Partito Comunista Internazionale Indice - Numero precedente - Numero successivo

COMUNISMO
n. 73 - dicembre 2012
– La crisi del capitalismo e dei capitalismi.
LA NEGAZIONE COMUNISTA DELLA DEMOCRAZIA alle origini del movimento operaio in Italia [RG112] (VII - continua dal numero scorso) L’Internazionale e la Comune di Parigi: Borghesi e clericali contro l’Internazionale - Il congresso dell’Internazionale a Bruxelles - La tattica di fronte alla guerra - L’Alleanza Internazionale della Democrazia Socialista - La risposta del Consiglio Generale dell’Internazionale - Incertezze in Italia - Il vecchio Mazzini contro il socialismo - Interessamento poliziesco - La guerra franco-prussiana - L’Internazionale e la Comune - La Comune e l’Italia - Mazzini e la Comune - La grande lezione (continua).
IL MOVIMENTO OPERAIO NEGLI STATI UNITI D’AMERICA [RG114]: (14/19 - Continua del numero scorso - Indice) La A.F.L. prende forma: Sindacato d’industria e sindacato di mestiere - Razzismo sindacale - Discriminati donne ed immigrati - Il sindacalismo e i trust - Idillio fra l’A.F.L. e i trust - La guerra ispano-americana - I sindacati e l’imperialismo (continua).
IL MARXISMO E LA QUESTIONE MILITARE: [RG109]  [Indice del lavoro] - Parte terza, Il capitalismo (XI - continua dal numero scorso) E - La guerra di Crimea: 1. L’assetto uscito dal Congresso di Vienna - 2. Espansione in Asia di Inghilterra e Russia - 3. Il ruolo della Francia e l’inizio della guerra - 4. Austria, Prussia, Regno di Sardegna e Svezia - 5. Le forze in campo - 6. La successione degli eventi - 7. L’assedio - 8. La battaglia di Balaclava e la fine della cavalleria - 9. Inkerman ed Eupatoria - 10. La battaglia della Cernaia - 11. La caduta di Sebastopoli (continua).
Dall’Archivio della Sinistra:
 - “Il Comunista”, 6 marzo 1921, Appello contro la reazione fascista
 - “Ordine Nuovo”, 16 marzo 1921, Serenità mistificatrice
 - “Il Comunista”, 10 luglio 1921, Il C.E. del P.C. d’Italia, Contro la pace fascista
 - “Il Comunista”, 21 luglio 1921, Il Comitato Esecutivo, Contro la pacificazione
 - “Il Comunista”, 31 luglio 1921, Comunicato del Comitato Esecutivo, Iquadramento
 - “Ordine Nuovo”, 28 settembre 1921, Il Comitato Esecutivo, Contro l’offensiva della reazione
 - “Il Sindacato Rosso”, 1° ottobre 1921, Altro patto d’infamia
 - “Il Comunista”, 27 dicembre 1921, Il Comitato Esecutivo, Contro l’offensiva poliziesca
 - “Ordine Nuovo”, 8 marzo 1922, Difesa proletaria

 
 


La crisi del capitalismo e dei capitalismi

Nel marasma economico, finanziario e politico che segna questa fase di apparente stallo della crisi generale del capitalismo spuntano come funghi i solutori di problemi dell’ultimo momento, quelli che hanno a disposizione la soluzione, o, dicono, almeno una concreta possibilità di soluzione. Spesso nelle brevi note di apertura della nostra rivista abbiamo parlato dei solutori nel campo finanziario e delle loro ricette, variabili a seconda delle scuole e teorie borghesi seguite, ma tutte accomunate da un criterio imprescindibile: il capitalismo è un sistema sempiterno, definitivo nella storia umana.

Le tante variazioni sul tema stanno nel come emendarlo, renderlo migliore, più consono ai bisogni umani ed al razionale sviluppo “senza fine” delle forze produttive e all’accumulazione del profitto, evitando le crisi che lo scuotono a fasi cicliche; o almeno farlo uscire con il minimo dei danni da questa crisi ormai quadriennale. Che è, alla fine, la cosa che interessa veramente.

E su questi argomenti si accapigliano furiosamente presentando esempi e controesempi storici e teoretici, schemi e grafici dell’evoluzione nel tempo di ogni possibile grandezza economica, correlata ad ogni tipo e qualità di parametri.

Cose alle volte interessanti, che utilizziamo modestamente anche noi, anche se l’unico nostro scopo è quello di misurare il grado di rovina di questo sistema disumano, e non certo di trarne auspici o ipotesi di cura o miglioramento. Per la nostra scuola rivoluzionaria il capitalismo non è emendabile, riformabile, non esiste alcuna miglioria che lo renda un sistema di produzione umano. Nel suo grado sommo di sviluppo è definitivamente l’antitesi di ogni umanità. Per questo non ci curiamo assolutamente d rimedi, di qualunque natura, perché siamo sicuri che comunque, quali che siano, nel divenire storico portano non ad una soluzione definitiva, ma a crisi sempre più profonde, anche se intervallate da periodi di quiete, di volta in volta sempre più gravi, fino all’estrema distruzione dell’immane quantità di valore prodotto che non può più materializzarsi in capitale.

Ma la crisi generale, che precede la fase di distruzione, non si risolve automaticamente nella soluzione rivoluzionaria. Questo è il nodo da sciogliere, durissimo ma ineludibile, che tocca alle generazioni presenti e future di rivoluzionari. È la nostra visione di comunisti, solo nostra nello sterminato panorama di quelli occupati a trovare la soluzione, una soluzione alle crisi.

Nel decennio precedente le crisi si sono succedute con intervalli di quiescenza sempre più brevi, e sempre più profonde ogni volta. Ed ogni volta si diceva che questa sarebbe stata l’ultima, che proprio la gravità aveva fatto capire cosa non andava, cosa doveva esser corretto e riformato.

Ma questa volta sono oltre quattro anni che la situazione si trascina con momenti di vero panico e pause che non promettono alcuna soluzione, anche se tutta l’immane impalcatura ideologica dell’informazione e della propaganda mondiale ad ogni momento di stasi continua a ripetere che “sì, questa volta ne stiamo uscendo”. La stabilizzazione è cosa del “semestre prossimo”, “dell’anno prossimo” al peggio, i segni di ripresa si intravedono, oggi, “alla fine del 2013...”

I formidabili mezzi finanziari messi in campo dalle super potenze capitalistiche, i forsennati rilanci monetari, i salvataggi da parte degli Stati, hanno consentito di “guadagnare tempo”, di diluire e rimandare gli effetti con i quali si era manifestata questa crisi nel 2008. Ma tutte le cause sono ancora presenti ed operanti, e nulla, nella sostanza, può essere fatto per uscirne.

Anche prescindendo dalla causa prima e fondamentale che la nostra scuola rileva nelle legge mortale del capitalismo, le altre dinamiche esteriori del campo finanziario, del “debito”, dell’economia di carta continuano il loro lavoro distruttivo; il tempo guadagnato amplia invece di stabilizzare la debolezza dell’impalcatura capitalistica.

Bisogna però fare una necessaria precisazione. Naturalmente il capitalismo globalizzato, così si dice in termini moderni (come se già nel diciannovesimo secolo la sua tendenza irresistibile a diffondersi non fosse stata un dato di fatto) ed oggi più che mai si è diffuso alla scala planetaria seguendo la sua dinamica naturale, è però un sistema che si struttura ed organizza alla scala delle nazioni, ed a queste è vincolato. Si espande oltre le frontiere, i capitali si muovono in effetti in modo tumultuoso oltrepassando i fragili limiti posti dalle legislazioni nazionali. Ma il capitalismo, modo di produzione ed accumulazione inteso come un’unità sovranazionale, è un’astrazione: esistono i capitali nazionali, che in determinate svolte storiche si presentano in forma unitaria sovranazionale.

Quando si parla genericamente di capitalismo, se è corretta l’analisi e la critica a questo sistema in quanto tale, è uno errore di prospettiva valutarlo nei suoi tanti aspetti, finanziari, produttivi, commerciali, come un tutto unico, senza prendere in considerazione le dinamiche che muovono i distinti capitalismi nazionali e quindi non considerare le relazioni tra gli Stati – che sono “il comitato d’affari della borghesia nazionale” – o delle aree sovrastatali, come è l’unione Europea costruita (artificiosamente) attorno ad una moneta unica, dove si sviluppa, oltre al conflitto con gli altri imperialismi economici e finanziari uno scontro altrettanto duro al suo interno tra zone – Stati nazionali – con caratteristiche diverse tra loro, ed interessi specifici contrastanti, che la crisi generale ha evidenziato impietosamente.

Da questo concetto deriva necessariamente che la crisi produttiva e finanziaria, oltre minare le basi stesse del capitalismo, forza i rapporti tra gli Stati in una situazione sempre più critica di scontro. È un processo storico ineludibile, che nessun volontarismo di genti di buona voglia, di politici illuminati, di spiriti grandi può invertire rimanendo dentro il sistema capitalistico, facendo ricorso agli attrezzi politici della democrazia, magari dal basso, magari combattendo vigorosamente contro la corruzione che attanaglia ogni manifestazione dell’organizzarsi della società secondo l’infame ed onnipresente paradigma del profitto.

Gli spiriti belli dell’Europa dei popoli contrapposta all’Europa della moneta unica, della pace tra le genti, possono soltanto macinare le loro inutili preci, le stanche ricette di teorie borghesi apertamente reazionarie o mascherate di socialità.

E qui ora assistiamo ad una farsa, divertente se non fosse miserabile. Quella del salvataggio è una santa missione alla quale, ovviamente, non possono rinunciare anche i figli rinnegati dello stalinismo e della socialdemocrazia, assassini di comunisti, che insieme ad altri compagni di strada di “destra” e di “sinistra” si ergono contemporaneamente in difesa dei sacri confini e dell’idea di Stato sovranazionale, con moneta unica, che salverebbe, a loro dire, dagli sfracelli dell’inflazione, e farebbe da usbergo alle italiche finanze ed a quelle, udite, delle tartassate classi medie. E visto che ci sono, anche dei falcidiati salari, e del terribile aumento dei disoccupati. Basterebbe un po’ di buonsenso, di ragionevole capacità di mediazione.

Non entriamo nel merito della questione Euro si – Euro no, che non ha senso se non come attendibile misura del grado di sviluppo della situazione politica dei rapporti tra gli Stati.

Sulla questione dell’Europa, “federata” sul piano politico, ma soprattutto monetario e finanziario, il dibattito impazza fra critici, avversari, revisori e strenui difensori, con sfoggio di teoria e considerazioni di alta politica. È un terreno di scontro ideologico tra le tante scuole, e tra ogni genere i opportunismo. Lo lasciamo volentieri a tutti loro. Ma sull’argomento, con orgoglio, affermiamo che anche i comunisti hanno la loro ricetta da proporre. È la stessa da due secoli – la fedeltà ai principi nostri è la nostra forza: “Proletari di tutto il mondo unitevi!”
 
 
 
 
 
 
 


La negazione comunista della democrazia
alle origini del movimento operaio in Italia
Capitolo esposto a Sarzana nel gennaio 2012 [RG112]

(Continua dal numero scorso)
 

L’Internazionale e la Comune di Parigi

Borghesi e clericali contro l’Internazionale

Il 17 aprile 1868, all’indomani dello sciopero di Bologna, Marx scriveva ad Engels: «By the by, le questioni del lavoro vanno magnificamente. Dapprima il Belgio, poi Ginevra, ora Bologna, mi stupisce soltanto che esso non sia stato attribuito all’Internazionale». Evidentemente Marx (ed a ragione) non leggeva "La Nazione" di Firenze che proprio il giorno prima aveva scritto: «I disordini di Bologna appariscono, pel loro carattere e pel loro procedimento, un episodio di quel tristo dramma che da qualche tempo si svolge in Inghilterra, in Francia, in Belgio, in Svizzera, in Baviera, si può dire ormai in ogni parte d’Europa. Qualche luce su questo episodio possono gettare per avventura le rivelazioni che contenevano in questi giorni i fogli di Ginevra. Secondo quei fogli, lo sciopero del Cantone continuava, e lo attribuivano esclusivamente alle triste arti dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori colà stabilitasi [...] Si leggano i ragguagli dei disordini Bolognesi e si vegga se i procedimenti non si somigliano nei due paesi». Detto questo il giornale fiorentino invitava il governo ad esaminare con urgenza «se tra le piaghe delle questioni politiche non se ne nasconda una più terribile, questa, che vuole essere inesorabilmente risoluta, sotto pena di catastrofi; a cui non si può pensare senza raccapriccio: la questione sociale».

La terribile questione sociale a cui la borghesia di ieri, e di oggi, guardava, e guarda, con raccapriccio faceva tremare i suoi rappresentanti e i giornali lanciavano allarmi contro l’incombente pericolo in un gran parlare di questione sociale e di socialismo. "La Nazione" del 21 gennaio 1869 scriveva che, da quando era stato proclamato «che era venuto il momento per i proletari di comandare», «un pericolo gravissimo minaccia il paese».

Anche alla Camera si discuteva dei pericoli del socialismo. Nello Rosselli nel suo “Mazzini e Bakunin” a proposito dei dibattiti parlamentari annotava: «Il deputato Torrigiani invita il governo a studiare urgentemente le ragioni della rivolta [...] È impensierito per l’apparizione di “un sintomo nuovo nelle nostre popolazioni, il quale accenna al morbo del socialismo, di cui l’Italia aveva deplorato altrove i sinistri, ma erasi tenuta incolume”. Il ministro delle Finanze – Cambray-Digny – rispondendo al Torrigiani che “ci metteva ieri dinanzi agli occhi il fantasma del socialismo”, ammette che effettivamente “qualche piaga ha mostrato di esistere”. E l’onorevole Bargoni scopre “i germi latenti di una questione sociale” ma confida che il governo aiutato da tutti saprà volgerli al bene» (Seduta del 21 gennaio 1869).

Se, come abbiamo messo in evidenza, l’episcopato aveva tenuto una posizione di appoggio alla repressione governativa, non per questo i giornali clericali si astennero dal lanciare frecciate contro lo Stato usurpatore. “L’Ancora” di Bologna, in un articolo intitolato “La paura del socialismo alla Camera dei deputati” scriveva: «L’onorevole Torrigiani ha ben ragione di essere spaventato di questo nuovo sintomo; che alla fine contro le masse furibonde e sospinte dalla disperazione e dalla fame, mal reggono le baionette ed i cannoni [...] Un gelido orrore invade le ossa alla parola socialismo: ma quale provvedimento hanno preso o vanno prendendo i rigeneratori d’Italia per salvarla da questa catastrofe?». Di chi la colpa delle rivolte se non dei rappresentanti dello Stato unitario?: «Dieci anni or sono non facevate che aizzare quelle masse medesime contro il papa e tutti gli altri sovrani d’Italia; voi che chiamavate sante le rivoluzioni, le disobbedienze alle leggi». I tentativi di ristabilire l’autorità dello Stato sulle masse, per i clericali, non erano che «sforzi inutili! Voi avete gettato le basi del più spaventevole socialismo e le avete gittate confiscando le proprietà della Chiesa, le proprietà dei poveri, asciugando senza misericordia le tasche dei contribuenti [...] O governanti! ritirate le leggi, che faceste a danno della Chiesa, della santità del matrimonio; rimettete in onore quella religione che finora insultaste [...] Allora, ma allora solo, non tremerete più del socialismo». Al giornale clericale poco importava delle condizioni di miseria che strangolavano la classe operaia, e specialmente quella contadina. Al giornale clericale non interessava la miseria, interessavano le ricchezze, le “legittime” ricchezze della Chiesa che lo Stato unitario aveva usurpate. A restituzione avvenuta si sarebbe potuto parlare di pacificazione e di lotta comune contro il comune nemico: il socialismo.
 

Il congresso dell’Internazionale a Bruxelles

Malgrado la paura che lo spettro del socialismo incuteva alla classe borghese, molto timida era ancora la sua penetrazione in Italia. Anche la dislocazione periferica delle sezioni ha la sua importanza. Quella di Sciacca (in Sicilia) fu una della prime; sempre in Sicilia la società operaia “I Figli del Lavoro”, nell’agosto 1868, deliberò di aderire all’Internazionale e di inviare un proprio rappresentante al Congresso di Bruxelles con il seguente indirizzo: «Fratelli operai riuniti a Bruxelles, accettate il nostro saluto, la nostra adesione e la nostra promessa di contribuire ai lavori tendenti a preparare la emancipazione del proletariato e a riunire l’umanità sotto la bandiera della democrazia. Per questo saremo con voi ora e sempre». Ma che il rappresentante siciliano poté arrivare a Bruxelles solo a congresso terminato e non vi fu quindi a questo congresso nessuna partecipazione italiana: l’Italia fu rappresentata (d’ufficio) da Dupont, membro del Consiglio Generale.

Il III Congresso dell’Internazionale apriva i suoi lavori, il 6 settembre 1868, con questa affermazione: «L’anno 1867-68 farà epoca nella storia dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori. Dopo un calmo sviluppo, essa prese proporzioni abbastanza colossali tali da provocare le denunce odiose della borghesia e le dimostrazioni ostili dei governi. Attualmente essa è entrata nella sua fase di lotta».

Il rapporto del Consiglio Generale di Londra, esposto nella seduta dell’8 settembre, faceva sommariamente il punto sui progressi dell’Associazione nei due emisferi. Nella sua “Storia della Internazionale” Tullio Martello deve ammettere che «Il lavoro dell’Internazionale fu lento e silenzioso, ma prodigiosamente attivo e sagace. Durante l’anno 1867-68 esso aveva ottenuto risultati incomparabilmente maggiori di quelli ottenuti nell’anno precedente». Ed aggiungeva che quanto esposto diceva «modestamente [...] meno assai della verità».

Sarebbe ora lungo riportare per intero il rapporto, e ci limiteremo a citare la breve parte riguardante l’Italia: «In Italia l’Internazionale trovò seri ostacoli: una delle conseguenze di Mentana fu la limitazione al diritto di riunione; ma le nostre corrispondenze ci fanno credere che la classe operaia italiana va ogni giorno costituendo la sua individualità emancipandosi dai vecchi partiti politici».

Dopo avere enumerato tutti i paese europei in cui l’Internazionale aveva messo solide radici, il rapporto passava a parlare del Nuovo Continente: «In America la potenza latente delle classi operaie si manifestò forzando i legislatori di parecchi Stati ad agire secondo i nostri intendimenti». E commentava: «Ciò prova una volta di più che, anche sotto le condizioni politiche le più favorevoli, il nostro successo dipende da un’organizzazione che concentri le nostre forze; ogni altra organizzazione isolata si spezzerà sempre contro la sua disorganizzazione negli altri paesi, i quali si fanno concorrenza sul mercato mondiale agendo e reagendo gli uni sugli altri. Non v’è che l’accordo internazionale delle classi indigenti che possa garantire il loro trionfo definitivo. Questo bisogno ha dato nascimento alla nostra associazione, la quale non è figlia né di una setta né di una teoria; essa è il prodotto spontaneo del movimento proletario generato dalle tendenze naturali della società. Nel sentimento profondo della sua grande missione internazionale non si lascerà intimidire né distrarre; il suo destino è ormai inseparabile dal progresso storico della classe che porta nel suo grembo la rigenerazione dell’umanità».
 

La tattica di fronte alla guerra

Tra le questioni poste in discussione ci fu quella dell’atteggiamento che avrebbero dovuto tenere gli operai in caso di guerra tra le potenze europee: «Considerando che la giustizia dev’essere la regola dei rapporti tra i popoli come tra gli individui, che la guerra non è mai stata che la ragione del più forte e non la sanzione del diritto, che essa fortifica il dispotismo e soffoca la libertà, che seminando il lutto e la rovina nelle famiglie e la depravazione là dove gli eserciti si concentrano, trattiene l’ignoranza e la miseria, che l’oro ed il sangue dei popoli non ha mai servito nella guerra che a mantenere gl’istinti selvaggi dell’uomo allo stato di natura, che in una società fondata sul lavoro e sulla produzione la forza non può essere messa che al servizio della libertà e del diritto di ognuno, ch’essa dev’essere una garanzia e non un’oppressione».

A questa prima serie di “considerando”, a cui l’ipocrisia borghese non rifiuterebbe la propria adesione teorica, salvo poi nella pratica convertirli a favore della guerra, ne seguivano altri che li inquadravano in una netta posizione di classe. «Considerando che la causa primordiale della guerra è il difetto d’equilibrio economico, che la guerra è un mezzo di subordinazione dei popoli per le classi privilegiate, che nello stato attuale dell’Europa i governi non rappresentano gl’interessi legittimi dell’operaio, che la guerra non può essere abolita che per una grande e completa riforma sociale, che i popoli possono sin d’ora diminuire il numero delle guerre opponendosi a chi le dichiara, e che questo diritto appartiene alle classi operaie, le quali hanno perciò un mezzo pratico ed immediato, perché il corpo sociale non potrebbe vivere se la produzione fosse arrestata o sospesa, che ai produttori basta dunque cessar di produrre per rendere impossibile la guerra [...il Congresso...] protesta contro la guerra ed invita tutte le sezioni dell’Associazione ad agire con la più grande energia per impedire i conflitti tra popolo e popolo, conflitti che si possono considerare come guerre civili perché i produttori sono tutti fratelli a qualunque paese appartengano, e raccomanda soprattutto agli operai di cessare in caso di guerra ogni lavoro».

Il belga De Paepe affermò che per sopprimere ogni conflitto armato vi sono due metodi: il primo, il rifiuto al servizio militare, «o, ciò che significa lo stesso, poiché gli eserciti hanno bisogno di consumare, il rifiuto del lavoro»; il secondo è la soluzione della questione sociale, «metodo che, per il suo sviluppo, l’Internazionale è destinata a far trionfare». Impiegando il primo metodo, continuava De Paepe, «non si avrebbe che un palliativo al male; impiegando il secondo, il male sarebbe tolto dalla radice». Ma soprattutto affermò che «attribuire la causa della guerra alle individualità è un errore: i re, gli imperatori non sono che accidentalità, non sono che istrumenti; la sola e vera causa della guerra sta nelle nostre istituzioni sociali, e la prova si è che gli Stati i quali non hanno sovrani si fanno la guerra come tutti gli altri. Cosa vi è nel conflitto americano se non una questione di lavoro? I borghesi del Sud avevano bisogno della schiavitù dei negri, gli Stati del Nord ne volevano l’abolizione per sostituirvi la schiavitù moderna molto più dura dell’antica, perché lo schiavo negro vale qualche cosa ed il bianco, il proletario, non vale nulla: gli Stati del Nord non fecero la guerra che per sostituire alla tratta dei negri il pauperismo».
 

L’Alleanza Internazionale della Democrazia Socialista

Bakunin, che dal luglio di quell’anno aveva aderito individualmente alla sezione ginevrina dell’Internazionale, non poteva sfuggire alla tentazione di prendere le redini dell’Internazionale, una associazione che, come abbiamo appena visto, aveva piantato solide radici sia nella vecchia Europa sia nel Nuovo Continente. Ma per questo avrebbe avuto bisogno di una strutturata organizzazione ai suoi ordini. Questo è quanto escogitò per raggiungere lo scopo. Sarebbe stato inutile prendere parte al congresso di Bruxelles in rappresentanza di sé stesso, quindi se ne stette fuori, inviò al congresso una lettera in cui, dopo avere «inviato il suo saluto fraterno all’Internazionale», si dichiarava dispiaciuto che «le sue occupazioni gli impedissero di assistere al congresso».

Come abbiamo visto Bakunin aveva aderito alla Lega della Pace e della Libertà, una organizzazione prettamente borghese. Nel settembre 1867 ne fu eletto membro del Comitato Permanente e ne fu l’anima, assieme a quel Jules Romain Barni che sarebbe poi divenuto deputato a Versailles.

Presto si rese però conto che la Lega di fatto non era che una società insignificante ed i liberali che ne facevano parte altro non vedevano nei suoi congressi che l’occasione per farsi un viaggio e tenere prolissi discorsi. L’Internazionale, al contrario, cresceva di importanza giorno dopo giorno. In una circolare interna confessava che la Lega per la Pace fino ad allora non era stata che una commedia impotente: «Noi non potremo divenire qualcosa di diverso se non rendendoci rappresentanti sinceri di milioni di lavoratori [...] La Lega dovrà divenire la pura espressione politica dei grandi interessi e dei principi economici e sociali che sono trionfalmente sviluppati e propagati oggigiorno dalla grande Associazione Internazionale dei lavoratori di Europa ed America». Bakunin pensò quindi di innestare la Lega per la Pace nell’Internazionale ed a questo scopo fece adottare dal Comitato della Lega una proposta con la quale veniva chiesto al Congresso dell’Internazionale di stringere un patto di alleanza difensiva ed offensiva.

Lapidaria la risposta del congresso di Bruxelles: «1) I delegati del Congresso dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori che, eventualmente, assisteranno al Congresso della Pace a Berna, sono invitati a portare con loro le risoluzioni votate ai congressi di Ginevra, Losanna e Bruxelles per sottoporle al Congresso della Pace; tuttavia, la loro partecipazione a qualsiasi discussione, risoluzione o azione sarà fatta sotto la loro esclusiva responsabilità personale. 2) I delegati del Congresso dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori ritengono che la Lega della Pace e della Libertà non abbia alcuna ragione di esistere in presenza dell’opera dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori ed invitano i membri della Lega ad aderire alle varie sezioni dell’Associazione Internazionale dei lavoratori nei loro rispettivi paesi».

A Bakunin questa volta era andata male su due fronti: da un lato il rifiuto del Congresso di Bruxelles faceva crollare il suo sogno di riuscire a mettere le mani sull’Internazionale, dall’altro si trovava ad essere severamente redarguito dal presidente della Lega della Pace: «O tu non eri sicuro dell’effetto del nostro invito, e allora ai compromesso la nostra Lega; oppure tu sapevi quale sorpresa ci avrebbero riserbato i tuoi amici dell’Internazionale, ed allora ci ai ingannati in maniera indegna». Da parte sua Bakunin con molta disinvoltura rispose che detto rifiuto «non doveva essere inteso come l’espressione del sentimento delle masse operaie, bensì delle diffidenza, o meglio delle malevolenza di una certa coterie di cui, come me, tu ai certamente indovinato il centro». È evidente l’allusione a Marx. Bakunin faceva notare al suo interlocutore come il congresso internazionale di Bruxelles fosse stato «il più grande avvenimento dei nostri giorni [...] Noi non dobbiamo dimenticare che la forza è dalla parte loro, non dalla nostra».

Frattanto a Berna, dal 21 al 25 settembre, si terrà il secondo congresso della Lega per la Pace e la Libertà. Lo scopo che Bakunin si era prefisso era quello di trasformare questa organizzazione borghese in una specie di sezione intellettuale dell’Internazionale e, naturalmente, lui ne sarebbe stato il capo. In questo modo avrebbe potuto giocare un ruolo molto più importante, all’interno della Associazione Internazionale dei Lavoratori, che non quello di semplice iscritto. In quella occasione Bakunin propose un suo fantasioso programma di socialismo in cui veniva rivendicata l’uguaglianza delle classi e degli individui, l’abolizione dello Stato e del diritto di eredità. Al congresso declamò ben quattro discorsi sul socialismo con una critica spietata contro il comunismo autoritario ed esaltando, al contrario, il collettivismo federalista e libertario.

Avendo rifiutato la Lega l’accettazione di questi principi, peraltro tipici dell’idealismo piccolo-borghese, la minoranza “socialista” da lui capeggiata abbandonava il congresso e dava vita alla Alleanza Internazionale della Democrazia Socialista. L’Alleanza della Democrazia Socialista nasceva con un duplice carattere: 1) Quello di associazione socialista con il programma esposto al congresso della Lega della Pace, e di cui Marx dirà: “Non ho mai letto nulla di più pietoso”. 2) Quello di setta segreta i cui veri scopi erano conosciuti dal solo Bakunin, visto che a lui il Comitato centrale aveva dato delega di potere. Questa era la organizzazione a forma democratica e libertaria che come scopo si era dato quello di combattere il centralismo e l’autoritarismo del Consiglio Generale di Londra.

Il programma, in sette punti, si basava sui principi di ateismo, uguaglianza delle classi e degli individui, abolizione del diritto di eredità, etc. Per gli sviluppi della futura polemica con il Consiglio Generale, è il caso di ricordare che in esso non si accenna affatto all’idea dell’astensione politica che, in seguito, diverrà il cavallo di battaglia dell’anarchismo; anzi, al 4° comma viene esplicitamente affermato che l’Alleanza «respinge qualsiasi azione politica che non abbia per scopo immediato e diretto il trionfo della causa dei lavoratori contro il capitale», il che vale come implicita accettazione della lotta politica come mezzo di emancipazione sociale. Bakunin prova che questa non è solo una nostra interpretazione quando, deplorando nella “Démocratie” di Chassin l’astensione politica degli operai francesi, scriveva: «L’astensione politica è una imbecillità inventata dai furbi per ingannare gli idioti».

I due stretti collaboratori italiani di Bakunin, Saverio Friscia e Giuseppe Fanelli erano entrambi deputati del Regno. Il Gambuzzi, altro stretto suo collaboratore, «interpellato in proposito, dichiarò che l’essere deputato era una eccellente cosa; che ciò vi rendeva inviolabile rispetto alla polizia e vi permetteva di viaggiare gratis su tutte le ferrovie italiane. L’Alleanza proibisce agli operai ogni atto politico, poiché domandare ad uno Stato qualunque il regolamento delle ore di lavoro delle donne e dei fanciulli, significa riconoscere lo Stato e inchinarsi dinanzi al principio del male; ma i suoi capi borghesi hanno delle dispense pontificali che permettono loro di sedere in Parlamento e di godere dei privilegi che offrono gli Stati borghesi» (“L’Alleanza della Democrazia e l’Associazione Internazionale dei Lavoratori”).

Costituita l’Alleanza della Democrazia, bisognava ora trovare il modo di innestarla nel tronco dell’Internazionale; fare accettare al Consiglio Generale l’adesione della nuova società. A questo scopo il 22 dicembre 1868 Bakunin scrive a Marx: «Mio vecchio amico [...] meglio che mai sono giunto a capire adesso come tu avevi ragione seguendo, ed invitando noi a seguire la grande strada della rivoluzione economica [...] Io faccio ora ciò che tu ai incominciato più di venti anni fa. Dall’addio solenne e pubblico che ho dato ai borghesi del congresso di Berna, non conosco adesso altra società, altro ambiente che il mondo dei lavoratori. Vedi dunque, caro amico, che io sono tuo discepolo, e che son fiero di esserlo».

Il 15 dicembre il Consiglio Generale riceveva gli statuti ed il programma dell’Alleanza della Democrazia Socialista e la lettera nella quale si annunciava che essa aveva aderito all’Internazionale. Nel verbale della seduta si legge: «Marx ritiene che sia contrario ai nostri statuti ammettere un’altra associazione internazionale nella nostra società. Viene allora deciso all’unanimità che il segretario per la Svizzera prepari una risposta da sottoporre alla riunione del prossimo martedì, inoltre, ancora all’unanimità, viene stabilito che per combattere l’impressione perniciosa prodotta da questo programma, la risposta dovrà essere resa pubblica». Nella successiva seduta del 22 dicembre fu data lettura della risposta all’Alleanza della Democrazia, unanimemente approvata.
 

