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Classe e Partito
di fronte all’imperialismo e alla guerra
Conclusione della serie di rapporti, esposta a Firenze nel gennaio 2004.
(I capitoli precedenti si leggono nei numeri dal 53 al 58 - 53
- 54 - 55
- 56 - 57
- 58)
La sfida del millennio
La dimensione “tempo” per noi ha un significato che non si ritma, come avviene ai politicanti, in mesi o anni, ma in svolti storici, che non pretendiamo di evocare, di decidere.
Eppure, sulla base dei nostri testi e soprattutto del nostro impegno di lotta, non è da ora che lo studio dell’andamento ciclico del capitalismo ci dice che la società mondiale complessiva non può continuare a vivere in queste marasmatiche condizioni. Un sistema economico che – oltre a maciullare letteralmente miliardi di nullatenenti e vedere compromesse perfino le condizioni di equilibrio naturale e biologico – è divenuto nel tempo minaccia crescente alla sua stessa riproduzione.
La sfida che si gioca a livello generale, per quanto denominata e tenuta esorcisticamente nascosta, è quella tra le forze vitali del lavoro, e quelle formalizzate del profitto e delle rendite di posizioni ad esso collegate.
Già per fine degli anni ‘80 avevamo indicato nei nostri grafici l’alternativa crisi - guerra o rivoluzione. Se siamo entrati nel nuovo secolo e millennio senza assistere alla auspicata ripresa sistematica della lotta e della riorganizzazione di classe, è perché i decenni, in un modo di produzione storico, contano di meno di quanto si sperimenti vivendoli in poche unità che non mollano e mantengono viva la tradizione proletaria. Lo stillicidio di eventi che accompagna le crisi epocali si protrae anche secoli: basti pensare alla fine dell’impero romano e anche del medioevo. Dunque non ne facciamo una questione di calendario, come è trivialmente di moda.
Certamente, inoltre, la sfida non è riferibile a duelli rusticani o tra individui, secondo il folklore western, fra il bandito e lo sceriffo. Lo scontro è tra sistemi alternativi di vita, in generale, produttiva e culturale. La sfida, come il nostro passato testimonia, non è atteggiamento soggettivo, un non condividere polemico, ma un progetto storico, determinato da forze che nessuno può né evocare né neutralizzare con la “volontà”. È di questo che si tratta, al di là delle semplificazioni mediatiche. Sta al Partito non sottrarsi ad una valutazione critica, che trovi nel suo programma fondamento e ragioni per la sua attività futura.
Si contrappone, storicamente, alla società comunista la violenza della guerra. Per fare in modo concreto e vero guerra alla guerra è necessario che siano individuate le forze in campo, la loro consistenza, gli obbiettivi che si prefiggono e che si configurano nel loro svolgersi dinamico.
Il fine non giustifica i mezzi. Il pacifismo, di vario tipo, pretende di opporre il mezzo della non violenza (sempre relativa, però, poiché quella assoluta è contraddetta dalla pratica della “legittima difesa”, che le stesse Chiese riconoscono e con la quale giustificano la rappresaglia degli Stati...) alla violenza perpetrata dai fautori del realismo politico. La nostra posizione, spesso strumentalmente identificata come “violenta”, considera la violenza come necessaria in quanto leva perché la società vecchia possa partorire le forze nuove che ha incubato nel suo seno. C’è chi a detto: chi ha insegnato al pulcino a rompere il guscio dell’uovo? Nessuno.
Chi crede che la pace risponda ad una “pedagogia”, ad una predicazione della non violenza, chiude gli occhi facendo finta di non vedere come le grandi organizzazioni sociali, che nell’età moderna sono culminate negli apparati statali e superstatali (con un dispiegamento di forza che è in grado di uccidere non una sola volta, ma almeno tre volte ogni individuo che sta sulla terra) non si possono convertire in organizzazioni sociali filantropiche facendo gli struzzi. Tanto varrebbe fare appello al divino che, con un suo atto gratuito liberi gli uomini dal male che loro stessi hanno provocato!
Quando un Heidegger, dopo le sue note implicazioni col nazismo, a fatti avvenuti, ha sostenuto che “solo Dio potrà salvarci”, non ha fatto che rivelare la sua natura di sempre: le sue previsioni politiche si erano dimostrate errate, la sua idea della Germania, fasulla come quella di tanti volenterosi collaboratori del programma nazionalsocialista... ecc.
Ne discende che la filosofia non è certo la migliore consigliera del Principe. La milizia proletaria risponde a ben altre determinazioni: la necessità della guerra contro il Capitale.
L’epoca imperialistica del Capitale dovrebbe aver insegnato qualcosa, in quanto a fallimenti teorici: si pensi allo schematismo staliniano, secondo il quale la Prima Guerra mondiale avrebbe visto l’emergere del proletariato in Russia, la Seconda la formazione del “campo socialista”, e la Terza avrebbe dovuto vedere l’affermazione globale del socialismo!
Il nesso mezzo/fini mai ha visto così gravi scarti e bestemmie teoriche. Nel caso della Sinistra comunista la difesa intransigente della teoria contro forze avverse trionfanti è costata sacrifici immensi, che soltanto il fine potrà ripagare degnamente.
Oggi, di fronte alla Terza Guerra mondiale strisciante, in una situazione che il proletariato non si dimostra in grado di rovesciare a suo vantaggio, si ha l’impressione che lo “strumento terroristico” possa far breccia in generazioni di diseredati dei paesi più poveri, che si sono visti deludere da un’infinità di altre “scorciatoie” della lotta di classe. Chissà le risate “occulte” che si sono fatte e si faranno “i cospiratori”, di fronte alla nostra minima azione, improntata alla presentazione del programma senza reticenze! Non lo facciamo certo per ingenuità, né per generico eroismo. Niente di tutto questo. Ogni forma di lotta che non tenga conto della realtà molecolare del capitalismo, della complessa lotta sui vari fronti, prima di tutto quello sociale, è destinata al fallimento. Per questo la nostra attività deve apparire anche agli organi dello Stato come “romantica” o espressione di fatalismo senza prospettive.
È che allo stesso Capitale ed al suo personale politico sfugge ormai ogni piano di lungo periodo che meriti il nome di progetto sociale. È quello che abbiamo sempre detto, la borghesia non ha mai saputo esprimere il suo partito unico, e quando lo ha tentato, vedi fascismo e nazismo, nonché stalinismo, lo ha fatto per rafforzare la sua macchina statale fino al punto di identificarsi con essa.
Se nel tempo si sono sviluppate teorie individualistiche, che hanno
teorizzato la precedenza dei diritti dei singoli contro lo Stato, fino
a certe attuali correnti di anarco/capitalismo che vegetano in Usa, sono
reazioni della piccola borghesia contro lo Stato interventista, che costituisce
l’organo armato degli interessi del grande Capitale, all’interno come
all’esterno. Soltanto nella concezione comunista lo Stato proletario
sta sotto il Partito, prima, durante e dopo la presa del potere.
Se questo paradigma non si concretizza, qualcosa non va: è quello che
noi abbiamo visto allorché col “socialismo in un solo paese”, abbiamo
assistito ad un rafforzamento della macchina statale, accompagnato dallo
scompaginamento del Partito, divenuto altra cosa, passato al servizio degli
interessi borghesi.
Esercito borghese, esercito proletario
La nostra sfida contro la guerra, prodotta dalle tensioni tra Stati imperialisti, non può essere portata senza queste premesse teoriche fondamentali. Se le dimenticassimo, ci avventureremmo in un territorio non nostro, infido e pericoloso.
Allora, prima di tutto, il Partito, per quanto alla scala infinitesima, non deve dimenticare di ripetere e ripetersi queste nozioni. L’organizzazione viene dopo, come abbiamo sempre sostenuto. C’è poco da meravigliarsi, allora, se nel corso della sua semisecolare battaglia il Partito non è mai stato tentato di abbozzare un suo organo “militare”, come hanno preteso correnti piccolo-borghesi malate di azionismo e di avventura. La forza militare, che non può essere estranea al Partito, non è autonoma e indipendente dall’andamento della lotta sociale.
Durante la Rivoluzione russa si produssero le condizioni che videro i proletari in armi volgere i fucili contro i fautori della guerra imperialista. L’attuale realtà di guerra strisciante, ancora dominata dagli eserciti “professionali”, mercenari al soldo del Capitale, è ancora più complessa. A Machiavelli le truppe di ventura apparivano pericolosamente inutilizzabili per la causa popolar-nazionale. A giudicare di come stanno andando i combattimenti in Iraq, sembra che lo siano poco anche per la causa imperialista. È pensabile, in fase di rivoluzione sociale internazionalmente montante, uno svuotamento dall’interno, un incepparsi, delle mostruose macchine da guerra del Capitale, che non sono fatte solo di acciaio ed elettronica? È certo che solo a scopo controrivoluzionario gli Stati borghesi hanno sospeso la leva obbligatoria per volgersi alla “guerra professionale”, fatta con corpi mercenari addestrati nelle varie specialità della lotta contro il nemico interno ed esterno. Le casematte borghesi stanno asserragliandosi sempre più, in difensiva. Come del resto stanno facendo i gruppi “illegali” che dicono battersi contro il superpotere Usa ed alleato.
Com’è possibile formare un esercito proletario in queste condizioni e come dirigerne l’azione? Soltanto gli sviluppi d’una lotta in ripresa alla scala generale e sociale potrà chiarire la questione. Ancora una volta abbiamo la riprova che non è possibile pensare alla questione militare in quanto tale, indipendentemente dalla lotta dispiegata sui posti di lavoro che ridia disciplina ai militi del lavoro.
La guerra contro il “nemico invisibile” è una buona ragione e pretesto per mobilitare le forze più eterogenee messe in allarme permanente, oppure addormentare la ricerca delle vere ragioni della pace e della guerra con l’emergenza alla porta. Si tratterà di vedere quanto e come questo tipo di strategia potrà durare. Nel frattempo si dimostra l’arma con la quale le potenze si contendono le regioni strategiche del mondo, secondo una dislocazione di presidi che corrispondono, anche visivamente, alla presenza di risorse considerate strategiche per la produzione e l’approvvigionamento delle frazioni capitalistiche in concorrenza tra di loro.
Il coinvolgimento proletario, come era avvenuto con le guerre coloniali classiche, sembra sostituito dalla minaccia terroristica e coperto ideologicamente con moralismi, che vanno dalla guerra umanitaria al disarmo degli Stati canaglia. Ma, a ben pensarci, la tattica rimane la stessa: schierare forze in campo, costringere a prender posizione, impedire preventivamente ogni conato di lotta proletaria per i propri interessi di classe.
La borghesia, nel suo secolare confronto col proletariato, sa bene che la tattica per scompaginare l’esercito operaio consiste nell’impedire la sua organizzazione di classe. Sappiamo bene come si sono svolte queste modalità di combattimento. Fin dal 1791, con la legge Le Chapelier in Francia, la borghesia vietò l’associazionismo operaio, in nome delle libertà personali individuali. In seguito, sotto la pressione dell’esercito proletario, riconobbe le associazioni sindacali, prima in Inghilterra, poi in Francia. Nell’epoca imperialistica tende, prima col fascismo, poi con la democrazia, a svuotare le organizzazioni di lotta e ad integrarle nell’apparato statale, considerando le lotte puramente operaie come “antinazionali”. Quanto più, nei vari paesi, le lotte sindacali tendono ad assumere una valenza di classe, tanto più la borghesia dimostra di non esitare a combatterle come nemiche dell’ordine pubblico, quasi ritornando ai suoi albori.
Dietro questo andamento del modo di proporsi dello Stato borghese nei confronti del movimento operaio, appare implicitamente che il proletariato è già per definizione un “esercito”, con una sua, più o meno definitiva, disciplina. Quanto più l’esercito operaio è disciplinato, inquadrato nelle sue vere organizzazioni, tanto più è temuto dall’avversario; quanto più si dimostra infiltrabile dallo Stato, dai suoi partiti antioperai, tanto più è alla mercé del nemico di classe.
Dunque l’esercito non è una nozione puramente militare. Se la classe dimostra d’aver la sua direzione, e mostra di perseguirla, allora, nei momenti che la storia non manca di determinare, sarà in grado di assumere le sue iniziative, anche specificamente militari, nel senso di armi, di disposizione nel campo, di battaglie da vincere o anche da perdere, come è tipico d’ogni guerra.
Che in fabbrica l’esercito proletario impari la disciplina è il prodotto dello stesso regime del lavoro capitalistico: il regime di fabbrica – lo dice il nome – comporta in qualche modo una irreggimentazione nei ranghi della produzione. Oggi si vuol sostenere che il declino del fordismo, la produzione a isole, a rete, avrebbe comportato una sorta di smobilitazione. La verità è che soltanto l’organizzazione sindacale, che raccoglie non la maggioranza, ma a volte solo una certa parte dell’intera classe, ha dato storicamente una disciplina ai proletari; in particolare quelle correnti sindacali influenzate dal Partito, che non si limita a proporre la lotta per ragioni economiche, ma quella più propriamente politica generale. Come si vede “l’esercito” proletario comporta una selezione: non tutti saranno soldati operai; gran parte saranno addetti ad altre funzioni.
Di certo l’esercizio della lotta, in qualsiasi forma, abilita a conoscere e sperimentare la durezza dei rapporti capitalistici di produzione. Ciò che conta è la continuità di questo esercizio, la sua trasmissione tra generazioni di proletari.
È questa eredità che mette in allarme lo Stato borghese che, attraverso la sua macchina, tenta in tutti i modi di appropriarsi di spezzoni di classe, di coinvolgerli nella sua logica, fatta di sottomissione e di opportunismo. Inoltre è necessario far riferimento al fatto che, nel corso storico, l’attività sindacale, aperta a tutti i lavoratori, ha comportato presto l’influenza di ambienti politici che hanno avuto della disciplina sindacale e dell’esercito nel suo insieme una nozione molto diversa. Alcune forze politiche di provenienza borghese neanche parlano di “esercito” proletario, che considerano una ciurma suscettibile di mille imbrogli e di molte possibilità di trattamento. Insomma, non è proprio consigliabile di riferirsi ad una realtà così variegata senza tener conto della necessità storica di curare la classe statistica in modo che diventi “politica”, che cioè non si limiti a far numero, ma esprima la sua potenzialità e la sua prospettiva. Senza partito, per noi, non solo la classe rimarrebbe “statistica”, ma rischierebbe di ridursi ad un esercito senza quadri, senza un fine.
Abbiamo avuto in questo senso esperienze cruciali. Che, in ogni modo, la funzione militare sia la più delicata per il Partito, non c’è dubbio. Non per caso, storicamente, l’ha sempre rivendicata, senza condividerla non nessuna altra forza.
Dopo la presa del potere da parte del fascismo, ad esempio, di fronte alle proposte da parte degli Arditi del Popolo di fare azione comune per combattere le squadracce, la Sinistra rivendicò la totale autonomia ed estraneità con quelle formazioni militari, che pure erano appunto “ardite” e combattive. La causa si tanta “gelosia” è facilmente comprensibile: l’esercizio della forza per qualsiasi formazione politica e militare comporta il massimo della disciplina e dell’efficacia. Inoltre attraverso la pressione o la commistione con altre forze è possibile che il programma possa essere compromesso e svilito.
In un certo senso l’azione militare, quando del momento, è quella culminante, perché porta alla presa del potere, al suo esercizio, alla dittatura proletaria. Ciò per quanto riguarda il rapporto diretto tra partito e questione militare. Per quanto concerne invece la disciplina dell’esercito proletario e la battaglia con una serie di formazioni avversarie, il problema è ancora più complesso: nel corso della lotta e della guerra mille sono i rivoli di violenza, legale, extralegale, di formazioni che seguono le direttive dello Stato, di organizzazioni superstatali, secondo alleanze, strategie non sempre chiare, che mettono a dura prova non solo l’organizzazione militare, ma anche quella politica.
La guerra è la prova culminante della lotta di classe, dura ed impegnativa: basta ricordare le imprese, tragiche e terribili, che vanno dal 1848, alla Comune parigina, al 1917 russo, al dopoguerra, fino a tutte le meno esaltanti vicende del Novecento. In verità, il proletariato di questi ultimi 50 anni non ha avuto esperienze militari degne di questo nome: i militanti del Partito di oggi non hanno personale esperienza di fasi cruciali della lotta operaia.
Nella nostra concezione non è possibile né serio dare avvio ad una strategia militare che non abbia o possa contare su una disciplina ferrea, in confronto alla quale quella degli Stati borghesi è per definizione “anarchica”. Su questo punto è il caso di chiarire: la disciplina per noi non è appartenenza ed un esercito di soldatini di piombo. Come gli eserciti dei rivoluzionari borghesi, apparentemente straccioni guidati da generali fatti sul campo, ebbero ragione dei parrucconi che venivano dall’Accademia, così quello proletario ha conosciuto geni della strategia come Trotski, che in verità erano prima di tutto militanti di un partito temprato da un lunghissimo lavoro teorico e pratico.
Questo noi chiamiamo “disciplina”; niente di formale, ma invece sostanziale, che non può prescindere dal Programma politico, che anzi discende in linea diretta dal programma politico.
Il “generale”, titolo che fu attribuito ad Engels, esperto e curioso di strategia militare, non è onorifico, ma dettato da una conoscenza generale delle questioni, da quelle economiche a quelle politiche, filosofiche e ideologiche. Insomma, una preparazione completa, che ha fatto di certi nostri militanti dei “geni” riconosciuti anche dal nemico! Chi ha qualche dubbio sulla capacità politica-militare di Lenin, Trotski, di Tukacewsky?
Nella nostra versione, non è questione di “intelligenza” individuale, bensì d’integrazione organica, nel partito, nell’organizzazione, secondo un’esperienza non scolastica, ma umana, proletaria, consapevole dei grandi compiti che la storia sa assegnare, in determinati contesti, agli uomini ed alle forze che hanno saputo abilitarsi a compiti così gravi.
Sappiamo bene che tali prerogative ed esigenze, sembrano straniere nel contesto consumistico e squallido nel quale il capitalismo putrido ha gettato le giovani generazioni, dedite alla dissipazione ed alle arti della consolazione narcotica ed artificiale. Noi sappiamo che i proletari, in quanto tali, non possono chiamarsi fuori dall’ideologia piccolo borghese che li corrompe con il peggio dell’illusione e della manipolazione.
Ma sappiamo anche che il fuoco della lotta è di per sé purificatore, e solo potrà aver ragione di tante brutture che non fanno onore né ai proletari né agli uomini in generale, in quanto appartenenti alla Specie. È in nome di essa, infatti, che il comunismo combatte, per emanciparli tutti, anche quelli che si sono adagiati nelle miserie e nelle vergogne delle società di classe. Il Comunismo fa dell’appartenenza alla Specie la sua religione.
La “barbarie” borghese, in nome della “civiltà”, mette in gioco, in pace e in guerra, forze assoldate. Quotidianamente il proletariato è costretto al lavoro salariato. Ciò che invece caratterizza il Partito in quanto tale – e non è una contraddizione – è l’adesione gratuita e personale, che comporta responsabilità e disciplina. Questo Partito, che domani guiderà la riscossa di masse enormi, anche contro la guerra imperialista, innalzerà la bandiera di quei ribelli che non vorranno mai più esser pagati.
L’Iraq sotto la monarchia
La struttura sociale
La regione attualmente conosciuta come Iraq fu incorporata nel mercato mondiale nella seconda metà dell’Ottocento, a partire dall’apertura del canale di Suez nel 1869, e vi si inserì come paese esportatore di grano. In pochi decenni l’agricoltura orientata al mercato conobbe uno sviluppo senza precedenti: mentre negli anni 1867-1871 venivano esportati annualmente cereali per 140 mila lire sterline, nel 1912-1913 si era arrivati a un valore di 8 milioni all’anno.
Questo aumento produttivo, di quasi 60 volte in quarant’anni, fu determinato dal processo di modernizzazione dell’agricoltura, che portò alla disgregazione della precedente economia pastorale, strutturata a livello sociale nelle tribù, e alla sedentarizzazione delle popolazioni nomadi. I nomadi diminuirono dal 37% della popolazione nel 1860 al 7% nel 1930, mentre i contadini aumentarono, dal 1867 al 1930, dal 41% al 68%. Allo stesso tempo, per intervento diretto dello Stato turco, di cui quella regione faceva parte, venne disgregata la proprietà comune della terra, e gli antichi capi tribali (chiamati sceicchi nelle zone arabe e agha in quelle curde) furono trasformati in proprietari terrieri. Negli anni Settanta dell’Ottocento infatti fu introdotta una riforma del regime di proprietà della terra, per cui era richiesto, per il suo possesso, di esibire l’atto legale di proprietà; la terra restava di proprietà dello Stato, ma il possessore dell’atto godeva praticamente di tutti i diritti, come se fosse sua.
Secondo il nuovo codice «la proprietà collettiva della terra veniva espressamente proibita e la registrazione del titolo di possesso poteva essere fatta solo a nome di un individuo. In aree di coltivazione in gran parte tribali il titolo era spesso intestato al nome dello sceicco, quale personalità più riconosciuta e potente. O per ignoranza o per sospetto, o per mal riposta fiducia nell’altruismo delle famiglie degli sceicchi, moltissimi coltivatori tribali non furono registrati e si trasformarono così in mezzadri» (Charles Tripp, Storia dell’Iraq, p.47).
Questo processo di accentramento della proprietà terriera nelle mani degli sceicchi si aggravò ulteriormente con l’occupazione, poi il controllo inglese delle tre province ottomane di Bassora, Baghdad e Mosul e con la nascita dello Stato iracheno, sotto monarchia haschemita, nel 1921. I proprietari terrieri infatti vennero confermati dagli inglesi come il pilastro della società irachena. I latifondisti divennero la classe sociale su cui poggiava la monarchia filobritannica, che operò a loro quasi esclusivo favore, promulgando leggi che ne allargavano e proteggevano i diritti, reprimendo le rivolte contadine, spendendo buona parte del bilancio statale a loro vantaggio. Nel giro di pochi decenni riuscirono a concentrare nelle loro mani la quasi totalità delle terre: quando cadde la monarchia, nel 1958, il 2% dei proprietari possedeva ancora i 2/3 delle terre coltivate, e 49 grandi famiglie possedevano da sole il 17% di tutte le terre, mentre il 64% dei contadini proprietari possedeva appena il 3,6% delle terre coltivate.
Il sistema di conduzione predominante era quello dell’iqta, secondo il quale le grandi tenute erano divise in piccoli appezzamenti dati in mezzadria o in affitto a famiglie contadine, legate con un rapporto quasi-servile al padrone. «Nel 1933 l’influenza dominante dei possidenti fu riscontrabile nella Legge sui diritti e sui doveri dei coltivatori. Essa conferiva ai proprietari terrieri ampi poteri sui loro affittuari, che diventavano responsabili della scarsezza dei raccolti, oltre che passibili, da un lato, di sfratto con breve preavviso, dall’altro vincolati alla terra affidata finché non fossero stati regolati i debiti contratti con il proprietario. Date le condizioni di indebitamento dei contadini in certe aree, molti di loro si sentirono indotti a scappare dalla terra e ad andare a vivere in miseria nelle sarifa, agglomerati di capanne costruite con paglie e fango, nei dintorni di Baghdad» (Tripp, p.125).
Una delle conseguenza di questo sistema di conduzione fu che la produzione agricola, destinata in gran parte all’esportazione, veniva aumentata attraverso l’allargamento delle superfici coltivate (quintuplicate tra il 1913 e il 1943 e poi raddoppiate tra il 1943 e il 1958) o torchiando sempre più i contadini (negli anni ‘50 molti dei contadini che lavoravano la terra a mezzadria non ricevevano che il 15-20% del loro raccolto), mentre era ostacolata la modernizzazione delle tecniche agricole.
L’arretratezza di questi rapporti nelle campagne fu anche una delle cause del lento sviluppo industriale del paese. Poiché i latifondisti, spesso assenteisti, erano restii ad investire le loro rendite nell’industria, questa si sviluppò lentamente, confinata alla trasformazione dei prodotti agricoli e alla produzione di beni di consumo per il mercato interno, d’altronde ben ristretto.
La produzione di petrolio, completamente in mano a compagnie straniere, iniziò ad essere significativa dal 1934.
In questa situazione economica le maggiori concentrazioni operaie si formarono tra i portuali di Bassora, dove negli anni Quaranta del Novecento si contavano 5.000 operai, nelle ferrovie (11.000) e nell’industria dell’estrazione petrolifera (13.000). Complessivamente i lavoratori iracheni che lavoravano in imprese con più di cento addetti passarono da 13.000 nel 1926 a 63.000 nel 1954, di cui la metà concentrati a Baghdad e Bassora. Negli anni Cinquanta del Novecento i proletari, compresi coloro che lavoravano nei trasporti e nei servizi, assommavano a circa 400.000 persone (su una popolazione urbana di 2.600.000 abitanti), ma per lo più erano impiegati in piccolissime imprese con meno di cinque lavoratori.
La situazione del proletariato, soprattutto di quello agricolo, per tutta la prima metà del Novecento era di grande povertà. Negli anni Cinquanta l’80% della popolazione era ancora analfabeta, percentuale che saliva al 90% tra le donne; vi era un dottore ogni 6.000 persone e un dentista ogni 500.000. Non esisteva alcuna forma di copertura assistenziale per la disoccupazione, la vecchiaia e la malattia. La speranza di vita in ambito rurale era tra i 35 e i 39 anni.
La borghesia irachena, in questa fase dello sviluppo economico, non
poteva che essere una classe sociale molto fragile; la borghesia commerciale
rappresentava il settore più importante, ma era ben poco interessata a
investimenti a lungo termine, mentre la borghesia industriale aveva legami
diretti, spesso anche di tipo familiare, con la proprietà fondiaria, essendo
più del 34% della giovane industria irachena un’industria di trasformazione
dei prodotti dell’agricoltura.
La nascita dei primi sindacati
La prima organizzazione economica di tipo sindacale nacque nel 1929, si chiamava “Associazione degli artigiani” ed era diretta da Muhammad Salih al-Qazzaz, un meccanico che divenne il primo leader operaio dell’Iraq. Questa associazione combinava aspetti tipici di una corporazione, con aspetti sindacali moderni, e non aveva caratteristiche esclusivamente di classe poiché insieme ai lavoratori delle officine ferroviarie di Baghdad organizzava artigiani e piccoli commercianti che lottavano soprattutto per un sistema fiscale meno iniquo.
L’Associazione organizzò uno sciopero generale di 14 giorni nel luglio 1931 contro nuove tasse municipali, che mobilitò a livello nazionale l’opposizione alla monarchia retta dagli inglesi. Il governo rispose mettendo fuori legge l’Associazione e arrestando il suo capo. Nel 1932 però, sempre al-Qazzaz fondò la prima Federazione sindacale, che fu anch’essa messa fuori legge nel gennaio 1934, dopo aver organizzato il boicottaggio, durato un mese, della compagnia elettrica di Baghdad, posseduta dagli inglesi.
