Qasim (che era stato oggetto di un attentato il 7 ottobre), con le seguenti parole d’ordine: «Mano nella mano con il governo nazionale per mantenere l’ordine! Più grano al tuo popolo, prode contadino! Produci di più, valoroso operaio! Lunga vita alla solidarietà del Popolo, dell’Esercito e del Governo sotto la guida di ’Abd-ul-Karim Qasim!».
Questi i due boia del proletariato, e del contadiname povero, iracheno: la borghesia nazionale e lo stalinismo.
Nel gennaio 1960 il governo varò una legge per la legalizzazione dei partiti, nel tentativo di dare l’immagine di una vita politica più aperta, ma tale libertà fu negata al Partito Comunista nonostante che esso avesse accettato tutte le condizioni governative, dal cambiamento del programma, a quello del nome, a quella della composizione dell’Ufficio Politico. Dall’aprile 1960, per vari periodi e in varie località i giornali pubblicati dal Partito Comunista vennero proibiti, e dall’ottobre 1960 fu fatto definitivamente chiudere il quotidiano del Partito che era stato legalizzato appena pochi mesi prima.
È interessante notare, soprattutto oggi che qualcuno vede nel radicalismo islamico un possibile alleato nella lotta all’imperialismo, che il governo Qasim, mentre lasciava nella clandestinità i "comunisti", permise la costituzione di un partito islamico, «benché il programma del partito mirasse all’obiettivo ultimo di costituire un ordine islamico, la sua ostilità verso l’ateismo, il materialismo e il comunismo era in prima linea, e questo aiuta forse a capire perché al momento Qasim lo apprezzasse» (C. Tripp, Storia dell’Iraq, Milano 2003).
L’organizzazione islamica al-Dawa (La Chiamata), formatasi intorno al giovane ’alim Muhammad Baqir al-Sadr (il padre di quel tale al-Sadr che per qualche mese ha dato del filo da torcere ai marines americani, prima di tornare a più miti consigli), che inquadrava i musulmani sciiti, si era guadagnata l’attenzione del governo qualche mese prima, nell’autunno del 1958, quando aveva organizzato proteste contro la legge di riforma agraria, sostenendo che l’esproprio di una proprietà privata era contrario alla Shari’a. Con questo pretesto il governo concesse di pagare l’indennizzo ai terrieri ed escluse dalla legge le terre waqf (cioè di proprietà di enti religiosi) riducendo ulteriormente l’impatto della riforma.
Nel novembre 1960 i ministri vicini al Partito Comunista furono costretti a dare le dimissioni e furono chiuse le principali organizzazioni di massa dirette dal partito: i Partigiani della pace, la Lega della gioventù irachena, la Lega delle donne.
Nell’estate del 1961 il Comitato Centrale del Partito Comunista iracheno, su iniziativa del segretario ar-Radi, condannò le posizioni della "destra" del Partito (’Amer ’Abdallah fu accusato di essere un "agente" di Qasim, e si allontanò dall’Iraq, andando a vivere in Bulgaria), ma quello che ne risultò in pratica fu solo un cambiamento esteriore, con la pubblicazione clandestina del giornale del partito. Sul piano dei principi cambiò ben poco. Ne è un esempio il fatto che quando Qasim lanciò la guerra contro i curdi nel settembre 1961, il Partito Comunista fu ben più critico del movimento curdo che del governo, ed insinuò che dietro quel movimento vi fosse la longa manus dell’imperialismo e nemmeno separò le responsabilità del proletariato iracheno, che non aveva alcun interesse ad appoggiare l’azione repressiva del governo.
Seguì un breve periodo di disgelo verso il Partito comunista: Qasim annullò nel dicembre 1961 le concessioni alle compagnie petrolifere nelle zone non sotto sfruttamento, e liberò tutti i prigionieri politici. Ma nel maggio 1962 ne fece arrestare ancora a centinaia dopo una manifestazione di alcune migliaia di persone, indetta dal Partito Comunista a Baghdad "per la pace in Kurdistan".
Alla vigilia del colpo di Stato del febbraio 1963, che cancellerà il
Partito Comunista iracheno dalla vita politica del paese, questo era sceso
dai 25 mila aderenti del 1959 (nel gennaio di quell’anno il Partito Comunista
aveva dichiarato di non accettare più nuovi iscritti, in mancanza della
capacità amministrativa di accoglierli!) a meno di 10 mila, di cui 5 mila
a Baghdad, e soprattutto aveva perso le enormi posizioni di forza che deteneva
quattro anni prima nelle organizzazioni giovanili, nei sindacati, nelle
unioni contadine, nella milizia popolare creata all’indomani della Rivoluzione
di Luglio.
Nel 1958 la situazione della terra era caratterizzata da un estremo accentramento della proprietà in grandissimi latifondi: sui 48 milioni di donum coltivabili (1 donum = un quarto di ettaro) ben 32 milioni appartenevano a 168.346 proprietari; una dozzina di sceicchi si spartivano il 20% del Sud del paese. I tre quarti delle famiglie che vivevano nelle campagne, quasi 4 milioni di contadini, erano senza terra.
Negli ultimi anni rivolte contadine si erano succedute con una certa frequenza e una delle prime promesse del regime era stata proprio quella della riforma agraria. In molti casi ai contadini era bastato quell’annuncio per occupare senz’altro le terre dei grandi proprietari, bruciarne le abitazioni, distruggere i registri catastali e i contratti di proprietà. La questione agraria dunque rappresentò il secondo terreno di scontro tra le diverse classi e tra le stesse forze che sostenevano il governo e fu certo quello più importante.
Nonostante queste premesse, che dimostrano la gravità del problema, la riforma, promulgata il 30 settembre 1958, si ispirò largamente alla riforma agraria egiziana del 1952, ma in senso ancora più moderato. Fu decantata come "la liberazione del contadino", "la riorganizzazione delle relazioni agricole" e "la liquidazione del sistema feudale". Ma, dietro le frasi di propaganda, l’obiettivo cui tendeva non era l’esproprio, e quindi la scomparsa sociale delle vecchie classi feudali, ma la loro sopravvivenza e la difesa dei loro interessi in una trasformazione, dolce ed indolore per esse, che le traghettasse nel nuovo regime. Il mezzo sarebbe stato immettere la terra sul mercato per lasciar operare i suoi lentissimi meccanismi al fine dell’ammodernamento delle tecniche di conduzione e per l’evoluzione in senso capitalistico dei rapporti di produzione e di proprietà nelle campagne. Non certo questo tipo di riforma avrebbe tolto dalla miseria i milioni di contadini poveri e senza terra. Le terre realmente confiscate furono le peggiori e il prezzo per acquistarle ne escluse i contadini poveri, senza capitali e senza accesso al credito, e rafforzò invece i contadini piccoli e medi. I contadini senza terra, che erano la grande maggioranza, continuarono a vivere in miseria e a subire uno sfruttamento ancora maggiore.
Inizialmente il Partito Comunista appoggiò la riforma – pur riconoscendone la natura conciliatoria nei confronti delle vecchie classi terriere – sempre con la giustificazione delle "necessità" imposte dallo "stadio" della rivoluzione. Così spiega questa politica ’Amer ’Abdallah, uno dei teorici del Partito Comunista: «non abbiamo mai chiesto una riforma agraria radicale... perché prendiamo in considerazione la natura di classe della rivoluzione nazionale, e gli stretti legami della borghesia nazionale con i grandi possedimenti terrieri e con i patrimoni agricoli».
Per reazione nascevano e si diffondevano velocemente delle "società
contadine", che nel maggio 1959 erano già circa 3.500. Il Partito Comunista
allora, continuando la deleteria prassi politica delle "svolte" repentine,
passò a far mostra di difendere gli interessi dei contadini poveri e senza
terra e condusse un’ampia agitazione contro la riforma. Si interessò
delle "società contadine", delle quali più del 60% finirono sotto controllo
stalinista. Nel corso del mese dell’aprile 1959 si succedettero enormi
manifestazioni, che il Partito Comunista faceva proprie e a cui deve le
sue parole d’ordine, culminate con una manifestazione il 1° maggio a
Baghdad che, secondo gli organizzatori, raccolse un milione di persone.
Una rivoluzione borghese tardiva
La Rivoluzione di Luglio aveva abbattuto il potere della monarchia oligarchica sostituendola con una repubblica e dando inizio ad un periodo di cambiamenti politici e lotte di potere.
Denominatore comune fu la lotta feroce contro il movimento proletario e le sue organizzazioni. Il potere della classe dei proprietari fondiari, tradizionale base della monarchia, non fu abbattuto ma solo ridimensionato ed il problema della terra e dei contadini poveri permase drammatico. Il nuovo regime ruppe il monopolio inglese sul petrolio solo per permetterne lo sfruttamento a un più largo numero di multinazionali.
Come quella, classica, francese, anche la rivoluzione irachena proclamava di avere obiettivi universali che trascendevano classi, religioni, etnie e altre differenze, ma nei fatti dimostrò invece di difendere, e con quale ferocia, i privilegi delle nuove classi dominanti, non più quelle legate al potere monarchico, ma le classi borghesi e fondiarie che intascano la rendita agraria, quella petrolifera e i profitti del commercio e della ancora limitata rete industriale.
Nonostante i suoi limiti la rivoluzione nazionale mise in movimento
l’intera società irachena: furono rivoluzionati i rapporti tra gli individui
e all’interno della famiglia; le donne iniziarono a liberarsi da un’oppressione
secolare; i contadini poveri a trasformarsi in proletari e a spostarsi
nelle città. Tra convulsioni spesso sanguinose il nuovo Iraq diverrà
in qualche decennio uno degli Stati più potenti dell’area, una potenza
regionale che le diplomazie imperialiste non esiteranno a spingere verso
una guerra terribile col vicino Iran, per ridimensionare la potenza economica,
finanziaria e militare di entrambi.
Tra nazionalismo
e repressione
Il nuovo regime repubblicano, diretto dal generale Qasim, segue una politica nazionalistica, opponendosi a quanti, soprattutto in seno alle forze armate, vogliono l’immediata unione con l’Egitto. Questa scelta esprime gli interessi di una parte della borghesia nazionale che teme l’unione col più industrializzato e potente Egitto e trova alleati nel Partito Comunista, divenuto in pochi mesi un’organizzazione potente in grado di controllare la mobilitazione del proletariato delle città e il contadiname, e nei partiti dell’etnia curda che tradizionalmente tentano di ottenere l’autonomia della regione settentrionale dell’Iraq.
Qasim si troverà ben presto in una situazione difficile: pressoché isolato sul piano internazionale dopo aver rotto con Egitto e Siria, ma anche con l’Iran e col Kuwait, con i quali ha riaperto antiche dispute territoriali, debole sul piano interno perché la sua politica sociale scontenta le classi inferiori e anche i curdi che, nonostante le molte promesse, ottengono ben pochi risultati dal loro appoggio al regime.
Della situazione approfitta l’Egitto, la cui azione avevamo un po’ trascurato nello scorso rapporto, per appoggiare un nuovo colpo di Stato, stavolta diretto dal Partito Ba’th, portavoce di un programma panarabista e populista, oltreché ferocemente anticomunista. L’opera dell’Egitto contro il regime di Qasim pare sia iniziata già nel 1959 quando Il Cairo avrebbe fornito armi e appoggio politico ai rivoltosi di Mossul e si inquadra in una generale politica di Nasser tesa a fare dell’Egitto il capofila del mondo arabo e ad ottenere l’appoggio occidentale colpendo le organizzazioni comuniste all’interno del suo Paese e in tutta l’area mediorientale.
Lo storico Anouar Abdel-Malek, così descrive l’azione del Cairo: «Una violentissima campagna di stampa e radiofonica viene intanto scatenata contro l’Irak, presentato quale nemico del nazionalismo arabo. Il 12 settembre 1958 John Foster Dulles, che aveva già dichiarato l’8 aprile che "gli Stati Uniti concordano perfettamente col Presidente Nasser", annuncia la ripresa dell’aiuto americano all’Egitto, con una prima rata di 13 milioni di dollari» (Anouar Abdel-Malek, Esercito e società in Egitto 1952-1967, 1967).
Il 7 ottobre 1959 un commando ba’thista, di cui fa parte anche il giovane Saddam Hussein, attenta alla vita del generale Qasim, che viene ferito. Saddam Hussein fugge in Siria e poi in Egitto, «dove i servizi segreti egiziani mettono in guardia Nasser sui contatti del giovane iracheno con l’ambasciata americana» (Pierre Jean luizard, La questione irachena, 2003).
Intanto scoppia anche la questione curda. Nel giugno 1961 il Partito Democratico Curdo (PDK) indirizza al governo una serie di richieste a cui si risponde con la repressione: i giornali curdi sono chiusi e si effettuano decine di arresti. Per i curdi è il segnale della rivolta, che presto si trasformerà in una vera e propria guerra, una guerra lunga, dura e poco gloriosa che si ripercuoterà negativamente sul morale dell’esercito iracheno e che toglierà a Qasim molti degli appoggi di cui godeva tra le forze armate.
Per cercare di arginare l’influenza del Partito Comunista, il governo Qasim, come abbiamo visto, aveva tentato di appoggiarsi ai Fratelli Musulmani e ora costringeva i ministri comunisti a dare le dimissioni dal Governo.
Non si può non restare ammirati dal coraggio con cui i militanti comunisti e il proletariato dell’Irak affrontano, spesso in contrasto con la loro direzione politica, lo scontro feroce con l’apparato repressivo borghese; non si può non restare impressionati dalla profondità e dalla violenza che caratterizza la lotta di classe in questo Paese dove la forca, la fucilazione e la tortura sono il sistema normale di tacitare gli oppositori.
I commentatori occidentali, sia di tradizione liberale sia socialdemocratica,
fanno derivare questi metodi repressivi dalla mancanza di tradizioni democratiche,
di una tradizione "partitica", di una corretta "dialettica democratica",
insomma li attribuiscono all’"arretratezza" politica del Paese. Noi pensiamo,
al contrario, che la radicalità dello scontro politico è caratteristica
delle società dove un proletariato numeroso, giovane e vitale rappresenta
una minaccia oggettiva per delle classi dominanti che hanno ben poco da
offrire a quelle masse, la mobilitazione delle quali esse hanno utilizzato
nel tentativo di scrollarsi di dosso, almeno in parte, il giogo imposto
loro dall’imperialismo. La dittatura aperta rappresenta dunque un carattere
di modernità, specchio di una vitalità proletaria che manca al proletariato
occidentale, irretito per decenni nell’azione soporifera dell’opportunismo.
L’8 febbraio 1963 un colpo di Stato militare, si dice appoggiato dalla CIA, rovescia il regime di Qasim. Il Partito Comunista lancia un appello alla mobilitazione con la parola d’ordine «Alle armi! Schiaccia la cospirazione reazionaria e imperialista!». Manifestazioni si svolgono nei maggiori centri, ma Qasim l’8 febbraio si rifiuta di far distribuire le armi al popolo: l’esercito, schieratosi sin dal primo momento con i golpisti, spara contro i manifestanti, armati per lo più di semplici bastoni, facendo centinaia di vittime. Il giorno successivo la resistenza è spezzata ovunque, salvo sacche che si batteranno fino al giorno 12 (in particolare a Bassora). Qasim si arrende, ma viene subito giustiziato. Diviene capo di Stato ’Abd-us-Salam ’Aref, l’ex "numero due" della rivoluzione di Luglio 1958
Il "Consiglio nazionale del Comando Rivoluzionario", l’organismo che ha preso il potere, scrive nel suo proclama n° 13: «I comandanti delle unità militari, la polizia e la Guardia Nazionale sono autorizzati ad annientare chiunque disturbi la pace. I leali figli del popolo sono chiamati a cooperare con le autorità fornendo informazioni e sterminando questi criminali». Dall’8 al 10 febbraio, nei primi due giorni del colpo di Stato, vengono uccise tra le 1.500 e le 5.000 persone, fra cui almeno 350 comunisti. I quartieri delle città dove si era sviluppata la resistenza vengono trattati come territorio nemico con rastrellamenti di massa, arresti generalizzati, stragi e stupri.
Il futuro dirigente della sinistra del Partito Comunista, al-Hajj, riconsiderando quei giorni affermerà che la resistenza al colpo di Stato era stata un atto "glorioso" del Partito, che lo avrebbe "salvato politicamente", mentre il vero "errore" sarebbe stato commesso nel 1958-63 quando «l’intera strategia del nostro partito si basava su un principio errato, quello per cui, piuttosto di iniziare una guerra civile, dovevamo evitarla a tutti i costi. Allo stesso tempo le altre forze... stavano affilando i coltelli per massacrarci al momento migliore». Anche ammesso che il proletariato avesse da battersi in difesa del governo borghese, di fatto il Partito Comunista quella resistenza armata non l’aveva preparata nemmeno nel 1963. La realtà è che il fine proprio e cosciente dei partiti operai-borghesi è la loro medesima sconfitta e dispersione, trascinando e precipitando in esse un ingannato proletariato.
Nella coalizione che sale al potere l’elemento predominante è il Ba’th, che ancora nel febbraio 1963 era una piccola organizzazione; appartengono al Ba’th il primo ministro Ahmad Hasan al-Bakr e il viceprimoministro e ministro degli Interni ’Ali Sadeh as-Sa’di, segretario generale del partito e vero uomo forte del regime, poiché controlla personalmente la Guardia Nazionale, la forza paramilitare del partito che è alla testa della repressione e che in pochi mesi raggiungerà la forza di 30 mila uomini.
Nei mesi successivi la repressione anticomunista è durissima. Non una singola struttura del Partito Comunista nell’Iraq arabo riesce a resistere. Il segretario generale ar-Radi è arrestato il 20 febbraio e muore dopo quattro giorni di torture; i due segretari che gli succedono, Jamal al-Haidari e Muhammad Salih al-’Aballi, vengono arrestati il 21 luglio e giustiziati. Nel corso del 1963 sono uccisi sette membri (su 19) del Comitato Centrale. Le esecuzioni "legali" di comunisti sono 150, ma quelle "illegali"sono molto più numerose. Nel novembre 1963 i comunisti in carcere sono 7 mila. I membri meno irresponsabili del partito cercano nel corso dell’anno di salvare dalla repressione il maggior numero possibile di militanti, facendoli evacuare dalle città in direzione delle campagne o del Kurdistan. L’attività del partito per un anno e mezzo è pressoché nulla. Il colpo subìto dal Partito Comunista nel 1963 è ancor più duro di quello patito nel 1949.
La coalizione ba’thista-militare, se è efficiente nella repressione antioperaia, è però molto instabile, con continue divisioni al suo interno. Batatu descrive la compagine governativa di questo periodo con le parole di Dostojevski: «niente è più difficile dell’avere un’idea, o più facile del tagliare delle teste».
«La pretesa del Partito Ba’th di perorare la causa del panarabismo e del benessere pubblico sotto lo slogan "Libertà, Unità, Socialismo" aveva sempre dato adito alle più varie interpretazioni. In Iraq, come altrove, la gente aderiva al partito per le più varie ragioni. Conseguentemente la sezione irachena del partito comprendeva numerose posizioni differenti tra loro» (C. Tripp, Storia dell’Iraq, p. 231).
I nasseriani presenti al governo vengono allontanati già nel maggio 1963; l’Iraq rompe con l’Egitto di Nasser a luglio. La guerra nel Kurdistan, dopo un breve periodo di tregua, riprende a giugno (il Partito Comunista questa volta appoggia le forze curde e tenta a luglio un colpo di mano, fallito, alla principale base militare del paese, quella di ar-Rashid). Lo stesso Ba’th si spezza: a ottobre al suo congresso nazionale (panarabo) vince l’ "ala sinistra", con parole d’ordine per la "pianificazione socialista", per "un’agricoltura collettiva gestita dai contadini", per il "controllo democratico dei lavoratori sui mezzi di produzione" e per "un partito che si basi prevalentemente sugli operai e sui contadini". In Iraq l’ "ala sinistra" è rappresentata da as-Sa’di, che si proclama improvvisamente "marxista". Con lui si schiera la Guardia Nazionale, la Federazione Studentesca e il Sindacato Generale dei Lavoratori.
Questa situazione mette in allarme gli ufficiali dell’esercito e l’ "ala destra" del Ba’th, rappresentata dal capo del governo al-Bakr. Dall’11 al 18 novembre l’Iraq è nel caos: ufficiali dell’esercito, armi in mano, intervengono al congresso del Ba’th iracheno per imporre una direzione di "destra", as-Sa’di viene mandato in esilio a Madrid, ma ufficiali ba’thisti di "sinistra" cercano di resistere e bombardano la base militare di ar-Rashid; le strade di Baghdad sono in mano ai militanti ba’thisti di "sinistra" e alla Guardia Nazionale. Il Sindacato Generale dei Lavoratori lancia un appello perché vengano giustiziati i borghesi che stanno portando i loro capitali all’estero e chiede l’immediata socializzazione delle fabbriche e la collettivizzazione dell’agricoltura.
Il 18 novembre scatta un nuovo sollevamento gestito dal capo dello Stato ’Abd-us-Salam ’Aref con il generale di brigata suo fratello ’Abd-ur-Rahman. Reparti dell’esercito attaccano la sede della Guardia Nazionale che viene bombardata e l’ordine viene ripristinato a Baghdad.
In una prima fase, dal novembre 1963 al febbraio 1964, il blocco al potere è una coalizione di militari nazionalisti fedeli personalmente ad ’Aref, militari ba’thisti "di destra" e militari nasseriani. In un secondo periodo, dal febbraio all’agosto 1964, l’elemento predominante al vertice dello Stato sono i militari nasseriani, mentre quelli ba’thisti vengono allontanati dai centri di potere (tenteranno un fallito colpo di Stato). È in questo periodo che viene annunciato un Consiglio Presidenziale congiunto con l’Egitto. Viene inoltre decisa la formazione di un partito unico, l’Unione Socialista Araba, sponsorizzato dallo Stato (su imitazione dell’Egitto), la nazionalizzazione di tutte le banche e le assicurazioni e delle maggiori imprese industriali e commerciali e la distribuzione del 25% dei profitti ai lavoratori. I militari nasseriani richiedono il monopolio del commercio estero, ma si scontrano con il rifiuto netto dei loro alleati: questo provoca la rottura con i militari fedeli ad ’Aref, che ad agosto assumono da soli il potere.
Inizia la terza fase, che, dall’agosto 1964 terminerà con la morte accidentale di ’Abd-us-Salam ’Aref, avvenuta il 13 aprile 1966, caratterizzata da un gruppo di potere con un orientamento nazionalista conservatore che tenterà, in una situazione di caos economico, con massicce fughe di capitali all’estero e licenziamenti, di fare una parziale "marcia indietro" rispetto alle misure adottate nella primavera 1964 dai nasseriani. Di nuovo in questo periodo si registra un fallito colpo di Stato.
Alla morte di ’Abd-us-Salam ’Aref gli succede il fratello, ’Abd-ur-Rahman ’Aref. Resta al potere, continuando la politica del fratello, fino al luglio 1968, quando viene deposto dal colpo di Stato ba’thista e costretto a un dorato esilio in Gran Bretagna.
Passata la tragica bufera del colpo di Stato del 1963, negli anni sucessivi la repressione contro il Partito Comunista si era di nuovo allentata, e aveva consentito una lenta opera di ricostruzione del partito. Fino all’estate 1964 l’organismo dirigente è il "Comitato all’estero per l’organizzazione del Partito Comunista"; i sui membri vivono nei paesi dell’Europa orientale da dove denunciano il regime di ’Aref come una "dittatura militare reazionaria".
La pace con i curdi del febbraio ’64, gli avvenimenti egiziani (rilascio dei detenuti comunisti, stabilirsi di stretti rapporti con l’URSS, discussioni sull’autoscioglimento dei due partiti comunisti egiziani e loro ingresso nel partito unico di Nasser, l’Unione Socialista Araba), e la svolta nasseriana a Baghdad (con le nazionalizzazioni e il miglioramento dei rapporti con l’URSS, che inizia a rifornire di armi l’Iraq) porta uno spregiudicato Partito Comunista, ubbidiente a Mosca, ad operare una netta svolta politica nell’agosto 1964. Il Comitato Centrale, riunitosi clandestinamente a Baghdad, adotta una nuova linea, detta "di Agosto", che individua addirittura nell’Egitto un paese che "si pone sulla strada dello sviluppo non-capitalistico e verso il socialismo", e questo porta a riconsiderare la posizione del partito sulla questione dell’unità araba, con un’aperta autocritica della politica seguita nel 1958-63 su questo terreno: «È erroneo... che i comunisti continuino ad aggrapparsi alla democrazia politica come condizione per l’appoggio a qualsiasi unità araba... [quest’ultima deve essere vista] alla luce del fenomeno dello sviluppo non-capitalistico e dell’avanzamento sociale che arricchisce il contenuto progressista dell’unità araba».
Questa nuova politica risponde pienamente alle direttive di Mosca di allora. Si legge a proposito ne La storia segreta del KGB di C. Andrew e O. Gordievskij: «Nei primi anni ’60 Krusciov e il Centro di Mosca, ma non tutto il Presidium, erano persuasi dell’esistenza di una "nuova correlazione delle forze" in Medio Oriente che andava sfruttata per la lotta contro il "Nemico Principale" [gli USA]... Gli ideologi sovietici escogitarono i termini "strada non capitalista" e "democrazia rivoluzionaria", per definire lo stadio intermedio tra capitalismo e socialismo raggiunto da alcuni leader del Terzo Mondo. La decisione di Nasser, nel 1961, di nazionalizzare gran parte dell’industria egiziana fornì prove incoraggianti del suo progresso lungo la "strada non capitalista"».
Sono gli stessi termini usati dalla direzione del Partito Comunista iracheno, che non fa altro che ripetere pedissequamente la "nuova" politica di Mosca. Valuta, retrospettivamente, positivo il colpo di Stato del novembre 1963, «che ha rimosso gli incubi del regime fascista e della Guardia Nazionale... e ha creato condizioni più favorevoli per la lotta delle forze antimperialiste per preservare l’indipendenza nazionale, cambiare la politica ufficiale dell’Iraq e far rientrare il paese sulla via della liberazione araba». La conclusione politica della nuova "svolta" era che «se noi ammettiamo la possibilità dello sviluppo dell’Iraq lungo linee non-capitaliste, da ciò consegue inevitabilmente che noi possiamo indirizzare la nostra politica non verso la conquista del potere da parte del nostro partito: noi dobbiamo rimanere all’avanguardia, ma vi sono forze che gradualmente stanno adottando i nostri obiettivi... Allo stadio attuale il miglior governo in Iraq è una coalizione di tutte le forze patriottiche che combattono per la completa emancipazione e per il progresso sociale».
Secondo i critici di sinistra del partito, «si vedeva la cooperazione con Il Cairo... come la chiave di ogni sviluppo rivoluzionario in Iraq... e quindi si subordinava la pratica politica del partito alla volontà del Cairo e dei suoi partigiani a Baghdad». Ma evidentemente non si tratta solo di questo: ormai da anni i vertici del partito hanno rinnegato ogni principio del marxismo rivoluzionario.
Il Plenum del Comitato Centrale dell’agosto 1964 elegge un nuovo Comitato Centrale, in parte in Iraq, in parte all’estero, e il nuovo segretario del partito, Aziz Muhammad ("Mu’in", "Nadhim ’Ali").