La risposta del Consiglio Generale dell’Internazionale

Quella che segue è la circolare che il Consiglio Generale inviò in maniera confidenziale a tutte le sezioni dell’Internazionale:

     «Circa un mese fa un certo numero di cittadini si è costituito a Ginevra come Comitato centrale iniziatore di una nuova società internazionale, denominata “Alleanza Internazionale della Democrazia Socialista”, dandosi per “missione speciale lo studio delle questioni politiche e filosofiche sulla base stessa di questo grande principio di uguaglianza, etc.”. Il programma ed il regolamento stampato da questo comitato iniziatore sono stati comunicati al Consiglio Generale dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori soltanto il 15 dicembre 1868. Secondo questi documenti, la detta Alleanza è “interamente fondata nell’Internazionale” e al tempo medesimo è fondata interamente al di fuori di questa Associazione. A fianco del Consiglio Generale dell’Internazionale, eletto dai successivi congressi di Ginevra, Losanna e Bruxelles, si avrebbe, secondo il regolamento iniziatore, un altro Consiglio Generale a Ginevra autonominatosi. A fianco dei gruppi locali dell’Internazionale, si avrebbero i gruppi locali dell’Alleanza che, attraverso l’intermediazione dei loro uffici nazionali funzionanti al di fuori degli uffici nazionali dell’Internazionale, “presenterebbero domanda di ammissione all’Internazionale per il tramite dell’Ufficio Centrale dell’Alleanza”, il Comitato Centrale dell’Alleanza si arrogherebbe così perfino il diritto di ammissione all’Internazionale. In ultimo, il Congresso Generale dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori avrà ancora un suo doppione nel Congresso Generale dell’Alleanza, poiché il regolamento iniziatore afferma: “al Congresso annuale dei lavoratori la delegazione dell’Alleanza Internazionale della Democrazia Socialista, come branca dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, terrà le sue sedute pubbliche in un locale separato.
     «Considerando: che la presenza di un secondo corpo internazionale funzionante al di dentro ed al di fuori dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori rappresenterebbe il mezzo più infallibile per disorganizzarla; che ogni altro gruppo di individui residenti in una qualunque località avrebbe il diritto di imitare il gruppo iniziatore di Ginevra e con motivi più o meno confessabili di entrare nell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, di altre associazioni internazionali con altre “missioni speciali”; che in questa maniera l’Associazione Internazionale dei Lavoratori diverrebbe ben presto un giocattolo in mano agli intriganti di ogni nazionalità e di ogni partito; che inoltre gli statuti dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori al suo interno non ammettano che delle branche locali e nazionali (vedere gli artt. I e VI degli Statuti); che alle sezioni dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori è fatto divieto di darsi degli statuti e dei regolamenti amministrativi contrari agli statuti generali ed ai regolamenti amministrativi dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori (vedere l’art. XII dei regolamenti amministrativi); che gli statuti ed i regolamenti amministrativi dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori possono essere modificati solo da un Congresso Generale dove i due terzi dei delegati presenti votino a favore di un tale cambiamento (vedere l’art. XIII dei regolamenti amministrativi); che la questione era stata già definita con la risoluzione contro la Lega della Pace, adottata unanimemente dal Congresso Generale di Bruxelles; che in queste risoluzioni il Congresso dichiara che la Lega della Pace non aveva alcuna ragione di esistere poiché, dalle sue recenti dichiarazioni, il suo scopo ed i suoi principi erano identici a quelli dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori; che vari membri del gruppo iniziatore dell’Alleanza, nella loro qualità di delegati al Congresso di Bruxelles hanno votato queste risoluzioni,
     «Il Consiglio Generale dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, nel corso della sua seduta del 22 dicembre 1868, ha unanimemente deliberato:
     «Tutti gli articoli del Regolamento dell’Alleanza Internazionale della Democrazia Socialista, concernenti le relazioni con l’Associazione Internazionale dei Lavoratori, sono dichiarate nulle e di nessun effetto. L’Alleanza Internazionale della Democrazia Socialista non è ammessa come branca dell’Associazione Internazionale dei lavoratori».
Ricevuta la notizia della delibera del Consiglio Generale, il Comitato centrale dell’Alleanza decise di rinnovare la richiesta di adesione con una lettera nella quale annunciava che l’Alleanza si sarebbe sciolta come organizzazione internazionale a patto che l’Internazionale avesse riconosciuto le sezioni nazionali. Il Consiglio Generale, nella seduta del 9 marzo 1869, esaminata la nuova richiesta, comunicò che, a parte alcune formulazioni teoriche inaccettabili (ad esempio, l’uguaglianza delle classi – “controsenso logico impossibile a realizzarsi” che avrebbe dovuto essere sostituito con “abolizione delle classi”), non esistevano «ostacoli per la conversione delle sezioni dell’Alleanza in sezioni dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori». Bakunin riuscì così a raggiungere il suo scopo: fare entrare nell’Internazionale una organizzazione ufficialmente disciolta ma in pratica viva e funzionante, ed attraverso questa esercitare in seno all’Internazionale una decisa influenza.
 

Incertezze in Italia

Intanto in Italia i rapporti con l’Internazionale si erano talmente affievoliti che Dupont, a nome del Consiglio Generale, il 20 gennaio 1869, sollecitando la ripresa dei contatti, scriveva ad un corrispondente di Napoli: «Dal congresso di Bruxelles non abbiamo ricevuto alcuna lettera dell’Italia. Ciò ci stupisce assai perché i tempi sono troppo preziosi per non impiegare ogni nostro istante a svolgere una attiva propaganda presso gli operai italiani. Contiamo dunque sul vostro concorso energico per spingere gli operai ad aderire in massa all’Associazione Internazionale [...] È urgente stabilire una regolare corrispondenza con il consiglio Generale e voi dovete comprenderne la necessità [...] Occorre che l’Italia mandi al congresso di Basilea una numerosa delegazione. Vi mando il resoconto ufficiale del congresso di Bruxelles [...] Vi accludo la risoluzione del Consiglio Generale circa la Alleanza Internazionale della Democrazia Socialista».

In rapporti precedenti dicemmo come, nel 1867, a Napoli si fosse formata la prima associazione che avesse dichiarato di aderire all’Internazionale e dei collegamenti che questa associazione ebbe con il consiglio Generale di Londra e con lo stesso Marx. Però all’epoca della lettera di Dupont probabilmente si era estinta, dal momento che, secondo quanto comunicato alla stampa, il 31 gennaio 1869 venne ricostituita la sezione napoletana dell’Internazionale: «I sottoscritti cittadini operai riuniti in assemblea costituente, hanno presa lettura del programma e regolamento dell’Associazione Internazionale degli Operai [...] Ai quali programma e regolamento fanno piena adesione. Si costituiscono in sezione italiana di Napoli e provvisoriamente centrale per tutta l’Italia» (“Il Popolo d’Italia”, 18 febbraio 1869). Anche il Consiglio Generale dell’Internazionale registra l’avvenimento: «A seguito della pubblicazione nei giornali degli Statuti e del programma dell’Associazione Internazionale, delle riunioni sono state tenute a Napoli nel corso delle quali molte associazioni professionali hanno annunciato la loro adesione [...] Questi avvenimenti suscitano un grande allarme tra i liberali della classe media» (dal Verbale della seduta del 2 marzo 1869).

Però dobbiamo ammettere che i socialisti italiani erano tali soprattutto dal punto di vista sentimentale, ancora ben lontani da una vera coscienza di classe. Rende bene l’idea della situazione quanto fu scritto nei confronti di uno degli esponenti più in vista della sinistra democratica: «Ciò che resta inesplicabile è come possa trovarsi anche con l’Internazionale, dopoché si trova con la più o meno monarchica Sinistra, con la più o meno malva Massoneria, colla più o meno rossa Democrazia ad un tempo; egli è dunque un potpourri». E questa non era la situazione di un singolo individuo ma della maggior parte di coloro che militavano all’interno delle organizzazioni rivoluzionarie: mazziniani, garibaldini, internazionalisti. Era un periodo in cui la democrazia italiana civettava con il socialismo ed il “socialismo” italiano faceva altrettanto con la democrazia, periodo delle conversioni clamorose e dei tentativi di conciliare le due inconciliabili scuole: «riunire sotto una sola bandiera repubblicana e internazionalisti e mazziniani». Non è qui il caso di fare una accurata disamina dei singoli fatti e dei non limpidi personaggi; basti dire che non vi era ancora in Italia una esatta idea della dottrina socialista, anzi, il più delle volte per socialiste passavano idee che non lo erano affatto.

Così l’Internazionale penetrò in Italia attraverso la non disciolta Alleanza della Democrazia Socialista, e gli internazionalisti italiani, pur mantenendo un collegamento con il Consiglio Generale di Londra, di fatto facevano capo a Bakunin.

Comunque nel settembre al Congresso internazionale di Basilea per la prima volta un italiano partecipò in qualità di delegato di una organizzazione internazionalista.
 

Il vecchio Mazzini contro il socialismo

I risultati del congresso di Basilea misero in serio allarme Mazzini. Il congresso, oltre che dimostrare l’enorme sviluppo avuto dall’Internazionale, in Europa e in America, era una dimostrazione che anche in Italia il socialismo cominciava a mettere radici. Accanto alla sezione di Napoli un’altra venne fondata a Castellammare di Stabia e alla fine dell’anno erano costituite almeno quattro sezioni. A maggio la sezione napoletana aveva lanciato un manifesto nel quale si affermava: «Noi ci siamo riuniti [...] onde formare la sezione napoletana della Associazione Internazionale dei lavoratori. Fratelli delle altre province d’Italia, venite ad ingrossare le nostre file. Uniamoci col patto dell’Internazionale ai nostri fratelli del mondo intero [...] Fino a che noi resteremo divisi o male associati non potremo vincere. L’Associazione Internazionale, stringendoci con uno stesso patto e sotto un medesimo interesse, ci rende forti e ci assicura la vittoria [...] Operai italiani, nostri fratelli, non tardate adunque, noi aspettiamo con ardente impazienza le vostre adesioni».

Mazzini, allarmato dall’affermazione dell’Internazionale in Italia, che probabilmente riteneva molto più consistente di quanto fosse, aveva dato istruzione ai suoi seguaci di prendere contatto col delegato italiano di ritorno dal congresso internazionale: «Bisogna vegliare sull’operaio Caporusso e se nel ritorno da Losanna [in realtà si trattava di Basilea – n.d.r.] passa per Lugano catechizzarlo voi». Caporusso non venne intercettato dai mazziniani oppure non si lasciò catechizzare, anche perché, stretto amico di Bakunin, aveva per la mente altri progetti. «Tornò dal Congresso con delle idee e delle pretese strane e tutto affatto contrarie ai principi della nostra associazione. Dapprima parlò a voce bassa, poi apertamente con tono imperioso, di poteri che egli non aveva e non poteva avere; affermò che il Consiglio Generale non aveva confidenza che con lui, e che se la sezione non seguiva quella via che gli garbava, egli era investito del potere di discioglierla e di fondarne un’altra» (Dal Rapporto ufficiale della sezione di Napoli al Consiglio Generale, luglio 1871). Al contrario fu Bakunin a tentare un approccio con Mazzini. Sulla fine del 1869, infatti, trovandosi a Lugano cercò di incontrare Mazzini; ma questi, che per lo meno era persona coerente, rifiutò di vederlo.

Dal novembre la sezione napoletana riuscì a dotarsi di un suo giornale, “L’Eguaglianza” che dichiarava di voler «propugnare esclusivamente la causa del lavoro, e gl’interessi economici, sociali e politici della classe operaia», ma di internazionalista aveva ben poco. Accanto al titolo spiccava il motto ufficiale di Mazzini: “Non diritti senza doveri, né doveri senza diritti”. Ci si potrebbe far notare che la stessa espressione si trovava scritta anche nel preambolo degli Statuti Provvisori dell’Internazionale, redatti proprio da Marx; a questo proposito ripetiamo il noto passaggio della lettera che Marx aveva scritto ad Engels il 4 novembre 1864: «Tutte le mie proposte vennero accettate dal sottocomitato. Solo venni obbligato ad inserire nel preambolo dello Statuto due frasi su “doveri” e “diritti”, e così pure su “verità, morale e giustizia”, che però sono così collocate da non poter arrecar danno».

Motto mazziniano a parte, “L’Eguaglianza”, trattando della questione sociale, adottò una estrema moderazione: accennando ai miserrimi salari, invitava gli operai a non abusare dell’arma degli scioperi, poiché, ammoniva, ad ogni rincaro nel prezzo del lavoro corrispondeva un rincaro dei prodotti e quindi della vita, il cui peso graverebbe anche, anzi soprattutto, sugli operai consumatori; lo sciopero – che sarebbe da proclamare solo in casi eccezionali e quando le probabilità di successo si presentassero notevoli – avrebbe solo il merito di contribuire a sviluppare il sentimento di solidarietà fra i lavoratori.

Ma fu proprio l’esito positivo di uno sciopero, condotto dagli operai di una fabbrica di cuoi, a permettere una massiccia iscrizione di operai napoletani alla sezione dell’Internazionale, e, per riflesso, la costituzione della già menzionata sezione di Castellammare di Stabia, sede di grandi cantieri navali. L’organizzazione e la mobilitazione del proletariato che in questa vasta comunità operaia si sarebbe potuta realizzare dimostrò come la sezione napoletana dell’Internazionale disponesse di una reale e notevole forza. Una forza tale da preoccupare seriamente la polizia. Il prefetto di Napoli, D’Afflitto, il 31 dicembre 1869 si sentì in dovere di inviare al Ministero dell’Interno un rapporto sul movimento operaio in generale e, in particolare, sull’associazione aderente all’Internazionale. Da quel momento in poi il prefetto dedicherà molta attenzione allo sviluppo del movimento socialista «per le maggiori proporzioni che tutto dì andava assumendo».

In quel dicembre 1869 aveva fatto molta impressione un articolo del “Times” sulla Internazionale, ripubblicato poi da altri giornali. «Lo confessiamo, – scriveva il “Times” – sulle prime abbiamo riso di questa strana associazione. Si sarebbe mai creduto, quattro anni fa, che essa fosse destinata a rappresentare un ruolo così importante? Si sarebbero potuti predire i suoi rapidi ed inauditi progressi? Per trovare riscontro di una così formidabile organizzazione e di una simile propaganda, che fa migliaia e milioni di proseliti, bisognerebbe riandare ai primi tempi del cristianesimo». Non si sa se il prefetto di Napoli avesse letto questo articolo, ma di fatto si dimostrava molto preoccupato «per le funestissime conseguenze che ne potevano derivare», e, per quanto riguardava Napoli dichiarava che avrebbe compiuto «ogni sforzo per trovare il modo legale di scomporla e sgominare i fautori».

L’occasione “legale” il prefetto la trovò nello sciopero dei pellettieri scoppiato ai primi di febbraio. Per gli strascichi dello sciopero dopo un paio di mesi una quarantina di operai erano stati licenziati. In risposta a questa ritorsione padronale gli operai scesero nuovamente in lotta conducendo uno sciopero ad oltranza grazie anche all’aiuto della cassa di resistenza. Il 6 febbraio il prefetto, nel suo rapporto, comunicava di avere fatto arrestare i dirigenti della sezione dell’Internazionale «proprio quando erano intenti ad incitare gli scioperanti alla resistenza ed a raccogliere il denaro necessario ad alimentare le loro famiglie». Nel verbale del Consiglio Generale, seduta del 22 febbraio 1870, si legge: «A Napoli, senza che l’ufficiale di polizia producesse un mandato a questo scopo, nella sede dell’Internazionale è stata effettuata una perquisizione alla ricerca di documenti. Il presidente, il segretario ed un avvocato che protestavano contro questo atto illegale, sono stati arrestati». Però la debolezza organizzativa di questa associazione fu dimostrata dal fatto che bastò un mese di carcere comminato ad alcuni suoi dirigenti per provocarne il completo sfacelo. E questo senza entrare nel merito del comportamento personale di quei dirigenti.

Mazzini cercò immediatamente di trarre vantaggio della repressione statale e nel marzo scriveva ad un suo collaboratore: «I giovani della sezione universitaria [...] dovrebbero prendere di mira la numerosa associazione internazionale degli operai. È guasta da stolte idee socialiste [...] ma soprattutto dopo la persecuzione avuta, dovrebbero convincersi che le loro idee, quand’anche buone, non possono mai realizzarsi se non sotto un sistema di assoluta libertà da trovarsi soltanto nella repubblica». Nel maggio altra lettera ad altro suo collaboratore: «Non dimenticare l’Associazione Internazionale. Come corpo collettivo conosco i capi e ne so l’inefficacia; ma tra gli elementi operai che la compongono, hanno pure ad esser buoni, illusi, ai quali un dì o l’altro i fatti persuadano che la loro via non può condurre ai risultati pratici che essi invocano. Un piccolo gruppo di operai nostri che riusciste a formare dovrebbero occuparsi di quest’opera di disgregamento».

Sarebbe falso affermare che Mazzini non avesse più seguito in Italia, ma da queste sue lettere si comprende come si rendesse conto che ormai al suo partito mancava il terreno sotto i piedi e l’unica speranza di far proseliti era quella di approfittare della repressione statale. Il repubblicano Mazzini ed il prefetto D’Afflitto, rappresentante del potere monarchico, agivano con il medesimo intento: disgregare l’Associazione Internazionale.
 

Interessamento poliziesco

Il prefetto di Napoli, non avendo la possibilità legale di scioglierla, tentò di mettere in pratica le direttive di Mazzini, ossia «trasformare la società predetta depurandola della parte trista e riavviando al bene la maggioranza degli operai inconsapevolmente trascinata al male». Tramite un elemento di sua fiducia, certo Cristiano Tucci, si incaricò di ricostituire l’associazione composta, questa volta, da «onesti operai, alieni dalla politica».

Fu tale il suo attaccamento alla causa degli operai che si incaricò perfino di procurare loro una nuova sede. Ci sono due lettere (una del 2 aprile e l’altra del 5 maggio) inviate dal prefetto alle autorità cittadine al fine di ottenere la concessione di locali per questa “sua” società. Nella prima si dice:

     «La S.V. saprà certamente che da qualche anno era costituita in questa città la cosiddetta Associazione internazionale degli operai, la quale [...] influenzata da persone di dubbia fede politica, minacciava di divenire uno strumento potente in mano agli agitatori politici per turbare l’ordine pubblico e creare imbarazzi al governo. Saprà pure che [...] i capi della medesima nel febbraio ultimo [...] furono arrestati e processati. Avviene ora che gli operai associati, i quali, in sostanza, sono alieni dalle cose politiche, avendo compreso e riprovato gli intendimenti sovversivi [...] abbiano deliberato [...] di ricostituire l’associazione, modificandone gli statuti, e limitandola al solo scopo di mutuo soccorso [...] Ed è perciò che io mi rivolgo alla S.V., pregandola di conceder l’uso di qualche sala». Nella seconda richiede che venga concesso il refettorio dell’ex convento di San Severo «alla detta associazione e per essa all’artigiano Cristiano Tucci, che la rappresenta, e che mira a riformarla, riportandola a sani propositi [...] Mi auguro che Ella voglia accogliere la mia preghiera [...] penetrandosi dell’altissimo interesse che ho, onde il Tucci sia accontentato».
Dell’intrallazzo venne a conoscenza il Consiglio Generale di Londra che, nel verbale della seduta del 19 luglio, annota: «A Napoli una nuova sezione dell’Internazionale è stata costituita da agenti di polizia». Ma il piano del rappresentante del potere monarchico fallì in pieno perché, avuta la sede, ricostituita l’associazione, il Tucci venne smascherato ed espulso, ed il povero prefetto, in un suo successivo rapporto doveva ammettere: «Questo cattivo successo mi indusse a pregare confidenzialmente il Campitelli (sindaco di Napoli) a voler riprendere la sala che era stata provvisoriamente conceduta».
 

La guerra franco-prussiana

Contemporaneamente in Europa scoppiava la guerra franco-prussiana. La minaccia di una guerra era stata costantemente tenuta in considerazione dall’Internazionale ed il comportamento che il proletariato avrebbe dovuto assumere nei suoi confronti si trova formulato in modo chiaro nell’Indirizzo del Consiglio Generale all’Unione nazionale dei lavoratori degli Stati Uniti. In esso si affermava che la guerra

     «avrebbe avuto come risultato quello di fare retrocedere, per un periodo indeterminato, il movimento ascendente della classe operaia delle due sponde dell’Atlantico». Solamente i comuni oppressori avrebbero tratto vantaggio da una guerra scagliando gli operai di un paese contro quelli di un altro, allo scopo «di trasformare la nostra cooperazione internazionale in continuo aumento in una guerra intestina (...) Una nuova guerra, non santificata da uno scopo sublime o da una grande necessità sociale [Riferimento alla guerra civile americana per la fine della schiavitù - n.d.r.], ma sul tipo del Vecchio Mondo, forgerebbe le catene per i lavoratori liberi anziché spezzare quelle degli schiavi».
L’Indirizzo si chiudeva affermando che al proletariato
     «spettava il compito glorioso di dimostrare come oggi la classe operaia si accampa sulla scena storica non più come un servile subalterno ma come attore autonomo, cosciente della sua propria responsabilità e capace di imporre la pace quando i suoi pretesi dirigenti lanciano grida di guerra».
Nel corso della sua ultima seduta prima dello scoppio della guerra il Consiglio Generale pose in discussione l’atteggiamento del proletariato nei suoi confronti e Marx fece includere tra gli argomenti del successivo V Congresso il “nuovo esame dei mezzi per sopprimere la guerra”.

Come sappiamo lo scoppio della guerra non poté essere evitato malgrado che il proletariato dei due paesi avesse dichiarato apertamente la propria opposizione in nome dell’internazionalismo proletario. I loro documenti, nelle parti essenziali, vennero ripresi dal Consiglio Generale e pubblicati nell’Indirizzo del 23 luglio ai membri dell’Associazione Internazionale degli Operai in Europa e negli Stati Uniti.

I membri parigini dell’Internazionale il 12 luglio avevano reso pubblico un loro manifesto rivolto “Agli operai di tutte le nazioni” nel quale si affermava:

     «Ancora una volta, con il pretesto dell’equilibrio europeo e dell’onore nazionale, l’ambizione politica minaccia la pace del mondo. Operai francesi, tedeschi e spagnoli! Uniamo le nostre voci in un sol grido di orrore contro la guerra! [...] La guerra per una questione di preponderanza o di dinastia non può essere agli occhi degli operai che una pazzia criminale. In risposta agli appelli bellicosi di coloro che non pagano il tributo del sangue e che nella sciagura comune vedono soltanto una fonte di nuove speculazioni, noi protestiamo ad alta voce, noi che abbiamo bisogno di pace, lavoro e libertà! [...] Fratelli di Germania! La nostra discordia non avrebbe altra conseguenza che il trionfo completo del dispotismo su ambe le rive del Reno [...] Operai di tutti i paesi! Qualunque possa essere l’esito momentaneo dei nostri sforzi, noi, membri dell’Associazione Internazionale degli Operai, per i quali non esistono frontiere, inviamo a voi tutti, in pegno della nostra indissolubile solidarietà, i buoni auguri e i saluti degli operai francesi» (“Le Réveil”, 12 luglio 1870).
La voce degli operai francesi non mancò di trovare eco in Germania. Il 16 luglio un’assemblea di massa di operai a Brunswick si dichiarava perfettamente d’accordo con il manifesto di Parigi e respingeva ogni pensiero di ostilità nazionale contro la Francia approvando una risoluzione in cui si affermava:
«Noi siamo nemici di tutte le guerre, ma soprattutto di tutte le guerre dinastiche [...] Con profondo rammarico e con dolore ci vediamo costretti a partecipare a una guerra di difesa, come a una sciagura inevitabile. Ma nel tempo stesso chiediamo a tutta la classe operaia della Germania di rendere d’ora in poi impossibile la ripetizione di un così enorme disastro sociale, rivendicando per i popoli stessi la facoltà di decidere della pace e della guerra e di diventar padroni dei propri destini».
A Chemnitz un’assemblea di fiduciari, rappresentanti 50.000 operai sassoni, approvava all’unanimità la seguente risoluzione:
     «In nome della democrazia tedesca, e in particolare degli operai del partito socialdemocratico, dichiariamo che la guerra presente è esclusivamente dinastica [...] Siamo lieti di stringere la mano fraterna offertaci dagli operai di Francia [...] Memori del motto dell’Associazione Internazionale degli Operai: Proletari di tutti i paesi unitevi! non dimenticheremo mai che gli operai di tutti i paesi sono nostri amici e i despoti di tutti i paesi nostri nemici».
Il Consiglio Generale, nel proprio Indirizzo, affermava:
     «Qualunque possa essere il corso della guerra fra Luigi Bonaparte e la Prussia, a Parigi è già sonata la campana funebre del Secondo Impero. Esso finirà come è incominciato: con una parodia. Ma non dimentichiamo che furono i governi e le classi dominanti d’Europa che resero possibile a Luigi Bonaparte di rappresentare per diciott’anni la crudele farsa della restaurazione dell’Impero».
Aggiungeva:
     «Da parte della Germania, la guerra è una guerra di difesa». Il Consiglio Generale, allo stesso tempo, non tralasciava di ammonire i proletari tedeschi: «Se la classe operaia tedesca permette alla guerra presente di perdere il suo carattere puramente difensivo e di degenerare in una guerra contro il popolo francese, in tal caso tanto una vittoria quanto una sconfitta saranno egualmente disastrose. Tutte le sciagure piombate sulla Germania dopo la guerra di indipendenza, risorgeranno con accresciuta intensità». Concludeva: «I principi dell’Internazionale sono però troppo largamente diffusi e troppo profondamente radicati nella classe operaia tedesca perché noi dobbiamo temere un esito così funesto».
Con grande chiarezza, nel suo secondo Indirizzo del 9 settembre il Consiglio Generale affermava:
     «Se non ci siamo ingannati circa la vitalità del Secondo Impero, non abbiamo nemmeno avuto torto nel nostro timore che la guerra tedesca “perdesse il suo carattere puramente difensivo e degenerasse in una guerra contro il popolo francese”. La guerra difensiva ebbe termine, in realtà, con la resa di Luigi Bonaparte, con la capitolazione di Sedan e con la proclamazione della repubblica a Parigi [...]
     «La classe operaia tedesca ha appoggiato risolutamente la guerra, non avendo la possibilità di impedirla e l’ha appoggiata come una guerra per l’indipendenza della Germania e per la liberazione della Germania e dell’Europa dall’incubo opprimente del Secondo Impero. Sono stati gli operai industriali tedeschi che assieme agli operai agricoli hanno fornito i nervi e i muscoli di eserciti eroici, lasciando dietro a sé le loro famiglie quasi affamate. Decimati dalle battaglie all’estero, saranno decimati ancora una volta dalla miseria nelle loro case.
     «A loro volta essi esigono ora delle “garanzie”: garanzie che i loro sacrifici immensi non siano stati fatti invano, garanzie di aver conquistato la libertà, e che le vittorie da loro riportate sugli eserciti di Bonaparte non si trasformino in una sconfitta del popolo tedesco, come nel 1815. E come prima di queste garanzie essi esigono una pace dignitosa per la Francia e il riconoscimento della repubblica francese.
     «Il Comitato centrale del Partito operaio socialdemocratico tedesco ha pubblicato il 5 ottobre un manifesto, nel quale insiste energicamente su queste garanzie. “Noi protestiamo contro l’annessione dell’Alsazia-Lorena. E abbiamo la coscienza di parlare in nome della classe operaia tedesca. Nell’interesse comune della Francia e della Germania, nell’interesse della pace e della libertà, nell’interesse della civiltà occidentale contro la barbarie orientale, gli operai tedeschi non sopporteranno l’annessione dell’Alsazia-Lorena... Noi resteremo fedeli ai nostri compagni di lavoro di tutti i paesi per la causa comune internazionale del proletariato!”.
     «Sventuratamente, non possiamo contare sul loro successo immediato. Se gli operai francesi non sono riusciti a fermare l’aggressore in tempo di pace, possono gli operai tedeschi aver maggiore probabilità di trattenere il vincitore in mezzo al fragore delle armi? Il manifesto degli operai tedeschi esige la consegna di Luigi Bonaparte, come malfattore comune, alla repubblica francese [...] La storia proverà che gli operai tedeschi non sono fatti della stessa materia inconsistente di cui è fatta la borghesia tedesca. Essi compiranno il loro dovere».


L’Internazionale e la Comune

Continua l’Indirizzo del Consiglio Generale:

     «Insieme con loro, salutiamo l’avvento della repubblica in Francia, ma in pari tempo siamo presi da preoccupazioni che speriamo si avverino infondate. Questa repubblica non ha rovesciato il trono, ma ha solo preso il suo posto, rimasto vacante. Non è stata proclamata come una conquista sociale, ma come una misura di difesa nazionale. Essa è nelle mani di un governo provvisorio composto in parte di noti orleanisti, in parte di repubblicani borghesi [...] La divisione del lavoro tra i membri di questo governo non promette niente di buono [...] Alcuni dei loro primi atti provano abbastanza chiaramente che essi hanno ereditato dall’Impero non solo un mucchio di rovine, ma anche la sua paura della classe operaia. Se ora in nome della repubblica essi promettono con frasi altisonanti cose impossibili, non lo fanno forse con l’intenzione di preparare la campagna per un governo “possibile”? Non deve forse la repubblica, nell’intenzione di alcuni dei suoi governanti borghesi, servire solo come stadio di passaggio e ponte per una restaurazione orleanista? La classe operaia francese si trova dunque in una situazione estremamente difficile [...]
     «Ogni tentativo di rovesciare il nuovo governo nella crisi presente, mentre il nemico batte quasi alle porte di Parigi, sarebbe una disperata follia [...] Gli operai francesi utilizzino con calma e risolutamente tutte le possibilità offerte dalla libertà repubblicana, per rafforzare decisamente l’organizzazione della loro classe. Ciò darà loro nuove forze erculee per la rinascita della Francia e per il nostro compito comune – l’emancipazione del proletariato. Dalla loro forza e dalla loro saggezza dipendono le sorti della repubblica [...]
     «Chiamino le Sezioni dell’Associazione Internazionale degli Operai all’azione la classe operaia in tutti i paesi. Se gli operai dimenticheranno il loro dovere, se resteranno passivi, la presente tremenda guerra sarà annunciatrice di nuovi conflitti internazionali ancora più terribili, e porterà in ogni paese a nuove vittorie sugli operai dei signori della spada, della proprietà fondiaria e del capitale».
Sulla Comune di Parigi il partito, da Marx in poi, ha prodotto poderose analisi che ne hanno descritto gli aspetti e tratto gli storici insegnamenti: ci limitiamo qui a richiamare essenziali citazioni di Lenin in “Stato e Rivoluzione”.
     «Alcuni mesi prima della Comune, nell’autunno del 1870, Marx metteva in guardia gli operai parigini mostrando loro che ogni tentativo di rovesciare il governo sarebbe stato una sciocchezza dettata dalla disperazione. Ma quando, nel marzo 1871, gli operai si trovarono costretti alla battaglia decisiva ed essi l’accettarono, l’insurrezione divenne un fatto compiuto, Marx, nonostante i cattivi presagi, salutò con entusiasmo la rivoluzione proletaria [...] Non si limitò tuttavia ad entusiasmarsi per l’eroismo dei comunardi che, com’egli diceva, davano “l’assalto al cielo”. Nel movimento rivoluzionario delle masse, benché non avesse raggiunto il suo scopo, Marx vide una esperienza storica di enorme importanza, un sicuro passo in avanti della rivoluzione proletaria mondiale, un tentativo pratico più importante di centinaia di programmi e di ragionamenti. Analizzare questa esperienza, ricavarne delle lezioni di tattica, confermare, sulla base di questa esperienza, la sua teoria: questo il compito che Marx si pose. L’unico “emendamento” che Marx giudicò necessario apportare al Manifesto del Partito Comunista, lo fece sulla base dell’esperienza rivoluzionaria dei comunardi di Parigi».
Lenin ricordava poi come, nel 1872, Marx ed Engels avessero riconosciuto che
     «il programma del Manifesto del Partito Comunista “è oggi qua e là invecchiato” [...] La Comune specialmente – aggiungono – ha fornito la prova che “la classe operaia non può impossessarsi puramente e semplicemente di una macchina statale già pronta e metterla in moto per i suoi propri fini”. Il 12 aprile 1871, vale a dire precisamente durante la Comune, Marx scriveva a Kugelmann: “Se tu rileggi l’ultimo capitolo del mio 18 Brumaio troverai che io affermo che il prossimo tentativo della rivoluzione francese non consisterà nel trasferire da una mano ad un’altra la macchina militare e burocratica, come è avvenuto fino ad ora, ma nello spezzarla e che tale è la condizione preliminare di ogni reale rivoluzione popolare sul Continente. In questo consiste pure il tentativo dei nostri eroici compagni parigini”. La distruzione della macchina burocratica e militare dello Stato rappresentava la prima condizione di ogni reale rivoluzione popolare».
Commenta ancora Lenin:
     «Nell’Europa del 1871, il proletariato non formava la maggioranza del popolo in nessun paese del Continente. Una rivoluzione poteva essere “popolare”, mettere in movimento la maggioranza effettiva soltanto a condizione di abbracciare il proletariato e i contadini. Queste due classi costituivano allora il “popolo”. Queste due classi sono unite dal fatto che la “macchina burocratica e militare dello Stato” le opprime, le schiaccia, le sfrutta. Spezzare questa macchina, demolirla, ecco il vero interesse del “popolo”, della maggioranza del popolo, degli operai e della maggioranza dei contadini, ecco la “condizione preliminare” della libera alleanza dei contadini poveri con i proletari».
Marx costatava che gli operai e i contadini erano egualmente interessati a spezzare la macchina statale e che li univa la necessità di sopprimerla e di sostituirla con qualche cosa di nuovo, ma con che cosa? Lenin risponde:
     «A questa domanda Marx non dava ancora, nel 1847, nel Manifesto del Partito Comunista, che una risposta puramente astratta; per meglio dire indicava i problemi e non i mezzi per risolverli. Sostituire la macchina dello Stato spezzata con una “organizzazione del proletariato come classe dominante”, con la “conquista della democrazia”: questa era la risposta del Manifesto del Partito Comunista. Senza cadere nell’utopia, Marx aspettava dall’esperienza di un movimento di massa la risposta alla questione: quali forme concrete avrebbe assunto questa organizzazione del proletariato come classe dominante e in che modo precisamente questa organizzazione avrebbe coinciso con la più completa e conseguente “conquista della democrazia”.
     «La Comune – scrisse Marx – non doveva essere un organismo parlamentare, ma di lavoro, esecutivo e legislativo allo stesso tempo [...] Il suo vero segreto fu questo: che essa fu essenzialmente un governo della classe operaia, il prodotto della lotta della classe dei produttori contro la classe appropriatrice, la forma politica finalmente scoperta, nella quale si poteva compiere la emancipazione economica del lavoro [...] Senza quest’ultima condizione, la costituzione della Comune sarebbe stata una cosa impossibile e un inganno».
Permaneva la necessità di reprimere la borghesia e di spezzarne la resistenza. Per la Comune era particolarmente necessario affrontare questo compito, e il non averlo fatto con sufficiente risolutezza è stata una delle cause della sua sconfitta.
 

