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È stata fatta di recente una grande scoperta grazie alle indiscrezioni di un addetto ai lavori, che, pare, non ne abia potuto più di menzogne e trame ed ha, come si dice, vuotato il sacco. Un fantasma aleggia sul mondo. Ma non è quello di antica memoria, quello che turbava i sonni delle classi possidenti e degli Stati borghesi. Quello è passato di moda per le coscienze democratiche d’occidente, mentre resta un problema ben aperto per il Capitale e per gli Stati che si ergono a difesa delle sue porzioni nazionali, che non dimenticano il pericolo della rivolta sociale, i rischi per l’ordine costituito della ripresa della lotta di classe.
Questo invece è un fantasma già descritto in un romanzo del secolo scorso, prefigurato da un’immagine baffuta ossessivamente presente in un terribile ed oppressivo ambiente sociale, trasposizione della dittatura staliniana mediata dalle sensibilità democratiche del laburista Orwell. Ma lui si trovava a scrivere i suoi pamphlet nell’epoca delle grandi dittature continentali europee, con l’ossessione del pericolo che correvano le presunte libertà per il minaccioso avanzare del “comunismo”; e a modo suo aveva ragione. Che la dittatura stalinista, divorante spietatamente i figli della Rivoluzione d’Ottobre, fosse diventata una controrivoluzione borghese, non era allora neppur minimamente immaginabile, salvo per alcuni compagni che avevano già visto, capito ed anticipato. Non è chiaro ai più neppure oggi, ma ai tempi di “1984”, il concetto stesso di comunismo, visto come la negazione di ogni libertà individuale e dello strapotere assoluto dello Stato sull’individuo indifeso, terrorizzava i bravi democratici, ancor di più se laburisti.
Già, la libertà individuale.
Peccato che questo mostro, che spia ogni dettaglio del viver quotidiano, sia oggi il figlio più che legittimo delle grandi “democrazie” del mondo, che hanno perfettamente adattato ogni tecnologia al loro disperato bisogno di controllo sociale. Senza dimenticare ovviamente lo spionaggio industriale, quello tra gli Stati e tra le fazioni diverse delle bande che si contendono il controllo delle macchine statali.
È come un male necessario del quale dolersi, ma non stupirsi; tutto l’immane apparato tecnico ed ideologico sembra esser messo apposta per semplificare questa “mission”, renderla possibile e farla fruttare. È il male oscuro, il lato buio contrapposto, ma non separabile, dal luminoso mondo delle democrazie d’occidente, favorito appunto dall’immane sviluppo e concentrazione della tecnica, che pare esser messo lì apposta per essere usato. Come farne a meno!
Va da sé che nell’immaginario collettivo, vale a dire nell’asfissiante apparato di formazione dell’opinione comune – che si avvale, anche quello, di un formidabile apparato tecnico ed ideologico portato ai massimi livelli dagli specialisti dello scorso secolo – il bau-bau delle coscienze non è più il Comunismo, relegato ad anticaglia del ‘900, ma un avversario ancora più subdolo, sfuggente e micidiale, che assume forme diverse ed usa diverse strategie per scardinare il sacrosanto assetto delle grandi democrazie statali. E tanto per dargli un nome, un’etichetta buona da apporre ad ogni boccettina contenente “veleno”, gli hanno appioppato quello di Terrorismo, in nome del quale ogni nefandezza, ogni violazione del pur borghese “diritto” tra gli Stati e tra le collettività umane è lecito, anzi necessario.
Le coscienze dei democratici vacillano, si turbano. Il pericolo del Terrorismo appare reale – ci mancherebbe, sono tutti schierati per l’ordine esistente e solidali nel propagandarne i miti e le truffe – ma anche la riservatezza individuale, la libertà di pensare e scrivere, l’essenza della persona, i diritti civili sono beni fondanti, valori definitivi da difendere comunque...
Come conciliare demonio e acquasanta? Forse con legislazioni più severe e garantiste, forse con apparati statali rigorosamente democratici, forse con una nuova etica del controllo. Gira gira, le ricette dei democratici sono sempre le solite.
Però il grande apparato di controllo e spionaggio rimane lì, a turbare i sonni e le coscienze. Ieri ECHELON, oggi PRISM, le sigle si sdoppiano per questi immani baracconi che spiano in automatico, o almeno così dovrebbero, la Ragnatela Globale che avvolge l’intero orbe terracqueo in una vertiginosa interconnessione informativa, sulla quale transitano quasi tutte le comunicazioni tra individui, collettività, organizzazioni e Stati.
Tanto potenti e sofisticati, quanto più intrinsecamente fragili nella loro esasperazione tecnologica, più bisognosi di un apparato di oscuri manutentori – alla faccia dell’automatismo – così numerosi che gli Stati sono costretti a reclutarli fuori dai loro perimetri istituzionali, tra Compagnie di oscuri faccendieri, legioni di analisti part-time che si troverebbero a maneggiare informazioni ultra-top-secret, alla faccia della riservatezza. I consulenti in questo ingranaggio sembrano non essere mai abbastanza, ce ne vogliono sempre di più; è un apparato in cui tutti spiano tutti, come si favoleggia avvenisse negli Stati detti “totalitari”, quelli delle passate dittature sul tipo della STASI, il Servizio di sicurezza della defunta DDR.
Ecco che bastano le risapute confidenze di un giovanotto qualunque per far emergere la dimensione dell’imbroglio. Come sicurezza non c’è male. Una muraglia formidabile davanti, dietro una rete per polli. Ma questa è la condizione generale dell’assetto ultimo del regime capitalista, la paranoia degli Stati in una guerra di tutti contro tutti, nemici ovunque, esterni e soprattutto interni. Nella sua forma più estrema lo Stato del capitale vede, ed effettivamente ha, nemici ovunque.
In fondo anche queste “confidenze” paiono avere uno scopo, quello di soffocare ogni dissenso, ogni ribellione; una debolezza mostrata come segno di una forza inarrestabile, di una prepotenza senza limiti. Vogliono terrorizzare per non mostrare quanto le loro fradice strutture sono incapaci di mantenere l’ordine costituito, l’ordine per lo sfruttamento del capitale sul lavoro vivo. Ad ogni sia pur debole manifestazione di dissenso, le reazioni sono di una violenza sempre più cieca ed incontrollata.
Del pari, sul terreno dei rapporti internazionali, dilaga una feroce volontà di scontro, una instabilità che miserrimi Summit cercano di mascherare con risibili dichiarazioni di pace e concordia.
Questa è la fase ultima di un ultra decennale ciclo capitalistico,
che si è aperto con la ricostruzione dopo la Seconda Guerra e si sta
chiudendo
con le premesse di un altro conflitto mondiale.
Capitolo esposto a Cortona nel maggio 2012 [RG113]
Dal nazionalismo di Mazzini all’anarchia
Garibaldi
La presente puntata inizia, come terminava la precedente, riportando le parole di Andrea Costa: «Mazzini soprattutto si alienò la parte più calda e generosa della gioventù, cresciuta alla scienza nuova, infierendo contro alla Comune caduta, e attribuendo in gran parte alle teorie materialistiche la disfatta della Francia». Ciò spiega la ragione per cui molti giovani repubblicani trovassero il coraggio di chiudere definitivamente con Mazzini.
Il programma della Comune di Parigi appassionava le giovani leve rivoluzionarie italiane e l’entusiasmo per gli eroici difensori di Parigi si trasformava in istintiva adesione e senza riserve all’Internazionale, provocando una forte crisi nel movimento mazziniano.
All’affermarsi di questo nuovo indirizzo un buon contributo venne dato dalla presa di posizione di Garibaldi, antitetica a quella di Mazzini. Un dissidio fra i due, una diversità di impostazione, era antico, risaliva almeno al 1848, ma fu nel 1871 che si palesò insanabile, proprio a causa dei loro opposti atteggiamenti nei confronti della Comune.
Come abbiamo altre volte affermato, Garibaldi non era né un teorico (e nemmeno a tale si atteggiò mai), né aveva idee molto chiare dal punto di vista programmatico, era però un generoso istintivo.
«La grand’anima di Garibaldi – scrisse Andrea Costa – di colui che affermò essere l’Internazionale il Sole dell’avvenire, doveva necessariamente comprendere, diversamente dal Mazzini che non lo comprese, o lo comprese male, quanta forza di sacrificio, quanto avvenire ci fosse nella Comune di Parigi. Perciò, mentre tutti ingiuriavano e calunniavano la Comune di Parigi, o, al più, tacevano, Garibaldi ne prese generosissimamente la difesa e così scrisse fin dal 1871, allorquando la Comune giaceva mortalmente ferita, ma non morta, sotto i piedi di quel medesimo esercito che, arresosi ai Prussiani, aveva fatto meraviglie sul corpo degl’infelici operai di Parigi, delle loro donne, dei loro figli. “Chi vi ha spinti – esclamava Garibaldi – chi vi ha spinti a gettar l’anatema sui caduti, i soli uomini che in questo periodo di tirannide, di menzogna, di codardie e di degradazione, hanno tenuto alto – avvolgendovisi morenti – il santo vessillo del diritto e della giustizia? – Anatema su Parigi! e perché? Perché distrusse la colonna e la casa di Thiers? Avete mai veduto un villaggio intero distrutto dalle fiamme per aver dato ricovero ad un volontario o ad un franc-tireur? (bersagliere della repubblica). E ciò non solo in Francia, ma in Lombardia, nel Veneto e dovunque”».
Andrea Costa continuava: «Così pensava, così scriveva Garibaldi. Uomo della passata generazione per la sua vita, intuiva, tuttavia, con la mente e col cuore, tutti i problemi, che alle nuove generazioni si impongono; e sui giornali, come sui campi di battaglia, gridava: “Avanti, figliuoli!” In faccia ai borghesi di tutto il mondo, prima esterrefatti dalla Comune e poi invasati da un delirio di gioia al vederla abbattuta, Garibaldi affermò di appartenere anche lui a quella feroce banda di malfattori e di approvare il loro operato».
Dobbiamo però rimarcare che l’adesione al “socialismo” e all’Internazionale di Garibaldi non solo non era informata al marxismo, ma nemmeno al comunismo rivoluzionario.
Nel 1867, in un colloquio a Ginevra con i rappresentanti dell’Internazionale, aveva detto: «I vostri principi sono i miei». Però per capire cosa intendesse per Internazionale bastano queste sue parole: «Se la Internazionale – come la intendo io – sarà una continuazione del miglioramento morale e materiale della classe operaia, laboriosa ed onesta, conformemente alla tendenza umana di tutti i tempi – e massime degli odierni – in conflitto col sibaritismo dell’autocrazia, teocrazia, e colla ingorda pleiade di chi arricchisce con la miseria altrui, io sarò coll’Internazionale» (21 ottobre 1871 a Giuseppe Petroni). «Ciò su cui vorrei richiamare la vostra attenzione [...] si è la questione sociale, che è rappresentata nel mondo dalla Società Internazionale, ed ha per avversario tutte le monarchie, più o meno costituzionali, e gli uomini del capitale» (20 settembre 1871 ad Arturo Arnould)
«Io appartengo all’Internazionale da quando serviva la Repubblica del Rio Grande e di Montevideo, cioè molto prima di essersi costituita in Europa; ho fatto atto pubblico di appartenere alla stessa in Francia nell’ultima guerra. E se avessi saputo in febbraio, quando lasciai l’Assemblea di Bordeaux, ciocché in marzo doveva aver luogo a Parigi, io certamente mi sarei recato in quella capitale per propugnarvi la causa della giustizia traviata dai soliti dottrinari, ma che per il povero popolo parigino era sempre la causa de’ suoi diritti conculcati da un amalgama informe di monachisti, di preti, e di soldatesca degni di servirli» (14 novembre 1871 a Giorgio Pallavicini). «L’Internazionale è il sole dell’avvenire che abbaglia e che l’oscurantismo ed il privilegio vorrebbero precipitare nella tomba» (22 settembre 1872 a Celso Ceretti)
All’epoca dei fatti però il giudizio di Andrea Costa nei confronti dell’eroe dei due mondi era molto diverso, infatti scriveva: «Lavoratori, non date ascolto a Garibaldi! Il Socialismo, come egli lo intende, è un equivoco. Quello che egli chiama le esagerazioni dei socialisti sono i nostri principi fondamentali. Egli vorrebbe che le associazioni operaie dovessero essere, press’a poco, tante società di mutuo soccorso. Togliete alle medesime il programma e il carattere rivoluzionario, e saranno la più meschina cosa del mondo, di cui rideranno i borghesi» (marzo 1874, Manifesto del Comitato Italiano per la Rivoluzione Sociale). Ma, si sa, a quell’epoca Andrea Costa era anarchico.
Chiudiamo l’argomento con due considerazioni di Engels. Ad Achille
Loria, che nel 1882 gli aveva chiesto «se i socialisti tedeschi
partecipassero
all’universale cordoglio per la morte di Garibaldi», rispose: «I
socialisti
pensano che i vecchi debbono morire e tanto più quando sono un po’
svaniti
e scrivono troppe lettere. Garibaldi era un nobile e grande carattere,
ma era ormai sopravvissuto a sé stesso». Sarà però lo stesso Engels
che nel 1894 nella prefazione al 3° Libro del Capitale scriverà:
“L’Italia
è la terra della classicità [...] ha prodotto grandi caratteri, di
classica
ineguagliata perfezione, da Dante a Garibaldi».
Il terrore suscitato nei borghesi dalla Comune di Parigi
Nel 1871, specialmente dalla sua seconda metà, in Italia non si fa altro che parlare di Internazionale; tutti i giornali ne ricostruiscono la storia a seconda delle tendenze politiche e degli interessi che rappresentano, e sopra questa Associazione misteriosa vengono costruite le più fantasiose storie. Petruccelli della Gattina dopo averla definita «terribile associazione che cova nel suo grembo le folgori delle rivoluzioni future», ed affermato che i suoi associati siano ben 3 milioni, commenta: «La mente si smarrisce atterrita meditando a quali orribili anarchie possa venir trascinata l’umanità da questa massoneria del fango e del fuoco. Mentre il progresso civile demoliva tutte le aristocrazie, rendendole accessibili a tutti, costoro vogliono l’uguaglianza nelle rovine». Vi è chi si spinge oltre: “Il Romagnolo” di Ravenna del 23 giugno pubblica la notizia che l’Internazionale avrebbe raccolto tra i 30 ed i 40 milioni di lire; il successivo 13 agosto rincara la dose scrivendo che avrebbe versato 3 miliardi di lire nelle banche inglesi e tedesche. Questi spropositi riscuoteranno tanto seguito da essere addirittura ingigantiti negli anni successivi.
Ma sentiamo cosa diceva il grande Cesare Cantù nella sua Storia Universale: «L’associazione internazionale degli operaj, che dall’Inghilterra si era dilatata alla Francia, al Belgio, alla Svizzera, alla Germania, dettava decreti senza appello, imponeva prezzi e salarj, organizzava scioperi, pagando chi restasse inoperoso. Non contenti di eliminare affatto i capi industriali e i loro impiegati; non contenti di coalizzarsi per ottenere aumento di salario, vollero forzare i loro membri a conformarsi alle decisioni d’un comitato direttore, sin colla violenza, collo spruzzare in faccia acido solforico, col mescolare spilli ai tessuti, polvere fulminante alle macchine, uccidere le bestie da fatica, infrangere gli utensili, assassinare; e tali atti considerare come di diritto naturale [...] cosi i Pellerossa d’America credono legittima rappresaglia il trucidare i Facciapallida che usurpano le loro terre per coltivarle. Ora che non solo la potenza, ma l’autorità vuole dedursi dal numero, per gli operaj e cogli operaj dovranno risolversi non solo problemi economici, ma politici e sociali; con essi, infelloniti contro la società attuale. E il torrente ingrossava, favorito da maligni declamatori che le quistioni annebbiavano colla passione e coll’arte».