La "linea di Agosto" suscita grande indignazione tra i militanti, che giustamente giudicarono la svolta del partito come un sostegno verso coloro "le cui mani grondano del sangue del partito e del popolo". Spesse volte i gruppi di base del partito ignorano le indicazioni del C.C. e agiscono per proprio conto. La base si sposta progressivamente a sinistra, e la direzione – dopo aver inutilmente provato con misure disciplinari a imporre la nuova linea – àttua infine una nuova "svolta" nella primavera e soprattutto nell’autunno 1965 seminando, crediamo, non poco sconcerto tra i militanti.
Con la scomparsa definitiva degli elementi nasseriani dalla compagine governativa e la ripresa della guerra in Kurdistan, la direzione del Partito Comunista adotta la parola della "lotta violenta" per rovesciare "il regime dittatoriale" di ’Aref e "per un governo di coalizione nazionale provvisorio con tutti i partiti e gruppi patriottici e antimperialisti... che istituisca una vita costituzionale parlamentare", facendo appello a Nasser perché riconsideri i rapporti con il regime di ’Aref, che apre le porte all’influenza dell’imperialismo inglese e dei monopoli petroliferi.
Dall’ottobre 1965 il Partito Comunista mantiene una posizione ostile al regime di ’Abd-us-Salam ’Aref, e successivamente del fratello, nonostante gli apprezzamenti che i loro governi ricevono sia da Mosca sia dal Partito Comunista Libanese, ma è solo nel febbraio 1967 che il Partito Comunista decide di formare piccole unità armate, mobili e fisse, nelle zone rurali e in una serie di città, e di iniziare una limitata guerra di guerriglia.
Naturalmente questo apparente radicalismo non basta a mantenere l’unità del Partito: il 17 settembre 1967 una consistente parte dell’organizzazione, che si era battuta per "democratizzare" la vita interna del partito, si scinde e fonda il Partito Comunista Iracheno (Comando Centrale). Il P.C.I. (Comando Centrale) si rifiuta di schierarsi con la Cina o con l’URSS, e sostiene la necessità dell’armamento delle masse e della lotta armata popolare nelle città e nelle campagne. Si batte per obiettivi ambigui: un "regime popolare democratico rivoluzionario sotto la direzione della classe operaia", per "l’unità araba rivoluzionaria con un contenuto socialista" e per "la distruzione dello Stato d’Israele e la creazione di uno Stato democratico arabo-ebraico".
Nel febbraio 1969 tutti i componenti dell’Ufficio Politico vengono arrestati: due muoiono sotto tortura, mentre gli altri tre (compreso il segretario al-Hajj) accettano di collaborare con il Ba’th, denunciano i loro compagni e fanno interventi pubblici a favore del Ba’th (successivamente al-Hajj pare abbia fatto carriera in ambito diplomatico, ottenendo un posto a Parigi).
Il P.C.I. (Comando Centrale) riesce a riorganizzarsi solo un anno dopo, nel solo territorio curdo, e stabilisce un’ "alleanza strategica" con il PDK di Barzani, al tempo l’unica organizzazione nazionalista curda.
La sconfitta curda del 1975 porta anche alla rovina del P.C.I. (Comando
Centrale): nel 1975 vennero arrestati e giustiziati i suoi cinque massimi
dirigenti a Sulaimaniyya, colpo da cui questo gruppo non riuscirà a riaversi,
molti militanti cessano l’attività politica e le piccole unità sopravvissute
si disperdono alla fine degli anni ’70.
La tattica
suicida del Fronte Unico
Il Partito Comunista ufficiale, identificato come P.C.I. (Comitato Centrale) dal 1967 per distinguerlo dall’organizzazione scissionista P.C.I. (Comando Centrale), convoca d’urgenza dopo la scissione una conferenza nazionale (la terza nella sua storia) per il dicembre 1967, dove riafferma l’orientamento della costruzione di Fronti democratici uniti nella prospettiva della formazione di un governo di coalizione in sostituzione di quello di ’Abd-ur-Rahman ’Aref. Nonostante la conferenza riaffermi la propria fedeltà all’URSS e all’Egitto, Mosca non gradisce questa scelta politica e risponde facendo chiudere due mesi dopo la "Voce del popolo iracheno", l’emittente radio del Partito Comunista che trasmette da Praga con ripetitori in Bulgaria.
Il Ba’th e le forze armate compiono un ennesimo colpo di Stato il 17 luglio 1968, e ’Abd-ur-Rahman ’Aref è costretto all’esilio. È sostituito da Ahmad Hasan al-Bakr. Molti dei collaboratori di ’Aref partecipano al colpo di Stato salvando così le poltrone, ma solo per qualche settimana; pochi giorni dopo infatti, il 30 luglio, un altro colpo di Stato, elimina i vecchi amici di ’Aref e mantiene al potere i soli uomini del Ba’th, organizzati in un Consiglio del Comando Rivoluzionario che detiene tutti i poteri, con il governo nominato che ha esclusivamente compiti amministrativi. Questa struttura di potere non cambierà nei decenni successivi. Oltre ad al-Bakr, il nuovo uomo forte che emerge è Saddam Hussein: nel corso dei caotici anni ’70 riesce a diventare l’elemento chiave all’interno del Consiglio del Comando Rivoluzionario eliminando tutti i possibili concorrenti, e nel febbraio 1979 fa dimettere al-Bakr dalla carica di capo dello Stato, rilevandone il posto.
Il Ba’th cerca immediatamente l’appoggio del P.C.I. (Comitato Centrale), procedendo alla liberazione di alcuni prigionieri politici nel settembre 1968 e offrendo poltrone ministeriali ai comunisti. Inizialmente il P.C.I. (Comitato Centrale) rifiuta, ponendo come condizione la pace nel Kurdistan, un’assemblea costituente e il ristabilimento delle libertà civili (legalizzazione dei partiti politici, elezioni democratiche, ecc.), ma a partire dalla primavera 1969 (data alla quale l’Iraq ba’thista firma importanti contratti petroliferi con l’URSS) apre delle trattative con il Ba’th, che permette la pubblicazione legale del "mensile di cultura generale" del Partito Comunista, al-Thaqafa al Jadida, e richiede la partecipazione del Partito Comunista ad un "Fronte Nazionale Progressista".
Le trattative durano fino alla primavera 1970, quando è il Ba’th a rompere i rapporti, procedendo a centinaia di arresti e uccidendo "discretamente" diverse personalità comuniste o facendole sparire. Il Partito Comunista tiene il secondo congresso della sua storia nel settembre 1970, ancora in clandestinità, nel Kurdistan iracheno: i documenti finali riconoscono l’azione "positiva" del Ba’th sul terreno economico e sociale, e le sue posizioni "antimperialiste e antisioniste", ma continuano a denunciare l’assenza di "libertà democratiche". I rapporti si riallacciano nell’autunno 1971, e si stringono dopo la nazionalizzazione della compagnia petrolifera Iraq Petroleum Company e la "solida alleanza strategica" stretta tra Baghdad e Mosca.
In generale, in tutto questo periodo (1968-1972) il Ba’th gioca al bastone e alla carota con il Partito Comunista, alternando aperture con repressioni violente, sia aperte sia nascoste. Una pratica comune era l’arresto di semplici militanti, sottoposti a torture nei centri di polizia, poi rilasciati dopo alcuni giorni, ma non mancano casi di omicidio di dirigenti anche nei periodi di "trattativa" e di "apertura".
Contemporaneamente, nel 1970, il governo ba’thista procede: ad una nuova riforma agraria, ben più radicale di quanto avesse fino ad allora richiesto il Partito Comunista; ad un Codice del Lavoro che stabilisce i diritti sociali dei lavoratori (ma restringe all’estremo il diritto di sciopero e vieta la libera organizzazione sindacale); alla nazionalizzazione dell’Iraq Petroleum Company; al monopolio del commercio estero; all’alleanza con l’URSS e ad una posizione internazionale "antimperialista e antisionista" e all’appoggio ad alcune correnti del movimento palestinese.
Nell’aprile 1972 il Partito Comunista dichiara che «i recenti sviluppi hanno segnato una svolta nella lotta popolare» e si dichiara disponibile a entrare nel Fronte Nazionale Progressista. Il mese successivo due comunisti (di cui uno è il solito ’Amer ’Abdallah) entrano nel governo. Ma è solo nel luglio 1973 che si concretizza l’ingresso del Partito Comunista nel Fronte con la firma di una Carta d’Azione Nazionale, e la legalizzazione del partito e del suo quotidiano.
Dal 1972-1973 inizia un periodo in cui il Partito Comunista dipinge Saddam Hussein come un Fidel Castro iracheno, come "l’uomo della sinistra" del Ba’th più vicino ai comunisti. Nel febbraio 1974 il Partito Comunista scioglie tutte le proprie strutture indipendenti (e ancora illegali) sui posti di lavoro. Nei quattro anni passati dal 1972 il Ba’th sfrutta ampiamente l’acquiescenza comunista per acquisire un controllo pressoché totale sui sindacati, sulle unioni contadine e sulle altre organizzazioni di massa.
Il Partito Comunista appoggia tutte le iniziative del Ba’th, compresa la sanguinosa guerra contro i curdi nel 1974-1975, Ma è proprio l’accordo con l’Iran, che permette la sconfitta delle forze curde nel 1975, a dare a Saddam Hussein la forza e la sicurezza per iniziare l’assalto contro gli alleati del Partito Comunista, da cui non è più così dipendente. Alla fine del 1975 ricominciano una serie di arresti tra i militanti comunisti, e le attività del Partito Comunista iniziano a subire serie restrizioni a partire dalla primavera del 1976.
Il partito tiene il suo terzo congresso a Baghdad nel maggio 1976, e se da un lato riafferma la classica posizione per cui «la rivoluzione democratico-nazionale è entrata in un nuovo stadio progressista, lo stadio dello sviluppo non-capitalistico», dall’altro sottolinea «che le relazioni di produzione capitalistiche si espandono in ambito rurale e che nella via non-capitalistica (distinta dal periodo di transizione al socialismo) il capitale privato ha un peso importante e può far arretrare la situazione e far ritornare il paese sotto la dipendenza dell’imperialismo». L’esempio egiziano, con la brutale rottura imposta da Sadat di tutti i rapporti con l’URSS, è di pochi anni prima. Inoltre il congresso prende posizione, pur con un tono conciliante e "costruttivo", contro la restrizione dell’agibilità politica, per il ritorno agli accordi originari all’interno del Fronte, e contro la dissoluzione delle organizzazioni di massa sotto direzione comunista (Federazione giovanile democratica, Federazione generale degli studenti e Associazione delle donne).
Da questo momento inizia una campagna propagandistica anticomunista da parte del Ba’th via via più violenta. All’inizio del 1978 è chiaro che una nuova rottura tra Partito Comunista e Ba’th è solo questione di tempo. Nel marzo 1978 viene annunciato che 12 comunisti sono stati giustiziati per aver condotto attività politica all’interno delle forze armate e a maggio viene promulgata una legge per cui qualsiasi attività politica non ba’thista da parte di qualsiasi membro o ex membro delle forze armate è punibile con la pena di morte. Nell’estate e nell’autunno si succedono arresti, torture e condanne a morte.
La rottura definitiva e il passaggio del Partito Comunista alla clandestinità avviene nell’aprile 1979. Il Comitato Centrale del luglio 1979 vota un documento che dimostra la sua cosciente volontà di auto-distruzione in un momento in cui i proletari più combattivi nei sindacati si trovavano, ancora una volta, sull’orlo dell’abisso: «Il nostro partito ha lottato con tutti i mezzi a sua disposizione per fermare il precipitarsi della crisi del paese. Da un alto senso di responsabilità di fronte al popolo, ha compiuto grandi sforzi per far sì che il regime segua una politica corrispondente agli interessi del popolo... La violenza sanguinaria con la quale è stato affrontato il nostro partito riflette l’apprensione dei capi del Ba’th per l’esistenza di un Partito Comunista... che esercita la sua indipendenza politica e ideologica... Tutte le argomentazioni dei capi del Ba’th fabbricate per giustificare la loro criminale campagna contro il nostro partito sono cadute, registrando per loro una sconfitta politica e morale, mentre nello stesso tempo si è consolidata l’unità del Partito e la sua posizione tra le masse». Di fronte ad una nuova ondata repressiva dopo quelle del 1949 e del 1963, il Comitato Centrale riesce solo a rivendicare l’ideale sconfitta "politica e morale" del proprio avversario, senza alcuna critica alla politica suicida seguita fino a quel momento!
Per la terza volta, dopo il 1949 e il 1963, legioni di combattenti operai vengono falciate dalla repressione, repressione che pare sia stata ancora più accurata delle precedenti. Nessuna organizzazione del proletariato nell’Iraq arabo rimane in piedi. La presenza del Partito Comunista si riduce al Kurdistan iracheno, come a suo tempo il P.C.I. (Comando Centrale), alla cui distruzione manu militari il Partito Comunista aveva dato il proprio fattivo contributo da alleato del Ba’th. Si stima che dal 1978 al 1981 siano stati effettuati tra i 20 e i 30 mila arresti, mentre centinaia sono stati i militanti comunisti "scomparsi" o "legalmente" giustiziati.
La sottomissione con la violenza del proletariato delle città e delle campagne permetterà alla borghesia irachena, che ha ben trovato in Saddam Hussein il suo sanguinario "amministratore", di stabilizzare il suo potere rafforzando i rapporti commerciali con l’Est e con l’Ovest, di accumulare fortune miliardarie con la vendita del petrolio, di tentare anche la strada di una industrializzazione forzata, mentre si rafforzerà sempre più l’esercito, sia per la repressione all’interno del Paese sia come strumento per estenderne l’area d’influenza.
Su questa scia di sangue, e con i proventi della vendita dell’oro
nero, si stabilizza il potere della cricca di Saddam Hussein.
Capitoli esposti a Cortona nell’ottobre 2004 e a Torino nel maggio 2005.
(Continua dai numeri 54, 56, 57, 58)
Nel precedente numero di questa rivista terminavamo la trattazione sull’antimilitarismo riportando ampi stralci dell’articolo di Gramsci, Neutralità Attiva ed Operante, pubblicato sul "Grido del Popolo" del 31 ottobre 1914. Il giovane Gramsci, polemizzando con il compagno "at", esaltava la presa di posizione di Mussolini che, rigettando "il formalismo dottrinario della Direzione del Partito", aveva dato prova di "concretismo realistico".
Il compagno "at" altri non era che Angelo Tasca, il quale, sul numero precedente del "Grido del Popolo", aveva pubblicato lo scritto: Il Mito della Guerra. Nella sua trattazione, Tasca, pur basandosi su di un ragionamento del tutto idealistico, prendeva netta posizione contro la guerra. Nell’intervento si leggeva tra l’altro: «Le masse hanno bisogno di "miti", di visioni in cui gettare tutta la forza dei loro odî e dei loro amori, in cui si è delineato sempre più distinto il contrasto tra la realtà che si vuole superare e l’aspirazione della realtà nuova che si vuole sostituire alla prima. E bene, se c’è un fatto che ha acquistato un valore mitico agli occhi del proletariato (...) questo fatto è la guerra (...) La parte migliore del proletariato ha visto nella guerra come il simbolo più preciso, più sicuro, più incontrastabile del sistema borghese, l’espressione più pura della propria schiavitù di classe». La conclusione di Tasca era che, poiché nel momento il proletariato non aveva «la capacità di dominare gli avvenimenti, la neutralità era la sola azione possibile».
Significativo è il fatto che Gramsci, nella sua professione di fede interventista, polemizzi con un articolo scritto da Angelo Tasca, ma non si avventuri a confutare le decine di altri, pubblicati sui vari organi del partito, inattaccabili per il loro scientifico rigore marxista, scritti da quei giovani compagni che poi daranno vita alla Frazione Astensionista.
È del tutto naturale che la storiografia democratica e stalinista abbia messo in soffitta questo scritto di Antonio Gramsci che, a dire il vero, non è il solo nel quale esprime la propria infatuazione guerrafondaia e patriottarda. Sarebbe infatti assai imbarazzante dover ammettere che il padre spirituale dell’ordinovismo, idealista ed a-marxista, possa essere ravvisato proprio nel Benito Mussolini apostata del socialismo rivoluzionario. (Documento messo in soffitta, diciamo, perché non è per niente escluso che domani, al momento opportuno, non venga rispolverato e riproposto per giustificare, con motivazioni "di sinistra" e "rivoluzionarie", la necessità della adesione del proletariato alla guerra nazionale borghese).
Al contrario, chi non ebbe tentennamenti di sorta furono quei gruppi rivoluzionari della sinistra del partito socialista che, nel corso della guerra e negli anni immediatamente successivi, selezionarono la "Frazione" che avrebbe dato vita, a Livorno, al "Partito Comunista d’Italia (sezione della Internazionale Comunista)".
Di fronte all’abiura di Mussolini, la corrente rivoluzionaria del partito socialista italiano espresse immediatamente e senza mezzi termini il suo dissenso ed affermò che il movimento socialista avrebbe saputo fare a meno di colui che, fino a poco tempo prima, ne era stato il capo. Nello stesso tempo veniva valutato positivamente l’atteggiamento preso dalla Direzione del PSI che, malgrado il voltafaccia di Mussolini, aveva confermato la linea di azione dei socialisti italiani contro qualsiasi partecipazione dello Stato italiano alla guerra.
In netta antitesi alla posizione di Mussolini sintetizzata nella frase: dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante, il "Socialista" del 22 ottobre 1914 usciva con un editoriale intitolato: Per l’Antimilitarismo Attivo ed Operante. «Mussolini - vi si legge – non è poi giunto che ad una formola che al solito svantaggio di essere astratta aggiunge l’altro di essere contraddittoria. Neutralità attiva ed operante? Ci pare che non voglia dir nulla».
Il concetto di neutralità, spiegava l’articolo, aveva per soggetto lo Stato, non certo il proletariato. «Noi vogliamo che lo Stato resti neutrale nella guerra, assolutamente, fino all’ultimo, checché avvenga. Per ottenere ciò noi agiamo su di esso, contro di esso, nel campo e coi mezzi della lotta di classe. Da questa non vogliamo disarmare. La nostra guerra è permanente, scoppia talora come nel giugno in aperta rivolta, ma non concede armistizi. Oggi siamo vittime di un mauvais mot. Neutralisti noi? Ci si accusa subito di pacifismo. Noi, invece, sostenendo che lo Stato deve essere neutrale ne restiamo gli aperti nemici, attivi ed operanti. Abbiamo col governo Salandra molte partite da regolare. Agitiamoci per le vittime politiche. Seguitiamo la propaganda antiborghese, antimilitarista. Non concediamo sospensive o tregue, chiudiamo la strada al miraggio dell’unanimità nazionale che ha abbacinato i compagni francesi e tedeschi».
Ma quello che soprattutto conta è che, per i rivoluzionari, il rifiuto del miraggio dell’unanimità nazionale non si riferiva soltanto alla solidarietà di tipo bellicista, perché la stessa avversione veniva nutrita ed apertamente dichiarata anche nei confronti della solidarietà pacifista; giusta la formula della lotta di classe sempre e comunque, in guerra ed in pace. «Dicevamo dunque allora che non avremmo tollerato un blocco politico, come lo si caldeggiava, d’accordo con Giolitti ed i cattolici, solo perché andando al potere questi non avrebbero fatta la guerra. Se il nostro gruppo parlamentare avesse dato un tale appoggio lo avremmo sconfessato per gli stessi motivi per cui deploravamo francesi, tedeschi, ecc» (Storia della Sinistra, Vol. 1°).
Il 30 luglio 1914, quando la conflagrazione europea non era ancora scoppiata, il "Socialista" lanciava l’allarme con queste parole: «La pace europea è minacciata dalle nubi sanguigne che s’addensano sulle sponde del Danubio». Nell’analizzare le cause della guerra, la cui esplosione ed espansione in tutta Europa era ormai inevitabile, le responsabilità dell’enorme macello di proletari non venivano individuate nel cosiddetto militarismo teutonico, presentato dalla propaganda democratica come una reminiscenza pre-borghese o pre ed anti democratica, ma nella intrinseca natura del capitalismo moderno. La guerra non era che uno dei tanti episodi dell’ingranaggio della storia contemporanea in cui è continuamente sacrificata la classe lavoratrice e sfruttata. Nell’articolo veniva ricordato come appena ieri avessero dovuto piangere le donne e i bambini dei ferrovieri scioperanti puniti e le famiglie dei giovani soldati richiamati a sostenere la triste opera di vendetta dello Stato-padrone; non molto tempo prima sulle piazze d’Italia si era assistito ai massacrati di proletari, così come a Pietroburgo venivano fucilati gli scioperanti. L’indomani, nella conflagrazione bellica che sarebbe scoppiata, migliaia e migliaia di giovani esistenze sarebbero state immolate nella guerra fratricida. Tutti questi fatti così diversi avevano però una comune origine nella ingorda ambizione delle classi dominanti e negli appetiti smodati ed irrefrenabili del capitalismo borghese di tutte le nazioni.
«E la classe operaia, che scrive a caratteri di sangue la triste storia della sua oppressione, che dà la carne da sfruttamento, da macello, da cannone, provvede alla sua difesa e prepara la sua riscossa fidando in una sola e irresistibile forza che ha a sua disposizione: la concorde solidarietà fraterna degli sfruttati che sorpassa tutte le barriere e tutti i confini estendendoli su tutto il mondo abitato. Di fronte alle incalzanti minacce del militarismo l’Internazionale socialista si dimostrerà non una pura espressione retorica ma un fatto ed un proposito formidabilmente reale» ("Il Socialista", 30 luglio 1914).
A quella data in Italia ancora non si era venuti a conoscenza dell’adesione dei partiti socialisti alle varie unioni sacre nazionali e si aspettava ansiosamente di conoscere l’entità della mobilitazione internazionale del proletariato contro la guerra, sotto la guida dei grandi partiti socialisti di Austria, Francia, Germania, Russia. Si sapeva che l’Internazionale socialista, malgrado le precedenti proclamazioni antimilitariste, non era stata in grado organizzare un’azione antimilitarista simultanea nei vari paesi d’Europa, «ciononostante – scriveva "Il Socialista" – dalle monche notizie di fonte non sospetta, e per la fiducia che dobbiamo avere per i nostri compagni socialisti delle altre nazioni, già provati in gravissimi cimenti, noi possiamo affermare che ovunque le forze del partito socialista si sono schierate senza esitazioni per la causa della pace» (6 agosto 1914).
I rivoluzionari italiani ribadivano, comunque, che il compito primario dell’Internazionale sarebbe stato quello di combattere senza mezzi termini ogni tipo di sentimentalismo nazionalista facendo leva sulla fratellanza mondiale degli oppressi; di riprendere ed intensificare la propaganda e la mobilitazione contro il militarismo; di diffondere tra le masse lavoratrici l’idea che la guerra, qualunque essa sia, rappresenta la rovina del proletariato.
In particolare, compito del proletariato italiano sarebbe stato quello di imporre al governo la neutralità assoluta ribadendo la propria avversione, in egual misura, sia ad una guerra con la Triplice Alleanza sia con la Triplice Intesa. E questo perché il proletariato avrebbe dovuto ben guardarsi dal cadere nel tranello della tesi dell’aggressore e dell’aggredito. Ognuna delle parti in conflitto, si teneva a chiarire, pescando nel labirinto inestricabile degli atti diplomatici e sfruttando i primi inevitabili incidenti di frontiera, veri o provocati, poteva dimostrare di essere vittima di aggressione. Solo i rapporti di produzione capitalistici erano i veri ed unici responsabili delle moderne guerre. «L’Austria borghese ha fatto guerra alla Serbia per ragioni che si collegano alla propria conservazione statale. La Germania borghese, solidale all’Austria, che è il suo ponte per l’espansione commerciale verso il Mediterraneo e verso l’Oriente, per l’intreccio delle alleanze esistenti si è trovata impegnata contro la Francia, la Russia e l’Inghilterra (...) La volontà ed il gesto del Kaiser sono cause estranee agli avvenimenti non meno del preteso Dio da lui invocato» ("Il Socialista", 13 agosto 1914).
Su questo argomento i nostri compagni non si stancheranno mai di tornare: «Il militarismo quale si è manifestato in questa guerra è un prodotto modernissimo del regime capitalistico, e si concilia con le più progredite democrazie con la più sviluppata ossatura economica industriale, mentre contrasta con gli istituti economici sociali e politici antecedenti allo stadio capitalistico. Infatti, il militarismo di altre epoche storiche, come le invasioni barbariche, le guerre dell’epoca feudale e delle monarchie autocratiche, ha caratteristiche del tutto diverse» ("Avanti!", 23 maggio 1917).
Al di là dei vari articoli teorici o di propaganda, ma basati su fatti contingenti od aspetti particolari della questione guerra, la sinistra rivoluzionaria del PSI sentì immediatamente necessità di presentare al proletariato, in un unico documento, le posizioni classiche del socialismo nei confronti della guerra ed, a partire dalla fine di ottobre 1914, sull’ "L’Avanguardia" apparve a puntate una trattazione che ci sentiamo di classificare come definitiva.
Proprio nel momento in cui il militarismo si scatenava con tutta la sua virulenza nel cuore della vecchia Europa, sembrava che gli argomenti della propaganda antimilitarista, sottoposti alla prova degli eventi materiali e storici, si fossero dimostrati inadeguati e segnassero la condanna della concezione, dottrinaria e tattica, del socialismo rivoluzionario, di quel socialismo che fino al giorno precedente aveva fatto propria e propagandata tra le masse operaie la tesi che alla guerra fra gli Stati si dovesse contrapporre la guerra fra le classi. In una parola sembrava che il socialismo avesse fatto bancarotta. Non pochi erano i compagni giunti a questa considerazione, molti che per lunghi anni erano stati considerati dei campioni dell’antimilitarismo e dirigenti rivoluzionari di primo piano. L’aspetto più tragico della cosa non era tanto il fatto che questi compagni avessero abbandonato il terreno di classe per aderire a quello nazionalista, ma il fatto che molti di essi ritenevano di non essere con ciò meno socialisti di prima. Ritenevano, o volevano dare ad intendere, di avere soltanto apportato alle loro antiche convinzioni quelle rettifiche che gli avvenimenti stessi avevano imposto.
Il proletariato europeo quindi non vide tanto e solo il nazionalismo inneggiare alla guerra, ma soprattutto la vide inneggiare e chiedere da parte dei "rivoluzionari", del socialismo, del sindacalismo, dell’anarchismo, in nome di un processo storico, beninteso, dal quale non avrebbe mancato di scaturire la società nuova. Soprattutto se la vittoria delle armi fosse arrisa ad una coalizione militare piuttosto che all’altra.
Mancava una linea comune nel valutare l’indirizzo di questa colossale crisi storica, perché alcuni riponevano queste aspettative nella vittoria della Triplice Intesa, altri in quella dei tedeschi, ma gli uni e gli altri, da ogni lembo di Europa incendiato o prossimo all’incendio, irridevano alla fossilizzazione dei pochi che restavano ancorati alla vecchia piattaforma del socialismo antimilitarista, pensando ed agendo di conseguenza. «Ebbene, a costo di essere tacciati di forcaioli, noi domandiamo la parola in difesa dell’antimilitarismo "vecchio stile". S’intende che non esponiamo casi personali di coscienza, né discutiamo quelli altrui. Analizziamo soltanto gli avvenimenti; e ci permettiamo di mostrare perché essi non hanno sorpreso né sconvolto il nostro pensiero socialista. Ostinazione cieca! Ma ostinazione che ha da prospettare, modestamente, degli argomenti» ("L’Avanguardia", 25 ottobre 1914).