La Comune e l’Italia

Sappiamo quale fu il feroce, sanguinario epilogo della rivoluzione parigina; ciò non toglie che, come ebbe a dire Marx, fosse stata «la prima rivoluzione in cui la classe operaia sia stata apertamente riconosciuta come la sola classe capace di iniziativa sociale [...] Sotto gli occhi dell’esercito prussiano, che aveva annesso alla Germania due provincie francesi, la Comune annetté alla Francia gli operai di tutto il mondo».

La Comune ebbe infatti una enorme ripercussione ovunque. Per l’atteggiamento assunto dalle classi in lotta caddero d’un tratto tutti gli equivoci, la borghesia gettava la maschera ed abbandonava di colpo le pose assunte fino a quel momento: filantropiche, egualitarie, socialisteggianti. Non a caso Mazzini, con il suo “Dio e popolo” prese aperta posizione di condanna contro il proletariato parigino. La Comune generò una frattura fra le classi sociali come mai fino ad allora. Schierarsi divenne inevitabile: o con il socialismo o con la reazione.

Naturalmente borghesi e fondiari di tutto il mondo si misero dalla parte della reazione. La stampa moderata (chi si trova al potere è sempre “moderato”), spargeva il terrore descrivendo a fosche tinte i crimini compiuti dai comunardi e ricordando che «il socialismo, il comunismo, tutti i deliri delle sette più avanzate minacciano la società». Era toccato alla Francia, ma sarebbe potuto toccare domani all’Italia solo che l’Internazionale fosse riuscita a suscitare nelle plebi l’odio contro l’ordine sociale e la proprietà. Di conseguenza ogni sciopero, ogni manifestazione operaia venivano attribuiti ai diabolici disegni dell’Internazionale; e si invocava il governo affinché prendesse provvedimenti per reprimere quelle organizzazioni che avessero dimostrato una qualche solidarietà con gli insorti parigini.

La stampa e l’intelligenza borghesi presero posizione contro quello che fu il primo esperimento di dittatura del proletariato, e, non bastandogli la denuncia del fenomeno rivoluzionario che si sperimentava a Parigi, si lanciarono in una scomposta campagna di calunnie. Sarebbe troppo lungo, e soprattutto inutile, trarre citazioni dalle pubblicazioni borghesi: letta una, lette tutte. Fra le tante questa è una efficace formulazione del “punto di vista” delle classi dominanti, la “Storia dell’Internazionale” di Tullio Martello: «La Comune di Parigi non fu una rivoluzione, fu l’agitazione furibonda e feroce della pazzia politica, fu un delirio di febbre socialista, fu un errore d’impressione nello stereotipo di una antica utopia [...] La Comune di Parigi non seppe che rimescolare il fango degli odii cittadini e svolgerne il miasma della vendetta [...] Fu il trionfo d’una letteratura immonda, d’una briaca filosofia che avevano depravato da vent’anni il popolo e le istituzioni». E molto peggio in altri autori e periodici.

Se l’Italia monarchica e conservatrice si schierava senza indugio dalla parte del governo di Versailles, l’altra Italia, quella rivoluzionaria e democratica, appoggiava incondizionatamente la Comune e tale l’atteggiamento del proletariato italiano e delle organizzazioni che al proletariato si riferivano. Comitati e gruppi politici nati spontaneamente si affiancavano alle vecchie Società Operaie rinvigorite da nuovo afflusso di giovani e prendevano una posizione decisa a favore della lotta del proletariato di Parigi. E questo atteggiamento non si limitò ai giorni della gloria, ma rimase inalterato anche dopo la sconfitta della Comune.

La Società Democratica Internazionale di Firenze fu la prima che si schierò netta con gli insorti. Questa associazione si era costituita l’anno precedente, nel 1870, ed immediatamente era stata messa sotto stretta sorveglianza da parte della polizia, la quale accertò che il suo scopo segreto era quello di «spingere la gioventù all’azione, preparando fin d’ora il terreno pel trionfo della repubblica universale e per l’attuazione del socialismo». La Società Democratica Internazionale inviò, “ai cittadini della Comune di Parigi”, il seguente Indirizzo: «Commossi dalla lotta eroica che si combatte oggi in Parigi e che voi dirigete al compimento inesorabilmente logico della grande rivoluzione del 1789, noi, vostri fratelli della democrazia universale, vi rivolgiamo da queste piagge dell’Arno un saluto ed un augurio di vittoria. Parigi che col suo eroismo ha salvato in gran parte l’onore della Francia compromesso dai Seidi del capitolatore di Sedan, ora, Spartaco delle nazioni, combatte contro l’egoismo dei privilegiati della terra la gran battaglia della libertà e dell’abolizione del proletariato, questo servaggio del secolo XIX [...] Vittoriosi o vinti che siate, la vostra bandiera non sarà per questo che non sia la bandiera dell’avvenire [...] Il vostro principio della rivoluzione sociale sarà fra non molto il principio regolatore delle società moderne e per il quale noi, uomini ignoti, ci dichiariamo sin d’ora disposti a sacrificare averi, vita ed ogni cosa. Firenze 12 aprile 1871».

Ma tanti furono i giornali che presero partito a favore della Comune, tra i più noti possiamo ricordare “Il Gazzettino Rosa”, “La Favilla” di Mantova, “Il Presente” di Parma, “La Plebe” di Lodi, “La Canaglia” e “La Libertà” di Pavia, “Il Rubicone” di Cesena, “Il Romagnolo” di Ravenna, “Il Lavoro” di Bologna.

Quando ormai la Comune risultò inevitabilmente sconfitta “Il Gazzettino Rosa” il 20 maggio 1871 scriveva:

     «Le notizie che giungono di Francia lasciano poco o punto speranza di successo alle armi della Comune, perché Parigi è investita dall’esercito dei rurali di Versaglia, coadiuvato in mille modi dall’oste prussiano che quivi ancora accampa e sovviene i reazionari non solo di armi, munizioni e materiali, ma li giova eziandio montando artiglierie e disponendosi come ad un attacco [...] Il cannone dei versagliesi miete abbondanti le vittime in Parigi». E concludeva: «Un terribile domani aspetta [...] La Nemesi vendicatrice del popolo non lascerà a lungo insoluta l’opera vostra iniqua!». E “La Plebe” il 23 maggio: «I Saturnali della reazione stanno per compiersi [...] Dunque la repubblica sociale fu? No: La Repubblica sociale è e sarà. Consacrata da una lotta eroica e da un martirio immortale, la Repubblica sociale cade per risorgere più forte e più santa. Essa cade, ma l’idea sorta con essa, le sopravvive e si dilata».


Mazzini e la Comune

Per quanto riguarda l’Italia di particolare importanza è l’atteggiamento assunto da Mazzini di fronte alla Comune. In un primo tempo tutta la sua polemica si rivolse contro Thiers ed il Governo di Difesa Nazionale, ed infatti definì monarchico tutto il movimento confluito in Versailles. Però, se Mazzini aveva auspicato una insurrezione generale a carattere repubblicano in Francia, si arrestò immediatamente appena si accorse che la Comune ne assumeva uno schiettamente comunista.

A Mazzini sarebbe bastato ricordare queste poche parole da “La Rivoluzione” di Carlo Pisacane: «Libertà, patria, diritti sono vani nomi, sono amare derisioni per coloro dannati in perpetuo dalle leggi sociali alla miseria ed all’ignoranza [...] Sorrideva Metternich quando i sovrani si spaventavano della quistione politica; il suo arguto ingegno scorgeva che la vittoria era certa pel dispotismo finché la quistione non diventasse sociale». Visto che Mazzini si è sempre dichiarato aperto nemico della “questione sociale”, ne deriva che tutta la sua attività politica, il suo “apostolato”, erano in funzione della vittoria del dispotismo e della reazione.

Col tempo la sua polemica contro la Comune, e soprattutto contro l’Internazionale, divenne sempre più feroce; soprattutto perché vedeva le giovani generazioni orientarsi verso il socialismo e sfuggire alla sua influenza.

     «Mi fa stupire che un di noi possa aver simpatia per un elemento, l’Internazionale, dichiaratamente atea, e che ha, nei congressi, parlato di abolire la proprietà individuale, il matrimonio, ecc.; né che là stanno i veri nemici della repubblica e ch’è dovere dirlo [...] Farò io solo, contro tutti, questo dovere, e valga quanto può. Se ritraggo tre o quattro animi da questo abisso aperto nel nostro campo sarà sempre qualche cosa».
In altra occasione dichiarava:
     «Anche in Parma la Società Operaia è in crisi di dissolvimento: Comune, Internazionale, materialismo hanno guadagnato terreno. È un’invasione di ignoranti selvaggi che passerà; ma v’è di che aver dolore nell’anima».
Di fronte a questa entusiastica adesione della gioventù rivoluzionaria, Mazzini mostrava la sua natura di conservatore piccolo-borghese.

Il suo giudizio sulla Comune di Parigi fu di condanna senza appello. Dalle colonne della “Roma del Popolo” iniziò una metodica battaglia contro la Comune e, a cominciare dall’aprile, non uscì numero di questo giornale che non contenesse un suo articolo direttamente o indirettamente dedicato alle vicende francesi. La sua attitudine violentemente antisocialista non mancò di essere notata ed apprezzata dai suoi ex-“nemici” monarchici: “La Nazione” di Firenze si rallegrava scrivendo: «Siamo lieti, come italiani, che anche il capo del partito repubblicano abbia sentito il dovere di protestare contro gli eccessi di Parigi [...] Ci ha fatto piacere che il Sig. Mazzini abbia scritto come ha scritto» (10 luglio 1871).

Malgrado ciò Mazzini per primo si rendeva conto di combattere una battaglia ormai perduta e che il suo era ormai un partito che andava in sfacelo. Ultima sua speranza era riposta nell’aiuto della repressione poliziesca nei confronti di quelle organizzazioni che esprimevano simpatia verso l’Internazionale.

Se all’inizio Mazzini si era limitato a criticare gli “eccessi” dei comunardi, via via era passato ad un attacco sempre più diretto nei confronti dell’Internazionale, tanto che a questo punto una alleanza di fatto si determinò tra il suo partito ed il governo monarchico. Entrambi scatenarono la loro offensiva contro il comune nemico: da una parte l’offensiva politica, dall’altra quella poliziesca e repressiva.

L’alleanza tra repubblicani e monarchia forse non fu soltanto di fatto e vi fu pure intelligenza. Un esempio? La Società Democratica Internazionale di Firenze, che aveva lanciato un proclama a favore della Comune sconfitta a dei comunardi superstiti, il 23 giugno 1871 venne sciolta per ordine ministeriale. Ancor prima della emanazione del provvedimento un informatore di polizia, nel suo rapporto al questore, annotava: «Lo scioglimento è atteso con gran piacere dal Giannelli e i suoi amici mazziniani, che così organizzerebbero una nuova società democratica pura e semplice, senza tanti titoli d’Internazionale, che spiace a Mazzini ed al suo partito, e nella nuova organizzazione si escluderebbero gli elementi dissolventi e socialisti, federativi e comunisti».
 

La grande lezione

La persecuzione governativa si abbatté su tutte quelle società che avevano assunto posizioni radicali o ispirate al socialismo. Ma la repressione fu vana: da un capo all’altro dell’Italia si ebbero manifestazioni di solidarietà nei confronti dei proscritti e di adesione alla causa dei lavoratori allo stesso tempo che montava l’ostilità nei confronti del governo e della monarchia. Le società colpite da decreto di scioglimento si ricostituivano sotto altro nome, mentre ne nascevano continuamente di nuove.

Il 28 giugno 1871 Cafiero, in una lettera indirizzata al Consiglio Generale di Londra scriveva di aver ricevuto il seguente messaggio da Firenze: «Qui si va a gonfie vele a dispetto delle calunnie “moderate” contro l’Associazione Internazionale pei fatti di Parigi: gli associati crescono di giorno in giorno con proporzione veramente meravigliosa». Poi, nella stessa lettera, Cafiero dice di avere appena ricevuto da Firenze il seguente telegramma: «Avvertite amici di Londra nostra associazione, disciolta arbitrio ministeriale, si ricostruirà sotto altro nome».

     «Che cosa è l’Internazionale? – si chiedeva “Il Ciceruacchio” di Roma l’8 luglio 1871 – È un problema sociale, mille volte respinto e sempre rinato più formidabile e tenace, che batte alla porte dell’avvenire. È il soffio della vita nuova che rugge in mezzo ai rottami dell’edificio dinastico e teocratico, nunzio di vittrici riscosse».
Qualche decennio dopo, nel 1900, Andrea Costa in “Bagliori di Socialismo” rievocava le origini del socialismo italiano e lo spirito con il quale la gioventù italiana aveva sentimentalmente aderito all’Internazionale sulla spinta dei fatti di Parigi: «Il popolo italiano, occupato dalla questione nazionale, vedeva nello scioglimento di essa lo scioglimento di tutte le altre, la sociale compresa, di cui aveva certo il presentimento, se non la coscienza, giacché era credenza popolare che le terre, sbarazzate dagli Austriaci e dai Borboni, apparterrebbero al popolo. Ma perché la questione sociale si ponesse coscientemente, bisognava che le speranze suscitate dalla rivoluzione fossero svanite; che l’introduzione delle macchine e della grande industria in Italia avesse da un lato accumulati in poche mani capitali ingenti e dall’altro gettato sul lastrico migliaia di lavoratori; che le tasse e la concorrenza micidiale della grande industria avessero resi press’a poco impossibili i contadini proprietari e gli artigiani liberi, che la miseria ogni dì più crescente dimostrasse la inefficacia delle rivoluzioni politiche; in fine, e sopratutto, che le idee facessero il loro corso ed un grande avvenimento rilevasse ad un tratto la lenta trasformazione compiutasi nella coscienza popolare. Ciò avvenne in Italia – potremmo dire sotto i nostri occhi.
     «Oltre all’azione diretta esercitata dai membri italiani dell’Alleanza della Democrazia Socialistica e della Federazione napoletana dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, la Comune di Parigi fu quella soprattutto che rivelò al popolo Italiano che v’erano altri e ben più gravi problemi da discutere, da quelli in fuori che l’avevano occupato fin allora. Mazzini e Garibaldi cominciarono a parere invecchiati; Mazzini sopratutto si alienò la parte più calda e generosa della gioventù, cresciuta alla scienza nuova, infierendo contro alla Comune caduta, e attribuendo in gran parte alle teorie materialistiche le disfatte della Francia. Fu sul cadavere della Comune – feconda nelle sue rovine – che s’impegnò la lotta fra lo spirito vecchio ed il nuovo; è dal sangue dei trucidati Comunardi che si trassero gli auspicii [...] Ricordate o compagni come aspettavamo le nuove da Parigi? Come cercavamo gli statuti di questa Associazione Internazionale? [...] Ricordate le nostre prime sezioni, i primi manifesti, i primi opuscoli? [...] i Fasci Operai incerti come cercanti la luce che coprirono in un batter d’occhio mezza Italia? [...] Noi ci gettammo in quel movimento, spinti assai più dal desiderio di romperla con il passato che ci opprimeva [...] piuttosto che dalla coscienza riflessa di quel che volevamo. Noi sentimmo che l’avvenire era là [...] Un volta infatti per quella via noi avemmo ben presto coscienza dell’esser nostro [...] onde l’accettazione inevitabile del programma dell’Associazione Internazionale, che poneva l’emancipazione economica dei lavoratori a fondamento del benessere materiale».
(Continua al prossimo numero)

 
 
 
 
 
 
 
 


Il movimento operaio negli Stati Uniti d’America
Capitolo 14, esposto a Torino alla riunione di settembre 2012 [RG114]


(Continua del numero scorso)

(Indice)


La A.F.L. prende forma


Sindacato d’industria e sindacato di mestiere

I minatori si distinguono negli anni a cavallo del secolo come uno dei settori più combattivi della classe operaia negli Stati Uniti d’America. Abbiamo raccontato dei violenti scontri che si accompagnavano inevitabilmente a qualsiasi lotta sindacale nel settore, per la brutalità e spietatezza del padronato delle miniere. Fu quindi a dir poco trionfale la notizia che apparve sulla stampa operaia della vittoria della United Mine Workers nello sciopero del 1897, la prima che il sindacato ottenne come organizzazione nazionale. Oltre 200.000 lavoratori delle miniere di Pennsylvania, Virginia, West Virginia, Ohio, Indiana e Illinois erano scesi in sciopero il 4 luglio 1897, paralizzando il 70 per cento della produzione di carbone del Paese. Per 12 settimane i minatori resistettero senza deflettere, e il 4 settembre la lotta ebbe termine con una sonante vittoria per i minatori: il 18 gennaio 1898 a Chicago fu firmato con il padronato nel suo insieme un contratto che costituiva il primo accordo nazionale che un settore importante stipulava con i suoi dipendenti. Un fatto che superava per importanza il risultato immediato della lotta, non di poco conto: vi sarebbe stato un aumento del 33% dei salari rispetto a quelli del 1893, e veniva definitivamente riconosciuta la giornata lavorativa di otto ore.

L’American Federationist dell’ottobre 1897 scriveva: «La vittoria dei minatori è un incoraggiamento per tutti i lavoratori». In effetti la U.M.W. passò da 8.000 iscritti prima della lotta a 117.000 nel 1900. Era stato anche un successo personale per John Mitchell, un giovane minatore con indubbie capacità di organizzatore, che era stato l’anima della lotta. Un successo che purtroppo Mitchell spese pochi anni dopo per vendersi al padronato, come vedremo più avanti.

Ma i dirigenti della A.F.L. non mostrarono grande entusiasmo. E si può capire il perché. I capi della Federazione erano preoccupati dal fatto che quella lotta vittoriosa avrebbe messo in evidenza l’efficienza del sindacalismo d’industria, che univa specializzati e non, lavoratori di tutte le fedi, colori e nazionalità. Non era il tipo di sindacato che caratterizzava l’A.F.L. la quale, proprio in quel periodo, si stava muovendo sempre più nella direzione opposta, ad organizzare soprattutto i lavoratori specializzati, in organizzazioni basate sul mestiere piuttosto che sul settore produttivo, indifferente, se non ostile, nei confronti dei lavoratori non specializzati o semi-specializzati, dei negri, delle donne, degli immigrati.

Per i capi della A.F.L. la storia del movimento operaio durante e dopo la crisi dell’1893 aveva dimostrato in modo definitivo che una federazione sindacale efficiente avrebbe dovuto fondarsi su una base di sindacati di mestiere, che unissero in primo luogo gli operai specializzati, i più decisi, che sarebbero rimasti nell’organizzazione sia nei momenti di piena occupazione sia durante le depressioni. L’idea che il sindacalismo di mestiere potesse essere obsoleto gli era inaccettabile, al contrario, l’esperienza recente avrebbe dimostrato che era il modello dei Cavalieri del Lavoro e dalla American Railway Union a non andare bene; basato sul concetto di unire tutti i lavoratori di un settore produttivo, senza discriminazioni riguardo a specializzazione, razza, credo, colore, sesso o nazionalità, si sarebbe dimostrato inadeguato a superare la crisi economica. Il sindacalismo di mestiere invece sopravviveva alle crisi e si riprendeva presto quando queste terminavano.

L’A.F.L. in effetti cresceva in quegli anni, per raggiungere nel 1901 quasi 800.000 iscritti; ma erano diversi milioni i lavoratori esclusi, in particolare i negri, gli immigrati, le donne, quelli che con un termine di slang erano chiamati underdog, i deboli, gli sconfitti.
 

Razzismo sindacale

Alla direzione dell’A.F.L. arrivavano in quegli anni continue proteste per le discriminazioni nei confronti dei negri; a queste i capi invariabilmente rispondevano che non era vero, che i sindacati che escludevano i negri non avevano nemmeno diritto di appartenenza alla Federazione, il tutto condito da sparate da comizio. Ma le dichiarazioni di principio non significavano niente se nella pratica, come avveniva, la discriminazione c’era eccome, e l’A.F.L. non faceva niente per impedirla, ma semmai la favoriva.

Nei primi anni di vita la Federazione pretendeva dai sindacati che desideravano affiliarsi che togliessero dai loro regolamenti qualsiasi riferimento al colore della pelle. Ma negli anni successivi, mentre formalmente la regola persisteva, la stessa A.F.L. consigliava ai nuovi aderenti, tolto dallo statuto il riferimento all’esclusione dei negri, di introdurlo poi nelle procedure di ammissione, in modo che di fatto i negri non potessero essere ammessi. Più tardi si cominciò a accettare sindacati che menzionavano la regola restrittiva anche nello statuto, al punto che alcuni sindacati che l’avevano tolta si sentirono autorizzati a reintrodurla apertis verbis.

D’altronde l’assenza di una esplicita esclusione non significava certo accettazione dei negri. Vi erano mille modi per tenerli lontani: quote di iscrizione troppo alte; richiesta di particolari licenze; proibizione ai negri di svolgere l’apprendistato, ecc. Inoltre, essendo la gran parte dei negri non specializzati, essi erano automaticamente esclusi dai sindacati di mestiere. Come risultato i negri che all’inizio del secolo militavano in sindacati affiliati all’A.F.L. erano solo 40.000 circa, e la metà apparteneva alla United Mine Workers. Inoltre la gran parte dei negri era organizzata in modo separato, in sezioni di colore, o, come dicevano con un altro termine di slang, in sezioni Jim Crow; che a loro volta erano discriminate all’interno del sindacato in quanto si vedevano negata rappresentanza nei livelli centrali.

Per Gompers in tutto ciò non c’era niente di male, in quanto si trattava solo del riconoscimento di una situazione sociale esistente: «Mentre l’A.F.L. non intende negare ai negri il diritto di organizzarsi, nemmeno sostiene che si possano dimenticare le barriere sociali esistenti». La colpa della scarsa presenza di negri nei sindacati affiliati all’A.F.L. «è colpa soprattutto dei negri stessi, in quanto troppo spesso hanno lasciato che i padroni li manovrassero contro i loro stessi interessi e contro quelli dei lavoratori bianchi». Questo era falso: il preteso crumiraggio dei negri, sempre sbandierato, si basava sul fatto che i padroni cercavano di utilizzare, importandola da lontano, manodopera negra quando una lotta li metteva in crisi; ma quando i lavoratori negri venivano informati che c’era uno sciopero, nella stragrande maggioranza o se ne tornavano a casa o si univano agli operai in lotta.

Dell’esclusione dei negri dai sindacati logicamente approfittava il padronato. E negli anni ’90 i negri che possedevano una specializzazione gradualmente diminuirono per l’azione combinata di padroni e sindacati (gli operai bianchi erano interessati a scacciarli dai mestieri migliori per prenderne il posto), e sempre più si trovavano come manovali nelle ferrovie, nell’edilizia, sulle navi. Negli anni a cavallo del secolo i negri si trovavano nelle posizioni più basse dei vari settori, e quando allo stesso lavoro ricevevano salari più bassi di quelli dei bianchi; ma di solito a loro erano riservate le mansioni più dure, malsane e sporche. Anche quando erano nei sindacati ne ricevevano poca protezione, al punto che molti sindacati tolleravano che gli operai negri potessero lavorare più a lungo e per salari più bassi.

L’atteggiamento razzista era però più diffuso tra la dirigenza dei sindacati di mestiere, e dell’A.F.L., che non tra gli operai. Infatti questi, anche nel razzista Sud, presto compresero che la politica di separazione andava soprattutto nel senso degli interessi dei padroni, cui non pareva vero avere la classe separata in modo da tenere i salari bassi grazie alla competizione che si sarebbe inevitabilmente sviluppata tra le diverse componenti. Un esempio significativo ci fu a Galveston, Texas, nel 1898, quando 2.300 portuali negri scioperarono per un aumento di salario; il loro posto fu offerto ai lavoratori bianchi, i quali rifiutarono «a qualsiasi prezzo... Noi appoggiamo i negri nelle loro richieste, e auguriamo loro successo». Che non ci fu perché dopo 4 settimane di lotta fu fatta cessare dall’intervento della milizia, uccisioni e arresti: ordinaria amministrazione.
 

Discriminati donne ed immigrati

Non molto diverso nel corso degli anni ’90 era l’atteggiamento della dirigenza dell’A.F.L. e della gran parte dei sindacati di mestiere verso i lavoratori nati all’estero. Era un atteggiamento di disprezzo e dichiarata ostilità, oltre a una politica tesa a ostacolare l’entrata degli emigranti nel Paese e nei sindacati. Ma anche se l’A.F.L. avesse voluto essere più disponibile ad organizzare questi lavoratori, la cosa sarebbe stata resa assai difficile se non impossibile dal fatto che questi nella stragrande maggioranza erano non specializzati o semi-specializzati. D’altra parte il problema non si poneva, in quanto i dirigenti dell’A.F.L. non erano certo interessati a organizzare i grandi numeri di lavoratori che arrivavano in continuazione in quegli anni da tutte le parti del mondo. Per Gompers (lui stesso nato all’estero) era un problema di “purezza razziale”.

Nel decennio 1890-1900 l’origine degli immigrati era cambiata: dai «volenterosi e intelligenti del Nord e Ovest dell’Europa» si era passati alle orde di «servili e degradati del Sud e dell’Est Europa, contraddistinti da crimine, malattie, povertà, sporcizia, e attitudine da schiavi a lavorare per quasi niente e vivere di ancora meno»: italiani, cechi, ungheresi, polacchi, lituani, russi, rumeni, ecc. E spesso portavano con sé una caratteristica ancora più tremenda: molti di loro erano anarchici o socialisti. Per questi motivi la Federazione si impegnò per ridurre o eliminare l’immigrazione da quei Paesi, per esempio sottoponendoli a un esame di alfabetizzazione, anche se nella propria lingua. Un’iniziativa dei capi che, per onor del vero, incontrò una forte opposizione all’interno della Federazione stessa, tanto che dovettero ritirarla.

Ma, nonostante la dirigenza della Federazione, nella sua crociata contro gli immigranti, cooperasse con organizzazioni reazionarie, con gli estremisti del Sud, con i razzisti nativisti e simili, il suo effetto sull’afflusso di immigranti fu ben poca cosa, anche perché il big business, l’economia che cresceva a ritmi superiori a quelli di tutti i paesi industrializzati, non era per niente dispiaciuto dell’arrivo di forza lavoro a basso prezzo. Riuscì però a rendere loro la vita difficile, tenendoli lontani dai sindacati con mille sotterfugi, non ultimo l’innalzamento della tassa di iscrizione, fino a $ 100, cifra altissima per un manovale appena arrivato e mal pagato.

La situazione delle donne nel sindacato non era molto diversa da quella di negri e immigranti. I sindacati le tenevano a distanza, anche se ben pochi ne proibivano l’iscrizione negli statuti; però con espedienti analoghi a quelli contro negri e immigrati, di fatto rendevano impossibile o quasi la loro iscrizione. Se le accettavano lo facevano solo per mestieri ai livelli più bassi, e ostacolandone l’ascesa professionale. E l’A.F.L., in nome di una poco solidale non ingerenza negli affari dei singoli sindacati di mestiere, faceva poco o niente per cambiarne l’atteggiamento. Le donne, dicevano, restano poco nel mondo del lavoro, appena possibile si sposano, fanno figli e lasciano il lavoro; quindi restano in fabbrica per mantenersi fino al matrimonio. Perché il sindacato avrebbe dovuto spendere soldi ed energie per organizzarle? Questa era una vecchia scusa, che poteva avere avuto qualche fondamento mezzo secolo prima, ma che adesso non valeva più. Grandi numeri di donne erano entrate nel mondo del lavoro nell’ultimo decennio del secolo, e la maggior parte di loro viveva del proprio lavoro, spesso mantenendo altri che dipendevano da loro. Ma, grazie anche all’ostruzionismo dei sindacati, erano pagate malissimo, sia perché svolgevano lavori mal retribuiti, sia perché a parità di lavoro ricevevano paghe più basse dei compagni maschi.

Se la situazione era dura per le donne bianche, lo era ancora di più per le donne di colore, che associavano i due tipi di discriminazione: se le bianche ricevevano per lo stesso lavoro di un uomo dal 25 al 50% in meno, le negre potevano essere pagate tra un terzo e la metà delle bianche; spesso non sapevano nemmeno quanto fosse la paga, semplicemente erano abituate ad accettare qualsiasi condizione.

Negli anni che seguirono il 1895 le caratteristiche fondamentali della American Federation of Labor erano tracciate, e rimasero praticamente immutate fino agli anni ’30. In tutti questi anni il principale obiettivo dell’A.F.L. fu il consolidamento di una “aristocrazia del lavoro”. Nonostante il periodico proclamare dei più sacri principi di solidarietà l’A.F.L. puntò ad organizzare soprattutto gli operai specializzati, rinunciando pertinacemente ai non specializzati; di fatto, operò per impedire l’organizzazione della stragrande maggioranza della classe operaia.

Perché fu preso questo atteggiamento, dopo che nei primi anni formativi la tendenza era stata ben altra? Di sicuro una spinta importante venne dal declino dei Knights of Labor; fino a quel momento l’A.F.L. aveva dovuto fare i conti con una organizzazione che, con tutti i suoi difetti, aveva il pregio di accogliere effettivamente tutti i proletari, senza fare alcuna distinzione; doveva quindi dimostrare che non era da meno in termini di solidarietà. Ma dopo la caduta del K. L. non restava scelta se non sindacati affiliati alla Federazione.

Su un piano un po’ più ampio, e vista a distanza, la politica dell’A.F.L. fu una componente fondamentale di un programma di collaborazione di classe con il capitale monopolistico, dal quale otteneva un minimo di sicurezza e di benessere per i lavoratori specializzati a spese dei manovali e dei non organizzati. Vedremo come i suoi dirigenti andranno a braccetto con i trust, anzi ne diverranno i più strenui difensori, affinché i loro sindacati di mestiere si potessero ricavare nicchie di piccoli privilegi nel retrobottega dei megamonopoli. In cambio accettarono di non fare assolutamente niente per organizzare la stragrande maggioranza di lavoratori che i monopoli sfruttavano, appunto e soprattutto gli immigrati, i negri, le donne.