Sul fronte opposto molti sono i giornali democratici che ora si
dichiarano
difensori delle posizioni dell’Internazionale. Tra i più famosi
possiamo
ricordare il “Gazzettino Rosa” di Milano e il “Ciceruacchio” di
Roma, che scrive: «Che è mai questa potente società dei figli del
lavoro
che fa tremare sui loro troni i monarchi d’Europa, che abbaglia e
affascina
i popoli, che si estende per i principali centri del mondo civilizzato
e conta i suoi aderenti a milioni? È l’Internazionale che non arretra
d’un passo nel suo cammino». Poi c’è “Il Romagnolo” di Ravenna
che definisce Marx come «l’uomo più temuto da tutti i tiranni
dell’Europa
settentrionale». “L’Apostolato” di Catania, afferma che
l’Internazionale
intende «fondare il governo della libertà, della fratellanza e
dell’uguaglianza
e riunire tutti gli uomini in una sola famiglia ove a ciascuno si dia
quel
che gli spetta». Possiamo ancora ricordare altri giornali che
dichiarano
di simpatizzare con l’Internazionale: “La Favilla” di Mantova, “La
Fenice” di Legnago, “L’Asino” di Alessandria, “Il Diavolo rosa”
di Roma, “Il Presente” di Parma, “La Libertà” di Pavia. Questa
è la dimostrazione della popolarità di cui l’Internazionale ormai gode
in Italia e, per quanto le rappresentazioni che questi giornali ne
fanno
il più delle volte siano solo frutto di fervida fantasia, non c’è
dubbio
che contribuiscono a renderla familiare al proletariato italiano.
Sezioni dell’Internazionale in Italia
Intanto, nei primi di maggio del 1871, giunge in Italia Carlo Cafiero con il compito, affidatogli da Engels, di organizzare il movimento del proletariato italiano in stretto contatto con il Consiglio Generale. La sua prima tappa è Firenze dove prende contatto con la Società Democratica Internazionale e dalla quale viene nominato segretario corrispondente. Nel suo rapporto al Consiglio Generale dell’11 luglio, Cafiero scrive: «La più piacevole sorpresa me l’ebbi quando intesi che in Firenze era già organizzata una Società democratica sotto il titolo d’Internazionale che avea fatto parlar si sé per un indirizzo di simpatia alla Comune di Parigi». Nella stessa lettera, parlando di Mazzini, continua: «Il povero vecchio non vuole comprendere che egli ha fatto il suo tempo, che il suo concetto di unità e libertà nazionale – grande al suo tempo – impallidisce ora come la luce di una candela innanzi alla luce del sole, venendo paragonato al sublimissimo concetto dell’unità, o meglio unione di tutti i popoli nella nuova organizzazione sociale che avrà per base l’eguaglianza conseguibile solo mediante l’emancipazione del lavoro dalla tirannia del capitale».
L’inadeguatezza del pensiero mazziniano è avvertita anche tra i suoi vecchi seguaci che lo abbandonano per passare nel campo dell’Internazionale. Per questo Cafiero pensa sia opportuno, e lo propone ad Engels, di «ammettere quegli operai noti per mazziniani [...] cercando poi di cancellare nel loro animo i principi vaghi del loro maestro idealista per sostituirvi i principi positivi della [...] Associazione cercando di non perdere molti buoni elementi solo perché sono un poco viziati» (Lettera del 28 giugno). L’importante, secondo Cafiero, sarebbe liberare la classe operaia dai preconcetti mazziniani improntati sulla collaborazione di classe, ed in polemica con Alberto Mario, che sostiene la necessità dell’unità democratica, dalle colonne del “Gazzettino Rosa” mette in evidenza la necessità dell’affermazione della lotta di classe.
Queste sono anche le indicazioni date da Engels: «Abbiamo gente di ogni sorta nella nostra Associazione, comunisti, proudhonisti, unionisti, trade-unionisti, cooperatori, bakuninisti, etc. ed anche nel nostro Consiglio Generale abbiamo uomini di assai differenti opinioni. Nel momento in cui l’Associazione stesse per divenire una setta, sarebbe perduta. La nostra forza consiste nella liberalità con la quale la prima regola è interpretata, cioè che tutti gli uomini i quali mirano alla completa emancipazione delle classi operaie sono ammessi” (Engels a Cafiero, 1 luglio).
Dopo Firenze, Cafiero passa a Napoli e da lì mette al corrente Engels della situazione: «Qui a Napoli ho trovato il più completo sfacelo [...] in Napoli bisogna cominciare un lavoro nuovo e bene. Una sezione che contava già qualche migliaio di associati e che la prigionia di 15 giorni inflitta a due o tre dei suoi capi basta per disorganizzare del tutto, è qualche cosa di niente affatto ben costituito [...] Finirò facendovi notare che cosa non mi ha troppo rallegrato. Qui in Napoli vi ho trovato una corrente ginevrina [bakuninista, n.d.r.], parlo fra i nostri. Questo è male perché disgrega le forze».
Data la situazione descritta, Cafiero allaccia rapporti sempre più stretti con giovani ex mazziniani, ora simpatizzanti per l’Internazionale, quali Tommaso Schettino, Tito Zanardelli, Errico Malatesta i quali, come recita un rapporto di polizia, «disertate le file repubblicane, divenivano pur dei gregari operosissimi dell’Internazionale» (Rapporto del questore di Napoli del 4 settembre 1872).
Mazzini intanto cerca di mettere argine alla emorragia dalle proprie file. Il 24 maggio 1871, sulla sua “Roma del Popolo” pubblica un articolo con il quale si rivolge all’ “Internazionale” di Napoli, un giornale che portava questo nome: «Gli scrittori dell’”Internazionale” mi sono ignoti [...] Mi dorrebbe ch’essi rappresentassero, come il nome del giornale e le simpatie pel Comune di Parigi potrebbero far sospettare, una sezione napoletana dell’Associazione internazionale».
Ma il giornale napoletano non è l’unica cosa che addolora Mazzini perché i risultati della penetrazione dell’Internazionale in Italia si moltiplicano rapidamente. Una sezione nuova è fondata a Girgenti, che nel giugno promuove una raccolta di denaro a favore delle vittime dei versagliesi. Ma più significativo è l’indirizzo che rivolge agli sconfitti comunardi: «Mentre i privilegiati del mondo plaudiscono agli orrori dei vigliacchi di Sédan [...] noi, vostri fratelli di fede, noi, pronti come voi ad innalzare quando che sia lo stendardo della rigenerazione sociale, siamo orgogliosi di mandare da queste estreme spiagge di Sicilia una parola di conforto, d’ammirazione e di speranza ai vinti della Comune [...] L’emancipazione delle plebi è divenuto per noi il bisogno più irresistibile dei nostri tempi» («Il Gazzettino rosa», 28 giugno 1871).
Poiché il centro del movimento internazionalista resta Napoli, la polizia tenta di stroncare la sua penetrazione emanando un decreto di scioglimento della sezione asserendo che «con le sue tendenze e coi suoi atti costituisce una offesa permanente alle leggi ed alle istituzioni fondamentali della Nazione ed un pericolo notevole all’ordine pubblico, che il governo deve in ogni evento mantenere inviolato». Che si tratti soltanto di una provocazione poliziesca e di un atto intimidatorio è dimostrato dal fatto che tutti gli arrestati sono prosciolti in istruttoria.
Dopo Napoli la polizia continua l’opera di repressione dando la caccia a chiunque abbia rapporti con l’Internazionale. A Firenze fa perquisire le abitazioni dei dirigenti della Società Democratica Internazionale che, come abbiamo visto, a suo tempo aveva pubblicato ben due indirizzi a favore dei comunardi. Anche l’associazione fiorentina, a motivo di ordine pubblico, è sciolta. Mentre Mazzini attacca apertamente l’Internazionale la polizia fa di tutto per lasciargli campo libero perseguitando i suoi più fieri avversari e chiudendo le società in odore di internazionalismo.
Ma la repressione statale ha l’effetto contrario a quello sperato
perché contribuisce a diffondere ancor più il nome dell’Internazionale.
Dall’agosto 1871 in poi non passa giorno che non nascano delle nuove
sezioni. Cafiero il 27 novembre scrive ad Engels: «Sí, mio caro amico,
il governo ci ha fatto molto bene con le sue persecuzioni; il mio
arresto
è stato un vero tesoro; pensate, ha rotto il ghiaccio e per più di
quindici
giorni in tutte le gazzette d’Italia non si parlò che d’Internazionale,
petrolio, dei pazzi comunisti italiani, dei giovani imberbi che
rinnegano
le credenze dei loro padri, ecc.».
Convegni mazziniani e garibaldini
Contemporaneamente Mazzini, che vede sfuggirgli di mano quel predominio sulle società operaie che fra il ‘61 e il ‘64 era riuscito a strappare alla direzione filogovernativa, pensa sia giunto il momento di convocare un nuovo congresso operaio per riorganizzarle sotto la sua direzione ed esorcizzare il pericolo dell’Internazionale. Ma, mentre all’epoca della sua lotta contro i filogovernativi si era sempre battuto per portare le società operaie sul terreno della lotta politica, ora è lui che raccomanda di evitare che il congresso sia caratterizzato politicamente in senso democratico e repubblicano. In questo modo pensa di poter costituire, assieme ai monarchici, un largo fronte unico antinternazionalista.
Con la convocazione del congresso Mazzini tenta di dimostrare che la sua condanna nei confronti della Comune e dell’Internazionale non rappresentano un diminuito interessamento per le sorti delle classi lavoratrici. Scrivendo ad Aurelio Saffi afferma: «Abbiamo iniziato una grande inevitabile battaglia: rendere alla bandiera lo splendore del Bene, e convertire ad essa una parte dei moderati di buona fede [75 anni dopo sarà Togliatti ad appellarsi ai fascisti “in buona fede”! I tempi cambiano ma esiste una continuità della controrivoluzione]. Guai se cadessimo!». Ciò significherebbe «il trionfo del materialismo». E continua: «Vorrei da un lato fare qualche cosa di reale per gli operai; se no, non abbiamo diritto di combattere l’Internazionale [...] e vorrei dall’altro tentare di far prendere solennemente agli operai italiani una posizione separata dall’Internazionale e dal resto [...] Secondami. Importa che le Società [...] mandino delegati e favorevoli alle nostre dottrine».
Mazzini non sa quante di esse abbiano assunto una posizione favorevole all’Internazionale, è sicuro solo di poter contare sulle Società di Genova, ma le altre? Spera di poter provare che l’Internazionale, a mala pena, è riuscita a sobillare una infima frazione degli operai italiani e tranquillizzare così le classi dominanti.
Il Congresso dovrebbe essere preparato e diretto in modo che da esso sorga l’unione delle varie società operaie, già negli anni passati tante volte auspicata e formulata ma mai raggiunta, che riprenda il filo dei vecchi congressi, spezzato nel ‘64, e lo ravvivi; ecco la manifestazione che in quel momento gli sembra più necessaria e utile.
Proprio in quei giorni a Mantova fu fondata la “Società della Nuova Democrazia” che propugnava «l’associazione del capitale col lavoro [...] l’emancipazione morale e materiale del proletariato cui oggi preti e capitalisti opprimono». Questa, assieme alla società democratica di Mirandola e a quella “Reduci” di Verona inviarono una circolare a tutte le società democratiche proponendo l’organizzazione di un congresso nazionale. Come sempre immediata fu l’adesione di Garibaldi alla proposta. Questo congresso avrebbe avuto soprattutto lo scopo di trovare una intesa fra le due correnti del partito d’azione, mazziniani e garibaldini, e, a parte le rituali dichiarazioni di emancipazione proletaria (del resto comuni a tutti quanti), in definitiva non si sarebbe per nulla scostato dal solito programma interclassista mazziniano.
Certo è che in tutto questo di socialista non c’era assolutamente niente; però bastava quel niente a mettere in agitazione Mazzini, che negò in modo categorico la sua adesione. Soprattutto lo allarmava l’adesione di Garibaldi perché conosceva bene quali fossero le sue posizioni nei confronti della Comune e la sua adesione all’Internazionale. Il compito che Mazzini si era dato consisteva nel controllo delle società operaie allo scopo del mantenimento della pace sociale. Di conseguenza non soltanto rifiutava di aderire a tale proposta, ma metteva in guardia i promotori dei pericoli che avrebbero potuto correre. Scriveva a Celso Ceretti il 31 agosto: «Non credo che possa uscir [del] bene alla parte repubblicana da un congresso come voi l’avete ideato. Ciò che importerebbe ora supremamente, sarebbe che le classi medie, moderate in gran parte [...] ci sapessero o ci credessero uniti in un giusto programma che sopisse paure e calunnie. Dal congresso escirà appunto il contrario. Balzeranno fuori dieci programmi, nove dei quali impauriranno più che mai. Gli uni parleranno di abolire Dio [...] altri tesseranno le lodi dell’Internazionale e del Comune parigino [...] La maggioranza deciderà, voi direte. Ma se la maggioranza fosse debole [?] Aggiungete che una falsa e pericolosa idea proferita, forse da tre o quattro individui, acquisterà [...] per i terrori borghesi sembianze di minaccia reale».
Garibaldi, invece, che aveva accettato con entusiasmo di presiedere il congresso, sempre più apertamente si dichiarava internazionalista. Il Consiglio Generale era intenzionato a mettere a frutto questa sua adesione.
Engels scriverà a Cuno il 13 novembre: «Ho veduto stamattina, da Marx, Ricciotti Garibaldi. È un giovanotto assai intelligente, molto calmo, ma più un soldato che un pensatore. Può però diventare assai utile. Mostra nelle sue teorie più buona volontà che chiarezza, proprio come il vecchio: e non pertanto la sua ultima lettera a Petroni è per noi d’un valore infinito. Se i suoi figli sapranno dimostrare in tutte le grandi crisi lo stesso giusto istinto del vecchio, potranno far molto». Nella lettera a Petroni, Garibaldi aveva fatto questa affermazione: «Mazzini è uomo che non perdona a chi tocca all’infallibilità sua».
Infatti Mazzini a Garibaldi non perdonava molte cose, ma soprattutto la proclamata adesione all’Internazionale. Appena un mese prima, parlando del progettato congresso Democratico, aveva affermato: «[esso] non mira, nell’intenzione dei promotori, che a un trionfo dell’insanie comunistiche e internazionali», e, riguardo a Garibaldi: «sarà singolare di veder l’uomo che non osa proferir la parola repubblica per l’Italia, diriger la discussione sulla proprietà collettiva o altra simile cosa» (Lettera a Federico Campanella).