L’adesione alla guerra da parte dei più rappresentativi partiti dell’Internazionale socialista significava, si chiedevano i nostri compagni, che tutta la propaganda antimilitarista era stata fatta appunto perché si era radicata la convinzione che non ci sarebbero più state guerre tra le grandi potenze di Europa? Quella della impossibilità di una guerra tra i paesi capitalistici europei era una ipotesi che era stata teorizzata dalla borghesia progressista, ma che veniva accettata e condivisa anche da alcuni esponenti, non sospetti, dell’antimilitarismo rivoluzionario. Tale ragionamento si basava sulla «mostruosa concezione borghese della pace armata, e nel concetto specificamente antisocialista che la civiltà procedesse in modo evolutivo e educativo aprendo gli occhi a governati e governanti sull’enorme errore e la evidente follia di una conflagrazione europea, dati i moderni mezzi di distruzione».
Poiché la borghesia dei diversi Stati non poteva non essere cosciente dell’enorme danno che dalla guerra le sarebbe derivato, senza eccezione per i vincitori, si pensava che le classi dominanti e i governi che ne sono l’espressione avrebbero ad ogni costo evitato lo scontro armato. Un altro aspetto della teoria era che la moderna economia capitalista aveva prodotto un così vasto intreccio degli scambi e dei rapporti internazionali, che la guerra avrebbe spezzati, causando la rovina economica di tutte le classi sociali. Si confidava quindi che le diverse borghesie non sarebbero corse al suicidio. «Ma la chiave del concetto socialista è invece che la classe dominante in regime capitalistico non può governare e reggere le forze che si sprigionano dagli attuali rapporti delle forme di produzione, e resta a sua volta vittima di certe contraddizioni inevitabili del regime economico, il quale non risponde alle esigenze della grande maggioranza degli uomini. Il grande quadro marxista della produzione capitalistica mette in luce questi contrasti e la impotenza della borghesia a dominarli».
Ebbene, parallelamente a questo processo, per il quale la classe dominante prepara, senza poterlo evitare, il suo suicidio storico, noi assistiamo ad un altro assurdo. Lo sviluppo dei mezzi di produzione nel campo economico, la diffusione di una cultura internazionale in quello intellettuale, la democratizzazione degli Stati in quello politico, invece di indurre il superamento del fenomeno guerra e il progressivo disarmo degli eserciti, conducono ad una intensificazione dei preparativi militari. Non è questa una sopravvivenza di oscuri tempi passati, un ritorno a secoli barbari, ma è piuttosto una caratteristica essenziale del regime sociale moderno, borghese, e democratico.
Quelle borghesie statali, le quali non possono in tempo di pace reggere le file della produzione e scongiurare le catastrofi finanziarie, così, anche se lo volessero, sono impotenti ad impedire lo scoppio delle guerre, che si presentano come la via di uscita unica e fatale da situazioni economico-politiche in cui gli Stati si trovano cacciati.
È, d’altra parte, così immenso il danno che le borghesie risentono
dalla guerra? Questa rappresenta certamente una distruzione di capitali,
ma alla borghesia, intesa come classe, più che il possesso materiale dei
capitali interessa la conservazione dei rapporti giuridici che le consentono
di vivere sul lavoro della grande maggioranza. Questi rapporti, interni
alle nazioni, consistono nel diritto di monopolizzare gli strumenti di
lavoro, che a loro volta sono frutto di altro lavoro della classe proletaria.
L’importante è che resti intatto il diritto di proprietà privata sui
mezzi di produzione: dopo la devastazione della guerra il proletariato
ricostruirà macchine, stabilimenti, e ricostituirà i capitali necessari
alla vita di tutti per farne nuovamente monopolio di pochi. Naturalmente,
non pochi borghesi, come individui, ma la borghesia, come classe, manterrà
il proprio dominio.
Dalla fine dell’Ottocento, dati i progressi della tecnica, i cannoni, gli esplosivi, le navi che venivano costruiti erano senza paragone più potenti degli antichi mezzi di offesa. Lo sviluppo dell’economia borghese, e la enorme importanza assunta dagli organismi statali, accentratori di tante vitali funzioni, permettevano a questi di investire nella preparazione bellica risorse finanziarie ignorate dai monarchi e condottieri di tutte le precedenti epoche. Inoltre, i vincoli con cui gli Stati moderni legano, sotto la vernice della civiltà democratica, i singoli individui, erano già allora divenuti così stretti che lo Stato poteva disporre di masse enormi di armati, sottraendo alle popolazioni fin l’ultimo uomo valido. Lo Stato militare disponeva di gran numero di soldati addestrati alle armi e veterani grazie alla coscrizione obbligatoria, introdotta, non a caso dalla Rivoluzione francese, con delibera proprio dalla Convenzione. La moderna rete di ferrovie permetteva agli Stati capitalistici di mobilitare e dislocare in poche ore masse enormi di uomini, che venivano arruolati, armati e portati al confine con celerità impressionante, a milioni e milioni.
Cosa potevano essere, a paragone, le guerre antiche? Gli eserciti erano molto meno numerosi, formati in gran parte, per necessità tecnica, di veterani, tutti volontari o mercenari, ed i reclutamenti forzati erano limitati, episodici e molto più difficili rispetto all’epoca moderna. Gran parte dei lavoratori veniva lasciata ai campi ed ai loro mestieri; fare il soldato era una professione o una libera decisione. Si ignoravano le carneficine in masse enormi delle battaglie combattute con le armi moderne.
Le stesse invasioni barbariche, che erano migrazioni di orde che si spostavano con le famiglie, gli armenti e gli strumenti del lavoro, avevano il fine esplicito di occupare terre fertili le quali, presto cessato l’intervento della forza bruta, venivano a produrre più ricchezza di prima, oltre a risultarne la felice fusione di popoli e conoscenze diverse. Nell’epoca feudale i baroni, in prima persona, vestivano il ferro e mettevano a rischio la vita, seguiti da poche migliaia di uomini d’armi, per cui la guerra era un mestiere coi rischi inerenti ad ogni mestiere. Al contrario, il soldato moderno, se anche sopravvive alla guerra vittoriosa, torna alla consueta vita di sfruttamento e di miseria, probabilmente aggravata, dopo aver lasciato a casa la famiglia proletaria nella totale indigenza.
Questo ragionamento serviva a dimostrare che la guerra imperialista,
alla quale il proletariato internazionale ed i partiti socialisti per la
prima volta si trovarono di fronte, non rappresentava, nel modo più assoluto,
un ritorno all’epoca barbara o feudale, ma rappresentava un fenomeno
storico proprio del capitalismo, che avveniva non malgrado la civiltà
borghese, ma appunto a causa del regime capitalistico, che cela
sotto la maschera della civiltà una profonda barbarie. La ineluttabilità
della guerra è strettamente connessa alla costituzione degli Stati moderni,
che in regime di democrazia politica mantengono la schiavitù economica
ed estendono la propria strapotenza, apparentemente basata sul consenso
di tutti, fino al punto che un pugno di ministri, esponenti della classe
dominante, può portare in 24 ore sulla linea del fuoco e della morte milioni
di uomini che non sanno dove e perché e contro chi saranno mandati: fatto
impressionante che raggiunge il massimo dell’arbitrio tiranno che nel
corso dei secoli ha oppresso moltitudini umane.
Il "fallimento del Socialismo"
L’unica forza che, all’interno di tutti i grandi Stati europei, avrebbe potuto contrastante il militarismo era costituita dal proletariato rivoluzionario e dalla sua organizzazione politica di classe: l’Internazionale socialista ed i partiti nazionali ad essa associati. L’atteggiamento di questi allo scoppio della guerra venne quindi da taluni considerato come la bancarotta teorica e pratica dell’internazionalismo proletario, del socialismo e della prospettiva marxista.
Da parte del socialismo rivoluzionario, al contrario, lo scoppio della guerra del 1914, veniva valutato certamente come una bancarotta, ma bancarotta del sogno di una Europa borghese, democratica e pacifista. Ma un insuccesso indiscutibile del socialismo si era verificato, nel senso che, oltre alla mancanza di ogni tentativo serio di opposizione, c’era stata quasi universalmente l’adesione dei partiti socialisti nazionali alla guerra.
I socialisti italiani, grazie anche alla particolare condizione di "spettatori", ebbero tempo e modo di discutere le cause della guerra; poterono tentare di cercarne i rimedi traducendo la teoria nella pratica, almeno in quella situazione sui generis costituita dal caso Italia.
Il militarismo costituisce l’avversario più temibile della propaganda rivoluzionaria proprio perché non si avvale della persuasione ma sulla costituzione di un ambiente forzato ed artificiale, nel quale i rapporti di vita sono completamente diversi da quelli dell’ambiente ordinario. Il lavoratore, fatto soldato, si trasforma fatalmente in un automa nelle mani della disciplina. Il minimo gesto di ribellione può essere pagato con la morte. La diserzione è praticamente impossibile. La rivolta collettiva esigerebbe un concerto ed una intesa irraggiungibili. D’altra parte, il militare, trasportato in paesi che non conosce, fra commilitoni che in gran parte vede per la prima volta, manca di ogni notizia che non provenga dai suoi capi. In pratica una sola alternativa di salvezza gli resta ed è quella di ubbidire e battersi contro il nemico nella speranza di sopravvivere.
Per i capi, i dirigenti del partito, la cosa è diversa. Ma anche essi sono vittime di una suggestione di ambiente. La loro maggior cultura ne fa molto spesso dei socialisti imperfetti. Hanno troppi legami intellettuali con le ideologie borghesi. Pochi di essi hanno ripudiato ogni sentimentalità patriottica e quasi tutti si sentono più che esponenti della classe proletaria rappresentanti della Nazione. Il loro programma di demolizione lascia troppo spesso posto ad un malinteso e generico senso di responsabilità sociale. Quindi, non appena i governi borghesi, qualunque sia stata la loro opera precedente alla guerra, assicurano di esservi trascinati loro malgrado per la difesa dei comuni interessi nazionali, e domandano la fiducia unanime del Paese, il deputato socialista tentenna e si lascia travolgere dalla corrente dell’entusiasmo. Infatti, in quel tragico 1914, i parlamenti socialisti niente fecero se non ratificare, senza discutere, la politica bestiale ed assassina dei governi.
È sufficiente che, in nome del Socialismo, si arrivi ad ammettere un solo tipo di guerra, che la classe dominante, che ha gli elementi della situazione e detiene i mezzi di informazione, avrà buon gioco nel presentare la sua guerra come rientrante in quella categoria e strappare l’adesione socialista; magari chiamandone i capi a partecipare al ministero per la difesa nazionale. In questo modo furono raggirati i socialisti francesi, austriaci, tedeschi, ecc. Come non ricordare che anche il rivoluzionario Mussolini, dalle colonne dell’"Avanti!" aveva proclamato: «Se l’Austria, ubriacata dalle sue eventuali vittorie, intendesse di perpetrare una "spedizione punitiva"’ attraverso il Veneto, allora è probabile che molti di quelli che oggi sono accusati di antipatriottismo saprebbero compiere il loro dovere» (3 agosto 1914).
Compito del Socialismo era di trarre da queste gravi sconfitte vitali insegnamenti: rimettere su più salde basi l’azione antimilitarista, rivedere in senso più rivoluzionario la sua azione parlamentare, così ricca fino ad allora di amare delusioni. Anziché adattarsi ad un socialismo nazionale, il proletariato avrebbe dovuto essere, in futuro, più apertamente antimilitarista e definire il suo atteggiamento di fronte al patriottismo, vecchia insidia dei suoi peggiori nemici. «Noi socialisti italiani - traendo di passaggio una prima conclusione - dovremo negare allo Stato anche la nostra solidarietà nella difesa nazionale, senza di che saremmo vittime di un altro colossale inganno pari a quello dell’impresa tripolina» ("L’Avanguardia", 25 ottobre 1914).
A questo riguardo chiarissimo era stato l’ordine del giorno approvato
a larga maggioranza dalla sezione di Napoli e pubblicato su "Il Socialista"
del 13 agosto 1914: «Dinanzi al divampare della guerra in Europa; ritenendo
che i lavoratori non hanno nessun interesse e nessun ideale da difendere
sulle frontiere nazionali, qualunque sia la motivazione che della guerra
dà l’astuta ed ipocrita diplomazia borghese; e che la responsabilità
del conflitto attuale risale in egual misura alla borghesia di tutti i
paesi, la quale si è lanciata da anni nella folle gara degli armamenti,
e che della esaltazione del militarismo si fa un mezzo, oltre che per le
cupidigie imperialistiche, anche per la sua difesa contro l’avanzare
delle classi proletarie; mentre si augura che i lavoratori europei si ridestino
dall’ubbriacatura che oggi li lancia gli uni contro gli altri verso incalcolabili
stragi, e si avvalgano delle armi impugnate per la difesa della causa del
proletariato internazionale; fa voti che il Partito Socialista e le organizzazioni
operaie osservino una direttiva di recisa opposizione a qualsiasi guerra
e conservino alla propria azione il carattere di classe e di partito, qualunque
sia la situazione prospettata dal governo borghese italiano dal punto di
vista dei cosidetti interessi nazionali».
La guerra che il Socialismo
dovrebbe ammettere
Contro la pregiudiziale dell’intransigenza antimilitarista propugnata
dai rivoluzionari, non pochi erano quei socialisti che sostenevano le seguenti
tesi:
1) I socialisti devono partecipare ad ogni guerra di difesa nazionale
quando si verifichi una aggressione straniera;
2) I socialisti non possono disinteressarsi delle guerre di nazionalità,
poiché la sistemazione di tutte le nazionalità entro i loro naturali
confini costituisce un presupposto necessario all’avvento del socialismo;
3) In una guerra che veda da un lato nazioni rette con ordinamento
democratico, dall’altro nazioni socialmente meno evolute, i socialisti
devono parteggiare per le prime contro le seconde.
La seconda e terza tesi comportano fino alla pressione nei confronti del governo del proprio Stato per l’intervento militare nel conflitto.
La posizione, condivisa da una larga fascia di sinistra pseudorivoluzionaria, è ben espressa da Gramsci: «I rivoluzionari (...) non devono accontentarsi della formula provvisoria "neutralità assoluta", ma devono trasformarla nell’altra "neutralità attiva e operante". Il che vuol dire ridare alla vita della nazione il suo genuino e schietto carattere di lotta di classe, in quanto la classe lavoratrice, obbligando la classe detentrice del potere ad assumere le sue responsabilità la obbliga a riconoscere che essa ha completamente fallito al suo scopo (...) Non un abbracciamento generale vuole quindi il Mussolini, non una fusione di tutti i partiti in un’unanimità nazionale, che allora la sua posizione sarebbe antisocialista (...) Né la posizione mussoliniana esclude (anzi lo presuppone) che il proletariato rinunzi al suo atteggiamento antagonistico e possa, dopo un fallimento o una dimostrata impotenza della classe dirigente, sbarazzarsi di questa e impadronirsi delle cose pubbliche».
Vediamo ora qual’era, invece, la posizione dei rivoluzionari marxisti. «Mentre le masse enormi di armati si scagliano le une contro le altre (...) se deve restare sterile il voto che sia riassicurata la pace, un solo augurio noi possiamo formulare in nome del socialismo, ed è quello che il proletariato, risvegliandosi dall’orrenda tragedia, comprenda che il sangue versato non sarà valso ad infrangere le sue catene, ma avrà esacerbato la sua oppressione ed il suo sfruttamento, e scriva nella storia del mondo, dopo l’ultima pagina cruenta della bestialità umana, la pagina radiosa della redenzione, in nome del Socialismo» ("Il socialista", 6 agosto 1914).
Gli argomenti che pretendevano far breccia nella solida concezione antimilitarista,
oltre ad ignorare totalmente la lettura marxista della storia moderna e
a tradire la tradizione politica del socialismo, si contraddicevano fra
loro in modo evidente. Se, per esempio, fosse stata la Francia ad aggredire
la Germania, per riprendere l’Alsazia-Lorena, i socialisti tedeschi avrebbero
dovuto difendere la patria o marciare contro di essa in nome del principio
di nazionalità e della democrazia? E nelle guerre coloniali che sono di
aggressione e di oppressione, ma di estensione della civiltà democratica,
che cosa devono fare i socialisti? Questi sofismi derivano da un errore
fondamentale: dal voler dirimere il torto dalla ragione in competizioni
che si risolvono non con elementi di giustizia, ma con la violenza bruta.
Inoltre, sono distinzioni che potrebbe fare solo chi disponesse di una
forza risolutiva e definitiva dei conflitti, non chi col suo intervento
potrebbe solo spostare le probabilità dei risultati della guerra, aumentandone
intanto sicuramente l’estensione e le conseguenze di odio e di revanche.
A parte il fatto che, da un punto di vista di classe, il proletariato
non ha alcun interesse da difendere nella patria e sulle frontiere nazionali,
la tesi rivoluzionaria di classe era, ed è, che in tutte le guerre l’offesa
e la difesa sono reciproche e spesso simultanee. L’aggressione è una
parola elastica. S’intende per essa la violazione dei confini? Ma - militarmente
- potrebbe essere imprudente attendere una tale eventualità; è necessario
prevenirla rompendo con una contro-invasione i tentativi nemici. S’intende
per aggressione la rottura dei rapporti diplomatici? Ma, come si vede dai
documenti ufficiali dei vari governi, a nessuno di loro mancano argomenti
per riversarne sull’altro la responsabilità della guerra. S’intende
per aggressione il preparare la guerra? Allora tutti gli Stati moderni
sono aggressori, poiché costruiscono senza posa navi e cannoni e continuamente
accrescono gli effettivi degli eserciti. Senza andare oltre, ne risulta
che l’adesione alla eventuale difesa nazionale è una cambiale in bianco
firmata dai socialisti nelle mani dei governi borghesi, che potranno farne
l’uso che credono. Per giustificare l’andata in Libia si disse che
dei turchi avevano disonorata una ragazza italiana. In ogni guerra si rinnova
la famosa favola del lupo e dell’agnello.
Secondo: la guerra di nazionalità
ed indipendenza
Le guerre moderne sono fatte dagli Stati e non dalle Nazioni. Le guerre si risolvono con il predominio dell’una o dell’altra potenza, che, ben poco preoccupata di pregiudiziali romantiche, allarga la sua influenza economica e politica sui popoli di ogni razza e colore. Senza andare più oltre, la sistemazione delle nazionalità è ormai divenuta irraggiungibile.
I moventi delle guerre sono ben altri. I loro risultati dipendono da coefficienti economico-militari e, siccome la ricchezza e la forza armata sono in mano degli Stati più solidamente costituti, le soluzioni dei problemi guerreschi sono statali e non nazionali. Il famoso principio di nazionalità è poi qualche cosa di inafferrabile. Meno pochi casi classici, le questioni di indipendenza nazionale sono controverse. Le ragioni storiche, geografiche, etnografiche autorizzano alle più contraddittorie soluzioni. Anche ammesse la concordia e la buona volontà di tutti gli Stati europei, neppure sarebbe possibile la famosa sistemazione che ci permetterebbe poi di adoperarci a buttar giù la borghesia.
Ed un problema così difficile da risolvere pacificamente lo si vorrebbe affidare alla imprevedibilità della guerra, alla sorte delle armi! Ma ogni guerra creerà o risusciterà almeno tanti problemi di irredentismo, quanti ne avrà distrutti. E le rivalità, le alleanze, s’intrecceranno sempre più assurde e complicate.
Compito del proletariato socialista è quello di rifiutarsi di partecipare a questo gioco sanguinoso, e dedicarsi immediatamente e senza pregiudiziali di sorta a preparare lo sforzo rivoluzionario.
Terminate che furono le guerre balcaniche contro la Turchia, le nazionalità "redente", si erano massacrate fra loro. Il Giappone si trovava alleato della Russia ed i boeri combattevano sotto la bandiera inglese. Nessuna guerra ormai poteva esser inquadrata nel vecchio cliché delle nazionalità. Ed era più logico il nazionalista che si poneva il problema del riscatto, del trionfo, e dell’egemonia di una nazionalità, anziché il socialistoide che voleva redimerle e conciliarle tutte, ma attraverso una serie di guerre sanguinose.
Nella Prima Guerra nazionalità ed irredentismo erano gli argomenti maggiormente sfruttati dalla propaganda militarista. Per quanto l’Italia fosse legata da trattato di alleanza con l’Austria, l’odio nazionale antiaustriaco veniva artatamente e costantemente alimentato. Ciò non tanto perché lo scontro armato con l’Austria fosse realmente inevitabile o perché il problema realmente esistesse, ma soprattutto perché con l’irredentismo si tentava di creare un sentimento di concordia nazionale all’interno della nazione e, allo stesso tempo, dividere i proletari delle varie etnie (italiani, austro-tedeschi, slavi) conviventi sul medesimo territorio e che, a dimostrazione che la lotta di classe non conosce limiti di razza, davano costantemente prove di vero internazionalismo proletario.
Di qui l’accusa costante rivolta ai dirigenti proletari di origine italiana di essere degli agenti al servizio del governo di Vienna. Sfortunatamente l’accusa non cadeva nel vuoto perché l’insinuazione di essere dei nemici della patria, degli anti-italiani, offendeva anche i più convinti socialisti, e molti di loro si sentivano in dovere di giustificare il loro operato quando la canea patriottica ricorreva a quel frasario roboante. Questa insicurezza faceva sì che gli attacchi rivolti dai dirigenti socialisti alle istituzioni borghesi evitassero di andare alla sostanza, limitandosi ad evidenziarne le contraddizioni e le manchevolezze. Si verificava il fatto che fossero proprio i dirigenti proletari ad accusare lo Stato borghese di essere poco patriottico, riconoscendo, di fatto, che un unico interesse potesse legare il proletariato e la nazione. «Ebbene – si leggeva su "L’Avanguardia" dell’11 gennaio 1914 - i socialisti devono invece proclamare altamente che le loro discussioni si svolgono libere da tutti i dogmi, e che le loro idee negatrici e demolitrici del mondo presente non tollerano restrizioni e non si impegnano a osservare limiti di sorta».
È vero, ci si chiedeva, che, prima di parlare di un’azione socialista internazionale, occorre risolvere tutti gli irredentismi e dare a tutti i popoli la sistemazione politica secondo le nazionalità? Il socialismo rivoluzionario non negava che le lotte di nazionalità e di razza avessero avuto nel passato una importanza di prim’ordine. Quando il regime feudale cedette il posto alla moderna borghesia, questa nel suo programma idealistico di classe rivoluzionaria scrisse a grandi caratteri il postulato delle rivendicazioni nazionali. La rivoluzione borghese appariva fatta nell’interesse dei popoli, anziché in quello di una nuova oligarchia, appunto perché ne risaltava il carattere politico anziché quello economico. Si credeva dai filosofi borghesi che ogni schiavitù sarebbe scomparsa con l’eliminazione del dominio di un popolo sull’altro e con l’eguaglianza politica dei cittadini dinanzi alla legge. Il socialismo ha poi dimostrato che vi è un altro motivo più sostanziale e profondo nel malessere delle masse, ed è l’oppressione di classe, anche nell’interno dei gruppi nazionali. Ma senza togliere al problema delle nazionalità la sua grande importanza storica, notiamo che una soluzione parziale, ma abbastanza estesa, si è già avuta, e si ebbe a mezzo di guerre-rivoluzioni, nell’epoca eroica della borghesia.
Ma ciò non toglieva che, ormai in tutta l’Europa, le lotte per l’indipendenza nazionale e la lotta della classe operaia per il socialismo, fossero antagoniche. Di più, dal giorno in cui appare la lotta sociale tra le classi, l’idea nazionale diviene un’arma di difesa della classe dominante contro la propaganda rivoluzionaria. «Le rivoluzioni nazionali sono avvenute in epoche storiche fra loro assai lontane per i diversi paesi, hanno avuto caratteri e fasi diversissime, non rappresentano un fatto universale e comune a quasi tutti i popoli civili (come, per esempio, la scomparsa del feudalesimo e delle monarchie assolute...) poiché in molte regioni l’autonomia nazionale non potrà mai realizzarsi per un complesso di ragioni storiche ed etnografiche. Il movimento operaio e socialista ha invece una grande uniformità di caratteri. Una comunanza di finalità innegabile, e la più spiccata tendenza ad internazionalizzarsi. Esso, con il suo avanzare, compensa le lacune lasciate dalla rivoluzione borghese, e tende a sorpassare le lotte fra le nazionalità conviventi, ed indirizzare le aspirazioni delle grandi masse su una via ben diversa da quella della liberazione nazionale. Accelerare questa sostituzione di finalità è un dovere, è la missione dei socialisti in ogni paese (...) Che importa all’operaio, reietto della società, se il sangue gli venga succhiato sotto gli auspici dello stemma dell’una o dell’altra dinastia che divide l’Isonzo, e che unisce... l’impiccagione?» ("L’Avanguardia", 11 gennaio 1914).
Con lo scoppio della guerra, anche all’interno del partito socialista si verificarono dei rigurgiti irredentisti. Tra le altre iniziative e prese di posizione fece scalpore la riunione che si tenne l’8 gennaio 1915 dalla minoranza della sezione di Milano, alla quale parteciparono alcuni deputati, consiglieri provinciali, assessori comunali, etc. e che, approvando il seguente ordine del giorno, di fatto diedero allo Stato italiano il nulla osta all’entrata in guerra: «Molti soci del partito, riuniti per discutere sull’atteggiamento del partito di fronte alla discussione internazionale ed alla eventualità di un conflitto, riaffermano la loro avversione alla guerra; convinti però che il principio di nazionalità non debba essere rinnegato, che il suo trionfo possa invece coincidere con quello della libertà, segnare una tappa verso l’internazionalismo; convinti che sia opera socialista non opporsi a che l’Italia possa ottenere migliori condizioni di sviluppo; dichiarano di non poter accettare un principio di neutralità assoluta che assuma i caratteri dell’Herveismo superato e rinnegato anche dai suoi massimi assertori».
A questi signori veniva risposto con non celato orgoglio che «l’accusa di dogmatismo è ormai diventata di moda. Incontriamo quasi ad ogni cantonata qualcuno che si diletta a definirci preti. Ed una larga esperienza ci indica ormai che quell’insulto ci viene scagliato ogni qualvolta il movimento socialista segue l’indirizzo buono» ("Avanti!", 24 gennaio 1915)
Non era certo l’accusa di herveismo che poteva distogliere i rivoluzionari dalla loro netta posizione dottrinaria e di battaglia ed era argomento meno che puerile quello di presentare la ferma posizione della neutralità assoluta come metodo tipicamente herveista. E, siccome l’herveismo era stato rinnegato dallo stesso Hervé, ciò avrebbe dimostrato il fallimento teorico della opposizione alla guerra. I rivoluzionari chiarivano innanzi tutto che nessuno di loro, tenacemente contrari alla guerra comunque essa fosse presentata (di difesa, democratica, di liberazione delle terre irredente, etc.), si era mai definito herveista. Hervé era, più che altro, un volgarizzatore ed un propagandista efficace, tanto che il suo nome, per qualche tempo, era stato abbinato ad un certo metodo d’azione antimilitarista. Non ad una dottrina. Ben altre basi aveva l’antimilitarismo socialista che non un brevetto del professore parigino!
In faccia a tutti gli scopritori dl principio di nazionalità veniva pubblicamente affermato: «Il Socialismo è la massima delle moderne eresie. Esso non deve perciò temere di rovesciare dai suoi altari nessuna deità. L’affermazione sentimentale che non si può rinnegare il sentimento di nazionalità, non può e non deve quindi trattenerci dal portare la nostra critica anche sulle ideologie che si basano sul concetto di nazione».