Per dieci anni fu impossibile qualsiasi lavoro sindacale legale, ma
i lavoratori scesero in sciopero in massa in tutto l’Iraq nell’aprile-maggio
1937 per richiedere maggiori salari: è stato stimato che gli scioperanti
fossero circa 20.000.
La penetrazione del comunismo
La diffusione del movimento comunista in Iraq avvenne negli anni Venti del Novecento seguendo un processo simile alla Russia, dove la teoria comunista era penetrata nel Paese attraverso gli intellettuali, gli unici in grado di leggere letteratura comunista, pressoché inesistente in lingua russa; così accadde in Iraq, dove i primi comunisti provennero soprattutto da famiglie di piccola borghesia. Ma se a Baghdad la propaganda era per lo più limitata ai circoli intellettuali, a Bassora e Nassiria, città operaie, l’attività si rivolgeva anche ai lavoratori.
Il primo appello di cui si ha notizia, riconducibile ad una organizzazione comunista, era firmato “Un lavoratore comunista” ed apparve proprio a Nassiria nel dicembre 1932, con il titolo «Lavoratori del mondo unitevi! Lunga vita all’unione delle repubbliche dei lavoratori e dei contadini dei paesi arabi!». Il testo era molto semplice, ma il tono appariva chiaramente classista. Questo, come quasi tutti i documenti che citiamo del Partito Comunista Iracheno sono tratti dal volume di Ilario Salucci, al-Wathbah (il salto) Movimento comunista e lotta di classe in Iraq (1924-2003) che riporta anche una dettagliata bibliografia.
Qualche tempo dopo i circoli di Baghdad, di Bassora e di Nassiria fissarono un congresso di unificazione. L’8 marzo 1935 a Baghdad venne proclamata la nascita del partito comunista iracheno, sotto il nome molto generico di “Associazione contro l’Imperialismo”, probabilmente un modo per cercare di sfuggire, almeno all’immediato, alla repressione. Il Manifesto dell’Associazione si rivolgeva “Agli operai e ai contadini, ai soldati e agli studenti, a tutti gli oppressi!” ed esprimeva certamente una maggiore maturità politica del precedente delineando una chiara critica, anche dal punto di vista economico, al sistema di sfruttamento cui era sottoposto il proletariato iracheno da parte delle classi dominanti indigene, legate a doppio filo con l’imperialismo inglese e avanzando addirittura un programma di rivendicazioni immediate sia per i proletari delle città sia per quelli delle campagne.
«La prima rivoluzione irachena [quella del 1920 contro l’occupazione inglese] crebbe grazie alle nostre braccia, a noi, masse degli operai e dei contadini. Dalla nostra classe vennero le angosce, i sacrifici, le decine di migliaia di vittime (...) I benefici andarono ai finanzieri, ai signori feudali, agli alti ufficiali (...) A noi invece è toccato in sorte solo fame, freddo e terribili malattie (...) e un’orda di esattori di tasse senza un’ombra di pietà e umanità (...)
«Oggi gli inglesi e la classe dominante sono stretti insieme allo scopo di perpetuare l’oppressione e lo sfruttamento di cui soffriamo... Il petrolio e altre materie prime del paese sono diventati una riserva esclusiva per gli inglesi, e l’Iraq è ridotto a uno sbocco per le loro merci e i loro capitali in surplus, e in una base di guerra diretta contro i popoli vicini, e contro ogni aspirazione per la libertà che possono avere i paesi arabi. La classe dominante, per parte sua, saccheggia gli incassi delle tasse, si appropria indebitamente della terra, e costruisce palazzi sulle rive del Tigri e dell’Eufrate. I milioni di contadini ed operai, nel frattempo, continuano a morire di fame, a morire dissanguati, a contorcersi nei tormenti (...)
«Dobbiamo porre termine a queste condizioni così ingiuste e intollerabili. Domandiamo un cambiamento nei veri fondamenti della vita, un decisivo cambiamento a vantaggio di tutte le classi produttive (...) Alziamo ancora la nostra voce nelle campagne, il tuono che riempie di terrore il cuore dei nostri oppressori (...) Uomo di città e uomo del villaggio, operaio e contadino, uniti, qualsiasi sia la setta o la razza, appoggiati dai pensatori rivoluzionari, marciamo fianco a fianco per conquistare nella prima fase della lotta: – la cancellazione di tutti i debiti dei contadini; la loro liberazione da tutte le tasse onerose; la distribuzione ai loro poveri delle terre statali; e la garanzia di tutti i crediti necessari; – la garanzia agli operai della libertà di assemblea e di parola (...); la riapertura dei loro circoli e sindacati; la promulgazione di leggi che proteggano gli operai (...) contro i licenziamenti arbitrari e che li assicurino contro la fame nella loro vecchiaia e la realizzazione della giornata di otto ore in tutti i posti di lavoro, posseduti da iracheni o da stranieri (...)
«Abbasso l’imperialismo inglese! Via tutti i trattati schiavisti! Lunga vita al fronte unito contro l’imperialismo e contro gli oppressori dei contadini e degli operai!»
Il partito però si disgregò, dopo solo un mese di esistenza, sulla questione se presentarsi o meno pubblicamente come Partito comunista: alcuni dei gruppi si distaccarono (Bassora, Nassiria, una parte di Baghdad), mentre il nucleo che rimase decise di pubblicare un giornale illegale, il cui primo numero uscì a luglio con il titolo La lotta del Popolo e con l’indicazione “organo del Comitato Centrale del Partito Comunista d’Iraq”.
Il programma pubblicato nell’agosto 1935 in sei punti chiamava alla lotta per: «1. L’espulsione degli imperialisti; la garanzia della libertà al popolo, della completa indipendenza ai curdi e dei diritti culturali (...) a tutte le minoranze dell’Iraq; 2. La distribuzione della terra ai contadini; 3. L’abolizione di tutti i debiti e ipoteche sulla terra (...); 4. La requisizione di tutte le proprietà appartenenti agli imperialisti, in primo luogo le banche, i campi petroliferi, le ferrovie, e l’espropriazione dei latifondi agricoli; 5. La concentrazione dei poteri nelle mani dei lavoratori e dei contadini; 6. L’inizio immediato della rivoluzione sociale in tutti gli ambiti della vita e la liberazione del popolo da tutte le molteplici oppressioni esistenti».
È interessante notare come il programma si rivolga indistintamente ai lavoratori e ai contadini, dando rilievo solo alle contraddizioni di classe ed ignorando senz’altro le distinzioni di ordine religioso, riconoscendo solo l’esistenza di una questione nazionale per i curdi e le altre minoranze.
Probabilmente l’inesperienza e la mancanza della disciplina necessaria in una situazione di illegalità, portarono dopo pochi mesi all’arresto dei militanti che pubblicavano La lotta del popolo, il quale giornale, dopo aver avuto una diffusione di 500 copie a numero, cessò di uscire alla fine del 1935.
Per altro il giovane partito veniva a costituirsi ed impostarsi in un ambiente esterno dominato da una Internazionale Comunista stalinizzata e già completamente soggetta agli interessi dello Stato russo. Il regime ex-sovietico russo, ormai Stato borghese fra Stati borghesi nel mondo capitalistico, non appoggiava più la presa del potere da parte del proletariato di altri paesi, il che avrebbe messo in pericolo i suoi rapporti di collaborazione e le sue alleanze diplomatiche.
Ad affossare ogni politica rivoluzionaria ben si prestava la tattica, suicida, della Rivoluzione per tappe, che fu imposta alle varie Sezioni nazionali: prima si sarebbe dovuto lottare per attuare, o per completare, a seconda dei casi, la rivoluzione borghese a fianco dei partiti nazionalisti borghesi, solo successivamente, a rivoluzione borghese completata, con tutte le sue istituzioni ben costituite ed assestate, si sarebbe potuto intraprendere la lotta per il socialismo.
Il VII Congresso dell’IC, del 1935, impose la tattica del Fronte popolare antimperialista nei paesi coloniali e relegò i comunisti a «prendere parte attiva al movimento di massa antimperialista capeggiato dai nazionalriformisti e a sforzarsi di attuare un’azione congiunta con le organizzazioni nazionalrivoluzionarie e nazionalriformiste sulla base di una ben definita piattaforma antimperialista», togliendo quindi loro ogni funzione autonoma.
Una successiva risoluzione approvata dal Segretariato dell’Internazionale
Comunista nel febbraio del 1936, rivolta alle sezioni arabe, non faceva
mai riferimento alla lotta di classe: «I comunisti dei paesi arabi devono
essere profondamente consci del fatto che essi rispondono del destino del
loro popolo e della loro patria, che su di essi ricade la responsabilità
dell’esito della lotta per l’indipendenza nazionale e l’emancipazione
sociale, devono essere consci del fatto che essi sono gli eredi e i difensori
delle migliori tradizioni nazionali e culturali dei loro popoli». Ai partiti
comunisti si raccomandava di «assicurare una stretta collaborazione con
i nazional-rivoluzionari, di conseguire la collaborazione con le organizzazioni
nazional-riformiste, di appoggiare le rivendicazioni di queste organizzazioni
dirette contro le posizioni dell’imperialismo».
La crisi politica degli anni Trenta
Negli anni Trenta la struttura del potere monarchico iracheno entrò in crisi. Il 30 giugno 1930 il nuovo Primo Ministro Nuri Said firmò un nuovo trattato con la Gran Bretagna, che rimpiazzava quello del 1922. «Questo atto diplomatico riconosceva l’indipendenza dell’Iraq, sotto riserva del mantenimento di importanti privilegi per la Gran Bretagna per un periodo di venticinque anni, tra i quali il possesso di due basi militari, di Habbaniya vicino a Baghdad e di Chouiba presso Bassora. I nazionalisti si indignano e l’effervescenza guadagna la popolazione, ma Nuri Said, che cumula le funzioni di presidente del Consiglio, Ministro degli Affari Esteri, dell’Interno e della Difesa, tiene il Paese con mano di ferro. Il 3 ottobre del 1932 l’Irak, con il patronato della Gran Bretagna, entra nella Società delle Nazioni: il mandato britannico finisce automaticamente» (P. Rondot, L’Irak, p.28).
La rapida crescita di una élite di potere era basata fondamentalmente sulla comunità sunnita e sull’esercito, formato dagli Inglesi nel 1921, insieme alla Monarchia.
Nel 1934 il Re riuscì ad introdurre la leva militare obbligatoria; questo provvedimento era avversato da Londra, che avrebbe voluto un esercito professionale, meno numeroso, meno costoso e più controllabile; la monarchia invece intendeva usare l’esercito come strumento per unificare il Paese e rafforzare il sentimento nazionale; l’introduzione della leva obbligatoria fu però accolta negativamente dai grandi latifondisti sciiti del Sud e dalla etnia curda.
Nel gennaio del 1935, nella regione del medio Eufrate, scoppiarono tumulti ed eminenti sceicchi tribali sciiti presentarono al governo, nel marzo 1935, una Carta del popolo che presentava le preoccupazione di gran parte della popolazione: «Essa accettava lo Stato iracheno ma metteva in evidenza la mancanza di proporzione della rappresentatività sciita sia nel parlamento sia nel sistema giudiziario e invocava libere elezioni, libertà di stampa e riduzione delle tasse» (Tripp, p.122).
Dopo trattative durate alcune settimane il governo decise di passare alla repressione, fu proclamata la legge marziale e la rivolta degli sceicchi fu domata con la forza dall’esercito, composto prevalentemente da ufficiali e truppa provenienti dalle aree sunnite, agli ordini del Capo di Stato maggiore Bakr Sidqi, che non esitò ad usare contro gli insorti anche l’aviazione, appena costituita. Dopo questa sanguinosa repressione «fu chiaro – commenta Tripp – che le tribù non avrebbero più costituito una minaccia al potere dello Stato centrale».
Nel frattempo anche nelle città stava crescendo una opposizione politica
al potere monarchico: si trattava soprattutto di intellettuali e professionisti,
la nascente borghesia, critici verso le cricche e le fazioni che si erano
arroccate al vertice dello Stato iracheno. Questa opposizione, raccolta
attorno al giornale Al-Ahali, notava che molte delle difficoltà
finanziarie dell’Iraq, molti dei suoi problemi economici e sociali potevano
essere imputati ai principali proprietari del paese, accusati di condurre
una politica di vera e propria rapina verso le classi più povere, provocando
una situazione di estrema tensione sociale e andando così contro lo stesso
interesse dello Stato borghese iracheno.
Il colpo di Stato del 1936
Nell’ottobre del 1936, mentre il nuovo capo del governo Taha al-Hashimi si trovava in visita di Stato in Turchia, il capo di Stato Maggiore delle Forze Armate Bakr Sidqi, d’accordo con Hikmat Sulaiman e altri dirigenti del gruppo Ahali, ordinò alle unità sotto il suo comando di marciare su Baghdad, mentre si richiedeva al Re di far dimettere al-Hashimi e nominare primo ministro Hikmat Sulaiman, cosa che il Re si affrettò a fare.
Il nuovo governo fu formato da molti componenti del gruppo Ahali, per cui anche alcuni sciiti divennero ministri, ma Capo di Stato Maggiore dell’esercito restò quel Bakr Sidqi che pochi mesi prima aveva dato ordine di massacrare i contadini insorti. Nonostante questo il nuovo governo fece sperare nell’inizio di un’era di riforme sociali e la sua formazione «fu salutata da dimostrazioni di sostegno, praticamente in tutte le città dell’Iraq, organizzate da vari gruppi radicali di discussione, dai sindacati più o meno clandestini e da un embrionale Partito Comunista Iracheno (PCI), tutti speranzosi che i loro obbiettivi potessero essere raggiunti» (Tripp, p.133).
Dunque “l’embrionale” PCI, in ossequio alle direttive di Mosca, pur incontrando resistenze in una parte dei compagni, diede il suo appoggio al colpo di Stato del generale Bakr Sidqi ed entrò a far parte della Associazione per la Riforma Popolare, un’organizzazione progressista che si batteva per le libertà democratiche, per la libertà di organizzazione sindacale, per le otto ore e la fissazione del salario minimo, per una riforma agraria, e una tassazione progressiva.
L’appoggio dei comunisti alla frazione “progressista” della borghesia fu pagato caro: bastò la modesta proposta, da parte dell’Associazione per la Riforma Popolare, di distribuire una limitata quota di terra governativa a singoli agricoltori con titolo proprietario, perché il fronte dei proprietari fondiari e della borghesia si compattasse contro i riformisti accusati di voler realizzare una riforma agraria radicale e di essere dei comunisti camuffati.
«In marzo e aprile una serie di scioperi sulle questioni delle paghe e delle condizioni di lavoro furono indetti da quei settori riformisti che volevano fare un gesto di sfida contro la loro sempre più marcata esclusione dal gioco politico. Però questo servì soltanto ad irrigidire le linee del conflitto. Hikmat Sulaiman dette mostra della sua inclinazione autoritaria, mandò la polizia a por fine agli scioperi, arrestò alcuni degli organizzatori e altri li mandò al confino» (Tripp, p.134). Il 12 luglio 1937 la stessa Associazione della Riforma Popolare venne messa fuori legge, e numerosi comunisti di primo piano furono arrestati, espulsi dall’Iraq, o costretti a fuggire all’estero. Da questo momento fino al 1946 non fu più permessa l’azione politica legale a nessun partito.
A decenni di distanza, dopo le tante sanguinose sconfitte patite dal proletariato iracheno, così commenta questi fatti tragici lo stalinista Aldo Agosti nella sua Storia dell’Internazionale Comunista (vol.II, tomo II, p.927): «L’indirizzo dato dal Comintern all’azione dei Partiti comunisti arabi ebbe effetti positivi anche in Iraq, dove il colpo di Stato dei militari progressisti nell’ottobre del 1936 fu, dopo qualche esitazione, appoggiato con decisione dal piccolo partito comunista, il quale ebbe un ruolo importante nella mobilitazione delle masse ponendo obbiettivi di riforma agraria e di nazionalizzazione delle industrie. Il Partito della Riforma Nazionale, che assunse il governo del paese, aveva per certi aspetti il carattere di un vero e proprio fronte popolare, e l’esperienza fu seguita dalla stampa del Comintern con interesse e con speranza. Già nel giugno del 1937, tuttavia, vennero alla luce in seno alla nuova leadership profondi contrasti fra moderati e rivoluzionari, e gli elementi di sinistra, compresi i comunisti, furono estromessi dal governo e costretti sulla difensiva». Non v’è qui nessun accenno alla azione repressiva della borghesia, nessuna critica per la tattica suicida imposta dal Comintern al giovane partito iracheno, costretto ad accodarsi ai partiti borghesi, rinunciando ad ogni suo connotato.
«Il centrismo – scriveva invece con molta lucidità l’organo della nostra corrente, Bilan, nell’autunno del 1937 – evidentemente dà molta importanza ai movimenti nazionalisti e invita i loro rappresentanti ai suoi congressi “antimperialisti”. Ma è certo che il Wafd in Egitto, il Comitato Esecutivo Arabo in Palestina, il Blocco “Nazionale” in Siria, il Destour (partito nazionalista) in Tunisia sono sempre pronti ad arrivare a patti con l’imperialismo. E quando si sono messi alla testa di agitazioni di tipo violento, l’hanno fatto col fine di cercare di frenarle e impedire che ne uscisse una soluzione di classe. Sia per l’imperialismo straniero, sia per le classi arabe privilegiate, il nemico è lo stesso: la massa degli sfruttati che cerca il suo sbocco. La grande rivolta del Marocco del 1924-26 (Abd-el-Krim), di Siria del 1925, il movimento in Palestina del 1929 e del 1936, le agitazioni in Tunisia e in Egitto sono, piuttosto che opera dei nazionalisti, espressione del malcontento delle masse contro il loro doppio sfruttamento. Meno ancora sono opera della “mano rossa” di Mosca (...)
«Ci sono evidentemente in Medio oriente dei partiti comunisti, almeno in Egitto, Palestina, in Siria e nell’Africa del Nord francese, ma sono tutti eccessivamente deboli numericamente e sottomessi alla più spietata repressione da parte della Francia e dell’Inghilterra “democratiche”. La loro storia interna è rappresentata dalla “arabizzazione” reclamata da Mosca, che significa, in parole povere, la loro integrazione nel movimento nazionalista. Naturalmente non mancano minoranze trotskiste e noi sappiamo cosa questo significhi».
Nonostante la repressione già nell’estate del 1937 una cellula “comunista” fu ricostruita a Baghdad, alla quale si unì, nel gennaio 1938, Yusuf Salman Yusuf, un militante che si era formato nelle scuole di partito della Russia, dove si era trasferito nel 1935.
In questo periodo la posizione del giovane partito sulla guerra appare in linea con la tradizione comunista e internazionalista: la guerra è imperialista e va combattuta su entrambe i fronti; il partito si batte perché l’Iraq resti neutrale e si oppone al transito delle truppe inglesi. L’imboccata veniva però dal Cremlino che, dopo aver concluso il patto di non aggressione con la Germania hitleriana il 23 agosto del 1939, alla fine di settembre lo aveva trasformato in vero e proprio patto di amicizia. Questo costrinse l’Internazionale Comunista e le varie Sezioni nazionali a “rivedere” le parole d’ordine rispetto alla guerra, non più scontro tra democrazia e fascismo, come si sosteneva ai tempi dei Fronti Popolari, propugnati appena quattro anni prima dal VII Congresso dell’I.C., ma “guerra imperialista”.
Questa nuova giravolta nell’orientamento dell’Internazionale Comunista venne ufficializzata da un articolo di Dimitrov e dall’appello per il 22° anniversario della rivoluzione d’Ottobre del novembre 1939, nel quale si definisce la guerra come “ingiusta, reazionaria e imperialista” e la si presenta come il frutto delle rivalità tra le potenze per le colonie e il controllo delle fonti di materie prime, per il dominio delle vie marittime e per lo sfruttamento di altri popoli; la responsabilità della guerra non viene più attribuita alla Germania nazista ma agli imperialisti inglesi e francesi. «In questa situazione – scriveva Dimitrov nel suo articolo – per la classe operaia c’è una sola posizione giusta: una lotta coraggiosa e senza compromessi contro la guerra imperialistica, una lotta contro i responsabili e gli agenti di questa guerra, prima di tutto nel proprio rispettivo paese, una lotta per mettere fine a questa guerra brigantesca».
Bene. Peccato che fossero solo parole, dato che la politica dell’Internazionale non era finalizzata a cercare di risparmiare al proletariato l’esperienza terribile di una nuova più devastante guerra imperialista preparandone la trasformazione in guerra di classe, ma era tesa ad appoggiare il complesso gioco diplomatico di Mosca.
Il piccolo gruppo che costituiva il Partito Comunista Iracheno ebbe
la forza, nel dicembre 1940, di costituire una “Comitato Centrale”
e di lanciare un giornale, La scintilla, inizialmente con una diffusione
di 90 copie, che tuttavia erano diventate 2.000 due anni dopo. Ma il ricostituito
Partito iniziava la sua opera in un momento di particolare difficoltà,
era infatti in pieno svolgimento il secondo conflitto imperialista e lo
scacchiere medio-orientale era uno dei principali fronti di guerra.
L’Iraq nella Seconda Guerra mondiale
Lo scoppio della guerra in Europa nel settembre 1939 determinò un rafforzarsi della presa della Gran Bretagna sull’Iraq; Londra chiese al governo iracheno di rompere i rapporti diplomatici con la Germania, di internare tutti i cittadini tedeschi presenti in Iraq e di fornire ogni tipo di assistenza all’esercito inglese. Re Ghazi, che in più occasioni non aveva nascosto la sua ostilità nei confronti della politica britannica in Medio oriente, era morto in un incidente d’auto nell’aprile del 1939 e fu nominato reggente, dato che suo figlio Re Feisal II aveva solo tre anni, il principe ‘Abd al-Ilah, più tollerante verso le pressioni britanniche.
Intanto una serie di colpi di Stato avevano portato all’estromissione dal governo dei settori della borghesia modernista e ad un rafforzamento del potere delle gerarchie militari; il governo era diretto da quel Nuri al-Sa’id che aveva già mostrato le sue doti politiche e la sua fedeltà agli interessi britannici nella repressione dello sciopero dell’estate del 1931.
«Visti gli sviluppi che la guerra prendeva in Europa, con la Germania che riportava continue vittorie, con l’ingresso dell’Italia in guerra e con la caduta della Francia, nel consiglio dei ministri iracheno le opinioni si fecero sempre più divise tra chi riteneva che l’Iraq doveva fare il possibile per assistere la causa alleata e chi pensava invece che ciò sarebbe stato fatale per gli interessi del Paese» (Tripp, p.146). Una parte delle gerarchie militari, raccolte attorno al cosiddetto “Quadrato d’oro”, convinte della prossima vittoria delle potenze dell’Asse e insofferenti della pressione inglese, costrinsero Nuri al-Sa’id prima a dimettersi e poi a fuggire, insieme al reggente, in Transgiordania, mentre reparti dell’esercito iracheno occupavano Baghdad. Fu formato un governo di difesa nazionale, presieduto da Rashid ‘Ali al-Kailani, con lo scopo di “salvaguardare l’integrità e la sicurezza del Paese”.
Era un momento critico per gli Alleati perché le truppe tedesche dilagavano nei Balcani e in Africa Settentrionale erano avanzate con gli italiani fino a Tobruk. La minaccia era serissima e assoluta la necessità di impedire che alle spalle dello schieramento britannico si potesse aprire una falla.
Nonostante le dichiarazioni del nuovo governo tese a rassicurare la Gran Bretagna sul rispetto degli obblighi previsti dal trattato, Londra non volle riconoscerlo, e decise anzi di sondarne le intenzioni con la richiesta che soldati britannici potessero sbarcare immediatamente a Bassora; l’atteggiamento temporeggiante del governo iracheno spinse la Gran Bretagna a inviare le truppe senza attendere l’autorizzazione irachena. Il governo iracheno rispose schierando alcune unità nei pressi della base aerea britannica di Habbaniya e, il 2 maggio, il comandante militare della base ordinò ai suoi soldati di attaccarle. Sarà la “guerra dei trenta giorni”. I comunisti appoggiarono il nuovo regime, che ottenne anche il riconoscimento diplomatico da parte della Russia. C’era grande eccitazione popolare; i comunisti aspettavano le armi dalla Russia, che naturalmente non arrivarono; il governo intanto sospese la Costituzione e il diritto di associazione politica e sindacale.
Nonostante la mobilitazione popolare gli inglesi non impiegarono molto ad avere ragione dell’esercito iracheno: ricevuti rinforzi di truppe provenienti dall’India operarono da Sud contro Bassora mentre da Ovest la Legione araba del sicuro Regno di Transgiordania attaccò verso il nodo petrolifero e strategico di Rutba. Fu una corsa col tempo, per impedire che Italia e Germania (dal 20 maggio era in corso l’operazione tedesca su Creta), potessero rifornire e sostenere gli iracheni: solo qualche aereo arriverà a el-Kailani. Il 31 maggio 1941, il primo ministro fu rovesciato da un colpo di Stato ispirato dal reggente principe Abdull Illah, di sentimenti filo-britannici. Il 1° giugno le truppe inglesi occuparono Baghdad.
Il 22 giugno del 1941 – a sorpresa – la Germania attaccò la Russia. Questo fatto, al quale Mosca era del tutto impreparata, la portò ad imporre un repentino cambiamento di politica a tutti i partiti comunisti: gli Stati nuovamente alleati dell’URSS tornavano ad essere “democratici”, ed ogni azione contro di essi, ed anche nelle loro colonie, andava cessata. Il Partito Comunista Iracheno è lento ad inghiottire il rospo, colà particolarmente indigesto, ed è solo nel novembre che si legge in un suo documento: «Se il governo inglese vorrà cercare l’appoggio delle grandi masse, lenendo la crudele crisi nella quale si dibattono (...) allora la libera e illuminata gioventù araba, seguita dalle vaste masse arabe, prenderà anche le armi e combatterà per il fronte democratico che è anche il nostro fronte (...) Con l’entrata in guerra dell’Unione Sovietica e della Repubblica Cinese e in conseguenza dell’atteggiamento mostrato dal popolo americano e inglese, le ostilità hanno perso il loro carattere imperialista (...) La guerra è ora la guerra di tutta l’umanità poiché dal suo esito dipende il destino di ogni nazione (...) La guerra è quindi la nostra guerra e noi dobbiamo prendere il nostro posto di fronte ai popoli democratici e liberi». Fu solo nel maggio 1942 che il giornale del PC Iracheno assunse in pieno le posizioni di Mosca, affermando: «Il nostro partito vede l’esercito inglese, che ora combatte il nazismo, come un esercito di liberazione (...) noi siamo dalla parte degli inglesi (...) dobbiamo quindi aiutare l’esercito inglese in Iraq in qualsiasi modo possibile». Il che significava per i lavoratori iracheni che il PC si poneva dalla parte della monarchia e dei latifondisti che dominavano il paese.