Intanto, mentre sabotava il Congresso Democratico, Mazzini proseguiva i preparativi per il Congresso Operaio. Nel settembre, dalle colonne de “La Roma del Popolo” lanciava i suoi proclami agli operai. In questi scritti auspicava l’unificazione delle società e la nomina di una direzione centrale che permettesse agli operai d’Italia di dire «pacificamente ma seriamente e officialmente ai loro fratelli di patria i loro bisogni e le loro aspirazioni, ciò che patiscono, ciò che, nella loro opinione, porgerebbe ai loro patimenti rimedio». La direzione doveva essere costituita in modo che «rispettando i diritti e i doveri puramente locali delle società, possa legalmente rappresentare doveri, diritti, tendenze, interessi comuni a tutta quanta la classe artigiana». Dal giorno in cui il Patto di unificazione fosse votato e l’autorità centrale eletta «comincerà la vita collettiva degli operai italiani»: «la questione sociale, oggi lasciata all’arbitrio di ogni nucleo locale, potrà definirsi davanti al paese, forte dei fatti raccolti da tutte le società e del consenso indiretto di quasi dodici milioni tra operai manifatturieri, dati all’industria mineraria ed agricoltori».
Una volta costituita questa potenza – dice Mazzini, rivolgendosi agli operai – potrete «stringere, nei modi e coi patti che vi parranno opportuni, coi vostri fratelli dell’altre Nazioni, vincoli d’alleanza che tutti intendiamo e vogliamo, ma dall’alto del concetto nazionale riconosciuto, non sommergendovi, individui o piccoli nuclei, in vaste e male ordinate società straniere che cominciano dal parlarvi di libertà per conchiudere inevitabilmente nell’anarchia o nel dispotismo di un centro o della città nella quale quel centro è posto».
Le raccomandazioni erano dunque le stesse che Mazzini aveva avanzato in tutti i precedenti Congressi; in più c’è la preoccupazione di non urtare la suscettibilità delle classi medie facendo sì che al Congresso non venisse data una impostazione politica. Cosciente della propria funzione, a sé stesso anteponeva gli interessi della classe borghese. Così, quando alcune società gli offrono di rappresentarle al congresso, Mazzini rifiutò perché la sua presenza avrebbe dato «al congresso un carattere politico che voi dovete e volete evitare», e pretesto agli avversari per accusarlo «di tendere a mutare la vostra in una manifestazione esclusivamente politica e favorevole alle credenze dell’anima mia» (“La Roma del Popolo”, 5 ottobre).
Per evitare deviazioni pericolose, stabilì che i lavori del congresso fossero rigidamente prefissati in un ordine del giorno eliminando la discussione di ogni questione generica e, soprattutto, «ogni discussione intorno a dottrine religiose, politiche o sociali che un congresso oggi non può decidere se non con dichiarazioni avventate e ridicole per impotenza».
A distanza di ben sette anni dal precedente (Napoli 1864), il 10 novembre 1871 si apriva a Roma il XII congresso delle Società Operaie italiane. Circa 150 erano le società rappresentate. Per la prima volta vi presero parte due delegati aderenti all’Internazionale: Alberto Tucci, rappresentante dell’Associazione Internazionale Operaia di Napoli, e Carlo Cafiero per l’Associazione Internazionale di Girgenti.
I seguaci di Mazzini, più realisti del re, sembra che facessero di tutto per applicare al contrario le direttive del maestro e, fin dall’inizio, oltre a proporre la riconferma del Patto di fratellanza votato a Napoli, misero in discussione il preambolo del Patto, nel quale venne inserito un esplicito richiamo ai “principi di Giuseppe Mazzini”; infine sotto forma di ordine del giorno fu posta l’adesione ai principi politici e sociali di Mazzini, «come quelli che condurranno più prontamente ed efficacemente alla vera emancipazione dell’operaio». Messo ai voti l’ordine del giorno passava (su 59 votanti) con 34 voti favorevoli, 19 contrari e 6 astenuti.
A quel punto i due internazionalisti, assieme al delegato della Fratellanza Artigiana di Livorno, abbandonarono il congresso dopo aver fatto verbalizzare la seguente dichiarazione: «I sottoscritti delegati, in seguito alla votazione fatta dalla maggioranza del congresso di un ordine del giorno nel quale si accettano i principî professati e praticati da Giuseppe Mazzini, ritenendo incompatibile colla loro indipendenza e col mandato ricevuto una simile dichiarazione, e contrari questi principî ai veri interessi della classe operaia e al progresso dell’umanità: si ritirano dal congresso e lasciano alla maggioranza di esso tutta la responsabilità del fatto e delle conseguenze».
Quindi, come si vede, in Italia, Mazzini non era affatto sconfitto; la manifestazione operaia antinternazionalista aveva avuto luogo, il Patto era stato votato ed il nuovo organismo operaio incontrò nei primi anni un non trascurabile successo con notevole aumento delle società affratellate. È pur vero però che quella del Congresso di Roma fu una vittoria che scontentò innanzi tutto il vincitore. Il 6 novembre scriveva: «Al Congresso ho una maggioranza antinternazionalista, ma per altri rispetti mi sento deluso». E due giorni dopo confermava: «Il congresso è andato male: ciarle senza fine, deviazioni: imprudenze d’amici che hanno cacciato innanzi il mio nome».
Però se Mazzini non si considerava entusiasta del successo ottenuto, riteniamo, d’altra parte che le affermazioni di Cafiero siano non poco esagerate quando affermava: «Se Mazzini avesse potuto prevedere tutto il vantaggio che da questo congresso ne sarebbe provenuto alle nostre idee certo non avrebbe pensato a convocarlo: Roma è nostra, e non pochi delegati a quest’ora hanno già portato nelle loro rispettive società il sacro fuoco dell’Internazionale».
Mazzini, in fondo, aveva ragione di essere scontento dell’esito del congresso; per la poca abilità dei suoi luogotenenti non era stato raggiunto l’effetto che si era proposto, ossia raccogliere tutte le forze operaie in un fronte antinternazionalista. Buttando avanti il nome del maestro, i maldestri discepoli avevano provocato non solo l’immediata reazione degli internazionalisti presenti, ma anche l’allontanamento di un democratico come Macchi, che internazionalista non era. Se a tutto questo si aggiunge la non partecipazione delle società operaie sotto direzione filogovernativa si accerta la netta diminuzione di prestigio e di influenza del mazzinianesimo. I moderati, filogovernativi, avevano vezzeggiato Mazzini quando questi attaccava la Comune di Parigi, però quando aveva cercato di proporsi, attraverso il congresso, come campione dell’antisocialismo era stato quasi snobbato. Si vide che allora il partito governativo non giudicava di aver bisogno, per difendersi dal socialismo, di andare a un congresso dove si gridava “Viva la repubblica”. Quattro mesi dopo il Congresso di Roma, Mazzini moriva a Pisa.
I filogovernativi che avevano disertato il congresso mazziniano ne
fecero
uno tutto loro nell’aprile dell’anno successivo; sembra che vi
partecipassero
146 società, ma forse questo dato fu fortemente aumentato per
sormontare
nel numero il congresso mazziniano del novembre precedente. Per dire di
questo congresso è più che sufficiente riportare uno stralcio della
dichiarazione
della Società tipografi-compositori di Roma. Data in un primo tempo la
propria adesione, inviò poi una lettera nella quale dichiarava di
ritirarsi
dall’assemblea giacché la quasi totalità dei rappresentanti era
composta
da nobili, senatori, deputati, avvocati e capitalisti, «gli interessi
dei quali non possono che essere opposti a quelli di coloro che vivono
col frutto delle proprie fatiche», ed affermava di non riconoscere
valide
le deliberazioni di quel congresso che si arroga di parlare a nome
degli
operai.
La Conferenza di Londra dell’Internazionale
Questo per quanto riferito all’Italia. A scala internazionale, due mesi prima, si era tenuta la Conferenza di Londra.
In una lettera del 28 luglio Engels informava Cafiero che il Consiglio Generale aveva convocato a Londra una conferenza per il 17 settembre. Questa risoluzione era dovuta al fatto che «un pubblico congresso è ora impossibile, viste le persecuzioni governative che hanno luogo in Ispagna, Francia, Germania e forse anche in Italia. Se tenessimo un pubblico congresso, non avremmo nella maggior parte di questi paesi i nostri delegati eletti pubblicamente, e probabilmente sarebbero arrestati al loro ritorno. Stando così le cose, siamo costretti a ricorrere ad una conferenza privata, non pubblicandosi né la convocazione, né la riunione, né le deliberazioni [...] Il Consiglio Generale sottoporrà alla conferenza una relazione della sua attività per i due anni decorsi e la Conferenza si pronuncerà su di essa. Così si risolveranno parecchie importanti questioni prima di procedere innanzi. Vi prego perciò di affrettare la riorganizzazione delle nostre sezioni in Italia, tanto quanto è possibile affinché esse siano rappresentate in questa Conferenza».
Il V Congresso, che nel 1870 avrebbe dovuto tenersi a Parigi, fu reso impossibile dagli avvenimenti di cui la città fu teatro. Si decise quindi di convocare un minimo di rappresentanza dell’Internazionale a Londra dal 17 al 23 settembre 1871. Fu in questa occasione discusso ed approvato il programma definitivo dell’Associazione Internazionale.
In sintesi venne deliberato: che i Consigli centrali dei diversi paesi dove l’Internazionale era regolarmente organizzata avrebbero preso il nome di Consiglio Federale con l’aggiunta del nome del rispettivo paese, mentre il termine Consiglio Generale sarebbe stato riservato solo al Consiglio centrale dell’Associazione. Era stabilito il diritto, da parte dei delegati del Consiglio Generale, di prendere parte alle riunioni dei Consigli federali e locali. Era sollecitata la formazione di sezioni femminili della classe operaia [«Resta inteso che questa risoluzione non nuoce punto all’esistenza di sezioni composte di lavoratori dei due sessi, e non esclude in nessun modo la formazione di simili sezioni»].
Fu stabilita la formazione di un Comitato speciale di statistica «che sarà sempre pronto [...] a rispondere alle domande che potranno essergli rivolte dal Consiglio Federale o dal Consiglio Generale dell’Internazionale». Vista l’importanza attribuita a questa attività, era consigliato di retribuire i segretari dei Comitati di statistica.
Era messa in evidenza la necessità di appoggiare il crescente movimento delle Società di resistenza e di favorirne i legami tra i vari paesi.
Altro importante compito cui l’Internazionale avrebbe dovuto assolvere era quello di procurare l’adesione dei produttori agricoli al movimento del proletariato industriale, e, a tale scopo, si indicava di cominciare con l’inviare delegati nelle campagne per organizzarvi riunioni pubbliche, fare propaganda per l’Internazionale e fondare sezioni agricole.
L’articolo 9 recitava testualmente: «[Considerando la] presenza della reazione continua, che soffoca violentemente ogni sforzo di emancipazione da parte dei lavoratori e pretende mantenere con la forza brutale la distinzione delle classi, e la dominazione politica delle classi possidenti che ne consegue; che contro questo potere collettivo delle classi possidenti, il proletariato non può agire come classe che costituendosi da sé stesso in partito politico distinto, opposto a tutti gli antichi partiti formati dalle classi possidenti; che questa costituzione del proletariato in partito politico è indispensabile per assicurare il trionfo della rivoluzione sociale e farla arrivare alla sua meta suprema: l’abolizione delle classi; che la coalizione delle forze operaie già ottenuta con le lotte economiche, deve servire di leva nelle mani di questa classe nella sua lotta contro il potere politico dei suoi padroni; la conferenza ricorda ai membri dell’Internazionale che nello stato militante della classe operaia il suo movimento economico e la sua azione politica sono indissolubilmente unite».
Nei paesi in cui, a causa delle persecuzioni statali, l’organizzazione regolare dell’Internazionale era momentaneamente divenuta impraticabile, l’Associazione ed i suoi gruppi locali avrebbero potuto costituirsi anche sotto altre denominazioni, ma rimaneva proibita la costituzione di sezioni internazionali sotto forma di società segreta. Al punto 16 era affermato: «Considerando: che la Alleanza della Democrazia Socialista [bakuninista] si è già dichiarata sciolta; che nella seduta del 18 settembre la conferenza decise che tutte le organizzazioni esistenti dell’Associazione Internazionale saranno, conformemente alla lettera ed allo spirito degli statuti generali, ormai obbligate a chiamarsi ed a costituirsi semplicemente come ramificazioni, sezioni, ecc. dell’Associazione Internazionale degli Operai, e il nome della loro località rispettiva annesso; che sarà dunque vietato alle associazioni e società esistenti di continuare a designarsi con dei nomi di setta [...]; che non sarà neppure permesso ad alcuna ramificazione o società già ammessa di continuare a formare un gruppo separatista sotto la designazione di “Società di propaganda”, “Alleanza della democrazia socialista”, ecc. assumenti missioni speciali all’infuori della meta comune cui tende la massa del proletariato militante riunito nell’Associazione Internazionale degli Operai; che in avvenire il consiglio dell’Associazione internazionale dovrà interpretare ed applicare in questo senso la risoluzione amministrativa del Congresso di Basilea, art. 5; “il Consiglio generale ha il diritto di ammettere o di ricusare l’affigliazione di qualsiasi nuova società o gruppo, salvo l’appello al prossimo Congresso”; la conferenza dichiara esaurito l’incidente dell’Alleanza della Democrazia Socialista». Queste risoluzioni rappresentano l’estrema chiarificazione programmatica ed organizzativa; un punto fermo dell’organizzazione rivoluzionaria di classe e che ancor oggi possono essere considerate pienamente valide.
I bakuninisti, che non le condividevano, gridarono contro l’autoritarismo del Consiglio Generale e di Marx in particolare. Già il 12 novembre a Sonvillier si riunì il congresso dei dissidenti per costituire la nuova Federazione giurassiana che si poneva come scopo di operare al di fuori e contro il Consiglio Generale di Londra. Come suo primo atto questo congresso inviò a tutte le federazioni dell’Internazionale una circolare in cui, dopo avere accusato il Consiglio Generale di essersi impadronito dell’Internazionale con una serie di atti autoritari in conflitto con quanto stabilito dagli stessi statuti dell’Associazione, reclamavano la convocazione di un congresso generale da tenersi a breve scadenza.
Il borghese, dichiaratamente antisocialista, Tullio Martello, nella
sua Storia dell’Internazionale, commentava la Conferenza di Londra con
queste parole: «Questo programma, se fosse messo in esecuzione, sarebbe
l’organizzazione d’un dispotismo colossale e prodigioso: esso rivela
intanto il pensiero intimo di questi nuovi apostoli e soldati della
libertà,
i quali vorrebbero stringere con una mano di ferro la famiglia umana,
dominarne
e dirigerne i destini e la storia, far girare sui cardini della loro
onnipotenza
il mondo, rendersi padroni ed arbitri di tutti e di tutto». Bakunin
impiegava
quasi le medesime parole. Bakunin copiava Martello o Martello copiava
Bakunin?
Più semplicemente entrambi si trovavano dallo stesso lato della
barricata
sociale.