Le nazionalità sono dei fatti, in quanto esistono innegabili differenze di razza, di costumi, di tradizioni storiche e culturali nelle diverse regioni della terra. La divisione però del mondo abitato in raggruppamenti nazionali non è che un’astrazione, ed è impossibile, anche limitatamente a piccole zone, concepirla in maniera incontroversa. Vi concorrono troppi coefficienti geografici, etnici, storici, molte volte in aperto contrasto tra loro. Esiste invece la realtà delle divisioni e delle frontiere dei vari Stati, che hanno carattere più o meno nazionale, e possono risultare dallo smembramento di una o dall’aggruppamento di molte nazionalità, magari intrecciate in modo indissolubile.
La formulazione del concetto che ogni nazionalità deve costituire uno Stato a sé senza ingerenze straniere, può sembrare la migliore soluzione, nel senso etico, a chiunque s’ispiri a concetti astratti di giustizia e libertà, ma ha un valore puramente metafisico messa in rapporto allo svolgimento storico dei rapporti fra gli Stati e anche dei contrasti fra le varie classi sociali. Esaminando l’evoluzione storica del concetto di nazionalità, si poteva concludere che la sua universale realizzazione era semplicemente utopia; e perciò il frapporre tale postulato alla effettuazione del socialismo e, peggio ancora, all’impostarsi dell’azione di classe del proletariato, costituiva la condanna del socialismo all’inesistenza e del proletariato all’impotenza.
Nella storia moderna l’affermazione del principio di nazionalità coincide con le rivoluzioni democratiche, ma questo concetto fu, in quel processo, più un mezzo che un fine, servì a trascinare il popolo più che a redimerlo. Significativo è che la prima solenne affermazione del principio di nazionalità sia contenuta nella dichiarazione dei diritti dei coloni inglesi degli Stati Uniti, all’epoca della guerra d’indipendenza. Ma in quel caso non si trattava di una vera e propria guerra nazionale, poiché gli americani erano inglesi d’origine ed avevano distrutto la razza indigena dei pellirosse: fu una vertenza di carattere economico-commerciale con la madre patria che spinse il giovane e vigoroso capitalismo delle colonie a crearsi un proprio Stato indipendente.
Nella vecchia Europa le guerre e le rivoluzioni unitarie, dalle quali la borghesia attinse le energie per il suo sviluppo, ebbero in realtà caratteri nazionali. Ma gli Stati che ne ebbero origine, come gli altri già costituiti, nei loro metodi di governo e nella loro politica successiva mostrarono che la concezione dei diritti nazionali dei popoli non era stata per loro un programma, ma semplicemente la maschera di interessi dinastici e di classe.
L’esame dettagliato di tutta quanta l’opera degli Stati moderni nelle loro rivalità e nelle imprese coloniali sarebbe lungo, ma è facile concludere che le borghesie dominanti sono guidate, nella loro politica estera, solo dal famoso "sacro egoismo" nazionale, anzi statale, che non trova limite altro che nel cozzo potenziale o effettivo con altri egoismi meglio premuniti di armi. Unica legge in tali rapporti è la forza, non esistono regole etiche che disciplinino i rapporti tra Stati, come non esiste un diritto internazionale che valga a risolvere le loro controversie.
Così la borghesia italiana conciliava le tradizioni delle guerre d’indipendenza con il suo brigantaggio in Libia e nell’Egeo, quella tedesca, sorta dalla guerra di liberazione contro la dinastia degli Asburgo, si alleava a questa nella guerra contro la Serbia, ed esaltava, come cosa giusta e logica, l’annientamento dell’indipendenza belga.
Non occorreva molto per dimostrare che nella storia moderna è l’entità Stato che prevale sulla Nazione. Ed i rivoluzionari avrebbero dovuto vedere nell’organismo statale non il rappresentante della collettività nazionale, ma l’istituto conservativo dei privilegi delle minoranze capitalistiche.
Il principio delle autonomie nazionali non poteva attendere la sua attuazione dalla borghesia dominante e dagli Stati costituiti. La sua realizzazione avrebbe comportato delle rettifiche di frontiera che nessuno Stato avrebbe potuto accettare pacificamente. Il conseguimento quindi delle indipendenze nazionali non potrebbe aversi senza guerre. Ma queste, risolvendosi nella prevalenza del più forte, non possono che creare nuovi irredentismi più cocenti dei precedenti, quando anche pervengano a sopprimerli.
Da quanto sopra si può ben capire come l’accusa di scarso sentimento
d’italianità lasciasse del tutto indifferenti i nostri compagni ai quali
niente importava né dell’italianità come dell’austriacantismo, e
se qualche compagno mostrava di nutrire ancora sentimentalismi o scrupoli
del genere veniva esortato a liberarsene definitivamente ed a lavorare
per l’affermazione del socialismo.
Restava l’altra pretesa ragione di partecipazione socialista alla guerra: la necessità di favorire il trionfo delle nazioni più civili, più evolute, più democratiche, su quelle arretrate nel processo storico e sociale. Si invocava perciò la solita necessità di accelerare il compimento dell’evoluzione borghese, che era, ed ancor oggi è, l’argomento principe per ogni genere di accondiscendenza agli interessi statali ed imperialistici. Questa necessità di "esportare la democrazia" portava allora ad approvare senz’altro le guerre coloniali, come porta oggi ad applaudire a quelle di liberazione da tiranni. Secondo questo concetto, nella guerra italo-turca i socialisti italiani non avrebbero dovuto opporsi, perché l’Italia, democratica, era di fronte alla meno che feudale Turchia.
Concetto erroneo è quello che gli ordinamenti politici sui quali i vari Stati si reggono possano essere irradiati per mezzo delle armi. I regimi, invece, dipendono dalle condizioni economiche e sociali di ordine interno e dai rapporti delle classi sociali nell’ambito di ciascuno Stato, si modificano a seconda dello svolgersi delle lotte di classe e di partito ed i loro momenti risolutivi sono le rivoluzioni, le guerre civili.
Ma, nelle guerre esterne, gli Stati non si prendono il lusso di combattere per far prevalere sul mondo un principio più o meno accademico o filosofico di democrazia o di assolutismo. Nei loro rapporti internazionali gli Stati vivono in ambiente affatto amorale e si ispirano al massimo dell’egoismo. Gli Stati che impongono ai loro sudditi di uniformarsi a certe norme per rendere possibile la convivenza sociale, nelle relazioni internazionali non riconoscono alcuna legge, ed anche in tempo di pace usano verso gli altri Stati le armi dell’inganno, dell’astuzia, della corruzione, dello spionaggio; per ricorrere in tempo di guerra all’ultima ratio della violenza che non conosce legge.
Il cosiddetto diritto internazionale vige finché ad una nazione non conviene violarlo; applicarlo ai grandi Stati moderni è una utopia, poiché non v’è diritto ove manchi un’autorità dotata di forze superiori per imporne l’osservanza. Ogni governo non vede e non può vedere che i cinici interessi del proprio Stato e tende a conservarli e difenderli contro i nemici interni ed esterni. A qualunque partito o scuola filosofica appartenga, l’uomo di governo agisce sempre come un feroce conservatore. La libertà che esso concede ai sudditi è in relazione alla necessità di conservare l’equilibrio interno tra le forze economiche e politiche delle classi e dei partiti. Vi sono diverse scuole di governo, ma sono metodi diversi per assicurare la massima potenza allo Stato, ed in ultima analisi alla oligarchia economica che è da esso impersonata. Quindi i governi non tendono a far trionfare un principio all’interno di una nazione - e tanto meno a diffonderlo all’estero colle armi - ma solo a rafforzare lo Stato e a curarne nel modo migliore gli interessi. Si capisce che questa tendenza è celata sotto le belle frasi della civiltà, della democrazia, del progresso - o magari dell’ordine, della religione, del lealismo monarchico ecc. Lo scopo è però unico. Le crociate, le guerre napoleoniche, quelle della restaurazione, tutte le Sante Alleanze, erano ispirate da ben altri moventi, che le mistiche e filosofiche ragioni di propaganda universale.
Le nazioni moderne, rette a democrazia, nelle colonie opprimono e tiranneggiano in ragione della minor forza dei loro sudditi. L’Inghilterra, la Germania, la Francia, l’Italia, hanno tutte una vergognosa storia coloniale. E perciò non può attendersi la diffusione di certi principi moderni dal trionfo militare dei paesi in cui già sono diffusi, specialmente nell’epoca dell’imperialismo che non è più una epoca eroica come quella in cui la borghesia si formava e poteva ancora avere certe idealità.
D’altra parte il trionfo di un regime democratico rappresenta veramente una tappa verso il socialismo? Se i socialisti conseguenti, in base alle ragioni della nostra intransigenza, si rifiutavano di aiutare la democrazia borghese sia nei suoi conflitti interni contro le classi feudali ed i partiti clericali sia sul campo del suo ipotetico ulteriore sviluppo, perché avrebbero dovuto favorirne i successi militari, che rappresentano un modo assai discutibile di fare propaganda di principi, e assai poco suscettibile di fornire coefficienti di progresso?
Anzitutto dunque è estremamente falso che la democrazia possa essere diffusa nel mondo con le baionette, e, anche se ciò fosse stato possibile il socialismo rivoluzionario riteneva che già da molto tempo essa non meritasse più né le sue simpatie, né il suo appoggio. Il fenomeno avviene nel senso precisamente inverso. Le vittorie militari sono un coefficiente di ritorni politici. Dopo l’epopea napoleonica la Francia subisce la restaurazione. Dopo Sedan abbiamo invece la repubblica ed un tentativo socialista: la Comune. Ogni guerra, determinando la famosa unanimità nazionale dei partiti e delle classi, rialzando il prestigio delle istituzioni e dell’esercito, qualunque ne sia la causa e l’esito, è un passo indietro nelle nostre aspirazioni rivoluzionarie, il cui mezzo naturale è la lotta di classe.
I partiti socialisti avrebbero dovuto approfondire lo studio del processo storico borghese per rintracciare le condizioni del militarismo quale esso si manifestava nella guerra interimperialista: nel campo tecnico era necessario uno sviluppo grandioso dei mezzi di produzione industriali e una padronanza completa dei processi e cicli di trasformazione delle materie prime; nel campo economico indispensabile condizione della guerra era una grande potenza finanziaria dello Stato ed una vasta rete di proventi tributari; nel campo amministrativo un’organizzazione burocratica in piena efficienza per reclutare e mobilitare l’esercito, per disciplinare gli approvvigionamenti, i consumi e portare a un massimo di attività la macchina statale; in quello politico, infine, per la classe dominante è molto vantaggioso avere un regime democratico, ossia di illusoria libertà delle masse, perché esse accettino il peso enorme della guerra e credano questa imposta dagli interessi collettivi della Nazione.
Questa ultima considerazione trovava il suo fondamento nel fatto che l’intensificazione degli armamenti in tutti i paesi d’Europa era accompagnata dalla concessione di riforme democratiche atte a rendere accettabili alle masse i nuovi pesi. D’altra parte se confrontiamo l’ascensione delle cifre dei bilanci militari con quelle che sono indici dello sviluppo industriale e commerciale del capitalismo riscontriamo universali analogie. Ciò ad ulteriore dimostrazione che il militarismo non è un residuo d’altri tempi, bensì il prodotto del più moderno capitalismo e della sua caratteristica forma politica, la democrazia.
Queste erano le ragioni per le quali i socialisti rivoluzionari respingevano in modo radicale la tesi dell’antagonico duello tra democrazia e militarismo e non nutrivano preferenze per uno dei gruppi di Stati in conflitto. Gli Stati in guerra venivano considerati semplicemente come unità della stessa specie. Nel caso vi si fosse dovuta trovare una differenziazione era per affermare con sicurezza che facevano meglio la guerra gli Stati più moderni, industriali, borghesi, democratici: dunque l’efficienza militare della Germania non veniva ricollegata alle sopravvivenze di istituti medioevali e feudali, bensì a quanto essa aveva di più moderno, capitalistico e "democratico".
Questa tesi poteva essere smentita dagli avvenimenti? Tutt’altro.
«Il paese rivelatosi meno adatto alla guerra, quello che per primo si
è spezzato è stato la Russia, a cui mancavano o difettavano tutte quelle
condizioni che abbiamo accennate: tecnica industriale, economia capitalistica,
burocrazia moderna, democrazia politica. E lo Stato che più freddamente
ha calcolato le sue convenienze - quelle della sua classe capitalistica
- nella neutralità prima e poi nella guerra, è stata appunto la democratica
ed evoluta repubblica delle stelle» ("Avanti!", 23 maggio 1917).
La revance
temporalista del papato
Accanto alle "ragioni", diciamo, classiche, portate a favore dell’intervento in guerra, ossia le argomentazioni che abbiamo appena esaminato e facilmente confutato, gli interventisti non vollero dimenticarsi del pericolo che l’Italia avrebbe potuto correre nel caso della vittoria dell’Austria-Ungheria, e cioè quello della restaurazione dello Stato Pontificio, del potere temporale del papato.
La Triplice Alleanza aveva una connotazione anti-Francia, Stato che, fin dal 1861, aveva appoggiato le rivendicazioni pontificie ostili al Regno d’Italia che consideravano un’usurpazione sabauda. Al contrario l’Austria (paradossalmente, rappresentando la massima potenza cattolica) aveva riconosciuto in vari atteggiamenti il possesso all’Italia sabauda dei territori pontifici. Della condizione della Chiesa cattolica giù a Roma all’Austria non importava proprio nulla (ricordiamoci il grande imbarazzo di Francesco Giuseppe quando il Papa espresse il desiderio di rifugiarsi in Austria).
Malgrado ciò nel 1914 si cominciò a parlare di intese tra Santa Sede ed Imperi Centrali e di progetti tedeschi ed austriaci per la instaurazione, a guerra terminata di un Miniaturgebiet (dominio in miniatura) o di un Liliputkirkenstaat (Stato lillipuziano della Chiesa).
Anche se il governo italiano, nell’allearsi alla Triplice Intesa, volesse premunirsi impegnando i suoi alleati a non ammettere il papa al Congresso di Pace, a meno che l’Italia non acconsentisse (Art. 15 del Trattato di Londra del 27 giugno 1915), non si conoscono richieste da parte della Chiesa alla ricostituzione di uno Stato. Anzi, la protesta di rito formulata da Benedetto XV, dopo la sua elezione al soglio di Pietro, fu assai più blanda di quella espressa dai suoi predecessori. Mentre Leone XIII e Pio X avevano qualificato come "intollerabile" l’usurpazione del territorio pontificio, Benedetto XV si era limitato a definirla "anormale".
La propaganda interventista fece tuttavia largo uso di tale fantasima malgrado oltrepassasse il grado del ridicolo e malgrado che «alla sballata tesi delle rivendicazioni temporalistiche della Santa Sede non credano neanche i due o tre foglietti clandestini di sacrestia che hanno messa in giro la panzana (...) che fa il giro della stampa massonica e riappare negli articoli del Prof. Bandini e dell’on. Labriola, ultimi campioni dell’Italia laica... e sabauda (...) I guerrafondai cerchino argomenti un po’ meno imbecilli!» ("Il Socialista", 26 novembre 1914).
Fascismo e Movimento sindacale
Capitoli esposti nalle riunioni dal gennaio 2004 al maggio 2005.
(Continua dal numero scorso)
"Crisi dello Stato" ed epilogo del ciclo liberale
La borghesia italiana era consapevole della necessità di un sindacato come cinghia di trasmissione del proprio dominio di classe sul proletariato, ma allo stesso tempo aveva timore di fare la fine dell’apprendista stregone, travolto dalle forze che aveva messo in moto e che non sapeva più controllare.
Commenta Adolfo Pepe nella sua opera su Il sindacato nell’Italia del 900: «Se furono soprattutto economisti di scuola liberale a sostenere con vigore la necessità di liberalizzare i rapporti diretti tra le classi e le loro istituzioni senza badare eccessivamente alle conseguenze sul sistema giuridico e statale, furono soprattutto i giuristi a cogliere invece l’aspetto drammatico e dirompente connesso con l’affermazione e la diffusione capillare dell’organizzazione sindacale».
Scriveva Alfredo Rocco nel 1920: «Lo Stato è in crisi, lo Stato va, giorno per giorno, dissolvendosi in una moltitudine d’aggregati minori, partiti, associazioni, leghe, sindacati che lo vincolano, lo paralizzano, lo soffocano; lo Stato perde, con moto accelerato, uno per uno, gli attributi della sovranità. Questa crisi non è recente. Essa risale ai primi del secolo XX... Il professor Oreste Ranelletti, ricercando le cause di quest’impressionante decadenza dello Stato, lo rinveniva principalmente nel movimento sindacale».
Riguardo ad un altro giurista citato dal Rocco scrive il Pepe: «Santi Romano nella sua opera principale del 1918, "L’ordinamento giuridico", svolgeva un’analisi approfondita della crisi dello Stato moderno sulla base della scomposizione in corpi sociali: la formazione del sistema sindacale aveva alterato il principio stesso su cui si era costruito lo Stato moderno che, per timore di veder riprendere le antiche frammentazioni corporative, si era ristretto ad un’identificazione semplicistica con il principio d’autorità senza riuscire a prevedere una possibile articolazione delle sue istituzioni alle nuove forze sociali che emergevano dallo sviluppo economico. Questa rigidità aveva comportato che il "nuovo feudalesimo", come lo aveva definito Gaetano Mosca già nel 1905, rappresentato dalla costituzione dei sindacati, attaccasse e svuotasse progressivamente proprio la sovranità e l’autorità dello Stato e in qualche misura conducesse ad una trasformazione interna, ad un’estensione dell’ordine giuridico all’insieme della realtà sociale ed economica, prefigurando un nuovo assetto istituzionale. La società che si organizza e quindi le sue istituzioni, come appunto i sindacati, divenivano per ciò stesso titolari di diritto e lo Stato, non essendo più l’unica fonte del diritto, non aveva più poteri di legittimazione e di comando nei confronti delle istituzioni della società civile».
La mobilitazione industriale del periodo di guerra era già stata espressione di questa concezione corporativa, che non è certo un’invenzione del fascismo. Ancora il Pepe: «A conclusione del ciclo conflittuale del 1912-1913 i termini della questione sindacale e le relazioni tra forze sociali mutarono. Per ripristinare lo schema di relazioni triangolari occorrerà attendere la guerra e con lei l’introduzione di uno schema giuridico obbligatorio, quello della mobilitazione industriale, che costituirà un decisivo passo in avanti verso la istituzionalizzazione di questi rapporti». Ancora: «Ma anche a voler sottolineare eccessivamente come questo passaggio, pur importante, si realizzasse in condizioni di sospensione del diritto di sciopero e alla presenza di un’inconfutabile diminuzione dell’autonomia propositiva e negoziale del sindacato e di una trasformazione del patto contrattuale in norma attutiva obbligatoria con valore di legge o d’atto amministrativo, non è tuttavia senza significato che la mobilitazione industriale puntasse e coordinare la produzione e a disciplinare il conflitto sociale nelle relazioni industriali, sostituendo al meccanismo politico di mediazione tra soggetti autonomi, quale era lo schema formatosi negli anni precedenti, un meccanismo amministrativo di regolazione, fondato su una struttura permanente d’incontri triangolari tra imprenditori, rappresentanti dei lavoratori e delegati dello Stato».
Notevoli le l’affinità con le tesi del consiglismo ordinovista. Si
rilevava la insufficienza dello astratto schema liberale puro a rappresentare
e contenere le nuove forze economiche evocate dal capitalismo, che tendono
sempre più a sottomettere a sé la società intera ed anche lo Stato.
Con il corporativismo fascista si espresse il tentativo, illusorio, di
portare queste forze economiche, e le lotte della classe operaia, nel dominio
dello Stato. Con il corporativismo operaio, come preconizzato dal consiglismo
e dal sindacalismo, si cadeva nella utopia, simmetrica alla prima, di uno
Stato operaio sottomesso ad una non definibile "economia operaia". Ben
diversamente si articola la dialettica marxista nel descrivere la successione
dei modi di produzione. Gli organismi immediati della classe lavoratrice,
come consigli e sindacati, inevitabilmente divengono una realtà ingombrante
nella società borghese ed esprimono una sua necessaria funzione economica
e una forza reale. Ma il loro raggio di azione mai potrà debordare dai
limiti del capitalismo e del salariato, se non quando influenzati dal partito
comunista e questo ne può volgere le energie alla distruzione dello Stato
borghese, alla costituzione del potere politico proletario e nel senso
della trasformazione non mercantile dell’economia.
Benito Mussolini sul Popolo d’Italia del 22 novembre 1921 aveva scritto: «La nostra ripugnanza a costringerci ad un programma, pur con l’intesa che più d’un programma si tratta di semplici punti di vista, di riferimento e d’orientamento, la nostra posizione d’agnosticismo di fronte al regime, l’aver tolto dagli altri partiti ciò che ci piace e ci giova e l’aver respinto quello che non ci garba e ci nuoce, il deridere che facciamo di tutte le ipoteche socialistiche e comunistiche sul misterioso futuro, costituiscono altrettante documentazioni della nostra mentalità relativistica. Ci basta di avere, nel muoverci, un punto di riferimento: la nazione. Tutto il resto cammina da sé». È evidente, per l’ennesima volta, che attribuire al fascismo, e alla borghesia in generale, un’ideologia e una teoria degne di questo nome significa fargli un onore che non meritano.
Leggiamo ora Augusto De Marsanich su Critica fascista del 15
dicembre 1923: «Non c’è mai stato in tutta la storia d’Italia e forse
d’Europa un movimento politico come il nostro, il quale accomuna eresiarchi
e transfughi di tutte le idee e di tutti i partiti, uomini delle più disperate
formazioni mentali e delle più diverse e contrastanti categorie economiche».
Il fascismo viene definito un mosaico che solo il duce può dominare e
dirigere. Continua: «Ecco dunque delinearsi la massima efficienza del
partito fascista: la mancanza di un pensiero centrale organico e ben definito,
intorno a cui raccogliere tutte le file del movimento e dargli una base
e un’unità, così come il marxismo costituisce la base del socialismo,
e il mito della libertà e il diritto naturale e il liberismo economico
costituiscono quella del liberalismo. Che non esista una dottrina politica
fascista oltre l’idea della Nazione gerarchicamente ordinata, che non
è integralmente nostra, è dimostrato dalla molteplicità delle interpretazioni
che gli stessi fascisti danno del Fascismo».
Sottomissione allo Stato in pratica
Per contro, è interessante la posizione, ancora minoritaria, espressa da Dino Grandi sul Popolo d’Italia del 12 gennaio 1923: «Man mano che lo Stato si organizza e si rafforza e il Fascismo, con il ritmo misurato impostogli dal suo capo, entra, senza violenti trapassi, attraverso un processo di assorbimento osmotico in tutti i gangli nervosi dello Stato, i partiti scompaiono. Anche il nostro, il partito fascista, dovrà scomparire non appena il processo di assorbimento sarà ultimato (...) Il nostro partito scomparirà quando si sarà immedesimato nello Stato». Questo articolo è interessante perché mette in luce il vero rapporto tra partito fascista, e qualsiasi altro partito della borghesia, con lo Stato. Tale rapporto è necessariamente di subordinazione del partito allo Stato.
Ma esempio di effettiva subordinazione del Partito fascista allo Stato è la circolare del 5 gennaio 1927 di Mussolini ai prefetti sulla questione dei rapporti tra organi di governo e organi di partito. Leggiamo: «Là dove necessita, il prefetto deve eccitare e armonizzare l’attività del Partito nelle sue varie manifestazione. Ma resti ben chiaro per tutti che l’autorità non può essere condotta a "mezzadria", né sono tollerabili slittamenti di autorità o di responsabilità: l’autorità è una ed unitaria. Se così non sia, si ricade in piena disorganizzazione e disintegrazione dello Stato; si distrugge, cioè, uno dei dati basilari della dottrina fascista; si rinnega uno dei maggiori motivi di trionfo dell’azione fascista, che lottò, appunto, per dare consistenza, autorità, prestigio, forza allo Stato, per fare lo Stato uno e intangibile, come è e deve essere lo Stato fascista. Il Partito e le sue gerarchie, dalle più alte alle minori, non sono, a rivoluzione compiuta, che uno strumento consapevole della volontà dello Stato, tanto al centro quanto alla periferia».
Nello stesso senso va uno scritto di Giovanni Gentile sulla rivista Educazione Fascista del febbraio 1928: «L’innesto del Gran Consiglio, organo supremo del Partito Fascista, nella compagine dello Stato, verrà a risolvere definitivamente ogni dualismo tra Partito e Stato e ad istaurare così pienamente l’unità del regime. Il che avrà per conseguenza l’eliminazione di tutti i dualismi e di tutte le interferenze, e la realizzazione di una più ferma e rigida autorità dello Stato (...) Gerarchi e gregari del partito si avviano ad una nuova disciplina e ad una più difficile prova del loro fascismo, esaltatore dei valori morali e politici della nazione inquadrata nella legge dello Stato. Il Partito cessa d’essere Partito. Esso è già, virtualmente, e deve essere sempre, di fatto, la Nazione».
Altrettanto significativo nello stesso senso è il discorso tenuto da Mussolini ai suoi gerarchi a palazzo Venezia il 14 settembre 1929: «Il partito non è che una forza civile e volontaria agli ordini dello Stato (...) Il partito è l’organizzazione capillare del regime (...) Più che esercitare un’autorità, esso esercita un apostolato e con la sola presenza della sua massa inquadrata esso rappresenta l’elemento definito, caratterizzato, controllato, in mezzo al popolo. È il partito con la massa dei suoi gregari che dà all’autorità dello Stato il consenso volontario e l’apporto incalcolabile di una fede. Ogni dualismo di autorità e di gerarchia è scomparso (...) Se nel fascismo tutto è nello Stato, anche il partito non può sfuggire a tale inesorabile necessità, e deve quindi collaborare subordinatamente cogli organi dello Stato (...) Non bisogna confondere il Partito Nazionale Fascista, che è forza politica primordiale del regime, col regime, che questa forza politica e tutte le altre di varia natura convoglia, abbraccia, armonizza. Il regime non ha bisogno di aspettare altri tempi per dilatarsi fino al confine della nazione. Sta già divenendo, e lo strumento di questa dilatazione è il Partito con le sue masse».
Quando le odierne teste d’uovo, ci vengono a dire che il fascismo
si è imposto quando la sua ideologia si è impadronita dello Stato, non
possiamo fare a meno di metterci a ridere.
La posizione del fascismo riguardo alla funzione e alla stessa esistenza di uno o più sindacati fu tutt’altro che chiara ed univoca. Alle parole in po’ meno ondivaghe di Rocco ed altri se ne aggiungono di meno interessanti dal punto di vista di una minima coerenza teorica, ma più significative.
Continuiamo col Pepe: «La classe politica e una parte delle forze imprenditoriali colsero con prontezza la caduta della capacità di governo interno delle strutture confederali già a partire dalle lotte della primavera-estate del 1919, ma furono molto più lente e insicure nel tracciare l’ipotesi alternativa d’integrazione o sostituzione del sindacalismo confederale, al punto che lo stesso Mussolini sembrò nel 1923 ritenere possibile, a fini politici, recuperare un certo ruolo istituzionale e rappresentativo della Confederazione (...) In questo periodo, com’è noto, ci furono molte oscillazioni e molti atteggiamenti contraddittori all’interno del composito movimento sindacale e politico fascista, negli ambienti più lucidi e determinati del nazionalismo e del conservatorismo economico, nello stesso mondo politico e imprenditoriale».