Questa aristocrazia operaia in Nord America aveva già ricevuto il disprezzo di tutti i marxisti, a cominciare proprio da Marx ed Engels che l’avevano descritta con riferimento all’esempio inglese, il quale per primo aveva alimentato simili strati operai, come conseguenza dello sfruttamento di altri popoli da parte del capitale metropolitano. Un complesso svilupparsi dell’economia capitalistica che poi Lenin definirà imperialismo. È proprio Lenin, nella introduzione del 1920 all’“Imperialismo”, a condannare il fenomeno con parole che non possono essere equivocate: «Questo strato di operai imborghesiti, di “aristocrazia operaia”, completamente piccolo-borghese per il suo modo di vita, per i salari percepiti, per la sua filosofia della vita, costituisce il puntello principale della Seconda Internazionale; e ai nostri giorni costituisce il principale puntello sociale (non militare) della borghesia. Questi operai sono veri e propri agenti della borghesia nel movimento operaio, veri e propri commessi della classe capitalista nel campo operaio, veri propagatori di riformismo e di sciovinismo, che durante la guerra civile del proletariato contro la borghesia si pongono necessariamente, e in numero non esiguo, a lato della borghesia, a lato dei “versagliesi” contro i comunardi». Altrove, nell’“Estremismo”, bolla l’aristocrazia operaia come “corporativistica, gretta, egoista, sordida, interessata, piccolo-borghese, di mentalità imperialistica, asservita e corrotta dall’imperialismo».
 

Il sindacalismo e i trust

Nonostante la Legge Sherman Anti-Trust, i monopoli nei settori industriali dell’economia americana aumentarono a ritmi impressionanti. Anche se la legge vietava la vecchia forma di trust come combinazione di singoli capitalisti, non era difficile aggirarla con nuove forme di fusioni, grandi corporazioni, partecipazioni, cartelli più o meno segreti, che insieme al potere di corruzione che il grande capitale poteva esercitare permettevano a pochi tycoon di continuare a dominare interi settori d’industria senza timore di essere contrastati. Inoltre le stesse dimensioni del grande capitalismo crescevano in modo impressionante: nel 1897 la capitalizzazione delle 82 più grandi corporations degli USA assommava a circa un miliardo di dollari; nel 1901 questa cifra era superata da una sola di queste corporazioni, la U.S. Steel, che risultava dalla combinazione del potere economico dei due principali capitalisti dell’epoca, J. P. Morgan e J. D. Rockefeller, che nel loro impero avevano anche petrolio, ferrovie, banche, ecc. Il vero governo americano risiedeva in Wall Street, da dove si controllavano politici, stampa, scuole, ecc. E da allora non si è più spostato, anche se vari attori della commedia democratica si sono succeduti.

Apparve ovvio che una tale concentrazione di capitale rendeva il nemico di classe sempre più forte e difficile da battere, una minaccia per il movimento operaio. Ma negli anni ’80 i sindacati erano stati esitanti nel prendere posizione contro i trust e nel richiedere una legge che li limitasse: il timore era che la stessa legge avrebbe potuto essere usata anche contro i sindacati. In effetti, dopo il 1890, quando la legge Sherman entrò in vigore, fu spesso usata, a discrezione dei tribunali, come antisindacale. Ma al passaggio del secolo ormai i sindacati non potevano più ignorare la questione. Il problema non era che i padroni si concentravano; quando era stato necessario lo avevano già fatto anche se temporaneamente. Il problema era che da parte della classe non era opposto un fronte altrettanto concentrato e deciso.

Nel 1896 un anziano organizzatore cercò di dare una scossa al sindacalismo americano con un articolo che parlava molto chiaro: si doveva provvedere a riorganizzare la struttura dei sindacati soprattutto nei settori di produzione di massa, quelli più interessati alla concentrazione di capitale e dove più presenti erano i semi-specializzati e i non-specializzati; si doveva lanciare una campagna per sindacalizzare tutti, e soprattutto quelli che per razza, nazionalità, sesso, credo, ecc. erano stati sino a quel momento tenuti a distanza; si doveva provvedere a unire in qualche forma i sindacati di mestiere delle industrie trustificate, perché piccoli sindacati non si dovessero trovare ad affrontare invincibili giganti; si doveva prevedere una completa protezione dei proletari in lotta, anche nel caso in cui fossero esclusi dal lavoro per serrate e liste nere; si doveva tendere ad allearsi con altre categorie in lotta contro i trust, quali agricoltori e piccoli commercianti; si doveva svolgere un lavoro divulgativo ed educativo nei confronti dei proletari, ma aperto a tutta la popolazione, per spiegare perché si doveva lottare contro i monopoli.

Queste raccomandazioni rimasero inascoltate, nonostante ricevessero molto sostegno nel movimento. Con aria di superiorità Gompers scriveva poco dopo: «Non capiscono che il trust non è che un’evoluzione della vecchia azienda individuale, che dopo fusioni, partecipazioni, incorporazioni e infine insiemi di corporazioni, diviene il trust: l’esperienza dimostrerà che c’è un potere che cresce... che si dimostrerà più potente nel trattare con il trust, o che se il trust possiede qualcosa di buono lo convoglierà nella direzione del bene comune... E quel potere è il tanto disprezzato movimento sindacale... Aspettate e vedrete».

Quello che si vide all’alba del nuovo secolo fu che i sindacati di mestiere erano stati ridotti al lumicino, piccoli, frammentati, presenti soprattutto nelle aziende minori. Se una qualche miserabile presenza restava nei più importanti settori industriali, questo fu perché avevano venduto, in cambio della corruzione di pochi, la possibilità di organizzare la grande maggioranza dei lavoratori. A pagare più di tutti furono i lavoratori dell’acciaio, il cui sindacato abbiamo visto fu fatto a pezzi dopo lo sciopero di Homestead del 1892; uno sciopero disperato del 1901 fu inesorabilmente sconfitto e di conseguenza il sindacalismo nel settore praticamente scomparve per un lungo periodo.

Il passaggio al sindacalismo d’industria non era cosa che i dirigenti dell’A.F.L. volessero nemmeno sentir nominare. Presto fu chiaro il significato delle parole di Gompers: il processo di formazione dei trust non aveva ridotto il potere contrattuale dei lavoratori specializzati in quelle industrie, al contrario sotto certi aspetti questo potere era aumentato. I non specializzati invece, semplicemente, per le loro caratteristiche, non erano sindacalizzabili.

La chiusura dei dirigenti l’A.F.L. nascondeva il timore che ampie organizzazioni di operai non specializzati avrebbero potuto imporre un freno alla loro politica di collaborazione; in poco tempo questi lavoratori, con la forza che erano in grado di esprimere, avrebbero messo in pericolo la composizione tradizionale della Federazione e la posizioni di privilegio dei suoi burocrati.
 

Idillio fra l’A.F.L. e i trust

I segnali verso una aperta collaborazione di classe non tardarono a manifestarsi. A fronte di campagne per il “vogliamoci bene” sui giornali padronali, i dirigenti federali non persero l’occasione per affermare, nel 1899, che «il movimento operaio organizzato non ha niente da temere dai trust»: i padroni avrebbero pagato migliori salari se avessero avuto la certezza di alti profitti, e condizione per questo era la riduzione del numero di aziende e quindi della concorrenza. Il ragionamento si spingeva molto avanti, fino a prevedere l’estensione del closed shop e piano piano la presa in carico da parte dei sindacati degli stessi trust; insomma, la via della collaborazione di classe al socialismo!

Purtroppo, come vedremo nella specifica trattazione degli aspetti politici del movimento operaio americano che il partito sta conducendo, non pochi socialisti, dal riconoscimento che la trustificazione della società fosse un evento positivo che oggettivamente la avvicinava al socialismo, ne facevano motivo di collaborazione di classe e fino a difendere i suoi profitti. Secondo questa visione i trust sarebbero stati pazzi a cercare di distruggere i sindacati invece di collaborare, perché altrimenti si sarebbero trovati a fare i conti con “rivolte selvagge e rivoluzionarie”. Questo è parlare chiaro! Come il linguaggio bonzesco fosse condiviso dalla borghesia industriale appare dai positivi commenti della stampa: «Il sig. Gompers ben conosce il sentire dei sindacalisti del paese, e di sicuro ne rappresenta correttamente il pensiero quando manifesta opposizione alla legislazione che tende a reprimere i trust». Il giornalista evidentemente non era al corrente delle reazioni che da tutto il Paese arrivavano al quartier generale dell’A.F.L. di Washington. I sindacalisti di base riportavano che i lavoratori, e in particolare nei settori in lotta per la sopravvivenza contro i trust, erano infuriati sulla definizione dei trust come un fatto positivo, quegli stessi trust che oltre ad affamarli cercavano di distruggere le loro organizzazioni di lotta. Gompers si prendeva di tutti gli epiteti, il più gentile dei quali era “mercenario di McKinley” (l’allora Presidente U.S.A.).

In particolare proprio in quei giorni della seconda metà del 1899 uno sciopero nelle miniere dell’Idaho, a Coeur d’Alene, di proprietà della Standard Oil Company, veniva represso dalle truppe federali chiamate dal Governatore Steunenberg. Seicento minatori furono arrestati senza alcuna prova o giustificazione e rinchiusi in condizioni terribili, grazie al sostegno dei giudici comprati dal trust come lo erano stati governatore, militari e sceriffi. I capi dell’A.F.L. sapevano bene tutto questo quando lodavano i trust, ma non ne erano turbati. Né si fecero convincere ad accondiscendere alla richiesta della Western Federation of Miners di indire una convenzione nazionale per protestare contro gli abusi della occupazione militare in Idaho. Un rifiuto che convinse la W.F.M. a rimanere al di fuori della A.F.L. e a fondare una nuova federazione sindacale nell’Ovest, la Western Labor Union.

Gompers non partecipò alla fondazione della National Anti-Trust League, promossa da personaggi politici e sindacali di tutta America, più di mille delegati da 31 Stati; al contrario, diffidò esplicitamente i sindacati aderenti alla Federazione dal partecipare, sotto pena di espulsione. Non esitò invece a partecipare alla fondazione della National Civic Federation, un comitato interclassista che si era già fatto le ossa in alcune città, come a Chicago. Il consiglio, scrisse il segretario, un uomo d’affari, a Gompers «era composto solo da uomini d’affari rappresentativi, conservatori e pratici, ed erano espressamente esclusi i politici di professione, i funzionari federali o di stato, i perditempo, le teste calde, i rivoluzionari». Lo scopo della N.C.F. era di «eliminare la lotta di classe riconciliando lavoro e capitale sulla base di ragione e comprensione». Che cosa significasse “ragione e comprensione” per i partecipanti era abbastanza chiaro: la Federazione comprendeva tutti i principali capitalisti che avevano dietro di sé storie di schiavizzazione di operai, di serrate, di lotte spietate per distruggere i sindacati, di liste nere e di persecuzioni di vario tipo. Né Morgan né Rockefeller erano presenti, ma le loro holdings controllavano la maggioranza delle aziende rappresentate nel consiglio, e quindi il loro controllo dell’organismo era completo. Vi erano 34 rappresentanti del mondo sindacale, naturalmente i più reazionari sul mercato, e un folto gruppo dell’A.F.L.; era su questi che i promotori dell’iniziativa puntavano perché questa riuscisse a funzionare. Come Gompers scrisse nella sua autobiografia: «Naturalmente la N.C.F. non serviva a niente senza il sostegno dell’A.F.L.».

Gompers e Mitchell ebbero due posizioni di rilievo nella Federazione. Come ebbe a scrivere il fondatore della N.C.F., lo scopo dell’organizzazione era quello di incanalare il movimento operaio su percorsi di conservazione sociale, privandolo di qualsiasi sembianza di radicalismo e combattività. I sindacati di mestiere sarebbero stati riconosciuti dalle industrie trustificate, naturalmente limitatamente a piccole percentuali di operai, a condizione che questi non si dessero da fare nell’organizzare la massa degli operai delle fabbriche e degli impianti; i sindacati non avrebbero dovuto mettere in discussione il controllo che il capitale finanziario esercitava sull’economia americana, né si sarebbero impegnati in politica, e in particolare in azione politica indipendente. Gli industriali, in cambio, avrebbero fatto alcune concessioni agli operai specializzati. La filosofia espressa dai sindacalisti si può riassumere in questa dichiarazione di John Mitchell: «Non vi è necessariamente ostilità tra capitale e lavoro. Nessuno dei due può esistere senza l’altro; ognuno dei due si è evoluto sulla base dell’altro... Non vi è nemmeno necessità di un fondamentale antagonismo tra operai e capitalisti... in senso lato, l’interesse dell’uno è l’interesse dell’altro, e la prosperità dell’uno è la prosperità dell’altro... Scioperi e serrate devono diventare superflui».
 

La guerra ispano-americana

Verso la fine degli anni ‘90 quella americana era un’economia che marciava a tutto vapore, e sentiva il bisogno di espandere in modo significativo i suoi mercati, oltre ad approvvigionarsi di materie prime a basso costo, forza lavoro compresa. Quest’ultima era fornita dall’immigrazione, che non accennava a diminuire. Ma, come recitava un rapporto di una commissione senatoriale del marzo 1898: «Il territorio libero è stato occupato, e anche se molto resta da fare, l’energia creativa del popolo americano non può più essere costretta entro i confini dell’Unione. La produzione ha superato il consumo, sia in campo agricolo sia manifatturiero, al punto che se non ci assicuriamo mercati esteri si produrrà una stagnazione».

Da tempo il capitalismo americano aveva messo gli occhi su una grande isola che si trovava a poche miglia dalle sue coste, un’isola ricca di risorse, Cuba, che era nelle mani di una potenza ormai decaduta, la Spagna. Sarebbe stata un’impresa facile, con grandi prospettive di affari, perché nel pacchetto sarebbero entrati anche Portorico, le isole Vergini, le lontane Filippine, con vantaggi anche geopolitici per le mire imperiali del giovane ma già avido capitalismo statunitense.

Partì quindi una campagna nazionalista, tesa a stimolare la simpatia per i cubani e per la causa della loro indipendenza, nella quale si distinsero i giornali di Hearst e di Pulitzer, che non a caso avrebbero avuto grande successo negli anni a seguire. Ovviamente i proletari, e i loro sindacati, simpatizzavano per qualsiasi popolo oppresso, e i cubani non facevano eccezione. Questo però non implicava che dovessero sostenere l’imperialismo e il militarismo di casa. I sindacati non potevano che assecondare il sentire dei proletari, anche se non sempre erano attenti a criticare la politica estera degli Stati Uniti, in particolare nei confronti dell’America Latina, dove di intromissioni nei vari paesi ce n’erano eccome, secondo i dettami della famosa Dottrina Monroe, e la penetrazione del capitale a stelle e strisce era già notevole fin dai tempi del Presidente Cleveland.

Lo stesso Gompers si scomodò a sentenziare: «Il lavoro non è mai per la guerra. Esso è sempre per la pace. È dalla parte della libertà, della giustizia e dell’umanità... Chi dovrebbe sostenere il peso di una guerra? Il popolo lavoratore. Essi pagherebbero le tasse, e il loro sangue scorrerebbe come acqua». Il movimento operaio univa la simpatia per la libertà dei cubani all’opposizione a qualsiasi acquisto territoriale, visto come una conquista militare implicante soggezione di popoli liberi. In tal senso vi era in quegli anni anche forte opposizione all’annessione delle Hawaii, che le manovre della borghesia avevano trasformato in uno Stato fantoccio del quale i politici locali periodicamente chiedevano l’annessione agli U.S.A.

Gli indugi furono rotti dall’esplosione del Maine, una nave militare ancorata nel porto dell’Avana, nella quale morirono 260 marinai. Il fatto fece scatenare la stampa guerrafondaia. Il governo decise che la colpa era degli spagnoli, e impose alla Spagna dure condizioni per evitare la guerra, condizioni che furono tutte accettate dalla Spagna. Ma tanta era la fregola per la guerra che il Presidente McKinley dichiarò la guerra nascondendo al congresso la capitolazione della Spagna. La guerra, dichiarata il 25 aprile, fu come era prevedibile poco più di una passeggiata, con relativamente poche perdite, tanto che con cinismo fu anche chiamata splendid little war, e il 12 agosto fu firmato l’armistizio.

Dopo la guerra fu svolta un’indagine sull’esplosione e si appurò che l’incidente alla USS Maine non era stato in alcun modo provocato dalla Spagna ma era dovuto ad un atto di incompetenza del capitano della nave che avrebbe autorizzato lo stoccaggio di esplosivi nei locali della caldaia. Questo ha fatto pensare ad un lesione autoinferta degli Stati Uniti per guadagnarsi il sostegno dell’opinione pubblica e un pretesto per la guerra. Qualcosa di analogo accadde, o meglio, fu lasciato accadere, quasi mezzo secolo dopo a Pearl Harbor. Ma casi analoghi sono quello dell’affondamento del Lusitania, nel 1917, e, secondo alcune ipotesi, le Torri Gemelle nel 2001. Anche in occasione della Guerra di Secessione il Nord attese che i sudisti bombardassero Fort Sumter prima di dare inizio alle ostilità. La Costituzione degli Stati Uniti, scritta dai Padri Fondatori, prevede che gli Stati Uniti non possano attaccare per primi uno Stato estero, se non per aiutare uno Stato amico che chiede aiuto. Unico organo competente nel dichiarare guerra ad uno stato estero è il Congresso. Da qui la necessità per le amministrazioni di presentarsi sempre come lo strumento del ripristino dell’ordine e di aver bisogno di un casus belli per dichiarare la guerra ad uno stato estero, senza dover sottostare alle decisioni del Congresso. Sempre che ritengano di scomodarsi a dichiarare una guerra, come nel caso della Corea e del Vietnam, e di mille altri interventi militari, pur facendola.

In seguito alla dichiarazione di guerra, la gran parte dei sindacati cedette alla febbre bellicista, tacendo o sostenendo apertamente il governo. Naturalmente i proletari, in assenza di vera informazione, erano nella maggioranza preda della propaganda guerrafondaia, che presentava l’intervento come una guerra giusta, progressista e democratica, per la libertà dei popoli. Ma vi fu anche chi argomentò che la bandiera che ora si chiedeva di onorare, e sotto la quale combattere, era la stessa che sventolavano i macellai di Homestead, Pullman, Brooklyn e Lattimer. Non erano i miliziani sotto i quali i proletari dovevano combattere quegli stessi che avevano sparato su proletari e popolani senza pietà? Il massacro di Lattimer risaliva a pochi mesi prima: una manifestazione di minatori prevalentemente stranieri (austriaci, ungheresi, italiani, tedeschi) nella cittadina della Pennsylvania era stata affrontata dallo sceriffo e da 100 delinquenti armati, poi definiti “vice-sceriffi”; costoro iniziarono a sparare senza preavviso sulla folla tranquilla e inerme, uccidendo 19 manifestanti e ferendone 35, la gran parte colpiti alla schiena mentre fuggivano. Nessuno fu condannato. Il fatto passò praticamente inosservato sulla stampa nazionale.

Naturalmente i dirigenti sindacali sapevano bene che si trattava di una guerra imperialista, e che i cubani avrebbero solo cambiato di padrone, annessione o no. Ma l’importante per i dirigenti al vertice era non dispiacere al padronato, non disturbare la luna di miele appena iniziata tra sindacalismo di regime e organizzazioni padronali. Gompers, che aveva definito la corsa alla guerra come una tragedia nazionale, ora esaltava la stessa guerra come “gloriosa e giusta”, perlomeno da parte degli Stati Uniti. Non poteva accettare di essere accusato, con la Federazione, di anti-americanismo, di mancanza di patriottismo, e quindi vantava il gran numero di iscritti che si erano arruolati, mentre ricordava che ai lavoratori spettava anche la giusta quota dei vantaggi che sarebbero scaturiti dalla vittoria.

Di fatto le condizioni della stragrande maggioranza degli operai e delle loro famiglie peggiorarono durante la guerra. Oltre all’assenza di una tassazione progressiva, vi fu un forte aumento del costo della vita, in particolare dei generi ostacolati dalla guerra come zucchero, melasse, tabacco e altri di forte consumo. La stessa A.F.L. ammise che la guerra aveva determinato in termini reali una diminuzione salariale del venti per cento.
 

I sindacati e l’imperialismo

Il 10 dicembre 1898 fu firmato a Parigi il Trattato che stabiliva l’indipendenza di Cuba, e la cessione, da parte della Spagna, delle Filippine, Guam e Portorico agli Stati Uniti d’America per la somma di 20 milioni di dollari. Anche se McKinley annunciava pochi giorni dopo una politica di “benevola assimilazione” nei confronti dell’arcipelago asiatico, gli americani dovettero combattere una lunga e sanguinosa guerra per ridurre alla ragione i filippini che dopo anni di guerriglia non avevano nessuna voglia di vedersi arrivare in casa un nuovo padrone, certo più agguerrito e spietato della Spagna.

Il movimento operaio fu sempre, con rare eccezioni, contrario alla deriva imperialista del capitalismo americano, e i dirigenti sindacali aderirono alla Lega Anti-Imperialista che fu fondata nel giugno 1898; Gompers vi aderì e, nel novembre dello stesso anno, a guerra finita, ne divenne vice-presidente. La posizione della Lega era in primo luogo di avversione a qualsiasi annessione; scatenarono quindi una campagna contro la ratifica del trattato, che in realtà riuscì a passare in senato per un solo voto. Ma la lotta contro l’imperialismo non andava oltre una condanna a parole delle sue manifestazioni più esteriori, le guerre, le conquiste militari, le annessioni. La Lega poi era ben lontana dall’essere una emanazione del movimento operaio ma piuttosto un’organizzazione interclassista, cui partecipavano molti borghesi anche eminenti, come Andrew Carnegie (cui ben presto gli altri capitalisti fecero capire con mezzi convincenti da che parte fosse il suo interesse).

Lenin nell’”Imperialismo” li definì «gli ultimi Moicani della democrazia borghese», incapaci di «riconoscere il legame indissolubile dell’imperialismo con i trust e per conseguenza anche con le basi del capitalismo». Invece gli esponenti della Lega, mentre identificavano l’imperialismo con le annessioni, non obbiettavano sulla penetrazione economica nei paesi coloniali e semicoloniali e sul loro controllo anche manu militari da parte del capitale monopolistico, dei trust, appunto.

In questo trovavano Gompers perfettamente d’accordo; solo obiettava che i lavoratori locali si vendevano a prezzo molto basso, in tal modo operando una concorrenza sleale nei confronti del proletariato metropolitano. Non gli venne mai in mente che quell’effetto era proprio una delle motivazioni dell’imperialismo. Così non si vergognò di manifestare i più triti sciovinismo e razzismo: l’espansione imperialistica avrebbe «potuto comportare un’alluvione di mongoli che avrebbero sopraffatto i lavoratori del nostro Paese»; quanto poi al popolo filippino, erano «forse più vicini alle condizioni di selvaggi e barbari dei popoli di qualsiasi altra isola in possesso di un’altra nazione civilizzata». Erano argomenti che alla fine rafforzavano le convinzioni degli imperialisti, che cioè si trattava di popoli talmente primitivi che erano incapaci di governarsi da sé.
 

(Continua al prossimo numero)

 
 
 
 
 
 
 
 


Il Marxismo e la Questione Militare
[Indice del lavoro]
Capitolo esposto a Firenze, riunione di gennaio 2011 [RG109]
 

Parte terza - Il capitalismo
E - La guerra di Crimea

(Continua dal numero scorso)
 

1. L’assetto uscito dal Congresso di Vienna

Nel piano di questo studio su Marxismo e questione militare è stata qui inserita la guerra di Crimea.

Marx vede in quella guerra ancora potenzialità anti-Russia feudale, come riportato nel nostro “Russia e rivoluzione nella teoria marxista”, in Il Programma Comunista, 23/1954:

     «14. Venga la guerra! (...) Con una lettera del 23 maggio 1854, intitolata ”Le imprese nel Baltico e nel Mar Nero e il sistema di operazioni anglo-francesi”, Marx traccia le prospettive della guerra: oltre alla operazione in Crimea, già in corso da parte di turchi, inglesi, francesi, coi reparti piemontesi inviati dall’abile intrigante Benso di Cavour, egli si prospetta la possibilità della guerra generale in Europa: questa fattrice gravida del feto rivoluzionario tarda sempre al gran parto, nella nostra attesa di un secolo, e in cicli drammatici miserabilemente abortisce (...)
     «“La vicenda della guerra è questa: l’Inghilterra, e specialmente la Francia, sono trascinate inevitabilmente quantunque con riluttanza ad impegnare la maggior parte delle loro forze nell’Oriente e nel Baltico, cioè in due ali avanzate di una posizione militare che non ha nessun centro più vicino alla Francia. La Russia sacrifica le sue coste, la sua flotta, parte delle sue truppe per indurre le Potenze Occidentali ad impegnarsi completamente in questo movimento antistrategico. Non appena ciò sarà accaduto, non appena il debito numero delle truppe francesi sarà mandato via in paesi molto lontani dal proprio, l’Austria e la Prussia si dichiareranno in favore della Russia e marceranno in un numero superiore su Parigi. Se questo piano riesce, non v’è forza a disposizione di Luigi Napoleone che possa resistere all’urto. Ma v’è una forza che può mobilitarsi da se stessa in ogni emergenza, che può mobilitare anche Luigi Bonaparte e i suoi seguaci, come ha mobilitati tanti reggitori prima di questi. Questa forza è in grado di resistere a tutte le invasioni, e lo ha dimostrato già una volta all’Europa coalizzate: questa forza, la Rivoluzione, è certo che non verrà meno, nel girono in cui la sua azione sarà richiesta”.
     «15. Sebastopoli all’o.d.g. - Anche quello era un periodo sterile come questo: la guerra di Crimea finì in episodio locale come la guerra di Corea, senza incendiare il mondo: una buona cazzottata fra le corde di un piccolo ring geografico (...)
     «La freddezza di quella guerra dava sui nervi a Marx, che non ne poteva più di veder prendere Sebastopoli, divenuta simbolo della forza militare russa con la sua disperata difesa. Egli scriveva il 14 ottobre 1854 queste parole.
     «“Sembra alfine che i francesi e gli inglesi, possano dare un colpo al potere e al prestigio della Russia, e noi in questo paese guardiamo perciò con un rinnavato interesse al movimento contro Sebastopoli. Come è naturale, i giornali inglesi e francesi fanno un gran rumore intorno a questa intrapresa e, se noi dobbiamo credere loro, nulla di più grande fu mai udito nella storia militare; ma quelli che esaminano i fatti specifici, gli inesplicabili indugi, le scuse senza senso che accompagnano la partenza della spedizione e tutte le circostanze che la precedono e vi sono connesse, non si lasciano ingannare. La fine dell’intrapresa può essere gloriosa ma il suo inizio si direbbe piuttosto sciagurato”.
     «Marx dunque più militarista dei generali inglesi e francesi? Così si domanderebbero quelli che si ostinano a confondere col pacifismo imbelle la posizione dei comunisti di fronte alle guerre. Oggi tutto il proletariato mondiale è imbestialito in una campagna sordidamente pacifistica, ma al tempo stesso anche nel centro russo di questo imbonimento internazionale non si desiste dall’esaltare glorie militari, come quella di cui Marx parla. Ma un momento! La questione è semplice: nel periodo storico 1789-1871 il marxismo approva date guerre, e una è quella di Crimea. Poi nel periodo 1914 passa a disapprovare e  a sabotare la guerra, da tutte e due le parti. Anche però quando le approvava, e incoraggiava, lo faceva da una parte sola! La approvazione della guarra da due parti al tempo stesso non troverà mai posto nel marxismo: essa è ammissibile solo per il più banale nazionalismo e sciovinismo borghese. Nella guerra di Sebastopoli si vedeva la gloria, concetto commestibile, per i lettori comuni, solo dal lato degli assediatori, ed era – bussola rivoluzionaria alla mano – una gran bella cosa che essi schiacciassero gli assediati.
     «Orbene, non molti giorni addietro le radiotrasmissioni hanno annunciato che solennemente il governo attuale di Russia, che ostenta ideologia marxista, ha conferito una altissima onoreficenza alla città di Sebastopoli, nel centenario dell’assedio, per celebrare la gloriosa sua resistenza! (...) Del resto gli stessi onori sono stati resi alla guarnigione di Port Arthur per la lunga difesa del 1905 contro i giapponesi, al tempo in cui Lenin, come Marx per Sebastopoli, fremeva perché la disfatta russa, come fu, scatenasse la rivoluzione, e faceva di quella resa l’espressione del fiaccarsi dello zarismo».

Si debbono anche leggere di Lenin: “Autocrazia e proletariato”, del 4 gennaio 1905, “La caduta di Port Artur”, del 14 gennaio, “La difatta”, del 9 giugno.

La storiografia borghese la valuta più un esercizio di alta strategia diplomatica fra le potenze europee che non per meriti militari, nonostante le consistenti forze in campo: per gli incredibili errori commessi i loro stessi specialisti la portano ad esempio di come non si conduce una guerra.

Dal punto di vista tecnico si ebbe l’uso di armamenti più efficienti e l’introduzione di nuovi. Significò altresì la fine dell’utilizzo della cavalleria e l’inizio dei combattimenti in trincea.

La nostra scuola la indica come prima guerra con caratteri imperialisti: per il numero degli Stati coinvolti e per gli obiettivi economici, del controllo dei mercati e delle materie prime, piuttosto che di conquista di territori. Comincia ad imporsi ad una matura produzione capitalista quella necessità di estendere i mercati che in seguito Lenin descriverà ne “L’imperialismo”: «I capitalisti si spartiscono il mondo non per la loro speciale malvagità, bensì perché il grado raggiunto dalla concentrazione li costringe a battere questa via se vogliono ottenere dei profitti. E la spartizione si compie “proporzionalmente al capitale”, “in proporzione alla forza”, poiché in regime di produzione mercantile e di capitalismo non è possibile alcun altro tipo di spartizione». Anche quegli eventi sono da interpretare sulla base di queste considerazioni.

All’indomani dell’abdicazione di Napoleone Bonaparte, il 6 aprile 1814, e del suo esilio all’isola d’Elba, i regnanti, che erano stati cacciati dai suoi eserciti rivoluzionari, ritornarono quasi ovunque, nella pretesa di poter considerare gli anni della conquista napoleonica come mai esistiti e di far tornare le cose esattamente al punto di prima. Le vecchie cariche di Corte, gli uffici di Stato e della Chiesa vennero ripristinati e riassegnati ai superstiti vecchi incaricati o a nuovi nostalgici dell’ancien regime. Questa restaurazione in generale non fu mal vista dai vari ceti dominanti perché significava “ordine e pace” e soprattutto controllo e repressione delle spinte rivoluzionarie. Ma niente poteva tornare allo statu quo ante.

Nel settembre dello stesso anno i vincitori della coalizione antifrancese si erano radunati a Vienna nel tentativo di dare una sistemazione il più possibile duratura all’Europa sconvolta da vent’anni di guerre e rivoluzioni. Un’atmosfera di lusso e feste, a dimostrare la incrollabile potenza di un ordine antico, occultavano la fragilità di un mondo feudale già vinto, incalzato da una borghesia che reclamava un nuovo ed a lei più adatto sistema sociale e politico, necessario allo sviluppo delle forze produttive che era in grado di mettere in moto. I diplomatici avevano due fondamentali problemi da risolvere: mantenere la pace fra gli Stati europei ed impedire il sorgere di nuovi moti rivoluzionari al loro interno. Le pesanti conseguenze economiche e sociali di nuove guerre fra gli Stati li avrebbero esposti ai moti rivoluzionari interni, soprattutto il multietnico Impero d’Austria. La pace interna era la condizione per la sopravvivenza delle antiche dinastie regnanti.