Immaturità della classe operaia in Italia
Torniamo ora all’Italia. Il 9 novembre 1871 Marx scriveva a Sorge: «In Italia facciamo progressi vertiginosi. Grande trionfo sul partito di Mazzini». Era infatti di nemmeno un mese prima la seduta del Consiglio Generale (17 ottobre) nella quale Engels aveva riferito: «Le notizie di Italia sono del più grato carattere, poiché è davvero sorprendente l’estendersi dell’Associazione in quel paese. Tre mesi or sono Mazzini constatava che c’era una sola città in Italia dove l’Internazionale contava numerosi aderenti. Ora da un punto all’altro del paese essa è pienamente stabilita. È rappresentata da uno, se non da due giornali quotidiani di Roma; un giornale quotidiano in Milano, un bisettimanale a Torino; giornali settimanali in Ravenna, Lodi, Pavia, Girgenti e Catania, oltre ad altri pubblicati in più piccole località. Questi giornali sono soggetti ad incessanti persecuzioni del Governo, uno di essi, “Il Proletario Italiano” di Torino, ebbe sei numeri consecutivi sequestrati dalla polizia, ed una o più incriminazioni per ogni numero sequestrato; ciononostante questi giornali continuano imperterriti la loro crociata contro i preti, il privilegio e Mazzini, che aveva attaccato l’Internazionale perché irreligiosa. Il governo ha sciolto due sezioni dell’Internazionale in Napoli e in Firenze, ma il risultato è stato l’immediata formazione di nuove sezioni in ogni parte del paese. In Girgenti la nuova sezione ha testé pubblicato i suoi statuti preceduti dagli statuti pubblicati dal Consiglio Generale, in Ravenna sei società operaie repubblicane si sono organizzate in sezioni dell’Internazionale con un Consiglio comune. La lettera di Garibaldi, con la quale fa adesione all’Associazione, è stata per ogni dove ristampata e commentata, ed ha evidentemente spinto molti dubbiosi a farsi una favorevole idea dell’Internazionale. Il potere di Mazzini sugli operai d’Italia è completamente rotto».
Il giorno successivo fu Cafiero a scrivere ad Engels: «Sono già in condizione di potervi annunciare che l’Internazionale ha messo profonde radici in Italia e non vi sarà forza che potrà più sradicarla. E dell’esattezza di queste informazioni io mi dichiaro innanzi a voi e innanzi a tutto il Consiglio Generale assolutamente garante [...] L’internazionale si è impossessata dell’Italia intera dall’Alpi all’estremo scoglio della Sicilia, a Torino come a Catania sventola il nostro glorioso vessillo».
Il 5 novembre da Ravenna partiva una lettera indirizzata ad Engels nella quale si comunicava che sette società cittadine avevano aderito all’Internazionale. Nello scritto si legge: «Possiamo assicurarvi che il principio dell’Internazionale nella nostra Ravenna prevale, non così nel resto della Romagna dove i mazziniani, destati tutto ad un tratto dal loro sonno, ci contrastano il terreno palmo a palmo». In una successiva lettera è scritto: «Il lavoro dell’Internazionale procede in Italia a meraviglia; ogni città di qualche importanza ha già una propria sezione in formazione, modellata in massima parte sugli statuti di quella di Bologna ed un Consiglio regionale provvisorio per la Romagna funziona già con ottimi risultati ed in completo accordo con gli internazionalisti del Veneto, Piemonte, Toscana, napoletano e Sicilia» e prospettava quindi la costituzione, a breve, di un Consiglio nazionale. Infatti, in opposizione alle associazioni mazziniane, tra novembre e dicembre a Bologna si era costituita la società “Il Fascio Operaio” il cui programma, per la verità molto vago, era stato alla base della costituzione di altri Fasci Operai in Romagna ed anche in diverse altre regioni d’Italia. Questi, riuniti in una grande federazione autonoma, avrebbero aderito all’Internazionale. Verso la fine di dicembre apparve anche un suo organo di stampa, anch’esso dal titolo “Fascio Operaio”.
Fu allora che il giovane Andrea Costa, studente presso l’Università di Bologna, cominciò la sua milizia politica, senza però essere preso molto sul serio dal vigile occhio della polizia. Infatti nel dicembre del 1872 il prefetto di Bologna rassicurava così il ministro dell’interno: «È stato finora in Imola perché era in vacanza e ora sta per ritornare a Bologna, e riprendere gli studi all’Università. È un ragazzo senza importanza alcuna, senza influenza sul ceto operaio, senza energia, senza nulla di ciò che si richiede in un capo partito». Ne avessimo di giovani altrettanto insignificanti!
Quindi grande effervescenza, ma aveva basi reali? Engels non tardò ad accorgersi della debolezza di queste entusiasmanti adesioni all’Internazionale, ed il 13 novembre scriveva: «Il movimento ispirato all’Internazionale è scoppiato in Italia in modo così brusco e inaspettato che tutto è ancora molto disorganizzato e i mardochei, come sapete, fanno di tutto per far saltare l’organizzazione».
Per fare un esempio del confusionismo esistente in Italia, problema che abbiamo rilevato anche nei nostri precedenti rapporti, basti dire che il 22 dicembre 1871 l’Associazione Democratica di Mutuo Soccorso di Macerata spediva un indirizzo a Carlo Marx, informandolo che, in omaggio al principio “la nostra patria è il mondo”, era stato nominato triumviro onorario della società, assieme a Garibaldi e Mazzini.
Questa mancanza di chiarezza porterà presto ad una rottura delle sezioni italiane con il Consiglio Generale. Già nel novembre si registrava tra le file degli internazionalisti un disagio verso il programma adottato dalla Conferenza di Londra. Spesso però le divergenze non erano dovute a differenti punti di vista in merito alle questioni aperte ed alle risoluzioni adottate dal Consiglio Generale, ma a personalismi, ad aspirazioni carrieristiche di ambigui personaggi che con disinvoltura si spostavano da un fronte all’altro secondo il loro tornaconto: non ci occuperemo di queste miserie.
Quale fosse il grado di confusione, pressapochismo, se non addirittura malafede, un esempio per tutti si può ricavare da quanto scritto nel n. 39 del “Proletario Italiano” di Torino dove era stata stampata una dichiarazione secondo cui il Consiglio Generale avrebbe deciso di «posporre il socialismo alla politica», deliberazione poi annullata «in considerazione che molte associazioni europee l’avrebbero respinta in pieno». Riportiamo, quasi per intero, la messa a punto di Engels perché chiarisce in modo perfetto la posizione dell’Internazionale nei confronti dell’“azione politica”, e soprattutto mette in evidenza la completa linearità delle posizioni del Consiglio Generale.
Rispondeva Engels il 29 novembre: «Questa affermazione costringe il Consiglio Generare a dichiarare: 1) che non ha mai preso alcuna risoluzione di posporre il socialismo alla politica; 2) che perciò non può aver ritirata una tale decisione [...] La posizione del Consiglio Generale circa l’azione politica del proletariato è molto bene definita. È definita: 1) dagli Statuti generali i quali dicono nel quarto articolo che “l’emancipazione economica della classe operaia è il grande scopo al quale ogni movimento politico deve essere subordinato come mezzo”; 2) dal testo dell’Indirizzo inaugurale dell’Associazione (anno 1864), ufficiale e obbligatorio commento agli Statuti, il quale dice. “i signori delle terre e i signori del capitale si serviranno sempre dei loro privilegi politici per difendere e perpetuare il proprio monopolio economico. Ben lungi dallo spingere all’emancipazione del lavoro ergeranno, al contrario, ogni sorta di ostacoli nel suo cammino. La conquista del potere è quindi divenuto il primo dovere della classe operaia”; 3) dalla risoluzione del Congresso di Losanna (anno 1867) accettata con questo scopo: “l’emancipazione sociale degli operai è inscindibile dalla loro emancipazione politica”; 4) dalla nona risoluzione della Conferenza di Londra (settembre 1871) la quale, in armonia con tutte le precedenti, ricorda ai membri dell’Internazionale che, nella lotta della classe operaia, il suo progresso economico e la sua azione politica sono indissolubilmente congiunte. La linea di condotta così tracciata al Consiglio, è stata seguita da esso e sarà seguita in avvenire. Perciò la comunicazione surriferita, fatta [...] alla redazione del “Proletario”, è dichiarata falsa e calunniosa».
Ma le precisazioni di Engels non potevano compensare la immaturità del movimento italiano. La società Emancipazione del Proletario di Torino il 26 dicembre aveva deliberato di inviare il proprio rappresentante al congresso indetto dalle sezioni del Giura di Berna; ed il Fascio Operaio di Bologna aveva fatto altrettanto. Immediatamente dopo sarà Milano a seguire il movimento dei dissidenti affermando «che il principio dell’autonomia delle sezioni e delle federazioni regionali costituisce la vera forza dell’Internazionale», e quindi dichiarava di aderire «all’invito della federazione del Jura per la convocazione di un Congresso generale inteso ad arrestare le tendenze autoritarie manifestatesi nel Consiglio Generale e a farlo rientrare nei limiti delle sue attribuzioni». Lo stesso orientamento venne seguito in Sicilia, l’”Eguaglianza” del 7 gennaio 1872 pubblicò il seguente annuncio: «La sezione girgentina, sentita la comunicazione d’una lettera e della circolare della Federazione del Giura per la pronta convocazione d’un congresso generale, plaudendo ai più larghi principi di libertà [...] dichiara ad unanimità di aderire alla circolare della Federazione del Giura». Ne “La Campana”, organo della ricostituita Federazione Operaia napoletana del 21 gennaio si può leggere: «Nelle contestazioni sciaguratamente insorte nel seno dell’Internazionale, le sezioni italiane si [sono] già solennemente dichiarate per la libertà e l’indipendenza delle sezioni contro ogni tendenza di autoritarismo che avrebbe attentato all’essenza e alla vita stessa della grande Associazione».
Senza far l’elenco di tutte le dichiarazioni di dissociazione dal Consiglio Generale di Londra, fatto è che praticamente tutto il movimento internazionalista italiano aderì, con inaspettata rapidità, alle posizioni scissioniste di Bakunin. Questa rapida conquista fu certamente agevolata dal passaggio in campo anarchico da parte di Cafiero, che teneva le file delle varie sezioni italiane.
Il 18 gennaio 1872 Engels scriveva a Willielm Liebknecht: «Abbiamo
a Milano Cuno, un ingegnere svizzero, che conosce te e Bebel e che là
ha ostacolato finora l’approvazione di deliberazioni bakuniniste. Gli
altri sono o bakuninisti o gente che occupa una posizione molto
riservata.
È un terreno difficile e mi costringe ad un enorme lavoro». Il giorno
successivo diceva le stesse cose anche a Paul Lafargue: «In Italia non
c’è fino ad ora nessuna organizzazione. I gruppi sono così autonomi
da non poter o non voler unirsi. Ciò è la reazione all’estrema
centralizzazione
borghese di Mazzini, il quale aspirava a dirigere tutto da solo e per
giunta
in modo molto stupido. Poco a poco apriranno gli occhi anche laggiù, ma
bisogna concedere loro del tempo perché possano acquistare una propria
esperienza».
Autoritari e anti-autoritari
Al Consiglio Generale non rimase che un numero limitatissimo di corrispondenti in Italia, uno di questi è Cuno, che però di lì a poco verrà arrestato e poi espulso dall’Italia. A questi il 24 gennaio Engels scriveva una lettera in cui illustrava le posizioni assunte dai due gruppi in contrasto.
«Mentre la grande massa degli operai socialdemocratici è, insieme con noi, dell’opinione che il potere statale non è altro che l’organizzazione che le classi dominanti – proprietari fondiari e capitalisti – si sono data per difendere i loro privilegi sociali, Bakunin afferma che lo Stato ha creato il capitale, che il capitalista ha il suo capitale solo per grazia dello Stato. Poiché dunque lo Stato è il male principale, si deve prima di tutto sopprimere lo Stato, e allora il capitale se ne andrà al diavolo da solo. Noi invece diciamo il contrario: distruggete il capitale, l’appropriazione di tutti i mezzi di produzione da parte di pochi, e lo Stato cadrà da sé. La differenza è essenziale. La soppressione dello Stato senza un precedente rivolgimento sociale è un assurdo, perché la soppressione del capitale è appunto il rivolgimento sociale e racchiude in sé una trasformazione di tutto il modo di produzione.
«Ma poiché per Bakunin il male fondamentale è lo Stato, non si deve far nulla che possa mantenere in vita lo Stato, e cioè uno Stato qualsiasi, repubblica monarchia o quale altro si voglia. Perciò, dunque, completa astensione da ogni politica. Compiere un atto politico, ma specialmente partecipare a una elezione, sarebbe un tradimento dei principi. Si deve far propaganda, caricar lo Stato di insolenze, organizzarsi, e quando si avranno gli operai dal proprio lato, cioè la maggioranza, allora si destituiranno tutte le autorità, si distruggerà lo Stato, e si porrà al posto di esso l’organizzazione dell’Internazionale. Questo grande atto, col quale incomincia il millennio, si chiama la liquidazione sociale.
«Tutto questo sembra estremamente radicale, ed è così semplice che si può imparare a memoria in cinque minuti, motivo per cui questa teoria bakuniniana ha trovato rapidamente degli aderenti in Italia e in Spagna, tra giovani avvocati, laureati o altri dottrinali. Ma la massa degli operai non si lascerà mai persuadere che gli affari pubblici del suo paese non siano anche in pari tempo i suoi affari; gli operai sono di loro natura politici, e se qualcuno propone loro di non occuparsi di politica, essi finiranno con l’abbandonarlo. Predicare agli operai l’astensione dalla politica in ogni circostanza, significa spingerli nelle braccia dei preti o dei repubblicani borghesi.
«Siccome ora l’Internazionale, secondo Bakunin, non deve essere creata per la lotta politica, ma allo scopo di potere, nel momento della liquidazione sociale, prendere senz’altro il posto della vecchia organizzazione sociale, essa deve esser più vicina che sia possibile all’idea bakuniniana della società futura. In questa società, prima di tutto, non esiste nessuna autorità, perché autorità = Stato = male assoluto. (Come faranno costoro a far marciare una fabbrica e le ferrovie, a comandare un bastimento, senza una volontà che decida in ultima istanza, senza direzione unitaria, questo naturalmente non ce lo dicono). Anche l’autorità della maggioranza sulla minoranza cessa di esistere. Ogni singolo e ogni comunità sono autonomi: Bakunin però dimentica ancora una volta di dirci come sia possibile una comunità anche solo di due uomini, senza che ognuno di essi rinunci a qualche cosa della sua autonomia.
«Anche l’Internazionale dunque deve essere costruita secondo questo modello. Ogni sezione è autonoma, e in ogni sezione ogni singolo è autonomo. Al diavolo le deliberazioni di Basilea, che attribuiscono al Consiglio Generale un’autorità perniciosa e che la demoralizza! Anche se questa autorità è stata trasferita volontariamente, essa deve cessar di esistere, appunto perché è autorità».
A tutto marzo 1872 Cafiero continuava ancora a mantenere il piede sulle due staffe. Engels scriveva a Lafargue: «Cafiero è un bravo ragazzo, ma un mediatore innato e come tale, naturalmente, debole; se non migliorerà fra poco, rinuncerò a lui». Finalmente a fine maggio sarà proprio Cafiero ad avere il coraggio di dichiararsi, e lo farà nel peggiore dei modi: «L’Italia accoglierà con gioia la morte del Consiglio Generale, il quale con la sua autorità morale [...] ha dato tutte le prove di un governo forte rispondendo a chi attaccava i suoi principi con l’insinuazione, la calunnia e tutta la sequela di intrighi personali». Niente di peggio di un milite passato nel campo avverso che cerca di salvarsi l’anima accusando i vecchi compagni.
Con il passaggio esplicito di Cafiero nel campo anarchico Bakunin ebbe modo di aumentare la sua attività di propaganda e di penetrazione scissionistica in terra italiana, trasformata in una roccaforte nella battaglia contro il Consiglio generale di Londra. Scriveva il 18 dicembre 1871: «Posso dire di avere inondata l’Italia della nostra circolare [quella di Sonvillier, n.d.r.]. Ho dovuto scrivere una quantità di lettere in tutte le parti d’Italia per spiegare agli amici il vero senso della nostra lotta contro Londra e per disporre a nostro favore gli amici e i quarti di amici». Infatti furono molti i giornali internazionalisti italiani che pubblicarono le circolare, dandole risalto ed elogiandola: “L’Uguaglianza” di Girgenti, “La Campana” di Napoli, “Il Proletario” di Torino, il “Fascio Operaio” di Bologna. Pure “Il Gazzettino rosa” di Milano, benché il giornale più vicino al Consiglio generale, dichiarò di aderire alla circolare di Sonvillier.