Nel corso dei sei anni intercorsi tra la fondazione del partito e la sua ricostituzione nel 1940-1941 si era prodotta una mutazione profonda: l’assoggettamento alla politica dello Stato russo diventava uno dei fattori determinanti nell’elaborazione politica e nelle sue indicazioni, e un accentuato moderatismo nelle parole d’ordine sostituiva la spinta rivoluzionaria, talvolta ingenua, della prima generazione di comunisti.
Il 29 ottobre 1941 il massimo dirigente del ricostruito gruppo comunista,
Abdallah Mas’ud, venne arrestato dalla polizia. Yusuf Salman Yusuf lo
rimpiazzò come segretario generale del partito. Sotto la sua direzione
il Partito comunista iracheno si allineerà sempre di più alle direttive
imposte da Mosca e diverrà un partito di massa imponendosi, nel giro di
sette anni, come la più importante forza politica in Iraq.
Il dopoguerra
Dopo l’occupazione militare del Paese da parte dell’esercito di Sua Maestà britannica e il ritorno a Baghdad del Reggente con il codazzo di uomini politici che lo avevano accompagnato nella fuga in Transgiordania, la vita politica in Iraq riprese apparentemente come prima. Appena tornato a capo del governo Nuri al-Sa’id, fedele ai suoi metodi, iniziò una radicale opera di epurazione sia nelle forze armate sia nelle varie branche dell’amministrazione pubblica.
La politica puramente repressiva di Nuri lo portò tuttavia in conflitto con una parte della classe dominante, che pensava all’introduzione di alcune riforme per impedire che la situazione sociale diventasse esplosiva.
Anche il Reggente iniziò ad «esprimere le sue preoccupazioni per la mancanza di riforme economiche e sociali, oltre che di libertà politiche. Benché non fossero emanate pubblicamente, le opinioni del Reggente vennero apprese dalla classe dirigente e dall’ambasciata britannica, dove si nutriva un crescente timore per le esplosive conseguenze politiche che il regime conservatore e repressivo di Nuri, poteva avere» (Tripp, p.158).
La ricostruzione del PC sotto la direzione di Yusuf Salman Yusuf (“il compagno Fahd”) era avvenuta con forte centralizzazione delle strutture e rigetto di ogni critica al segretario generale. Questo provocò numerosi dissensi, che nell’agosto 1942 portarono all’espulsione di un primo gruppo di militanti che fondarono il giornale Avanti, poi nel novembre dello stesso anno si verificò una vera e propria scissione e si formarono due PC d’Iraq: uno sotto la direzione di Abdallah Mas’ud, liberato dalla prigione, con proprio organo La scintilla, l’altro sotto la direzione di Fahd con organo La base. I due gruppi antagonisti, dopo essere stati pesantemente indeboliti da un’ondata di arresti, si unificarono e pubblicarono il giornale Unità della lotta.
Tutti i gruppi scissionisti avevano come propria richiesta centrale la tenuta di un congresso del PCI e la fissazione di regole statutarie di funzionamento interno, richiesta a cui Fahd si oppose in quanto «nelle condizioni internazionali esistenti la tenuta di un congresso clandestino dei comunisti in paesi che aderiscono al campo democratico può provocare collisioni tra i comunisti e le autorità che non sono nell’interesse di nessuno, né sono nell’interesse dei popoli che stanno lottando contro il fascismo».
Il PC di Fahd, come tutti i partiti stalinisti dei paesi industrializzati o semi industrializzati, si dedicò dall’inizio del 1944 ad organizzare i lavoratori dell’industria con lo scopo di impedire la loro sindacalizzazione su basi di classe. Gli stalinisti riuscirono a costituire cellule clandestine prima a Baghdad poi nel resto del paese, associando alla direzione del partito intellettuali provenienti dalla piccola borghesia più povera (la cosiddetta “intellighenzia del popolo”), e convocando finalmente una conferenza del partito nel marzo 1944, poi il primo congresso nel marzo 1945.
La conferenza adottò una “Carta Nazionale” del partito, che combinava posizioni patriottiche e democratiche con un programma socialdemocratico; i lavoratori erano confinati a richieste di tipo legalitario e sindacale. Niente più prospettiva socialista, niente più repubblica, nessuna abolizione del trattato Anglo-Iracheno (che stabiliva il potere de facto della Gran Bretagna sull’Iraq), solo una revisione di alcune clausole; nessuna richiesta di esproprio del capitale estero e dei latifondisti; niente più unità araba; niente più indipendenza per il popolo curdo (tacciata di “richiesta reazionaria nell’interesse dell’imperialismo”). La “tappa” della lotta era quella “della liberazione nazionale e della lotta per i diritti democratici”, e gli obiettivi dovevano essere congruenti alla fase della “rivoluzione nazionale borghese”.
Va solo riconosciuto che la politica propugnata da Mosca al tempo, e fatta propria dal PC siriano, che arrivò fino all’autoscioglimento del partito, non fu mai accolta dal PC iracheno, che anzi vi si oppose sempre fermamente, entrando in feroce polemica con i “liquidatori”, che anche in Iraq si facevano interpreti di questa linea.
Dal gennaio 1944, in ossequio naturalmente alle direttive provenienti da Mosca, che si apprestava a rompere l’alleanza con gli alleati del giorno prima, la direzione del PCI iniziò una nuova virata che indicava come l’appoggio all’esercito inglese e al governo fosse terminato o stesse terminando.
Naturalmente i motivi per opporsi al governo e ai suoi padroni inglesi non mancavano. La nuova linea del PCI iniziò in modo sfumato, denunciando l’aumento del costo della vita, poi attaccando pesantemente la presenza inglese in Iraq nell’aprile del 1945.
Il nuovo governo iracheno di al-Suwaidi, in carica dal febbraio 1947, poneva fine alla legge marziale, chiudeva il campo di prigionia di al-Faw, toglieva la censura sulla stampa e introduceva una nuova legge elettorale per consentire una maggiore rappresentatività alle aeree urbane, dove la popolazione era in rapida espansione. Il nuovo governo consentì anche che si formassero di nuovo i partiti politici: oltre al Partito Democratico Nazionale, un nazionalista di tendenza socialdemocratica, e al Partito Indipendente, di tendenza panaraba, furono riconosciuti anche due piccoli partiti socialisti; fu invece respinta la richiesta del PCI, nonostante la moderazione del suo programma politico, di costituirsi come Partito di Liberazione Nazionale.
Questa nuova libertà di associazione e di propaganda politica permise che fossero avanzate pesanti critiche alla situazione economica e sociale del Paese. «Sullo sfondo di un crescente scontento, discendente in parte minore dalle vecchie disuguaglianze strutturali della società irachena e in misura maggiore dalla preoccupazione immediata della gente che vedeva falcidiati i salari a causa del costo della vita, le attività dei partiti d’opposizione e dei sindacati ora riconosciuti sembravano promettere una stagione di crescente protesta sociale. Furono organizzati scioperi nel porto di Bassora e continuarono le agitazioni tra gli operai delle ferrovie, il cui sindacato era stato bandito in seguito agli scioperi dell’aprile del 1945.
«Le condizioni economiche di tanti iracheni comuni si erano notevolmente deteriorate durante i cinque anni precedenti. Penuria di scorte da tempo di guerra, cattivi raccolti, accresciuto potere d’acquisto da parte delle forze britanniche stanziate in Iraq: tutti questi fattori avevano fatto lievitare drammaticamente i prezzi di quasi tutti i prodotti, incidendo soprattutto sul settore alimentare e sul vestiario. Il costo della vita era aumentato di cinque volte, colpendo in particolar modo i salari del lavoro dipendente, sia a livello governativo e statale sia a livello industriale, poiché tale aumento non aveva avuto come contropartita alcun incremento di salari e stipendi. La spirale dei prezzi dei prodotti cerealicoli (al tempo la principale voce d’esportazione dell’Iraq) non solo in Iraq ma in tutta la regione aveva indotto i proprietari terrieri ed i commercianti ad approfittare delle opportunità offerte dall’esportazione. Questo acuì non solo le pressioni inflazionistiche all’interno dell’Iraq creando scarsa disponibilità di prodotto ma, in alcune parti del paese, specie nelle zone curde, determinò una situazione che si avviava alla carestia grave. Gli scioperi organizzati durante questi tre mesi di relativa agibilità furono quasi tutti indirizzati alla richiesta di aumenti salariali e di migliori condizioni di lavoro» (Tripp, p.163).
Il PCI partecipò attivamente all’organizzazione degli scioperi, nonostante
fosse clandestino pare infatti che su sedici sindacati che avevano avuto
riconoscimento legale ben dodici fossero a direzione comunista. I più
importanti coincidevano con le maggiori aggregazioni operaie, porto di
Bassora, ferrovie e estrazione petrolifera: in questi tre settori il tasso
di sindacalizzazione era tra il 30 e il 60% e tutti i maggiori dirigenti
erano del PCI. Una prima, massiccia, ondata di scioperi in questi tre settori
(gli scioperi venivano convocati sempre “a oltranza” e duravano anche
diverse settimane) vi fu tra l’aprile 1945 e il maggio 1947, con richieste
di aumenti salariali, di legalizzazione degli organismi sindacali e di
una vera indipendenza nazionale – contro la presenza inglese in Iraq.
«Agli occhi dei britannici, che avevano interessi strategici negli importanti
settori industriali, dei trasporti e del petrolio, gli scioperi facevano
parte di un più generale attacco agli interessi britannici» (Tripp. p.164).
Per molti esponenti della classe dirigente irachena costituivano addirittura
il preludio della rivoluzione sociale. La risposta del governo e degli
inglesi fu dunque quella di concedere gli aumenti salariali, ma di dissolvere
i sindacati dopo gli scioperi, arrestando i capi operai e perseguitando
i comunisti. Lo stesso Fahd venne arrestato nel febbraio 1947 (ma non venne
identificato come il segretario generale del PCI) e condannato a morte
(la condanna venne commutata nell’ergastolo dopo le numerose proteste
internazionali).
Il grande balzo, la rivolta del 1948
Una nuova grave crisi del regime iracheno si ebbe nel gennaio 1948 quando, in seguito alla firma del trattato di Portsmouth tra Iraq e Gran Bretagna, vi fu a Baghdad la più formidabile insurrezione di massa nella storia della monarchia, l’al-Wathbah.
Tutto iniziò con manifestazioni studentesche il 4 gennaio, convocate per protestare contro l’ipotesi di un nuovo trattato anglo-iracheno, che avrebbe mantenuto l’Iraq sotto tutela britannica, si protrasse nei giorni seguenti con diversi incidenti e si allargò dopo che il 15 gennaio venne annunciata la firma del nuovo trattato che, pur prevedendo il ritiro delle truppe britanniche dal Paese, sanzionava formalmente l’influenza britannica sull’Iraq, per altri 25 anni.
Tutti i partiti d’opposizione si adoperarono per mobilitare l’opinione pubblica contro il trattato. Il 20 e il 21 gennaio scesero per le strade i lavoratori delle ferrovie e delle altre fabbriche di Baghdad, i disoccupati, le masse di contadini da poco immigrati nella capitale. La polizia tentò di fermare i manifestanti, armati di bastoni, sparò ed uccise, ma non fu sufficiente a fermare i cortei. «L’atmosfera che avvolgeva Baghdad era profumata di rivoluzione sociale», scrive lo storico Batatu descrivendo quei giorni.
Il PCI, non ancora addivenuto ad essere repubblicano, si impegnò in una polemica contro quei “settori estremisti”, che partecipavano ai cortei con striscioni che richiedevano la caduta della monarchia e la repubblica.
Nonostante il ripudio del Trattato da parte del Reggente, le manifestazioni non cessarono. Il 23 si svolse una manifestazione gigantesca ed il 27 un’altra; il governo decise allora di spezzare il movimento di massa con la forza delle armi. La polizia sparò in modo indiscriminato, continuo, uccidendo come mezzo di scioglimento dei cortei. Per terra rimasero uccisi tra i 300 e i 400 manifestanti, ma le manifestazioni si ricomposero e di fronte al loro avanzare la polizia decise di ritirarsi totalmente dalle strade.
Il primo ministro scappò per rifugiarsi in Gran Bretagna. Venne formato un nuovo governo. Il nuovo capo del governo, lo sciita Muhammad al-Sadr, promise nuove elezioni, ma non bastò.
Iniziò un periodo – che durerà fino alla primavera – di continue mobilitazioni in tutto il paese, con forti scioperi nelle ferrovie tra marzo e maggio (il sindacato era stato messo fuori legge nell’aprile 1945, per cui fu direttamente il PCI a organizzare gli operai e a indire gli scioperi); nelle stazioni di estrazione del petrolio, in aprile e maggio (assunse a vera leggenda operaia lo sciopero alla stazione K3 vicino ad Haditha con la “grande marcia” su Baghdad dei 3.000 lavoratori); al porto di Bassora, in aprile e maggio. Scoppiò anche una rivolta contadina con direzione comunista ad Arbat, in aprile. Le domande avanzate dai lavoratori erano per aumenti salariali, di “pane e scarpe”, diritti democratici, liberazione dei prigionieri politici, e indipendenza nazionale.
La risposta, come nel 1945-’47, fu sempre la messa al bando delle organizzazioni operaie, arresto delle direzioni sindacali e, in cambio, una parziale accettazione delle richieste salariali.
Questa rivolta diede grande impulso alla crescita dell’influenza del PCI, che però si mantenne sempre in una prospettiva di appoggio ad un “governo democratico nazionale” della borghesia irachena. Le manifestazioni cessarono solo nel maggio 1948 quando il governo proclamò la legge marziale prendendo a pretesto lo scoppio della guerra in Palestina.
La sconfitta in questa guerra, a cui l’Iraq aveva partecipato inviando alcune migliaia di soldati, determinò, nel gennaio 1949, la caduta del governo. Le accuse del governo egiziano, che incolpò di inazione le forze irachene, provocarono gravi disordini, soprattutto a Baghdad; il Reggente chiamò dunque ancora una volta il boia Nuri al-Sa’id a capo del governo. Furono usate le corti marziali per processare tutti quelli che erano accusati di istigare disordini e centinaia di persone finirono in carcere. Il prezzo più alto fu pagato dai comunisti che, ancora una volta, pagarono col sangue di centinaia di militanti l’acquiescenza alla politica moscovita.
L’accettazione da parte del PCI della linea dettata da Mosca di approvazione della divisione della Palestina e della nascita dello Stato di Israele, arrivò solo il 6 luglio 1948, dopo sette mesi di resistenza, provocando grande sconcerto e generale demoralizzazione nel partito: a centinaia i militanti lo abbandonarono disgustati. Di questa situazione approfittò l’apparato repressivo dello Stato, che negli ultimi mesi del 1948 arrestò centinaia di comunisti. Il governo scoprì il ruolo di segretario generale di Fahd e lo impiccò pubblicamente nel febbraio 1949 insieme a due altri suoi compagni. Il PCI si ridusse da 4.000 militanti a poche centinaia.
La ricostruzione avvenne lentamente, a partire dal giugno 1949 ma solo a partire dall’autunno 1951 si può affermare che la crisi fosse stata superata.
È così che il PCI poté partecipare – ed avere un ruolo dirigente – nella nuova ondata di scioperi della primavera-autunno del 1952, che culminarono nella rivolta del 22-24 novembre 1952, quando a Baghdad ed in altre città manifestazioni di massa richiedevano diritti civili e democratici e libere elezioni. Il governo rispose esclusivamente con la forza delle armi, e proclamò la legge marziale: tutti i partiti vennero dichiarati fuorilegge (il PCI lo era da sempre) e i loro dirigenti arrestati. Ma non appena la legge marziale venne sospesa, l’anno successivo, una nuova serie di scioperi percorse il paese, e a Bassora il governo impose di nuovo la legge marziale nel gennaio 1954. La nuova ascesa al potere di Nuri al-Sa’id portò nel giugno 1954 alla messa fuori legge di qualsiasi partito, club culturale, sindacato e stampa anche solo vagamente liberale.
In questi anni il PCI conobbe una “svolta a sinistra” con l’adozione, nel marzo 1953, di una nuova “Carta Nazionale” in sostituzione di quella del 1944, in cui venne posto l’obiettivo di “una Repubblica popolare democratica che rappresenti la volontà dei lavoratori, dei contadini, delle masse popolari”, e venne riconosciuto il diritto di autodeterminazione del popolo curdo, fino alla secessione.
Questo provocò l’espulsione di 73 membri del partito che si erano opposti alla nuova “Carta Nazionale” in nome delle vecchie posizioni di Fahd: questi oppositori diedero vita ad un proprio organo, La bandiera dei lavoratori.
Nei mesi successivi il partito, chiamava a una “rivoluzione popolare”, con la “conquista del potere da parte del proletariato (...) come compito immediato”, attraverso la costruzione di un “esercito popolare rivoluzionario”, che “pratichi la lotta armata”, coprendo il paese con “roccheforti rivoluzionarie”. Questa linea assunse i toni più roboanti tra il giugno 1954 e il giugno 1955, tutto questo con un partito approssimativamente di circa 500 militanti.
Nel giugno 1955 questa linea viene sconfessata dal Comitato centrale e tutte le posizioni “estremiste” adottate dal 1953 vengono rigettate.
Nel luglio 1955 viene siglato un accordo di vendita d’armi tra l’Urss e l’Egitto degli “Ufficiali liberi”, che, con un colpo di Stato, tre anni prima avevano rovesciato la monarchia. È una svolta che porta quasi immediatamente il PCI ad abbracciare la causa del panarabismo propugnato dai dirigenti egiziani. Questa linea viene rafforzata l’anno successivo quando, nel luglio 1956, in seguito alla nazionalizzazione del canale di Suez, l’Egitto è attaccato da una coalizione anglo-francese-israeliana, e ufficializzata dalla seconda conferenza del partito, tenuta nel settembre 1956.
Ma si trattò di una politica tutto sommato di breve durata, che non resse all’impatto della rivoluzione del luglio 1958. Per il PCI «il compito immediato è la formazione di un governo patriottico che metta fine all’isolamento dell’Iraq dal movimento di liberazione arabo e persegua una politica patriottica araba indipendente».
La stipula del Patto di Baghdad – concluso in funzione antirussa e contro il nazionalismo arabo, sotto supervisione statunitense, che includeva Iraq, Iran, Pakistan e Turchia – e il successivo attacco all’Egitto da parte di Israele con l’appoggio di Gran Bretagna e Francia, provocarono un’ondata di proteste e di rivolte in Iraq, questa volta centrate nelle zone più periferiche, Mosul, Kirkuk, Bassora, e con vere e proprie insurrezioni a Najaf e Havy. Come sempre la risposta governativa fu unicamente la repressione militare.
Sull’onda di questa nuova rivolta, venne formato nel febbraio 1957 un “Fronte Nazionale Unito” – che includeva il PCI, il Partito Nazionale Democratico (il partito della borghesia antimonarchica e nazionalista iracheno), il Ba’th (il partito, formato all’inizio degli anni ‘50, che faceva del panarabismo la sua bandiera) e altre formazioni – avendo come piattaforma l’indipendenza politica ed economica, l’abolizione del Patto di Baghdad, la distruzione del sistema agrario dell’iqta, diritti democratici, libertà civili e solidarietà araba contro l’imperialismo e il sionismo.
A parte il breve periodo “estremista” dal 1953 al 1955, la prospettiva strategica del PC iracheno si mantenne in questi anni (ed in quelli successivi) coerentemente socialdemocratica. Secondo le parole dello storico Samira Haj, nel PCI, «mentre la posizione teorica affermava la lotta di classe e l’internazionalismo, in pratica la politica del partito fu costantemente compromessa dalla dottrina della rivoluzione in due stadi (...) Il partito vedeva la lotta anticoloniale in Iraq come parte di un inevitabile processo evolutivo che avrebbe portato alla rivoluzione nazionale borghese. Il partito vedeva il suo ruolo centrale come la direzione delle “classi oppresse” (operai e contadini) in alleanza con la frazione progressista della “borghesia” nazionale, per forgiare la lotta di liberazione, le riforme sociali, e l’estensione dei diritti democratici nel quadro di uno Stato borghese (...) Questa posizione dogmatica di uno stadio “democratico borghese” di sviluppo separato si è dimostrato dannoso al PCI, ai suoi quadri e alla stessa rivoluzione nazionale. Per mantenere questi principi, il PCI fu obbligato a subordinare il conflitto di classe alla lotta nazionale (...) appoggiando il nazionalismo iracheno rispetto al nazionalismo pan-arabo (...) e assumendo che vi fosse una “borghesia nazionale” capace di realizzare [la rivoluzione agraria]. Il PCI (...) non riconobbe l’intrinseca debolezza della “borghesia” irachena e gli stretti legami di questo gruppo con le strutture agrarie».
Pur con questo orientamento strategico il PCI riuscì comunque ad assumere
un ruolo centrale nella vita politica irachena, nonostante le condizioni
di illegalità e clandestinità cui fu permanentemente obbligato. Ma se
nel periodo terribile di lotta contro la monarchia la linea socialdemocratica
poté intralciare solo marginalmente il radicamento del PCI nella classe
operaia, nel periodo della rivoluzione nazionale, l’asservimento del
partito al movimento nazionale borghese lo porterà alla catastrofe e insieme
ad esso – in assenza di una direzione operaia alternativa – porterà
alla catastrofe il movimento operaio nel suo complesso.
(da Communist Left, n.17)
Pubblichiamo qui la traduzione della bella introduzione, redatta
dai nostri compagni di lingua inglese, alla stampa in opuscolo di una serie
di Fili del Tempo, risalenti agli anni dal 1951 al 1963.
Questo numero della nostra rivista contiene una serie di sei articoli sul problema dei disastri cosidetti “naturali”, e sul ruolo in essi giocato dallo Stato e dall’economia capitalistica. Gli articoli furono scritti nell’arco dal 1951 al 1963, un periodo di forte espansione capitalistica, che in Italia segnò il passaggio dalla fase della ricostruzione post-bellica agli anni del “boom”.
È vero che quei disastri sembrano impallidire se paragonati alle catastrofi odierne: sciagure di ogni tipo che sempre più spesso provocano vittime a migliaia. Nuove malattie sono il risultato della proliferazione di inaffidabili impianti nucleari e chimici che, anche quando non arrivano ad esplodere, rilasciano nell’atmosfera le loro mortifere sostanze. I nomi sono tristemente famosi: Chernobyl, Windscale, Three Miles Island, Savannah River, Seveso, Bhopal, Flixborough...
Da quando è stato scritto l’ultimo articolo, quindi nel giro di quarant’anni, la popolazione mondiale è più che raddoppiata, oltre che spinta ad abitare in zone che i nostri antenati consideravano troppo esposte ai rischi naturali: eruzioni vulcaniche (Colombia), inondazioni (Bangladesh) o flussi di alta marea (bacino del Mare del Nord).
Negli anni ‘50 i difensori del regime borghese avevano buon gioco nell’imputare ai danneggiamenti provocati dal conflitto e alla “necessaria” fase di “ricostruzione” post-bellica tali fenomeni catastrofici. Ma il capitalismo è un sistema in perenne distruzione-ricostruzione. Ancor oggi molti, quasi la metà, dei ponti costruiti in Italia dagli antichi Romani, e molti in Europa, sono in uso, mentre è dato per certo che, delle opere d’arte serventi l’intrico moderno delle autostrade, solo una piccola parte supererà il secolo, e che andranno quindi ricostruite ex novo.
I patrizi Romani nei banchetti riuscivano ad ingurgitare più portate con il vomunt et edunt - edunt et vomunt, e ogni villa disponeva del suo vomitorium. Oggi le derrate agricole, sempre prodotte in eccesso, non passano neanche più attraverso il corpo degli uomini, molti dei quali denutriti, ma vengono senz’altro distrutte. Lo stesso vale per l’industria edile: si possono citare numerosi casi di demolizioni di opere realizzate meno di 30 anni fa, senza neanche la scusa dei danneggiamenti bellici, quindi. Il capitalismo utilizza così i disastri, ed evita la loro prevenzione.
Il Capitale forza lo spostamento della popolazione dal centro delle città verso i sobborghi per fare spazio alle ricostruzioni. Mentre nel XIX secolo, o anche nella prima parte del XX, questi trasferimenti portavano alla edificazione anche di opere di una qualche utilità (i boulevards di Parigi, le ferrovie e le strade a Londra, ecc.), oggi l’unica urgenza è quella di assicurare un rapido accesso a terreni in grado di fornire un’alta rendita.
Un caso tipico di questa trasformazione è rappresentato da Pozzuoli, nei pressi di Napoli, costruita sul sito dove sorgevano antiche città risalenti al 529-8 a.C. Il territorio, pur non sommerso dalle eruzioni del Vesuvio, a differenza delle vicine Ercolano e Pompei, è tuttavia interessato al fenomeno del bradisismo – se si esclude un’eruzione di zolfo avvenuta nel 1198 – ossia al lento innalzamento e abbassamento del terreno provocato dal passaggio sotterraneo del magma da una caldera ad un’altra. È un ciclo della durata di circa 25 anni, ma non ha mai portato al completo abbandono dell’area. Con l’era moderna, il quadro della situazione cambia: è intervenuto il Capitale. Nel 1970 viene messo a punto un “piano di evacuazione” nel caso di eruzioni sottomarine e maremoto. Il celebre vulcanologo Haroun Tazieff mise subito in dubbio la serietà del progetto: «La previsione di un’eruzione sottomarina nel Golfo di Pozzuoli ha portato all’evacuazione del Rione Terra, cioè della parte più alta della città. Come mai ad essere evacuata è stata questa parte della città, e non il porto, decisamente più vulnerabile alla minaccia di un maremoto?»; e dà la risposta: «Hanno colto al volo l’occasione per impadronirsi a basso costo della parte vecchia della città, e poi dare il via alla speculazione».