Il difficile compito fu svolto bene perché fino alla guerra di Crimea del 1854 non scoppiò alcun conflitto diretto tra le grandi potenze europee. La sistemazione uscita da Vienna durò sostanzialmente per un secolo fino alla Prima Guerra mondiale. All’immediato gli Stati poterono rivolgere tutta la loro forza verso i nemici interni: borghesia e proletariato, ancora accomunati in funzione antifeudale. Il Congresso di Vienna terminò i suoi lavori il 9 giugno 1815, dieci giorni prima della battaglia di Waterloo.

La geografia europea fu radicalmente modificata allo scopo di circondare la Francia di Stati cuscinetto, territorialmente consistenti e militarmente forti: i Paesi Bassi austriaci (il futuro Belgio) e il Lussemburgo furono uniti all’Olanda; la Prussia ottenne la Renania; l’Irlanda fu unita all’Inghilterra a formare il Regno Unito di Gran Bretagna ed Irlanda; la Russia si ingrandì a nord annettendosi la Finlandia mentre a sud, a spese del decadente Impero Ottomano, occupò la Bessarabia, la regione compresa tra il Dniestr e il Prut; infine la Germania costituì una confederazione di trentanove Stati presieduta dall’imperatore d’Austria. In Italia, il Regno di Sardegna unì al Piemonte la repubblica di Genova e la Liguria, potendo così sviluppare le sue ambizioni marinare; lo Stato pontificio fu restituito al Papa sotto protezione francese; il napoletano e la Sicilia tornarono ai Borboni come Regno delle due Sicilie; il regno Lombardo-Veneto venne posto sotto la dominazione austriaca mentre principi imparentati con gli Asburgo si installarono nei ducati di Parma, Modena e nel Granducato di Toscana.

Al Congresso di Vienna il Sultano turco non fu nemmeno invitato: rimaneva infatti non risolta la “questione orientale”, continuando a far parte dell’Impero i territori europei a sud della Sava e del Danubio, cioè tutta la penisola balcanica, tutto il Medio Oriente, gran parte dell’Africa settentrionale Egitto compreso. Così spiegava Engels: «Il vero pomo della discordia è sempre la Turchia europea, la grande penisola che si estende a sud della Sava e del Danubio».

Fu inoltre pianificata la spartizione delle aree di influenza e di dominio coloniale nel resto del mondo. L’Inghilterra se ne attribuì la parte maggiore espandendo il suo già vasto impero con il Canada, l’India, l’Australia e la Nuova Zelanda, vasti mercati per le merci che vomitava il suo avanzato sistema produttivo. Portogallo, Spagna e Francia, confermati i loro possedimenti e mercati, si espansero in misura proporzionata alla loro potenza economica.

Sul piano interno i singoli Stati emanarono più severe ordinanze di polizia e di censura sulla stampa allo scopo di bloccare qualsiasi forma di opposizione; sorgevano infatti ovunque società segrete che, pur con finalità assai diverse fra loro, avevano il comune scopo di ribellarsi ed abbattere l’ordine costituito.

Ma nulla poteva tornare come prima: il primo scontro, dopo Vienna, tra reazione feudale e rivoluzione borghese si ebbe il 1° gennaio 1820 a Cadice, con l’ammutinamento della flotta e delle truppe spagnole pronte a partire per reprimere le rivolte degli indipendentisti nelle colonie in Sudamerica; a luglio a Napoli e poi in Piemonte, tutte represse con forza. Le grandi potenze europee come risposta adottarono il “Principio di intervento”, cioè il diritto di agire militarmente contro gli Stati vittime di “mutamenti operati per vie illegali”.

La accelerazione sociale prodotta dal potente sviluppo della industria spingeva la borghesia ad affermare il suo ruolo di classe egemone, chiedendo però ancora il contributo del proletariato, sostenuta nel suo disegno dai grandi banchieri e finanzieri che man mano diventavano i veri padroni del mondo.

I moti insurrezionali del 1820, 1821, 1830 e 1848 in tutta Europa venivano ad urtare con l’ordine stabilito al Congresso di Vienna ed un nuovo assetto mondiale e nuove aree di influenza economica erano richiesti dalle maggiori potenze europee, Inghilterra in testa.
 

2. Espansione in Asia di Inghilterra e Russia

L’Inghilterra era in quel periodo la potenza economica e militare più sviluppata e potente al mondo per il suo enorme sviluppo industriale e per la consolidata rivoluzione politica in favore della borghesia. Lungo tutto l’Ottocento la politica inglese di intervento e di espansione nel Mediterraneo e nel Medio Oriente è incentrata sul complesso disegno di controllare le vie di accesso all’India, la “perla” dell’Impero per la sua importanza economica: studi attendibili dimostrano che fino al Settecento la ricchezza prodotta dall’India era la più grande al mondo.

Questa espansione verso oriente era destinata ad entrare in conflitto con quella verso sud della Russia. Gli anni nei quali la Gran Bretagna assume il controllo di importanti postazioni sono: Gibilterra 1704, Malta 1802, Aden 1840, Cipro 1878, e Suez nel 1882 con il protettorato britannico sull’Egitto. Dai porti della Siria partivano le vie carovaniere, poi anche tronconi di strade ferrate, attraverso l’Asia e fino all’India. Il controllo di Suez e la base di Aden garantivano la navigazione diretta verso Bombay.

La Russia nel suo antico nucleo originario era un territorio di grandi pianure chiuse a nord dall’Oceano Glaciale Artico e a sud da una corona di Stati. È attraversata da grandi fiumi, importanti vie di comunicazione: ma quelli che scorrono verso nord sono gelati d’inverno, molto più importanti quelli che sfociano sul Mar Nero, il Mare d’Azov e il Caspio. Primo il Volga: nei 3.570 chilometri dalla origine alla foce non scende che di 250 metri di dislivello, una pianeggiante autostrada d’acqua. Nei secoli, collegato attraverso due sistemi di canali al Baltico e all’Artico, ha unito l’Europa medioevale al Vicino Oriente, alla Cina, all’India.

L’economia russa, prevalentemente agricola, solo in epoca recente si era specializza nelle grandi monoculture estensive di cereali, persistendo una struttura sociale e produttiva ancora di tipo feudale che ne limitava fortemente l’ulteriore sviluppo. L’abolizione della servitù della gleba per 40 milioni di contadini avverrà “dall’alto” solo nel 1861. L’assenza di condizioni tecniche e culturali per una agricoltura moderna si traducevano in una scarsa produttività, controbilanciata con la storica tendenza ad acquisire territori, anche per il vitale obiettivo di raggiungere le coste e i porti necessari per inserirsi nei traffici mondiali.

Nei secoli XVI e XVII non aveva trovato difficoltà a raggiungere i mari del Nord; ad Est aggirare l’ostacolo dell’impero cinese spingendosi attraverso la Siberia fino all’oceano Pacifico. Ad Ovest la sua penetrazione invece risultava più complessa. Sia nei Balcani, per trovare uno sbocco sul Mediterraneo, sia nell’area iranico-afgana, per raggiungere l’oceano Indiano, entrava in conflitto con gli interessi degli Stati europei, Inghilterra in testa, proiettati alla conquista dei mercati orientali. Nella penisola balcanica la Russia sfruttava le ricorrenti crisi dell’Impero Ottomano con l’obiettivo di sostituirsi ad esso, in parte o in tutto, ma soprattutto di controllare gli stretti del Bosforo e dei Dardanelli.

Così Engels:

«Per governare in modo assoluto all’interno del paese lo zarismo doveva nei rapporti internazionali non solo essere invincibile, ma riportare continue vittorie, doveva saper ricompensare la sottomissione incondizionata dei suoi sudditi con l’ebbrezza sciovinistica delle vittorie, con sempre nuove conquiste» (“La politica estera dello zarismo russo”).
Quanto più profonda la crisi del suo sistema economico, basato sulla servitù della gleba, tanto più attiva diventava la sua politica estera, arrogante per il ruolo riconosciuto alla Russia di “gendarme internazionale” avendo resistito a tutti gli attacchi rivoluzionari. Decenni dopo commentò Lenin: «La guerra di Crimea aveva mostrato la putrefazione e l’impotenza della Russia feudale» (“Riforma contadina e rivoluzione proletaria-contadina” (Opere, Vol.XVII).

Nel frattempo Francia ed Inghilterra, per il loro maggior sviluppo produttivo, avevano soppiantato quasi del tutto la Russia nei mercati del Medio Oriente.

La politica dell’Inghilterra verso l’Impero Ottomano seguiva una linea solo in apparenza contraddittoria: attenta ad approfittare delle sue crisi per conquistare posizioni di controllo territoriale, ma anche pronta a sostenere la sua traballante integrità quando le crisi venivano a vantaggio dell’espansionismo russo.

La guerra di indipendenza della Grecia del 1821-29 è un esempio della prima situazione; qui Russia e Inghilterra, con l’appoggio della Francia ed il sostegno dell’opinione pubblica europea, si fanno paladine dell’indipendenza della Grecia ai danni dell’Impero Ottomano. Con la pace di Adrianopoli del 1829 e il trattato di Londra del 1830, oltre all’indipendenza del Regno di Grecia, la Russia ottiene l’autonomia del principato di Serbia, il protettorato su Moldavia e Valacchia e il possesso delle isole alla foce del Danubio; l’Inghilterra ottiene il possesso delle Isole Ioniche; per entrambe il libero transito delle navi mercantili attraverso gli Stretti.

La guerra di Crimea tra Russia e Impero Ottomano è invece un esempio della seconda situazione, quando Inghilterra, Francia e poi Regno di Sardegna e Svezia, con l’appoggio politico ed economico di Prussia e Austria, intervengono in aiuto dell’Impero Ottomano, tutte preoccupate dalla possibile presenza russa nel Mediterraneo ma soprattutto per impedirle il controllo degli Stretti.

Così Engels illustra la storica “ossessione inglese” per i mercati esteri:

     «L’Inghilterra non può permettere che la Russia venga in possesso dei Dardanelli e del Bosforo. Sia commercialmente sia politicamente una tale eventualità costituirebbe un colpo tremendo, se non mortale, per la potenza britannica. È sufficiente dare un’occhiata al commercio tra l’Inghilterra e la Turchia per rendersene conto. Prima della scoperta della rotta diretta per l’India, Costantinopoli era il mercato di un vasto commercio. E anche oggi, benché i prodotti indiani giungano in Europa via terra attraverso la Persia, il Turan e la Turchia, i porti turchi continuano ad essere il centro di un traffico molto intenso e sempre in aumento tra l’Europa e l’interno dell’Asia» (“Il vero motivo di contrasto in Turchia”, 12 aprile 1853). Secondo lo stesso articolo dell’”Economist”, le esportazioni britanniche dirette verso il Mar Nero, attraverso il Bosforo e i Dardanelli, erano passate da circa 1,5 milioni di sterline del 1840 ai 3,5 milioni del 1851 cioè un incremento del 246% in soli 11 anni!
     «Chi ha queste chiavi può aprire e chiudere a suo piacimento il passaggio a quell’estremo recesso del Mediterraneo. Qualora la Russia si impadronisse di Costantinopoli, ci si può forse attendere che lasci aperta la porta attraverso la quale l’Inghilterra ha invaso il suo impero commerciale (...) Ma sulle coste e sui porti di quel mare giungono anche merci e derrate che dalle pianure danubiane e russe, scendendo lungo grandi fiumi, partono per l’Asia e l’India e i porti turchi di Trebisonda e di Batum in particolare, agevole via attraverso l’Armenia per la Persia, nella sua sponda estrema asiatica importanti scali commerciali ambiti e pretesi dai russi (...)
     «Ed ora veniamo a considerazioni di carattere militare. L’importanza commerciale dei Dardanelli e del Bosforo ne fa anche posizioni militari di prim’ordine, cioè posizioni di influenza decisiva in qualsiasi guerra. Un punto simile è Gibilterra, come pure Helsingör sul Sund. Ma per la natura della loro ubicazione i Dardanelli sono ancora più importanti. I cannoni di Gibilterra e di Helsingör non possono controllare l’intero stretto su cui sono situati e richiedono l’appoggio di una flotta per chiuderlo, mentre i bracci di mare dei Dardanelli e del Bosforo sono così stretti che poche fortificazioni situate nei punti strategici e ben armate – quali la Russia, una volta impadronitasene, costruirebbe senza indugio – potrebbero sfidare le flotte congiunte del mondo intero, se queste volessero forzare il passaggio».
Ecco in breve e ben spiegato dal nostro Federico il nocciolo della questione.

Le due potenze si contendono i mercati anche nei territori del centro-sud dell’Asia. In Russia tra il ‘700 e ‘800 si sviluppa la manifattura del cotone sia a livello artigianale e domestico sia industriale. La maggior parte del cotone proviene dalla Persia, dove ritorna come prodotto lavorato, e l’attraversa per arrivare ai grandi mercati che insistono sull’Oceano Indiano e dell’India stessa. Per garantire questi flussi commerciali il dominio degli zar deve estendersi, attraverso il Caucaso, verso i territori del centro Asia, e deve soprattutto controllare non solo la Persia ma anche i passi e le valli afgane. Questa direttrice della Russia da nord verso il centro-sud dell’Asia ovviamente anche qui si scontra con le linee commerciali e coloniali inglesi aprendovi un secondo fronte.

La Tavola mostra l’espansione sistematica della Russia nella seconda metà dell’Ottocento, la continua marcia nel Turkestan dal 1854 al 1895.

La risposta inglese, secondo la “logica deduzione” del duca di Wellington, è sbarrare il passo alla Russia fermandola oltre le frontiere afgane. A partire dal 1837, partendo dai suoi possedimenti indiani, l’Inghilterra tenta la conquista dell’Afghanistan; il che però non riesce. La prima guerra in quelle vallate e impervie montagne, dal 1838 al 1842, finisce in una pesante sconfitta, forse l’unica subita dalla Gran Bretagna da parte di una popolazione non europea; anche nella seconda, del 1878-79, non ottiene alcun risultato concreto. In questo rapporto non affrontiamo questo teatro militare perché già oggetto di altro specifico studio del partito. Incapace di dominare le tribù afgane la Gran Bretagna elabora una strategia volta a dividerle e contrapporle. È l’ufficiale inglese Mortimer Durand che traccia nel 1893 una arbitraria linea di confine che non tiene affatto conto dell’originario stanziarsi delle etnie, appunto con l’intento di dividerle ed indebolirle. La linea Durand corrisponde ancor oggi al confine tra Afghanistan e Pakistan.
 

3. Il ruolo della Francia e l’inizio della guerra

Verso la metà dell’Ottocento il potenziale produttivo della Francia, con i suoi 36 milioni di abitanti, si avvicinava a quello dell’Inghilterra, con 32 milioni di abitanti, e in concorrenza commerciale con la Russia, allora con 61 milioni di abitanti, nei mercati del Medio Oriente. Luigi Napoleone, divenuto imperatore dei francesi nel 1852 col nome di Napoleone III, intendeva sia dar lustro e rafforzare il suo ruolo con una piccola vittoriosa guerra in Oriente sia fermare l’espansione russa e ridurne la presenza commerciale in Asia. Per questo secondo scopo stabilì un patto militare con l’Inghilterra contro la Russia, la quale vedeva respingersi tutti i suoi piani per una spartizione concordata tra le grandi potenze europee dell’Impero Ottomano.

In un intenso lavorio diplomatico ciascuno Stato cercava di battere sul tempo l’avversario e, al momento opportuno, trovare un credibile “casus belli”. Questo fu individuato in una secolare controversia religiosa tra clero cattolico e ortodosso per la custodia e protezione dei Luoghi Santi di Gerusalemme, sotto dominio turco. Insomma una “guerra santa”, la definì ironicamente Engels. Napoleone III rispolverò la Capitolazione del 1740 secondo la quale si ponevano sotto tutela francese gli interessi dei cattolici in Palestina e dei Luoghi Santi. In seguito, con accordi del 1757 e del 1774, le medesime prerogative erano state però attribuite, sotto pressione russa, alla chiesa ortodossa.

La Russia ricordò anche che, alla caduta di Costantinopoli nel 1453, fine del millenario Impero Romano d’Oriente, aveva ottenuto dal Sultano di estendere la sua protezione su tutti i cristiani ortodossi dell’Impero, 12 milioni di anime, prevalentemente abitanti nella penisola balcanica. I turchi lo contestarono e, dopo le consuete scaramucce diplomatiche, la Russia tra luglio e novembre del 1853 occupò facilmente la Moldavia e la Valacchia fino alla sponda destra del Danubio, regioni sotto sovranità turca ma di religione ortodossa. Così fornì alla Francia il pretesto per schierarsi a difesa dei Luoghi Santi. L’affondamento della flotta turca, sorpresa da quella russa nel porto di Sinope nel novembre di quell’anno, fu l’atteso fatto d’arme per giustificare la partenza delle navi francesi.

Lo zar Nicola I prevedeva che l’Impero turco non si sarebbe impegnato in una guerra per due regioni estreme, non di vitale importanza e non di popolazioni islamiche, anche se fertili pianure, con il rischio di perderne altre e più importanti. Contava inoltre che i sovrani di Austria e Prussia, suoi stretti alleati, non sarebbero intervenuti nel conflitto. Escludeva inoltre, per fatale miopia politica e arroganza militare, che Francia e Inghilterra si sarebbero coalizzate contro l’espansionismo russo per contendergli i traffici con l’Oriente.

Per contro la principale motivazione del fronte antirusso che andava costituendosi non era politico-strategica, di sconfiggere, tanto meno di abbattere, quel baluardo della controrivoluzione feudale, né mettere in discussione il precario assetto europeo sortito dal Congresso di Vienna, ma di impedirne di avvicinarsi al Mediterraneo e di rallentarne la marcia verso i mercati asiatici.

Queste determinazioni storiche si tradussero, da una parte, in intensi movimenti diplomatici pubblici e segreti volti a risolvere per altre vie la controversia e, dall’altra, in ordini ai comandanti generali contraddittori o vaghi. In questo atteggiamento ambiguo ben si distinse l’Inghilterra che mentre partecipava al conflitto, come alcune corrispondenze di Marx informano, manteneva intenso colloquio diplomatico segreto con la Russia.

     «Le potenze che governano non sono disposte a colpire al cuore, e se una guerra generale dovesse scoppiare, l’energia dei comandanti verrebbe incatenata in modo tale da renderli innocui. Se tuttavia si verificassero vittorie decisive, si farà in modo che ciò avvenga per puro caso, e che le conseguenze siano il meno dannose possibile per il nemico» (Engels, “La guerra europea”, 8 gennaio 1854).
Spiega poi così al termine di quella corrispondenza la causa di tanta prudenza:
     «Non dobbiamo dimenticare che vi è una sesta potenza in Europa, che a un dato momento può affermare la sua supremazia su tutte le cinque “grandi” potenze e farle tremare tutte quante. Questa potenza è la rivoluzione. A lungo silenziosa e in disparte, essa è di nuovo chiamata all’azione dalla crisi economica e dalla mancanza di generi alimentari. Da Manchester a Roma, da Parigi a Varsavia e a Pest, essa è onnipresente, solleva il capo e si desta dal suo sopore. Molti sono i sintomi della sua vita rinascente, ovunque manifesti nella inquietudine e nell’agitazione da cui il proletariato è preso. Un segnale soltanto è necessario e la sesta e più grande potenza dell’Europa si farà avanti in una scintillante armatura con la spada in pugno, come Minerva dalla testa di Zeus. L’imminente guerra europea darà il segnale e allora ogni calcolo sull’equilibrio del potere sarà alterato dall’aggiunta di questo nuovo elemento che, perennemente esuberante e giovane, manderà all’aria i piani delle vecchie potenze d’Europa con tutti i loro generali, come già fece tra il 1792 e il 1800».
Dieci giorni più tardi così concluderà un’altra corrispondenza:
     «Gli intrighi diplomatici vengono vanificati dallo scontro delle armi, mentre (...) la sanguinosa opera delle armi viene frustrata dall’opera segreta della diplomazia» (“L’ultima battaglia in Europa”, 19 gennaio 1854).


4. Austria, Prussia, Regno di Sardegna e Svezia

L’Austria, con 32 milioni di sudditi, altra potenza coinvolta nel conflitto, con difficoltà conteneva le spinte indipendentiste interne al multi-etnico Impero, sul fronte ungherese principalmente, mentre in Italia solo dal 1848-49 era terminata la breve prima guerra d’indipendenza. Sul fronte orientale aveva gran bisogno dell’appoggio della Russia, ma non poteva distogliere truppe dal lombardo-veneto, col rischio di perdere la ricca pianura padana in una possibile rivincita dell’esercito piemontese, più eventuali alleati. Non potendosi schierare contro lo storico alleato russo scelse la prudente posizione di attesa dando però sostegno economico e tecnico al fronte antirusso: qualunque fosse l’esisto della guerra non disdegnava la possibilità di allargarsi verso il Mar Nero, a spese dell’Impero Ottomano.

La neutralità dell’Austria fu anche il risultato delle minacce di appoggiare le sommosse in Italia da parte di Napoleone III il quale, mossa dopo mossa, divenne il regista di tutta l’impresa. A Napoleone III, cui l’unità italiana interessava poco o niente, si rese garante della sicurezza austriaca sul fronte italiano, riuscendo a coinvolgere il primo ministro sabaudo Cavour in un accordo capestro a tutto sfavore del Regno di Sardegna, peggiorato poi con la Seconda Guerra risorgimentale del 1859. Camillo Benso, che la retorica risorgimentale italiana definì grande “tessitore” diplomatico, sapeva benissimo infatti che le sole forze piemontesi e quelle eventuali degli altri staterelli italiani non sarebbero state in grado di opporsi a quelle austro-ungariche, ma soprattutto non voleva che fossero i democratici e i repubblicani a gestire l’unificazione dell’Italia.

Il prezzo del biglietto per sedersi al futuro tavolo delle trattative a fine guerra fu di inviare un forte contingente militare, armi e bagagli, nutriti in loco però a spese del provveditore britannico, senza nulla esigere come risarcimento se non la semplice richiesta di una seduta suppletiva a fine lavori in cui esporre alle potenze europee la situazione italiana.

Al comando di Alfonso Ferrero di La Marmora partirono così 15 mila soldati, di cui circa 2 mila morirono quasi subito di colera. Il resto delle forze sabaude non sarebbero state sicuramente in grado di attaccare nel Lombardo-Veneto. Il contingente, senza considerare i volontari italiani, è ben sproporzionato rispetto alla popolazione e all’esercito del Regno di Sardegna del tempo, specie dopo la recente sconfitta con l’Austria nella Prima Guerra di indipendenza del 1848. Il censimento del 1853-54 indicava una popolazione di 4.916.800 abitanti, dei quali a Torino 160 mila e a Genova 125 mila, con un esercito di 50 mila unità e 22 navi da guerra: quasi un terzo dell’esercito sabaudo venne tolto dalla frontiera con la Lombardia. L’1% della popolazione è impiegata nelle forze armate comprendenti anche quelle destinate a scopi di polizia interna, frontiere e dogane.

Della Prussia, allora con 17 milioni di abitanti, e del suo eventuale schieramento, Engels parla con disprezzo:

     «Allungherà tentacoli in ogni direzione, si venderà pubblicamente all’asta, tesserà intrighi in entrambi i campi, ingoierà cammelli e filtrerà moscerini, perderà quel poco di faccia che per caso le è rimasto, sarà sconfitta e infine venduta al miglior offerente, che in questo come in ogni altro caso sarà la Russia. Per la Russia non sarà un’alleata, ma un peso perché farà in modo di farsi distruggere preventivamente l’esercito per proprio conto e personale diletto (...) Se i generali russi non sono niente di speciale quanto ai prussiani, essi non hanno generali per niente; i loro ufficiali sono ereditariamente dei subalterni».
Sempre Engels:
     «Quando la Prussia adottò il principio che ogni cittadino dovesse essere un soldato, si fermò a metà strada e distorse quel principio, distorcendo in tal modo tutta la sua organizzazione militare» (“Gli eserciti d’Europa”, 1855).
Ciò perché un esercito di mestiere ha una struttura, un’organizzazione tecnica, un rapporto fra quadri permanenti e soldati stabilito secondo sue esigenze interne, con relativi costi, che non si adatta per nulla all’organizzazione di un esercito con leva obbligatoria. Questo per funzionare necessita di un sistema di quadri permanenti diverso e più esteso per la formazione dei cittadini e dei veterani. In questo modo la Prussia avrebbe potuto contare su un esercito di 1,7 milioni di abili alle armi, il 10% della popolazione; invece attraverso mille esenzioni, deroghe, rinvii, corruzione, ma in primis per la necessità di avere un esercito fedele al governo da utilizzarsi contro le sommosse interne, di fatto disponeva di un massimo di 200 mila uomini. La Prussia si accodò poi alla neutralità dell’Austria.

La Svezia fin dai primi tempi appoggiò il fronte antirusso senza intervenire direttamente nella speranza di rosicchiare alla Russia qualche posizione strategica nel Baltico.
 

5. Le forze in campo

Una descrizione accurata e precisa in tutti gli aspetti delle forze in campo è fornita da Engels in “Gli eserciti d’Europa” scritto nell’agosto 1855 (Opere, Vol.XV). Qui lo riprendiamo integrando con altri dati.

L’esercito russo su questo fronte disponeva in totale di 710 mila uomini ma era disperso su un vasto territorio, dalla Polonia al Caucaso, dove si parlavano ben sei lingue diverse; i soldati impiegati nei vari fronti dei Balcani, sulle coste del Mar Nero, in Crimea e nella Transcaucasia, erano inizialmente al comando del principe Menchikof, zelante sostenitore della “missione storica” della Russia.

La forza di questo esercito era solo nel numero perché tecnicamente era molto inferiore anche a quello turco. Ciò era principalmente dovuto alla limitata base produttiva russa ancora semifeudale, che male poteva raffrontarsi alla vigorosa industria francese e inglese. Gli eserciti di terra russi, su quelle grandi distanze, nemmeno usavano la ferrovia per il trasporto di truppe, armi, viveri e rifornimenti; né usavano il telegrafo per le comunicazioni; non disponevano di riserve addestrate per il completamento, avvicendamento e rimpiazzo delle truppe e non erano addestrate alla tecnica dell’assedio.

Cavalleria e fanteria rimanevano gli assi portanti dell’esercito. Come armamento usavano fucili di vecchia concezione con scarsa gittata e precisione rispetto i moderni “Miniè” con capsula, cartuccia e pallottola e canna rigata; i cannoni erano a canna liscia con gettata tre volte inferiore di quelli a canna rigata degli avversari e la loro artiglieria era nettamente inferiore a quella turca. I vascelli che usavano nel Mar Nero erano ancora prevalentemente a vela contro quelli a vapore del nemico e protetti con piastre metalliche. Furono invece i primi ad introdurre le mine navali.

In queste condizioni solo l’arroganza militare russa e il disprezzo per l’avversario poteva illudersi di prevalere anche solo sui turchi, che potevano riunire forze leggermente inferiori ma con artiglierie più potenti ed esperte.

L’esteso Impero ottomano, con 24 milioni di sudditi, era ovviamente composto da un insieme eterogeneo di forze: il grosso turchi, asiatici ed europei; egiziani e tunisini contribuivano con navi e cavalieri; le ingestibili tribù caucasiche, senza esperienza né attitudine per combattimenti su vasta scala ma adatte per la guerra in montagna. Sulla carta arrivava ad un totale di 410 mila unità, disponeva di ottime ed esperte artiglierie e fanteria; era diretto dal temuto per determinazione e durezza Omar Pascià, considerato uno dei migliori generali sul teatro, un serbo-croato che aveva presto per protesta disertato dall’esercito austroungarico cambiando bandiera.

L’esercito di terra francese con i suoi 600 mila uomini era considerato il migliore per equipaggiamento, organizzazione tecnica, quadri di comando e per la sua formidabile artiglieria erede dell’esperienza acquisita nelle guerre napoleoniche. Era ben ripartito tra 383 mila in fanteria, 86 mila in cavalleria e 70 mila in artiglieria con 1.200 cannoni. Da primo esercito di leva obbligatoria per “la patria in armi” aveva però poi concesso alle classi dominanti il privilegio di sottrarsi al lungo servizio militare pagando una certa somma e trovando dei sostituti. Questi, circa 80 mila all’epoca della guerra di Crimea, erano reclutati tra le “classi pericolose” ma una volta inquadrati sotto una disciplina rigidissima costituirono ottime truppe, come pure gli zuavi di origine africana, poi impiegati in quella campagna dove furono lasciati compiere saccheggi e atrocità di ogni tipo. Il comandante in capo fu Leroy de San Arnaud, vi furono però dimissioni e rimozioni a causa della disastrosa conduzione di quella che avrebbe dovuto essere solo una “scampagnata”.

Importante l’apporto della flotta, la più moderna del tempo, con le prime navi a vapore e propulsione ad elica che sostituivano quelle più lente a pale; intervenne con 49 vascelli nei mari del Nord, mentre nel Mar Nero bloccava il Bosforo e serviva da trasporto truppe e di appoggio alle operazioni di terra con bombardamenti dal mare.

L’esercito britannico è così valutato da Engels:

     «Come la Vecchia Inghilterra, è un sommarsi di clamorosi abusi; anche l’organizzazione dell’esercito inglese è marcia fino all’osso. Sembra che tutto sia predisposto allo scopo di prevenire qualsiasi possibilità di raggiungere il fine prefisso (...) Eppure ogni qualvolta che questa mole scricchiolante si mette in movimento, in un modo o nell’altro riesce a fare il proprio dovere (...) Poiché l’esercito inglese in tempo di pace non è altro che un insieme di quadri per l’assetto di guerra ed è reclutato esclusivamente mediante l’arruolamento volontario, non si può mai stabilire con esattezza la forza reale che possiede in un determinato momento (...) Crediamo tuttavia di poter valutare la sua attuale forza intorno a 120 mila soldati di fanteria, 10 mila di cavalleria e 12 mila di artiglieria con circa 600 cannoni (...) Di questi 142 mila uomini, 32 mila circa si trovano in Crimea, 50 mila in India e nelle colonie e i restanti 60 mila (metà dei quali sono reclute allo stato grezzo e l’altra metà è costituita da coloro che li addestrano) si trovano in patria (...)
     «Vi è una istituzione nell’esercito britannico che basta da sola a caratterizzare la classe da cui proviene il soldato britannico. È la fustigazione. Le punizioni corporali non esistono nell’esercito francese, prussiano né in parecchi eserciti minori (...) In Inghilterra, invece, il gatto a nove code è mantenuto in pieno, ed è uno strumento di tortura che non è da meno che del knut russo all’epoca del suo massimo splendore (...) Per essi un soldato non fustigato era un essere mostruoso. Il coraggio, la disciplina e l’invincibilità erano ai loro occhi, qualità esclusive di uomini che portano sulla loro schiena le cicatrici di almeno 50 frustate (...) Il soldato fustigato perde la stima dei suoi commilitoni (...) perciò quella stessa punizione che, secondo i suoi difensori, è l’unico mezzo per mantenere la disciplina in casi di emergenza, è proprio il mezzo per distruggere la disciplina in quanto distrugge il morale e il punto d’onore del soldato.
     «Ciò spiega due fatti molto curiosi: in primo luogo, il grande numero di disertori inglesi davanti a Sebastopoli. L’inverno scorso, quando i soldati inglesi dovevano compiere sforzi sovrumani per difendere le trincee, coloro che non erano in grado di restare svegli per 48 o 60 ore di seguito venivano frustati! (...) I migliori uomini dell’esercito, sopraffatti dalle fatiche, venivano frustati e, così disonorati, disertavano e passavano ai russi (...)
     «L’altro fatto è il palese fallimento del tentativo di costituire una legione straniera in base al codice militare inglese (...) La realtà è che l’esercito britannico è un’istituzione che serve a sistemare in posizioni rispettabili i figli minori dell’aristocrazia e della gentry (...) È nello stato maggiore che l’incompetenza degli ufficiali fa sentire i suoi effetti più perniciosi. Poiché non esiste un regolare addestramento per i componenti dello stato maggiore, ciascun generale forma il suo stato maggiore ricorrendo ad ufficiali di reggimento che ignorano del tutto del loro dovere. Avere un tale stato maggiore è peggio che non averne. Le ricognizioni, in particolare, avvengono senza la minima accuratezza, come non può che essere se sono effettuate da uomini che sanno a mala pena che cosa ci si aspetta da loro».
A conferma di queste considerazioni non ci meravigliamo che il comando generale fosse affidato a Lord Raglan, aiutante di campo di Wellington in Spagna e veterano della battaglia di Waterloo, dove aveva perso il braccio sinistro. Prese parte alla direzione delle principali battaglie in Crimea e, nonostante la scarsa capacità qui dimostrata, fu nominato maresciallo di campo; morì anche lui di colera a Sebastopoli. Un altro importante comandante fu lord Cardigan responsabile della disastrosa battaglia di Balaclava. Divenuto deputato a ventun’anni, si era comprato il grado di tenente colonnello, come d’uso all’epoca in Inghilterra, senza averne i requisiti. Protagonista di numerosi scandali in ogni dove, tra cui un duello combattuto con un’arma truccata, e nonostante fosse inviso in patria e nell’esercito, fu promosso di grado e mandato in Crimea; qui seguiva le vicende di guerra a bordo del suo yacht a vapore ancorato nel porto di Balaclava, dove riceveva i reporter del Times, mentre i suoi uomini crepavano di freddo e colera nelle trincee. Non a caso sia lord Raglan sia Cardigan sono ricordati non per le imprese militari ma per il tipo di abito che portavano. Pure il generale Montgomery nella Seconda Guerra mondiale è noto per un certo soprabito...