Engels non si faceva illusioni. Il 24 gennaio 1872 aveva scritto a Cuno: «La stampa bakuninista afferma che venti sezioni italiane vi si sarebbero unite (alla proposta degli internazionalisti dissidenti di anticipare la convocazione del Congresso generale), io non le conosco. Ad ogni modo quasi dappertutto la direzione è nelle mani di amici e aderenti di Bakunin, che si agitano molto rumorosamente, ma se si indagasse con un po’ di precisione, apparirebbe chiaro che non molta gente sta dietro di loro, perché alla fin dei conti la grandissima maggioranza degli italiani è finora mazziniana e lo resterà fino a quando l’Internazionale si identificherà con l’astensione politica».
E scrivendo ancora a Cuno nel maggio 1872: «In Italia la maledetta difficoltà è soltanto di riuscire a mettersi in contatto diretto con gli operai. Questi maledetti dottrinari bakuninisti, avvocati, dottori, ecc. si sono interposti dappertutto e si comportano come se fossero i rappresentanti nati dei lavoratori. Dove riusciamo a superare questo sbarramento, ed a prendere contatto con le masse stesse, tutto va bene e le cose si mettono rapidamente a posto. Ma, data la mancanza di indirizzi, ciò non è possibile quasi in nessuna parte. Sarebbe quindi stato molto importante se voi foste potuto rimanere a Milano. Di tanto in tanto, col tempo, avreste potuto visitare questa o quella città con uno o due tipi in gamba, e in sei mesi ci saremmo sbarazzati di tutto questo ingombro nei luoghi principali».
Regis, che per incarico del Consiglio Generale si era recato in
Italia,
il 13 maggio, da Ginevra, faceva il suo rapporto: «Le notizie d’Italia
mi giungono scarse e tristi. Voi conoscete in quale deplorabile
situazione
si trovino le regioni romagnole, e quale influenza abbia acquistato il
Fascio Operaio di Bologna, guadagnato completamente alla causa dei
jurassiens
[...] È incredibile l’energia e l’attività spiegata dai dissidenti,
e l’opera loro non è rimasta senza frutto».
Il Congresso di Rimini
Due mesi più tardi era ancora Engels che scriveva a Cuno: «Gli italiani devono fare ancora un po’ di scuola di esperienza, per imparare che un popolo tanto arretrato di contadini, come loro, non fa che rendersi ridicolo quando vuol prescrivere agli operai dei popoli dalla grande industria, come devono contenersi per giungere all’emancipazione». Ed infatti questo è quanto lo stesso Andrea Costa, molti anni dopo, avrebbe ammesso quando nel 1898 scriveva: «Era inevitabile; corrispondeva a nostre condizioni di temperamento, di cultura, di tradizioni, di condizioni economiche dei luoghi [...] Occorreva un bagno freddo di economia politica. Occorreva esperienza. Venne. E venne il socialismo più moderno» (Annotazioni autobiografiche). Ma all’epoca alla quale la nostra trattazione si riferisce, Costa militava decisamente tra le file degli anarchici.
Riprendiamo l’ordine cronologico. Il 4 agosto si riunì a Rimini il primo Congresso internazionalista italiano con la rappresentanza di ventuno sezioni.
Carlo Cafiero, di fresca conversione venne acclamato presidente del congresso, ed Andrea Costa ne fu il segretario. I congressisti dichiararono costituita la Federazione italiana dell’Internazionale e si schierarono compatti a favore di Bakunin contro il Consiglio Generale di Londra, accusato di aver tentato imporre «a tutta l’Associazione Internazionale dei Lavoratori una dottrina speciale, autoritaria che è precisamente quella del partito comunista tedesco». Questa dottrina secondo i congressisti non era che «la negazione del sentimento rivoluzionario del proletariato italiano». E, nel momento in cui dichiaravano di rompere ogni rapporto con Consiglio Generale rifiutavano la loro partecipazione al Congresso generale dell’Internazionale, indetto per il settembre 1872 all’Aja, convocandone invece uno antiautoritario a Neuchâtel. Il congresso di Rimini si chiuse, inviando un indirizzo di plauso e di saluto a Bakunin, «all’infaticabile campione della rivoluzione sociale».
Il frutto di anni di lavoro del Consiglio Generale sembrava di colpo andato in fumo.
Pure il potere statale si compiaceva della rottura con l’Internazionale: il prefetto di Forlì, il 12 agosto, nel suo rapporto al ministero degli interni definiva il congresso di Rimini come un episodio «che, a me pare debba portare a tutt’altro che a quella concentrazione poderosa di mezzi che pur si riecheggiano per mettere [...] in iscompiglio la società tutta quanta».
Soltanto un modesto giornale di Lodi, “La Plebe”, si manteneva sulla la linea di Londra. «Bignami – scriveva Engels il 2 novembre 1872 – è il solo individuo che abbia preso il nostro partito in Italia, anche se fin’ora senza molta energia. Nel suo giornale “La Plebe” (di Lodi) ha stampato il mio rapporto sul congresso dell’Aia ed una lettera che gli avevo inviato [...] Abbiamo il suo giornale in mano nostra. Ma si trova nel bel mezzo degli “autonomisti” e deve prendere ancora qualche precauzione». Il 14 dicembre Engels comunicava che il numero della “Plebe” contenente la Circolare del Consiglio Generale era stato sequestrato ed arrestati Bignami con altri tre redattori del giornale.
Infine il 4 gennaio 1873 affermava: «È della più grande importanza che Lodi sia sostenuta dal di fuori; è il nostro punto più solido in Italia e, ora che Torino non dà più segno di vita, è il solo su cui si possa contare [...] Se perdiamo Lodi e “La Plebe” non avremo più neppure un pied-à-terre in Italia».
Sarà dura e lunga la strada per la penetrazione del marxismo in Italia, e di questo ci occuperemo nei successivi rapporti.
Questo vogliamo chiuderlo allo stesso modo in cui lo abbiamo iniziato, e cioè facendo un ultimo riferimento a Garibaldi.
Nel giugno 1873 Engels scriverà: «In Italia, dove gli anarchici
della
federazione separatista danno attualmente il tono, uno di essi, Crescio
di Piacenza, ha inviato il suo nuovo foglio, “L’Avvenire Sociale”,
a Garibaldi, che questi signori considerano continuamente uno dei loro.
Il foglio era pieno di grida indignate contro quello che essi chiamano
“principio dell’autorità”, il quale è, secondo loro, la radice
di ogni male. Garibaldi così ha risposto: “Caro Crescio! Ringrazio
cordialmente,
ecc. Lei vuole nel suo foglio combattere la menzogna e la schiavitù; è
un programma molto bello. Ma io credo che la lotta contro il principio
dell’autorità sia uno di quegli errori dell’Internazionale che
ostacolano
i suoi progressi. La Comune di Parigi è caduta poiché a Parigi non
esisteva
alcuna autorità, ma solo l’anarchia”. Il vecchio combattente per la
libertà, il quale nel solo anno 1860 ha fatto più di quanto possano
tentare
di fare tutti gli anarchici nella loro vita, sa apprezzare la
disciplina,
tanto più che egli doveva costantemente disciplinare le proprie forze
armate e lo faceva non come negli ambienti militari ufficiali mediante
la disciplina militare, la minaccia costante della fucilazione, ma di
fronte
al nemico».
(Continua del numero
scorso)
(Indice)
Un’èra “di buoni sentimenti”
Il capitalismo americano entrava nel nuovo secolo in preda all’euforia, la crisi degli anni ’90 era ormai un ricordo e la parola è “prosperità”.
Frederick W. Taylor aveva già scritto il primo di una serie di libri e articoli che illustrano la sua dottrina di “gestione scientifica” della produzione: operazioni semplici e ripetitive, che richiedono minore addestramento, e quindi minore specializzazione, misurazione delle operazioni con il cronometro, legando il salario operaio alla prestazione relativamente al tempo “scientificamente” stabilito; in tal modo il profitto può aumentare ai livelli massimi possibili.
Nonostante la depressione, negli anni ’90 gli Stati Uniti erano emersi come la prima potenza industriale. Già nel 1890 erano i primi produttori di ferro e acciaio; nel 1899 lo divennero per il carbone. Contemporaneamente crebbe anche l’esportazione di capitali. Le piccole aziende erano spazzate via da sempre più grandi e meno numerose “corporations”.
Gli Stati Uniti erano una potenza anche dal punto di vista militare, e negli ultimi anni del secolo si erano costruiti un impero, grazie alla guerra con la Spagna, in America Centrale e nel Pacifico, oltre a controllare politicamente ed economicamente molti paesi dell’America Latina.
Per la classe operaia invece non c’era motivo di esser contenta. La crisi degli anni ’90 aveva avuto un impatto durissimo sulle condizioni di vita del proletariato, e non erano molti i frutti della “prosperità senza precedenti” di cui potesse godere. Ancora nel 1900 i salari erano del 10% al di sotto di quelli precedenti alla crisi del ’93. Ma si trattava di una media, per cui, mentre alcuni mestieri più specializzati avevano recuperato le perdite, per la grande massa operaia i salari erano bassissimi. Naturalmente per chi lavorava: sei milioni e mezzo di operai non avevano lavorato l’anno intero, e di loro due milioni nemmeno sei mesi. E questo nell’età d’oro del capitalismo americano. Le statistiche ufficiali oggi pubblicate, che danno 1,4 milioni di disoccupati per il 1900, ovvero il 5% della forza lavoro di 27 milioni e mezzo, non rendono la realtà della situazione operaia, meglio descritta dai dati precedenti, d’altronde provenienti dai lavori del 1901 di una Commissione governativa.
Il dato è reso ancora più drammatico dall’andamento del costo della vita, nello stesso periodo aumentano di almeno il 10% gli alimenti, e di più gli affitti e il carbone (il dato, da uno studio del 1904, riporta +16% per gli alimenti tra 1896 e 1903, e per lo stesso periodo +40% per carbone e cherosene, e +20% per gli affitti). Nel 1902, mentre il World Almanac elencava ben 4.000 milionari in USA, nello stesso Paese, su 80 milioni di abitanti, ben 10 vivevano in povertà, insufficientemente nutriti e vestiti, e in abitazioni miserabili. Nella classe operaia quelli più in basso nella classifica erano i minatori: non sorprende che negli anni successivi sarà questa la categoria più combattiva.
Il quadro è completato da orari terribili: la borghesia si era ripresa nel decennio le concessioni sulla giornata di 8 ore, che ora era di 10, ma di solito molto più lunga, anche per 7 giorni la settimana, come nella siderurgia, dove le domeniche libere erano alternate, ma con un turno ininterrotto di 24 ore “per recuperare”. La stessa situazione di regresso nella condizione operaia era evidente nei confronti del lavoro minorile e delle donne.
Un altro aspetto non secondario riguarda le condizioni di lavoro: nessuna protezione dai rischi, e quindi altissima mortalità in industrie, ferrovie, miniere, oltre a quella, meno documentata, dovuta a ambienti di lavoro malsani. Nel 1911 un incendio in un palazzo di New York dove lavoravano 500 ragazze italiane e ebree di recente immigrazione, ne uccise 145 per la mancanza di vie di fuga e di qualsiasi precauzione antincendio.
Nessuna sorpresa quindi se negli stessi anni il movimento operaio, misurato sulla partecipazione ai sindacati, mostrasse una ripresa vigorosa: da meno di mezzo milione di iscritti nel 1897, i sindacati nel 1904 ne contavano oltre due milioni; e naturalmente la maggior parte spettava all’A.F.L., che ne raccoglieva nei suoi sindacati l’80%. Nel periodo aumentò più del doppio anche il numero di scioperi, che nella maggioranza dei casi avevano successo.
Nel corso degli anni ’90, e soprattutto verso la fine del decennio, si diffuse in certi settori padronali la disponibilità a giungere ad accordi con i sindacati su questioni chiave come salari e orari. Il più importante di questi fu tra i padroni delle miniere e la UMW. In parte questa disponibilità del padronato fu per evitare conflitti durante la guerra ispano-americana (1898-1900), periodo in cui non si dovevano mettere a repentaglio le lucrose commesse statali. Ma anche dopo la guerra i capitalisti esitavano a creare condizioni che potessero mettere in pericolo il fiume di profitti che entrava nelle loro tasche, e i contratti collettivi divennero molto frequenti.
Ma un’altra ragione per questo atteggiamento era il periodo di grande sviluppo del capitale monopolistico; nel solo 1898 la capitalizzazione delle concentrazioni industriali raddoppiò rispetto all’anno precedente. I monopoli in formazione avevano bisogno di controllare la produzione e i prezzi, e in questo soffrivano della concorrenza degli imprenditori non raggiunti dal monopolio; quindi era vitale costringere queste aziende ad associarsi al monopolio, e se questo non era possibile schiacciarle e toglierle di mezzo. Qui entrava in gioco il sindacato, che poteva essere lo strumento per raggiungere il risultato.
A questo scopo i padroni verso la fine del secolo iniziarono a riconoscere il closed shop: in base a un contratto tra associazione di imprenditori (un caso molto rappresentativo fu quello dell’edilizia) e sindacato, i primi si impegnavano a assumere solo iscritti al sindacato, o a sottoporre al sindacato le loro scelte; in cambio il sindacato garantiva che nessuno dei suoi iscritti avrebbe lavorato per le aziende fuori dall’associazione padronale. Con questo controllo della manodopera, insieme a quello crescente sulle materie prime, le associazioni imprenditoriali riuscivano a mettere in difficoltà e quindi far fallire le aziende che non volevano sottomettersi al monopolio. I sindacati, in genere quelli iscritti all’A.F.L., arrivarono al punto di far scioperare gli operai delle aziende concorrenti, diventando uno strumento in mano ai capitalisti. Questi potevano ripagare i sindacati di mestiere con le briciole dei loro enormi profitti.
I sindacati di mestiere consideravano positiva la concentrazione in monopoli: in questo modo sarebbe stato più facile stipulare contratti collettivi, mentre tanti piccoli imprenditori sarebbero stati costretti a farsi una maggiore concorrenza tramite la riduzione dei salari. Ma a parte il fatto che i vantaggi per gli operai riguardavano quasi esclusivamente quelli ben posizionati nella produzione, gli specializzati, nessuno parlava del continuo aumento del costo della vita, che quasi annullava gli aumenti salariali. Né si ricordava che in molte produzioni di massa già monopolistiche questo tipo di idillio non esisteva; per non parlare del fatto che parallelamente al closed shop era ancora molto ampia la situazione di ostilità verso il sindacato, con le conseguenze che abbiamo visto di brutalità, serrate, licenziamenti in massa, liste nere, ecc.
Beati nella loro rosea visione del mondo imprenditoriale i capi dell’A.F.L. non vedevano, o non volevano vedere, il lato oscuro della condizione operaia, che riguardava non solo gli strati più bassi della classe. Parlavano di “Era dei Buoni Sentimenti” tra capitale e lavoro, e prevedevano solo rapporti idilliaci tra due classi che, deterministicamente, non possono che essere violentemente opposte.