Allora la natura non fu compiacente col Capitale. Ma venne il terremoto in Irpinia nel novembre del 1981 e la ripresa del ciclo di bradisismo dal 1983 a dare una seconda occasione alla classe capitalista locale (un compost di imprenditoria, mafia, camorra, magistratura compiacente). Nell’ottobre del 1983 la città vecchia viene evacuata e gli abitanti dislocati in diverse aree distanti anche 50 chilometri. Il Consiglio comunale votò immediatamente a favore della costruzione di una nuova città, Monteruscello, la cui popolazione, come pianificato, è poi cresciuta progressivamente fino a raggiungere 44.000 abitanti. Anche in questo caso a scoprire l’inghippo è stato il vulcanologo, la cui apparecchiatura non rilevava i movimenti evidenziati ogni giorno dalla strumentazione statale. Alla fine scoprì che queste apparecchiature erano state collocate lungo un tratto di una ferrovia locale, così da cogliere anche i lievi movimenti provocati dal passaggio dei treni! Non basta. Venne anche a scoprire che la nuova città sarebbe sorta proprio sopra l’ex caldera di uno dei vulcani dei Campi Flegrei, una cui eruzione avrebbe significato «distruzione totale e sopravvivenza zero».
Presto, anche quelle cittadine di nuova costruzione caddero a pezzi. Ma la colpa non è da imputare ai disastri ambientali bensì ai lavori di ricostruzione realizzati in fretta e furia e con materiali scadenti – dopo tutto si trattava di un’emergenza! Per la ricostruzione nella zona costiera c’è stato posto per tutti, dalla Fiat all’Eni all’Italsat. Non fu risparmiata neppure la Lega delle Cooperative comuniste, essendo il partitone ex-stalinista sempre allarmato dalla perdita, in quest’area, delle “tradizioni politiche, democratiche e civili”.
Tralasciando altri esempi della perfezione raggiunta dal sistema capitalistico
nella gestione dei disastri ambientali, ricapitoliamo brevemente
gli articoli qui tradotti descrivendo per sommi capi il lungo periodo di
espansione capitalistica che ha interessato la pianura Padana, dall’anno
Mille fino ai giorni nostri, ricordando la nostra critica preveggente,
con largo anticipo, i disastri che l’hanno interessata.
LA VALLE DEL PO
Fino all’undicesimo secolo, la valle del Po era ancora in gran parte zona di foreste e paludi. «Se si andava in direzione del Po partendo dai centri urbani (Bologna, Modena, ecc.), si vedeva il paesaggio farsi sempre più selvaggio(...) Avventurarsi nelle paludi della bassa valle del Po, significava esporsi a qualsiasi tipo di pericolo» (Vito Fumagalli, Terra e società nell’Italia padana). Anche in Lomellina, situata nell’alta valle, si trovavano “foreste e lupi”, nonostante la presenza di insediamenti stabili.
Verso il dodicesimo secolo, i possidenti già limitavano o impedivano del tutto che alcune zone del Mantovano e del Polesine venissero disboscate, e per questo arrivarono persino a far sgomberare gli abitanti da aree che in passato erano state coltivate a bosco. Queste misure si rivelarono fondamentali per la conservazione di un’economia ancora semi-naturale, basata su caccia, allevamento di suini e coltivazioni su scala ridotta. Ma tale abbondanza di terre e foreste non durò a lungo. Con lo sviluppo del commercio, e in particolar modo della Repubblica di Venezia, il legno diventò importante per i cantieri navali. Nel 1470 Venezia promulgò il Provisio quercurum in consilio Rogatorum, che creava una riserva di tutti gli alberi di quercia, sia su suolo privato sia pubblico, da utilizzare per la costruzione delle navi. «Ma il risultato fu che i possidenti, invece di piantarli, estirpavano gli alberi di quercia non appena germogliavano le ghiande per evitare di dover registrare la pianta e quindi di doverla conservare, senza alcun guadagno, fino a maturazione raggiunta» (Bruno Vecchio, Il bosco negli scrittori italiani del settecento).
Così, fin da allora, lo Stato si dimostrava di non era in grado di conservare questo tipo di produzione: se il guadagno era troppo scarso o troppo lento le querce non venivano piantate. Lo Stato autocratico, e ove c’era più disponibilità di terra, in parte vi riuscì: in Francia, duecento anni dopo, il ministero Colbert fece coltivare enormi foreste di querce per rifornire di legname la flotta francese. Poi, con l’invenzione della nave a vapore e in acciaio, la quercia perse il suo valore.
Girolamo Silvestri, in epoca illuminista, imputava la diminuzione della coltivazione di foreste nel Polesine non solo a «ragioni naturali», cioè «agli straripamenti di fiumi, alle acque stagnanti, al caldo o al freddo eccessivi», ma anche a «ragioni morali», in quanto l’uomo danneggia le foreste o preferisce non coltivarle perché «i frutti si fanno attendere troppo a lungo» (Bruno Vecchio). Le ragioni dell’”immoralità” dell’uomo, ovviamente, sono ben altra cosa, ma gli autori illuministi non avevano tutti i torti nel porre l’accento sulla divisione politica dell’Italia, visto che il bacino del Po era partito almeno tra sei Stati, con conseguente scarsa coerenza nei lavori idraulici o di rimboschimento.
«Dal Rinascimento all’epoca della Controriforma, le ricerche di grandi italiani, che da Leonardo a Galileo a Torricelli fondarono la moderna scienza idraulica, avviarono e portarono a perfezione le iniziative di riassetto del grande fiume e le opere generali di risanamento che né la guerra, né la decadenza economica e politica, né la dominazione straniera riuscirono ad intaccare (...) Già intorno al 1550, queste iniziative non furono in grado di fronteggiare le forze di degradazione della regione montagnosa e la conseguente disorganizzazione idraulica: numerosi documenti di cronaca o di archivio parlano di aree bonificate regredite allo stato di paludi o di fiumi che, straripando, devastavano i campi circostanti» (E.Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano). Si può dire che la mente era vogliosa (di migliorare il sistema idraulico), ma la carne era debole (e politicamente divisa)?
In quell’epoca illuminista «i vari studiosi propugnavano soprattutto un più energico e coordinato intervento dello Stato. Anche se pochi tra essi (il veneziano Griselini nel 1768, il casentino Tramontani nel 1801, il trentino Serafino nel 1807, e nel 1814 il generale napoleonico Gautieri, sovrintendente alle foreste) arrivarono al punto di rappresentare allo Stato la necessità di un rimboscamento delle aree boschive o montane; lo Stato, soprattutto in quei paesi dove l’esperienza illuministica era più avanzata, veniva considerato l’unico organismo in grado di affrontare i problemi ambientali delle aree montane» (L.Gambi, Introduzione al libro di B.Vecchio citato). Finalmente nel 1866 ci fu, almeno per quanto riguarda il bacino del Po, uno Stato unitario al servizio di una classe capitalista sempre più potente, che faceva leva sull’industria e sulla modernizzazione dell’agricoltura, ossia su settori che richiedevano l’intervento pubblico per la realizzazione di ferrovie, porti, opere idrauliche, ecc.
Le prime leggi in Italia sulle opere idrauliche datano al 1877, e altre ne furono emanate nel 1888, nel 1893, nel 1911 e nel 1923. «Con la legge del 1877 e in maniera sempre più marcata con quelle successive, lo Stato ha ridotto, deteriorato e svalutato a favore di preesistenti interessi privati (...) quelle funzioni che la razionalità illuministica aveva indicato come proprie (...) La legislazione, che nei vent’anni dopo l’unità mirava soprattutto alla difesa idrografica, a cavallo del secolo, e soprattutto dopo l’approvazione della legge del 1919, divenne sempre più interessata (...) e vicina alle esigenze dell’industria, lasciando il problema della difesa in secondo piano» (L.Gambi, Introduzione). E tutto questo a dispetto delle disastrose inondazioni del 1879, 1882 e 1896. Anche nei Risultati dell’Inchiesta Agraria di S.Jacini troviamo suggerimenti simili: «Per quanto riguarda le bonifiche, forse sarebbe il caso di introdurre la speculazione privata, con lo Stato che espropria le aree paludose e fa ampie concessioni a questi interessi privati (...) Il ripristino delle foreste ormai mature, comunque, è un compito che può assumersi soltanto lo Stato».
La bonifica di un’area in precedenza non ricoperta d’acqua, richiede poco tempo rispetto alla crescita di una foresta: nel primo caso l’alto tasso di profitto più facilmente attrae gli investimenti di capitale, mentre nel secondo, altrettanto essenziale, deve essere l’organismo “pubblico” a intervenire. Se però questo non accade, si verificano i disastri che ben conosciamo e si deve porre rimedio agli investimenti capitalistici. «Le foreste appena coltivate, e destinate a trasformarsi in maturi terreni boscosi, non offrirebbero nulla né alla generazione attuale né a quella futura» (S.Jacini, I risultati dell’inchiesta agraria).
E così i contadini poveri della valle del Po, anziché trovare sbocchi nella riorganizzazione del sistema idraulico della valle, colpita com’era dalle inondazioni (d’acqua e di sviluppo capitalistico), li trovano soltanto nell’emigrazione e nelle “opere di pubblica utilità”. Le rivolte di quegli anni, e la fondazione dei primi partiti socialisti, vengono deviate nell’esaltazione delle riforme e dei bisogni della Nazione. Andrea Costa, uno dei primi socialisti e anti-colonialisti, poteva ancora affermare: «Invece di sprecare denaro pubblico in avventure coloniali, usiamolo [chi?] per alleviare la grande miseria che c’è qui da noi». E proseguiva: «Perché non bonifichiamo le paludi che provocano la malaria, perché non coltiviamo le nostre terre, perché non mettiamo tutte le nostre forze al servizio dello sviluppo culturale, agricolo e industriale del nostro paese? (...) Quando penso all’Agro Romano, alla Sardegna e alle Marche, non riesco a credere a tutto lo spreco di uomini e di denaro che si sta facendo in Africa!» (La Boje, Moti contadini e società rurale padana nel secondo ottocento).
Fu il fascismo capace, quarant’anni dopo, di sprecare uomini e denaro in Africa (Etiopia) e allo stesso tempo bonificare le paludi Pontine. Pochi socialisti parlarono come Francesco Ciccotti, il quale sostenne che «l’opposizione alla guerra di Libia doveva basarsi non su motivi contingenti, come le spese deviate dall’opera di riforme, ma sui principi internazionalisti» (Storia della sinistra comunista, vol.I).
L’unità nazionale non poteva risolvere il problema dell’organizzazione razionale della vita umana nella valle del Po, cosa che può solo l’unità internazionale del proletariato.
L’ideologia dei lavori pubblici, che aveva avvelenato il movimento socialista, non risparmiò il locale proletariato rurale. L’organizzazione di vaste schiere di scariolanti, impiegati a riparare i danni dopo ogni piena, distrusse il normale sfruttamento capitalista del lavoro, lasciando i lavoratori disoccupati una volta che i danni fossero stati riparati o la stagione dei lavori terminata. Continui lavori pubblici erano perciò anche “nell’interesse” dei lavoratori, al punto che qualcuno ha avanzato l’ipotesi che molte inondazioni non siano dovute alla mano di Dio ma a quella dell’uomo, per l’esattezza alla mano degli sterratori che sabotavano i lavori in modo da doverli poi rifare: un vero e proprio lumpen-keynesismo (queste asserzioni si possono trovare in La Boje).
Con la guerra 1941-45 e la sconfitta finiva l’occupazione tedesca e la crisi politica del fascismo. Finiva anche la depressione dell’economia. Con la rinascita nazionale del 1945 si entrò nell’ultimo periodo dello sviluppo capitalista. I lavori pubblici furono riavviati su scala sempre più allargata. Il grande disastro del Polesine del 1951 venne a cadere giusto per assecondare questa esigenza e, al solito, si trasformò in una grande cuccagna affaristica.
La risposta ufficiale alle inondazioni fu un Piano Orientativo per la regolazione sistematica dei corsi d’acqua naturali, con una spesa prevista di 1.500 miliardi di lire per 30 anni. Ma all’indomani dell’inondazione dell’Arno, nel 1966, il neonato “Comitato interministeriale” stabilì che i fondi erano «così limitati da non poter assicurare neanche la manutenzione ordinaria». Il sullodato Piano Orientativo subì quindi un aggiornamento, con una previsione di spesa trentennale di 3.000-3.500 miliardi di lire più altri lavori per altri 1.800 miliardi: un budget triplicato senza l’aiuto dell’inflazione. Ma «anche questo piano fu un fallimento. Con l’aggravante dell’evanescenza palese di una volontà politica responsabile e di un nuovo rivoluzionario evento: la creazione delle Regioni e la conseguente divisione del corpo tecnico dello Stato» (Mario Fabbri, Le catastrofi naturali sono prevedibili).
Il bacino del Po si trovò così suddiviso tra cinque regioni paragonabili ai sei Stati pre-Unità, e di cui il fiume segnava i confini. Cosa accadrebbe se i “rossi” emiliani decidessero di innalzare i loro argini? Che i “bianchi” veneziani dovrebbero accendere un cero alla madonna. Mentre i fondi stanziati rimanevano in parte inutilizzati, furono spesi all’incirca 50.000 miliardi di lire per i lavori di riparazione dei danni, ossia 10 volte la cifra occorrente per l’ordinaria manutenzione.
Fondi da destinare alla ricerca non ce n’erano. Gli studi sugli affluenti del Po (Adda, Ticino e Oglio) vennero sospesi nel 1972. «A Milano, il Servizio Idrografico Nazionale consiste in un ingegnere presente in ufficio tra le 10 e le 11 una volta a settimana. La Regione Piemonte ha un impiegato che controlla 350 strumenti di misurazione per il Po. Non più tardi del 1977 il laboratorio di ricerca per la Protezione Idrologica del bacino del Po aveva venti ricercatori e un budget di 148 miliardi di lire» (La Stampa, 29 agosto 1984). Di fatto, il Po continua ad essere usato per altri scopi privati (estrazione di materiali edili, trasporto, raffreddamento per centrali elettriche) senza alcun piano.
Qual è ora la situazione nella valle del re dei fiumi? Dopo le gravi inondazioni del 1957, del 1994 e del 2000 le poche misure adottate sono forse sufficienti a risolvere il problema una volta per tutte? Sicuramente no. Il boom postbellico delle costruzioni, che cominciava grosso modo dopo il disastro del Polesine, ha comportato il prelievo di milioni di tonnellate di sabbia e ghiaia dal letto del fiume, abbassandolo in certi punti considerevolmente. In Piemonte, tra il 1971 e il 1987, il Po si è abbassato notevolmente. Senza contare che in molte zone il corso del fiume è stato raddrizzato eliminando le anse: così il nuovo fiume canalizzato “occupa meno spazio” del predecessore.
Inoltre, milioni di metri cubi d’acqua sono stati prelevati, soprattutto nell’alto corso del fiume, per uso civile e industriale e per l’alimentazione delle centrali idroelettriche. Siccome quest’acqua rientra nel fiume, ovviamente, in qualche punto più a valle, il corso superiore, quello che più attivamente erode il terreno trascinando detriti, risulta in molti casi interrotto scomparendo anche per molti chilometri, tranne naturalmente nei periodi di piena quando il rifornimento d’acqua è superiore alla domanda. Il materiale eroso non raggiunge quindi più la bassa valle, ma si accumula contro le dighe o si deposita disordinatamente nel letto del fiume (a meno che non ne venga estratto). In tempo di piena il basso corso ha quindi energia in eccesso, sia per la maggiore rapidità della corrente dovuta alla canalizzazione, al raddrizzamento dei meandri e alla conseguente accresciuta pendenza, sia per il minore attrito opposto dai minori sedimenti trasportati. Se a questo si aggiunge la costante attività di estrazione di materiale dal letto del fiume da parte dell’uomo, il risultato non può essere che il seguente: il fiume erode il suo stesso letto, il livello dell’acqua si abbassa ed aumenta di velocità. E di portata istantanea. Di qui, per contro, la tendenza del fiume a straripare nelle aree dove invece la pendenza è minore.
Così l’uomo, nolens volens, ha risolto il problema, e parlare di pianificazione è solo tempo sprecato!
Alla minaccia portata dai fiumi si aggiunge quella che viene dal mare. Col tempo, le sponde degli estuari e dei delta tendono ad abbassarsi sotto il peso dei detriti che i fiumi depositano sul fondo del mare antistante. Dall’era quaternaria il delta del Po si è andato abbassando in media di 1,5 millimetri ogni secolo; cosa che era facilmente bilanciata dai sedimenti depositati in tempo di piena. Ma quando la dinamica del fiume è sovvertita, quando il sedimento è insufficiente perché bloccato dalle dighe (e non solo sul Po ma anche su tutti i grandi fiumi: Reno, Rodano, Nilo) o dai flussi di marea causati dagli eccessivi scavi del letto (Tamigi, Maas), il delta incomincia ad infossarsi e, se non protetto da barriere protettive altamente costose come quelle del Tamigi o del delta tedesco (che hanno richiesto 30 anni di lavoro e una spesa di 2,3 miliardi di dollari), esso arretra.
Negli anni 1972-1977 l’area del delta del Po a Ravenna (dove non esistono barriere protettive) si è infossata alla velocità di 5-6 centimetri all’anno rispetto a 1-3 centimetri dei precedenti 24 anni. Adria, che si trova esattamente al centro del delta, è sprofondata di 110 centimetri nella decade 1958-67 mentre il delta è arretrato di 3 chilometri dal 1944.
A questo punto la classe capitalista ha gettato la spugna. Così come nell’equivalente area di Ferland in Gran Bretagna, nessuno farà niente per colmare questa perdita di fertile suolo. Non rimane che un espediente: trasformare il delta in Parco Nazionale e far pagare il biglietto di ingresso al contribuente. Non a caso gli Stati hanno inventato i sinking fund [gioco di parole: letteralmente, “fondo che affonda”].
La leggenda del Piave tratta di un’altra piena, che questa volta è direttamente da ascrivere all’intervento umano. In questo caso, la catastrofe fu provocata dall’interferire nel delicato equilibrio di una zona storicamente franosa. La geologia conosce vari tipi di valanghe e di frane, che spesso causano disastri senza alcun aiuto da parte dell’uomo; ma oggi, frequentemente, v’è l’intervento diretto di fattori umani. È il caso di Aberfan nel Galles, dove, nel 1966, la montagna di detriti minerari, scaricati per decenni su di una sorgente naturale, franò a causa delle forti piogge e trascinò milioni di tonnellate di nera fanghiglia sulla scuola del villaggio, uccidendo centinaia di bambini. O di Stava, dove nel 1986 una diga di fango, che conteneva i prodotti della lavatura dei minerali, crollò e i detriti coprirono l’intero fondovalle facendo centinaia di vittime. In tutti e due i casi l’usuale scaricabarile fu usato per nascondere la reale responsabilità: il desiderio di produrre al costo più basso.
L’affondamento dell’Andrea Doria nel 1956, commentato in Drammi gialli e sinistri della moderna decadenza sociale, anche se particolarmente grave, non è stato né la prima né l’ultima perdita di una nave. In quella occasione, un errore di navigazione e la conseguente collisione mostrarono l’inadeguatezza della struttura della chiglia. Ma la lezione non è servita, perché la progettazione delle navi, anche di quelle passeggeri, ha continuato a ridurre le dimensioni dello scafo e ad aumentare quelle dell’architettura, al fine di accrescere il comfort e tagliare i costi. Così, l’incidente della Herald of Free Enterprise, all’interno del porto di Zeebrugge, nel 1987, che causò qualche centinaio di vittime, fu imputato ad un errore tecnico – la mancata chiusura del portellone d’entrata delle auto dopo la partenza, una misura adottata per risparmiare tempo. Ma in una nave ben costruita questo avrebbe provocato al massimo un imbarco di acqua, invece l’Herald si rovesciò su un lato perché il suo momento raddrizzante non era sufficiente per mantenere la nave in equilibrio a pieno carico. Ciononostante l’Herald, dopo il disastro, fu raddrizzata, ridipinta, ribattezzata e rimessa in servizio: però con grandi cartelli che invitano a chiudere sempre bene tutte le porte!
Un disastro simile ebbe luogo sul placido Nilo, quando la piccola nave da crociera Luxor fu rovesciata da un colpo di vento e dalla debole corrente proveniente dall’alta diga di Assuan. Anche in questo caso la chiglia era poco profonda e pescava troppo poco: per permettere all’imbarcazione di superare i banchi di sabbia era stato ridotto il pescaggio, ma non le cabine. Molti passeggeri furono tratti in salvo da pescatori del Nilo, a bordo di imbarcazioni il cui disegno del profilo di chiglia risale ad antichi millenni: quello che l’esploratore Thor Erdal utilizzò per la traversata dell’Atlantico.
Ma i progetti scadenti sono solo la punta dell’iceberg. Le prime imprese capitalistiche già non ignoravano che profitto e rischio camminano insieme: chi non risica non rosica. Navigare necesse est non necesse vivere era il motto della Lega Anseatica, mentre i concorrenti italiani inventarono l’assicurazione marittima per le navi e per i carichi, ma non per gli uomini: a nessuno importa che gli equipaggi anneghino. Nel solo anno 1982 sono scomparse 402 navi, in molti casi frutto di un raggiro per lucrare sull’assicurazione.
Contro i rischi reali le compagnie di assicurazione sono garantite dall’intervento statale. È lo Stato ad aver reso obbligatori scialuppe di salvataggio e fari di segnalazione, mentre in casi eccezionali (come ad esempio nella guerra Iran-Irak) tutti gli Stati che hanno navi da inviare sul teatro di guerra (Usa, Russia, Inghilterra, Francia, Italia, Belgio, ecc.) fanno a gara per essere i primi a garantire la “libera navigazione”, quella delle varie Free Enterprises.
Negli ultimi due articoli un puntuale rinvio al Capitale di Marx
dimostra come l’odierno sviluppo dell’economia capitalista fosse già
stato previsto e che non serve una nuova teoria del Capitalismo di Stato
per spiegare la nazionalizzazione delle imprese economiche. La base, svelata
da Marx, su cui poggia la società presente, ossia lo sfruttamento della
forza lavoro al fine di riportare alla vita, sotto forma di Capitale,
il lavoro accumulato in passato, sotto forma di strade, ponti, dighe, canali,
ecc., è rimasta immutata. Tutt’ora costituisce il termine per comprendere
le tendenze del capitalismo contemporaneo e il punto di partenza per lavorare
alla sua demolizione.
Capitoli esposti a Cortona nell’ottobre 2004 e a Torino nel maggio
2005.
(Continua dai numeri 54, 56, 57)
Allo scoppio della guerra libica il proletariato italiano non era stato in grado di opporvisi e lo stesso Partito Socialista aveva avuto momenti di smarrimento, anche se poi, nel suo complesso, ritrovò la linea di avversione alla guerra, e seppe trarne le opportune lezioni.
In questo, un aiuto insperato nello sgombrare il campo dai falsi alleati venne proprio dai partiti borghesi e pseudo-rivoluzionari che, in un sol blocco, si erano schierati dalla parte degli interessi imperialistici italiani. «Un insegnamento dovrà scaturire da questa guerra per la nuova gioventù socialista italiana: ed è questo. La guerra ci ha fatto conoscere tutti i nostri avversari, molti dei quali abbiamo accettato fino a ieri come collaboratori ed alleati. E bisogna che il Partito Socialista Italiano di domani sappia respingere da sé tutti coloro che verranno a chiedergli aiuto in nome di ideali che non sono i nostri, anzi rappresentano l’ostacolo più grave per lo sviluppo delle nostre idee; che attinga le sue nuove energie dal proletariato soltanto, e non da partiti borghesi più o meno affini a loro, lontanissimi però dal nostro cammino rivoluzionario, che essi non potrebbero che inceppare e combattere» (L’Avanguardia, 24 marzo 1912).
Il fronte unico borghese metteva però in evidenza anche un altro aspetto,
forse il più importante, e che non sfuggì all’ala rivoluzionaria del
Partito Socialista: quello essenzialmente di politica interna, ossia di
classe. L’ubriacatura imperialistica e patriottica si proponeva lo scopo
di distrarre il movimento socialista dalle sue finalità e di addomesticare
la lotta di classe. La guerra fu condotta quindi, essenzialmente, contro
il partito rivoluzionario, al quale la borghesia tentava di assestare il
colpo di grazia. E, in questa prospettiva, solo il militarismo era in grado
di svolgere un funzione fondamentale sotto un duplice aspetto: quello dell’adesione
volontaria alla chiamata della patria, e l’altro, della repressione armata
nei confronti della organizzazione e della lotta di classe. Questo fu il
programma che entusiasmò tutto il variopinto fronte borghese dai radicali
ai conservatori, dai massoni ai cattolici, dai monarchici ai repubblicani,
fino ai sindacalisti rivoluzionari.
La valutazione delle Guerre Balcaniche
La guerra tra Italia e Turchia per il possesso della Libia aveva ulteriormente indebolito l’ormai decrepito Impero ottomano. Approfittarono di tale situazione Serbia, Bulgaria, Grecia e Montenegro: ad ottobre iniziarono le ostilità contro la Turchia (prima guerra balcanica) per la spartizione dei possessi turchi in Europa, ossia le regioni attualmente occupate da Albania, Kossovo, Macedonia, nord della Grecia, sud della Bulgaria. Questa guerra, che, dagli uffici di propaganda delle potenze interessate allo smembramento dell’Impero turco, venne presentata come guerra di indipendenza e di liberazione dei popoli oppressi, non poteva che raccogliere l’entusiastica adesione di tutti i partiti “progressisti” d’Europa, e non mancarono neppure gli arruolamenti e le partenze di volontari.
In un articolo del dicembre 1912 L’Avanguardia si rimprovera di non essersi opposta con abbastanza forza alla spedizione “garibaldina”, e di aver ceduto a considerazioni di opportunità: «Dire: restate! A giovani pronti a dare la vita per una causa che credevano santa, mentre assistiamo quotidianamente a tanto cinico indifferentismo della gioventù, poteva sembrare un argomento offerto ai nazionalisti per sostenere che il socialismo incoraggia la viltà e l’egoismo “materialista”. Ma ora non rinunzieremo a servirci dei fatti che hanno travolto il gesto, che voleva essere epico, nell’ironia e nel ridicolo». A coloro che avevano avuto fremiti di entusiasmo per quella guerra di “libertà” il giornale rammentava l’avvertimento di Sylva Viviani: «Il militarismo non guarda né all’irredentismo, né al nazionalismo, al patriottismo, al papismo o ad altro “ismo”, e fa alleanze occorrendo con tutti, quel sublime ucciditore» (Avanti!, 13 dicembre 1912).
I poveri “garibaldini” insegnavano: erano partiti per morire eroicamente sul fronte della libertà dei popoli e si erano poi trovati a fare da poliziotti soffocando la libertà nazionale dell’Albania. Quindi i giovani socialisti concludevano che «qualunque forma di guerra sotto ogni punto di vista non ridesta che sentimenti di esecrazione e di sdegno in noi, che siamo decisi ad essere militi della grande guerra di classe» (L’Avanguardia, 1 dicembre 1912). Si veda anche l’articolo di Mussolini “La fine di una tradizione”, in Avanti!, 16 novembre 1912.