La flotta inglese, buona anche se non moderna quanto la francese, fu usata nel Baltico con circa 50 vascelli; nel Mar Nero intervenne, con la sua guarnigione, quella di base a Malta.
 

6. La successione degli eventi

Engels ci lascia una minuziosa analisi e commenti sulla guerra basati sui dispacci dal fronte. Vi era già un servizio postale con navi a vapore e compaiono i primi “corrispondenti di guerra” del Times.

Nonostante la superiorità del fronte antirusso la guerra fu sottovalutata, mal organizzata, con una collezione impressionante di errori strategici e battaglie del tutto inutili, e si concluse infine, sul piano militare, senza un nulla di fatto. Seguiamo qui gli avvenimenti più significativi

Dopo l’improvvisa e rapida avanzata russa fino alla sponda del Danubio, il cui attraversamento per entrambi gli eserciti avrebbe costituito un serio problema organizzativo e tattico, il Sultano nel settembre 1853 intimò alla Russia di ritirarsi. Mosse quindi le forze al comando di Omar Pascià a presidiare la riva del grande fiume e chiudere la strada per Costantinopoli. Rafforzò contemporaneamente il fronte transcaucasico, in difesa delle vie commerciali verso l’Asia che partivano da Trebisonda e specialmente da Batum. Sulla sponda opposta del Mar Nero la flotta turca fu distrutta da un attacco improvviso di quella russa nella battaglia navale di Sinope. La prima controffensiva turca per ricacciare i russi, nonostante la superiorità delle loro forze in quel teatro, non ebbe successo; furono poi sconfitti anche nella Transcaucasia presso l’importante roccaforte dell’odierna Kars.

Questi primi successi russi costrinsero Inghilterra e Francia ad accelerare manovre e preparativi, smentite le aspettative di una lenta guerra di logoramento con l’esaurimento dei due avversari, dopo di che con poco sforzo avrebbero risolto la controversia a loro favore.

Nel gennaio 1854 la flotta anglo-francese entrava nel Mar di Marmara, pronta a sostenere quella turca rinforzata dall’arrivo di quella egiziana. Questo bloccò le navi russe impedendo commerci, rifornimenti e rinforzi.

Formalmente la guerra fu dichiarata nel marzo del 1854.

Tra l’aprile e il maggio un primo corpo di spedizione anglo-francese di 50 mila effettivi fu immediatamente sterminato dal colera e dal tifo. Nonostante i rinforzi ricevuti l’esercito turco non riuscì a riconquistare l’area danubiana, altri sbarchi in Transcaucasia furono neutralizzati dal colera e dal fuoco dell’esercito russo, che prevalse una seconda volta.

Contestualmente l’Austria spostava un esercito consistente presso il confine russo minacciando di intervenire con l’obiettivo di impedire la concentrazione delle forze russe attorno al Mar Nero.

Durante l’estate del ’54 l’altra flotta franco-inglese, circa 90 navi da guerra, la più grande dopo il periodo napoleonico, attaccò fortezze e città costiere russe del Baltico, nel Mar Bianco e nella Baia di Arcangelo. La Russia dipendeva fortemente dal commercio attraverso il Baltico per i consumi alimentari, industriali, militari e minerari; il blocco di quelle vie marittime le era un pericolo mortale.

In importanti concessioni minerarie russe operava Emanuele Nobel, padre del più famoso Alfredo, che mise a disposizione le sue competenze in fatto di produzione di esplosivi a base di nitroglicerina e polvere nera, i cui minerali necessari erano estratti nelle miniere russe. Ciò dette un considerevole vantaggio nella produzione di esplosivi e un notevole volume di fuoco dalle fortezze, costruite in posti strategici e che resistettero a tutte le incursioni e a tutti i tentativi di sbarco.

L’introduzione delle torpedini aumentò la pericolosità e l’inviolabilità dei mari; in particolare quella di Sveaborg (Suomenlinn) di fronte ad Helsinki, ma specialmente quella di Kronstadt a protezione di San Pietroburgo, la cui caduta avrebbe dato l’opportunità per una possibile, ma non prevista, via di sbarco a nord. Ma la grande flotta alleata del nord non giunse ad alcun risultato concreto se non quello di distogliere dal Mar Nero consistenti forze russe. Non ci fu poi il tempo necessario per allestirne una nuova in sostituzione di quella fortemente colpita perché la guerra terminò prima.

In estremo oriente, nella Kamčatka una piccola flotta anglo-francese di una decina di navi nell’agosto 1854 assediò la piccola base russa di Petropavlosk, difesa da 250 soldati e altre centinaia di volontari civili. Nonostante la forte supremazia gli attaccanti furono respinti due volte subendo forti perdite durante i tentativi di sbarco; dopo una settimana di combattimenti a loro sfavore con una perdita di 500 uomini ripresero la via del ritorno mentre l’ammiraglio in capo si suicidava per la vergogna.

Ma l’euforia della Russia doveva presto raggelarsi. Le pressioni austriache cui si aggiunsero quelle prussiane e svedesi, ma soprattutto il nuovo assetto delle forze dopo l’arrivo delle flotte anglo francesi e i continui sbarchi di truppe, convinsero lo zar a ritirarsi dalla Valacchia e dalla Moldavia, poi occupate militarmente dall’esercito austroungarico con il consenso degli altri Stati. Si convinse quindi a concentrare le truppe e le operazioni belliche nella sola penisola di Crimea e nella Transcaucasia, rafforzare le frontiere con la Polonia e i paesi Baltici. Il suo enorme esercito doveva rimanere diviso su un fronte molto esteso; in più l’antiquata flotta russa si trovava bloccata nelle basi a nord di Kronstadt e Sveaborg, e a sud a Sebastopoli.

Il quadro si era ben presto capovolto, la Russia, con un apparato produttivo arretrato che si rifletteva sul suo esercito, ora si trovava da sola contro un’imprevista coalizione; in più il suo fronte interno approfittava di questa favorevole occasione per minacciare se non lo zarismo almeno l’antiquato sistema feudale.
 

7. L’assedio

Su pressione francese fu deciso di occupare e distruggere la base navale di Sebastopoli, all’estremità meridionale della penisola di Crimea, cittadella capace di resistere a forti attacchi e prolungati assedi.

Un contingente alleato di 60 mila uomini sbarcò a 50 chilometri a nord della cittadella. Pur senza incontrare resistenza, per rivalità e incomprensioni tra i comandanti inglesi e francesi ci vollero ben 5 giorni, dal 13 al 18 settembre, per completare l’operazione. Il principe Menchikov mostrò la sua incompetenza non attaccando gli invasori in quella vulnerabile posizione.

Sebbene disorganizzati, colpiti subito da colera e dissenteria, il 20 settembre si disposero per l’attacco alle forze russe, 38 mila uomini ben piazzati su un piccolo altipiano protetto da ridotte e artiglieria presso il fiume Alma. La precisione delle artiglierie e il successo della manovra francese decisero la battaglia, complice l’inerzia del comandante russo che non seppe contrattaccare a tempo giusto.

Dopo la battaglia, costata la perdita di ben 3.342 alleati e 5.709 russi, questi ripiegarono dietro il fiume Cernaia ad est di Sebastopoli. Attorno alla base si concentrarono tutte le forze alleate, la flotta francese nel porto di Kamiesh e quella inglese in quello di Balaclava ed iniziarono la difficile impresa di espugnarla.

Il grosso dell’esercito russo si trovava sulla frontiera occidentale disposto a contrastare un eventuale attacco, mai avvenuto, da parte di Austria, Prussia e Svezia.

Dopo la ritirata dei russi la guarnigione della fortezza fu praticamente lasciata a se stessa; l’ammiraglio Kornilov ne predispose la difesa, trasferì dalle navi i cannoni, gli equipaggi e tutto il materiale possibile all’interno della fortezza, già di per sé ben attrezzata, e ne affondò ben 26 a chiudere l’ingresso alla baia. Rafforzati i bastioni, ampliò le difese di terra mediante un sistema di trincee, introdotte qui per la prima volta secondo le indicazioni dell’ingegnere russo Ivanovic Totleben.

Gli alleati intendevano prendere d’assalto Sebastopoli, dopo un forte bombardamento da mare e da terra, prima dell’arrivo della brutta stagione, ma ogni tentativo fu vanificato dalle potenti difese russe. Incapaci di accerchiare l’intera roccaforte e concentrate le forze a sud, iniziò un assedio durato quasi un anno, dal 25 settembre 1854 all’8 settembre 1855.

La convinzione di poter in breve conquistare Sebastopoli si tradusse nel costruire malamente trincee e batterie fortificate che non resistevano al tiro dei cannoni della rocca, facendo così arretrare le linee di attacco alleate, sottoposte infine a efficaci sortite degli assediati. Durante il lungo assedio, soprattutto l’inverno, le sorti si capovolsero diverse volte, con gli alleati in serie difficoltà. Il “generale inverno” spadroneggiava, in una tremenda tempesta distrusse 30 navi da trasporto britanniche e non risparmiò nemmeno le truppe nelle trincee allagate e le linee di rifornimento degli assedianti. Questi cercarono anche di impiantare una linea ferroviaria per il trasporto dei rinforzi. La consistenza inglese, che secondo Engels non può più chiamarsi un’armata, scese a qualche migliaio di uomini e solo perché, dice, non c’è più posto negli ospedali dove farli morire; il debole Lord Raglan dà per persa la guerra non vuole rinforzi non sapendo cosa farsene. Anche le truppe francesi sono dimezzate ed insufficienti per continuare l’assedio tanto meno per un attacco. Uno stallo totale.

Attorno a Sebastopoli, durante il suo assedio, avvennero altri fatti bellici che concorsero a definire l’esito di tutto il conflitto.
 

8. La battaglia di Balaclava e la fine della cavalleria

L’esercito russo organizzò due controffensive nel tentativo di rompere l’assedio, una verso le linee di rifornimento e di riserva e l’altra alle truppe assedianti, senza però raggiungere mai alcun risultato utile.

La prima di queste, il 25 ottobre, fu la battaglia di Balaclava, entrata nella retorica e nel romanzesco come grande esempio di coraggio e valore mentre fu una prova dello scoordinamento e della inefficienza inglese, un combattimento del tutto inutile e che si concluse con un nulla di fatto.

Si intendeva attaccare il campo britannico di Balaclava, importante base di rifornimento alleato, prendendolo alle spalle. Il terreno consisteva di due valli divise da basse colline. Il comando generale britannico di Lord Raglan, che si trovava su un’altura di fronte all’imbocco delle valli, aveva una completa visione del campo, la quale mancava ai due comandanti, sia a quello della cavalleria pesante in una, sia a quello della cavalleria leggera nell’altra. Alcune ridotte su un’altura con cannoni navali erano tenute da truppe turche. Gli anglo-francesi erano circa 20 mila, le truppe russe 28 mila con 60 cannoni, ma penalizzate da cattiva disciplina, armi di qualità inferiore e comandanti scadenti.

Il comandante russo in seconda Liprandi, attraversato il fiumiciattolo Cernaia, diresse verso le ridotte difese dai turchi sulla collina, che sbaragliò facilmente provocandone la fuga. Aveva quindi la strada libera per occupare la valle meridionale, dove si trovava il comando di Balaclava, difeso dalla cavalleria pesante e da piccole formazioni di fanti di marina, la valle settentrionale, dove si trovava la cavalleria leggera, e tutte le alture del teatro, dove dispose l’artiglieria.

L’attacco russo si concentrò nella valle settentrionale, puntando su Balaclava, poco difesa. Le truppe inglesi si disposero a difesa attorno all’accampamento su solo due linee invece che sulle regolari quattro, “una sottile linea rossa”, per il colore delle uniformi, come scrissero gli inviati del Times dall’altura dove era il comando inglese. Detta espressione divenne il simbolo del sangue freddo dei soldati britannici, riusciti, in una situazione così sfavorevole, a respingere l’assalto della cavalleria russa. Incredibilmente i russi, respinti al primo attacco, non si riorganizzarono per un secondo assalto e desistettero.

Dal suo comando sulla collina Lord Raglan, vedendo che i russi stavano rimuovendo i cannoni dalle ridotte catturate ai turchi, inviò ai due battaglioni di cavalleria leggera nella valle settentrionale un frettoloso ed impreciso ordine di impedire la cosa. Ma a Lord Lucan, comandante la divisione di cavalleria, l’ufficiale latore del messaggio nella concitazione indicò invece un’altra postazione, in fondo valle, dove si trovava una batteria di 14 cannoni russi. Fu incaricato della prima carica Lord Cardigan che, dopo un violento alterco col suo superiore, intendendo la stupidità di quell’ordine, condusse in un folle attacco i suoi 673 della cavalleria leggera, seguita a breve distanza da quella di Lucan. Entrambi i versanti delle colline lungo i due chilometri della valle erano occupati dalle artiglierie russe e alla fine della valle erano ben piazzate la batteria e la cavalleria russe. Per non affaticare i cavalli si inoltrarono al trotto nella valle, per diversi minuti sotto il fuoco dai due fianchi. Dalle opposte alture il comando generale britannico osservava inorridito l’avanzata, i russi invece pensarono che, come altre volte, i generali inglesi fossero completamente ubriachi. Nel proseguo della guerra si diffuse la battuta, che Marx riporta: «l’armata inglese era composta da leoni, ma comandata da somari» (“I resoconti dei Generali Simpson, Pélissier...”, 1° ottobre 1855, Opere, Vol.XIV).

La seconda ondata della cavalleria di Lucan, vista la situazione, ripiegò subito indietro; tentarono inutilmente di avvisare Cardigan che ora avanzava al galoppo da solo con i suoi. Incredibilmente riuscirono a caricare le posizioni russe obbligandoli ad abbandonare la posizione e i cannoni; intervenne poi la cavalleria francese a proteggere i superstiti dal contrattacco. Nonostante la leggenda la brigata di Cardigan non fu annientata ma subì pesanti perdite: 118 morti, 127 feriti e 326 cavalli persi; solo 195 uomini, Cardigan compreso, erano ancora a cavallo. «È stato magnifico, ma questa non è guerra», fu il commento del comandante generale francese all’inutile e sconsiderata azione. Arrivarono poi i rinforzi di fanteria inglese ma nessuna azione fu intrapresa; la battaglia, costata 627 tra morti e feriti russi, 360 britannici e 268 francesi, terminò senza risultati per entrambi i fronti e i russi mantennero il controllo della strada e delle alture.

Si scatenarono poi violente le polemiche e gli scambi reciproci di accuse all’interno del comando inglese.

La battaglia di Balaclava mise in mostra i limiti raggiunti dalla cavalleria come arma di attacco e sfondamento: pochi fanti britannici avevano resistito contro la carica della cavalleria cosacca; la brigata di cavalleria leggera guidata da Cardigan fu decimata dalle postazioni russe. Da allora la cavalleria ebbe utilizzo solo per compiti di ricognizione, di copertura, per attacchi di alleggerimento o nelle guerre coloniali. Dieci anni più tardi, nella guerra di secessione americana del 1861-65 furono introdotte due tecniche militari: il sistema di difesa tramite trincee – nel solo assedio di Petersbourg del 1865 ne furono scavate ben 85 chilometri – e gli attacchi di alleggerimento della cavalleria e furono impiegate per la prima volta le mitragliatrici Gatling.

Nuove tattiche militari basate su acquisizioni della tecnica, in particolare l’artiglieria motorizzata e corazzata, segnarono la definitiva scomparsa della cavalleria il cui utilizzo nella Prima Guerra mondiale fu pressoché nullo. Nella Seconda nel 1939 vi furono una decina di cariche della cavalleria polacca contro i tedeschi mentre nel 1941 il reggimento Savoia Cavalleria, durante la spedizione italiana in Russia, ad Isbusenzkjj, presso il fiume Don, caricò con successo il nemico sfruttando l’effetto sorpresa. Questa viene considerata l’ultima azione di una cavalleria regolare nella storia militare.
 

9. Inkerman ed Eupatoria

Dieci giorni dopo Balaclava i russi tentarono la seconda offensiva per rompere l’assedio di Sebastopoli attaccando questa volta una parte delle truppe d’assedio inglesi stanziate a ridosso dell’altura di Inkerman, da cui si poteva bombardare con precisione il campo inglese.

Gli inglesi avevano commesso il grave errore di non proteggere adeguatamente la collinetta ponendovi solo una batteria con due cannoni e una piccola formazione non sufficiente ad impedirne la scalata e la conquista. Il piano russo era ben congegnato contando su una superiorità numerica di ben cinque volte: attaccare all’alba di sorpresa la collina di Inkerman, dopo la facile conquista, colpire di artiglieria il campo inglese, al momento opportuno parte della guarnigione di Sebastopoli avrebbe dovuto effettuare una sortita per attaccare alle spalle gli assedianti ora tra due fuochi mentre un attacco diversivo su Balaclava avrebbe impedito l’arrivo dei rinforzi.

Fu scelta la mattina del 5 novembre, era piovuto tutta la notte, una fitta nebbia nascondeva l’altura e la piana rendendo indistinguibili le uniformi grigie dei russi. La prima parte del piano, in quella che fu poi chiamata “la battaglia della nebbia”, col fattore sorpresa, l’oscurità e la nebbia, funzionò perfettamente ed iniziò il bombardamento del campo inglese mentre a Balaclava avveniva un finto attacco. Ma, nonostante lo scompiglio gli inglesi riuscirono a riorganizzarsi, la collina fu ripresa e ripersa alcune volte, entrambi i comandi smarrirono il controllo della situazione e la battaglia si ridusse a “zuffe diffuse”. Da Sebastopoli non poté giungere alcun valido aiuto. Verso le dieci un primo grosso attacco della fanteria russa sulla prima linea francese fu respinto e verso mezzogiorno i russi furono costretti a ritirarsi.

Fu una disfatta e un insensato macello per tutti. Alla battaglia parteciparono 8.500 inglesi e 7.500 francesi disponendo in totale di 56 cannoni, contro ben 45 mila russi con 110 cannoni. Le perdite fra gli alleai furono di 5.700 morti: 2.600 britannici, 1.400 francesi più 1.700 turchi tra morti e dispersi; fra i russi si stima vi fossero tra i 12 e 18 mila morti.

La guerra intanto si spostava sui tavoli della diplomazia, mentre si continuava a morire di malattie e di freddo.

Il 17 febbraio 1855 Menchikov tentò di impedire lo sbarco nella base navale di Eupatoria, già tenuta da mesi dagli alleati, a 100 chilometri a nord di Sebastopoli, di una fanteria turca di 30 mila uomini, trasferita dal fronte danubiano. I russi, pesantemente bombardati dall’artiglieria della flotta, furono poi respinti con gravi perdite dalla cavalleria e fanteria turca. Ma sul piano strategico cambiò poco o niente.

Questa sconfitta segnò la fine e della carriera di Menchikov e delle speranze russe di vincere la guerra. Alcune settimane dopo moriva lo zar Nicola I, malato e forse suicida.

Questo è il commento di Engels a quel punto della situazione, il 2 aprile 1855:

     «Gli alleati dovranno rassegnarsi a starsene confinati sul loro Chersone [antica colonia greca presso l’attuale Balaclava] finché non saranno abbastanza forti per avanzare con 100 mila uomini oltre la Cernaia. Ciò mostra il circolo vizioso in cui si muovono: quanto maggiore è il numero di uomini che fanno affluire in questa trappola pestilenziale, tanto maggiore è il numero che ne perdono per malattia; eppure l’unico modo di uscirne è di mandarvi più uomini.
     «L’altro espediente trovato per uscire dalla difficoltà – la spedizione turca ad Eupatoria – adesso risulta una perfetta duplicazione dell’errore originario di andare in Crimea. Le forze turche sbarcate ad Eupatoria sono di gran lunga troppo deboli per avanzare nell’interno. I trinceramenti intorno al luogo sono, a quanto pare, così estesi che la loro difesa richiede un’armata di 20 mila uomini (..) Ma 20 mila uomini non possono allontanarsi per più di poche miglia da Eupatoria senza esporsi ad ogni genere di attacchi sui fianchi e alle spalle e al rischio che vengano intercettate le loro comunicazioni con la città (...) In questo modo 10 mila russi piazzati ad un giorno di marcia dalla città, saranno sempre in grado di tenere in sacco i 40 mila turchi che vi sono concentrati (...)
     «I comandanti delle truppe alleate hanno gonfiato questa semplicissima vicenda trasformandola in una gloriosa vittoria. Vuol dire che non hanno nulla di cui vantarsi se cercano di impressionare il pubblico in maniera così sfacciata (...) Dopo aver perso 50-60 mila uomini, i francesi e gli inglesi sono tuttora assediati sul Chersone d’Eraclea e i turchi sono assediati a Eupatoria mentre i russi comunicano liberamente tanto con il lato nord quanto con il lato sud di Sebastopoli, le cui difese sono più forti che mai. Tale è il glorioso risultato di cinque mesi di esperimenti in Crimea!» (“I risultati delle operazioni belliche in Crimea”, Opere, Vol.XIV).


10. La battaglia della Cernaia

Il nuovo zar Alessandro II ereditò, fra l’altro, la guerra di Crimea la cui soluzione per la via diplomatica era stata sempre dal padre respinta, considerando inaccettabili le proposte anglo-francesi, soprattutto dopo che il suo esercito si era dovuto ritirare dai principati danubiani.

La guerra continuava perché le sue sorti non erano chiare a nessuno, né il suo scopo. Continuavano quindi l’assedio e i bombardamenti sulla fortezza di Sebastopoli, la quale continuava a resistere dietro i campi minati che la circondavano.

Nel giugno 1855 i britannici attaccarono il settore di Redan dove subirono gravi perdite senza ottenere risultati; altri tentativi di interrompere le linee di rifornimento russo attraverso lo stretto di Genitchi sul Mare d’Azov e l’istmo di Perekop non portarono serie conseguenze agli assediati.

Nella notte fra il 15 e 16 agosto intorno alle 3,30, contando sull’effetto sorpresa i russi mossero su due fronti: la prima colonna fu fermata sul fiume Cernaia dai bersaglieri piemontesi, quelli sopravvissuti al colera, attestati sulla riva destra; la seconda attraversò il fiume, ma nel successivo contrattacco francese lo dovette riattraversare in disordine. Alle 6 del mattino ci fu il secondo massiccio attacco direttamente sui francesi che lo contrastarono con forza ricacciandolo nuovamente al di là del fiume mentre veniva attaccato sul fianco dai bersaglieri. Alle dieci del mattino la battaglia era vinta, i russi erano in ritirata su tutta la linea attaccati dalla cavalleria piemontese ben protetta dalla loro artiglieria. A questa battaglia parteciparono 70 mila tra francesi e piemontesi al comando del generale Pélissier contro 58 mila russi del feldmaresciallo Gorcakov; le perdite tra morti e feriti gravi furono 1.800 francesi, 250 piemontesi e 2.400 russi.

Anche in questa battaglia dopo un primo momentaneo vantaggio dovuto alla sorpresa, l’esercito russo non riuscì a sostenere il contrattacco e si ritirò in disordine; non si trattava solo di svantaggio nell’armamento ma di organizzazione generale e disciplina. L’esercito e il comando francese sono i veri protagonisti di tutta la guerra, le forze del Regno di Sardegna con l’esordio dei bersaglieri in primi grandi scontri supera la prova del fuoco e viene considerato, pur nel numero limitato, al pari delle altre formazioni alleate.

Così Engels: «È la terza battaglia campale di questa guerra (...) contraddistinta per la sua brevità. Nelle guerre napoleoniche, ogni battaglia era segnata da un gran numero di scaramucce preliminari; ciascuna parte cercava di tastare il nemico prima di impegnarlo su punti decisivi e con masse decisive, ed era soltanto dopo che ciascuna parte aveva impegnato la maggior parte delle truppe che si tentava di sferrare il colpo decisivo. Qui invece assistiamo a nessuna perdita di tempo, a nessun combattimento per logorare il nemico; il colpo è vibrato subito, e dall’esito di uno o due attacchi dipende la sorte della battaglia. Sembra un modo di combattere ben più ardito che quello di Napoleone (...) In realtà rivela in entrambe le parti una grave mancanza di direzione e strategia (...) Ripetiamo in conclusione ciò che abbiamo detto più volte, cioè che il valore dei soldati e la mediocrità dei generali sono le principali caratteristiche dell’attuale guerra, su entrambi i fronti» (“La battaglia della Cernaia”, Opere, Vol.XIV).
 

11. La caduta di Sebastopoli

Dopo la battaglia della Cernaia le forze russe più non attaccarono in Crimea; quelle in Transcaucasia, mai seriamente ostacolate su quel teatro, avanzarono in Turchia fino alla strategica Erzurum, obbligando quelle turche a concentrarsi nella vicina fortezza di Kars, che posero sotto assedio.

     «Se Kars è la chiave che apre le porte di Erzurum, Erzurum è la chiave che apre le porte di Costantinopoli e il punto centrale dove confluiscono le linee strategiche e commerciali dell’Anatolia. Se Kars ed Erzurum cadono nelle mani dei russi, viene interrotto il commercio britannico via terra che passa per Trebisonda per dirigersi in Persia» (Engels, “La caduta di Kars”, Opere, Vol.XIV).
Nello stesso scritto è riferito che gli inglesi, dopo aver lì imposto il loro comando militare, non solo non sostennero i turchi ma incredibilmente impedirono il trasferimento di loro truppe nella zona, bloccarono i fondi messi a disposizione del Sultano per la guerra, non fornirono i necessari mezzi di trasporto per le sue truppe, quasi volessero farla cadere in mano russa, e Kars fu abbandonata al suo tragico destino.

Gli alleati invece concentrarono tutte le truppe dalla Cernaia su Sebastopoli, il cui punto critico fu individuato nella presa dei forti di Malakov e del Gran Redan, bastioni estremi che dominavano la cittadella. Questi forti furono oggetto di diversi attacchi durante l’assedio ma non furono mai presi; più volte a Londra arrivarono dispacci sulla loro caduta subito smentita da quelli russi e dai fatti.

I bombardamenti alleati producevano seri danni ai due forti, ma le loro difese, soprattutto gabbioni di legno contenenti terra e sassi per attutire i colpi dei cannoni, erano dai russi prontamente riparati durante la notte. Inoltre diverse corone di trincee e fossati e fitti cavalli di frisia, spuntoni di ferro e mine li rendevano inaccessibili, con le trincee alleate sottoposte al fuoco dell’artiglieria. Si decise per un assalto in massa delle truppe francesi e sarde al forte Malakov, e al Gran Redan degli inglesi. Il piano, poco diverso da quello dei precedenti insuccessi, già sulla carta appariva di difficilissima attuazione, ma al comando alleato non ne vennero proposti di migliori.

Il 6 settembre iniziò il fitto bombardamento sulla cittadella che si protrasse per due giorni; la mattina dell’8 le trincee erano stracolme di truppe, martellate dai tiri russi; quando parve che la risposta del fuoco russo diminuisse, fu lanciato l’assalto francese a quattro bastioni. Tra questi, presi, persi e ripresi, solo due, tra cui il torrione del Malakov, alla fine, dopo lunghi combattimenti, furono definitivamente conquistati. Gli inglesi però non riuscirono a prendere il Gran Redan. Calata la sera nelle trincee, il prosieguo dell’azione fu rimandato all’indomani.

Nella notte però – dopo un anno di stragi – il comandante russo Gorèakov dette l’ordine di evacuare la fortezza, distruggere tutto quanto non fosse possibile portare via, navi comprese, e ritirò le truppe al di là della baia in posizione sicura. Questo il nostro perché di questa improvvisa decisione:

     «Stando alle migliori carte geografiche, piante e modelli di cui disponiamo, non sussistevano motivi puramente strategici o tattici per abbandonare improvvisamente ciò che era stato difeso con tanta tenacia. Vi sono soltanto due spiegazioni possibili. L’armata russa aveva a tal punto perso la stima di sé che non conveniva far fronte dietro alle fortificazioni interne della città. Oppure la mancanza di provvigioni cominciava a farsi sentire non solo in città ma anche nel campo. Può darsi infine che confluissero entrambi questi motivi (...) Se queste considerazioni sono corrette, non restava effettivamente altra scelta a Gorèakov che di approfittare della presa del Malakov per salvare la sua guarnigione con un pretesto decoroso» (“Gli avvenimenti in Crimea”, Opere, Vol.XIV).
Perché la guerra borghese è da allora poco più che un “macello di schiavi”: la diplomazia mondiale poteva decidere che questo risultato in Crimea era stato raggiunto. Il dispendio di uomini in questo assedio, altrimenti insensato, è quello che sarà tipico di una guerra imperialista. All’inizio, nell’ottobre del 1854, le difese russe arrivavano complessivamente a 37 mila uomini contro 67 mila alleati. Passato l’inverno, nel maggio 1855, le forze russe salgono a poco più di 43 mila uomini nella roccaforte e altri 42 mila a nord della penisola, mentre gli alleati salgono per l’assalto finale a 175 mila effettivi a cui si aggiungono i 15 mila bersaglieri di La Marmora. Ad agosto il fronte alleato è ulteriormente rafforzato dall’arrivo di un altro contingente turco e britannico di 22 mila uomini, una legione tedesca di 9 mila, una svizzera di 3 mila, una polacca di 1.500 e una di volontari italiani di 2 mila, un esercito francese della riserva a Costantinopoli con 30 mila uomini e l’analoga britannica della riserva di Malta di altri 15 mila. Le perdite complessive per la conquista della roccaforte, tra morti per cause belliche, malattie e feriti sono: 102 mila russi e 128.387 alleati: Francesi 107 mila di cui 11 mila in battaglia, 20 mila poi deceduti per le ferite e 75 mila di colera; britannici in totale 21 mila di cui 3 mila in combattimento, 2 mila a seguito di ferite e 17 mila tra scorbuto, colera e freddo; piemontesi 2.050 di cui 1.800 di colera, 250 in combattimento o mutilati gravi per le ferite riportate. Le perdite turche furono valutate in questo teatro in circa 50 mila.

Per altro la caduta di Sebastopoli non significò affatto la fine della guerra: gli alleati avevano con le loro navi il completo controllo del Mar Nero, ma dovevano allontanare i russi dalla penisola. Intanto lo zar, temendo un’invasione della Russia meridionale, faceva affluire nuove truppe; l’armata transcaucasica avanzava in Turchia; sul fronte del Nord i russi tenevano saldamente il Baltico.

Si aprirono così i negoziati in presenza di una soluzione militare che appariva a tutti molto lontana ed incerta. La caduta per fame di Kars il 25 ottobre 1855 ne fu l’occasione, sotto forma di un ultimatum trasmesso allo zar dall’Austria, che si schierava con gli alleati. Iniziò la sceneggiata diplomatica in cui i partecipanti, visto che non c’era nulla spartire, cercavano di indebolire o danneggiare ex alleati e nemici. Alessandro II infine accettò le condizioni che gli proponevano e il tutto si concluse, senza che si capisse chi fosse il vincitore e chi il vinto, con il trattato di pace il 3 marzo 1856.