Si sarebbero presto ricreduti. Le concessioni ai sindacati erano
solo
temporanee. Un monopolio, una volta consolidato, non ha più bisogno del
sindacato per battere la concorrenza. Al contrario, diviene spietato
nello
schiacciare i sindacati, così come lo era stato per i capitalisti fuori
dal coro. I cosiddetti rapporti pacifici tra associazioni di
imprenditori
e sindacati di mestiere non potevano che finire prima o poi; essi
sarebbero
stati rimpiazzati dallo scontro sull’open shop.
L’Open Shop
Anche se alcuni settori della borghesia mostravano interessate aperture verso il movimento sindacale, il padronato nella sua grande maggioranza non dimenticava il suo obbiettivo più importante, distruggere il movimento sindacale, o fisicamente o rendendolo inoffensivo.
La ripresa dell’offensiva fu favorita dalla crisi del 1893; in seguito la crescita del sindacato non fu che ulteriore incentivo a mobilitarsi nella crociata.
Quando poi nel 1902 la U.S. Steel distrusse quanto restava dell’Amalgamated Iron Workers, sindacato la cui precedente sconfitta nello sciopero di Homestead abbiamo già descritto, associazioni padronali cominciarono a fiorire un po’ ovunque.
La parola d’ordine era l’open shop, cioè, in teoria, la negazione del closed shop: i dipendenti non dovevano essere costretti a iscriversi ai sindacati, i quali ultimi non dovevano avere alcun potere in azienda; questo in ossequio allo sbandierato mito americano della “libertà individuale”, per cui operai e padroni contano per uno; regola che, oltre ad essere di per sé irrealistica, non era rispettata per primi dai padroni che non esitavano ad associarsi per combattere i lavoratori. All’immagine dell’operaio vittima dell’oppressione la propaganda padronale oppose quella del sindacato aggressore: era il datore di lavoro vittima del tirannico potere dei sindacati che, approfittando della cieca obbedienza dei loro iscritti, pretendevano abolire il diritto “naturale” alla libertà d’impresa. Facendo leva sull’individualismo americano questa martellante propaganda riuscì a spostare il sostegno dell’opinione pubblica dall’operaio al padrone. Nonostante i successi a livello locale, il movimento per l’open shop non aveva un’organizzazione e una dirigenza a livello nazionale.
Ma lo scopo vero e nemmeno tanto nascosto delle associazioni padronali era bandire i sindacati dalle fabbriche: si licenziavano gli operai iscritti e si assumevano solo non iscritti e che si impegnavano a restarlo; per non parlare delle altre misure persecutorie delle quali abbiamo dato abbondanza di esempi nel corso di questa narrazione.
Presto alle associazioni padronali si affiancarono le Citizen Alliances, aperte a chiunque non facesse parte di sindacati, una specie di loro doppione, aperto a tutti i “cittadini”.
Infine la responsabilità di coordinare centralmente questi interessi padronali fu attribuita alla National Association of Manufacturers (N.A.M.), che già esisteva con compiti tecnici; questa prese atteggiamenti più politici, avvertendo che «se non si ferma il Gomperismo (sic!), le leggi per le 8 ore, i boicottaggi, ecc. gli Stati Uniti dovranno far fronte a un regno del terrore, che farà apparire la Rivoluzione Francese un salotto da tè». Altre associazioni furono create, con varie denominazioni, ma tutte con gli stessi obiettivi. Nel corso del primo decennio del secolo furono molto attive nel boicottare i sindacati e le loro attività, dare sostegno economico alle aziende schierate per l’open shop, trovare crumiri, boicottare i giornali che non simpatizzavano con loro, corrompere sindacalisti, gestire le liste nere, pagare spie infiltrate, costringere operai a firmare contratti “yellow dog”, fare propaganda dipingendo i sindacalisti come parassiti e corrotti, e il sindacalismo come “non-americano”, utilizzare polizia, milizia e agenzie private per spezzare gli scioperi, utilizzare i tribunali per fiaccare i sindacati, e organizzare potenti lobby contro la legislazione sul lavoro. Insomma, i soliti metodi, ma stavolta generalizzati e utilizzati con ricchezza di mezzi. Una singola agenzia di agenti privati aveva a disposizione 35.000 uomini disponibili a entrare in azione in tempi brevissimi, spie con competenze professionali adatte ad essere infiltrate; in seguito si venne a sapere che molti sindacalisti, anche alti dirigenti dell’A.F.L., erano sul libro paga della N.A.M.
Non tutti i capitalisti erano d’accordo col metodo del bastone: alcuni credevano costasse loro meno conquistare la pace sociale, e far dimenticare il sindacato agli operai, con la corruzione: concedendo migliori ambienti di lavoro, incentivi, o addirittura azioni delle aziende. Altri avevano sviluppato il “sindacalismo d’azienda”, fondando sindacati aziendali, che facevano di tutto tranne organizzare lotte dei lavoratori, e facendo pressione sui lavoratori perché vi aderissero, anche al limite della intimidazione.
Inizialmente i sindacati diedero poco credito a queste iniziative,
ma
verso la fine del 1903 divenne chiaro che la campagna per l’open shop
stava producendo effetti deleteri per il movimento operaio. I sindacati
cercarono di difendersi, soprattutto attraverso la loro stampa, che
però
raggiungeva una parte minoritaria della popolazione, che tra l’altro
era quella che aveva meno bisogno di essere convinta. Di fatto la
campagna
per l’open shop ebbe successo, non distruggendo i sindacati,
cosa
impossibile, ma arrestando la loro crescita, che fino al 1904 era stata
impetuosa. Aumentò il numero di scioperi sconfitti; il sindacato nei
trust,
già debole, scomparve quasi del tutto, con l’eccezione delle ferrovie;
la contrattazione collettiva su larga scala diminuì sostanzialmente.
La National Civic Federation
Tutto questo però non solo per l’open shop. Altre forze erano all’opera, all’interno e all’esterno del movimento operaio, per privare le organizzazioni sindacali della forza necessaria a difendere la classe dall’offensiva padronale.
Una di queste, e forse la più importante all’epoca, fu la National Civic Federation, della cui nascita e scopi abbiamo già scritto. Conviene però tornare sull’argomento perché la N.C.F. fu una presenza importante nel primo decennio del secolo, e perché ci fornisce una misura del grado di corruzione e di addomesticamento cui erano arrivate le dirigenze sindacali.
«La nostra esperienza ci ha convinti – disse un portavoce della Federazione nel 1903 – che il modo migliore per controllare le organizzazioni operaie è guidarle, non contrastarle. Siamo anche convinti che gli elementi conservatori di tutti i sindacati possono esercitare questo controllo se guidati e assistiti nel modo più opportuno». Sindacati che avrebbero non solo potuto mantenere gli operai entro limiti ragionevoli circa pretese e azioni di lotta, ma anche costituire una barriera nei confronti dei partiti radicali. Insomma, un aperto tentativo di controllare il movimento portandone i dirigenti a partecipare a un programma di collaborazione sociale, togliendo in tal modo alla classe vigore, spirito militante, combattività, prospettive politiche.
Certo, c’erano conflitti tra operai e padroni; ma erano evitabili o componibili, perché in America non c’erano le classi, e quindi nemmeno lotta di classe come in Europa. Negli Stati Uniti c’erano solo “incomprensioni” tra padroni e operai. Lo scopo della N.C.F. era proprio quello di evitare queste “incomprensioni”, con incontri, conferenze, banchetti.
Anche senza vedere la Federazione al lavoro, sarebbe bastata la sua composizione per capire e a favore di chi avrebbe funzionato. Delle tre componenti principali, sindacati, imprenditori e “pubblico”, fra i primi erano stati arruolati principalmente i dirigenti sindacali più destri, che già avevano mostrato una buona attitudine a boicottare gli scioperi. Gli imprenditori erano rappresentati da avvocati e funzionari del big business, tutti con trascorsi antisindacali ben conosciuti, e nella stragrande maggioranza presenti in rappresentanza dei più grandi trust (acciaio, petrolio, ferrovie, ecc.), e non certo delle piccole aziende. I difensori della Federazione ne attribuivano tuttavia l’imparzialità alla terza componente: ma anche qui si trattava di dirigenti o ex dirigenti di aziende, banchieri, avvocati di trust, persino un ex-presidente degli Stati Uniti, Grover Cleveland, che aveva inviato le truppe per spezzare lo sciopero Pullman, e vescovi e professori universitari che erano anche i beniamini del movimento per l’open shop per le posizioni che avevano preso in precedenza.
Di fatto, anche se la componente sindacale fosse stata meno corrotta e disponibile a far contenti i capitalisti, la N.C.F. non poteva che essere completamente controllata dalla borghesia, una borghesia “illuminata”, ma solo dal desiderio di annullare la combattività dalla classe operaia, e di spengerne sul nascere qualsiasi velleità rivoluzionaria. Niente di sostanziale separava la N.C.F. dai difensori dell’open shop, se non vuote dichiarazioni e metodi più subdoli per il controllo della classe.
Il ruolo della N.C.F. divenne chiaro dall’inizio, in occasione dello sciopero dei siderurgici della US Steel. Il sindacato principale era l’Amalgamated Association of Iron, Steel & Tin Workers, un sindacato di mestiere che comprendeva solo una minoranza dei 148.000 dipendenti della US Steel, un enorme trust appena formatosi. La politica del trust era di escludere il sindacato dagli impianti nuovi, e di tollerarlo in quelli più vecchi, a certe condizioni. Per il sindacato era invece chiaro che la sua assenza da un numero di impianti avrebbe potuto decretarne il declino generale.
I negoziati per il nuovo contratto in alcuni stabilimenti della US Steel iniziarono nella primavera del 1901. Il sindacato, tramite il presidente Shaffer, chiese che la scala salariale concordata fosse applicata a tutte le fabbriche del trust, insieme al riconoscimento ufficiale delle Unions. La controparte accettò la proposta solo per le fabbriche nelle quali il sindacato era già presente.
Lo sciopero iniziò in due stabilimenti, per entro agosto estendersi a 62.000 lavoratori. Shaffer confidava sul sostegno delle altre organizzazioni sindacali, in particolare dei minatori e dei ferrovieri, cui era chiaro che il trust di J.P. Morgan, patron della US Steel, dopo i siderurgici avrebbe fatto i conti con loro. Meno scontato era il sostegno di Gompers.
Shaffer faceva parte di un Comitato della N.C.F., ma era stato scelto con riluttanza per le critiche che aveva rivolto alla dirigenza dell’A.F.L., soprattutto in difesa del sindacalismo d’industria, come abbiamo visto inviso a Gompers. I capi della N.C.F. non gradivano soprattutto il fatto che Shaffer contasse sull’appoggio di altri sindacati, ivi compreso lo sciopero di solidarietà, ovviamente fortemente temuto per le conseguenze imprevedibili che poteva scatenare. Il presidente Hanna quindi in luglio scrisse a John Mitchell, allora presidente della United Mine Workers Association, oltre che vice presidente A.F.L. e membro della N.C.F., chiedendogli di “adoperarsi” per bloccare il movimento, aggiungendo che “il compito dei capi sindacali responsabili” era di comporre il conflitto prima che Shaffer prendesse “misure disperate”.
Vi furono incontri ai quali partecipò lo stesso Morgan, che promise, mentendo spudoratamente, come fu in seguito provato, che entro due anni si sarebbero potuti firmare accordi validi per tutti gli impianti. Shaffer fu convinto dai ruffiani della N.C.F. a fidarsi di Morgan, ma non il comitato esecutivo dell’Amalgamated, perché la proposta escludeva di fatto il sindacato da gran parte delle fabbriche siderurgiche e garantiva migliori condizioni solo a una minoranza di specializzati.
A quel punto la US Steel ricorse ai crumiri. Il sindacato si appellò a Gompers perché convocasse un incontro dei rappresentanti di tutti i sindacati, per indire scioperi di solidarietà in altre categorie affini alle attività della siderurgia, in particolare i ferrovieri e i minatori. Ma Gompers rifiutò, dicendo che sarebbe stato “un segno di debolezza”. In realtà la sottile corruzione derivata dall’aver coinvolto sindacalisti di rango nella N.C.F. cominciava a dare i suoi frutti.
I siderurgici capirono subito che da quella parte non sarebbe venuto niente. Anzi, i componenti del comitato di conciliazione della N.C.F. si diedero da fare a convincere i capi sindacali che lo sciopero di solidarietà chiesto da Shaffer era una follia; e ci riuscirono, con l’eccezione dei minatori, nonostante le pressioni in senso opposto di Mitchell. I minatori erano per la solidarietà, ma Mitchell riuscì ad impedire qualsiasi azione.
Soli, senza un centesimo versato nella cassa di resistenza dall’A.F.L., e indeboliti dal risentimento antico degli operai non specializzati verso il sindacato di mestiere, i siderurgici dovettero rassegnarsi alla sconfitta, definitiva stavolta dopo quella di dieci anni prima. La N.C.F. aveva mostrato chiaramente quale era il compito che poteva svolgere in chiave antioperaia, e a che servivano i soldi che i capitalisti vi avevano investito.
Il risultato per i siderurgici? Uno studio di una commissione statale mostrò che, nel 1910, un terzo dei 153.000 addetti degli altiforni e dei laminatoi lavoravano sette giorni su sette, e un quinto aveva un orario di lavoro di 84 ore e più la settimana, 12 ore al giorno domenica compresa. Le condizioni di lavoro erano al di sotto dello standard medio industriale americano, e i salari erano a malapena sufficienti a mantenere una famiglia media.
Gli effetti della corruzione strisciante esercitata dalla N.C.F. fu palese anche in occasione dello sciopero dei minatori dell’antracite di Telluride, nella Pennsylvania orientale, che vivevano e lavoravano in condizioni terribili. Non entreremo qui nel dettaglio di uno sciopero che coinvolse quasi 150.000 lavoratori, e che durò dal 15 maggio al 23 ottobre 1902. In sintesi, i minatori misero in campo una combattività e una solidarietà esemplari, resistendo a tutti gli strumenti che conosciamo messi in opera dal padronato. Mitchell, il presidente del sindacato U.M.W. e importante componente della N.C.F., fece di tutto per impedire l’estensione dello sciopero, e per far accettare un accordo che, se concedeva miglioramenti importanti ai minatori, era enormemente al di sotto della forza che avevano mostrato e dei sacrifici sopportati. In realtà si trattò di un accordo interlocutorio, che tra l’altro non comprendeva il riconoscimento del sindacato e prevedeva il regime di open shop.
Se qualche operaio restava abbagliato e lusingato dal fatto che suoi rappresentanti sedessero allo stesso tavolo dei padroni, che cenassero insieme, ben vestiti e riveriti, per la maggioranza questa vicinanza non era assolutamente gradita. L’opposizione all’interno delle Unions, tra molti dirigenti, e anche sulla stampa operaia fu sempre forte, e manifestata a tutti i convegni e assemblee.
Il dissenso si manifestava su un numero di evidenti contraddizioni:
– Se, come dicevano i difensori dell’N.C.F., c’era identità
di interessi tra capitale e lavoro, perché continuavano a combattersi,
e sappiamo bene anche con quali mezzi?
– Il big business mai riconobbe il sindacalismo, quando i
padroni, grazie all’intercessione della N.C.F., avrebbero dovuto in
questo
ravvedersi, rendendo possibile spostare l’impegno dei dirigenti
sindacali
dalla organizzazione delle lotte ad intessere una ininterrotta
trattativa.