Un dato di fatto incontestabile, e lo vedremo tra poco, seguendo le relazioni di Trotski, era quello che la guerra, condotta “per l’indipendenza delle popolazioni soggette al Turco”, aveva immediatamente ceduto il posto alle esigenze diplomatico-militari della politica internazionale. «Salonicco sarà greca o bulgara? Ecco un problema che si può mascherare di nazionalismo, mentre in realtà il militarismo bulgaro guarda in cagnesco quello greco che sembra stia per raccogliere migliori frutti. L’Albania sarà serba, montenegrina, greca? Ma l’Albania non è né slava, né greca, né turca, ecco una buona occasione per cui l’Austria chiede che diventi austriaca, e il nazionalismo italiano, già tanto bellicoso, implora sia subordinatamente austro-italiana (...) Intanto il denaro austriaco ravviva il movimento per l’autonomia albanese. Ed ecco la Serbia e la Grecia, partite in crociata per la libertà dei popoli, che soffocano nel sangue la nascente indipendenza dell’Albania» (L’Avanguardia, 22 dicembre 1912).
La prima guerra balcanica si concluse con la pace firmata a Londra il 30 maggio 1913. Venne stabilita la cessione di tutti i territori turchi a ovest della linea Enenz-Midia e delle isole Egee.
La pace però non segnò che un breve intervallo di guerra; quanto bastò a determinare nuovi schieramenti di alleanza, per cui gli ex nemici divennero alleati e gli alleati nemici. Infatti la Bulgaria attaccò immediatamente la Serbia, al cui fianco si schierarono Romania, Grecia, Montenegro, Turchia.
Sui campi di battaglia le popolazioni balcaniche e turche si scannavano reciprocamente, ma le sorti della guerra erano determinate dagli interessi imperialistici delle grandi potenze ed imposte dalle rispettive diplomazie. Nell’agosto del 1913, con la Pace di Bucarest, la Bulgaria perdeva la Macedonia e la Dobrugia; la Grecia otteneva Creta; Adrianopoli e la Tracia tornavano alla Turchia; la Macedonia fu spartita tra Serbia e Grecia. L’Albania diveniva un principato ereditario autonomo e neutrale, apparentemente indipendente. Per il nuovo Stato non fu facile trovare un sovrano: scartate le proposte di dare il trono al principe Ghica, al marchese d’Auletta Giovanni V Scanderberg e al principe Napoleone, figlio di Gerolamo e di Clotilde di Savoia, fu alla fine scelto il tedesco principe Guglielmo di Wied. Di tutti gli Stati forse la sola Romania usciva soddisfatta del bottino di guerra.
Il nuovo assetto non soddisfaceva la Grecia, che si doleva di non aver potuto impadronirsi dell’Albania meridionale e, mentre ne ritirava le truppe, che lasciavano il paese saccheggiando, bruciando e stuprando, cercava di procurare grattacapi all’Italia, alimentando l’irredentismo nelle isole del Dodecaneso occupate. Malcontento era il Montenegro, per non aver potuto tenere Scutari e altre terre; malcontenta era la Serbia che non era riuscita ad ottenere uno sbocco al mare, e più di tutti, naturalmente, era scontenta la Bulgaria. Il problema balcanico rimaneva quindi del tutto irrisolto.
Pochi giorni prima della firma della Pace di Bucarest, L’Avanguardia aveva scritto: «Le notizie che ci giungono in questi giorni dalla penisola balcanica dovrebbero far riflettere molto tutti quei cosidetti antimilitaristi che sono ancora fautori della capziosa distinzione fra guerre di conquista e guerre di indipendenza (...) Questo errato convincimento che consiste nel vedere che la borghesia possa ancora oggi difendere, col mezzo della guerra, una causa di libertà del popolo, e che il proletariato debba in tali casi seguirla, disarmando dalla lotta di classe per accorrere sui campi di battaglia attorno alle bandiere nazionali, questo convincimento, diciamo, aveva indotto non pochi socialisti ad inneggiare alla guerra dei quattro Stati balcanici contro la Turchia. La tesi non mancava di argomenti e poteva sedurre tutti: cattolici convinti, patrioti sfegatati, garibaldini in ritardo di mezzo secolo e... marxisti da strapazzo (...) Ma oggi, fatta la pace i vincitori nel dividersi il bottino – scusate, nello studiare il problema delle autonomie e delle razze – si stanno accapigliando sul serio, e sembra che i problemi storico-geografici saranno ancora risolti dando la parola al cannone – che del resto, in tanti altri casi simili, è stato il solo autorevole metodo di interpretazione del democratico, ma nebuloso, diritto delle genti».
Nei confronti degli Stati balcanici che si erano fatti carico della
liberazione dei popoli europei soggetti al dominio turco veniva scritto:
«Così noi rinfacciamo ai quattro Stati balcanici e alle quattro corone
che li rappresentano la loro associazione a delinquere, nascosta in mala
fede sotto il nome della libertà. E speriamo che il proletariato balcanico
trovi ancora, sotto la casacca militare serba o bulgara, lo slancio di
rivolta contro il nuovo massacro a cui lo si trascina, che esso trovi lo
slancio di solidarietà e di fratellanza vera, che non sia quello che ha
legato nell’aggressione le quattro dinastie, ma che faccia insorgere
i popoli contro il nemico comune, che non si schiera sotto le bandiere
della mezzaluna, ma si annida nelle casette buie del lavoratore, sia esso
turco o serbo o bulgaro o greco, nelle povere casette desolate e visitate
dalla miseria e dalla morte: il militarismo sanguinario, dinastico e borghese»
(L’Avanguardia, 6 luglio 1913).
La disamina di Trotski
Trotski si trovava di persona su quel teatro di guerra come inviato del Kievskaja Mysl (“Il pensiero di Kiev”), giornale da lui definito “radicale con venature marxiste”. Scriverà nella sua autobiografia: «Naturalmente, in un giornale pubblicato legalmente e che non apparteneva al partito, non potevo dire tutto quello che avrei voluto dire. Ma non scrissi mai quello che non volevo dire».
Trotski denunciava con tutta la sua vibrante polemica le spartizioni territoriali che prescindevano totalmente dalla volontà dei popoli, come fu il caso dei bulgari del “Quadrilatero” della Dobrugia, passati sotto la Romania, quando questa aveva “assalito alle spalle” la Bulgaria durante la seconda guerra balcanica, o dei macedoni per i quali i contadini bulgari avevano combattuto ed erano morti a migliaia (come gli stessi macedoni), per ritrovarsi con una terra passata dall’occupazione turca a quella greca o serba. Trotski metteva in evidenza le aspirazioni imperialistiche di questi staterelli, che non nutrivano affatto lo scopo dell’unificazione nazionale (obiettivo da lui considerato legittimo), ma la conquista di territori dove risiedevano altre nazionalità. Così definì “imperialismo” quello greco, il romeno e il bulgaro, come quello serbo, che si era «dimostrato assolutamente incapace di procedere lungo la via normale, vale a dire nazionale. L’Austria-Ungheria racchiudeva nei suoi confini più della metà dei Serbi e sbarrava la strada alla Serbia. Questa ha invece puntato verso la via più facile, cioè in direzione della Macedonia. Le conquiste nazionali decantate dalla propaganda serba sono state in realtà pressoché insignificanti. Più ampie appaiono invece le conquiste territoriali fatte dall’imperialismo serbo. I suoi confini racchiudono ora mezzo milione circa di Macedoni, oltre al mezzo milione di Albanesi che già imprigionavano. Che strepitoso successo! Bisogna però aggiungere che quel milione di cittadini ostili potrebbe dimostrarsi fatale per l’esistenza della Serbia storica».
Trotski vedeva all’origine della questione balcanica l’intrecciarsi di due fattori: l’irrisolta questione nazionale e le manovre delle potenze europee, tese a far sì che la questione balcanica continuasse a rimanere insoluta, perché nazioni frammentate producevano Stati fragili e dunque assoggettabili alle vere potenze imperialiste: «Bisogna distinguere due aspetti: il primo è quello delle relazioni fra le nazioni e gli Stati della penisola balcanica, il secondo è quello del conflitto degli interessi e degli intrighi delle potenze capitalistiche europee nei Balcani. Le due questioni non coincidono (...) Le frontiere di questi piccoli Stati della penisola balcanica sono state disegnate non in relazione alla conformazione geografica o alle necessità delle nazioni, ma come risultato di guerre, intrighi diplomatici e interessi dinastici». I serbi, ad esempio, «sono dispersi in cinque Stati diversi».
Infine, cercando di dare una spiegazione della guerra dei Balcani, affermava che all’inizio essa aveva avuto un significato progressista, poi distorto dalle direzioni imperialiste degli eserciti slavi: «L’attuale guerra nei Balcani esprime l’aspirazione del frammentato slavismo balcanico a una qualche forma di aggregazione che fornisca basi più ampie allo sviluppo economico e politico. In ultima istanza, a questa aspirazione non ci si può opporre, essa è storicamente progressiva e suscita la simpatia della massa del popolo sia dell’Europa occidentale sia orientale». Se nella prima guerra balcanica gli ideali di indipendenza e di autodeterminazione dei popoli lasciarono immediatamente il posto agli interessi dei piccoli Stati dell’alleanza balcanica, a maggior ragione la seconda si dimostrò come una guerra di brigantaggio, come logico sviluppo delle premesse poste dalla prima: «L’emancipazione dei contadini macedoni dalla sudditanza al latifondista feudale era indubbiamente un fatto necessario e storicamente progressivo. Ma questo compito è stato intrapreso da forze che avevano a cuore non gli interessi dei contadini macedoni, ma i loro avidi interessi di conquistatori dinastici e di predatori borghesi».
«Va dunque detto – scriveva Trotski – che i nuovi confini della penisola balcanica, a prescindere da quanto possano reggere, sfregiano e lacerano i corpi palpitanti di nazioni totalmente dissanguate, esauste. Nessuna di queste nazioni balcaniche è riuscita a rimettere assieme i cocci dispersi. Nello stesso tempo ognuno degli Stati balcanici, Romania compresa, racchiude oggi nei propri confini una compatta, ostile minoranza (...) Sono questi i frutti di una guerra che ha divorato, fra caduti, feriti e morti per malattie, almeno mezzo milione di uomini, senza risolvere neppure uno dei problemi fondamentali dello sviluppo balcanico».
Riguardo alle atrocità del conflitto Trotski scriveva: «La concezione astratta, moralistica, umanitaristica dei processi storici è del tutto sterile. Lo so perfettamente. Ma questa massa caotica di acquisizioni materiali, di costumi, di abitudini e di pregiudizi che chiamiamo civilizzazione ci ipnotizza, ci ispira una falsa fiducia nell’idea che l’umano progresso abbia già realizzato le conquiste maggiori. D’un tratto la guerra ci rivela che procediamo ancora a quattro zampe e che non siamo tuttora usciti dal grembo dall’era barbarica della nostra storia. Abbiamo imparato a portare le giarrettiere, a scrivere intelligenti articoli progressisti. Ma quando si tratta di affrontare seriamente il problema della convivenza di poche tribù in una fertile penisola dell’Europa, non sappiamo escogitare altro metodo che il reciproco sterminio su scala di massa». In alcune corrispondenze Trotski non manca di descrivere le atrocità della guerra; parla dei prigionieri turchi eliminati sistematicamente; narra che «le abitazioni dei turchi e degli ebrei, cioè metà della popolazione, sono abbandonate. Tutti i negozi e le case di questa zona della città sono state saccheggiate e persino distrutte. I furti e gli assassini sono all’ordine del giorno (...) Ti si spezza il cuore nel vedere pacifici contadini turchi assassinati senza una ragione, derubati delle loro proprietà, le mogli e i figli ridotti alla fame; fra Radovise e Stip circa duemila rifugiati turchi, in gran parte donne e bambini, sono morti di fame, letteralmente di fame».
Trotski condusse anche una vigorosa campagna contro la congiura del
silenzio dei giornali russi che tendevano a mettere a tacere, in nome della
“solidarietà slava”, i crimini di guerra dei bulgari e dei serbi a
danno di albanesi e turchi. Per questo Trotski attaccò l’ideologia panslavista,
copertura ideologica degli interessi nazionali russi. Dalla sua autobiografia
leggiamo: «Nei miei articoli impegnai una battaglia contro la impostura
slavofila, contro lo sciovinismo in genere, contro le illusioni della guerra,
contro i metodi scientificamente organizzati di imbottimento dei crani.
La redazione della Kievskaja Mysl ebbe il coraggio di pubblicare
l’articolo in cui raccontavo le atrocità commesse dai bulgari contro
i prigionieri turchi feriti e denunciavo la congiura del silenzio della
stampa russa».
Ben ravvisato lo svolto cruciale
La posizione dei giovani socialisti italiani, nella condizione di poter meglio avvertire il grado di maturità storica generale del capitalismo imperialista in Europa, scioglieva il dilemma espresso dalle considerazioni di Trotski, delineando nettamente l’atteggiamento da tenere nei confronti delle guerre balcaniche: all’interrogativo se il Partito Socialista avesse dovuto appoggiare la guerra, per accelerare lo sviluppo della borghesia in paesi ancora feudali, veniva risposto con un NO e con un plauso alla attitudine dei compagni serbi e bulgari che la avevano avversata. Gli argomenti di questa dichiarata opposizione venivano così esposti.
È possibile che l’esito della guerra sia favorevole al popolo più progredito, ma è anche possibile l’inverso, nel qual caso le conseguenze sarebbero opposte. Questa sola incertezza sarebbe stata sufficiente a spingere ogni vero amico del progresso ad avversare il conflitto armato.
D’altra parte, anche nel caso che la soluzione del conflitto fosse stata tale da dare una maggiore libertà ai popoli dei territori conquistati, non ci sarebbe stata garanzia che si sarebbe ottenuta una condizione più favorevole allo sviluppo del socialismo. E ciò perché nelle nazioni che avevano fatto la guerra si sarebbe verificato: - un aumentato prestigio delle oligarchie dinastiche, militari e perfino sacerdotali; - una intensificazione del nazionalismo e del patriottismo, tali da ritardare l’organizzazione del proletariato in partito di classe internazionalista; - nei paesi conquistati, l’intensificazione degli odi di razza e il desiderio di vendetta della razza prima dominante e ora oppressa, a meno che non venga distrutta totalmente; - la decimazione degli uomini validi nel corso della guerra; - lo spopolamento causato da massacri, malattie, fame, ecc.; - l’immensa distruzione di ricchezza con conseguente crisi economica ed impossibilità che si sviluppi l’industrialismo e l’agricoltura, per deficienza di capitali e di mano d’opera. «Che la guerra acceleri l’avvento della rivoluzione socialista è quindi un pregiudizio volgare. Il socialismo deve opporsi a tutte le guerre, senza adattarsi a distinzioni capziose tra guerre di conquista e guerre di indipendenza (...)».
«Ai mali si rimedia rimovendone le cause. Ora è esagerato dire che la causa del disordine balcanico sia il dominio turco. Ci sono molte altre cause. L’ambizione degli staterelli primeggianti che hanno sempre soffiato nel fuoco dell’odio di razza. L’intervento della civile Europa che ha vomitato laggiù frati, preti e affaristi senza scrupoli, causando la reazione dei musulmani. Ma la causa prima è l’odio di razza, che non si elimina con le guerre. Come i bulgari e i greci hanno fatto tacere il feroce odio reciproco [l’articolo venne scritto nel corso della prima guerra balcanica, n.d.r.] così potevano tentare l’accordo generale balcanico. Si può asserire che l’oligarchia turca vi si opponeva più delle oligarchie ambiziose dei quattro piccoli Stati?
«In ogni modo la nostra asserzione, basata sui principi socialisti è questa: I socialisti devono essere contrari a questa guerra. Se l’Internazionale fosse stata così forte da evitarla, avrebbe avuto anche la forza di risolvere, senza stragi, la questione balcanica.
«Proclamandoci contro le guerre d’indipendenza noi non intendiamo fare l’apologia dell’oppressione di razza. Marx diceva che essere avverso al regime costituzionale non era lo stesso che essere partigiano del regime assoluto.
«E possiamo accettare la formola – che sembra mèta di tutte le vaste
elucubrazioni diplomatiche che leggiamo da un mese – il Balcano ai popoli
balcanici. Ma domandiamo: a quali popoli? a quelli che avanzeranno dalla
strage reciproca, agli orfani, alle vedove, agli storpi, ai colerosi! Le
cifre questa volta provano bene qual’è l’effetto di una guerra! Le
perdite sono tali che non è iperbole asserire che la razza si è dissanguata
e isterilita per un lungo avvenire! I campi della devastazione resteranno
ai quattro tirannelli soddisfatti. E se domani lo czar in diciottesimo
cingerà in Santa Sofia la corona sanguinolenta dell’impero di Bisanzio,
ci auguriamo che non vi saranno socialisti tra coloro che andranno a scavare
nel ciarpame retorico di una storia e di una letteratura da istrioni le
strofe dell’inno al vincitore! Noi in nome della più grande civiltà
malediremo chi ha fatto massacrare tante giovani esistenze per i suoi sogni
ambiziosi! Non c’è delitto più efferato a cui non si possa trovare,
dagli eunuchi della coltura borghese, la tradizione e la glorificazione
dell’eroismo!» (L’Avanguardia, 1 dicembre 1912).
La Prima Guerra e la neutralità dell’Italia
Il 28 giugno 1914, a Sarajevo, per mano di uno studente irredentista bosniaco, venivano assassinati l’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando e consorte. Vienna attribuì la responsabilità dell’attentato al governo serbo e gli inviò un ultimatum al quale seguì, il 28 luglio, la dichiarazione di guerra ed il bombardamento di Belgrado. La Russia proclamò la mobilitazione generale a sostegno della Serbia. A questo atto rispose la Germania che dichiarò guerra alla Russia (1 agosto) ed alla Francia (3 agosto). Il 4 agosto fu la Gran Bretagna a dichiarare guerra alla Germania per avere violato il trattato che garantiva la neutralità del Belgio. «Nei suoi passi ipocriti per la pace fino a poche ore prima, Londra aveva dichiarato in pubblico e nel segreto diplomatico che non si sarebbe mossa: se avesse apertamente annunciato di muoversi, forse gli altri avrebbero indugiato a fare i primi passi irrevocabili. La lezione della storia è per noi che, perché la guerra scoppi, non occorrono i “provocatori”. Ma se si volesse individuarli non si dovrebbe cercare che tra i “pacifisti”. Oggi le cose non vanno diversamente da allora, né la cosa cambiò nella tarda estate dell’altro anno maledetto, il 1939» (Storia della Sinistra, Vol.I).
Ma la giornata del 4 agosto 1914 non fu memorabile tanto per l’entrata in guerra da parte dell’Inghilterra, lo fu soprattutto perché i partiti socialisti e l’internazionale toccarono il vertice della vergogna.
«A Vienna a Berlino a Parigi a Londra, ossia da ambo i lati della folgorante lacerazione a cui gli stessi borghesi ancora non credevano, le unanimità dei partiti socialisti non solo nulla trovarono da dire al proletariato e ai loro aderenti dalla vantata tanto, prima e dopo, tribuna elargita dalla democrazia, ma dissero che gli ordini di guerra dei governi erano giusti, non trovarono una parola di opposizione, e votarono l’approvazione della politica di guerra e i crediti militari. I poteri degli Stati capitalistici ebbero le mani più libere che non avrebbero avuto gli antichi poteri storici assolutistici e non costituzionali, in cui il monarca aveva diritto di dichiarare guerra senza il consenso né il voto di nessuno».
I socialisti parlamentari fecero ancora di più: entrarono nei governi che prendevano il nome ignobile di “Unione Sacra”, come il Vandervelde, segretario belga dell’Internazionale, e i francesi, indifferenti all’ assassinio del pur destro Jaurès, ucciso il 31 luglio dal nazionalista Villain; il solo che fece in tempo a morire degnamente.
Vi furono poche ma gloriose eccezioni. Tra i vari gruppi alla Duma, quello di sinistra del partito socialdemocratico (i bolscevichi) prese fiera attitudine di opposizione e si dette all’agitazione nel paese: fu tutto mandato in Siberia. Solo una parte peggiore dei destri (menscevichi) e dei socialrivoluzionari e populisti votò i crediti di guerra, gruppi intermedi non si macchiarono di tanto ma tennero, una politica ambigua.
In Inghilterra, ove anche i partiti erano diversi, il grosso partito laburista appoggiò in pieno la guerra; meglio si comportò il Partito Socialista Britannico, e coraggiosamente contrario fu il Partito Indipendente del Lavoro (Mac Donald). Vero esempio di internazionalismo conseguente dettero i serbi. In quale paese poteva di più giocare il motivo della difesa nazionale? L’unico compagno deputato, Laptchevitch, il 10 agosto rifiutò il voto ai crediti. All’opposizione si tenne il partito socialista bulgaro.
Nell’accennata tutta speciale situazione dell’Italia, si può dire, che tutti i partiti e i gruppi parlamentari si opposero all’intervento in guerra, che in un primo momento era diplomaticamente preteso dagli alleati della Triplice. Il 2 agosto il governo Salandra annunziò che, non ravvisandosi il casus foederis (estremo previsto nel trattato d’alleanza), l’Italia sarebbe rimasta neutrale, e non vi fu alcuna opposizione da parte dei cattolici e dei giolittiani, ma solo da parte del giovane movimento nazionalista, che nei primissimi tempi fu favorevole all’intervento a fianco degli Imperi Centrali e poco dopo richiese a gran voce la guerra contro di essi: il che, sia detto per inciso, dimostra come per il grande capitalismo industriale italiano, che notoriamente finanziava la stampa dei nazionalisti, l’importante era fare la guerra a tutti i costi, non conta da che parte.
Fin da quando fu chiaro che il governo di Belgrado non sarebbe stato disposto ad accettare l’ultimatum austriaco e che la guerra tra le due nazioni sarebbe inevitabilmente scoppiata, Mussolini, dalle colonne dell’Avanti! aveva annunciato che il compito del proletariato italiano sarebbe stato quello di stracciare i patti della Triplice e di imporre al governo italiano la neutralità assoluta. «O il governo accetta questa necessità o il proletariato saprà imporgliela con tutti i mezzi. È giunta l’ora delle grandi responsabilità. Il proletariato d’Italia permetterà dunque che lo si conduca al macello un’altra volta? Noi non lo pensiamo nemmeno. Ma occorre muoversi; agire, non perdere tempo. Mobilitare le nostre forze. Sorga dunque dai circoli politici, dalle organizzazioni economiche, dai comuni e dalle province dove il nostro Partito ha i suoi rappresentanti, sorga dalle moltitudini profonde del proletariato un grido solo, e sia ripetuto per le piazza e strade d’Italia: “Abbasso la guerra!” È venuto il giorno per il proletariato italiano per tener fede alla vecchia parola d’ordine: “Non un uomo! Né un soldo” A qualunque costo» (Abbasso la Guerra!, 26 luglio 1914)
Contemporaneamente venne chiesta l’immediata convocazione della Direzione del partito, che però non ebbe luogo. Al suo posto il giorno 27 si tenne a Milano una riunione del gruppo parlamentare, alla quale intervennero solo poco più della metà dei deputati, con la partecipazione, per la Direzione del partito, di Mussolini e Ratti. Nel corso della riunione furono approvati alcuni o.d.g. in cui, dopo avere ammonito che «nessun patto segreto di coronati potrebbe trascinare il proletariato italiano ad impugnare le armi», veniva reclamata la convocazione della Camera «per provocare dal governo dichiarazioni impegnative e rassicuranti, nel senso che l’Italia non uscirà in nessun caso e per nessun motivo da un atteggiamento di neutralità assoluta». Il proletariato italiano veniva chiamato a tenersi pronto a «quelle più energiche soluzioni che il partito intendesse di adottare in vista degli avvenimenti». Nel corso della riunione Mussolini aveva proposto che, nella eventualità dell’intervento italiano, venisse proclamato lo sciopero generale insurrezionale, anche se non se ne trova traccia negli o.d.g. approvati.
Il 30 luglio l’Avanti! pubblicava un manifesto ai lavoratori italiani a firma della Direzione del partito nel quale si ribadiva la totale avversione alla guerra: «Di fronte a questo pericolo voi dovete reclamare ed imporre al Governo la più assoluta neutralità. È interesse del proletariato di tutte le nazioni di impedire, circoscrivere e limitare più che sia possibile un conflitto armato, utile solo al trionfo del militarismo e dell’affarismo parassitario della borghesia. Voi, proletari d’Italia che pure in pieno periodo di crisi e di disoccupazione (tristi conseguenza dell’impresa libica) già nel recente sciopero generale sapeste dar prova della vostra forza, della vostra coscienza di classe, del vostro spirito di sacrificio, dovete ora essere pronti a non lasciare trascinare l’Italia nel baratro della spaventosa avventura».
Però, di fronte all’incalzare degli avvenimenti, la Direzione del Partito Socialista non si dimostrò affatto sollecita nel prendere posizione e tantomeno nel dare direttive di azione al proletariato; anzi tentava di procrastinare ogni presa di posizione rendendosi il più possibile latitante, disertando le convocazioni ed aspettando di vedere quale atteggiamento avrebbero tenuto i vari partiti socialisti, in special modo quello austriaco. Anche il citato Manifesto ai lavoratori italiani era stato scritto in fretta e furia a Roma solo a seguito di incalzanti pressioni da parte di Mussolini che, da Milano, tempestava di lettere e di telefonate i dirigenti del partito. Di ciò fanno fede sia la corrispondenza scritta sia le intercettazioni telefoniche della polizia.
La Direzione socialista si riunì finalmente il 3 agosto, lo stesso giorno in cui si veniva a conoscenza che l’Italia aveva dichiarato la propria neutralità nei confronti del conflitto non ravvisandosi casus foederis, quando cioè, come ebbe a commentare Mussolini, «per una strana ironia delle cose, la parola d’ordine al proletariato venne data dal governo».
Subito l’atteggiamento antimilitarista intransigente cominciò a fare acqua da tutte le parti. Nemmeno il Partito Socialista si dimostrò vaccinato nei confronti dell’abile propaganda democratico-borghese che, puntando sul piano sentimentale e psicologico, tentava di agire sulle coscienze dei proletari: il caso del “piccolo Belgio”, invaso malgrado la sua neutralità, con tanto di dichiarazione, da parte tedesca, che i trattati altro non sono che dei pezzi di carta, fece breccia anche all’interno delle coscienze dei dirigenti “rivoluzionari” del Partito Socialista.
Per rendersi conto basta solo dare un’occhiata ai titoli di prima pagina dell’Avanti! di quei giorni: 4 agosto, “L’orda teutonica scatenata su tutta l’Europa”; 5 agosto, “Il militarismo brutale inizia la sua gesta di sangue”; 6 agosto, “La sfida germanica contro latini, slavi ed anglosassoni”; 7 agosto, “La fiera resistenza dei belgi arresta l’avanzata tedesca”.