Le perdite della Russia furono solo il controllo di alcune isolette alla foce del Danubio, la cui navigazione ora diventava libera a tutti, ma le furono restituite Sebastopoli e le altre città occupate; la Russia restituì Kars e rinunciò al progetto di porre sotto sua tutela i sudditi ottomani di religione ortodossa; il Sultano riebbe tutti i principati danubiani; infine tutte le potenze europee si impegnavano a garantire l’indipendenza e l’integrità dell’Impero Ottomano. Le clausole per la navigazione sul Mar Nero, diventato zona neutrale, prevedevano la libera navigazione solo alle navi commerciali e l’impegno per Russia e Turchia di non installarvi basi, arsenali militari e di tenere flotte da guerra. Per gli stretti del Bosforo e dei Dardanelli potevano transitare solo le navi militari turche.

Questo il computo finale di quella che alcuni storici definiscono come la vera prima guerra mondiale, che noi definiamo già una guerra imperialista quanto alle sue caratteristiche economiche, politiche e di distruzione. Da una parte erano impegnati 700 mila russi cui si aggiunsero 4 mila volontari bulgari; dalla parte degli alleati 300 mila turchi, 400 mila francesi, 250 mila britannici e 20 mila fra esercito sardo e volontari italiani, per un totale di circa un milione di uomini. Le perdite del fronte russo furono di 552 mila, il 74% del totale, tra morti in combattimento, gravemente feriti e mutilati, ma la maggior parte di malattia, freddo e colera. L’altro fronte ebbe 374 mila perdite, il 38% degli effettivi, comprese quelle turche valutate in circa 200 mila. Una stima riconosciuta attendibile calcola un totale, per cause dirette ed indirette, di un milione di morti tra civili e militari.

«Da che esistono le guerre non è mai stato gettato via tanto valore per risultati così inadeguati come in questa campagna di Crimea. Non sono mai stati sacrificati tanti ottimi soldati, e per di più in così breve tempo, per ottenere vantaggi similmente insignificanti» (Engels, “La guerra europea”, Opere, Vol.XIV).
 

(Continua al prossimo numero)

 
 
 
 
 
 
 


Dall’Archivio della Sinistra
 

I documenti che vengono qui ripubblicati rappresentano una continuazione ed integrazione di quanto già inserito nel precedente numero di questa rivista, l’argomento è il solito: difesa proletaria e lotta di classe. Rimandiamo quindi l’attenzione dei compagni e lettori alla presentazione apparsa nello scorso numero 72.

Perché possano meglio comprendere i documenti in cui il partito accusava senza mezzi termini il PSI di tradimento, 9 opportuno qui ricordare un aspetto particolare delle vicende dell’estate 1921: il “Patto di Pacificazione”.

* * *

Nel suo primo intervento parlamentare, il 21 giugno 1921, Mussolini giustamente affermò che nei confronti dei comunisti «finché parleranno di dittatura proletaria, dei Soviet […] fra noi e loro non ci potrà essere che il combattimento», ma aggiungeva, «la nostra posizione varia quando ci poniamo di fronte al Partito Socialista». Rivolto poi alla CGdL affermava: «Riconosciamo che la Confederazione Generale del Lavoro non ha tenuto di fronte alla guerra il contegno di ostilità tenuto da gran parte del Partito Socialista ufficiale. Riconosciamo anche che […] gli organizzatori sono abbastanza ragionevoli […] D’altra parte è pacifico, ormai, che sul terreno della violenza le masse operaie saranno battute. Lo riconosceva molto giustamente Baldesi» [Deputato socialista ed uno dei massimi dirigenti della CGdL - n.d.r.].

Mussolini concludeva con questo invito: «E allora, o socialisti. Se voi convenite e ammettete e confessate che su questo terreno noi vi batteremo, allora dovete concludere che avete sbagliato strada. La violenza […] è una pura necessità alla quale ci siamo sottoposti. E aggiungo che siamo disposti a disarmare, se voi disarmerete a vostra volta, soprattutto gli spiriti».

Ma il Partito socialista aveva già risposto, ed in senso positivo, già tre giorni prima, quando aveva scritto: «Noi non predichiamo la vendetta, come fanno i nostri avversari. Pensiamo all’ascesa maestosa dei popoli e delle classi con opera pacifica e feconda pur nelle inevitabili, anzi necessarie, lotte civili» (“Avanti!”, 18 giugno 1921).

In fondo questa, come tante altre simili affermazioni sarebbero state del tutto inutili una volta che la direzione massimalista aveva permesso che un Turati, rivolto al proletariato, facesse affermazioni di questo tipo: «Non raccogliete le provocazioni, non fornite loro pretesti, non rispondete alle ingiurie. Siate buoni, siate pazienti, siate santi. Lo foste già per millenni, siatelo ancora. Tollerate! Compatite. Perdonate anche. Quanto meno mediterete vendetta, tanto più sarete vendicati. E coloro che scatenano sopra di voi l’obbrobrio del terrore, tremeranno dell’opera propria».

La grande ondata di violenze fasciste, con il costante sostegno delle forze dell’ordine democratiche, era sempre riuscita a sopraffare le difese proletarie. Questo non perché gli operai avessero aderito all’invito evangelico di Turati, anzi il proletariato diede sempre prova di istintiva e coraggiosa reazione, e più volte non mancò di dimostrarsi capace sia alla difesa sia all’offesa. I più duri colpi il proletariato li subì perché fu abbandonato dal Partito Socialista, lasciato privo di direttive ed impreparato militarmente.

Il 22 luglio Mussolini interveniva di nuovo alla Camera per riaffermare la disponibilità da parte del fascismo alla pacificazione, specie dopo che la CGdL si era anch’essa dichiarata disposta a continuare le trattative ed aveva assunto un fermo atteggiamento contro i comunisti. Ed il giorno successivo, sempre alla Camera, dichiarava: «Le grandi forze espresse dal paese in quest’ora sono tre: un socialismo che dovrà correggersi e già comincia; […] la forza dei popolari […] e finalmente non si può negare l’esistenza di un terzo movimento […] che raccoglie la parte migliore della gioventù italiana. Credo che a queste tre forze coalizzate sopra un programma che deve costituire il minimo comune denominatore spetterà domani il compito di condurre la Patria a più prospere fortune».

Così, sotto gli auspici e per iniziativa di Bonomi, presidente del Consiglio, e di De Nicola, presidente della Camera, il 2 agosto veniva firmato il “Patto di Tregua”. Si era così giunti a quella che fu chiamata la pacificazione degli animi.

Qui ricordiamo, a chi accusa la direzione di Sinistra del PCd’I di non avere voluto aderire agli Arditi del Popolo, che anche il PSI, con il Patto di Pacificazione, dichiarava la propria estraneità a quella organizzazione armata, per motivi, evidentemente, opposti.

Nella illusione di poter abolire con un concordato la lotta di classe, tutte le componenti nazionali si impegnavano ad abbandonare “ogni animosità” per poter poi combattere, tutte assieme, i veri nemici del paese, ossia i comunisti. Infatti, riferito ai comunisti, Bonomi aveva dichiarato: «Cerchiamo di isolarli, poi tutti insieme premeremo su di loro».

Malgrado uno degli scopi del patto fosse quello di stroncare il partito comunista, per portare il maggiore scompiglio possibile tra le masse proletarie, sempre con maggiore insistenza veniva diffusa la notizia che pure il PCd’I avesse preso parte alle consultazioni ed aderito al Patto di Pacificazione. Da parte di “Battaglie Sindacali”, organo della CGdL, si arrivò perfino ad affermare che «l’iniziativa del partito socialista, alla quale la Confederazione ha aderito impegnando le organizzazioni tutte a fare altrettanto, è stata stabilita d’accordo con la missione russa a Roma».

I comunicati di categorica smentita che una qualsiasi intesa fosse stata fatta con la sua partecipazione non servirono a far cessare le notizie sulla partecipazione comunista alla “pacificazione”, tant’è che il C.E. del partito si trovò costretto ad inviare alla direzione del PSI il seguente telegramma: «Milano, 7 luglio 1921 - URGENTE - Per troncare uso arbitrario da vostra parte del nome del nostro partito diamovi comunicazione ufficiale diretta, chiedendone telegrafica conferma, che non parteciperemo ad alcuna riunione partiti aventi scopo pacificazione o disarmo».

Il Partito Comunista, che da tempo aveva denunciato il tradimento di PSI e CGdL, dichiarava «assurda la pretesa dei dirigenti confederali di rappresentare […] la minoranza comunista che milita nelle sue file». Pochi giorni dopo questa dichiarazione del PCd’I, si riuniva a Roma il consiglio direttivo della CGdL che, avendo affermato la necessità di un accordo con il fascismo «nell’interesse di tutto il paese [...e...] auspicando uno spontaneo ritorno ai metodi di civiltà [...] affida(va) al C.E. il compito di mettere fuori dai quadri quanti agiscono in contrasto con le direttive confederali», ossia i comunisti.

Il Patto di Pacificazione significava dunque la resa senza condizioni del proletariato nei confronti del capitale, del suo Stato, dei suoi organi di repressione, delle sue milizie armate legali ed illegali; allo stesso tempo rappresentava la dichiarazione di guerra nei confronti del Partito Comunista, che non avrebbe mai ammainato la bandiera della lotta di classe e del suo inevitabile sbocco rivoluzionario.

Da parte dello Stato borghese e del fascismo erano posizioni del tutto naturali ed in linea con la loro stessa ragione di esistere; ma da parte della Confederazione Generale del Lavoro, la più importante e potente associazione economica nata per la difesa della classe operaia, e da parte del Partito Socialista che, due anni prima, aveva dichiarato la propria adesione alla III Internazionale, che aveva sproloquiato di rivoluzione, che aveva illuso il proletariato sulla formazione di milizie armate proletarie, tutto questo rappresentava un vero e proprio tradimento consumato nel momento più critico vissuto dal proletariato dalla fine della guerra. Del tutto naturale e pienamente giustificato era quindi l’attacco feroce del Partito Comunista nei confronti di simili traditori.

Ma la resa dei socialdemocratici, politici e sindacali, non tranquillizzava del tutto la borghesia, infatti tutta la stampa, dalla “Tribuna” al “Corriere d’Italia”, dal “Tempo” all’“Osservatore Romano”, se da un lato tirarono un sospiro di sollievo per il fatto che il PSI avesse ripudiato e sconfessato qualsiasi atto di violenza, anche di autodifesa, dall’altro si preoccupavano del fatto che il Partito Comunista ne avrebbe approfittato per allargare la sua influenza nella classe dando il suo indirizzo programmatico ad ogni sua azione spontanea.

L’azione pratica di socialisti e confederati si adeguava a qualsiasi ordine proveniente da Mussolini, l’ex-compagno ritrovato, ma nella trincea della controrivoluzione.

Le giunte socialiste si rifiutavano di esporre la bandiera rossa abbrunata in presenza di omicidi di proletari compiuti dai fascisti; in occasione di uccisioni di fascisti venivano divulgati comunicati congiunti (fascisti e socialisti) contro “il malvagio agguato comunista”; venivano contratti accordi locali in cui le due parti si impegnavano «ad arginare il movimento comunista e formare una commissione mista nella quale devono essere denunciati tutti coloro che appartengono al movimento comunista».

Questi non sono che pochi tipici esempi; si dovrebbero scrivere interi volumi se volessimo riportare tutti i patti d’infamia.

Ma anche questo totale asservimento socialista veniva considerato insufficiente da parte di una borghesia ormai decisa a stroncare il proletariato materialmente e moralmente; ed uno dei più autorevoli giornali d’Italia, passato alla storia come “antifascista”: il “Corriere della Sera”, scriveva: «L’organo ufficiale del partito [l’“Avanti!” - n.d.r.] non l’ha né rinnegato né accettato. Si limita a sabotarlo quotidianamente, indegnamente [...] Il giornale soffia sul fuoco e lo alimenta. S’infischia della pacificazione. Fra tutte le righe c’è un solo costante grido: “dalli al fascista!” [...] Al giornale aizzatore bisogna ricordare che c’è una cosa certa nel domani; ed è che l’Italia non sopporterà più, a nessun costo, il ritorno alla tirannide teppistica rossa onde fu per due anni offesa ed infamata. Se lo Stato non riuscisse ad essere il più forte, la già rigonfia arroganza socialista [...] renderebbe forze al fascismo. E la cosa sarebbe ricordata» (19 agosto 1921).

Povero Partito Socialista, servo fedele e pure calunniato! La risposta al “Corriere della Sera” il PSI, anche questa volta l’aveva data in anticipo. «Fu colpa del partito se sempre gli eventi precedettero l’opera nostra, incalzati vertiginosamente da tante irritazioni e da tante impazienze? Se, quando noi appena progettavamo la socializzazione di un’industria, gli operai occupavano le fabbriche? Se mentre noi progettavamo la socializzazione della terra, coi metodi e le forme che sono del nostro partito, i contadini occupavano violentemente le terre? Noi fummo tutti gradualisti [...] Il gradualismo fu vinto dalla realtà» (“Avanti!”, 6 aprile 1921). Poi, passando al problema della violenza e della resistenza affermava: «Noi dobbiamo dire alle nostre masse che bisogna non accogliere le provocazioni [...] Per questo l’“Avanti!” si fa il merito di non aver incitato e di non incitare e propugna una sana ed oculata resistenza passiva, nulla concedendo, nulla chiedendo».

Se non si trattasse di fatti tragici ci sarebbe da ironizzare sul concetto di “oculata resistenza passiva” che, di fronte a omicidi, bastonature, incendi, “nulla chiede e nulla concede”.

L’“Azione Comunista”, il battagliero settimanale fiorentino, metteva bene in evidenza quale fosse l’atteggiamento del Partito Comunista: «Pacificazione? I comunisti non hanno niente in comune con coloro che devastano, che incendiano le case dei lavoratori, che uccidono centinaia dei nostri migliori compagni, con coloro che permisero, favorirono, predicando il “sopportate, perdonate, tacete”, queste violenze e perciò non devono avere nessun contatto con loro. [... Alla borghesia] riconosciamo, come classe imperante, il diritto di usare quelle armi che crede necessarie a mantenersi al potere. La classe lavoratrice che ha interessi antitetici a quella borghese, deve colpire il nemico negli organi suoi più vitali [...] La pacificazione non potrà mai esistere fino a che vi saranno sfruttati e sfruttatori» (4 giugno 1921).

Di fronte all’atteggiamento del PSI e della Confederazione sindacale, il Partito Comunista si rivolgeva direttamente al proletariato, per la creazione di un vasto fronte unico proletario dal basso, per la difesa unitaria di classe di fronte all’attacco capitalista nei confronti di qualsiasi categoria o gruppo di lavoratori.
 
 
 
 
 

“Il Comunista”, 6 marzo 1921
APPELLO CONTRO LA REAZIONE FASCISTA

Compagni!

Nella tragica ora che passa, il partito comunista ha il preciso dovere di rivolgervi una sua parola.

In molte plaghe e città d’Italia episodi sanguinosi della lotta tra il proletariato e le forze regolari od irregolari della borghesia si susseguono con un crescendo eloquente. Tra le tante vittime note od oscure il Partito Comunista deve registrare la perdita d’uno dei suoi militi più valorosi: Spartaco Lavagnini caduto a Firenze al suo posto di responsabilità di fronte al proletariato ed al suo partito. Alla sua memoria e a quella di tutti i proletari caduti, mandano i comunisti il saluto dei forti, temprandosi nell’azione e nella fede.

Gli eventi che incalzano mostrano che il proletariato rivoluzionario d’Italia non cede sotto i colpi del metodo reazionario, inaugurato da alcuni mesi dalla classe borghese e dal suo Governo a mezzo delle bande armate dei bianchi, assalitori prepotenti dei lavoratori anelanti alla propria emancipazione. Dalla rossa Puglia, da Firenze proletaria, da tanti altri centri giungono notizie che il proletariato, malgrado l’inferiorità dei suoi mezzi e della sua preparazione, ha saputo rispondere agli attacchi, difendersi, offendere gli offensori.

L’inferiorità proletaria – che sarebbe inutile dissimulare – dipende dalla mancanza nelle file del generoso nostro proletario d’un inquadramento rivoluzionario quale può darlo solo il metodo comunista, attraverso la lotta contro i vecchi capi ed i loro metodi sorpassati di azione pacifista. I colpi della violenza borghese vengono ad additare alle masse la necessità d’abbandonare le pericolose illusioni del riformismo e di disfarsi dei predicatori imbelli d’una pace sociale che è fuori delle possibilità della storia.

Il Partito Comunista, che con la dottrina e la tattica della Internazionale di Mosca ha chiamato a raccolta le forze coscienti del proletariato italiano per la preparazione e l’organizzazione che finora mancavano, o venivano solo demagogicamente vantate, non predica il disarmo degli spiriti e la rinunzia alla violenza, dice alto ai lavoratori che le loro armi non possono essere solo le armi metaforiche o astratte della propaganda della persuasione o della legalità schedaiola, proclama con entusiasmo la sua solidarietà con quei lavoratori che hanno con gli stessi mezzi risposto all’offensiva dei bianchi. Il Partito Comunista addita ai lavoratori come peggiori nemici i capi di quegli organismi che ipocritamente rinculano dinanzi a queste responsabilità, e che con la propaganda, di cui giustamente gli avversari si ridono, inseguendo utopie idiote di civiltà e di cavalleria nella lotta sociale, seminano il disfattismo tra le masse, ed incoraggiano la baldanza della reazione.

La parola d’ordine del Partito Comunista è dunque quella di accettare la lotta sullo stesso terreno su cui la borghesia scende, attrattavi irresistibilmente dal divenire della crisi mortale che la dilania: è di rispondere con la preparazione alla preparazione, con l’organizzazione all’organizzazione, con l’inquadramento all’inquadramento, con la disciplina alla disciplina, con la forza alla forza, con le armi alle armi. Non vi potrà essere allenamento migliore all’offensiva immancabile, che un giorno sarà sferrata dalle forze proletarie contro il potere borghese, e che sarà l’epilogo delle lotte attuali.

Mentre l’azione e la preparazione devono sempre più divenire effettive e sistematiche, lasciando ogni traccia di retorica demagogica, nella situazione che si è delineata fino a questo momento è inevitabile la constatazione che molto deve ancora compiersi perché la risposta proletaria agli attacchi dell’avversario assuma quel carattere d’azione generale e coordinata, che solo potrà assicurare la decisiva vittoria.

Per un’azione di tutto il paese il proletariato non potrebbe oggi ricorrere ad altre forme di azione di sicura attuazione che non siano quelle più volte adottate, e la cui direzione, allo stato di sviluppo degli organismi di classe resterebbe, se non in tutto, in gran parte nelle mani di quegli organismi nazionali, sia politici che economici, i cui metodi e la cui struttura non possono condurre che a nuove delusioni, lanciare le masse su di una via senz’altro sbocco che l’inevitabile situazione di essere o fermate, o abbandonate da coloro che le guidano, poiché ancora usurpano posti importanti di dirigenza dell’apparato in cui la massa è inquadrata. Il Partito Comunista non inizierà un movimento generale con simili prospettive ed attraverso rapporti con simili elementi se non in una situazione che chiudesse ogni altra via, e che ci costringesse a subirla. Allo stato dei fatti, il partito comunista afferma che non si deve accettare un’azione nazionale diretta da coloro il cui metodo non può condurre che al disastro. Se quest’azione si dovrà iniziare, il partito comunista farà il suo dovere perché il proletariato non sia tradito nel massimo del suo sforzo, e vigilerà da tutti i lati sugli avversari della rivoluzione.

Oggi quindi il partito comunista dà ai suoi militanti la norma della resistenza locale su tutti i fronti dell’attacco dei bianchi, della rivendicazione dei metodi rivoluzionari, della denunzia del disfattismo dei socialdemocratici, che una psicologia debole ed errata potrebbe indurre i meno coscienti a considerare come possibili alleati nel pericolo.

Sia che la linea di condotta da tenere resti questa, sia che essa debba essere accentuata, la centrale del partito sa che tutti i comunisti, dal primo all’ultimo, memori dei nostri recenti martiri, consci della responsabilità di rappresentare l’Internazionale rivoluzionaria di Mosca, faranno l’intiero loro dovere!

Viva il comunismo! viva la rivoluzione mondiale!

Il Partito comunista d’Italia
La Federazione giovanile comunista d’Italia

 
 
 
 

“Ordine Nuovo”, 16 marzo 1921
SERENITÀ MISTIFICATRICE

Col titolo “Una parola serena”, l’organo magno dei socialisti si decide a parare le nostre botte diritte contro il disfattismo dei nostri ex-compagni. Si tenderebbe dunque ad una elevata e serena discussione?

Noi non crediamo ciò molto più possibile della civile forma di lotta che gli ex tendono a realizzare nei rapporti delle guardie bianche borghesi.

Si ricordi che nelle discussioni che precedettero il Congresso da noi comunisti la discussione fu impostata molto alto, sul terreno appunto della critica obiettiva alle idee. Ci si rispose con ogni sorta di insinuazioni e falsificazioni ingiuriose e cattive, che oltre le nostre persone giungevano a colpire quelle dei compagni che occupano i primi ranghi tra i benemeriti del nostro ideale, da chi ostentava di voler restare con noi e con la Internazionale. Dimostrammo di saper rispondere a misura di carbone. Avvenuta la separazione, la polemica è continuata e continuerà nelle forme che quei signori meritano, nelle sole, anzi, che meritano, dato il loro contegno.

Ad ogni modo è divertente che gli unitari abbiano quasi completamente taciuto dinanzi ai nostri decisi attacchi, e prendano la parola quasi implorando che si torni sul terreno da loro volutamente abbandonato.

Uno sforzo di buona volontà lo potremmo anche fare, se la richiesta di serenità non dimostrasse a prima vista di contenere e di coprire altre mistificazioni sleali.

L’articolo dell’ “Avanti!” infatti imposta la discussione su di una premessa completamente falsa. Esso prende le mosse dalla nostra accusa di disfattismo, ma la formula in un modo che mai ci siamo sognati di enunciare. Noi vorremmo, secondo il nostro contraddittore, affibbiare ai socialisti la responsabilità di avere scatenato il fascismo con la loro propaganda di violenza.

Ci trovino i socialisti uno di noi che abbia scritta una così grossa bestialità e noi ci impegniamo a sbatterlo fuori dal Partito Comunista e, per maggior vergogna ove essi consentano, a regalarlo al Partito Socialista.

La lezione marxista che 1’ “Avanti!” tira fuori per smantellare quell’immaginario nostro punto di vista, è dunque completamente oziosa. Le cause della violenza fascista non consistono per noi nel verbalismo di certi rivoluzionari, sono molto più in là, anche più in là della guerra. La violenza proletaria è una indeprecabile necessita storica, contro la inevitabile violenza reazionaria borghese; entrambe sorgono parallelamente dalla natura dei rapporti sociali capitalistici; anche senza l’accelerazione della crisi rivoluzionaria derivata dalla guerra, il ricorrere del proletariato alla violenza, come una sua iniziativa, per una azione offensiva (e non soltanto per difendersi quando eventualmente la borghesia passasse ad attacchi diretti violando le stesse sue leggi e concessione) era cardine fondamentale del metodo marxista. Non ci saremmo, né ci siamo sognati di rivolgere ai massimalisti rientrati l’accusa di avere scatenata l’odierna violenza dei bianchi.

Come, dunque, discutere serenamente con chi cambia le carte in tavola!

Tuttavia chiariremo ancora la questione, per dimostrare all’evidenza quale sia la inoppugnabile responsabilità controrivoluzionaria dei nostri compagni di ieri, quale sia l’abisso che oggi separa il nostro metodo dal loro.

Essi hanno la colpa gravissima, dopo aver parlato alle masse della necessità della violenza e della dittatura proletaria (predicazione che si deve fare con serietà e coscienza) di non aver nulla fatto per prepararle ed organizzarle per l’azione rivoluzionaria in quanto hanno tollerato che la minoranza di destra del Partito svolgesse contemporaneamente la propaganda della non violenza e della non dittatura; hanno lasciato che in tutti gli episodi della lotta di classe nei quali, anche mancando la possibilità della finale azione rivoluzionaria, si può e si deve esercitare e rafforzare la capacità di azione delle masse, le decisioni da prendere fossero influenzate dai capi parlamentari e sindacali appartenenti a scuole che, per partito preso, rifuggono da quelle finalità.

Finalmente oggi quelli che furono i massimalisti si sono senza altro portati sul terreno dei loro avversari, che avevano battuto a Bologna con grande sfoggio di superficialità e di leggerezza declamatrice rivoluzionaria. I documenti di questa conversione sono da noi stati dati con abbondanza e non occorre ripeterli.

Ma noi sappiamo che il capo della compagnia è anche il più furbo di tutti ed anche il migliore demagogo. Noi vediamo che egli vorrebbe frenare un po’ la marcia verso destra. All’estrema destra egli vuole arrivarci, ma senza eccessiva fretta che potrebbe tutto guastare. Ed escogita formole intermedie.

L’articolo che discutiamo non è una elucubrazione teoretica. Mai più. Alcuni compagni esteri hanno avuto la ingenuità di mettersi a discutere certe affermazioni del Serrati come se fossero il risultato di un organico atteggiamento dottrinale, così per la famosa tesi: la violenza sì, ma come atto finale risolutivo; che corrispondeva invece ad un impiego polemico del momento e come tale andava trattata.

Così avviene oggi con un altro argomento che sfodera il Serrati, quello dell’individualismo che avrebbe contrapposto le azioni frammentarie e sporadiche che susseguono “ad ogni colpo di rivoltella” all’azione metodica e preparata voluta dal comunismo.

Il Serrati dà del volontarista agli altri e non si accorge di fare – per puro incidente polemico – il più volontarista di tutti. Se vi è una affermazione non marxista né determinista, essa sta in questo suo umoristico modo di intendere la preparazione rivoluzionaria, la cui mancata realizzazione egli attribuisce, in modo spassoso, ai difetti speciali del popolo italiano. Il partito di classe dovrebbe rinviare la violenza proletaria al momento in cui si crederà in grado di dare il segnale dell’azione generale e coordinata, ma fino a quel momento dovrebbe avversare, condannare, sconfessare, ogni conflitto tra le forze proletarie e quelle borghesi, sotto pretesto che si tratti di violenza “individuale”, dovrebbe, anzi impedire che ciò avvenisse!

Invece il nostro concetto si differenzia assai da tutto ciò. Il partito di classe rivoluzionario lavora in base alla esistenza delle condizioni e degli inizi, nell’attuale periodo storico, dello scontro finale tra le classi. Esso si prefigge di aggiungere a questa guerriglia determinata dalle situazioni storiche l’influenza organatrice della sua opera, che deve dare migliore utilizzazione ed efficacia alla ribellione proletaria. Esso non adopera la sua possibilità di prendere iniziative e disporre azioni, per assalti isolati, prima che la coordinazione generale dell’attacco sia valutata attuabile con probabilità di successo. Esso si preoccupa, nei conflitti locali ed occasionali che avvengono, di non essere trascinato ad impegnare tutte le forze in condizioni sfavorevoli, ma anche di non perdere terreno nell’opera di preparazione già svolta, e che deve tenere conto dei coefficienti psicologici collettivi. Esso tende a dare alle masse la impressione che la sua rinunzia ad iniziative di azione rivoluzionaria contiene elementi di forza e non di debolezza, a ribadire la convinzione che si giungerà all’impiego dei mezzi rivoluzionari, e perciò non getta il discredito su di essi. Qui si stabilisce la differenza tra il nostro criterio e quello socialista, anche nella gesuitica forma di pseudo teorizzazione datagli da Serrati.

Nella situazione di questi giorni i socialisti hanno detto alle masse non quello che dice Serrati; cioè: prepariamoci meglio, ma evitiamo gli scontri in questo momento; essi hanno chiaramente detto, rinnegando ogni loro precedente dichiarazione: vedete che cosa terribile è l’uso della violenza, la guerriglia civile? Bisogna che per altre vie si affermi l’avanzata proletaria. L’offensiva fascista non l’hanno scatenata essi: ma la loro colpa è di disarmare la massa credendo di fermarla, appunto perché scioccamente pensano di averla scatenata loro. Ma anche la insidiosa formola dell’ “Avanti!” è disfattista. Essa equivale a disporre una ritirata illimitata, che non potrebbe che rompere la compagine morale e materiale delle forze rivoluzionarie, facendo sì che quella preparazione rivoluzionaria che si voleva garantire sia per sempre compromessa e spezzata, poiché preparazione vuol dire esercizio ed abitudine, collegate alla reale esplicazione degli eventi, correggendoli in misura sempre maggiore ed esatta, non negazione passiva di essi ed attesa nirvanica, che non si può realizzare, o si può a solo vantaggio dell’avversario borghese. E questo è volontarismo negativo, ma non antivolontarismo. Questo vuol dire adoperare quel tanto di influenza positiva di cui si dispone per la causa dell’avversario.

E sul terreno dei fatti la nostra attitudine si è nettamente differenziata da quello che Serrati sostiene, e da quello che in pratica i suoi hanno fatto. Se anche nulla di più avessimo fatto dei socialisti che astenerci dal loro vile linguaggio, questo basterebbe a stabilire, contro il loro metodo, la bontà del nostro. Ma la differenziazione ci è stata anche nei fatti. Noi abbiamo detto chiaramente che, pur non prendendo l’iniziativa di un azione generale rivoluzionaria, per la preparazione ideale e materiale del proletariato, e proprio per non essere trascinati verso l’ignoto, o verso il certo tradimento socialista, era indispensabile rispondere alle manifestazioni della violenza bianca coi medesimi mezzi. Anche se noi avessimo solo moralmente proclamata la nostra solidarietà con gli spontanei atti di risposta proletaria, già si sarebbe incisa nei fatti la differenza tra noi ed i socialisti che vilmente li ripudiavano. Ma noi abbiamo data la parola d’ordine ai comunisti di tenersi preventivamente preparati a rispondere in caso di prevedibili attacchi fascisti in certe zone. Noi continuiamo su questa linea d’azione. I fatti ne dimostrano la bontà agli effetti dell’elevamento del morale della massa e del suo inquadramento da parte del Partito, per cui occorre la fiducia in esso, primo aspetto della preparazione ad azioni generali.

I socialisti ed i nostri avrebbero tenuto egual contegno nella partecipazione pratica e nella direzione delle masse in questi fatti? Non è molto comodo discutere certe cose con contraddittori poco scrupolosi. Vuole 1’ “Avanti!” i nomi dei socialisti che hanno disertato i posti di responsabilità? Badi bene, noi non ci mettiamo sul terreno idiota di contare... quanti ne abbia ammazzati Tizio e con quanta velocità sia fuggito Sempronio! Questo è l’aspetto esteriore e personale della cosa. Noi parliamo di influenza generale sulle masse della tattica dei partiti e delle disposizioni emanate e attuate. Potremmo agli innumeri esempi di rinnegamento da parte dei socialisti dell’azione proletaria, aggiungere la citazione dei nomi di iscritti al P.S.I. che dopo aver partecipato all’azione – non erano dunque dei vili nel senso materiale – hanno detto alle autorità borghesi: da quelli che fanno queste cose ormai noi ci siamo divisi! Potremmo dire altre cose che il tacere è bello.

E resta dunque più dimostrato che mai che i socialisti del vecchio partito hanno fatto, come autentici social-democratici, il gioco della borghesia ripetendo alle masse che si devono ostracizzare i mezzi violenti; resta dimostrato che è un tentativo sballato quello di giustificare la cosa col ripiego che si tratta solo di rinviare la azione rivoluzionaria al momento opportuno. Simili dichiarazioni sono sempre fatte da tutti i contro-rivoluzionari; esse sono oramai caratteristiche del “centro” che in tutti i paesi tiene bordone al riformismo mentre questo tiene bordone alla borghesia, in quanto questa politica è proprio quella che accortamente disarma le masse e le consegna un giorno smarrite e impotenti alle orge della controrivoluzione.
 