– Collaborando nella stessa organizzazione i bonzi sindacali
consentivano
ai peggiori borghesi e dirigenti d’azienda, che avevano combattuto con
tutti i mezzi gli operai, di paludarsi da filantropi. Invece di
combatterli
si trovavano buone ragioni per scusare o addirittura difendere le loro
attività anti-sindacali, spesso attribuendo le responsabilità degli
scontri
agli operai mal consigliati da elementi radicali. Era difficile
spiegarlo
alla base, che conosceva bene quei personaggi e i loro tirapiedi
sindacali.
– La Federazione diceva di voler dimostrare alla opinione pubblica
il reale carattere illuminato e ragionevole delle richieste dei
sindacati,
ma non raccontava dei quasi costanti rifiuti dei padroni di accettarle.
– La N.C.F. auspicava che le dispute si chiudessero in fretta, anche
se non in senso favorevole agli operai; prima che questi ottenessero
qualcosa
pesanti pressioni sui bonzi aderenti alla Federazione li spingevano ad
usare la loro influenza per fermare gli scioperanti. Seguiva invito a
cena.
Era evidente che la funzione, sebbene negata, della Civic Federation, fosse di longa manus delle grandi corporations per tenere a bada lo scontento della classe operaia, attirando dalla sua parte, con forme varie di corruzione, materiale, culturale, psicologica, i dirigenti più destri della classe, un processo che sarebbe negli anni seguenti divenuto sempre più istituzionalizzato. Tutto questo mentre la Federation si ammantava di generosità, filantropismo, buone e sincere intenzioni, instillando nella classe il veleno della collaborazione interclassista e della disorganizzazione.
Lo scontento serpeggiante nel movimento in quegli anni, inizialmente controllato dal bonzume dell’A.F.L., esplose nel 1904, quando uno sciopero della metropolitana di New York fu combattuto con i mezzi più biechi dall’azienda dei trasporti, il cui dirigente, tale Belmont, ricopriva allo stesso tempo la carica di Presidente della N.C.F. Il bello è che i bonzi della N.C.F. ne sostennero la dirigenza per i tre anni del suo mandato, nonostante le violente proteste della base.
La lotta contro la N.C.F. all’interno della A.F.L. continuò negli
anni successivi, ma ormai il compito della Federazione era compiuto,
nell’aggiogare
in modo duraturo le dirigenze sindacali agli interessi delle grandi
corporations.
Il “business unionism”
Nel febbraio 1901 apparve su un periodico sindacale di Atlantic City un articolo interessante su “Il business nella gestione del sindacato”. Vi si leggeva: «I sindacati sono sempre più basati su principi manageriali, e gestiti da capi che operano secondo criteri manageriali. Più sono abili e esperti in questi metodi, più grande è il successo che raggiungono». Qualche anno dopo qualcosa di simile apparve sull’organo del sindacato dei muratori: «In quasi tutti i mestieri oggi abbiamo una forte organizzazione sindacale, dotata di ricchi fondi, ma soprattutto di abili uomini d’affari guidati da generali sul campo sempre più conservatori, e i sindacati sono gestiti in modo manageriale e conservatore».
Il motivo originario della presenza di dirigenti con competenze gestionali era di mettere in grado i sindacati di funzionare con efficienza, solidi, ben finanziati e organizzati, nelle lotte quotidiane della classe operaia contro il nemico di sempre. In effetti una salda organizzazione sindacale diveniva sempre più necessaria per la sopravvivenza stessa dei sindacati, soprattutto negli anni successivi al 1873. Le innovazioni principali del sindacalismo “manageriale” furono: controllo centralizzato dell’organizzazione, soprattutto in occasione degli scioperi; sussidi per malattie, disoccupazione e decesso; alte quote di iscrizione e annuali. Sin dall’inizio vi erano spesso dirigenti talmente ossessionati dall’accumulo di riserve da farne l’unico obiettivo del sindacato; erano dirigenti che di conseguenza divenivano riluttanti a consentire lotte, che avrebbero intaccato quelle riserve con tanta cura accumulate.
Finché lo scopo principale di questo sindacalismo restava la creazione e il mantenimento di organizzazioni capaci di combattere con successo per il miglioramento di salari, orari e condizioni di lavoro degli iscritti, una gestione oculata dei fondi era inevitabile ed auspicabile. Purtroppo questo sindacalismo d’affari (business unionism), o manageriale, che al volgere del secolo sempre più permeava e guidava molti sindacati, cominciò a significare l’applicazione dell’etica dell’uomo d’affari al movimento operaio, col mezzo, un sindacato ricco di fondi per gli scioperi, che ne divenne il fine, quello stesso dei padroni, l’arricchimento e i profitti.
La stragrande maggioranza dei militanti sindacali erano uomini che coscientemente mettevano a rischio il loro posto di lavoro, e incorrevano in discriminazioni e rischi anche gravi per organizzare i loro compagni alle lotte. Unico loro premio era il successo dello sciopero e i sentimenti di riconoscenza della classe, una generosità che non ha mai abbandonato la classe, sui due lati dell’Atlantico. Ma stava emergendo un altro spirito, rappresentato dal tipo di dirigente sindacale che vedeva lo sviluppo del movimento operaio come un mezzo per campare, e talvolta arricchirsi, un mestiere fine a sé stesso, quasi di avvocato.
Abbiamo visto come negli anni ’80 e ’90 del diciannovesimo secolo i sindacati fossero attaccati duramente e sistematicamente dalla borghesia. Spie si infiltravano e distruggevano intere sezioni; i sindacalisti finivano nelle liste nere, e non trovavano più lavoro. Chi si presentava al padrone a presentare le richieste era cacciato e messo nelle liste nere. Di fronte a questa situazione i sindacati dell’A.F.L. ritennero necessario delegare la rappresentanza dei lavoratori a organizzatori di mestiere, che non dipendessero dall’azienda per sopravvivere. Si chiamavano “delegati mobili” (walking delegates), retribuiti dal sindacato, che venivano inviati dove e quando c’era necessità. Svolgendo tale attività a tempo pieno di solito avevano una preparazione e un’autorità che metteva in ombra quella dei delegati locali eletti dalla base.
Presto i capitalisti, accortisi che questo nuovo tipo di organizzatore sindacale non era assoggettabile a intimidazioni e persecuzioni, si risolsero alla tattica alternativa: comprarlo, o tentare di farlo. Non sempre ci riuscivano: molti organizzatori erano dediti e onesti, spesso avevano passato anni a lavorare nel settore, che quindi conoscevano bene, e magari avevano già svolto quell’attività gratuitamente, eletti dai compagni di reparto. Ma ve ne erano che vedevano quella attività come un mestiere, con il quale guadagnarsi da vivere. Questi, non distratti da alcun ideale, con più facilità salivano la scala gerarchica del sindacato verso le posizioni di maggiore responsabilità. I dirigenti ricevevano da 5.000 a 8.000 dollari l’anno, più le spese; in pratica, 10-15 volte un salario operaio medio dell’industria. Ma erano le entrate extra, che potevano valere anche dieci volte di più, a farli arricchire. Foner descrive una serie di proventi correntemente accertati ma raramente perseguiti.
- Appropriazione dei fondi. I dirigenti raccoglievano ingenti somme in contanti per quote, sottoscrizioni e altro, e se ne depositavano solo una parte nei conti bancari e registravano nei libri.
- Pagamenti di somme ingenti da parte dei capitalisti per impedire scioperi, o per addivenire a termini contrattuali “ragionevoli”, magari “dimenticando” nei contratti clausole migliorative per gli operai. È evidente che anche un risparmio di pochi centesimi per ora consentiva al capitalista enormi risparmi, specialmente nelle grandi aziende, da compensare con una ricca mancia al bonzo.
- Entrate derivate della collaborazione fornita ai capitalisti per la formazione di monopoli in un particolare settore. Come abbiamo visto sopra, il sindacato poteva essere di grande servizio al capitale anche nell’indire scioperi in aziende concorrenti o resistenti al monopolio. Questo tipo di sostegno arrivava a prevedere (a volte con contratti scritti!) il richiamo degli operai dalle aziende sgradite per impiegarli in quelle del monopolio, e altre manovre del genere. Non erano rari i casi in cui il sindacalista era compensato con una quota delle azioni, a nome suo o della moglie.
- Entrate derivanti dal concedere al sindacato l’aggiunta del suo simbolo sui prodotti, come invito all’acquisto da parte dei consumatori operai, o a garanzia di non boicottaggio, forma di ricatto anti-aziendale in quegli anni utilizzata.
- Vendita di “permessi di lavoro”. Per il carattere appunto di chiusura del closed shop, si desiderava spesso mantenere separati i lavoratori fissi di un’azienda dai precari; i “permessi di lavoro” erano una temporanea concessione dello status di iscritto per poter lavorare in un’industria a closed shop; qualche volta gli acquirenti erano nuovi bisognosi di lavorare, altre volte gli stessi industriali. Alla scadenza del permesso c’era il licenziamento. Potremmo continuare con mille esempi di questa piccola e grande corruzione
Questo stato di cose generò una dirigenza sindacale che sempre meno svolgeva il compito che in teoria gli spettava, piano piano il suo impegno maggiore fu concentrato sul mantenimento del potere nell’organizzazione, sulle lotte di corrente, sull’accaparramento dei dollari così guadagnati.
Anche quello che noi chiameremmo “servizio d’ordine”, e che il sindacato americano aveva battezzato, con un pizzico di humour, “Entertainment Committees”, verso la fine degli anni ’90 cominciò ad essere composto da gangster, e sempre più serviva a proteggere i boss e i loro interessi, piuttosto che a aiutare gli scioperanti contro gli agenti Pinkerton e i crumiri.
Il sindacato si stava quindi trasformando in un’azienda, con logiche
e prospettive aziendali, con dirigenti che si comportavano come coloro
che erano chiamati a combattere. Pur se la combattività operaia era
determinata
da condizionamenti ben più grandi, questa trasformazione, e soprattutto
la sua rapidità, in questo in anticipo sul sindacalismo europeo, rese
facile da parte della borghesia di oltreoceano il controllo della
classe
e il superamento delle gravi crisi sociali che si sarebbero succedute
nel
mezzo secolo avvenire.
L’American Labor Union
Nell’Ovest la scena in quegli anni era dominata soprattutto dalle lotte dei minatori che, uniti nella Western Federation of Miners, si opponevano al padronato in modo deciso, e adeguato alla violenza messa in campo dal nemico di classe. Nei confronti dei minatori, che svolgevano l’attività più pericolosa in assoluto, pur in un periodo in cui le misure di sicurezza erano praticamente assenti in tutti i posti di lavoro, la borghesia aveva messo in campo senza risparmio tutti gli strumenti di cui disponeva e che abbiamo già più volte descritto.
Nel 1903 uno sciopero iniziò in Colorado, con diverse richieste, tra le quali la più importante era la giornata di 8 ore, vitale per i lavoratori delle miniere. Di fatto una legge era stata approvata nel 1899, ma i padroni se ne erano infischiati, anzi erano riusciti a farla dichiarare incostituzionale. Nel 1902 un referendum aveva confermato la legge con una stragrande maggioranza dei voti, ed era stato eletto un governatore, J.H. Peabody, che si era impegnato a sostenere il risultato del referendum. Ma la legge non passò all’assemblea legislativa, grazie alle pressioni della lobby mineraria.
Mentre gli operai si preparavano a rispondere con l’unica arma veramente efficace, il governatore inviò truppe della milizia per prevenire il picchettaggio; lo scioperò iniziò quindi in salita per gli operai, che ben presto divennero oggetto di una vera e propria persecuzione: i militari arrestavano e deportavano fuori dello Stato tutti quelli che ritenevano pericolosi per la pace sociale, cioè i dirigenti dello sciopero, senza che questi avessero commesso alcun crimine. Quando la questione fu portata davanti al tribunale i militari non esitarono a intimidire gli stessi giudici, un po’ in difficoltà ad avallare comportamenti troppo platealmente illegali. Chi non era deportato era rinchiuso in capanne malsane nelle più tremende condizioni di detenzione; e questo trattamento era dispensato anche ai simpatizzanti dello sciopero, giornalisti compresi.
Lo sciopero cessò ufficialmente nel 1907, ma di fatto alla fine del
1904 era terminato con il sindacato totalmente schiacciato; questo
nonostante
si fosse esteso anche all’Idaho e alla United Mine Workers, il
sindacato
facente parte dell’A.F.L. La sconfitta fu dovuta principalmente
all’impiego
spregiudicato di tutti gli strumenti, legali e illegali, che la
borghesia
poté mettere in campo. Ma una importante componente della sconfitta fu
l’assenza di qualsiasi aiuto da parte dei forti sindacati dell’Est,
riuniti sotto l’egida della A.F.L. Gompers, nei suoi articoli e
discorsi,
si rifiutò persino di far cenno alla lotta in corso di questo sindacato
che, a differenza dei suoi, era aperto a tutti i lavoratori del
settore,
e nei quali la base più combattiva non aveva difficoltà a far sentire
la sua voce.
Parte terza - Il capitalismo
F - Il Risorgimento italiano
IL 1848
1. L’Italia al 1848
L’Italia giunge ultima al processo di unificazione e indipendenza nazionale per una sommatoria di molte cause e retaggi della sua storia dei secoli precedenti, tra cui non ultima la presenza di un autonomo e consolidato Stato Pontificio che, geograficamente e politicamente, dalla sponda destra del Po a Terracina, nel Lazio meridionale, trasversalmente tagliava la penisola determinando così tre diversi raggruppamenti di Stati e staterelli. La questione dell’unificazione nazionale dell’Italia era altresì legata a delicati e complessi legami economici e politici internazionali, che potevano favorirne o bloccarne il processo secondo gli opposti interessi delle grandi potenze europee.
La sistemazione derivata dal congresso di Vienna del 1815 intendeva formare, tramite l’accorpamento di minori unità statali, consistenti Stati cuscinetto in funzione antifrancese, sia nel nord Europa sia a sud, in Italia. Determinò al nord della penisola il regno di Sardegna con Piemonte e Liguria fino al Ticino, oltre quelle sponde fino alle Venezie l’Impero Austriaco, a sud del Po, piccoli Stati legati alla corona austriaca. Al centro, il Granducato di Toscana e il consistente Stato Pontificio e a sud di esso il regno dei Borboni con la Sicilia.
Il superamento di questo assetto, con la formazione di una penisola unificata in una nuova entità statale di maggiori dimensioni economiche, politiche e militari, poteva avvenire solo a seguito di nuovi equilibri nel vecchio continente. Ma il migliore alleato dell’unificazione nazionale italiana si trovava nell’impetuoso sviluppo delle forze produttive dei giovani capitalismi europei, che per la loro espansione avevano bisogno di assetti statali garantenti mercati aperti, confermando la nostra lettura marxista che sono le condizioni economiche che determinano gli assetti politici e non il contrario: precisazione non da poco e fondamentale.
Al proposito ricordiamo che Engels apre lo scritto “Po e Reno”, del 1859, riportando la opinione, che circolava da anni sulla stampa tedesca, che “Il Reno si difende sul Po”, ovvero la perdita di quei territori padani, soprattutto a favore di un’alleanza che comprendesse la Francia, avrebbe aperto a quest’ultima una facile strada fino a Monaco. Il problema dell’unificazione italiana travalica i suoi confini e diviene oggetto di strategia europea.
In Italia le secolari divisioni, con continui aggiustamenti territoriali, ribaltamenti di alleanze, tentativi di formare raggruppamenti più estesi che superassero la tradizione Rinascimentale delle Signorie e dei Comuni, presenze di dinastie straniere, rallentarono la formazione di una borghesia nazionale e di un unico mercato non interrotto da mille frontiere politiche, commerciali ed economiche che ne inceppavano lo sviluppo. L’inarrestabile progresso industriale dell’Ottocento, che non ammetteva simile frazionamento, si esprimeva nella sovrastruttura ideologica borghese della “Patria libera e unita”.