La Commissione Presidenziale per lo studio delle Riforme costituzionali nel 1925 è così motivata nel decreto che la nomina: «Considerata la profonda trasformazione politica, morale ed economica avvenuta nella nazione per effetto della guerra vittoriosa; considerata la necessità di sviluppare e perfezionare con prudenti norme complementari le istituzioni giuridiche concernenti i rapporti fondamentali tra lo Stato e tutte le forze che esso deve contenere e garantire, e di assicurare per tal modo la pace, la potenza e il progresso nazionale...». Commenta il Pepe: «Le forze sociali dovevano essere non dirette e inquadrate bensì contenute e garantite nello Stato. Vi era in questo sintetizzato tutto il complesso processo d’erosione del potere e dell’autorità statale, e insieme il riconoscimento che esso era, a breve, immodificabile e si trattava solo di arginarlo, fissando allo Stato una funzione di gran contenitore amministrativo delle relazioni tra le forze sociali».
Detta Commissione, chiamata dei Diciotto, espresse una relazione di maggioranza, firmata Arias, in cui si affermava che: «Il riconoscimento aumenta il potere dei sindacati anziché moderarlo, a tutto danno e non a vantaggio dell’autorità statale», e quindi «sarebbe incapace di risolvere la crisi dello Stato». Il Pepe: «Il riconoscimento giuridico, seppure mai realizzato nello schema liberale, era stato uno dei punti elaborati nel ventennio precedente proprio da quelle componenti sindacali che, in qualche modo, aspiravano a veder riconosciuti e sanciti i diritti sindacali da parte dello Stato. Per questo si trattò di trovare la forma per bilanciare e contenere l’effetto di potere che tale atto conferiva al sindacato». Con le parole della relazione Arias diciamo che, una volta esclusa «l’attribuzione di carattere amministrativo e politico ai sindacati, cui spettano soltanto funzioni di diritto privato e di carattere professionale», era necessario «un nuovo ordinamento corporativo dello Stato». Per la Commissione, quindi, questo nuovo potere dei sindacati andava bilanciato «con una nuova organizzazione corporativa statale, intesa come istituzione fondamentale di diritto pubblico, sotto il vigile controllo dello Stato e con attribuzioni di carattere tecnico, economico e politico».
Continua il Pepe: «Negli anni venti il problema istituzionale del sindacato si avviò a soluzione in uno schema di particolare e diverso compromesso, nel quale il sindacato vide riconosciuto giuridicamente il suo ruolo e quello dei contratti collettivi, a completamento del processo iniziato alla metà degli anni dieci, ma non in un quadro di scambio politico entro le strutture liberali dello Stato né in uno schema di Stato sindacale, bensì in un contesto nel quale, esclusa la libertà associativa e il diritto di sciopero, lo Stato stesso si trasformava in un apparato d’intervento, di controllo, d’organizzazione dell’assetto corporativo e professionale nell’intento supremo di realizzare un governo diretto e organico delle masse».
Molto chiaro era al riguardo il Rocco che, nel già citato scritto La crisi dello Stato e i sindacati, affermava: «Perché lo Stato possa disciplinare in tal modo i sindacati, vietare lo sciopero, imporre le decisioni dei suoi magistrati – mi si obietterà – gli occorrerebbe una forza che oggi, evidentemente, non possiede. Questi elementi che lo hanno sopraffatto, organizzazioni sindacali e partiti, impediranno sempre che lo Stato si rafforzi, e riacquisti quei poteri che è andato da circa un secolo abbandonando. Saremo, pertanto, in un circolo vizioso, da cui non si esce. Io non sono così pessimista. Nello Stato moderno è grande la forza dell’opinione pubblica. Questa è ormai stanca della guerra incomposta che ciascun gruppo, nella realizzazione egoistica e cieca dei propri interessi particolari, va facendo contro tutti gli altri cittadini. Si diffonde la convinzione che solo da un rinvigorimento dell’autorità dello Stato, supremo tutore degli interessi di tutti, la situazione di tutti potrà uscire migliorata. Basta oggi che alcuni uomini di governo energici, appoggiati dall’opinione pubblica, osino rompere il cerchio in cui lo Stato viene soffocato dagli interessi particolaristici, per imporre anche ai sindacati l’autorità dello Stato. D’altro canto, com’è sempre accaduto nelle lotte contro il particolarismo, lo Stato può accompagnare la rivendicazione della sua autorità con concessioni: riconoscimento giuridico, aiuti economici, organizzazione di una rappresentanza politica dei sindacati, che valga a farli assorbire dallo Stato, ben più e meglio della miserabile politica di dedizione, cui lo Stato liberale, in progressivo disfacimento, si è andato acconciando in questi ultimi anni. Ma è necessario soprattutto questo: abbandonare la mentalità liberale e democratica, a cui unicamente si deve se il fenomeno sindacale, in sé innocuo, ha assunto le forme minacciose e distruttrici di cui tutti a giusta ragione si lagnano. Perché questo bisogna mettersi in mente. Non è male che ci siano i sindacati. È male che essi costituiscano uno Stato sopra lo Stato».
Ancora il Candeloro: «Mussolini mostrò in vari momenti di essere incline a venire incontro alle speranze dei dirigenti della CGdL di inserirsi stabilmente nella nuova situazione. Attraverso un accordo coi dirigenti confederali il duce avrebbe ottenuto infatti l’appoggio di un’organizzazione che, per quanto indebolita, disponeva di quadri esperti ed aveva ancora una grande influenza tra le masse. Al tempo stesso avrebbe dato un colpo ai vari partiti socialisti, in particolare a quello socialista unitario, dal quale i dirigenti confederali riformisti come D’Aragona e Baldesi avrebbero dovuto distaccarsi definitivamente. Per questo motivo Mussolini nel momento della costituzione del suo governo aveva pensato di offrire il portafoglio del lavoro a Baldesi, ma poi aveva dovuto rinunciare al proposito per l’ostilità dei fascisti intransigenti e dei nazionalisti. Per lo stesso motivo egli si mostrò propenso ad accogliere la proposta, fatta al principio di dicembre 1922 da D’Annunzio, di attuare l’unità sindacale mediante un accordo con la CGdL e ricevette il 2 dicembre i socialisti Baldesi e Zaniboni, i quali il 5 furono ricevuti a Gardone dal "comandante". Ma la notizia suscitò un’aspra reazione non solo di Rossoni, ma di tutto il fascismo intransigente. Ma i contatti tra Mussolini e i confederati non s’interruppero definitivamente, poiché furono ancora tenuti attraverso intermediari e furono ripresi dallo stesso Mussolini nel discorso alla Camera del 15 luglio. In quel discorso il duce disse che avrebbe volentieri affidato in ministero ai "rappresentanti diretti delle masse operaie organizzate" e accompagnò quest’affermazione con avances riservate verso alcuni dirigenti confederali. Infine il 24 luglio ricevette D’Aragona, Azimonti, Buozzi, Colombino e Cabrini, coi quali discusse problemi di legislazione e di politica sindacale. In questo colloquio, secondo quanto riferì D’Aragona alla fine d’agosto ad un convegno della Confederazione, Mussolini parlò di unità sindacale con l’organizzazione delle corporazioni fasciste ed ammise la possibilità che le masse si organizzassero in un partito del lavoro, di cui più volte si era parlato anche a proposito del precedente tentativo dannunziano».
Quanto alla CGdL, riferisce il Pepe: «D’Aragona, alla fine di gennaio 1921, interveniva alla Camera per denunciare la grave crisi di autorità dello Stato, e chiedeva un deciso impegno della magistratura e della polizia per garantire la legalità e la legittima attività delle masse organizzate sindacalmente e minacciava di ricorrere al blocco della produzione. Ma al Congresso un mese dopo era evidente lo sconcerto confederale di fronte al persistere e all’aggravarsi del metodo violento che la Confederazione giudicava di non poter fronteggiare con l’autodifesa militare e lanciava la linea dell’attestazione sul terreno della pacifica sopportazione di massa, spostando con ciò tutto il baricentro dell’azione di tutela del sindacato sul piano politico-parlamentare e dell’intervento delle autorità pubbliche ad iniziare dal Governo».
Il comportamento dei dirigenti confederali socialdemocratici conferma
ancora la continuità – programmatica, ideale e politica – fra
il riformismo e il fascismo.
Il patto di Palazzo Chigi e la Magistratura del Lavoro
È nel patto di palazzo Chigi, stretto fra l’organizzazione padronale e il sindacato fascista, che si evidenzia il concetto di collaborazione tra le classi e la persistenza di un’organizzazione sindacale accanto ad una padronale.
«Ordine del giorno approvato sotto la presidenza del Duce nella riunione
del dicembre 1923.
La Confederazione Generale dell’Industria Italiana e la Confederazione
Generale delle Corporazioni Fasciste,
- intendendo armonizzare la propria azione con le direttive del Governo
Nazionale, che ha ripetutamente dichiarato di ritenere la concorde volontà
di lavoro dei dirigenti delle industrie, dei tecnici e degli operai, come
il mezzo più sicuro per accrescere il benessere di tutte le classi e le
fortune della Nazione;
- riconoscendo la completa esattezza di questa concezione politica
e la necessità che essa sia attuata dalle forze produttive nazionali;
- dichiarano che la ricchezza del Paese, condizione prima della sua
forza politica, può rapidamente accrescersi e che i lavoratori e le aziende
possono evitare i danni e le perdite delle interruzioni lavorative, quando
la concordia tra i vari elementi della produzioni assicuri la continuità
e la tranquillità dello sviluppo industriale;
- affermano il principio che l’organizzazione sindacale non deve
basarsi sul criterio dell’irriducibile contrasto di interessi tra industriali
ed operai, ma ispirarsi alla necessità di stringere sempre più cordiali
rapporti tra i singoli datori di lavoro e lavoratori, e fra le loro organizzazioni
sindacali, cercando di assicurare a ciascuno degli elementi produttivi
le migliori condizioni per lo sviluppo delle rispettive funzioni, e di
più equi compensi per l’opera loro, il che rispecchia, anche nella stipulazione
di contratti di lavoro, lo spirito del sindacalismo nazionale,
- e decidono:
a) che la Confederazione dell’Industria e la Confederazione delle
Corporazioni fasciste intensifichino la loro opera diretta ad organizzare
rispettivamente gli industriali ed i lavoratori con reciproco proposito
di collaborazione;
b) di nominare una Commissione permanente di 5 membri per parte, la
quale provveda alla migliore attuazione dei concetti suesposti sia al centro,
sia alla periferia, collegando gli organi direttivi delle due Confederazioni
perché l’azione sindacale si svolga secondo le direttive segnate dal
Capo del Governo».
Altrettanto interessante è la riunione del Gran Consiglio del Fascismo dell’ottobre del 1925 sul riconoscimento giuridico dei sindacati e sulla Magistratura del Lavoro, dove il fenomeno sindacale viene definito «aspetto necessario ed insopprimibile dell’era modera».
Questi i punti fissati dal Gran Consiglio:
«1. Il Gran Consiglio Nazionale del Fascismo riconosce che il fenomeno sindacale – aspetto necessario ed insopprimibile della vita moderna – deve essere controllato dallo Stato ed inquadrato dallo Stato, e pertanto che i Sindacati sia di datori di lavoro che di lavoratori debbano essere legalmente riconosciuti e soggetti al controllo dello Stato, che il riconoscimento debba aver luogo per un solo Sindacato per ogni specie di impresa o categoria di lavoratori e precisamente per un solo Sindacato e fascista; che i sindacati legalmente di carattere nazionale, ch’è quanto dire riconosciuti, abbiano una legale rappresentanza di tutti gl’interessi appartenenti alla specie di imprese o categorie di lavoratori per cui sono costituiti, e che pertanto essi solo possono stipulare contratti collettivi di lavoro con effetto per tutti obbligatorio; che i sindacati non legalmente riconosciuti continuino a sussistere come associazioni di fatto, secondo le norme finora vigenti.
«2. Il Gran Consiglio ritiene inoltre che i tempi siano maturi per
far decidere i conflitti del lavoro da un organo giurisdizionale emanante
dallo Stato, che rappresenti gl’interessi generali della Nazione: la
Magistratura del Lavoro, forma più perfezionata del semplice arbitrato
obbligatorio e che, pertanto, sia opportuno introdurre nella nuova legislazione,
coi necessari temperamenti, la giurisdizione del Lavoro.
«Perciò la Magistratura del Lavoro avrà innanzi tutto il compito
di far osservare collettivamente i contratti collettivi del lavoro regolarmente
stipulati dai Sindacati legalmente riconosciuti, e ciò per tutte le categorie
di lavoratori, eccettuate soltanto quelle dipendenti dallo Stato e dagli
Enti pubblici.
«La Magistratura del Lavoro avrà inoltre il compito di stabilire
di autorità le nuove condizioni del lavoro per il tempo pel quale i contratti
di lavoro liberamente stabiliti sarebbero valevoli. E ciò limitatamente
alle imprese private, esercenti pubblici ed ai loro dipendenti. Per le
altre specie di imprese e le altre categorie di lavoratori sarà facoltativo
adire il Magistrato del Lavoro allo scopo di far stabilire nuove condizioni
di lavoro.
«La competenza del Magistrato avrà luogo quando vi sia l’adesione
delle due parti: imprenditori e lavoratori. Una volta stabilita la competenza
del Magistrato per il libero consenso delle due parti, la decisione sarà
per esse ugualmente obbligatoria. L’azione delegata ai Magistrati del
Lavoro sarà riservata esclusivamente ai Sindacati legalmente riconosciuti.
«3. Il Gran Consiglio ritiene che dove esiste la giurisdizione del
Magistrato del Lavoro, deve essere vietata l’autodifesa di classe, cioè
la serrata e lo sciopero, e che debba in ogni caso essere vietato lo sciopero
dei dipendenti dello Stato e degli altri enti pubblici. Pertanto, ritiene
che sia da punire come reato la serrata degli esercenti i servizi pubblici
e lo sciopero dei loro dipendenti; che sia da punire come reato la serrata
e gli scioperi che avvengono senza avere adìto consensualmente il Magistrato
del Lavoro nei casi in cui la sua giurisdizione è facoltativa; che sia
da punire sempre come reato lo sciopero politico, ossia lo sciopero avente
lo scopo di intimidire lo Stato e di coartarne la volontà».
Riguardo alla diffidenza degli industriali e degli stessi fascisti nei confronti dei sindacati fascisti, andiamo alla riunione del Gran Consiglio del Fascismo del 15 marzo 1923, sulla quale scrive Alberto Aquarone ne L’organizzazione dello Stato totalitario: «Di fronte alla preoccupazione, di cui si fece interprete in modo particolare il sottosegretario dell’Agricoltura Corgini, che il movimento sindacale fascista – specialmente attraverso la tendenza, che già andava manifestando, a monopolizzare per quanto possibile la rappresentanza dei lavoratori – potesse degenerare in una strumento di lotta di classe, Michele Bianchi sottolineò la garanzia costituita dalla "procedura introdotta del sindacalismo fascista, procedura assolutamente dittatoriale" (...) Come è noto – egli tenne a ricordare – il dirigente generale Rossoni è il fiduciario del Partito fascista e soltanto al suo giudizio è soggetta la scelta dei dirigenti locali. Non è dunque il dirigente che subisce la massa, ma è la massa che subisce il dirigente. Si può considerare che la lotta di classe, concepita marxisticamente, era voluta forse perché si posava prevalentemente sulla organizzazione di categorie distinte; mentre il sindacalismo fascista, in tempi non lontani potrà sperimentare un sistema di organizzazione a base di azienda, l’ambiente naturale per la collaborazione».
Concludeva Bianchi che «il fascismo non poteva disinteressarsi del sindacalismo (...) abbandonare il movimento sindacale avrebbe significato consegnarlo ineluttabilmente a mani estranee o peggio agli avversari». Anche Maurizio Meraviglia ribadì il carattere anticlassista dell’azione sindacale fascista, la quale non solo non costituiva un pericolo, ma giovava ai fini della politica del fascismo e alla creazione del nuovo Stato fortemente nazionale e tendeva a creare una nuova mentalità nelle varie classi partecipanti alla produzione. «Le quali classi – aggiungeva – nell’organizzazione del sindacalismo fascista acquisteranno la coscienza non soltanto delle divergenze, ma anche delle convergenze dei loro interessi e quindi della perfetta superabilità di quel conflitto che il socialismo proclama insanabile. D’altra parte la doppia organizzazione, cioè quella dei datori di lavoro e quella dei lavoratori, allontana ogni pericolo che anche il fascismo, per le pressioni e influenza delle organizzazioni sindacali, possa diventare un partito di classe».
Ma il sorgere dei sindacati fascisti si distingueva per lo scarso seguito e la scarsa simpatia da parte dei proletari ma anche da parte delle classi proprietarie. Ancora il Candeloro: «Non si deve dimenticare che l’azione repressiva antisindacale compiuta dai fascisti nel 1921-22, che ancora continuava contro gli organizzatori comunisti, socialisti, anarchici e cattolici, aveva stimolato l’ostilità o almeno la diffidenza delle masse verso gli organizzatori fascisti e al tempo stesso aveva incoraggiato la tracotanza di molti padroni, che respingevano ogni richiesta dei lavoratori, anche se avanzate da sindacalisti fascisti. Per questi motivi i sindacati fascisti, che non potevano sempre rassegnarsi alla volontà dei padroni, furono costretti in parecchi casi a guidare agitazioni e scioperi locali, che spesso non poterono portare a fondo per l’ostinata resistenza padronale e per interventi contrari delle autorità governative».
Anche da queste parole si evidenzia ciò che noi comunisti sosteniamo da sempre, e cioè che la lotta di classe è insopprimibile e che riemerge anche nelle situazioni più sfavorevoli. La pretesa utopistica della borghesia di cancellarla o di ingabbiarla, in maniera da renderla non più pericolosa in via definitiva, sarà inesorabilmente frustrata. Le gabbie legislative, istituzionali o d’altro tipo funzionano finche il proletariato è seduto o in ginocchio, ma quando è costretto ad alzarsi non c’è gabbia che tenga. Se è andata in pezzi quella prigione che era la Russia zarista, a maggior ragione potranno andare in pezzi quelle leggi anti-sciopero, chiamate di regolamentazione, partorite, ieri ed oggi, dagli azzeccagarbugli della borghesia.
Un esempio, anche se abbastanza isolato, della impossibilità di imbrigliare completamente la lotta di classe, fu lo sciopero dei metallurgici lombardi del marzo 1925, in occasione del quale i sindacalisti fascisti si misero alla testa delle rivendicazioni dei lavoratori con una azione non decisa dal centro, che aveva lo scopo di guadagnarsi la fiducia degli operai a scapito dei sindacati tradizionali. A cose fatte Il Popolo d’Italia, con un articolo di Corradini, non poté fare altro che avallare lo sciopero e rivendicarne i risultati.
I sindacati non fascisti furono di fatto esautorati con il nuovo Patto, di Palazzo Vidoni, del 2 ottobre 1925, tra la padronale Confederazione Generale dell’Industria e i sindacati fascisti, ora denominati Confederazione delle Corporazioni Fasciste. Commenta l’Aquarone: «In virtù di questo patto le due confederazioni si riconoscevano a vicenda la rappresentanza esclusiva rispettivamente degli industriali e delle maestranze lavoratrici; venivano di conseguenza abolite le commissioni interne, le cui funzioni erano demandate al locale sindacato fascista (...) Il patto di palazzo Vidoni ebbe conseguenze di vasta portata sul movimento sindacale fascista e sulla natura dei rapporti di lavoro durante il regime. Le corporazioni fasciste avevano sì ottenuto il monopolio della rappresentanza dei lavoratori industriali, ma ad un prezzo ben caro, quello cioè dell’abolizione delle commissioni interne, che sanciva l’estromissione del sindacato da qualsiasi potere di intervento e di iniziativa diretta nell’azienda». Ancora: «Non è un caso, del resto, se l’istituzione e il riconoscimento giuridico di organi sindacali di fabbrica divenne immediatamente una delle principali e più costanti rivendicazioni dello stesso sindacalismo fascista, che solo molto più tardi, quasi alla vigilia della seconda guerra mondiale, riuscì ad ottenere che fossero riconosciuti e tutelati i fiduciari di fabbrica, senza che peraltro questi avessero modo di modificare sensibilmente il rapporto di forze ormai radicatosi nelle aziende industriali a tutto vantaggio degli imprenditori».
Nel 1929 sulla stampa fascista ci fu una polemica a favore dei fiduciari di fabbrica, in quanto gli operai che svolgevano la mansione di fiduciari seppure dei sindacati fascisti venivano licenziati, come venivano spesso licenziati operai che ricoprivano cariche nei sindacati fascisti anche senza essere fiduciari. Il Lavoro fascista, organo della Confederazione dei Lavoratori dell’Industria, sostenne la necessità di istituire i fiduciari, ma la risposta negativa venne da Il Popolo d’Italia del 18 agosto 1929: «Il difetto fondamentale, insanabile, di quest’istituzione, consisteva nel fatto che essa rispondeva ad una mentalità essenzialmente classista, ad una concezione dei rapporti tra capitale e lavoro secondo gli antichi presupposti della lotta di classe. I fiduciari di fabbrica avrebbero creato un’atmosfera di prevenzione, di diffidenza, di sospetto, assolutamente in contrasto con quella collaborazione di classe, con quella armonia di capitale e lavoro, che è una delle maggiori realizzazioni del fascismo. Non risulta fino ad oggi che tale concezione, che sta alla base della Carta del Lavoro, sia fallita».
La Confederazione Generale del Lavoro si era sciolta nel gennaio 1927. Scrive Aquarone riguardo ai suoi dirigenti riformisti: «La rivista Problemi del Lavoro, organo dell’Associazione nazionale per lo studio dei problemi del lavoro, fu costituita a Milano nel marzo 1927 per impulso di Rigola e D’Aragona e di altri sindacalisti provenienti dalla CGdL, i quali, pur non aderendo al fascismo, sostenevano la necessità di non perdere i contatti con il sindacalismo, anche se fascista, e si proponevano di esercitare una critica costruttiva del nuovo ordinamento sindacale-corporativo che il fascismo stava erigendo. Pur avvertendo i forti limiti del sindacalismo fascista, i redattori di Problemi del lavoro, con in testa Rigola, tennero costantemente a sottolineare, specialmente all’inizio della loro attività, il grande progresso che secondo loro l’attuazione del sindacato unico legalmente riconosciuto aveva costituito rispetto alla pluralità sindacale, che in passato aveva gravemente compromesso la capacità di manovra dei sindacati di lavoratori in sede di contrattazione collettiva».
Scriveva inoltre Rigola: «Il proletariato è stato battuto ma non spogliato.
Nulla è stato mutato in ordine alla politica sociale ed alle garanzie
operaie, ed anzi la Carta del Lavoro – tuttoché contenga qualche disposizioni
meno accettabili – è stato un passo ardito sulla via delle riforme,
in quanto serve ad integrare e generalizzare quelle conquiste di classe
che, nel disinteressamento dello Stato, il sindacalismo libero non riusciva
ad assicurare se non ad un numero ristretto di lavoratori». Possiamo quindi
dire che Rigola concorda con noi sulla continuità tra sindacalismo riformista
e sindacalismo fascista.
Trattando di corporativismo fascista è necessario parlare di Edmondo Rossoni, ex sindacalista rivoluzionario, capo dei sindacati fascisti sorti nel gennaio 1922 con il nome di Confederazione Nazionale delle Corporazioni Sindacali. A riguardo scrive Giorgio Candeloro nella sua Storia dell’Italia moderna: «Rossoni, insieme ad una parte notevole dei dirigenti sindacali fascisti, si proponeva di fare della Confederazione delle Corporazioni l’unica organizzazione del lavoro mediante l’assorbimento o la soppressione della CGdL e della Cil». Ricordiamo che la CGdL nell’ottobre del 1922 si era dichiarata indipendente da qualsiasi partito e che la Cil era la Confederazione dei sindacati bianchi. «Rossoni, inoltre, avendo posto come fine supremo delle corporazioni lo sviluppo della produzione, pensava di poter realizzare prima o poi il cosiddetto sindacalismo integrale, cioè di inserire nelle corporazioni anche i datori di lavoro. In tal modo praticamente tutta la nazione avrebbe dovuto far parte di una sola organizzazione gerarchica e unitaria, la cui rappresentanza organica avrebbe dovuto sostituire in avvenire la rappresentanza politica tradizionale. Ma questo progetto utopistico, che fu la prima forma che assunse in teoria il corporativismo fascista, era respinto dalle organizzazioni padronali».
Passiamo ora a dare un’occhiata alla "Carta del lavoro" del 1926 che, pur non essendo certo quella novità che il regime celebrava, presenta alcuni punti interessanti.
Nella prima parte, intitolata "Lo Stato Corporativo", al punto III leggiamo: «L’organizzazione professionale o sindacale è libera. Ma solo il sindacato legalmente riconosciuto e sottoposto al controllo dello Stato ha il diritto di rappresentare legalmente tutta la categoria di datori di lavoro e di lavoratori per cui è costituito, di tutelarne, di fronte allo Stato e alle altre associazioni professionali, gli interessi; di stipulare contratti collettivi di lavoro obbligatori per tutti gli appartenenti alla categoria, di imporre loro contributi e di esercitare rispetto ad esso funzioni delegate di interesse pubblico». Da queste righe, più che una continuità, sembra di vedere una identità tra l’Italia di oggi e quella di 80 anni fa.
Veniamo al punto IV: «Nel contratto collettivo di lavoro trova la sua espressione concreta la solidarietà tra i vari fattori della produzione, mediante la conciliazione degli opposti interessi dei datori di lavoro e dei lavoratori e la loro subordinazione agli interessi superiori della produzione». Ritenere che sia possibile, tramite un contratto, trovare un punto di stabile equilibrio degli opposti interessi di classe è ormai considerato, da gran parte degli attuali liberali e democratici, un residuato socialdemocratico-fascista-stalinista: per essi i contratti collettivi sono superati, così la possibilità di "conciliazione" degli interessi.
Sicuramente più "attuali" sono i punti VII e IX: «Lo Stato corporativo considera l’iniziativa privata nel campo della produzione come lo strumento più efficace e più utile nell’interesse della Nazione». Ma, «L’intervento dello Stato nella produzione economica ha luogo soltanto quando manchi o sia insufficiente l’iniziativa privata o quando siano in giuoco interessi politici dello Stato. Tale intervento può assumere la forma del controllo, dell’incoraggiamento e della gestione diretta». Insomma si prefigurano le funzioni di uno Stato imprenditore, accanto all’imprenditoria privata, ancora in perfetta continuità quello dello Stato liberale e democratico post-fascista.