Clamoroso fu, in Francia, il caso di Gustave Hervé, il campione dell’antimilitarismo, il teorico dello sciopero insurrezionale contro la guerra. Ebbene, allo scoppio del conflitto, Hervé, con una lettera indirizzata al ministro della guerra, chiese di essere arruolato nel primo reggimento in partenza per il fronte.
Ma altrettanto clamorosa, per i rivoluzionari italiani, fu la difesa che Mussolini fece del gesto di Hervé: «No, Hervé che definisce – come noi pure la definiamo – “immonda la guerra” non è un “guerrafondaio” anche se andrà alla frontiera, così come non è un delinquente il pacifico cittadino che deve d’un tratto ricorrere alla browning per difendersi dall’attacco del bandito. Il militarismo prussiano e pangermanista è, dal ‘70 ad oggi, il bandito appostato sulle strade della civiltà europea» (Avanti!, 5 agosto).
Di ben altro tono fu il commento dei nostri compagni che, senza nominare il personaggio e senza nemmeno far ricorso a termini roboanti del tipo di guerrafondaio, traditore, etc., facevano chiarezza al riguardo: «Da quando l’uomo ha la dote di pensare prima di agire, per sfuggire al mantenimento degli impegni, alle conseguenze concrete delle astratte affermazioni, l’avvocatismo che si annida in ogni essere pensante è ricorso sempre alle distinzioni. Così oggi ci rigetta tra capo e collo la distinzione fra guerra di offesa e guerra di difesa, tra l’invasione della patria altrui e la protezione del territorio nazionale. E gli antipatrioti di ieri scrivono una lettera che distrugge dieci volumi, mille discorsi, mille articoli, e marciano alla frontiera. Anche la politica socialista è dunque il culto dei bei gesti anziché dei veri sacrifici? La Francia è stata aggredita e si difende contro il pericolo tedesco. Ma avete lette le dichiarazioni del deputato Haase al Reichstag germanico? La Germania si difende dal pericolo russo. Tutte le patrie sono in pericolo dal momento che si scagliano le une contro le altre» (Avanti!, 16 agosto).
Proprio tra quelli che fino a pochissimi giorni prima avevano proclamato la massima intransigenza, sempre più terreno guadagnava la teoria che insisteva nella distinzione tra guerra di offesa e guerra di difesa.
Ordini del giorno intransigenti come quello della sezione di Napoli
sono più unici che rari: «La Sezione napoletana del Partito Socialista
dinanzi al divampare della guerra in Europa; ritenendo che i lavoratori
non hanno nessun interesse e nessun ideale da difendere sulle frontiere
nazionali, qualunque sia la motivazione che della guerra dà l’astuta
ed ipocrita diplomazia borghese; e che la responsabilità del conflitto
attuale risale in egual misura alla borghesia di tutti i paesi, la quale
si è lanciata da anni nella folle gara degli armamenti; e che della esaltazione
del militarismo si fa un mezzo, oltre che per le cupidigie imperialistiche,
anche per la sua difesa contro l’avanzare delle classi proletarie; mentre
si augura che i lavoratori europei si ridestino dall’ubbriacatura che
oggi li lancia gli uni contro gli altri verso incalcolabili stragi, e si
avvalgano delle armi impugnate per la difesa della causa del proletariato
internazionale; fa voti che il Partito Socialista e le organizzazioni operaie
osservino una direttiva di recisa opposizione a qualsiasi guerra e conservino
alla propria azione il carattere di classe e di partito, qualunque sia
la situazione prospettata dal governo borghese italiano dal punto di vista
dei cosidetti interessi nazionali».
La conversione di Mussolini
L’ordine del giorno era stato pubblicato sull’Avanti! dell’11 agosto, ma la redazione (ossia Mussolini) aveva ritenuto opportuno farlo seguire da una nota, breve, ma quanto bastava per prenderne le distanze: «La sezione napoletana, come potete constatare, ha tenuto soprattutto, in questa ora in cui si assiste a tanti traviamenti ed a tante ubriacature, a fermare il concetto della opposizione alla guerra e della azione di classe anche nel caso della cosiddetta “aggressione”, concetto non condiviso da tutti gli organi del partito». Già il 3 agosto Mussolini aveva infatti condizionato la neutralità del proletariato al fatto che la patria non venisse aggredita: «Se l’Austria – ubriacata dalle sue recenti vittorie – intendesse (l’ipotesi è inverosimile) di perpetrare una “spedizione punitiva” attraverso il Veneto, allora è probabile che molti di quelli che oggi sono accusati di anti-patriottismo saprebbero compiere il proprio dovere».
Anche se non costituisce una giustificazione allo sbandamento progressivo degli organi dirigenti del Partito Socialista, non possiamo non tener conto di quello che fu l’atteggiamento di quanti, ai margini del movimento proletario, tradizionalmente avevano fatto parte della vasta area antimilitarista: partiti, raggruppamenti politici, uomini illustri.
I primi a pronunciarsi esplicitamente per l’uscita dalla neutralità furono, fin dall’11 agosto, i repubblicani, che cominciarono a dare vita a comitati di mobilitazione interventista, a prendere contatti con i francesi per studiare la possibilità di inviare una legione garibaldina, e persino a progettare attentati alle frontiere con l’Austria o la Dalmazia per provocare un casus belli. Particolarmente attivo interventista fu quel Pietro Nenni che aveva organizzato vere e proprie rivolte antimilitariste in occasione della guerra di Libia. Ai repubblicani seguirono i radicali, poi a favore dell’intervento contro l’Austria prese posizione la massoneria. Il 6 settembre fu la volta dei socialisti riformisti (gli espulsi di Reggio Emilia) che in un documento della Direzione del partito e del Gruppo parlamentare invitavano il governo a non interpretare la neutralità «come rinuncia preventiva ed assoluta ad ogni intervento nel conflitto» ma come una «rivendicata libertà di azione». Seguirono le defezioni di alcuni anarchici ed anarco-sindacalisti.
Tutto ciò forniva pretesto a Mussolini per divenire, giorno dopo giorno, sempre più malleabile e sensibile ai valori della democrazia e della civiltà compiendo la involuzione verso l’interventismo. In una lettera a Lazzari avanzava problemi di opportunità e di coscienza: «Mi pare di avere in decine di articoli e note (...) precisato il nostro punto di vista anche nei riguardi della eventuale guerra all’Austria. Il ripetersi continuamente finisce per diventare stucchevole e non lasciar traccia. D’altra parte gli articoli e gli atteggiamenti di moltissimi socialisti, sindacalisti e persino anarchici mi lasciano un po’ turbato (...) Data questa situazione complessa io credo che in caso di mobilitazione o di guerra dichiarata all’Austria, la Direzione debba con un manifesto al paese scindere la propria responsabilità mentre i deputati socialisti negheranno il voto ai crediti militari richiesti per la guerra. Non c’è altro da fare. Lo sciopero generale rivoluzionario eravamo decisi a tentarlo nell’altra contingenza che ormai non si verificherà più» (21 agosto). In pratica Lazzari e la Direzione del partito, nel maggio dell’anno 1915, daranno esecuzione alle indicazioni di Mussolini agosto 1914.
Mentre Mussolini si converte all’intervento contro l’Austria, si sforza con mille acrobazie di coonestare il suo rinnegamento del socialismo, e mentre intriga con il nemico di classe, dal quale riceve e con il quale mercanteggia il prezzo del tradimento, contemporaneamente vuol far credere di essere l’intransigente di sempre. Tipica a questo proposito è la lettera del 25 settembre, inviata al direttore de Il Socialista di Napoli.
Il 21 e 22 settembre ci fu a Roma un’altra riunione della Direzione del partito e del Gruppo parlamentare. Mussolini si presentò con la bozza di un nuovo appello al proletariato italiano: il documento riproponeva la neutralità assoluta, nessuna concessione doveva essere fatta alla guerra, solo “opposizione recisa ed implacabile”; la ricerca delle responsabilità prime della guerra sarebbe stata soltanto “artificio e menzogna”; il Partito Socialista doveva chiamare a raccolta il proletariato contro il contagio dilagante della guerra. Accettata l’idea di un nuovo manifesto al proletariato italiano, i partecipanti alla riunione di Roma ne incaricarono Mussolini, Turati e Prampolini della redazione, anche se il vero estensore del documento, che venne pubblicato il 22 settembre, fu Mussolini.
Il 25 settembre con un corsivo dal titolo: “La parola al proletariato”, il direttore dell’Avanti! invitava il proletariato ad esprimere la propria opinione sulla guerra: «Noi invitiamo tutte le organizzazioni politiche sovversive – socialiste e non socialiste –; tutte le organizzazioni economiche – leghe, cooperative, mutue –; tutti i gruppi di operai che intendono esprimere una loro opinione collettiva a riunirsi nelle sere di sabato e domenica 26-27 corrente, e a mandarci immediata notizia delle loro deliberazioni. Non lunghi ordini del giorno che non potremmo pubblicare, ma la risposta affermativa o negativa se convenga o meno mantenere la neutralità assoluta dell’Italia. Niente “considerando”, ma un si o un no». Quello che conta rilevare non è il risultato del “referendum proletario”, che comunque si trasformò in un plebiscito antimilitarista, ma l’inganno che si nasconde dietro la “consultazione del proletariato”. Mussolini, antidemocratico prima e dopo, ricorre alla consultazione delle organizzazioni e delle masse, socialiste e non socialiste, e, fingendo di dimenticarsi che compito del partito è di dare direttive alla classe e non di essere l’esecutore della volontà della maggioranza, di fatto vi concedeva il diritto di cittadinanza a tutte le opinioni, comprese le interventiste.
Il 18 ottobre, mentre la Direzione del partito era stata convocata a Bologna per fare il punto sulla situazione internazionale, Mussolini ruppe finalmente gli indugi e l’Avanti! usciva con il famoso articolo “Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante”. Nel corso della riunione presentò un proprio ordine del giorno nel quale, secondo il copione sempre valido per tutti gli opportunisti, riafferma la sua «opposizione di principio alla guerra» ma «ritiene (...) che la formula della neutralità assoluta sia diventata troppo impegnativa e dogmatica davanti ad una situazione internazionale sempre più complessa ed irta di incognite preoccupanti». Da tale premessa, quindi, il partito, nell’eventualità della guerra, avrebbe dovuto riservarsi di determinare la sua azione «a seconda degli avvenimenti».
La Direzione del partito, che respinse l’o.d.g. Mussolini, lanciò al proletariato italiano un nuovo Manifesto contro la guerra e per la neutralità assoluta. Corretto da un punto di vista formale, il Manifesto mostrava tutta la debolezza del Partito Socialista, incapace sia di liberarsi dai pregiudizi democratici («Nessuno può certo comprimersi sentimenti di simpatia che sorgono spontanei ed invincibili dall’animo nostro fra belligerante e belligerante, ma questi sentimenti non debbono strapparci alla fedeltà della nostra bandiera»), sia di opporsi allo scatenamento della guerra («Non è oggi in noi la forza di impedire o di fiaccare la guerra che divampa»). Era l’anticipazione della formula lazzariana del “Né aderire, né sabotare” che venne adottata dal Partito Socialista nel corso delle “radiose giornate” del maggio 1915. Formula che, da parte del Partito Socialista, rappresentava una teorica riconferma dei principi antimilitaristi e di classe ed una dichiarazione di pratica impotenza.
Come è stato più volte detto il Partito Socialista si salvò l’anima grazie a questa ambigua parola d’ordine ed al rifiuto, da parte del Gruppo parlamentare, di votare i crediti di guerra nel corso della seduta parlamentare del 20 maggio che proclamò l’intervento.
La conversione di Mussolini non solo venne accolta con estremo favore dai partiti e dalla stampa borghese, ma soprattutto da quei gruppi di sinistra, democratici e pseudo-rivoluzionari, che già da tempo avevano compiuto la loro conversione patriottica. Al gesto di rottura di Mussolini plaudì Salvemini; la “Azione Socialista” giornale degli espulsi del 1912, “L’Internazionale” sindacalista, “L’Iniziativa” repubblicano, “Pagine Libere” sindacalista rivoluzionario, “La Voce”, “L’Arduo” furono tutti concordi nel sostenerlo.
Un significativo esempio di come i concetti democratici ed interclassisti possano inquinare anche le menti più vivaci e sincere, quando non abbiano a pieno acquisito la concezione marxista della lotta di classe, ci è dato da Antonio Gramsci: «Noi, socialisti italiani, ci proponiamo il problema: “Quale dev’essere la funzione del Partito Socialista italiano (si badi, e non del proletariato o del socialismo in genere) nel presente momento della vita italiana?” Perché il Partito Socialista, a cui noi diamo la nostra attività, è anche italiano, cioè è quella sezione dell’Internazionale Socialista che si è assunto il compito di conquistare all’Internazionale la nazione italiana. Questo compito immediato, sempre attuale, gli conferisce dei caratteri speciali, nazionali, che lo costringono ad assumere nella vita italiana una sua funzione specifica, una sua responsabilità. È uno Stato in potenza.
«La formula della “neutralità assoluta” fu utilissima nel primo momento della crisi. Ora che dalla iniziale situazione caotica sono precipitati gli elementi di confusione e ciascuno deve assumere le proprie responsabilità, essa ha solo valore per i riformisti che dicono di non voler giocare terni secchi (ma lasciano che gli altri li giochino e li guadagnino) e vorrebbero che il proletariato assistesse da spettatore imparziale agli avvenimenti, lasciando che questi gli creino la sua ora, mentre intanto gli avversari la loro ora se la creano da sé e preparano loro la piattaforma per la lotta di classe.
«Ma i rivoluzionari che concepiscono la storia come creazione del proprio spirito, fatta di una serie ininterrotta di strappi operanti sulle altre forze attive e passive della società, e preparano il massimo di condizioni favorevoli per lo strappo definitivo (la rivoluzione) non devono accontentarsi della formula provvisoria “neutralità assoluta”, ma devono trasformarla nell’altra “neutralità attiva e operante”. Il che vuol dire ridare alla vita della nazione il suo genuino e schietto carattere di lotta di classe, in quanto la classe lavoratrice, obbligando la classe detentrice del potere ad assumere le sue responsabilità la obbliga a riconoscere che essa ha completamente fallito al suo scopo, poiché ha condotto la nazione, di cui si proclamava unica rappresentante, in un vicolo cieco, da cui essa nazione non potrà uscire se non abbandonando al proprio destino tutti quegli istituti che del presente suo tristissimo stato sono direttamente responsabili.
«Non un abbracciamento generale vuole quindi il Mussolini, non una fusione di tutti i partiti in un’unanimità nazionale, che allora la sua posizione sarebbe antisocialista. Egli vorrebbe che il proletariato, avendo acquistato una chiara coscienza della sua forza di classe e della sua potenzialità rivoluzionaria, e riconoscendo per il momento la propria immaturità ad assumere il timone dello Stato permettesse che nella storia fossero lasciate operare quelle forze che il proletariato, non sentendosi di sostituire, ritiene più forti. Né la posizione mussoliniana esclude (anzi lo presuppone) che il proletariato rinunzi al suo atteggiamento antagonistico e possa, dopo un fallimento o una dimostrata impotenza della classe dirigente, sbarazzarsi di questa e impadronirsi delle cose pubbliche» (Il Grido del Popolo, 31 ottobre 1914).
Capitoli esposti alle riunioni di gennaio 2002, gennaio e maggio 2003.
(Continua dal n. 50)
Il movimento sindacale visto dalla Lega Industriale
La Lega Industriale, organizzazione padronale nata nel 1906, mostra una buona comprensione di ciò che significa lotta di classe. Soddisfatta della sconfitta del sindacalismo rivoluzionario, che ritiene voler significare un maggior ordine dentro e fuori le fabbriche, si pone il problema dei suoi rapporti col sindacalismo confederale, apprezzandone la collaborazione, nella convinzione dell’insopprimibilità della lotta di classe, destinata a riprodursi all’interno della stessa Confederazione Generale del Lavoro. La Lega industriale vuole quindi combattere le posizioni di classe, senza però indebolire eccessivamente la Confederazione.
Torniamo al precedente citato lavoro del Pepe: «Nel numero doppio dell’ottobre-novembre 1908 del “Bollettino della Lega” usciva un lungo editoriale dedicato appunto al recente Congresso della Resistenza e alle sue conclusioni organizzative e programmatiche. L’articolo di fondo premetteva un puntualizzazione delle funzioni della C.G.d.L. all’interno del movimento sindacale e ne constatava l’ancora relativa debolezza numerica e finanziaria, che la rendeva assai più debole delle consorelle tedesca e inglese. Tuttavia ne riconosceva il ruolo di coordinamento, di disciplina e di orientamento per tutte le organizzazioni periferiche, per le quali si prevedeva l’adeguamento alle nuove direttive congressuali».
Leggiamo direttamente l’articolo padronale: «La Confederazione ha un’azione soprattutto d’indole intellettuale e morale; è la coordinatrice del movimento operaio; è la disciplinatrice delle iniziative locali; è la integratrice e la moderatrice dell’azione delle singole associazioni. La sua importanza risiede e va ricercata nel campo che le è proprio: essa deriva dal fatto che la Confederazione costituisce la massima rappresentanza della forza proletaria organizzata, e che dal suo atteggiamento in un senso piuttosto che in un altro consegue una diversa orientazione del movimento operaio verso l’una e l’altra tendenza, che dallo spirito che l’informa si può dedurre quale sia il carattere delle agitazioni che pervadono il campo della produzione che danno luogo a quella che ormai con frase solita e detta “lotta fra capitale e lavoro”».
Quindi: «Ora certo anche per gli industriali l’abbandono dei movimenti ciechi ed impulsivi, la negazione dei metodi puramente distruttivi e anarchici, non può non rappresentare un vantaggio nel regolare sviluppo della produzione economica (...) Ma se ciò è in tesi generale, non crediamo che il riformismo confederale e il neomarxismo operaio siano meno temibili e pericolosi per la classe industriale». Si noti, d’inciso, come già all’inizio del secolo scorso il marxismo, dato per morto dai borghesi, stesse, nel giudizio degli stessi borghesi, resuscitando all’interno del movimento operaio.
Continua: «Perché non v’è da illudersi: la lotta non cesserà, anche se restassero fermi assolutamente e definitivamente per l’avvenire i criteri fondamentali che prevalsero a Modena; cambierà di forme e di metodi, ma rimarrà (...) Ora tutto questo deve essere profondamente fissato nella mente della classe industriale oggi; mentre dopo la vittoria del movimento economico sul partito politico, pare che sia resa più piana la via alla teoria della collaborazione di classe e quasi spezzata del tutto quella della lotta di classe. Se dal punto di vista dell’ordine pubblico e da quello speciale dei partiti liberali e democratici può parere un bene che le organizzazioni di resistenza abbiano ripudiato solennemente i metodi rivoluzionari e si siano liberati (...) dell’impronta socialista, se anche per l’industria stessa la tattica adottata dalla Confederazione, in quanto varrà a risparmiare ad essa moti inutili e anarchici, parrà migliore e meno dannosa, è bene che gli industriali sappiano che il movimento operaio non posa e non si arresta e che esso riorganizza le proprie file, si raccoglie, ricerca nuove vie; e che, dopo la calma, attraverso nuove forme l’attacco sarà più continuo, più forte, più terribile».
Commenta il Pepe: «Il punto centrale della strategia padronale veniva dunque individuato nel processo di costituzione di un’organizzazione degli industriali potente e con un programma organico. Inoltre, muovendo dall’irreversibilità del ruolo del sindacato, si puntava ad ottenere, per lo meno nella fase della ripresa, una sostanziale tregua dell’azione di classe sul piano economico, inserendola in un più vasto disegno di trasformazione istituzionale del sindacato, attraverso il suo riconoscimento giuridico e la regolamentazione delle sue strutture interne, in organo pubblico di mediazione e di contenimento della spinta delle masse lavoratrici, offrendo in cambio una collaborazione sul piano della legislazione sociale in funzione antistatale (...) Ora, mentre gli scioperi diminuivano per ragioni contingenti, il padronato, non potendo pensare di sradicare il sindacato dalla fabbrica e dai suoi legami con i lavoratori, pensava di istituzionalizzarne il ruolo di controllo sulla forza-lavoro e di mediatore ufficiale e riconosciuto in tutte le controversie e conflitti di lavoro, attraverso la riproposizione dell’antico progetto sul riconoscimento giuridico del sindacato (...) Nella relazione letta dal presidente della Lega Industriale il 23 aprile 1909 all’assemblea annuale dei soci venivano formulati con grande chiarezza gli obiettivi di fondo della classe industriale. Dopo aver ampiamente trattato della nuova struttura e della più complessa e articolata acquisizione di compiti e funzioni assunta dall’organizzazione operaia, e dopo aver ammonito a non sottovalutare la forza di questi organismi e l’ineluttabile necessità di rinnovati più aspri ed estesi conflitti del lavoro, dopo la parentesi attuale, essa riconosceva che “l’organizzazione operaia è uno dei principali fattori di cui bisogna tener conto nella vita sociale”». Il riformismo confederale, pur «se deve essere apprezzato come sintomo rassicurante di ravvedimento contro la mania dello sciopero per lo sciopero», non poteva interpretarsi «come rinunzia parziale o totale alle rivendicazioni proletarie».
La Lega industriale sosteneva quindi una insufficienza dell’azione mediatrice dello Stato e la conseguente necessità di una propria autonoma organizzazione di classe. «La Lega, scrive il Pepe, svolgerà non solo un’azione di resistenza e di coordinamento in caso di scioperi e di lotte contrattuali, ma anche tutta una serie di funzioni corrispondenti e contrarie a quelle predisposte dal sindacato, dalla serrata alla cassa d’indennità antisciopero, alla creazione di nuovi sindacati per spezzare il monopolio della manodopera, all’istituzione di uffici di collocamento padronali, fino alla lista nera e alla messa all’indice dell’organizzazione scioperata, per concludersi e riassumersi nell’esame attento dell’azione “dello Stato di fronte alla classe padronale”».
La posizione degli industriali di limitare la cosiddetta legislazione sociale era in genere osteggiata dalla Confederazione, ma l’accordo si realizzò sulla questione della Cassa Maternità. Al riguardo era stata approvata una legge dello Stato che stabiliva l’onere del sussidio di maternità a carico sia degli industriali sia delle operaie, senza intervento finanziario dello Stato. Gli industriali, tramite la F.I.P., protestarono per questo, chiedendo l’intervento finanziario dello Stato, appoggiati in ciò dalla C.G.d.L. Ci fu quindi un accordo tra il C.E. confederale e i dirigenti F.I.P che produsse un Memoriale “Sul disegno di legge per la Cassa di maternità”.
Commenta il Pepe: «L’importanza e la novità di questo Memoriale nelle relazioni industriali e sociali erano poi messe in rilievo dal Bollettino padronale. Questo, commentando l’accordo, ne traeva motivo di conferma per quell’impostazione industriale volta a ottenere l’assenso sindacale e la collaborazione di classe sulle materie legislative, in funzione antistatale e in nome dei comuni interessi della produzione, contribuendo altresì a rafforzare il ruolo stabilizzatore, pacificatore e mediatorio del sindacato, e facendo di questo Memoriale un po’ il vessillo della nuova fase dei rapporti di classe e il simbolo della tregua sindacale del 1909».
Leggiamo dal memoriale: «Il fatto che su una questione di legislazione
sociale, dall’organizzazione industriale e operaia si sia trovato un
terreno d’azione comune, si verifica per la prima volta in Italia ed
assume un’importanza che trascende il caso specifico per involgere tutto
il campo della legislazione sociale. Poiché, quando le due parti, rappresentate
sino a pochi anni or sono come inevitabili antagonisti, trovano il terreno
dell’accordo nel formulare una domanda e nel chiedere una riforma, dimostrando
nella pratica, meglio e più di qualunque teoria astratta, che capitale
e lavoro possono bene, nella loro unione più intima, nell’aiuto reciproco,
nella comprensione esatta e spassionata delle rispettive posizioni, avere
il modo di sostituire al concetto della lotta quello della collaborazione
di classe. Ma il Memoriale (...) rappresenta anche qualcos’altro: esso
contiene l’affermazione chiara ed esplicita che industriali e operai
vogliono che, se lo Stato intende porsi sulla via della legislazione sociale
ed instituire anche presso di noi un sistema di assicurazioni sociali,
esso non possa puramente e semplicemente limitarsi a comandare, ma debba
anche fare».
Indirizzo conciliatorio della C.G.d.L.
Una concezione che troviamo fin dall’inizio nella C.G.d.L. è quella per cui il sindacato deve farsi carico dell’economia nazionale, “dell’azienda Italia”, come dicono gli odierni collaborazionisti di classe. Secondo la Confederazione i proletari avevano interesse allo sviluppo produttivo, e soprattutto a quello industriale.
Tale posizione è così descritta dal Pepe: «Una immotivata piattaforma rivendicativa apparentemente favorevole agli interessi dei lavoratori, poteva in breve tempo tradursi in una vera crisi industriale i cui effetti più dannosi sarebbero ricaduti sui lavoratori. La strategia sindacale perciò non poteva disinteressarsi delle legittime ed oggettive esigenze della produzione, e doveva pertanto parzialmente subordinare a queste anche le ragioni della parificazione economica e normativa della classe. Essendo i livelli di maturazione tecnica e produttiva assai diversi fra loro, ed essendo altresì distanti i gradi di concentrazione del processo di produzione e dell’organizzazione del lavoro, le Federazioni non dovevano opporsi drasticamente all’introduzione di retribuzioni volte ad intensificare lo sfruttamento e il rendimento operaio e ad approfondire le divergenze dei saggi salariali non solo tra le varie categorie, ma anche all’interno di ciascuna di esse tra i vari tipi di impiego della forza-lavoro, perché tutto questo era indispensabile per mantenere elevati i tassi di incremento della produzione industriale. Fungere da mediatori tra le pressioni della direzione aziendale e le resistenze della massa operaia, finiva per essere il ruolo del sindacato, in quanto era il solo ruolo che garantiva un rafforzamento del suo potere istituzionale sia verso i padroni (ai quali in cambio del consenso degli operai si chiedeva il monopolio della forza-lavoro o il diritto di discutere le norme del regolamento), sia verso alcuni strati di lavoratori (ai quali si offrivano migliori condizioni di salario e una certa protezione giuridica in cambio dell’appoggio, del sostegno e della delega al sindacato delle loro richieste e dei loro movimenti)».