 
 
 
 

“Il Comunista”, 10 luglio 1921
Il C.E. del P.C. d’Italia
CONTRO LA PACE FASCISTA

Il partito comunista d’Italia, coerente ai principi ed alla tattica comunista, non ha bisogno di dichiarare che nulla ha di comune con le intese tra socialisti e fascisti, dai primi ammesse e smentite soltanto in quanto si riferisce ai termini dell’accordo. Denuncia al proletariato il contegno dei socialisti, del quale si riserva d’illustrare il vergognoso significato.

Poiché la Confederazione generale del lavoro, secondo voci corse e non smentite, s’assumerebbe di rappresentare, nelle trattative e negli impegni che ne seguiranno, anche i comunisti sindacalmente organizzati nelle sue file, il P.C. dichiara assurda la pretesa di dirigenti confederali di rappresentare sul terreno d’un’azione nettamente e squisitamente politica la minoranza comunista, che milita nelle sue file con l’obiettivo di debellare l’indirizzo opportunista e controrivoluzionario di essi dirigenti.
 
 
 
 
 

“Il Comunista”, 21 luglio 1921
Il Comitato Esecutivo
CONTRO LA PACIFICAZIONE

Sebbene debbano apparire superflue a chiunque conosca, anche lontanamente, le direttive programmatiche comuniste, pure il partito comunista tiene a fare le seguenti brevi ed esaurienti dichiarazioni intorno alla pubblicazione della stampa circa la cosiddetta pacificazione dei partiti.

Né nazionalmente né localmente i comunisti accedono né accederanno ad iniziative per la “pacificazione” o il “disarmo”, siano esse provenienti dalle autorità governative o da qualunque partito politico.

La comunicazione in tal senso fatta dal partito socialista è stata senz’altro respinta.

L’affermazione di una corrente politica di non voler trattare coi comunisti cade nel ridicolo, poiché mai i comunisti hanno espresso l’assurda intenzione di scendere a patti con chicchessia su questo terreno.

Ove ve ne fosse bisogno, serva anche questa comunicazione di norma alle organizzazioni locali del Partito.
 
 
 
 
 

“Il Comunista”, 31 luglio 1921
Comunicato del Comitato Esecutivo
INQUADRAMENTO

Poiché siamo tempestati da una copiosa corrispondenza con la quale ci si domandano informazioni intorno all’inquadramento del Partito, avvertiamo i compagni che sono a capo delle federazioni e delle sezioni che norme sono state da noi date pubblicamente a tale proposito, alle quali seguiranno altre più dettagliate a giorni, e che i comunisti non possono aderire ad altre iniziative che non ci riguardano. In tale occasione ribadendo i concetti di disciplina cui tutti gli iscritti ad un partito comunista debbono obbedire, dobbiamo avvertire che l’inquadramento militare del Partito non può essere compiuto e rispondere allo scopo se non attraverso la rinunzia nei compagni a particolari punti di vista tattici che possono essere sostenuti solamente in sede opportuna (assemblee, congressi).

L’ordine di inquadramento militare del Partito è stato dato dal C.E. in accordo col C.E. della Federazione Giovanile e non solo da questo, come taluni compagni hanno erroneamente creduto.

L’inquadramento militare del Partito Comunista d’Italia non è da noi “inventato” per imitazione di altre organizzazioni simili oggi create. Il nostro inquadramento risponde ai criteri di organizzazione rivoluzionaria di tutti i partiti comunisti aderenti alla Terza Internazionale.

E se esso non fu da noi iniziato prima d’ora, ciò trova ragione nel fatto che l’inquadramento militare dei Partiti Comunisti deve essere preceduto dall’inquadramento politico, al quale furono rivolte le nostre cure speciali dal Congresso di Livorno in poi.

I due inquadramenti non si sostituiscono né si ostacolano, ma si completano a vicenda.
 
 
 
 
 
 

“Ordine Nuovo”, 28 settembre 1921
Il Comitato Esecutivo
CONTRO L’OFFENSIVA DELLA REAZIONE

Lavoratori, compagni!

Il ripetersi di gravi avvenimenti dimostra che è ben lungi dall’arrestarsi l’offensiva reazionaria delle bande armate borghesi. Le violenze del fascismo, la reazione larvata o aperta dell’autorità statale non sono che uno degli aspetti del movimento generale antiproletario, che nel campo economico si manifesta con il tentativo di ridurre il salario agli operai e di inasprire le condizioni di lavoro con licenziamenti e serrate, attraverso tutta una campagna di insidie e di violenze contro le organizzazioni dei lavoratori.

Più volte il nostro Partito ha dichiarato innanzi alle masse come tutto questo confermi la irreparabilità della crisi della società borghese, che spinge la stessa classe dominante a provocare e sfidare il proletariato all’urto supremo.

Dinnanzi al moltiplicarsi degli episodi di aggressione borghese, il Partito comunista riconferma così questa visione generale della situazione come la tattica di cui i suoi militi già hanno tradotto e traducono in atto la parola d’ordine: rispondere colpo per colpo, con tutti gli stessi mezzi dell’avversario, combattendo l’invocazione ipocrita e la perniciosa illusione del ristabilirsi, nei quadri delle attuali istituzioni, di rapporti pacifici di convivenza delle opposte classi sociali, denunciando le pretese pacificazioni come atti di complicità con i dominatori e con gli aggressori.

Nello stesso tempo il Partito comunista addita al proletariato, come unica via d’uscita da una situazione che ogni giorno più si inasprisce ai suoi danni e che deve essere affrontata nella sua complessità di fatto economico, sociale e politico, l’azione di tutto il proletariato, condotta realizzando il fronte unico di tutte le categorie e di tutti gli organismi locali della classe lavoratrice. A tale scopo, mentre ci atteniamo al nostro programma politico che stabilisce i capisaldi della lotta di emancipazione proletaria nell’abbattimento dello Stato borghese e nell’instaurazione della dittatura proletaria, abbiamo, per mezzo del comitato sindacale comunista, proposto i chiari termini e gli obiettivi di una azione di tutto il proletariato italiano, da perseguirsi con la proclamazione dello sciopero generale d’intesa tra i grandi organismi nazionali sindacali. Il preciso invito da noi rivolto alla Confederazione del lavoro, all’Unione sindacale ed al Sindacato ferrovieri italiani per la convocazione dei loro consigli nazionali per discutere la precisa proposta comunista ed impostare, d’accordo tra loro, l’azione generale del proletariato, mentre ha sollevato ampia eco favorevole tra le masse, non è ancora riuscito a scuotere i dirigenti.

Il nostro Partito concreta in questa proposta il programma d’azione immediata del proletariato. Gli avvenimenti che incalzano ne mettono in evidenza la giustezza e l’efficacia. Gli altri partiti che si richiamano al proletariato, e soprattutto il Partito socialista, oggi atrocemente colpito, malgrado le sue proteste di disarmo, non esprimono alcun parere sulla nostra proposta; né d’altra parte prospettano altri programmi d’azione proletaria.

Lavoratori!

Le gesta sanguinarie delle bande bianche che sollevano l’onda della vostra indignazione mentre lo spettro della fame incombe su di voi e sulle vostre famiglie, vi inducono a guardare in faccia la situazione.

Convocatevi nei vostri organismi per discutere la proposta del Comitato sindacale comunista.

Chiedete la convocazione dei Consigli nazionali dei grandi organismi proletari economici per deliberarne l’attuazione.

Esigete dai partiti e dagli uomini politici, che vi parlano degli interessi dei lavoratori sfruttati, oltraggiati e aggrediti, che si pronuncino chiaramente sullo scottante problema, che dicano il loro pensiero sull’azione che deve svolgere il proletariato.

La vostra salvezza è solo in un’azione generale diretta delle masse, che non si prefigga un’assurda conciliazione dei vostri interessi con quelli della borghesia, ma la lotta a fondo contro di questa: non il ristabilimento, ma l’abbattimento dell’ordine legale borghese.

Solo così vi salverete dalla fame, dalla reazione, dall’oltraggio, dall’aggressione che oggi infieriscono contro di voi.

Viva l’azione generale di tutto il proletariato contro l’offensiva capitalista, verso la finale vittoria rivoluzionaria!
 
 
 
 
 

“Il Sindacato Rosso”, 1° ottobre 1921
ALTRO PATTO D’INFAMIA

I socialisti di Segugnago firmano 1’espulsione dalle leghe dei comunisti d’accordo con i capi dei fasci.

Giunge notizia da Segugnago (prov. di Milano) di un trattato di pacificazione colà avvenuto tra socialisti e fascisti di cui vi trasmettiamo il testo integrale che riproduciamo dal “Popolo d’Italia” di oggi:

     «Segugnago 26 - Vi comunichiamo il testo del trattato di pacificazione tra socialisti e fascisti firmato l’altro giorno tra i rappresentanti locali dei due partiti:
     «Io sottoscritto, sindaco di Segugnago, in unione all’assessore anziano sig. Melponi Maurizio, al capo bracciante Zeni Antonio (consigliere comunale) allo scopo di addivenire alla pacificazione degli animi, abbiamo chiesto ai fascisti locali una riunione onde scendere a patti. Oggi 23 Settembre 1921, riuniti nella sala comunale con l’intervento del Fascio di Casalpusterlengo sig. Magnaghi Luigi (segretario politico), dei fascisti locali Ponti Ettore e Rossi Paolo, dei rappresentanti del fascio di Lodi e dei rappresentanti della Federazione militare dei Fasci italiani di combattimento, abbiamo stabilito quanto segue:
     «1) Esposizione della bandiera nazionale dal palazzo comunale da oggi a oggi otto, in segno di pacificazione.
     «2) La bandiera rossa portata nei cortei e feste locali socialiste, dovrà essere fregiata da un nastro tricolore (nazionale) in senso diagonale e dello spessore di trenta centimetri.
     «3) Espulsione dalle leghe dei comunisti e proibizione assoluta ai socialisti di portare distintivi dei soviet. Scissione diretta delle responsabilità ed obbligo di denunciare l’opera dei comunisti.
     «4) Rispetto per ogni azione fascista (manifesti propaganda ecc.) ed obbligo di non pubblicare e non permettere frasi antipatriottiche e sovversive.
     «In caso di mancato adempimento ad una delle clausole, il trattato si dovrà ritenere abrogato.
     «Le piccole questioni locali saranno composte dalla commissione arbitrale».
[Seguono le firme]
* * *

Dunque d’ora in poi nastro tricolore alle bandiere rosse, espulsione dei comunisti dalle leghe, obbligo di denunciare l’opera dei comunisti. Spionaggio in piena regola! Tuttavia sopra un punto del patto d’infamia dei “socialisti” di Segugnago noi concordiamo pienamente: sul punto ove viene proibito ai socialisti di portare il distintivo dei Soviet! Perché le spie non debbono assolutamente insozzare, al loro contatto, il glorioso emblema della rivoluzione russa!
 
 
 
 
 

“Il Comunista”, 27 dicembre 1921
Il Comitato Esecutivo
CONTRO L’OFFENSIVA POLIZIESCA

I comunisti non si fanno illusioni sulla fedeltà di tutti gli elementi che compongono le file del Partito: essi sanno che una delle consuete forme di attività della polizia politica è quella di avere informatori propri nelle file dei partiti rivoluzionari, cercando di inscriverli come nuovi soci nei partiti, ovvero tentando di corrompere taluni che già vi sono iscritti.

Noi sappiamo che anche nel nostro Partito vi sono degli inscritti che hanno il compito di informare la polizia sull’attività politica del Partito e dei suoi membri. L’organizzazione accentrata del Partito comunista, dando ampi poteri ai Comitati esecutivi, ostacola in parte il lavoro d’informazione degli agenti della polizia, la quale, dovendo raccogliere materiali, documenti e notizie sull’attività dei comunisti, è costretta a ricorrere a frequenti perquisizioni nelle sedi del Partito o nelle abitazioni dei compagni che sono a capo degli organi del Partito, ovvero ad intercettare la corrispondenza inviata dal nostro centro alla nostra periferia.

Non è qui il luogo di dare delle norme (specie ai compagni che coprono cariche direttive) per controllare l’attività privata di tutti i compagni. Le Commissioni di controllo – composte di elementi di provata fede – debbono indagare assiduamente sulla vita di ciascun inscritto.

Ma in questi ultimi tempi, allo scopo di sgretolare il Partito comunista senza che la conclamata libertà di svolgimento della sua attività politica possa apertamente e clamorosamente essere intaccata, la polizia ha incaricato propri agenti provocatori di mettersi a contatto con elementi comunisti che sono alla periferia dell’organizzazione nostra per trarli – attraverso un’abile e furbesca rete d’inganni – in “fallo”, e giustificarne l’arresto. Dall’attività di semplici informatori di polizia ci si può guardare imponendo un controllo interno di partito, sistematico e perfezionato. Dall’attività degli agenti provocatori ci si deve guardare richiamando i compagni alla disciplina ed alla obbedienza più strette ai soli organi elettivi del Partito.

I compagni non debbono riconoscere nessun’altra autorità che quella dei Comitati esecutivi da essi nominati. Un’azione artificialmente provocata da agenti provocatori tende a sopprimere la voce di decine e decine di lavoratori, ed a giustificare l’arresto dei capi che – con la logica semplice fatta scaturire da una mostruosa macchina di abili inganni – sono i responsabili dei loro complotti e di quelle azioni delittuose, preordinate dalla polizia ed eseguite dai suoi appositi agenti.

Un’altra forma di attività degli agenti informatori della polizia è quella che si manifesta attraverso l’afflusso delle vittime politiche nazionali ed internazionali, che tutt’ora è notevole presso le nostre sezioni ed i nostri organi di Partito. Questa attività poliziesca mira a diversi scopi. Sfruttando il nobile senso di solidarietà dei nostri compagni, che qualche volta arriva all’inintelligente e delittuosa forma di confidenza, gli agenti camuffati da vittime politiche cercano di carpire i segreti dell’organizzazione del Partito. Molti di questi loschi figuri girano l’Italia da un capo all’altro, muniti di fogli di raccomandazione, regolarmente timbrati e firmati, che compagni ed organizzazioni rilasciano con colpevole facilità. Gli scopi di costoro sono di varia natura, fra i quali quello di conoscere l’organizzazione del Partito. Quando si pensi al numero copioso di agenti provocatori e di spie che si occupano precipuamente di sorvegliare l’attività del proletariato rivoluzionario, ed al dispendio favoloso che il Governo sopporta per questi servizi, si ha la nozione dell’importanza che i poteri statali danno al lavoro di informazioni politiche interne, che – del resto – è una delle attività più necessarie degli organi di polizia.

Riassumiamo:
     1) controllo assiduo sull’attività degli inscritti al Partito, da parte delle Commissioni di controllo e di altri organi che le Sezioni crederanno opportuno di creare a tale scopo;
     2) dovere dei compagni di non parlare mai di questioni inerenti alle attività del Partito stesso;
     3) un compagno che ha avuto un incarico dal Partito, o che sia venuto in possesso di una notizia, non deve darne partecipazione ad altri compagni, siano pure, questi, fidatissimi. Tali confidenze non sono necessarie, dunque non siano fatte;
     4) nessuna disposizione sia eseguita se non giunga da organi riconosciuti dal Partito e le iniziative di singoli compagni siano diffidate;
     5) la vittima politica, il profugo politico siano tenuti d’occhio. Non rilasciare ad essi mai certificati di identità e fogli di raccomandazione, se non attraverso gli organi gerarchici del Partito, ed allorché questi siano certissimi della fedeltà e della sincerità delle vittime e dei profughi. In generale, diffidare delle vittime politiche e dei profughi politici, che si presentano per essere avviati ad altra località. È meglio colpire ingiustamente un compagno per eccesso di severità, anziché rimanere col dubbio che egli sia un agente provocatore od una spia. In un’organizzazione come la nostra il dubbio non può indurci ad assolvere, ma deve invitarci a condannare.

Richiamiamo l’attenzione di tutti i compagni su questo comunicato, il quale deve essere letto e commentato in tutte le assemblee sezionali.
 
 
 
 
 

“Ordine Nuovo”, 8 marzo 1922
DIFESA PROLETARIA

Un difficile argomento tattico per il nostro partito è quello dei Comitati di “difesa proletaria” dei quali si annunzia adesso, non si capisce bene ad iniziativa di chi, un congresso nazionale.

Quando noi dimostriamo quanto diverso sia il nostro punto di vista sulla situazione in cui oggi versa il proletariato da quello di altri partiti e movimenti che sono indicati come confluenti nella azione di “difesa”, si crede per lo più dai superficiali che noi facciamo una pura quistione di teoria e di principii, e che la pregiudiziale della diversità di opinioni ci basti per condannare senz’altro ogni azione comune. Invece è vero proprio il contrario: e nelle riserve fatte dal nostro partito alla costituzione di comitati misti di difesa proletaria e degli “arditi del popolo” siamo stati guidati proprio dalle immediate esigenze della nostra azione concreta e dalle prevedibili conseguenze che a breve scadenza avrebbe avuto l’uno o l’altro atteggiamento effettivo, e queste constatazioni pratiche non han fatto che confermare il nostro punto di vista generale.

Le nostre idee sulla natura della offensiva borghese e del fascismo sono ben note, e ci conducono ad una doppia previsione: o l’offensiva borghese avrà il sopravvento, e ridurrà il proletariato a rinunziare ad ogni iniziativa rivoluzionaria e ad ogni forma di organizzazione capace di resistere alle esigenze economiche di sfruttamento del capitalismo, o invece il proletariato riuscirà a respingere l’offensiva padronale rovesciando il potere statale organizzato della borghesia e schiacciando le organizzazioni bianche di combattimento sotto il peso di una dittatura di classe. Queste considerazioni derivano dall’esame dell’attuale situazione economica: il regime borghese se non sarà rovesciato dalla rivoluzione dovrà assicurarsi per funzionare la possibilità di sottomettere i lavoratori ad uno sfruttamento intensivo molto peggiore di quello degli anni decorsi, e dovrà condurre a fondo l’offensiva contro i patti di lavoro, per cui adopererà le forze della reazione statale e fascistica. Non vi sarà più posto per una situazione di neutralità dello Stato, e di impedimento da parte di questo di ogni violenza, nello svolgersi delle vertenze economiche fra capitale e lavoro: situazione che del resto non si è mai verificata perché contrasta al compito naturale dello Stato borghese: solo che questo deve oggi rinunciare a celarsi sotto la menzogna democratica, e per seguitare a servirsi del gioco di questa organizza l’azione delle bande bianche al di fuori della sua organizzazione ufficiale.

Da questo punto di vista generale discende questa norma di azione pratica: le masse devono dotarsi di una organizzazione di lotta che sia capace: di fronteggiare l’offensiva fascista con gli stessi suoi mezzi; di agire contro l’organizzazione legale dello stato in quanto oggi sorregge il fascismo e reprime l’azione antifascista, domani scenderà direttamente nel campo della lotta; di servire di base ad una organizzazione statale militare proletaria che dopo la vittoria delle masse impedisca l’esistenza di ogni organizzazione bianca di lotta controrivoluzionaria.

Compito del partito comunista è di assicurare alla reazione istintiva delle masse, oltraggiate e sacrificate, contro il fascismo queste possibilità di superare con successo le inevitabili successive fasi della situazione. Il consenso delle masse intorno a questa azione deve indubbiamente, per poter avere probabilità di vittoria, venire esteso anche a quegli strati notevolissimi del proletariato che pur essendo istintivamente contro il fascismo restano nella zona di influenza politica di partiti che non sono il nostro. Ma se la base della organizzazione di lotta comprendesse tutte queste masse, ma fosse tale da condurre alla incapacità di un’azione diretta antifascista, di una lotta contro le forze della legalità statale, ed infine di consolidarsi in un organismo di dittatura rivoluzionaria, si metterebbero tutte le forze di cui il proletariato può disporre sulla via di una non lontana sconfitta.

I partiti che oltre il nostro si schierano contro il fascismo e accettano genericamente il criterio di una aziona generale proletaria contro di esso, hanno una diversa visione di questa lotta ed un diverso programma. Molti di essi, come il partito socialista, non solo hanno apertamente sconsigliato le masse dalla resistenza organizzata ed armata al fascismo, ma con questo hanno tentato persino la pacificazione. Tanto socialisti come repubblicani ed altri gruppi si prefiggono una tale forma di azione di difesa proletaria che abbia come obiettivo il ristabilimento del “diritto comune” e la eliminazione dalla lotta armata tra fazioni politiche nella sovranità imparziale dello Stato. Le dette correnti hanno poi in comune con quelle sindacaliste ed anarchiche la prospettiva della libertà per tutti, e silurerebbero domani con ridicoli scrupoli la restaurazione del terrore proletario sola dialettica negazione del fascismo, la soppressione delle bande e delle organizzazioni anche “pacifiche” della borghesia controrivoluzionaria, dopo una possibile prima vittoria delle masse. Infine gli anarchici e sindacalisti non formolano questo concetto della libertà per tutti solo come una realizzazione del loro obiettivo rivoluzionario assai prossimo al nostro di abbattere lo stato borghese per sopprimere ogni forma di Stato, ma sembrano accettarlo – il che vuol dire RITENERLO POSSIBILE COME USCITA DALLA ODIERNA SITUAZIONE – anche come obiettivo contingente, anche come realizzabile da parte dello Stato borghese.

A questo punto molti osservano: sta tutto bene, i vari partiti proletari non sono concordi nel valutare la situazione e i suoi sbocchi più o meno remoti, non sono d’accordo nel programma di domani, ma per intanto sono per una lotta contro la intollerabile situazione in cui versa il proletariato il quale anela con tutte le sue forze ad una azione purchessia: si gettino le basi di questa, e nel suo corso il partito comunista, se le sue previsioni si verificheranno, indicherà i nuovi obiettivi e le opportune forme di lotta, e indubbiamente guadagnerà la dirigenza della massa. Ci si permetta a questo punto una espressione volgare, ma che è una buona risposta all’eccessivo impiego nella politica comunista e marxista di una forma di banale sentimentalismo che posa a raffinatezza di tattica: se ci si firma una cambiale come garanzia che le cose andranno così allora noi, come dirigenti responsabili di un partito, ne impegneremo le forze sul terreno di queste iniziative di difesa proletaria intesa come azione e organizzazione comune di lotta di tutte le correnti del campo operaio. Ma il fatto è che indizi pratici evidentissimi ci mostrano come una organizzazione e un’azione così impostata non solo nel suo insieme seguiterebbe una via illusoria, ma fino dai primi momenti potrebbe incanalarsi nelle insidie e nei disastri.

Costituire comitati locali o nazionali per la difesa proletaria e una organizzazione unica a tipo militare come quella degli “arditi dei popolo” significa demandare ad essi e alla maggioranza di questi organismi la scelta delle azioni da svolgere. Poiché per costituirli bisogna rinunziare a mettere come pregiudiziale dell’impegno reciproco anche la prima e la più modesta delle direttive che noi abbiamo accennato come quelle che detta la situazione all’azione proletaria. Se anche si chiedesse a tutti i partecipanti l’impegno, non con vaghe espressioni, ad adoperare contro il fascismo gli stessi suoi metodi di guerra civile, e tanto più se si esigesse l’impegno alla lotta contro le forze ufficiali dello Stato, è evidente che ogni accordo andrebbe a monte. Tutto quello che in una simile costituzione di organi di azione è possibile ottenere è che “non si escluda” nessuno dei mezzi di azione: non la nostra violenza né 1’opera “pacifica” che altri potrebbe adoperare. Nella indecisione degli scopi e dei mezzi, resterebbe però un fatto concreto: la comune disciplina, che avendo in vista azioni a carattere politico o politico-militare, deve necessariamente essere una disciplina di tal natura da riuscire superiore a quelle dei singoli partiti, e condurre direttamente a una gerarchia con poteri superiori a quella della gerarchia dei partiti. In altri termini un partito non potrebbe fare nel tempo stesso un’azione politica e di lotta sua propria, e quella comune della concordata “difesa proletaria” e anche avendo diverse intenzioni in pratica, non per mania di lealtà, ma per esigenza reale delle cose, darebbe tutte le energie proletarie di cui può disporre, molte o poche che siano, alla azione comune e alla organizzazione comune.

Vediamo come potrebbe avvenire, anzi come avverrebbe, nella concreta situazione in cui ci troviamo in Italia, che anziché portare la massa sulla via della azione suscettibile di vittoria che noi consideriamo, la si porterebbe, tutta, sulla via disastrosa della collaborazione con la cosiddetta sinistra borghese e coi suoi piani conservatori. L’adesione incondizionata a quelle coalizioni significa il massimo di incoraggiamento ad uno stato d’animo che si maschera di generosa impazienza, ma sul quale speculano evidentemente per volgare demagogia gli elementi più retrivi e opportunisti che abbiano séguito nell’ambiente proletario: qualunque cosa, purché finisca la situazione indescrivibile delle masse operaie e contadine percosse dalla maledizione fascista, qualunque via d’uscita, sia essa la dittatura del proletariato, o quella... del diavolo. Data la nostra adesione a questa maniera di gettarsi nell’azione, che è spiegabile per le masse tormentate e straziate, ma che contiene il pericolo che esse affidino la loro difesa al tradimento del pseudo-antifascismo social-democratico, noi comunisti perderemmo ogni possibilità, come seguito morale e come organizzazione materiale, di spezzare questo piano opportunista che, coscientemente o meno, confluisce nei suoi effetti col fascismo e colla offensiva borghese.

Considerazioni perfettamente analoghe a quelle che stiamo svolgendo valgono pei casi in cui si sollecita il proletariato al fronte unico “elettorale” dandogli l’illusione che la conquista legale di un Comune sia per se stessa una vittoria sul fascismo e così “sciupando” la lezione dataci dal fascismo che non significa nulla il possesso legalissimo, non di uno, ma di mille Comuni, senza la capacità di azione e di lotta diretta della classe proletaria contro la borghesia.

Per ritornare al nostro sviluppo e mostrare che via prenderebbe oggi una alleanza generale politica e di partiti cosiddetti proletari in Italia, basta riassumere quello che risulta da mille indizii, che non sono solo portato di critica, ma anche di quelle informazioni che chi sta alla testa di un movimento deve sapersi procurare sui piani degli avversari... e degli alleati.

È evidente nel partito socialista e nella Confederazione del Lavoro, senza una seria opposizione da parte di altri organismi operai come il sindacato ferrovieri, i lavoratori del mare, dei porti, e cento gruppi di senza-partito, il proposito di uscire dalla situazione “fascista” con un Ministero se non di collaborazione socialista-borghese, almeno fondato sulla sinistra parlamentare con alla testa De Nicola o Nitti. È evidente che la maggioranza del movimento di difesa proletaria inteso nel senso di cui parliamo graviterebbe verso questa soluzione e impegnerebbe a determinarla le forze del proletariato, pur ripetendo ad ogni istante che non si esclude la lotta diretta e magari il vespro antifascista. Se questo risultato parlamentare non sarà conseguito, e sino a quando non lo si sarà conseguito, si continuerà in modo più o meno aperto a far capire alle masse che essendo una azione diretta contro le forze sommate del fascismo e del Governo per il momento inattuabile, bisogna sì agitarsi e dimostrare, ma solo per conseguire il governo “migliore”.

La formola del diritto comune e della libertà per tutti non è che l’equivalente di questa espressione: ma qui non si tratta di espressioni teoriche e di nostra ipercritica dottrinale; qui si tratta di intenzioni e di preparativi concreti e di indirizzi dello slancio delle masse che si tende a preparare, e qui sta la responsabilità di un partito che non vuole fare il gioco degli altri, e in conclusione quello della borghesia avversaria. Quando, presto o tardi, si arriverà al ministero di sinistra (il modesto sottoscritto esprime la convinzione che vi si giungerà senza che la destra tenti nessun grande o piccolo colpo di Stato perché in tutto questo non vi è che una controscena parlamentare e una grande stima reciproca della decisione di tutti a lavorare contro la rivoluzione e contro il proletariato) le probabilità sono facili ad esaminare.

Il ministero non vorrà, noi ne siamo convinti, fare alcuna seria azione antifascista. Ma ammettiamo pure che lo volesse, non lo potrà, per le considerazioni tante volte esposte sul funzionamento del meccanismo dei poteri esecutivi, che si vedono all’opera antiproletaria indipendentemente dal senso in cui spirano i venticelli fetidetti della politica parlamentare. Ma vi è la possibilità effettiva che si assista ad una certa parentesi apparente d’inazione fascista, poiché il movimento fascista considererà come un successo aver costretto il proletariato nell’ambito della legalità, e tanto in maggior misura quanto più il partitone socialdemocratico si sarà impegnato nella combinazione ministeriale e potrà vantare per tale realizzazione “di difesa proletaria” il diritto ad un periodo di benevola attesa da parte di tutti gli altri organismi del proletariato immobilizzandoli in questo primo risultato e nella esperienza di esso.

Non vi è bisogno di fare i profeti per mostrare come questa situazione conterrà i germi di più terribili attacchi sferrati contro il proletariato. La costituzione di un ministero caro al riformismo dei socialisti confederali non arresterebbe affatto l’offensiva economica dei padroni contro il proletariato industriale ed agricolo, ma servirebbe solo con le sue ipocrisie demagogiche a ritardare l’unica forma di effettiva riscossa delle masse che potrebbero essere decisamente spinte sulla via rivoluzionaria: lo sciopero generale contro le riduzioni salariali.

In una simile situazione, raggiunta come risultato dell’alleanza per la cosiddetta “difesa proletaria”, gli elementi rivoluzionari, non solo comunisti, ma anche sindacalisti e anarchici, e persino i gruppi di senza partito spinti alla lotta dalla disperazione, si troverebbero senza nessun punto d’appoggio, ove avessero seguito la tattica di coalizione che da alcune parti si propone, e ogni tentativo di rimettere una minoranza delle masse sul terreno di una indipendente azione rivoluzionaria provocherebbe lo scatenarsi concorde su tali gruppi della organizzazione fascista e dello Stato, geloso custode del “diritto comune”.

Senza più oltre insistere in queste previsioni sugli sviluppi della situazione italiana, ricordiamo come ben altrimenti si presenti la tattica nostra e la via di azione proletaria, se si giunge a costituire la piattaforma di una azione sindacale generale che, mettendosi tutt’affatto al di fuori dei risultati di ordine parlamentare, segni lo schieramento delle masse contro le pretese economiche del padronato, di cui tutto il resto, dal fascismo agli inganni democratici, non è che l’armamentario. L’alleanza del Lavoro, materiata di questo contenuto: unione effettiva di tutti i lavoratori per la difesa del tenore di vita operaia e della esistenza stessa dei Sindacati e coll’impiego dello sciopero generale nazionale, rende superfluo ogni Congresso di difesa proletaria.

Una prova che le nostre vedute hanno un valore concreto, è che i sostenitori delle iniziative per la difesa proletaria non replicano mai alle nostre valutazioni, lasciando questo compito alla stampa non sospetta anarchica e sindacalista, e ben sapendo che la nostra replica polemica scoprirebbe nelle stesse loro dichiarazioni la prova del giochetto che vogliono fare.

Chi risponderà, oltre il troppo ingenuo zelo di “Umanità Nuova”, se noi chiederemo questo: sarebbe stato convocato il Congresso della difesa proletaria se si fosse riusciti a far uscire dalla crisi un Ministero diverso da quello giolittiano, di Facta, coi suoi Vigliani alla pubblica sicurezza?

Ci consentano i compagni di dichiarare che nello svolgere la tattica del Partito, difficile compito a cui è ben possibile che i capi attuali siano inferiori, non ci ha guidati mania di purezza teorica, ma il semplice intento di non lasciar fregare – sia detto con espressione poco accademica – il Partito e il proletariato. E siamo convinti che se si cedesse alla concomitante influenza di un sentimentalismo unitario impaziente di sollevare facili crociate e alle suggestioni di proposte tattiche complicatissime per cui si giungerebbe per le più imprevedute vie a difficili mete, senza confrontare tutto questo ad ogni istante con gli svolgimenti che si presentano possibili e che si accennano nella situazione concreta (cosa a cui fino a prova contraria è per noi utilissimo lume anche la dottrina) si lavorerebbe a mettere il proletariato italiano in una situazione perfettamente corrispondente a quella degli anni decorsi, in cui contro le delusioni e i tradimenti molto hanno gridato tutti gli elementi rivoluzionari, ed i comunisti hanno incanalata la riscossa nella chiara via della scissione.