Abbiamo già detto della diffidenza degli industriali e degli agrari verso le Corporazioni, manifestatasi già nel 1929 al momento della costituzione del Consiglio Nazionale delle Corporazioni. È interessante la replica di Bottai al presidente della Confederazione dell’industria Benni, che aveva manifestato timori per la sorte dell’iniziativa privata. Dice Bottai: «Quando si è trattato di toccare l’economia individuale di altri settori di produttori, nel complesso della vita nazionale, nessuno si è scandalizzato. Io vorrei domandare, a coloro che oggi temono quest’avventurosa marcia, se si sono doluti quando lo Stato fascista, a traverso i suoi organi responsabili, con ordine secco, preciso e come un comando militare, toccava l’economia individuale dei lavoratori italiani, diminuendo i loro salari fino alla misura del 20 per cento. Nessuno si è scandalizzato perché la misura era necessaria. Nessuno vuol trasferire quest’esempio, perché diventerebbe straordinariamente pericoloso, in altri campi; ma quando si ha uno Stato, pronto ad intervenire, per difendere l’iniziativa individuale dell’imprenditore, per rafforzare la sua impresa, per dargli modo di marciare speditamente, non si ha il diritto di supporre che questo Stato voglia soffocare l’iniziativa, voglia soffocare lo spirito d’impresa».
La scarsa importanza del Consiglio delle corporazioni è evidenziata anche da Aquarone: «Il Consiglio nazionale delle corporazioni non fece in pratica che ben scarso uso del suo potere normativo in materia economica (...) Gli accordi in questo campo continuarono ad essere conclusi tra le categorie interessate in sede ministeriale (...) secondo i vecchi tradizionali sistemi. Anche l’attività economica del Consiglio fu in sostanza più fumo che arrosto. Tutta la politica economica svolta in quegli anni cruciali dal fascismo venne predisposta ed attuata prescindendo completamente dalle discussioni e dal parere del Consiglio nazionale delle corporazioni, che per esempio non fu neppure interpellato quando si trattò di creare organismi dell’importanza dell’IRI e dell’Istituto Mobiliare Italiano».
Al 2° convegno di studi corporativi svoltosi a Ferrara nel 1932 Ugo Spirito presentò una relazione che provocò vivaci polemiche tra i fascisti, basata sul concetto di corporazioni proprietarie e d’una dissoluzione del sindacalismo in un integrale corporativismo. Commenta Aquarone: «La soluzione del problema sociale si sarebbe trovata nella corporazione proprietaria, ossia nella grande società anonima trasformata in corporazione». In questo modo il capitale sarebbe passato dagli azionisti ai lavoratori, i quali sarebbero diventati proprietari della corporazione stessa per la parte loro spettante in conformità dei particolari gradi gerarchici. Scrisse molti anni dopo Ugo Spirito: «A Ferrara esplose la tesi comunista (...) Il problema era impostato ex novo in una concezione di carattere essenzialmente comunista. Essa importava la fine del sindacato, la sua risoluzione nella corporazione e la trasformazione di questa in organismo produttivo appartenente ai produttori (operai e tecnici). L’istituto politico s’identificava con quello economico (...) Le corporazioni erano concepite in rapporto organico tra di loro e il sistema delle corporazioni doveva identificarsi con lo Stato».
Queste tesi, tutt’altro che comuniste, anche quando attuate, prefigurerebbero un’economia ancora in tutto interna al modo di produzione capitalistico e sono piuttosto debitrici del sindacalismo rivoluzionario e del consiglismo
Comunque non ebbero successo. Scrisse Il Popolo d’Italia: «L’assemblea è stata unanime nel respingere le conclusioni del relatore, il quale aveva creduto di poter avvicinare, confondendoli, fascismo e bolscevismo». Allo stesso convegno di Ferrara a Spirito rispose Bottai. Aquarone: «Il terreno sul quale Bottai scese a polemizzare con maggior vigore con le tesi di Spirito non fu tanto quello della corporazione proprietaria, quanto quello del superamento del sindacato e dell’auspicata risoluzione di questo nella corporazione, al fine di realizzare il cosiddetto corporativismo integrale». Il sindacato, obiettò il ministro, aveva, nel sistema vigente dalle cui linee essenziali il fascismo non voleva e non doveva dipartirsi, «un valore niente affatto provvisorio, ma un valore fondamentale e definitivo». Proporre di sopprimerlo, significava evadere dall’ordinamento corporativo per indulgere a costruzioni arbitrarie e meramente astratte. D’altra parte, l’eliminazione dell’elemento sindacale dal corporativismo era impossibile, per la semplice ragione che esso era intimamente legato ad una concreta situazione sociale di cui bisognava prendere atto, e cioè la lotta di classe: «La lotta di classe è una realtà – ammonì Bottai – che noi non disconosciamo, ma che superiamo».
Quando poi furono istituite le corporazioni nel 1934 le cose non cambiarono nella sostanza, come testimonia questa riflessione di Bottai: «Allorché fu pubblicata la legge nr. 163 del 5 febbraio 1934 sulla "Costituzione e funzioni delle corporazioni", il corporativismo, inteso quale sistematica tendenza ad un ordine qualificato delle corporazioni, era finito. S’ebbero le corporazioni senza corporativismo».
Con la riforma delle corporazioni nel 1937 i consigli provinciali dell’economia corporativa divennero i consigli provinciale delle corporazioni, alla cui testa era un comitato di presidenza capeggiato del prefetto.
Quanto al corporativismo torniamo ad Aquarone: «Quando nel 1939 entrò in funzione la nuova Camera dei Fasci e delle Corporazioni, che avrebbe dovuto rappresentare il coronamento di tutta l’esperienza corporativa, la prova provata che l’ordinamento corporativo era uscito definitivamente dalla lunga fase di gestazione ed era ormai una realtà operante, pienamente compiuta in tutte le sue parti, appariva invece chiaro che il corporativismo non aveva mai neppure cominciato a funzionare, se non come impalcatura burocratica che lasciava ancora ampia possibilità di manovra alle tradizionali classi imprenditoriali, mentre irreggimentava con ben maggiore risolutezza di coazione le classi lavoratrici».
Uno dei capi del sindacalismo fascista, Pietro Capoferri, scrisse negli anni successivi: «Le corporazioni durante i loro pochi anni di vita non hanno mai, con l’indipendenza riconosciuta dalle stessi leggi, svolto le funzioni loro attribuite. L’esperimento corporativo vero e proprio non è stato realizzato». Ancora Aquarone: «Il sindacalismo fascista, per il solo fatto di esistere e di rappresentare, malgrado tutto, l’unica forma parzialmente efficace di protezione dei lavoratori nei confronti dei loro datori di lavoro, non poté non costituire uno dei canali principali attraverso i quali riuscì a sopravvivere la coesione interna e la coscienza di classe del proletariato italiano, al di là di tutte le suggestioni dell’interclassismo corporativo».
Per noi comunisti la lotta di classe è un fiume carsico, che può talora
sembrare dissolversi nel nulla, ma che necessariamente tornerà in superficie,
distruggendo gli argini rappresentati dai sindacati collaborazionisti,
statalisti o liberali che si proclamino.
Quando il marxismo sostiene che la borghesia ha da molto tempo cessato di fare scienza, prende semplicemente atto del fatto che la scienza, che come la verità è, può essere, rivoluzionaria, è uno strumento utile alla società di classe solo nella misura in cui è irreggimentata, controllata, sterilizzata, e all’occorrenza imbavagliata. A queste condizioni la borghesia può servirsene per ottenere o mantenere profitti, o per mantenere la sua dittatura sul resto della società, in particolare sul proletariato.
Ma se noi attribuiamo alla scienza la definizione di "conoscenza atta a migliorare le condizioni di vita del genere umano", allora tutti i pretesi progressi scientifici perdono il valore positivo che gli si vuole attribuire, apparendo per quello che sono, strumenti per arricchire i capitalisti e per tenere soggiogate le classi subalterne. Le stesse invenzioni che potrebbero rappresentare un arricchimento incommensurabile per l’umanità, vengono più spesso usate per approfondirne la miseria, soprattutto se si considera l’umanità intera, e non qualche centinaio di milioni di esseri privilegiati per essere nati in certe classi, a certe latitudini e entro certi confini. L’energia atomica potrebbe essere di estrema utilità, ma sappiamo bene quali disastri ha causato e quali e quanti potrebbe causarne in futuro; l’agricoltura è aumentata in produttività in maniera inimmaginabile qualche decennio fa, ma oggi c’è nel mondo più fame di un secolo fa; la medicina e la farmacia hanno fatto progressi strabilianti in poco più di un secolo, ma sono milioni quelli che muoiono ogni giorno per malattie in ogni angolo del mondo, e non solo per AIDS e malaria, ma anche per malattie che si ritenevano sconfitte, come la TBC. Ma potremmo anche citare esempi limitandoci alle aree di privilegio dell’occidente, per dimostrare al di là di ogni ragionevole dubbio la validità e l’attualità del concetto di "miseria crescente" che il marxismo da sempre attribuisce alla società capitalistica, a dispetto dell’apparente opulenza che questa ostenta in certi periodi della sua storia e in certi angoli del mondo.
A mantenere la sensazione che siamo in una società che produce scienza con la S maiuscola contribuiscono naturalmente gli scienziati, i giornalisti, i divulgatori di scienza, tutti inevitabilmente e necessariamente affittati da chi detiene i cordoni della borsa, lo Stato borghese e le grandi holding industriali, commerciali e finanziarie.
D’altronde non si può negare che tutto l’apparato di ricerca messo in moto per i fini che abbiamo menzionato, in modo più o meno efficiente (ai livelli più bassi sono i capitalismi più scalcinati e cialtroni, come quello italiano), generi una messe di dati e di informazioni che possono essere utili a comprendere meglio il mondo materiale, soprattutto se si dispone del metodo adatto. Non si dimentica che la visione marxista e materialista del mondo (il materialismo dialettico o, appunto, scientifico) non avrebbe potuto esistere se non vi fosse stata a disposizione una massa di dati che altri avevano raccolto ed elaborato prima di Marx. Quindi, pur non considerando scienza nella sua vera accezione quella che è scienza per la borghesia, non rifuggiamo dall’interessarci alle indagini, alle scoperte, alle invenzioni, alle teorie che i ricercatori producono in continuazione. Quando si riesce a separare il grano dal loglio, quando si riesce a salvare quanto di utile c’è in dati a volte sovrabbondanti, a volte mal raccolti, a volte volutamente falsati, non si manca di riscontrare sempre una conferma del nostro metodo e delle nostre conclusioni, e sempre il responso è che questa società è il peggio che possa esistere per l’uomo, il peggior cancro sociale che tutto distrugge e può distruggere.
Lo spunto per queste considerazioni ci è stato dato da un libro di divulgazione scientifica di buon livello, di Jared Diamond, "Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni".
Il libro prende le mosse da una domanda che potremmo definire fatidica: «Perché gli europei, e in subordine gli asiatici, hanno conquistato il mondo, e non è invece successo il contrario?». Il discorso è per noi interessante perché la risposta generale che l’autore dà è: «I destini dei popoli sono stati così diversi a causa delle differenze ambientali, non biologiche, tra i popoli medesimi». Una conclusione sufficientemente materialistica da stimolarci a proseguire nella lettura. Una lettura che è prodiga d’informazioni, spesso relativamente nuove e interessanti per i non addetti ai lavori anche se, al momento buono, carente di quel qualcosa che fa la differenza tra una scrittore borghese, anche "serio", e noi, comunisti.
Il testo è abbastanza completo, nel senso che prende in esame quanto si sa a partire dalla speciazione dell’uomo in Africa e dalla migrazione dei primi uomini verso l’Eurasia e poi su tutto il globo. Però le sorti successive dei gruppi umani nelle diverse situazioni si sono estremamente diversificate, per una serie di cause che il Diamond elenca: il clima, la geologia, l’orografia, le risorse marine, l’estensione, l’isolamento; e una ricca serie di esempi rende questa affermazione credibile. Anche la complessità sociale delle società primitive era condizionata dall’ambiente: in particolare, dalla abbondanza delle risorse e dalla numerosità della popolazione, ove le società più povere di risorse erano anche le più semplici.
Ebbene, gli europei successivamente sottomisero tutte le altre popolazioni. A cominciare dalle Americhe, in pochi decenni le popolazioni locali furono sconfitte e sterminate, grazie a una serie di vantaggi che gli invasori detenevano: la superiorità militare, basata su armi da fuoco, lame in acciaio e cavalleria; le epidemie di malattie infettive, endemiche in Eurasia; la tecnica navale; l’organizzazione politica degli Stati europei; la comunicazione scritta e una migliore trasmissione del sapere. In breve "armi, acciaio e malattie".
Ma resta la domanda iniziale: perché non è avvenuto il contrario, cosa ha impedito a Aztechi e Inca di avere gli strumenti per sbarcare in Europa e uccidere e infettare gli europei?
Un fattore di superiorità fondamentale tra culture e società è stata l’agricoltura. Il libro narra le motivazioni, i probabili meccanismi per cui in certi ambienti si è sviluppata la coltivazione delle piante e l’allevamento degli animali, come questa condizione umana si è o non si è diffusa, come si è sviluppata la domesticazione di piante e animali che ha ulteriormente incrementato la produttività dell’agricoltura. Le società agricole divengono presto popolose, si danno strutture statali, consentono l’esistenza di specialisti che possono migliorare tecnica e scienza e quindi essere ulteriore fattore di sviluppo; gli animali domestici consentono migliori trasporti, e possono essere usati in battaglia. Le malattie si moltiplicano perché trasmesse dagli animali con i quali gli uomini sono a contatto: nei millenni in quelle società si sviluppano resistenze a quegli agenti patogeni, resistenze che non esistono negli altri gruppi umani.
Non solo: anche dove l’agricoltura si sviluppa, il decorso è diverso da zona a zona; in alcuni casi l’inizio è precoce, come nella mezzaluna fertile e in Cina, ove l’inizio dell’agricoltura si fa datare a ben tredici-dodicimila anni fa, in altri l’agricoltura inizia con diverse migliaia di anni di ritardo (Nuova Guinea, Nordamerica), in altri ancora, come l’Australia, non esiste finché non vi viene importata dai colonizzatori europei; in altri, infine, come nelle società per altri versi sviluppate dell’America centrale e Meridionale (Aztechi, Maya, Inca) l’agricoltura si sviluppò molto lentamente, dopo un inizio contemporaneo a quello del Medio Oriente, per la scarsità di animali adatti da domesticare, e di specie vegetali adatte all’alimentazione, oltre che per ostacoli oggettivi alla trasmissione delle conoscenze. Anche questo fenomeno, di differenze relative allo sviluppo dell’agricoltura, è quindi spiegabile con differenze ambientali e di biodiversità: semplicemente alcune zone avevano di più da offrire. In altre ancora, come il libro spiega bene e con ricchezza di esempi, l’agricoltura semplicemente non poteva nascere spontaneamente. In altri casi vennero a mancare le motivazioni per passare dalla caccia-raccolta all’agricoltura.
Non basta che l’uomo acquisisca conoscenza, tecnica, cultura, se poi non riesce a diffonderle in modo da renderle permanenti. Quante civiltà sono sorte e scomparse, senza lasciare tracce tangibili per le generazioni successive, in modo che molte scoperte dovevano essere riconquistate dalle società avvenire? Basti pensare, senza andare troppo lontano, alle immense perdite nelle scienze, nell’arte, nella tecnica, che il mondo europeo ha sopportato con il medioevo, perdita solo in parte contenuta dal parallelo fiorire della civiltà indiana e araba. È ovvio che in tempi più antichi il disastro poteva essere ancora più totale e irrimediabile. Era quindi un fattore di progresso fondamentale la possibilità di trasmettere il livello culturale e tecnico acquisito, che aveva come conseguenza il diffondersi della civiltà agricola, e quindi la crescita della popolazione in quei comprensori.
Una interessante ipotesi, che contribuisce a spiegare perché l’agricoltura e la domesticazione degli animali si sono diffuse rapidamente in Eurasia, ma non in Africa e America, anche se in presenza di inizi promettenti di questa trasformazione delle società umane anche in quei continenti, attribuisce importanza all’orientamento degli assi dei continenti stessi. L’Eurasia è sviluppata prevalentemente secondo la direzione Est-Ovest, l’Africa e le Americhe secondo quella Nord-Sud. Questo fece sì che specie domesticate nella mezzaluna fertile potevano andare bene anche a molte migliaia di chilometri di distanza, mantenendosi a latitudini simili (Spagna, Iran, India, Cina), perché il clima non cambiava in modo drastico. Viceversa, una specie domesticata in un ambiente temperato non poteva avere successo in un ambiente tropicale, o in una zona semidesertica. Bisogna pensare che allora i semi e gli animali non viaggiavano in aereo: oggi si può portare un tipo di cipolla adatto al Mediterraneo in ambienti simili in Cile, Sudafrica, Australia, California; ma diecimila anni fa l’agricoltura si spostava lentamente, con i popoli che migravano a brevi salti, colonizzando nuovi territori ogni qualche generazione, o dando l’esempio a popoli vicini che gradualmente l’adottavano. Si calcola che dal Medio Oriente l’agricoltura si sia spostata verso l’Europa atlantica alla velocità di un chilometro l’anno. È ovvio che quando si incontravano ostacoli ambientali, tali da rendere impossibile la coltivazione delle piante disponibili (deserti, foreste tropicali, catene montuose troppo alte, mari), l’agricoltura si fermava lì. Così il Sahara ha isolato il Maghreb dall’Africa centrale, l’istmo di Panama e la foresta equatoriale hanno reso i contatti tra Messico e Perù radi e difficoltosi. La conseguenza è stata che in questi ultimi continenti l’agricoltura non è approdata in zone potenzialmente adatte, anche se ciò avrebbe potuto accadere con qualche altro migliaio di anni a disposizione.
Questo ragionamento può essere esteso dall’agricoltura a tutte le tecnologie, e a tutta la conoscenza. Tra queste un ruolo primario nello sviluppo era rivestito dalla comunicazione scritta, dall’alfabeto, che nacque (nelle sue varie forme) in Eurasia, ma non negli altri continenti, se non in forme rudimentali. Anche in questo campo il libro non manca di aggiornare in modo abbastanza esauriente.
Un’altra arma potentissima, con la quale gli europei erano attrezzati, era la resistenza a malattie che avevano ricevuto dalle numerose specie animali che avevano domesticato, e con le quali vivevano a stretto contatto. Nei millenni, tra gli eurasiatici si era sviluppata una resistenza alle malattie infettive, delle quali erano comunque portatori. Il contatto con le popolazioni di aree sino a quel momento isolate si risolse in disastri di cui poco si dice, ma che furono tremendi: nei due secoli successivi al 1492 la popolazione del Nuovo Mondo scomparve per il 95 per cento, e solo in minima parte uccisa dalla violenza, pur liberamente scatenata, dei conquistatori iberici e anglosassoni. Ancora nel 1837, per esempio, una tribù di indiani delle Grandi Pianure fu infettata dal vaiolo, e in poche settimane la popolazione passò da 2000 a 40 individui. La popolazione di Haiti era tutta scomparsa nel 1535, e fu successivamente rimpiazzata dagli schiavi importati dall’Africa. La felice popolazione delle Hawaii passò, grazie a sifilide, tubercolosi, tifo e altre malattie "minori", dal 1779 al 1853, dal mezzo milione che era a 84 mila. Quell’anno arrivò anche il vaiolo, che si portò via altri 10 mila hawaiani. Lo stesso avvenne nelle altre isole del Pacifico, in Sudafrica, in Australia, e così via. A dire il vero anche gli europei ebbero da soffrire per le malattie esotiche, anche se in misura minore: la colonizzazione dell’Africa fu ritardata proprio da questo fattore.
Quando però il testo affronta i livelli di organizzazione sociale, quando si tratta di valutare il rapporto tra tipo di società e sviluppo della potenza di rapina e di conquista, la fluidità dell’esposizione scompare, gli argomenti divengono reticenti, impacciati, carenti di chiarezza e di dati. Per l’autore l’umanità ha seguito una via evolutiva, da un punto di vista della struttura sociale, che va dalla banda di pochi individui, alla tribù, alla chefferie (che forse potremmo tradurre con orda con un certo grado di centralizzazione del comando), allo Stato. Gradualmente, in questa scala, si passa a popolazione sempre più numerosa, sempre più sedentaria, aumenta la centralizzazione del potere, l’importanza della religione, l’incidenza dell’agricoltura, la divisione del lavoro, la stratificazione sociale.
Salvo un fuggevole accenno alla schiavitù, le classi non sono nemmeno nominate, e di questa fantomatica stratificazione sociale si perde presto traccia. Ma lo Stato, perché sorge e si sviluppa negli ultimi 5-6000 anni? L’argomento è liquidato in pochissime pagine di storia degli Stati antichi, con poco comprensibili farfugliamenti sulla gestione del surplus produttivo, sulla necessità di leggi e di polizia, di opere pubbliche e di eserciti sempre più potenti. Ma la domanda resta: perché si è arrivati a una situazione che richiede la forma Stato? Scartata la visione aristotelica, e il Contratto Sociale di Rousseau, come pure la teoria "idraulica" secondo la quale lo Stato sarebbe sorto per coordinare grandi opere di bonifica, si osserva laconicamente che «la popolazione e la sua densità hanno qualcosa a che fare con la nascita degli Stati». Marx e il materialismo storico non sono mai citati, né la parola classe viene mai utilizzata. Eppure la verità è, è sempre stata, sotto gli occhi di tutti: di tutti quelli che vogliono vedere. Ma Marx è troppo difficile da confutare, meglio fare finta che non sia esistito.
La verità è che lo sviluppo delle forze produttive determina divisioni sempre più nette tra detentori della ricchezza, e quindi della forza, e strati che ne sono privi, che necessariamente ai primi sono asserviti; divisioni determinate dall’esistenza di un surplus produttivo, che in effetti deriva dalla nascita delle società agricole. Le divisioni devono essere rese permanenti per evitare che i meno abbienti si rivoltino periodicamente contro i potenti: di qui la creazione di gerarchie, di polizie, di caste sacerdotali, di leggi, che eternino il diritto a quella proprietà che le società tribali non conoscevano; una proprietà della quale la maggioranza della popolazione è "privata", da qui il senso del predicato. Tanto Lenin di "Stato e Rivoluzione": «Per Marx lo Stato è l’organo del dominio di classe, un organo di oppressione di una classe da parte di un’altra», quanto Engels de "L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato" avevano a che fare con gli stessi gaglioffi pennivendoli, e da snebbiare il quadro che i Diamond lasciano incompiuto.
Un’altra incompletezza del libro è la risposta che si sarebbe dovuto dare alla domanda: «Agli inizi del millennio appena trascorso la ricchezza, la tecnologia, anche agricola, la cultura, non erano talmente superiori in Europa da far prevedere una supremazia militare decisiva nei confronti degli amerindi e degli africani subsahariani. Perché qualche secolo dopo tale supremazia si è realizzata?». Diamond non arriva a formulare tale domanda, e quindi nemmeno dal rispondere, e anche dall’affrontare l’argomento. Ma noi sappiamo che la risposta l’ha data la nostra dottrina sin dal suo nascere, nella sua "carta costituzionale", il "Manifesto del Partito Comunista": è stata la nascita e lo sviluppo della borghesia ad esaltare quel vantaggio di nascita che l’Occidente aveva sul resto del mondo, e che ha stabilito una differenza anche nei confronti della altrimenti civilissima Asia. Un modo di produzione che possedeva in sé una furia creatrice, espansiva, conquistatrice e, col passare del tempo, anche sempre più distruttiva. Questo il libro, nella sua colpevole ritrosia, non lo dice.
È qui insomma che casca l’asino: mentre una descrizione dell’evoluzione dell’umanità da un punto di vista antropico, tecnico, culturale, artistico, anche biologico, non ha niente di sovversivo e può essere presentata con dovizia di particolari e con deduzioni anche condivisibili, come il libro indubbiamente fa, a un certo punto si presenta la questione della proprietà, delle classi, della famiglia, dello Stato, della forma di produzione, con tutte le sovrastrutture derivate: religione, leggi, costumi, e anche filosofia, arte, ecc., insomma, cultura. Si tratta di una presenza ingombrante, ma inevitabile: non si può non fare i conti con le classi e la loro origine, e con gli interessi contrapposti che le pongono in costante conflitto tra loro.
Chi vive scrivendo, comprensibilmente, è costretto a mistificare perché
il suo lavoro sia accettato. E il nostro ci è riuscito, visto che il libro
ha ottenuto il Pulitzer nel 1998. Ma è anche riuscito a dimostrare una
volta di più che la borghesia ha questa necessità di mistificare, oltre
che di produrre profitto, che trasforma la sua scienza in una non scienza,
in uno strumento della controrivoluzione. In un rapporto a una riunione
del 1977 affermavamo, d’altronde sulla scorta di una tradizione più
che secolare: «Neghiamo che la conoscenza possa essere neutrale
nel senso di indifferente agli interni processi e rapporti in cui si articola
la società divisa in classi, e dunque neghiamo alla borghesia, che mai
come oggi si manifesta parte egoista e cieca, sanguinaria e incapace di
porsi obiettivi umani generali, il diritto di presentarsi come l’autrice
e la dispensatrice della vera scienza. Per questo ci battiamo per la sua
fine violenta e per l’instaurazione del comunismo».
Un anno fa pubblicammo su questa rivista un documento del 1911 che portava il titolo inequivocabile: Il Proletariato Italo Austro-Ungarico contro il Militarismo e contro la Guerra.
Torniamo qui, acquisita ulteriore documentazione, a meglio presentare l’attività politica della quale il documento rappresentava la sintesi e le organizzazioni che a tale iniziativa aderivano. La ricerca sull’argomento ha chiarito come questo movimento internazionalista ed antimilitarista, pur tra evidenti difficoltà, ma anche debolezze teoriche, avesse, nel corso di anni veramente cruciali, svolto un’opera degna di essere annoverata tra le pagine migliori della esperienza del movimento proletario e socialista della Seconda Internazionale.
Questo lavoro di partito verrà in seguito presentato, in forma estesa, sulla nostra stampa.
* * *
La "Sezione Italiana Adriatica del Partito Operaio Socialista in Austria", come ufficialmente era denominato il Partito Socialista Istriano, rappresentò un’esperienza tutta particolare, dando prova in ogni occasione di autentico internazionalismo ed aderendo nel 1921 in modo massiccio al Partito Comunista d’Italia.
Tale spiccata caratteristica del socialismo istriano fu determinata, certamente, anche dalla sua peculiarità storico-geografica ed etnica, l’Istria rappresentando il punto di incontro di popolazioni, di diverse civiltà, correnti culturali e linguistiche. Ma soprattutto quella caratteristica era dovuta alla necessità di dover lottare contemporaneamente contro il potere centrale asburgico, il potere locale ed economico essenzialmente italiano, il clero ed una nascente borghesia slavi. Il suo sentimento di internazionalismo e di antimilitarismo di classe nasceva in modo naturale, spontaneo dalla condizione di fatto che quel proletariato multinazionale si trovava a vivere.
La "Lega Sociale-Democratica", sorta nel 1894, e che immediatamente aveva aderito al partito socialdemocratico di Austria, nel suo manifesto di presentazione, indirizzato al proletariato triestino ed istriano, dichiarava: «Compagni lavoratori! Per la comune sorte voi siete fratelli! Bando dunque ad ogni pregiudizio, originato da un inconsulto odio di razza, che vi tiene divisi, e quindi impotenti a conquistare i vostri diritti». Nel 1901 aveva definito il partito socialista come «l’avanguardia dell’esercito proletario, [che] risveglia il proletariato alla coscienza di classe, lo organizza, lo istruisce, lotta per assicurargli la forza (...) Il partito socialista non è un partito legalitario (...) la maggiore o minore resistenza delle classi avversarie determinerà l’uso dei mezzi legali o quello della violenza».