Ciò risulta evidente anche per la questione del cottimo, a proposito del quale dice ancora il Pepe: «La questione del cottimo era una delle più delicate e controverse per le ripercussioni che aveva sui livelli di occupazione e sui poteri del sindacato su questa materia. Era insomma una di quelle questioni che coinvolgevano il ruolo sindacale sia dentro che fuori la fabbrica. La risposta data dai sindacati era perciò significativa di tutta un’impostazione. La premessa da cui muovevano le Federazioni ed anche la Confederazione consisteva nella constatazione che la dinamica salariale veniva influenzata, oltre che dai rapporti diretti fra padroni e sindacati, dall’involuzione e dall’andamento più o meno favorevole della produzione e del commercio».
Il Verzi, segretario della Federazione Metallurgica, nel suo scritto del 1907, “I metallurgici d’Italia nel loro sindacato”, espone chiaramente i criteri di condotta dei riformisti nel campo sindacale. Della produzione e del commercio dice il Verzi che «sfuggono alla sorveglianza delle organizzazioni ed assumono dei cambiamenti che non troppo facilmente si avvertono. L’organizzazione tende perciò a stabilire norme tali che rendano immutabili o meno variabili nel campo della produzione le conquiste economiche ottenute».
Riguardo al cottimo dice il Verzi che «rappresentava per la borghesia industriale il miglior mezzo di rivalsa, poiché spinge la classe lavoratrice a dare il massimo della produzione rispetto a un determinato tempo per il minimo compenso, alimenta gli egoismi individuali ed elude più facilmente ogni controllo indiretto dell’organizzazione (...) Col cottimo il capitalista si fa un giusto concetto della capacità media del lavoratore e stabilisce il salario a tempo (a ore o a giornate) in condizioni più gravose. Egli sa che dopo una giornata di lavoro i suoi operai debbono produrre quella determinata quantità di merci e inferocisce contro ogni attenuazione dell’intensità di lavoro. Il cottimo costringe così presto o tardi il lavoratore ad un lavoro penoso ed esiziale. Se l’operaio non possiede la capacità media di esecuzione, se nella sua giornata non può produrre il minimo stabilito subisce un danno finanziario o viene congedato».
Fino a qui possiamo essere d’accordo con il Verzi. Ma torniamo al Pepe: «Se l’analisi delle implicazioni del cottimo era esatta e valida, non per questo però il sindacato rispondeva con un’opposizione e un rifiuto categorico, giacché il sistema del lavoro a cottimo rappresentava comunque un vantaggio per la produzione industriale e un beneficio salariale per i lavoratori, che non vi potevano facilmente rinunciare dato il basso livello delle mercedi. Così la Confederazione elaborava una posizione su questa delicata questione, che mirava a salvaguardare entrambe queste esigenze, ripromettendosi un accrescimento dei suoi poteri sugli operai e di contrattazione verso la direzione aziendale, attraverso un disciplina e un diretto controllo della determinazione di esso».
Ancora il Verzi: «Il rimedio è in gran parte trovato. L’organizzazione, abbandonando il vecchio e semplicistico concetto dell’abolizione del cottimo, valendosi come per le ore straordinarie dell’egoismo delle masse, tende a disciplinarne le funzioni per sottrarle alla diretta ingerenza dello sfruttamento capitalistico. Oggi, a differenza del passato, ne invoca e ne esige l’applicazione estesa a tutti gli operai della fabbrica con dei sistemi che abbiano questi scopi principali: 1) Il lavoro a cottimo deve rappresentare in ogni caso un guadagno maggiore della paga percepita dall’operaio; 2) Nel lavoro a cottimo si deve fissare alla classe lavoratrice un termine di guadagno che limitando i suoi sforzi produttivi, tolga al capitalista la possibilità di impiegare per la identica produzione un numero sempre inferiore di operai; 3) Il prezzo dei lavori a cottimo sino a quando non si manifestano sostanziali trasformazioni meccaniche deve essere fissato e mantenuto con la maggiore costanza possibile; 4) Il cottimo per determinate produzioni e per quanto è possibile deve essere sottratto alla contrattazione individuale, fissando i prezzi sul quantitativo del prodotto in modo che questi rimangano invariati per qualunque categoria di lavoratori che il capitalismo voglia assumere alla produzione».
Commenta il Pepe: «Questi erano i principi che guidavano le federazioni, e cioè la sostituzione al cottimo individuale di quello collettivo, che presentava il vantaggio tecnico di venire controllato in modo regolare dai sindacati. E il 3° Congresso Nazionale dei Metallurgici, che si era svolto dal 5 al 12 ottobre 1907, aveva approvato un o.d.g. Mecali-Farini sul cottimo collettivo, il quale, dopo aver deplorato il peggioramento delle condizioni di lavoro arrecato da questo sistema, deliberava di indirizzare la propaganda affinché alla forma del lavoro a cottimo individuale venga sostituito quello collettivo. Questo favoriva grandemente il potere contrattuale e disciplinare delle Federazioni».
La questione del salario è affrontata alla stessa maniera. «Il sindacato poneva con la sua azione in correlazione equilibrata lo sviluppo economico e la dinamica salariale, ristabilendo giuste condizioni di mercato e di contrattazione per la forza-lavoro».
Per i riformisti l’aumento di salario era dovuto all’evoluzione industriale, su cui interveniva l’azione del sindacato, e alla richiesta di mano d’opera specializzata, che riusciva ad ottenere ulteriori aumenti collegandosi all’aumento della produttività aziendale. Leggiamo: «La condizione di fondo perché venissero garantiti questi margini reali di aumento, non risiedeva più solo nella presenza del sindacato come controparte in fabbrica, ma nella sua capacità di controllo e di disciplina del mercato e della formazione e qualificazione della mano d’opera, nonché di regolatore dell’apprendistato e del lavoro femminile».
Per il Verzi, «la media del costo della mano d’opera, a misura che la produzione s’intensifica, grava sempre meno sui prodotti e può permettere così al capitalismo di aumentare la mercedi degli operai in genere, senza una diminuzione eccessiva dei suoi profitti. Anche in questi anni il sensibilissimo aumento verificatosi fra gli operai specializzati dell’industria metallurgica, più che all’azione esercitata dall’organizzazione, si deve attribuire alla sempre maggiore richiesta di mano d’opera per l’immediato sviluppo industriale, ed alle numerose correnti migratorie». Prosegue: «Il salario non aumenta per conquista diretta dell’organizzazione di mestiere, ma viene determinato gradualmente dalle diverse condizione del mercato e su questo soltanto la resistenza operaia ha la possibilità di influire ed imporre col giuoco dei fattori economici i cambiamenti ad essa necessari».
Continua il Pepe: «Le Federazioni accettavano l’alternativa padronale volta a giustapporre alla concessione di forti aumenti salariali per ristrette categorie di operai specializzati indispensabili, il mantenimento di un’estesa sacca di disoccupazione, che garantiva loro sia di regolare questi aumenti in modo tale da non superare certi limiti, sia di premere perché le richieste e i livelli salariali delle masse operaie rimanessero stazionari. Le Federazioni così tendevano a svolgere un ruolo di mediazione che indubbiamente rafforzava le loro posizioni, ma comportava una posizione subalterna pericolosa».
La questione delle ore straordinarie era affrontata alla stessa maniera del cottimo. Il Pepe: «Non potendosi rifiutare l’orario straordinario di lavoro, pur essendo consapevole delle gravi ripercussioni che aveva sulle condizioni fisiche, psicologiche e sui rapporti con gli altri operai, il sindacato era favorevole ad una retribuzione maggiorata e ad una generalizzazione del fenomeno, così da provocare un costo complessivo talmente oneroso per l’industria da rendere sconveniente il ricorso ad esso». Ancora: «La tendenza ad accettare, seppure obtorto collo, questi incentivi padronali per la intensificazione del lavoro, deriva dall’adesione di principio delle Federazioni al concetto di crescente sviluppo produttivo e della sua intrinseca ed oggettiva positività per i lavoratori; ed era un venire incontro alle esigenze della borghesia più avanzata dei settori di punta, che trovava nel sindacato il migliore e più valido tramite delle proprie necessità di produzione dietro un compenso salariale che non intaccava minimamente gli altissimi profitti realizzati, mentre aggravava ulteriormente la distanza tra le diverse categorie, e tra la massa operaia nel suo complesso e il sindacato stesso».
Riguardo alla riduzione dell’orario di lavoro torniamo al Verzi: «La riduzione della giornata di lavoro, non tende alla limitazione dell’uso delle macchine o della trasformazione del sistema di lavoro, principio assolutamente dannoso all’industria, alla collettività e al proletariato stesso. Sforzo diretto ad ottenere dalle macchine la maggiore rendita possibile impiegando con orari sempre minori il maggior numero possibile di operai. Così la macchina con la riduzione della giornata di lavoro diventa veramente un sollievo ed un fattore di progresso per la classe lavoratrice».
Il Pepe: «La funzione di collaborazione era evidente, dal momento che era interesse comune del padrone e del sindacato sia di stabilire i turni e le loro modalità vantaggiosamente per la prosecuzione del ritmo della produzione, sia di delegare al sindacato il compito di fungere da organizzatore e da tramite nei confronti dei lavoratori su queste questioni tecniche. Il ruolo delle Federazioni veniva a perdere i connotati tipici dell’organizzazione di classe per assumere quelli più sfumati, ambigui ed in apparenza dotati di maggior potere, della compartecipazione alla gestione e alla vita produttiva dell’azienda».
Naturalmente diversi termini usati dal Pepe si prestano ad ambiguità: espressioni come “lavoratori” o “masse operaie” sono indifferenziati da un punto di vista di classe. Noi parliamo di proletari e di proletariato. Dietro quei termini immediati si può celare una concezione di alleanza tra i produttori analoga a quella dei riformisti, anche se talvolta appare più radicale, come sarà, poi e successivamente, in quelle di derivazione fascista, staliniana, maoista, ecc.
Questi testi, come quelli dei dirigenti riformisti, ci aiutano a renderci
conto che il concetto di sindacato patriottico, che si fa carico degli
interessi dell’economia nazionale, non riguarda solo l’oggi o il passato
recente ma era presente nella C.G.d.L. fin dalla sua nascita.
I primi anni della F.I.O.M.
La Federazione Italiana degli Operai Metalmeccanici fu fondata nel 1901 e il suo segretario Ernesto Verzi, come abbiamo detto, fu tra i promotori della costituzione della CGIL.
La F.I.O.M., che per diversi anni ebbe uno scarso seguito tra i metalmeccanici, venne saldamente diretta dai riformisti fin dall’inizio.
Scrive Giuseppe Berta su “Sindacato e classe operaia nell’età della seconda Internazionale”, un testo della collana titolata “Biblioteca dell’Istituto Socialista di Studi Storici”: «La regolazione del mercato del lavoro al sindacato, la gestione della fabbrica all’imprenditore: da un esame sommario del dibattito sindacale del primo scorcio del novecento, potrebbe essere questa la conclusione più scontata a cui giungere. Sulla scorta di una netta distinzione della situazione di mercato dalla situazione di lavoro degli operai, la F.I.O.M. si sarebbe risolta senza incertezza ad agire soltanto nella sfera dello scambio, riconoscendo all’imprenditore la prerogativa di responsabile dell’organizzazione produttiva». Ben diversa la realtà dei fatti, dice l’autore, anche se a noi non risulta: «La richiesta del monopolio della forza-lavoro celava una ferma istanza dell’organizzazione sindacale a divenire corresponsabile delle norme della disciplina industriale e della loro applicazione. Se al sindacato toccava di regolare l’offerta di lavoro, ciò voleva dire che gli veniva delegato l’intero processo di formazione della forza-lavoro».
Diceva il Coccia, segretario della F.I.O.M. dopo il Verzi, che «l’organizzazione era responsabile del buon andamento della fabbrica», e quindi doveva avere «la possibilità di esercitare la debita vigilanza su ogni singolo operaio». Aggiunge il Berta, e noi siamo d’accordo con lui: «Così il sindacato sarebbe divenuto il garante di ogni lavoratore (...) Giacché il monopolio della manodopera era la chiave di volta dell’azione sindacale, la F.I.O.M. non arretra di certo di fronte all’impiego della “coercizione contro i disorganizzati”», per adoperare la parole di D’Aragona, «raccomandando come un criterio sano agli iscritti il rifiuto di lavorare a fianco dei non organizzati».
«Non c’è dubbio che il richiamo al duplice compito dell’organizzazione – garante dell’interesse operaio da una parte, e della disciplina industriale dall’altra – non era affatto strumentale». Anche qui lo storico riformista ha più ragione di quanto crede. «Il sindacato si arrogava le funzioni del collocamento tutelando al contempo prezzo e qualità professionale della forza-lavoro. Proponeva il modello di una fabbrica organizzata a partire dalla pratica operaia delle condizioni di lavoro, in cui tutto quello che rimaneva all’imprenditore nel processo produttivo era una mansione di supervisione complessiva». «La petizione di principio a favore dello sviluppo industriale si traduceva poi necessariamente in un orientamento produttivistico della F.I.O.M. che la rendeva molto attenta a scartare a priori ogni occasione tale da esporla al pericolo di essere accusata di ambiguità. L’assetto del ciclo produttivo in quanto tale non era quindi in discussione».
Quando arrivò la guerra, il coinvolgimento attivo del sindacato nella macchina amministrativa a cui era affidata la supervisione della produzione bellica giocava certo nel senso di aumentare l’interesse della F.I.O.M. per i problemi della gestione industriale, concorrendo a potenziare e sostanziare di nuovi contenuti l’industrialismo operaio di cui si era fatta portatrice.
Fin dal marzo 1917 Buozzi, segretario della F.I.O.M., si pronunciava per «un più sano industrialismo» che correggesse i troppi elementi di debolezza causati dalla «scarsa coscienza industriale italiana». Sostenendo che il nodo del dopoguerra sarebbe consistito essenzialmente in «un problema di organizzazione industriale», il segretario della F.I.O.M. voleva mettere in guardia i fautori di una rinnovata stagione di protezionismo italiano, per indicare invece la via di una modernizzazione produttiva che le contingenze della produzione bellica, con la soppressione della libera concorrenza, avevano rimandato. È superfluo ricordare che mentre Buozzi e gli altri traditori della classe dicevano queste cose il proletariato veniva mandato al macello nelle trincee e negli assalti alla baionetta.
Ancora il Berta: «La risoluta volontà di partecipazione a tutte le commissioni consultive dello Stato (...) portava ad un ampliamento della linea della F.I.O.M.; fermamente contraria da ogni schema di partecipazione operaia agli utili di impresa, essa si schierava a favore di una sorta di cogestione dell’innovazione industriale. Se nel campo della distribuzione era da condannare ogni intervento dall’alto che mirasse a limitare il libero gioco conflittuale dei soggetti sociali, nel campo dell’organizzazione lavoratori e imprenditori potevano collaborare nell’interesse comune del progresso del sistema industriale italiano. Buozzi dichiarava in proposito con la consueta chiarezza: “Io comprendo e spiego e giustifico gli scioperi e le serrate più aspre, e penso del pari che la lotta di classe e gli scioperi e le serrate non possano impedire la piena e più cordiale collaborazione nel campo tecnico della produzione. Quel qualunque concordato che segna la fine di un conflitto tra capitale e lavoro, segna sostanzialmente una tregua. Se la tregua è leale, nell’interno dell’officina la stessa discussione sull’applicazione del concordato si risolve in una collaborazione. In Italia ciò non avviene ancora su larga scala perché manca, più negli industriali che negli operai, una coscienza precisa del valore dei concordati”». Gli odierni bonzi sindacali preferiscono dire, cambiando di poco le parole, che manca la cultura della concertazione.
Tornando a Buozzi: «una scarsa coscienza dei patti di lavoro e la mancanza di organismi atti a dirimere le inevitabili controversie ostacolavano quella collaborazione tecnica nel campo del lavoro che tanto avrebbe potuto avvantaggiare la produzione».
Scrive il Berta: «Questa partecipazione al processo produttivo era un risultato che l’organizzazione di classe rivendicava al proprio impegno, poiché il suo preciso compito era di rinobilitare il lavoro facendo sorgere nel proletariato una mentalità tale da renderlo capace di comprendere tutta la grandezza dell’opera di rinnovazione che era chiamato a compiere (...) Quali contenuti racchiudeva la cornice dell’industrialismo operaio? Anzitutto il produttivismo, che non era in nessun modo un produttivismo alternativo, non prefigurava cioè un modello operaio autosufficiente di gestione della fabbrica e dello sviluppo delle forze produttive (...) Non di meno sarebbe arbitrario negare i nessi di parentela tra il produttivismo sindacale e il produttivismo della successiva tradizione ordinovista e gramsciana. La costante enfasi posta sulla funzione titanica delle forze di produttive nella trasformazione della società, il richiamo alle insufficienze e ai ritardi dell’imprenditorialità italiana, l’insistenza sul fondamento economico-produttivo del conflitto di classe e, ovviamente, il lavoro come ideologia, sono caratteristiche comuni ad entrambi e troppe note perché si debbano spendere su di esse altre parole».
Sono quindi «due tradizioni politico-culturali più intensamente condizionate l’una dall’altra di quanto siano state disposte ad ammettere». Tutta la storia della F.I.O.M., dalla fondazione al fascismo, è segnata dal gradualismo e dal pragmatismo. Gli organizzatori della F.I.O.M. «non misero mai in dubbio che il fine reale del sindacato fosse il contratto».
L’esposizione dello storico riformista, abbastanza pesante e pedante, è tuttavia qui interessante nel mostrare il collaborazionismo di classe della F.I.O.M. fin dal suo sorgere, e nella affermazione della affinità tra la concezione riformista e quella ordinovista dei consigli.
Tra i due documenti che qui ripubblichiamo, l’intervento di Andrea Costa alla Camera e l’opuscolo antimilitarista “Il Soldo al Soldato”, cronologicamente, ci corre poco più di un quarto di secolo; da un punto di vista dottrinale sembra invece correrci molto di più. L’intervento di Andrea Costa non è rivolto direttamente alla classe operaia e non si prefigge la finalità rivoluzionaria.
Tuttavia noi lo inquadriamo a pieno titolo nella tradizione dell’antimilitarismo proletario italiano perché ne rappresenta una delle sue prime espressioni. Non fosse altro ci autorizza ad affermare che il movimento operaio, il socialismo, nasce, anche in Italia, antimilitarista e proclama netta dissociazione dai progetti di grandezza e di gloria della borghesia rifiutandosi di concederle “né un uomo, né un soldo”.
All’epoca il “socialismo” italiano non aveva ancora preso una precisa fisionomia: anche da un punto di vista formale aveva ancora da strutturarsi, il partito nascerà cinque anni dopo, e, a fianco, ed anche all’interno della nebulosa rivoluzionaria permanevano ideologie spurie, imbevute dei miti e delle idealità risorgimentali. E scorie della ideologia borghese sono presenti e ben individuabili nelle prese di posizione del Costa.
Ma, anche se tra affermazioni che potrebbero apparire patriottiche, troviamo espresso in modo chiaro il concetto che separa gli interessi del proletariato da quelli della borghesia italiana e questo concetto è appunto sintetizzato magnificamente nella formula: “Né un uomo, né un soldo” per la guerra. Fossero i Bertinotti, i Diliberto d’oggi al livello di Andrea Costa!!! Se il vecchio agitatore di Imola dovesse tornare oggi sentirebbe la sinistra e l’estrema sinistra democratica rumoreggiare alla proprie nette affermazioni; proprio come nel 1887.
Da parte sua la borghesia italica era ben consapevole che, al di là delle parole con cui i concetti venivano espressi, Andrea Costa ed il socialismo rappresentavano il nemico di classe, ragion per cui tentò con ogni mezzo, dalla galera alle onorificenze, di piegarne lo spirito indomito, ma senza riuscirvi; proprio come sta scritto in una lapide, ormai quasi illeggibile, a Città di Castello: «Dai rossi albori della Internazionale - Al profondere vittorioso della forza proletaria - Né persecuzioni né onori piegarono la fiera anima di ANDREA COSTA - Delle idealità socialiste del diritto operaio assertore apostolo - Nelle piazze nel carcere nel Parlamento - Nel nome di lui - Simbolo di nobilissima fede - Il gruppo tifernate internazionalista - Disperso nelle terre d’esilio da violenta raffica - Ricordano onorano. I socialisti, 16 luglio 1911».
Il 25 gennaio 1887 Ras Alula attaccò il distaccamento italiano comandato
dal maggiore Boretti che si era trincerato a Saati (a 28 chilometri da
Massaua) in un fortino in rovina. L’attacco fu respinto ma il comandante,
rimasto senza viveri e munizioni, chiese rinforzi. A tale scopo da Moncullo
partì una colonna di cinquecento uomini al comando del tenente colonnello
De Cristoforis, la quale, attaccata a Dogali dagli abissini, fu distrutta.
Nell’apprendere l’accaduto il Governo Depretis, su sollecitazione del
ministro della guerra Ricotti, decise di inviare rinforzi sul Mar Rosso.
A tale scopo presentò un disegno di legge che autorizzava la spesa di
cinque milioni. Durante il dibattito, presieduto dall’ onorevole Biancheri,
che si svolse sugli avvenimenti, Spaventa e Di Rudinì chiesero la chiusura
della discussione generale. Alla proposta si oppose il deputato romagnolo.
COSTA - Mi pare che dopo che due o tre soli oratori hanno preso a parlare in una questione così grave come questa, non si possa decentemente proporre la chiusura. (Rumori - Agitazione vivissima).
PRESIDENTE - Facciano silenzio!
COSTA - Mi oppongo alla chiusura per ragioni di convenienza, di decenza... (Esclamazioni - Rumori - Agitazione - L’onorevole Costa pronunzia altre parole che non si sentono)...In una questione così grave come questa, che concerne le vite di tanti figli d’Italia, fratelli nostri caduti in Africa, il chiedere la chiusura è vergognoso... (Rumori).
PRESIDENTE - Ma, onorevole Costa...
COSTA - Sono dolente che si domandi la chiusura, ma, alla fin dei conti...
PRESIDENTE - Onorevole Costa, ella ha sempre il diritto di svolgere il suo ordine del giorno.
COSTA -... non è per me che parlo, onorevole Presidente; perché
avendo presentato un ordine del giorno, il diritto di parlare mi è riserbato.
Ma parlo per tanti altri colleghi che hanno diritto quanto me di esporre
la loro opinione. È questione di decenza, ripeto; e me ne appello a quel
patriottismo che tanto si invoca da quelle parti là... (Rumori).
Approvata la chiusura della discussione, Andrea Costa svolse il suo
ordine del giorno per il ritiro delle truppe dall’Africa:
PRESIDENTE - Viene ora l’ordine del giorno dell’onorevole Costa, così concepito: «La Camera, convinta che la politica coloniale del Governo, incostituzionale nei suoi primordi, è divenuta oggidì disastrosa e per le vite che ha costato e per l’erario; che non si saprebbe concepire per quali ragioni si debba perseverare in un’impresa i cui obbiettivi sino ad ora sono ignoti, e che non fruttò che danni e dolori; e ciò in momenti in cui l’Italia ha bisogno di convergere tutte le sue forze al suo sviluppo economico e morale ed al miglioramento delle condizioni delle classi lavoratrici di città e di campagna; che il prestigio militare e l’onore della bandiera sono i soliti pretesti con cui tutti i governi cercano di far passare le loro imprese avventurose; deplorando i poveri e forti figli d’Italia, caduti lontani dalla famiglia e dalla patria per una causa che non è la loro, come non è quella della vera civiltà; invita il Governo a richiamare dall’Africa nel più breve tempo e nel miglior modo possibile le truppe italiane colà rimaste».
PRESIDENTE - Domando se quest’ordine del giorno dell’onorevole Costa sia appoggiato. (È appoggiato).
PRESIDENTE - Essendo appoggiato, l’onorevole Costa ha facoltà di svolgerlo.
COSTA - Signori! Poche e franche parole, non perché manchino gli argomenti, ma perché tengo anch’io conto delle condizioni della Camera. e capisco che in questi momenti ognuno di noi deve sforzarsi più che possa di esser breve.
Fin da quando nel maggio del 1885 si discusse la politica coloniale del Governo (dico del Governo, perché fu incominciata e continuata all’insaputa del Parlamento, ed il Parlamento non fu chiamato se non a mettere la sabbia su ciò che si era fatto), fin d’allora, io ed alcuni amici, riconoscendo che l’Italia, l’Italia vera, l’Italia che lavora e che produce, lungi dal desiderare una politica coloniale, voleva invece rivolte tutte le sue attività al suo miglioramento agricolo ed industriale, al suo progresso morale e politico; fin da allora, dico, noi presentammo un ordine del giorno in cui, opponendoci a tutte le velleità di spedizioni africane, che ci hanno dato i bei frutti che ora vediamo, proponevamo il richiamo delle truppe nostre dall’Africa.
Ora, di fronte all’avvenimento doloroso di cui diede un pallido cenno due giorni fa l’onorevole Presidente del Consiglio, e per cui il cuor nostro sanguina come il vostro, di fronte a questo doloroso avvenimento, il nostro grido è lo stesso di due anni fa. Noi vi diciamo oggi, come allora: cessate da queste imprese pazze o criminose; richiamate le nostre truppe dall’Africa. E non ci lasciamo impressionare dalle frasi altisonanti di onore della bandiera, di prestigio militare, o che so io: tutta questa roba qui (Oh! Oh!) è di quella che si adopera sempre per far passare la merce molte volte avariata. (Rumori a destra – Sì, sì all’estrema sinistra).
Io non ho bisogno infatti di insegnarvi la storia; voi la sapete quanto me e più di me e sapete quante volte questi argomenti siano stati adoperati per fini più o meno ignobili.
La patria? Ma dove la vediamo noi nelle imprese africane? E la bandiera? La bandiera della patria la vedo sui campi di battaglia per la libertà e per l’indipendenza, la vedo nelle imprese civili che fanno risalire sempre più la nazione verso le altezze dell’ideale; non la vedo, non la posso vedere nell’impresa africana.
E l’onore della bandiera? Non è da questa parte che si deve render conto dell’onore della bandiera e del prestigio militare, ma dalla parte di coloro che siedono al Governo o che il Governo sostennero e sostengono; e davvero mal si invoca l’onore della bandiera quando, incominciando da Lissa e Custoza, questo onore è stato trascinato nel fango sino a Saati. (Vive proteste a sinistra, al centro e a destra).
PRESIDENTE - (Con forza). Onorevole Costa, io non posso tollerare simile affermazione; se la nostra bandiera è stata qualche volta sfortunata è stata però sempre onorata. (Vivi applausi da tutte le parti della Camera). Ascolti la voce del patriottismo, onorevole Costa! (Bene!).
COSTA - È appunto per patriottismo ben inteso che io parlo, giacché non credo che sia patriottico il perseverare nell’impresa d’Africa. (Vive proteste a destra).
PRESIDENTE - Onorevole Costa, ella può esprimere la sua opinione, ma non offendere i sentimenti degli altri.