Fin dall’agosto 1904 la realizzazione di un coordinamento socialista internazionale italo/austro-ungarico era stata vivamente auspicata dai socialisti triestini, che con tutte le loro forze vi si prodigarono.
Il partito socialista istriano, per mezzo del Lavoratore di Trieste, il 2 agosto 1904 aveva avanzata la proposta di un incontro internazionale tra i rappresentanti dei partiti socialisti italiani ed austriaci; incontro dal quale sarebbe dovuta uscire la chiara condanna proletaria nei confronti dell’irredentismo e del militarismo ed una linea di azione comune.
Sia dalla parte austriaca sia da quella italiana vi fu risposta positiva alla proposta, però l’entusiasmo per il convegno internazionale non tardò a raffreddarsi e, dopo una serie tergiversazioni, il 9 ottobre l’Avanti! proponeva una riunione ristretta a cinque rappresentanti della Direzione e del gruppo parlamentare di ognuno dei due paesi e senza dare all’evento la men che minima pubblicità.
Del tutto opposto era il punto di vista dei socialisti di Trieste i quali, in una lettera ad Adler ricordavano come avessero proposto la maggiore partecipazione possibile sia dei compagni sia dei giornali socialisti, per far risaltare e propagandare al massimo il convegno, ed avevano ribadito che scopo dell’incontro avrebbe dovuto essere: «1) Manifestazione internazionale per la fratellanza e la pace; 2) stabilizzazione dei rapporti tra socialdemocratici italiani dei due paesi» (Pittoni ad Adler, 17 ottobre 1904).
Nel marzo del 1905 da Trieste fu riproposta, ancora una volta, l’iniziativa del convegno ed il 23 Il Lavoratore diramava l’invito alla conferenza fissandola a Trieste per la terza decade di aprile.
Pochi giorni mancavano alla data prevista per il convegno, quando da parte del PSI venne chiesto un ulteriore rinvio.
Di fronte a questo nuovo aggiornamento del defatigante impegno, fu data alle stampe e diffusa la relazione, già da troppo tempo preparata, che il socialista istriano, Valentino Pittoni, avrebbe dovuto esporre al convegno internazionale. Il documento è qui sotto riprodotto.
Si tratta, beninteso, di una relazione che non esce dai limiti teorici della Seconda Internazionale: necessità di un programma minimo, funzione progressiva della democrazia, sopravvalutazione della funzione del suffragio universale e dell’elevazione della coltura proletaria ai fini del socialismo.
Viene abbracciata pure la tesi del tutto erronea (ma non controrivoluzionaria in sé e peraltro condivisa da più di una delle frange del socialismo rivoluzionario) che una guerra fra gli Stati europei fosse impossibile: «Si sa che la guerra austro-italiana è un’ipotesi fantastica, al pari della guerra generale europea, poiché il capitalismo in Europa ha ormai superato la fase della guerra guerreggiata; ma a Vienna e a Roma importa alle classi dominanti creare e mantenere lo stato d’animo favorevole alla preparazione della guerra, perché soltanto con esso il militarismo (l’estremo puntello della società borghese) può vivere e fiorire, soltanto con esso si possono mantenere quegli eserciti i quali (...) devono servire non solo contro i nemici esterni, ma anche contro il nemico interno, il proletariato socialista, in marcia verso l’avvenire».
Ma, nello stesso tempo, la relazione affronta tutte le maggiori questioni poste dalle necessità dell’ora al movimento internazionale socialista.
Ci si scaglia in maniera chiara e tagliente contro l’irredentismo, soprattutto negando che nelle regioni adriatiche l’irredentismo potesse accampare tradizioni storiche o di massa. Del pari viene condannato il movimento irredentista in Italia che incoraggia il militarismo austriaco, gli ambienti propugnatori dell’espansionismo balcanico, e quindi offre un altro motivo di rottura tra i due paesi. L’irredentismo, afferma il socialista istriano, altro non rappresenta che un comodo pretesto per sviare il proletariato dai propri interessi di classe, si tratta di un vero e proprio strumento di narcosi politica. Quindi, alla parola d’ordine dello «irredentismo borghese», viene opposta quella dello «irredentismo proletario, che consiste nel coalizzare i popoli oppressi contro il comune oppressore per condurli all’emancipazione finale».
Vengono pure ridicolizzati i capi dell’irredentismo che, in Italia si presentavano come vittime e martiri della persecuzione poliziesca austriaca, mentre nei territori sottoposti alla corona asburgica si distinguevano per «piegare compiacenti la schiena al governo, accettare spesso ordini e decorazioni austriache, seguire processioni religiose e cortei patriottici, assistere a feste dinastiche, rifuggire timorosi da ogni manifestazione che possa, anche lontanamente, ricordare i loro presunti ideali».
Si potrebbe pensare che una simile descrizione derivi da risentimento e polemica nei confronti degli avversari politici, ma che, in effetti, fosse esagerata. Invece, a conferma della pusillanimità dei capi dell’irredentismo italiano, del loro opportunismo, della loro compiacente sottomissione all’Austria, sotto il cui dominio fiorivano i loro interessi economici, a conferma di questo vogliamo riportare la descrizione di due capi irredentisti italiani di Zara, come si legge in un rapporto del 22 febbraio 1916, redatto dalla polizia austriaca: «Sapeva di fronte al pubblico restar sempre nel retroscena, non si esponeva in nessuna maniera, anzi di fronte alle persone dell’autorità, al contrario, si mostrava lealissimo patriota (...) Cercava e trovava relazioni amichevoli presso autorevoli personalità politiche di Vienna dei vari Ministeri, ed in ogni dove lo si accoglieva di buon grado come persona leale e bene addentro nelle cose politiche». Parlando di altro irredentista di "spicco" lo stesso rapporto dice: «In apparenza clericale (...) seppe guadagnarsi la fiducia del capo della Presidenza Luogotenenziale e di altre persone influenti della Luogotenenza, e ciò valendosi della finzione di essere aderente del Dott. Bugatto, noto patriota clericale di Gorizia (...) Egli faceva comunicazioni confidenziali su persone e pretesi piani del partito radicale, si offriva sempre e si rendeva obbligate le autorità per i suoi servizi» (L’Irredentismo Italiano in Dalmazia secondo i Documenti Segreti della Polizia austriaca, 1924).
* * *
Il testo che abbiamo pubblicato nel numero del dicembre scorso di questa rivista si riferisce ad una successiva nuova proposta, nel 1911, dai socialisti istriani per un analogo convegno internazionale antimilitarista.
A tal fine il 3 febbraio 1911 si era tenuta, a Trieste, una riunione preliminare, con la partecipazione di delegati italiani, austriaci, socialisti italiani d’Austria (trentini ed istriani), ungheresi, un cèco, un polacco, uno slavo.
L’argomento all’ordine del giorno era stato la guerra e l’antimilitarismo proletario, e la riunione era terminata con l’approvazione del seguente ordine del giorno: «Nei giorni del 9 e 10 aprile p.v. si terrà in Italia un convegno delle rappresentanze socialiste e proletarie d’Italia, d’Austria e d’Ungheria per tutte le intese necessarie all’azione comune e parallela che dovrà svolgersi nei tre paesi sempre più attivamente per prevenire ogni pericolo di guerra e per giungere alla diminuzione degli armamenti dall’una e dall’altra parte. Al convegno assisterà anche una rappresentanza dell’Ufficio Internazionale Socialista di Bruxelles. Durante il convegno che si terrà a Roma o a Firenze, secondo che sembrerà più opportuno ai compagni del Regno [d’Italia – n.d.r.], si farà una manifestazione pubblica con intervento delle suaccennate rappresentanze nei tre paesi. Contemporaneamente alla suddetta manifestazione, verranno convocati altri comizi pubblici, al medesimo scopo e per adesione al convegno, in tutte le città d’Italia, d’Austria e d’Ungheria. Fu pure deliberata l’istituzione di un Ufficio Permanente d’Informazioni allo scopo di facilitare lo svolgimento concorde dellantimilitarista dei socialisti nei tre paesi».
Ma al convegno non si sarebbe mai arrivati: né a Roma, né a Firenze. Di varia natura e, soprattutto, non molto onorevoli furono le motivazioni delle procrastinazioni. Già l’Avanti! del 31 marzo aveva prospettato l’eventualità che la data dell’incontro internazionale venisse spostata. Il 6 aprile la direzione del PSI annunciava che il convegno internazionale si sarebbe tenuto nei primi giorni di luglio, dopo le elezioni in Austria.
Inutile dire che non ebbe luogo: da un rinvio all’altro fece a tempo a scoppiare la guerra del 1914, ed i partiti socialisti, arresisi all’evidenza dei fatti, consegnarono il proletariato alle rispettive borghesie nazionali per destinarlo a quello che fu il primo macello mondiale.
La intransigente coerenza al programma del socialismo del partito
istriano gli permise di superare positivamente anche la drammatica prova
del conflitto mondiale. Ciò che determinò l’odio vendicativo della
borghesia nazionalista italiana ed il risentimento della socialdemocrazia
austriaca, la quale aveva abbracciato la causa nazionale e si arrogava
il diritto di accusare i socialisti istriani di essersi consegnati alla
dipendenza intellettuale dell’Intesa.
SOCIALISMO, NAZIONALISMO, IRREDENTISMO NELLE PROVINCIE
ADRIATICHE ORIENTALI
RELAZIONE PER IL CONVEGNO DI TRIESTE DEI SOCIALISTI ISTRIANI
23 aprile 1905
Noi ci proponiamo d’esporre le condizioni d’ambiente, entro le quali è nato e si muove il partito socialista nella nostra regione; perché da esse riteniamo abbiano la documentazione e giustificazione migliore il programma e il pensiero del partito nella questione nazionale. Da questo pensiero converrà prender le mosse nella discussione che chiama a raccolta qui a Trieste i rappresentanti dei socialisti d’Italia e d’Austria.
È indispensabile premettere un rapidissimo cenno sulle condizioni generali del proletariato socialista nei paesi soggetti agli Asburgo.
Quando, nel 1897, il proletariato si riorganizzò in partito politico, sulla base dei gruppi nazionali, accadde un episodio curioso e che delinea con suggestiva evidenza le specialissime condizioni di questo stato. Si trattava di dare al nuovo partito la designazione geografica, assomiglianza degli altri partiti socialisti: italiani, tedeschi, francesi, ecc., che prendono il nome dal paese cui appartengono. Ebbene, una generale riluttanza si fece palese all’idea di appiccicare alla parola "socialista" la parola "austriaco", tanto inconciliabili apparvero i due vocaboli, tanto la denominazione dello stato sonava e suona come l’antitesi più stridente di tutto ciò che muove e favorisce il pensiero e lo spirito socialista. Il nostro partito si chiamò allora "partito operaio socialista in Austria", per accentuare subito ch’esso si considerava completamente estraneo, anzi fatalmente ostile allo stato, e ciò non soltanto nella misura comune al socialismo di tutto il mondo, in quanto gli stati attuali rappresentano ancora dappertutto l’organizzazione di interessi antitetici a quelli proletari, ma anche causa la struttura peculiare di questo stato, costruito in maniera da rendere impossibile il verificarsi delle condizioni di vita e di ambiente che altrove sono invece derivazioni spontanee e immancabili della stessa civiltà borghese.
Diciamo subito (benché forse ciò sia sottinteso) che queste condizioni dell’Austria, particolarmente infauste all’evolversi delle nostre idealità, non scendono punto come necessità storica dal fatto che, nei paesi da noi abitati, si urtano, si incrociano, si frastagliano stirpi diverse di razza e di lingua. Gli esempi di associazioni statali piccole e grandi, in cui la molteplicità dei popoli conviventi nello stesso territorio non li sequestra dal progresso umano, ma anzi serve loro di pungolo a progredire, abbondano nel mondo, dalla Svizzera al Belgio, alla repubblica nord-americana.
Perché invece i popoli in Austria sono dannati al cannibalismo delle lotte di razza, le quali costituiscono poi la causa massima, la ragione precipua delle forme arretrate dello stato, delle sopravvivenze medievali persistenti tenacemente nel suo organismo?
Questa domanda, il proletariato socialista, sorto dapprima nei paesi dove l’industrialismo è più intenso (fra questi nella Boemia, straziata dal dissidio czeco-tedesco) dovette porsela dal suo nascere.
E la risposta non poteva essere dubbia. La lotta di razza consuma i popoli in Austria perché, al di sopra di loro, v’è un potere centrale, un’organizzazione quasi esclusivamente feudale, clericale e militarista, la quale è arbitra di accordare e negare favori e diritti a questa o a quella stirpe, e sa servirsi abilmente di tale suo potere, che sfrutta le voglie di dominio, i conflitti d’interessi dei litiganti per orientare lo stato secondo i fini suoi. Questi litiganti sono classi prevalentemente borghesi, le quali, come specificheremo più sotto, illuse od inconsce, estenuandosi nella lotta, ledono in definitiva gli stessi interessi per i quali combattono e danneggiano poi immancabilmente gli interessi proletari, per il cui trionfo è premessa indispensabile che la civiltà borghese compia intero il ciclo storico del suo sviluppo.
Questo sviluppo è arretrato e paralizzato in Austria tanto nel campo economico, quanto nel campo politico; e in ambidue per l’identica causa: il prevalere del centralismo. Nel campo economico il fenomeno si manifesta nel deficente sviluppo della pubblica ricchezza, sacrificato, oltreché alle insaziabili brame militariste, anche all’interesse, essenzialmente dinastico, di mantenere gli attuali rapporti con l’Ungheria e di fare la cosidetta grande politica europea. Nel campo politico, lo vediamo concretarsi nell’inaudito strozzinaggio delle stesse leggi vigenti, per il quale le libertà elementari di pensiero, di stampa, di associazione, di riunione sono, nella pratica, abbandonate all’arbitrio di ministri, di poliziotti e di preti, e manca in gran parte quel regime di relativa libertà politica che è, a sua volta, fattore necessario della evoluzione economica.
Il proletariato socialista ebbe agevolmente la documentazione e la controprova di quanto diciamo in tutto un secolo di storia dell’Austria. È infatti la lotta fra le nazioni che fa vincere al centralismo assolutista la burrasca del 1848 e 1849, sono i croati di Jellacich che riconquistano Vienna all’impero, mentre le baionette slave e tedesche annientano gli sforzi dell’indipendenza magiara e italiana. E più tardi, quando le catastrofi militari e politiche del 1859 e 1866 costringono il centralismo a dare delle garanzie statutarie, sono sempre i contendenti borghesi, timorosi che più vasti strati sociali, con aspirazioni ed ideologie diverse dalle loro, entrino nel conflitto, a tollerare e magari favorire quella mostruosità costituzionale che è il suffragio austriaco, non soltanto ristretto quasi esclusivamente ai censiti, ma frazionato nella cosidetta rappresentanza degli interessi, foggiante i collegi elettorali in modo che pochi grandi proprietari, alcune ristrette corporazioni, persino qualche gruppo di prelati, inviano alla Camera lo stesso numero di deputati che i maggiori nuclei di elettori delle città e delle campagne.
È ancora la lotta nazionale che va progressivamente paralizzando il meccanismo parlamentare e lo conduce al punto morto dell’ostruzionismo. Onde è facile constatare, scorrendo la storia del parlamento di Vienna, che il marasma dell’organismo statale e le sue manifestazioni purulente procedono paralleli con lo sfrenarsi delle competizioni nazionaliste. Nel primo periodo della vita parlamentare dell’Austria (1868-1885) finché esiste almeno una pallida attività costituzionale, vediamo aprirsi qualche spiraglio di luce; in quegli anni si modifica il concordato del 1855 (mostruosa dedizione a Roma), si sopprime la scuola confessionale, si gettano le basi di una legislazione sociale. Poi, mano a mano che la lotta fra le nazioni spinta al parossismo scardina e infine arresta l’ingranaggio parlamentare, tutto si intisichisce; la reazione clericale, imbaldanzita dal regime dell’assolutismo, può minacciare il ritorno alla scuola confessionale e financo cominciare ad attuarlo nelle regioni in cui più padroneggia; può ottenere un regime di privilegio per la sua chiesa; può erigere a programma di governo la persecuzione contro determinate confessioni religiose e distruggere così persino la libertà di coscienza.
* * *
Di fronte a tale stato di cose, il proletariato socialista sentì che per esso sussisteva e sussiste una vera pregiudiziale politica: la lotta contro il centralismo.
Ma con quali mezzi? Le borghesie che lo circondano gliene suggeriscono uno, evidentemente inadatto al fine, contrario agli interessi proletari e incompatibile con l’ideologia socialista. Questo mezzo è la lotta fra le nazioni.
Le borghesie in Austria concepiscono questa lotta così: "Sopraffarsi a vicenda, chiedendo a volta a volta l’aiuto del potere centrale e mercanteggiando con esso i compensi per l’appoggio che accorda". Non occorre dilungarsi a dimostrare che questa tattica (documentabile con migliaia di esempi) fa vivere il centralismo e gli permette di compiere l’opera funesta che abbiamo sintetizzata più sopra.
Ma perché nelle lotte nazionali borghesi è insito questo elemento sopraffattore? Perché i partiti borghesi, in quanto mirano a smembrare lo stato a profitto delle rispettive razze, devono naturalmente portar seco tutto il bagaglio della loro ideologia capitalista, la quale concepisce lo stato come un organismo aggressivo ed assorbente, in caccia perpetua di nuovo territorio; la cui grandezza non può ottenersi che con la depressione altrui: lo stato di forza, insomma, contrapposto fatalmente alla nostra concezione della comunità del lavoro. Così i nazionalisti tedeschi vagheggiano bensì ormai quasi tutti la fine dell’Austria attuale, ma per sostituirvi una Germania mostruosa che, attraverso terre proprie ed altrui, vada dal Baltico all’Adriatico, e gli slavi una mostruosa potenza slava che abbracci l’Asia e tre quarti d’Europa.
È evidente che una simile idealità borghese, costituendo dei paesi dell’Austria una specie di campo aperto, dove tutti gli imperialismi europei mirano ad arrotondarsi i fianchi, crea un ostacolo permanente alla solidarietà internazionale e quindi una barriera formidabile alle nostre idealità. Istinto della propria conservazione e del proprio sviluppo, coscienza dei propri doveri di fronte al mondo proletario, imponevano quindi ai socialisti in Austria di scegliere un cammino diverso da quello delle borghesie nazionaliste, anzi di concentrare tutte le loro forze per imporre alle borghesie un altro orientamento di fronte al problema nazionale.
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Ed ora, abbandonando le generalità, veniamo al soggetto che più specialmente ci occupa: alla lotta nazionale della nostra borghesia, agli atteggiamenti del potere centrale, al programma nostro di fronte ad essi, cimenteremo così la formula del nostro partito nella questione nazionale alla prova viva e calzante di un problema concreto.
La borghesia italiana è, numericamente, la più debole fra quante lottano in Austria, e ciò vale in parte a spiegare perché la sopraffazione governativa – influenzata dai nazionalismi più potenti – si eserciti nella nostra regione in proporzioni anche maggiori che altrove. Citiamo un solo esempio fra mille: la politica scolastica del governo centrale, il quale, in un paese in cui l’elemento tedesco non è indigeno e rappresenta il 2,6% della popolazione totale, mantiene in concorrenza all’istruzione primaria (incombente ai comuni) scuole popolari esclusivamente tedesche e all’istruzione secondaria (suo incarico) offre tre ginnasi-licei pure tedeschi (Trieste, Gorizia, Pola) ed uno solo italiano (Capodistria) ed anche quello perché mantenuto in gran parte da private fondazioni.
E, poiché siamo a parlar di scuole, citiamo, nello stesso tema, un documento suggestivo del fatto che la lotta nazionale è nutrita, per i suoi fini, dal governo centrale. Il ginnasio-liceo di Gorizia (unico di quella regione) è frequentato, circa per metà, da italiani e da sloveni. L’istruzione classica, impartita a italiani e a sloveni in tedesco, riesce cosi faticosa e sterile che le due stirpi vedrebbero ormai di buon occhio la sostituzione del ginnasio-liceo tedesco con un istituto a corsi paralleli bilingui; almeno nel consiglio scolastico (dove sono rappresentanti delle due stirpi in contrasto) questa logica riforma è stata raccomandata; ma si può star quasi sicuri che il governo di Vienna (che, quando gli conviene, si serve del germanismo come elemento sopraffattore) non ne farà nulla e il mostruoso ginnasio-liceo rimarrà a intisichire gli studi e acuire gli asti nazionalisti. Un altro esempio della stessa tendenza, troppo noto perché occorra dilungarsi, è quello della facoltà giuridica italiana che italiani - e tedeschi non volevano a Innsbruck e che il governo centrale volle metter colà, creando così l’ambiente propizio ai disordini.
Ma se la borghesia italiana (al pari di tutta la nostra popolazione) ha ben giusti motivi di lagno contro il centralismo, non va immune a sua volta dalle tare e dalle pecche di tutte le borghesie di questo stato e non è meno delle altre responsabile della continuazione della lotta nazionale e dei danni che ne derivano. Anche la borghesia nostrana cela intenti sopraffattori e contribuisce con la sua tattica a perpetuare il centralismo austriaco.
Le cifre dell’ ultimo censimento (1900) delineano così le condizioni
linguistiche della regione adriatica:
TRIESTE città e provincia: Italiani Sloveni Tedeschi Città 94971 5017 7090 Suburbio 20972 11452 1259 Altipiano 577 6951 168 116520 23420 8517 |
GORIZIA-GRADISCA: Italiani Sloveni Tedeschi Gorizia città 16112 4754 2760 Capitanato di Gorizia esclusa la città 2587 65034 195 Capitanato di Tolmino 25 36113 93 Capitanato di Sesana 197 28613 90 Capitanato di Gradisca (Friuli orient. 62115 6068 360 81036 140582 3498 |
ISTRIA Italiani Tedeschi Sloveni Serbo- croati 136191 7076 47717 143056 |
A queste cifre, che comprendono soltanto i cittadini dello Stato, vanno aggiunti oltre 20.000 italiani regnicoli residenti a Trieste, circa 2.000 nel Goriziano e circa 1.500 nell’Istria.
Anche fatta ragione all’assurda distrettuazione attuale, per cui alcuni distretti (compresi nel Litorale) andrebbero etnicamente congiunti alle limitrofe provincie, rimane sempre incontestabile che, specie nell’Istria interna, nel Goriziano e nel territorio di Trieste, esiste, coi caratteri secolari dell’indigenato, un grosso e compatto nucleo di popolazione slava, la quale, benché ancora sciaguratamente arretrata, perché più dell’italiana oppressa dal giogo del pauperismo e del clericalismo, va progressivamente sviluppando la sua coscienza nazionale e civile. Ora, la borghesia italiana, affermando, come afferma, il suo esclusivo predominio in tutta la regione adriatica, (vi è chi vorrebbe estendere questa concezione etnica e politica perfino alla Dalmazia, terra abitata in assoluta prevalenza dall’elemento croato) si pone evidentemente contro la realtà delle cose, e, quello che è peggio, col suo atteggiamento, dà ansa alle sopraffazioni altrui. Così al concetto anche recentemente espresso da uno dei capi del partito nazionalista italiano, secondo il quale gli slavi della nostra regione sono "ospiti", che non possono vantare alcun diritto, ma devono accontentarsi di ciò che la benignità della stirpe prevalente loro concede, fanno riscontro il programma e gli atteggiamenti, altrettanto sopraffattori, dei nazionalisti sloveni di Trieste e del Goriziano e dei nazionalisti croati dell’Istria, i quali non ristanno dal proclamarsi le avanguardie del grande esercito slavo in marcia verso la conquista del mare Adriatico.
Tali opposte tendenze non sono naturalmente mosse da cause puramente sentimentali. Il substrato economico si rintraccia solo a grattar la scorza delle competizioni borghesi. Così la lotta che si combatte per le lingue del foro (e che, causa l’assurda distrettuazione centralista, dà luogo a confusionismi inenarrabili) è anche lotta per la conquista di impieghi da parte delle due borghesie in contrasto. Talvolta la bandiera del nazionalismo copre addirittura una merce antinazionale. Così, in Istria, la borghesia italiana, usureggiando il proletariato agricolo slavo, lo ha gettato fra le braccia dei nazionalisti slavi, che abilmente si servono del credito agrario per le loro mire politiche.
Queste reciproche mire di predominio si insinuano in ogni atto dei partiti nazionalisti e ne immiseriscono l’attività. Così la scuola, nell’ideologia borghese nazionalista, è più che un mezzo di coltura, un’arme di battaglia, e si vedono le varie stirpi lottare intorno a una scuola, negarla o pretenderla, non tanto mosse dal criterio obbiettivo della sua utilità, quanto preoccupate essenzialmente dal significato politico che la concessione o la denegazione può avere per loro.
Ogni più semplice e umile atto di amministrazione, in un simile ambiente perturbato da mutue paure e da reciproche velleità di conquista, assume tragiche tinte. Per poco, a Pirano, un’insegna bilingue di quel giudizio distrettuale non fece scorrere il sangue. Importanti problemi pubblici non si maturano per le medesime cause: Si tratta di trovare una sede più acconcia di Parenzo alla Dieta (consiglio provinciale) dell’Istria; le rivalità nazionali fanno andar da anni raminga quella Dieta. Nella stessa assemblea, gli antagonismi fra i nazionalisti croati e gli italiani (che non vogliono ammettere alcuna forma ufficiale di bilinguità, benché la Dieta sia la rappresentanza centrale d’una provincia per oltre il 50 p.c. non italiana) hanno paralizzato per molto tempo completamente l’attività dietale e tutt’ora la vanno inceppando.
Ma il danno maggiore (e il più sentito dal proletariato) derivante dalle competizioni nazionaliste, si avverte nella politica elettorale delle borghesie, e segnatamente della borghesia italiana, padrona dei più cospicui comuni della regione, dominatrice della Dieta di Trieste e in maggioranza nella Dieta dell’Istria. I capi (cui il ristretto suffragio assicura il monopolio del potere), suggestionano, con lo spauracchio delle mutue sopraffazioni, anche quegli elementi borghesi, che, per gli interessi loro, non sarebbero antidemocratici, e spargono il sentimento della diffidenza verso il proletariato, ostacolandone in tutti i modi l’ingresso nel pubblico arringo. Ne abbiamo un esempio tipico a Trieste, dove il partito dominante ha presentato ben due progetti di allargamento del suffragio comunale e dietale, compilati in maniera da renderne impossibile a priori 1’approvazione governativa. E si noti che, dovendo qualsiasi riforma comunale in Austria muoversi entro la cornice della rappresentanza degli interessi, non è neppur seriamente minacciato il dominio dei partiti borghesi e il proletariato può per ora aspirare soltanto a essere, nei consigli e nelle diete, una minoranza di controllo. Ma la tema che, attraverso le maglie allentate del suffragio, passi qualche nazionalista sloveno o croato di più, è la ragione o il pretesto di questo atteggiamento antidemocratico borghese, il quale si coonesta pure talvolta con la paura del nostro internazionalismo e culmina persino nell’accusa che fa di noi socialisti in Austria dei nemici della propria nazionalità. Accusa, non sappiamo se più stolida o perfida e sulla quale non meriterebbe di soffermare l’attenzione di un’assemblea raccolta in questa sala del nostro Circolo di studi sociali, benemerito della diffusione della cultura italiana assai più di ogni sodalizio nazionalista, se i benefici effetti anche nazionali della nostra propaganda internazionalista non avessero avuto testé una suggestiva documentazione nel problema più scottante fra quanti travagliano gli italiani dell’Austria: il problema universitario. Soltanto la propaganda e la fede socialista hanno condotto i socialisti slavi e tedeschi a propugnare, senza riserve, il diritto nostro all’Università italiana a Trieste, ond’è che, se quella fede dominasse oggi nel cuore di tutti i cittadini di questo stato, Trieste avrebbe, come per tocco di bacchetta magica, la sua Università.
La propaganda internazionale vale, in ogni campo, assai più della tattica nazionalista, a tagliar le gambe alle provocazioni e alle violenze cui le misere plebi agricole slave, abbrutite dalla miseria e suggestionate da un clero fanatico, talvolta si abbandonarono; e ne abbiamo un esempio in questi dintorni, a Santa Croce e a Nabresina (già teatro di selvaggia caccia all’italiano) dove oggi le due stirpi, affratellate dall’idealità socialista, lottano insieme per i loro diritti.
Infine, la tattica nazionalista, com’è concepita dai partiti borghesi, serve mirabilmente all’ibridismo e al confusionismo politico. Concentrando tutte le sue energie nella lotta contro un’altra stirpe, anziché appuntarle contro il centralismo feudale e clericale, il nazionalismo può accogliere fra le sue gran braccia quanti, in buona o in mala fede, per calcolo o per sentimento, ad esso si rivolgono. E infatti, massoni e clericali, irredenti e austriacanti, si accordano ogni giorno di più nel proclamarsi e nell’atteggiarsi a unico partito nazionalista, con quali effetti per lo sviluppo della coscienza e della sincerità politica paesana, ognuno può immaginare.
Tale processo di concentrazione borghese, avvertibile in tutta la regione è in particolare appariscente qui a Trieste, dacché, sgominati nel 1897 gli ultimi avanzi del vecchio partito governativo, schiavo della Luogotenenza, i nazionalisti liberali divennero padroni assoluti, senza controllo, dell’amministrazione civica. Il partito liberale (il quale nel ventennio 1860-1880 aveva compiuto un’utile funzione politica, diffondendo in un ambiente di incoscienti le prime idee di libertà e di civismo) andò progressivamente smorzando il suo atteggiamento di opposizione e il suo programma di democrazia, ed ora è divenuto un partito di governo, legato da mille vincoli d’affari e d’interessi capitalistici al centralismo, e quindi naturalmente remissivo e aperto a tutte le ambizioni che aspirino alla vita pubblica.
Ma il frutto più caratteristico di tale ibridismo sta nell’attività parlamentare dei nazionalisti italiani. L’unione parlamentare italiana, nata nel 1897, allorché, smesso l’astensionismo politico, anche i nazionalisti triestini mandarono loro delegati alla Camera di Vienna, sintetizza lo stato d’animo nazionalista. L’unione parlamentare, alla quale incomberebbe il compito naturale di difendere innanzi al parlamento e al mondo civile i diritti della nostra stirpe, e che quindi dovrebbe imperniare la sua attività nella più fiera opposizione al centralismo degeneratore di quei diritti, fu invece concepita e istituita secondo il noto pensiero borghese, come un’umile "agenzia d’affari" che mercanteggiasse col governo per averne i favori. Concezione, oltreché moralmente indecorosa, anche commercialmente sbagliata in un regime parlamentare, nel quale il governo, anche quando la Camera funziona, può agire al di fuori e al di sopra di maggioranze e di minoranze.
E l’unione parlamentare (mostruosa accolta di preti e di uomini d’affari, di conservativi e di radicaloidi, rinchiusi insieme nella gabbia del nazionalismo) bisogna dirlo, rispose perfettamente al mandato; trattò, strisciò, mercanteggiò; giunse persino a far passare, con una provvida astensione, i nuovi crediti militari in seno alla commissione finanziaria delle delegazioni... e n’ebbe in compenso (per tacere di tanti altri) lo sfacciato attentato contro l’autonomia civica triestina e il sangue di Innsbruck!
Così, fuorviato da un errore fondamentale di metodo, dominato da correnti di interessi essenzialmente capitalistici, avvinto dalle seduzioni del potere comunale e provinciale, il nazionalismo, che di là dal confine si abbellisce dell’aureola del martirio, appare in realtà, per chi lo osserva da vicino, un organismo eterogeneo, liberale a parole, ma a fatti, per le esigenze della sua tattica, necessariamente remissivo verso clericalismo ed austriacantismo; democratico nelle formule, ma essenzialmente conservatore nella sostanza. E crediamo che l’esempio della politica elettorale, più sopra delineato, basti a dimostrarlo.
* * *
Sennonché, sentiamo a questo punto aleggiarci d’intorno un’obbiezione che può agevolmente venir mossa da chi conosca la nostra lotta nazionale soltanto attraverso lo specchio, non sempre fedele, della stampa nazionalista di qua e di là dal confine.
E l’irredentismo? Come si concilia tutto quanto ci venite esponendo con l’irredentismo, fede e programma necessariamente antistatale, anzi dal punto di vista dell’ordine costituito, addirittura rivoluzionario?
Tale, infatti, dovrebbe essere lo stato d’animo irredentista, ma tale, come vedremo, non è; ed è questo il massimo rimprovero che noi gli muoviamo. Anche l’irredentismo, al pari del nazionalismo, è una bandiera che copre molta merce di contrabbando.
L’irredentismo (inteso come aspirazione a staccare la regione adriatica dall’impero e a riunirla all’Italia) non ha fra di noi tradizioni di lotta, né un passato storico. L’apatia politica dominante, specie a Trieste, sin verso il 1866, lo fa nascere in ritardo e rimanere allo stato di vaga sentimentalità, stimolata più che altro dalla politica austriaca di sopraffazione e dalle stolide e ridicole angherie poliziesche. Questo irredentismo però non è né può essere sentito da moltissimi degli stessi suoi apparenti fautori. E la bussola del determinismo economico ce ne designa il perché. Negozianti, agenti, industriali, uomini di borsa e di banca, che formano il nerbo della borghesia nazionalista, fanno discretamente i loro affari all’ombra dell’aquila bicipite, e, per le peculiari condizioni della regione e specialmente di Trieste (sbocco d’un hinterland slavo-tedesco) vedrebbero quasi tutti con grave preoccupazione un cambiamento di assetto politico. Costoro, se nei privati colloqui e a voce molto sommessa, affettano di desiderarlo, lo fanno nella convinzione che l’evento sia estremamente improbabile. Nei professionisti, e in qualche intellettuale, l’impulso secessionista ha forse qualche maggiore consistenza, specie fra gli avvocati, facilmente spiegabile d’altronde con la aspirazione alla carriera politica, oggi naturalmente localizzata alla regione e alla quale l’annessione aprirebbe tutte le vie. Ma anche questo sentimento non arriva, per la sua ristrettezza, ad assumere forme combattive. Il fattore sentimentale spinge all’ideologia irredentista qualche gruppo di giovani, l’elemento più simpatico; ma il loro fervore è continuamente ostacolato e trattenuto dagli stessi capi delle amministrazioni nazionaliste dominanti, irredentisti anch’essi a parole, ma ossessionati egualmente dalla preoccupazione continua di perdere il potere, cadendo in disgrazia del governo. Nel resto della gran massa grigia borghese l’irredentismo, o non è sentito affatto, o è un sentimento troppo vago e troppo poco tenuto desto per concretarsi in una qualsiasi forma di azione e di volontà.
Il perpetuarsi o il rinnovarsi periodico di tali agitazioni irredentiste – paurose e semi clandestine in Austria e clamorose in Italia – non costituisce ormai null’altro, se non un comodo pretesto per sviare le popolazioni dalla chiara concezione dei loro interessi ed partiti politici da un moderno orientamento positivista e democratico.
Questo irredentismo borghese nulla ha dunque in sé di combattivo e di pugnace che possa concorrere ai fini nostri, ma appare come uno stato d’animo essenzialmente passivo, che potrebbe essere innocuo se non fosse, invece, particolarmente dannoso al proletariato. E qui il problema che ci occupa esce dell’ambito ristretto della nostra regione per toccare direttamente gli interessi dei proletari d’Austria e d’ Italia.
L’irredentismo borghese, oltre ad aiutare il nazionalismo nel mantenere fra noi quella specie di narcosi politica cui più sopra abbiamo accennato, esercita un altro effetto ben più pericoloso: L’irredentismo borghese, per la sua particolare struttura, non può attendere la realizzazione che da un fatto esterno; questo fatto esterno, nella sua ideologia, è la guerra, la conflagrazione europea, la catastrofe militare dell’Austria. Ed ecco questa forma di irredentismo, che si dice sovversivo, riuscire invece fatalmente a sostegno e a strumento degli interessi delle classi dominanti al di qua e anche al di là dal confine. La controprova più suggestiva di ciò, l’abbiamo nel contegno del governo di Vienna verso l’irredentismo nazionalista. Per quanto stolido ed accecato, è impossibile che il governo non si accorga che le sue balorde persecuzioni contribuiscono più di ogni altra cosa a tener desta la fiammella dell’irredentismo borghese: pure, nonostante l’esperienza di decenni, il governo seguita a dare alle manifestazioni irredentiste un’importanza che evidentemente non hanno; perseguita il tricolore fin nell’acconciatura delle maschere; coltiva, con artifici polizieschi, la pianta del reato e del processo politico, ecc, ecc. Ebbene, tutto ciò gli serve mirabilmente a mantenere l’ambiente politico in quello stato d’animo che è il più conforme agli interessi delle classi dominanti; a coonestare le continue richieste di nuovi armamenti con lo spauracchio delle mire offensive dell’Italia che avrebbe, nell’irredentismo Adriatico e trentino, la sua avanguardia permanente.
Noi, che conosciamo intus et in cute i nostri capi irredentisti, sorridiamo; noi vediamo i temuti ribelli, i martiri compianti di là dal confine, godersi, fra noi, il potere e subirne gli effetti sfibranti e accomodanti, piegare compiacenti la schiena al governo, accettare spesso ordini e decorazioni austriache, seguire processioni religiose e cortei patriottici, assistere a feste dinastiche, rifuggire timorosi da ogni manifestazione che possa, anche lontanamente, ricordare i loro presunti ideali, lasciando che un pugno di giovani si esponga inutilmente alle persecuzioni poliziesche. Avremmo esempi a bizzeffe, ma vogliamo ricordarne uno solo, perché ci sembra il più caratteristico. Il 9 gennaio 1903, ricorrendo il 25° anniversario della morte di Vittorio Emanuele, il consiglio comunale di Trieste era, casualmente, convocato a seduta; accortisi della data, quei signori non ebbero il coraggio (non certo eroico) di riunirsi e ricordare l’avvenimento per il quale (si noti) venticinque anni prima il consiglio aveva levato la seduta in segno di lutto; stimarono più prudente di far mancare il numero legale. Quest’umile e piccino episodio lumeggia a sufficienza la poca temibilità dello stato d’animo irredentista; ma al governo, per i fini suoi, conviene di punzecchiarlo perché non si addormenti definitivamente, conviene di prenderlo in tragico per servirsene quale mezzo di pressione per nuovi sagrifici militari, che gli imperialismi nazionalisti slavi e tedeschi (aspiranti a loro volta a queste contrade e quindi naturalmente ostili all’ italianità) non mancano mai di concedergli.
Al di là dal confine, constatiamo il fenomeno identico. Il governo italiano ha lasciato e lascia che l’irredentismo (in origine bandiera della democrazia republicana, sconfessata dai partiti monarchici) si muova, per quel tanto che basta a creare un ambiente favorevole a nuove spese militari; infatti, i partiti borghesi, più avversi alle aspirazioni irredentiste, hanno cambiato tattica e sanno ora, a tempo e luogo, secondarle. Così a noi riuscì sintomatico il mutato atteggiamento dei monarchici veneti (per ragioni economiche tradizionalmente ostilissimi all’annessione di queste province) i quali, da qualche tempo, si abbandonano alle più clamorose manifestazioni irredentiste. E citiamo questo esempio, perché accaduto nella regione limitrofa, quasi sotto i nostri occhi; ma altri probabilmente i compagni d’Italia ne sapranno citare.
In tutto questo armeggio dei due governi e delle classi che li spalleggiano, ciò che manca evidentemente è la sincerità e la buona fede. A Vienna e a Roma si sa che la guerra austro-italiana è un’ipotesi fantastica, al pari della guerra generale europea, poiché il capitalismo in Europa ha ormai superato la fase della guerra guerreggiata; ma a Vienna e a Roma importa alle classi dominanti creare e mantenere lo stato d’animo favorevole alla preparazione della guerra, perché soltanto con esso il militarismo (l’estremo puntello della società borghese) può vivere e fiorire, soltanto con esso si possono mantenere quegli eserciti i quali (come ebbe cinicamente a dichiarare in piena Camera Carlo Lueger, il prototipo della reazione austriaca) devono servire non solo contro i nemici esterni, ma anche contro il nemico interno, il proletariato socialista, in marcia verso l’avvenire.
È contro i pericoli derivanti da tale stato di cose, o compagni d’Austria e d’Italia, che noi vi chiamiamo a consiglio e a difesa in un momento particolarmente opportuno, nel momento cioè in cui il governo Austro-ungarico vorrebbe far approvare dai suoi parlamenti nuovi aggravi militari per oltre 400 milioni di corone, e il governo italiano si apparecchia il chiedere 200 milioni di lire per le fortificazioni del confine orientale.
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E la difesa non può evidentemente consistere che nello sforzo di eliminare le cause del reale e profondo malessere che opprime non soltanto la nostra stirpe, ma tutte quelle soggette allo scettro degli Asburgo; sorge così un altro irredentismo ben più profondo e fecondo di quello borghese: questo è l’irredentismo che noi dobbiamo secondare e aiutare.
Noi abbiamo visto che il nazionalismo (lotta fra le stirpi) giova anziché nuocere alla sopraffazione centrale; che l’irredentismo borghese le fornisce addirittura armi e pretesti per accrescere la sua potenza. Conviene dunque sostituire al nazionalismo e all’irredentismo borghesi, il vero irredentismo, l’irredentismo proletario, che consiste nel coalizzare i popoli oppressi contro il comune oppressore per condurli all’emancipazione finale.
Il proletariato socialista in Austria ebbe, a tempo, la coscienza di questa sua particolare missione e vi si preparò animosamente; comprese che il problema nazionale impacciava l’evolversi del problema economico; fu conscio dell’importanza che lo sviluppo delle rispettive colture nazionali ha per l’elevazione delle classi lavoratrici e, accanto al programma massimo, comune al socialismo internazionale, che pone a fine immancabile delle lotte di razza l’avvento della società nuova, socialisticamente organizzata, formulò un programma minimo, realizzabile nel mondo borghese e lo additò alle borghesie nazionaliste.
È questo il programma di Bruna che noi vorremmo chiamare l’applicazione della legge del minimo mezzo a1 problema delle nazionalità e che a torto si ritiene da molti una manifestazione di ideologia socialista. Il programma di Bruna è una forma di pregiudiziale politica che il proletariato socialista dovette concretare, spinto dalla necessità impellente di uscire il più presto da una condizione di cose intollerabile; esso si impernia nel principio delle autonomie nazionali federate.
In luogo di esporlo genericamente, ci sembra più utile di delinearne per sommi capi l’applicazione che potrebbe farsene in questa nostra regione, poiché da essa crediamo risulteranno chiari i vantaggi che ne avrebbe la causa della nazionalità.
Una delle armi più potenti con cui il centralismo mantiene degli aggruppamenti innaturali di popoli e li aizza così gli uni contro gli altri consiste nei cosiddetti "diritti storici". L’Austria è costituita dal complesso dei "regni e paesi" rappresentati al consiglio dell’impero; questi regni e paesi rappresentano altrettante sopravvivenze storiche di antiche signorie, create dalla conquista o venute sotto lo scettro degli Asburgo per forza di matrimoni. Nella loro formazione dunque, essenzialmente coatta, tali circoscrizioni non hanno alcun riguardo allo stato nazionale; gruppi nazionali diversi vi sono riuniti a capriccio, anche in quei luoghi dove una più razionale divisione etnica sarebbe possibile; ma il "diritto storico" è invocato à difesa di un tale assurdo, spesso dalle stesse borghesie in contrasto, le quali vi vedono un argomento alle solite mutue sopraffazioni. Così lo storico "regno di Boemia" è la base del cosiddetto "diritto di stato czeco" che ha la sua punta contro i tedeschi di quel paese.
Il programma di Bruna presuppone la negazione dei diritti storici.
Anche da noi le borghesie rifuggono dal discutere l’unità della regione, che serve loro per proclamarla votata tutta alla grande Slavia o alla grande Italia. Invece il proletariato socialista ritiene che, nella struttura della regione stessa, stia una delle cause del confusionismo nazionale. L’applicazione del principio autonomico farebbe sì che tutta la parte settentrionale (slovenia) della cosiddetta "contea principesca di Gorizia e Gradisca" (nomenclatura storica), che pure qualche lembo dell’Istria (croato) e forse altre striscie minori, potrebbero venir riunite alle limitrofe provincie slave. Sarebbe costituito così un nucleo più omogeneo e più prevalentemente italiano nel quale il "self-governement", distruggendo la minaccia centralista, rompendo la trama degli imperialismi slavi e tedeschi, darebbe i suoi frutti benefici e porterebbe all’intesa fra maggioranza e minoranza, come la ha portata in tutte quelle regioni etnicamente miste, dove i popoli si conquistarono la libertà di disporre dei propri destini e di decidere, senza intromissioni e coazioni, dei propri interessi.
Potremo citare molte applicazioni pratiche dei benefici di questa forma di autonomia; ci basti metterne in luce gli effetti in uno dei campi più disputati e realmente più ardui delle competizioni nazionali: il campo giudiziario. "Ognuno ha diritto di aver la giustizia civile e penale nella propria lingua", dicono i due contendenti, e con perfetta ragione. Sennonché, le circoscrizioni giudiziarie sono oggi composte in modo tale che, ad esempio, nella sfera del tribunale di Trieste, sono compresi dei distretti quasi esclusivamente slavi. Da ciò un confusionismo insopportabile di giudici e di cause bilingui e magari trilingui; da ciò la strada aperta al nazionalismo slavo per pretendere nell’amministrazione locale della giustizia una parte superiore alla sua entità numerica. Naturalmente, per essere efficace, l’autonomia presuppone l’assetto democratico dello stato; finché (per seguir l’esempio) il potere centrale o, al suo posto, un’ oligarchia regionale, fossero arbitri della scelta dei giudici, la sopraffazione potrebbe permanere. Ma, democratizzato il sistema di cernita dei giudici, il loro numero si graduerebbe da sè, a seconda dei reali bisogni dell’una o dell’altra stirpe.
Questa la via maestra aperta dal proletariato e che le borghesie nazionaliste sono, lo si capisce, ritrose a seguire, perché esse, nella lotta nazionale, com’è scatenata in Austria, trovano la fonte del loro predominio nelle singole regioni, il mezzo per acquistare favori dal governo, il comodo pretesto ad opporsi alla marcia del socialismo internazionale, e, quel che è peggio, anticapitalista.
Perciò a noi incombe, dal canto nostro, il dovere di svelare il substrato dell’anima nazionalista, e noi, socialisti italiani della regione adriatica, lo facciamo con coscienza tanto maggiormente sicura, inquantoché siamo convinti che la soluzione da noi additata del Problema nazionale (oltre a sventare le macchinazioni del militarismo e a scemare quindi il progressivo dissanguamento proletario, dovuto alle spese militari) risponde alla struttura etnica di questi paesi, si conforma alla loro posizione economica e giova quindi al loro complessivo sviluppo morale e materiale.
La soluzione autonomica che noi proponiamo, in una regione etnicamente non omogenea, ha evidenti maggiori prospettive di equità, poiché esclude l’elemento snazionalizzatore che la soluzione annessionista trarrebbe seco, perpetuando così il dissidio fra le tre grandi correnti (italianità, panslavismo e pangermanismo) che vengono ad urtarsi in queste contrade.
La soluzione autonomica, smozzando le zanne ai due imperialismi più forti che mirano alla conquista della nostra regione, giova, evidentemente, alla difesa della italianità di qua e di là dal confine. La soluzione autonomica, infine, risponde ai particolari interessi del centro della regione, di Trieste, città per vincoli di stirpe e di coltura legata all’Italia, ma per posizione geografica destinata a sbocco naturale dei paesi non italiani che le stanno alle spalle.
Finalmente – e lo notò di recente anche il compagno Bissolati – l’irredentismo, com’è oggi concepito, specie in Italia, compie un’altra funzione particolarmente dannosa agli interessi italiani, perché dà all’Austria pretesti ad atteggiamenti bellicosi che, nella mente delle sue classi dirigenti, dovrebbero servire a mire espansioniste nei Balcani, dove è invece reale interesse dell’Italia che altre occupazioni Austriache non avvengano, ma si sviluppi e perfezioni l’indipendenza delle singole nazionalità.
Noi non possiamo, per le esigenze dello spazio, che accennare qui di volo a questi lati del problema, ognuno dei quali dovrebbe essere oggetto di trattazione speciale e potrà d’altronde venir meglio delineato nella discussione.
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Alcuni nostri avversari di buona fede (degli altri non ci occupiamo) ritengono utopistico questo programma minimo nazionale e ci lanciano perciò l’accusa di contribuire alla conservazione dell’Austria. Voialtri – dicono – siete dei sognatori che vagheggiate un accordo impossibile; i popoli dell’Austria sono divisi da odii e rancori secolari, da competizioni profonde e non potranno conciliarsi mai, né mai unirsi contro il potere centrale; quindi voi, additando un mezzo irrealizzabile, fate il giuoco del centralismo.
Potremmo obbiettare anzitutto che il metodo da noi proposto è ad ogni modo preferibile alla tattica nazionalista, la quale, come vedemmo, non solo non combatte il potere centrale, ma gli giova. A prescindere però da ciò, noi neghiamo, perché contrario alla realtà della constatazione storica e scientifica, questo antagonismo permanente. Fra le borghesie dell’Austria (pronte, del resto, a riunirsi anch’esse nell’internazionalismo delle imprese capitaliste) sussistono, più che altro, gare di predominio, di concorrenza agli impieghi, pregiudizi di religione e di razza; ma tali dissensi, o sconosciuti o solo artificialmente innestati nel proletariato, non costituiscono un conflitto reale; anzi, chi esamini a fondo la struttura dei popoli abitanti in Austria, vedrà che vi è fra di essi il maggior fattore di coesione: l’identità dell’interesse economico per il quale e l’industria e gli scambi gravitano naturalmente dall’interno verso il nostro sbocco adriatico e viceversa. Queste correnti economiche, in un assetto di larga autonomia e fondamentalmente democratico, non incepperebbero affatto lo sviluppo delle rispettive colture nazionali.
Né vale l’opporre che, per la lotta contro il centralismo, sorretto dalle baionette, dal clero, dalla burocrazia e dalla feudalità, mancano le armi adeguate. Una ve n’è e formidabile e non difficile a conquistarsi, se tutte le forze democratiche interessate alla distruzione dell’ingiustizia centrale, agissero coscienti e concordi. Quest’arma è il suffragio: il suffragio universale. Abolito l’iniquo voto privilegiato, avrebbero voce prevalente sulla scena politica le classi lavoratrici, con la loro ideologia, e le classi lavoratrici, spinte dal propulsore dell’interesse economico, darebbero opera progressiva a debellare tutto ciò che contrasta alla loro redenzione: gli strozzatori della libertà politica (polizia, burocrazia, militarismo; clericalismo); i mantenitori della lotta di razza (imperialismi e sopraffazioni nazionali). Battuto in breccia tutto ciò, quali sostegni resterebbero al potere centrale, scosso ora più che mai dall’agonia del dualismo austro-ungherese? Fatto, coll’attuazione del programma autonomico, pur nella cornice borghese, il primo passo sulla via dell’emancipazione, il resto si riconnette all’evoluzione generale del futuro. Giungeranno così anche queste disgraziate province alla formula risolutiva che Jaurès ha additato ad un altro e più grave conflitto di interessi e di razze, il conflitto franco-tedesco per l’Alsazia-Lorena: I popoli, emancipati da1 giogo politico ed economico, eleggeranno da soli i loro aggruppamenti. Questo è il nostro irredentismo
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E ci affrettiamo alla conclusione, la quale, se non ci inganniamo, scatta dall’esposizione d’ambiente che abbiamo tentato di fare.
I socialisti italiani della regione adriatica sono pienamente consci delle condizioni intollerabili create alla loro stirpe dalla politica sopraffattrice del potere centrale, sorretto, e dominato insieme dai vari imperialismi nazionalisti. Essi considerano quindi diritto imperscrittibile del popolo italiano di avere, nelle scuole, nell’amministrazione della giustizia, e in genere in tutte le manifestazioni della vita collettiva, le premesse indispensabili al libero sviluppo della civiltà nazionale, nella quale i socialisti non ravvisano già un mezzo di predominio politico od economico, ma lo strumento naturale di elevazione della coltura proletaria.
I socialisti italiani della regione adriatica, illuminati dall’ideologia del loro partito, e confortati dall’osservazione ed esperienza quotidiana, sono convinti che la lotta nazionale condotta dalla borghesia non mira alla soluzione del problema, ma anzi lo acuisce e lo perpetua a tutto vantaggio d’interessi borghesi e dinastici, e a danno precipuo degli interessi proletari che si imperniano nella pace e fratellanza internazionale. Essi combattono perciò il nazionalismo della loro borghesia, in quanto cela anch’esso intenti sopraffattori verso le altre stirpi, mentre è troppo remissivo ed accomodante di fronte al potere centrate; prendono pure un atteggiamento sfavorevole di fronte al cosidetto irredentismo borghese, perché troppo fiaccamente antistatale, non sentito dai più di coloro che se ne proclamano campioni, fondato sull’aspettazione passiva di catastrofi guerresche, quindi comoda bandiera di dominazione e confusionismo borghese e, nelle mani dei governi, strumento di cultura intensiva dell’ambiente militarista.
Mentre quindi giustificano la tattica fin qui seguita nella questione nazionale verso i loro partiti nazionalisti e si propongono di continuarla, attendono che i compagni d’Austria, mossi dalle stesse ragioni e determinati da identici interessi, proseguano e intensifichino un’uguale azione verso le rispettive borghesie nazionaliste; non potendosi disconoscere che il nazionalismo italiano subisce e ripercuote la tattica, identica alla sua, dei più formidabili imperialismi slavi e tedeschi che lo circondano. La funzione specifica politica del proletariato in Austria sembra appunto essere questa: di affrettare, con una azione concorde sui propri nazionalismi, la fine della lotta nazionale. Ma poiché la cessazione di questa lotta è in prima linea subordinata alla fine del potere centrale che la mantiene e ne è mantenuto, i socialisti italiani adriatici, in unione ai compagni di tutte le altre nazioni, continueranno dappertutto la lotta a oltranza contro il centralismo e la reazione clerico-austriacante che in esso si personifica, finché questi capitali nemici di ogni progresso umano non sieno debellati.
Ai compagni d’Italia infine noi raccomandiamo di illuminare l’opinione
pubblica sui veri termini del problema nazionale in Austria e particolarmente
nella nostra regione, e di unire i loro ai nostri sforzi perché gli antagonismi,
artificialmente creati fra il popolo italiano e le popolazioni d’altra
lingua abitanti in Austria, sieno esaminati alla luce della realtà storica
ed economica e avviati alla soluzione rispondente alle nostre comuni finalità.
(La presente relazione si trova ed è consultabile presso l’Archivio di Stato di Trieste).