COSTA - Credo che quei signori non abbiano il diritto di pretendere che io abbia sentimenti diversi da quelli che ho. (Rumori a destra). Noi siamo altrettanto patrioti quanto loro... (Voci a destra: No! No! - Voci a sinistra. Sì! Sì!).
COSTA -... e patrioti nel vero senso della parola. Giacché è appunto perché amiamo il nostro paese (Denegazioni a destra) che non lo vogliamo vedere impegnato in imprese pazze o criminose (Vive proteste a destra ed al centro) dove, a quel che dite voi stessi, si può perdere anche l’onore...
PRESIDENTE - Ella, onorevole Costa, può dire imprese avventurose non mai criminose. Del resto il patriottismo non è il monopolio di nessuno, ed io non dubito che esso sia sentimento comune a tutta la Camera. (Approvazioni).
COSTA - Onorevole Presidente, se quei signori avessero verso di me la stessa tolleranza che io ho verso di loro, creda bene che non si verificherebbe ciò ch’ella deplora... (Rumori).
PRESIDENTE - Continui, onorevole Costa, continui il suo discorso.
COSTA - Risponderò ad un’altra obiezione che mi si fa, e che è la più grave inquantoché non viene solamente da quei banchi ma viene altresì dai banchi dell’opposizione e purtroppo, mi duole il notarlo, anche da alcuni miei amici dell’estrema sinistra.
Si dice: infine in Africa ci siamo e bisogna restarci. Noi non possiamo, dopo una sconfitta, andarcene via con le pive nel sacco! Ora, signori miei, io capirei questo ragionamento, quando uno qualunque di voi potesse venirmi a dire che quando avremo accordato questi cinque milioni e mandato nuovi soldati in Africa, saremo sicuri di vendicare l’onore d’Italia e di ritornare gloriosi e trionfanti.
Ma io vi domando, o signori che sedete al banco dei ministri, a voi onorevole Genala, che sbagliate di un miliardo (Commenti), a voi onorevole Di Robilant che confondete quattro predoni con un esercito agguerrito, potete darci voi questa sicurezza che quando avremo votato i cinque milioni, saprete rivendicate l’onore d’Italia? (Bene! All’estrema sinistra). No, o signori, voi non mi potete dare questa sicurezza: ed io alla mia volta, non vi darò un centesimo! (Rumori e risa ironiche).
Si, lo capisco, siamo pochi noi quassù; il nostro ordine del giorno è firmato da quattro soli, lo capisco; ma siate certi, signori miei, che molto probabilmente, per non dirvi sicuramente, il nostro ordine del giorno avrà maggiore eco nel paese che le vostre pazzie africane, e tutte le vostre frasi di patriottismo. (Oh! Oh! - Vivi rumori a destra).
PRESIDENTE - Onorevole Costa, ella non deve chiamare frasi le manifestazioni di un sentimento che è nell’animo di tutti i suoi colleghi. (Bene!).
COSTA - Ho finito. Il nostro ordine del giorno è tanto chiaro, che non credo abbia bisogno di ulteriore svolgimento. Noi siamo convinti che esso corrisponda ai sentimenti della grande maggioranza del popolo italiano che lavora e produce, e che vi dà, alla fine, e gli uomini e il denaro... (Voce al centro. Lo rappresentiamo tutti!).
COSTA - E, conchiudendo, mi riferirò ad una frase pronunciata
ieri l’altro dall’onorevole Baccarini, il quale in questo ordine d’idee
è molto dissenziente da me. Egli disse che l’impresa africana è una
impresa non nobile; or bene, noi francamente, per una impresa non nobile,
non ci sentiamo di dare né un uomo, né un soldo. Richiamate le milizie
dall’Africa (Rumori) e vi apriremo tutti i crediti che chiederete,
ma per continuare nelle pazzie africane, noi non vi daremo, ripeto, né
un uomo, né un soldo.
Nella medesima seduta, prendendo la parola per fatto personale, il
deputato romagnolo, rispondendo all’onorevole Cavallotti che aveva espresso
il dubbio che Costa e i suoi compagni, chiedendo il ritiro delle truppe
italiane dall’Africa, avessero dimenticato l’onore d’Italia, affermò
che l’onore delle armi non era l’onore del popolo.
COSTA - L’onorevole Cavallotti, perché io ed alcuni colleghi miei abbiamo proposto e sostenuto il richiamo delle truppe dall’Africa, ha detto, o almeno ha espresso il dubbio, che io ed i miei colleghi potessimo aver dimenticato l’onore d’Italia.
Non ho che una cosa da rispondere all’onorevole Cavallotti, certo altresì d’interpretare i sentimenti dei miei colleghi; ed è che io non posso considerare responsabile il popolo italiano degli errori che il Governo può avere ed ha commessi; e che se il così detto onore delle armi fu compromesso da voi, l’onore delle armi non è l’onore di un popolo. (Vivi rumori a destra ed al centro).
PRESIDENTE - Onorevole Costa, l’onore delle armi è inseparabile dall’onore della nazione; venga al suo fatto personale, onorevole Costa. (Vive approvazioni).
COSTA - L’ho già accennato. È stato espresso il dubbio che noi avessimo dimenticato l’onore d’Italia, ed io ripeto ed affermo che l’onore delle armi non è l’onore di un popolo... (Vivissimi rumori Voci. Basta, basta!).
PRESIDENTE - Onorevole Costa, io le tolgo la facoltà di parlare.
COSTA - Io la prego di permettermi di fare la mia dichiarazione; sarò brevissimo.
PRESIDENTE - Continui, ma non rientri nella discussione.
COSTA - Io credo che l’onore di un popolo consista nelle sue
industrie e nelle sue arti, nelle lotte che sostiene per la libertà, per
la giustizia e per l’emancipazione sua; e non consista già in quei macelli
stupidi ed infami che sono le guerre. Ecco perché credo che non abbiamo
dimenticato l’onore del popolo italiano e perché domandiamo che si richiamino
i nostri soldati dall’Africa. (Vivissimi rumori a destra e al centro
- Qualche applauso all’estrema sinistra).
Il dibattito, avendo assunto un carattere politico, in quanto vari deputati, tra i quali Fortis, Cairoli, Crispi, avevano fatto vivaci critiche al Ministero per il modo con il quale si era regolato sulla questione africana, si concluse, dopo l’intervento del Presidente del Consiglio, con un voto per appello nominale su di un ordine del giorno dell’onorevole Di Rudinì, a cui il Presidente Depretis dette carattere di sfiducia al Ministero. L’ordine del giorno fu respinto con 181 si e 215 no. Per alzata e seduta l’ordine del giorno Costa fu ugualmente respinto dall’Assemblea.
In una cosa Andrea Costa si sbagliava in modo clamoroso e cioè quando
insinuava che la politica coloniale governativa fosse stata fatta all’insaputa
e forse anche contro il parere del Parlamento; si sbagliava perché il
disegno di legge sul rifinanziamento dell’impresa d’Africa, sarebbe
stato approvato, a scrutinio segreto, nella seduta parlamentare del giorno
successivo, 4 febbraio 1887, con 317 voti favorevoli e 12 contrari. La
democrazia è sempre stata e sempre sarà guerrafondaia!
Della iniziativa denominata “Il Soldo al Soldato” abbiamo riferito nel corso dei rapporti sull’antimilitarismo tenuti durante le nostre riunioni generali, nel capitolo pubblicato nel numero scorso di questa rivista; quindi non è il caso di soffermarsi oltre nella presentazione del documento.
Gli eterni ricercatori del personaggio illustre hanno individuato
in un noto militante della Sinistra Comunista l’estensore del documento
ed hanno rilevato che, all’epoca, fosse carente in fatto di dottrina
marxista. Noi, che del nome anagrafico dell’estensore ce ne freghiamo
altamente, come non ci interessa conoscere a quanti anni il tal compagno
avrebbe preso la sua brava laurea in ortodossia marxista, ripubblichiamo
il documento per quello che fu l’obiettivo che l’iniziativa del Soldo
al Soldato si prefiggeva: impostare una campagna antimilitarista di classe
e proselitismo socialista proprio all’interno della stessa istituzione
militare. E, dai rapporti inviati dalle gerarchie militari al Ministero
della Guerra si deduce come in buona parte lo scopo fosse stato raggiunto.
Il decalogo del coscritto
l - Non sparare sui tuoi fratelli lavoratori.
2 - Non ti prestare a fare da krumiro.
3 - Non odiare né la patria tua, né quella degli altri. Ama la patria
dei lavoratori che è il mondo intero...
Il “Soldo al Soldato”
La sua costituzione e il suo scopo
Tra la gioventù operaia, nel Partito Socialista, nelle organizzazioni del proletariato, la nostra Federazione di giovani socialisti va svolgendo da tempo una viva campagna per la formazione di un nuovo organismo di propaganda e di agitazione che avrà il nome di “Soldo al Soldato”.
Questa istituzione funziona già in Francia, con ottimo esito, per mezzo della Confederazione Generale del Lavoro, fin dal 1900. Essa ha in massima lo scopo di «affermare i sentimenti di solidarietà operaia, per evitare ai giovani soldati le sofferenze dell’isolamento e l’influenza demoralizzatrice della caserma», stabilendo perciò che «i giovani lavoratori, chiamati al servizio militare, devono essere posti in relazione con i segretari delle Borse del lavoro della città dove siano di guarnigione».
Vedremo più avanti, ed in modo più dettagliato, quando avremo esposto la ragione e lo scopo della istituzione di cui parliamo, quale sia la sua costituzione ed il suo funzionamento. Ricordiamo ora che la nostra Federazione, mentre ha sempre invitato ed esortato caldamente le organizzazioni economiche ad iniziare e promuovere la costituzione del “Soldo al Soldato” per tutti i giovani operai organizzati, ha pure deciso, dopo l’ampia ed entusiastica discussione svoltasi nel nostro ultimo Congresso Giovanile Nazionale di Bologna, di affrontare anche l’applicazione concreta di questa nuova forma di propaganda, promuovendone l’istituzione per i propri soci, iscritti ai numerosi circoli giovanili socialisti e alle Federazioni regionali; stimando opportuno dopo la doverosa preparazione, di venire ad un primo esperimento pratico di azione e dare l’esempio alle altre organizzazioni.
Noi possiamo dunque annunziare che, nonostante l’ostilità spiegabilissima del governo borghese e le misure di precauzione delle autorità militari, il “Soldo al Soldato” diviene un fatto compiuto; e facciamo appello al buon volere di tutti i compagni giovani e adulti perché la nuova istituzione si sviluppi rapidamente e divenga florida e poderosa, perché essa sia presto nelle mani del proletariato un’arma efficacissima di lotta contro le ubbriacature patriottiche e le follie militaristiche volute dalla borghesia e dal governo.
Ed in queste pagine di propaganda intendiamo richiamare e riaffermare
i capisaldi del nostro pensiero antimilitarista, perché ci siano di guida
nel tracciare le linee dell’azione che si esplica nel “Soldo al Soldato”.
Diffondano i compagni i nobili principii della propaganda socialista contro
il militarismo, e parlino nelle adunanze, nei comizi, nelle conversazioni,
dell’efficacia del “Soldo al Soldato”. La nostra Federazione attende
da tutti, anche dai più umili, l’adempimento di questo dovere.
Socialismo e militarismo
La società nella quale viviamo, sotto l’apparenza della libertà e della giustizia per tutti, si basa sopra una continua e sistematica sopraffazione esercitata dai più forti sui più deboli. Questa sopraffazione si esplica a danno di coloro che debbono lavorare per vivere, e che non posseggono altro che le proprie braccia e la propria attività per soddisfare i bisogni dell’esistenza. A danno di questa immensa maggioranza una parte privilegiata dell’umanità, costituita dai ricchi, proprietari della terra, delle case, degli stabilimenti industriali, esercita un odioso sfruttamento accaparrandosi tutte le gioie della vita e privandone la grande massa lavoratrice.
Questo stato di cose, che gli amici del regime attuale, coloro che ne sono i beneficiati, chiamano col nome di civiltà e di ordine, altro non è che il risultato di una continua violenza esercitata dalla classe dei potenti contro l’elementare diritto che hanno tutti gli esseri umani alla vita e ad un’equa parte della felicità che essa può dare; questo stato di cose – contro il quale insorge il socialismo – porta le tracce ed ha i caratteri della violenza che lo ha instaurato nelle prime epoche storiche, e non ha fatto poi nel corso dei secoli che ingentilirsi nelle forme esteriori, serbando però nel fondo la sua essenza brutale. E come ogni sopraffazione si regge col mezzo del continuo impiego della forza bruta, anche il cosidetto “ordine attuale” si conserva e si appoggia sulla forza: e la forza di cui dispone la moderna borghesia, l’arma decisiva che è oggi a disposizione del capitalismo ingordo per soffocare le aspirazioni dei lavoratori ad una società più giusta, od anche ad un trattamento appena meno inumano dell’attuale, questa forza e quest’arma si chiamano colla parola maledetta: “militarismo”.
Il socialismo, che rappresenta appunto la irresistibile tendenza esistente nella classe operaia a sottrarsi all’odierno sfruttamento e a creare una nuova forma di vita sociale nella quale non vi siano più imposizioni o violenze reciproche tra uomini o gruppi di uomini, il socialismo, non appena affronta non solo questo immenso problema, ma anche una qualsiasi delle quotidiane lotte per i miglioramenti nelle condizioni di vita degli operai, si trova di fronte quel suo naturale nemico: il militarismo, cieco e feroce strumento di conservazione e di reazione.
Il socialismo, esplicantesi nella incessante lotta della classe lavoratrice contro la classe padronale, lotta che diviene sempre più aspra e che ci condurrà alla vittoria finale del proletariato, trova un formidabile ostacolo in questo fenomeno: che la parte migliore, più giovane, più forte della classe operaia, requisita dalla borghesia ed inquadrata negli eserciti, diventa fatalmente il baluardo più saldo della classe capitalistica, che schierando i lavoratori contro i lavoratori, i fratelli contro i fratelli, procede, pur di difendere e conservare il suo barbaro diritto all’ozio, tra la selva delle baionette che impugnano in sua difesa i giovani proletari militarizzati ed incoscienti.
Con la brutale educazione della caserma la borghesia fa dei giovani, ingenui lavoratori i suoi migliori e più devoti servitori; instillando nell’animo loro il veleno militarista, e l’odio contro gli altri rei di vivere in un paese posto al di là delle Alpi e del mare.
Ebbene, occorre che noi ci difendiamo contrapponendo alla forzata educazione militaresca la più fervida propaganda contro il militarismo e spingendola fin dentro le tetre mura della caserma là dove quotidianamente la borghesia lavora contro la nostra opera di redenzione, e contro i nostri ideali di fratellanza.
Con una infinità di menzogne si tenta dai borghesi di ogni parte la giustificazione del principio militarista. E perciò le idee da noi propugnate possono ad alcuni sembrare eccessive od errate: la nostra propaganda deve dunque saper spezzare e demolire quelle menzogne e quei pregiudizi, diffusi purtroppo anche negli operai. Noi ripeteremo sempre che il militarismo è oggi soltanto uno strumento di classe nelle mani dei governi borghesi. La borghesia, che non vuole né può confessare questo, asserisce che gli eserciti servono a difendere ed a rendere potente la patria. Ma la stessa borghesia non esita affatto quando, come a Roccagorga, trova comodo impiegare i suoi soldati contro i lavoratori, che pure son figli della stessa “patria”, ma che hanno il grave torto di pretendere da loro signori un trattamento meno inumano!
La “difesa della patria” non è che una frase destinata ad ingannare i popoli ingenui, e a nascondere le losche ragioni che inducono i governi di tutte le nazioni a gareggiare in una folle corsa agli armamenti ed ai preparativi guerreschi. E le vere ragioni sono queste: la violenta difesa del capitale contro le aspirazioni dei lavoratori; la necessità di soddisfare l’insaziata ingordigia degli affaristi, fornitori, industriali, che vivono attorno al militarismo (e si sottraggono così danari spremuti alla massa affamata, ad altri scopi più civili); sopratutto la formazione della artificiale sentimentalità patriottica negli operai, che tende a sottrarli agli effetti della propaganda rivoluzionaria, e a far loro dimenticare, scagliandoli ubbriachi contro il cosidetto straniero, la lotta contro il nemico vero, vicino, terribile, spietato, che si annida entro i confini della “patria” e si chiama “padrone”.
II militarismo nella sua forma più odiosa: la coscrizione obbligatoria, è nato con la borghesia, è stato instaurato da essa. Prima della rivoluzione francese, le guerre erano condotte da truppe mercenarie assoldate dai principi in lotta per il predominio. Nell’epoca delle guerre per l’indipendenza gli eserciti erano composti in massima parte di volontari, mentre le truppe regolari costituivano piuttosto il mezzo col quale le monarchie sfruttarono abilmente le aspirazioni di autonomia dei popoli per accrescere i loro dominii. Ma quelle aspirazioni all’autonomia nazionale sono oggi troppo lontane da noi, sono state sorpassate da un sistema tutto diverso di tendenze e di idealità che hanno nel socialismo la loro massima espressione e formano il programma dei lavoratori d’ogni paese. Questi cominciano a comprendere finalmente che non hanno nessun motivo di massacrarsi tra loro per raggiungere il solo scopo di cambiar di padrone e di sfruttatore. La strombazzata necessità della “difesa del territorio nazionale” è ormai solo una menzogna messa in campo per strappare sangue e milioni ai popoli incoscienti. Non v’è distinzione possibile tra “offesa” e “difesa” nella guerra moderna; tutto dipende dai cavilli dei diplomatici. Una guerra europea non sarebbe mai l’aggressione di una nazione contro un’altra, ma piuttosto la conseguenza di ingordigie territoriali e finanziarie da una parte e dall’altra. Il magnifico libro di Normann Angeli: La Grande Illusione ha dimostrato che una tale guerra sarebbe un disastro anche per le stesse classi dominanti in entrambe le nazioni: la vinta e la vincitrice.
Quanto alle guerre di conquista, gli stessi assertori del patriottismo dovrebbero ripugnare dall’usurpazione della patria altrui; noi socialisti vediamo in esse il mezzo per soddisfare le avidità imperialistiche del capitalismo, a spese del proletariato che dà per quelle imprese il proprio sangue ed il proprio danaro, senza ricavarne altro che amare delusioni.
In ognuna delle sue manifestazioni il militarismo è dunque un’arma
a difesa della borghesia; direttamente e indirettamente esso ferisce sempre
le classi operaie e le conduce a dilaniarsi follemente tra loro, avvelenando
lo sviluppo di fratellanza umana. Al militarismo noi neghiamo qualunque
riconoscimento anche astratto e teorico: non vogliamo riformarlo ma abbatterlo,
perché patria e nazione, borghesemente intese, sono per noi termini oltrepassati
da che abbiamo aperto gli occhi all’inganno che nasconde, dietro quei
nomi, le più losche tendenze degli autentici avversari del proletariato
e del suo avvenire socialista.
La nostra propaganda
Riconosciuta questa antitesi profonda ed insuperabile fra le nostre aspirazioni e l’influenza continua, tenace del militarismo, il nostro dovere è di cercare ogni mezzo di difendere la diffusione delle nostre idee e contrastare il passo a quel nostro naturale nemico.
Per avere un proletariato adatto alla lotta di classe e cosciente dei suoi destini è indispensabile, dunque, sottrarlo alla nefasta educazione patriottarda. E la diffusione delle idee antimilitariste è il primo dovere del Partito Socialista, dei suoi propagandisti e di tutti i suoi militanti. L’interesse immediato, materiale e morale, di ogni lavoratore è di convincersi di quelle idee e diffidare delle menzogne che sparge ad arte la borghesia per compiere la sua opera di deviazione dell’attenzione degli operai dai veri problemi di cui dovrebbe interessarsi nel campo economico e sociale.
Si persuadano gli operai che anche le organizzazioni di mestiere non possono assolvere i loro compiti quando negli scioperi e nelle agitazioni la forza armata milita dalla parte del padrone. Pensino le donne operaie al mostro sanguinoso che abbatte e stronca i loro figli, i loro sposi, i loro fratelli; e tutta la immensa famiglia del lavoro sia solidale nella nostra guerra al militarismo, che risponde alle necessità vive, incancellabili di tutti quelli che vivono oggi lavorando e soffrendo.
Era necessario portare la voce della propaganda socialista fra una speciale classe di operai: fra i giovani destinati ad essere gli strumenti incoscienti di questo loro nemico, tra i candidati alla caserma, tra coloro che la borghesia prepara a bagnarsi di sangue fraterno.
Questo compito assolve con ogni sua forza la nostra Federazione di Giovani Socialisti, che può già essere orgogliosa del suo passato di lotta e delle fiere battaglie sostenute, tra cui la campagna condotta contro l’infausta guerra di Tripoli, che tante giovani vite operaie ha falciate, tanto sangue e tante lagrime è costata al popolo infelice d’Italia. Oggi noi vogliamo fare un altro passo: persuasi che non conviene abbandonare il giovane coscritto, per quanto già preparato, all’influenza demoralizzatrice della caserma, noi ci proponiamo di seguirlo fin là, di accompagnarlo ed assisterlo nel dolore e nello sconforto, di tener viva nel suo cuore la fiamma dell’idea, che sola potrà fermare la sua mano quando gli additeranno il petto dei fratelli di sfruttamento e di dolore, quando si vorrà scagliarlo contro le conquiste della rossa bandiera proletaria, che prima lo ha accolto sotto di sé, che lo ha innalzato alla dignità di uomo, togliendolo dall’abiezione riservata oggi a chi nasce povero. Non dimenticare! – noi vogliamo dire al giovane soldato – non dimenticare che sotto questa divisa che non hai scelta, ma che ti è stata imposta, tu sei ancora e sempre un lavoratore, un reietto della società e che domani la mentita adulazione della classe che tu dovresti incoscientemente sostenere nelle sue sopraffazioni, si cambierà in disprezzo feroce, e le armi che oggi impugni le ritroverai puntate contro il tuo petto, quando, ripresa la rozza blusa dell’operaio, andrai a reclamare un po’ di pane in cambio del tuo lavoro...
Questo vogliamo fare, questo faremo fin dove le forze ci basteranno
col “Soldo al Soldato”.
Il Soldo al Soldato
L’educazione della caserma si sforza di creare una psicologia tutta speciale, tendente a trasformare gli uomini in bruti e violenti. Molte volte i nostri giovani compagni in quell’ambiente odioso si sentono isolati senza una voce amica che possa per un momento innalzare l’animo loro ad una visione più nobile e più alta. Spesso essi sentono il bisogno di essere sorretti e consigliati, di conoscere, nel luogo ove prestano servizio, compagni con i quali trovarsi nelle ore di libertà e poter discutere, parlare del socialismo, essere messi al corrente degli avvenimenti che interessano la classe operaia ed il partito. Ebbene ci riuscirà facile soddisfare questi legittimi desideri, coltivare quelle buone tendenze. D’ora in avanti, per mezzo della nuova istituzione, i circoli giovanili non si dimenticheranno dei soci che sono a fare il soldato, invieranno loro lettere, giornali, anche soldi: li metteranno in relazione con i compagni del luogo ove prestano servizio, che potranno aiutarli, tenerli al corrente di tutto, in modo che sia loro alleviata la dura vita della caserma e proseguita la loro educazione socialista. Nello stesso tempo il Partito e l’organizzazione giovanile potranno essere informati degli abusi che si commettono nelle caserme e delle prepotenze di cui sono vittime i nostri compagni, e potranno impiegare tutti quei mezzi di azione che possono garantire ad essi un trattamento più giusto.
È, come si vede, una intensa comunione di idealità, di rapporti continui fra i rimasti ed i partiti, rapporti che dovranno spronare i coscritti a compiere un’altra opera: quella di penetrazione fra i soldati non socialisti, fra quelli che sono entrati nella caserma vergini di ogni idea politica, che non sanno che cosa sia organizzazione, che ignorano la parola del socialismo; e peggio ancora sono schiavi dei pregiudizi religiosi e patriottici.
La continua, ferrea disciplina, l’essere considerati un numero desterà in essi il latente spirito di ribellione e le aspirazioni alla libertà; sarà dunque il momento di illuminarli e conquistarli a noi, sottraendoli alla demoralizzazione militaresca.
E le occasioni per seminare le nuove idee non mancheranno mai al militante socialista: «Le cerimonie cortigianesche – riassumiamo ciò che scriveva tempo fa Sylva Viviani – le commemorazioni sanguinarie, i discorsetti dei superiori, untuosi verso i soldati, aggressivi contro il socialismo, tolleranti e melliflui verso il prete, eccitanti all’odio verso qualche nazione straniera, sono tutte occasioni per il socialista a parlare, chiarire, spiegare... nei conversari discreti. Spiegare, quando l’occasione si presenta, cosa sono gli scioperi operai ed agricoli, le loro cause ordinarie, i mezzi per condurli alla vittoria, l’organizzazione nelle leghe, la resistenza, la solidarietà, gli interessi degli operai e dei contadini e gli interessi invece opposti della borghesia e del padrone.
Fare l’elogio del lavoro, insistere sull’organizzazione che unisce le forze a difesa degli interessi individuali e al tempo stesso conferisce prestigio al lavoro. Poi allargare la sfera delle idee, spiegare come il lavoro e l’organizzazione siano l’origine della solidarietà fuori del comune e della patria, dimostrando così come i contadini e gli operai d’Italia, Austria, Germania, ecc., non possono e non debbono combattere in guerra tra loro; anzi debbono opporsi alla guerra».
Tutto questo noi lo possiamo ottenere con il “Soldo al Soldato”.
Avanti!
Quale socialista vorrà rifiutare il suo concorso a questa nostra propaganda, oggi che imperversano su tutta l’Europa le follie bestiali del militarismo, e che in Italia esso ha celebrati, con la guerra libica e nelle repressioni poliziesche, i suoi peggiori saturnali? Qualunque altra azione passa in seconda linea di fronte alla necessità di resistere alla bufera che ci investe, di far fronte al turbine della reazione, col quale la borghesia guerrafondaia ha tentato di respingerci nelle tenebre del passato, inalberando a Tripoli la forca a fianco del tricolore, come simbolo della sua civiltà, rispondendo col piombo e la mitraglia al popolo affamato, tentando di soffocare la nostra idea di redenzione con la ubbriacatura patriottica della gazzarra tripolina, e con le gesta servili dei suoi sbirri e dei suoi magistrati. Uniamoci per mostrare ai nostri nemici che il socialismo non indietreggia e non cede, ma risorge più forte e sicuro da tutte le insidie, e proviamo, invadendo con la nostra propaganda anche la caserma, che in questa società vile e in dissoluzione, dovunque, anche nel cuore delle sue ultime difese, chiamati dalla squilla di una nuova diana, sempre più numerosi e decisi insorgono i ribelli.