Perfino i moderati, che ritenevano l’unificazione economica il primo passo per l’unificazione politica, chiedevano con urgenza l’unione doganale e una rete ferroviaria. Sotto questo aspetto l’Italia era fortemente arretrata rispetto alle altre nazioni europee: la prima linea costruita, la Napoli-Portici, di soli 8 chilometri, del 1839, è seguita l’anno successivo dalla Milano-Monza di 12; nel 1842 si inaugura la Padova-Mestre e nel 1844 la Pisa-Livorno.
L’iniziale Torino-Moncalieri, di 8 chilometri, del 1848, arriva nel 1853 a Genova, 166 chilometri, col primo valico alpino; nell’impegno di colmare il distacco con le reti ferroviarie europee il governo sabaudo decise di finanziare quest’opera interamente con denaro pubblico. La ferrovia fu subito progettata a doppio binario attaccando i forti dislivelli appenninici con rampe di pendenza superiori al 26 per mille, considerata non affrontabile dalle locomotive del tempo. Fu quindi chiesto al celebre progettista Stephenson la costruzione di apposite locomotive nelle sue officine di Newcastle upon Tyne, che entrarono in servizio nell’agosto 1851. Tra decine di gallerie, ponti e viadotti, la galleria dei Giovi, di 3.259 metri, per molti anni fu la più lunga al mondo.
L’iniziale Milano-Rovato, diventa nel 1857 la Milano-Venezia di 285 chilometri, era la linea più lunga d’Italia. Nel decennio 1850-1859 si ha una media di 160 chilometri l’anno di costruzioni di nuove linee. Col traforo del Frejus del 1871 si collega la Pianura Padana con la Francia.
La prima metà dell’800 presenta in Italia una situazione economica e produttiva non omogenea.
Nella pianura Padana il processo industriale ed economico era in forte espansione: il capitalismo penetra nelle campagne e determina l’avvio dell’industrializzazione cotoniera e serica nel Lombardo-Veneto e quella laniera in Piemonte.
L’agricoltura ha qui la sua rivoluzione: una borghesia attiva acquistò o prese in gestione dagli enti religiosi e dalle famiglie nobili le grandi proprietà terriere, cui destinò ingenti capitali soprattutto per migliorie tecniche e colturali e introducendo le prime macchine agricole. I proprietari terrieri, non interessati agli investimenti nel settore, trovarono più comodo affittare a un unico affittuario le loro terre piuttosto che a centinaia di singoli contadini, percependo così una rendita fissa e più sicura. Ciò determinò un profondo cambiamento nei rapporti sociali giacché i piccoli contadini affittuari e i mezzadri persero la caratteristica di produttori indipendenti divenendo puri salariati alle dipendenze di un unico affittuario o proprietario-imprenditore precipitando in un generale impoverimento, molto parzialmente mitigato dal sostegno fornito con la creazione di opere pie e caritatevoli, religiose e laiche.
Nelle zone collinari e montane si svilupparono le colture cotoniere della canapa, del lino e l’allevamento del baco da seta, espandendo lo sviluppo manifatturiero nel settore tessile; ci si attrezzò per rifornire della necessaria energia nuovi macchinari, inizialmente di importazione dal nord Europa. L’altopiano tra l’Adda e il Ticino divenne un importante sede di industrie, in particolare meccaniche e metallurgiche, concentrate nel bresciano, capaci di fornire macchinari e pezzi di ricambio e, dopo un breve periodo, di progettarne e costruirne autonomamente. A tali processi giunse anche il Piemonte, pur con un leggero ritardo. La diffusione dell’industria tessile determinò il trasferimento di manodopera dal settore agricolo a quello industriale generando la nascita della classe operaia industriale.
L’Italia centro meridionale presentava un’ampia gamma di diversi gradi di sviluppo. In Toscana la diffusione dei contratti mezzadrili bloccava lo sviluppo capitalistico nell’agricoltura; nel Lazio il latifondo cerealicolo non era in grado di superare i vincoli di una agricoltura estensiva. Stesso problema nell’agricoltura delle zone interne del Meridione, che si presentava complessivamente più arretrato, nonostante settori avanzati come la cantieristica navale, dove esisteva una proprietà affatto propensa ai nuovi cambiamenti. Lo sviluppo industriale fu concentrato solo in alcuni poli per i ridotti capitali investiti localmente.
Questo ritardo storico eccitava le forze rivoluzionarie sia al Nord sia al Sud, oltre alla ribellione contro il carattere di spoliazione del dominio asburgico nella ricca pianura padana e l’altrettanto repressivo regime dei Borboni di Napoli. Tutto ciò andava a scompigliare i delicati equilibri strategici delle potenze europee, alcune favorevoli ad un’Italia unita, altre contrarie, e tutte attente a non retrocedere di un palmo dalle posizioni acquisite dal congresso di Vienna. Preoccupava la presenza di una nuova entità economica, militare e politica che entrava in concorrenza con i più sviluppati sistemi economici europei.
Anche al di qua delle Alpi non vi era un unico fronte. Tra neo-guelfi, che auspicavano un’unità sotto la guida della Chiesa romana, repubblicani, con diversi programmi più o meno borghesi-radicali, monarchici “illuminati”, i più conservatori e che alla fine prevalsero, più altre spinte minori, si intrecciavano differenti interessi che generarono azioni confuse e spesso contraddittorie.
Il Regno di Sardegna si trovava schiacciato tra le due grandi potenze della Francia e dell’Austria. Il suo nascente sviluppo industriale era compresso in limiti ristretti e già in concorrenza con quello lombardo. Dopo la ri-acquisizione della effimera Repubblica ligure, col porto di Genova, ingrandì in modo considerevole il suo potenziale navale e di commercio marittimo oltre quello che si appoggiava a Nizza, tradizionale sbocco a mare della Savoia. Tra mille ritrosie, doppi giochi, passi indietro, la monarchia sabauda si lasciò spingere dai moderati antirepubblicani a mettersi alla testa del movimento di unificazione nazionale.
Ecco come Marx apre l’articolo del 17 maggio 1856 titolato: “La
storia di casa Savoia”: «La storia di casa Savoia si può dividere in
tre epoche: la prima, in cui essa sorge e s’ingrandisce, assumendo una
posizione equivoca tra Guelfi e Ghibellini, tra le Repubbliche italiane
e l’Impero tedesco; la seconda in cui prospera passando da una parte
all’altra nelle guerre tra Francia e Austria; e la recente in cui tenta
di volgere a proprio vantaggio la lotta mondiale tra Rivoluzione e
Controrivoluzione.
Nelle tre epoche l’equivoco è l’asse costante della sua politica,
e i frutti immediati di questa politica appaiono risultati di
proporzioni
minime e di carattere ambiguo (...) Con una grande monarchia in Francia
il Piemonte deve restare una piccola monarchia; con il dispotismo
imperiale
in Francia, il Piemonte è tutt’al più tollerato; con una vera
Repubblica
in Francia, la monarchia piemontese scomparirà e si dissolverà in una
repubblica italiana (..) Essa può sostenere la parte di liberatrice
dell’Italia
soltanto in un’epoca in cui la rivoluzione ristagna in Europa, mentre
la controrivoluzione domina suprema in Francia. In queste condizioni
essa
può pensare di prendere nelle sue mani le redini dell’Italia, in quanto
è l’unico Stato italiano di tendenze progressive, con sovrani locali
e con un esercito nazionale».
2. Crisi economica in Italia ed Europa
L’Inghilterra fino dalla metà del Settecento è l’unica vera nazione industrializzata con una consistente produzione manifatturiera; il suo primato produttivo ed economico viene lentamente e progressivamente minacciato da Francia, Belgio, Germania, che a tappe forzate, sulla pelle dei lavoratori, cercano di recuperare il ritardo. Lo stesso processo, anche se più lentamente, si manifesta in Italia, Austria e fino alla feudale Russia. Come Marx ha ampiamente descritto ne “Il Capitale” la diffusione dell’industrializzazione, da una parte aumenta il numero dei lavoratori salariati e il volume delle merci prodotte, dall’altra produce anche crisi di sovrapproduzione per un mercato che non può assorbirne il volume: s’interrompe dopo pochi anni il ciclo Merce-Denaro-Merce, le fabbriche falliscono e gli operai sono licenziati e gettati nel lastrico. Come ora.
Nel biennio 1846-47 in Europa vi fu una di queste crisi di sovrapproduzione, cui si aggiunse una crisi agricola con due cattivi raccolti, in più una grave malattia della patata (peronospora) provocò una tremenda carestia con conseguente forte aumento dei prezzi, e dei morti per fame. A questo si aggiunse la speculazione finanziaria per l’acquisto di derrate agricole all’estero, che per lo più risultarono invendibili per il prezzo non sostenibile dai lavoratori licenziati; aumentarono i fallimenti e la distruzione di capitali.
Se le basi ideali del biennio rivoluzionario 1848/49 attingono ai principi liberali e chiedono le borghesi libertà democratiche e nuove Costituzioni, la base materiale immediata è questa grave crisi economica. La crisi scoppiò dapprima in Francia, dove la crisi industriale, commerciale e agricola era stata peggiore. Il regno di Luigi Filippo era basato su un equilibrio, tra vecchie classi aristocratiche, grandi magnati della finanza e potente borghesia industriale, che poteva reggere solo finché durava la crescita economica. La repressione di una manifestazione popolare fece precipitare la situazione portando alla rivoluzione, alla cacciata del re e ad un governo provvisorio con una decisa presenza socialista, che produsse un avanzato programma sociale tra cui, oltre al suffragio universale maschile, l’abolizione della pena di morte per i reati politici, l’abolizione della schiavitù nelle colonie, la giornata lavorativa fissata in 10 ore, garantito il diritto al lavoro e istituiti gli “Ateliers Nationaux”, cioè fabbriche cooperative di proprietà dello Stato secondo i principi di Louis Blanc. La rivoluzione parigina del 23 febbraio del 1848 fu possibile grazie all’alleanza tra borghesia e proletariato, qui ancora, e per breve tempo, accomunati perché la borghesia intendeva rafforzare il suo potere senza spartirlo con altri. Ma tanto meno col proletariato, suo futuro becchino.
In quello stesso mese, a Londra ma in lingua tedesca, fu pubblicato il Manifesto del Partito Comunista.
Da Parigi i moti rivoluzionari dilagarono a Vienna, Budapest, Praga,
Berlino, Venezia, Milano dove i vecchi governi furono rovesciati; ma
presto
i contrasti tra moderati e radicali e l’esplodere di complesse
questioni
nazionali irrisolte frantumarono quelle delicate coalizioni rendendo
facile
alle monarchie assolute e alle vecchie classi dominanti di riprendere
ovunque
il controllo della situazione scatenando infami repressioni.
3. La Rivoluzione del 1848 in Italia
Si fa risalire all’elezione del Cardinal Mastai Ferretti a nuovo Papa Pio IX nel 1846 il periodo preparatorio alla Prima Guerra d’indipendenza. Questi, noto per la clemenza mostrata negli ultimi moti in Romagna e i sentimenti verso il riscatto e l’indipendenza nazionale, attuò, motu proprio, alcune piccole concessioni democratiche e liberali, una generale amnistia, il condono della pena residua per i reati politici e il rientro degli esuli per la stessa causa, subordinata però ad una dichiarazione di fedeltà e sudditanza cui non tutti aderirono. Ovunque in Italia il partito neoguelfo si irrobustì, accrescendo le preesistenti divisioni. Sull’onda di queste modeste concessioni altri principi e regnanti, per non infiammare le piazze, dovettero adeguarsi, concedendo la libertà di stampa.
Anche più concretamente, tra Regno di Sardegna, Granducato di Toscana e Stato Pontificio nel 1847 furono avviate trattative per istituire una Lega Doganale a facilitare gli scambi commerciali e siglati accordi di navigazione nel tratto del Tirreno che bagna i tre Stati. Altri accordi doganali riguardavano il sale e il vino dal Piemonte al Lombardo-Veneto.
Così Marx in “I movimenti del 1847”: «In Italia abbiamo assistito a uno spettacolo degno di nota: l’uomo che occupa la posizione più reazionaria in tutta Europa, che rappresenta la fossile ideologia del Medioevo, il papa, si è posto alla testa di un movimento liberale. Il movimento è divenuto, da un giorno all’altro, possente; ha trascinato con sé l’Arciduca austriaco in Toscana e il traditore Carlo Alberto di Sardegna; fa traballare il trono di Ferdinando di Napoli e le sue ondate vanno a battere, oltre la Lombardia, sin nelle Alpi del Tirolo e della Stiria (...) Ma di che specie sono queste riforme? A chi giovano? Anzitutto alla borghesia (...) La borghesia viene armata in qualità di guardia civica (...) Il movimento in Italia è pertanto un movimento decisamente borghese. Tutte le classi entusiaste delle riforme, dai principi e dai nobili, sino ai pifferai e ai lazzaroni, si presentano, al momento, come borghesi; il papa è, al momento, il primo borghese d’Italia. Ma tutte queste classi si troveranno assai disilluse, una volta scosso il giogo austriaco. Giacché quando i borghesi l’avranno fatta finita col nemico esterno, in casa propria separeranno i montoni dalle pecore. Allora i principi e i conti di nuovo invocheranno l’Austria per aiuto, ma sarà troppo tardi; e allora i lavoratori di Milano, di Firenze, di Napoli scopriranno che proprio ora incomincia il loro lavoro».
Tra gennaio e marzo 1848 i moti per ottenere moderne Costituzioni si estendono velocemente in tutta Italia dalla Sicilia al Piemonte: nei primi giorni di gennaio a Milano partì il cosiddetto “sciopero del fumo” cioè l’invito rivolto alla popolazione da gruppi di “patrioti” di astenersi dall’acquisto del tabacco su cui gravavano consistenti imposte destinate all’erario austroungarico. Dalle provocazioni dei soldati austriaci, ai fischi della popolazione, alle sciabolate sulla folla non occorse molto tempo: il 3 gennaio in piazza ci furono 6 morti e 50 feriti.
Il 12 gennaio in Sicilia scoppiò un violento moto separatista dal Regno di Napoli che ebbe rapido successo: le truppe di Ferdinando II furono cacciate dall’isola, dove si instaurò un governo provvisorio, proclamata la separazione e ripresentata la Costituzione del 1812. A Napoli il 27 dello stesso mese, dopo forti manifestazioni di piazza il re emise un decreto per la concessione della Costituzione, che fu effettivamente promulgata ai primi di febbraio. Lo stesso accadde in Toscana mentre a Torino, dopo le proteste di piazza, i ministri nominati dal re gli consigliarono di fare altrettanto. Carlo Alberto, controvoglia, il 4 marzo concesse lo Statuto Albertino, seguito subito dal Granduca di Toscana e da Pio IX. A questo punto la borghesia moderata era al potere in tutta la Penisola con costituzioni derivate da quella francese del 1830.
I moti di Vienna contro il cancelliere Metternich, prontamente destituito dall’imperatore, ma soprattutto quelli in Ungheria per l’indipendenza dall’Austria diedero la spinta anche a Venezia che il 22 di marzo si sollevò contro il modesto presidio austriaco, poi lasciato uscire pacificamente dalla città; la sera stessa fu proclamata la Repubblica Veneta e istituito un governo provvisorio.
La storia della Repubblica Veneta è una desolante collezione di errori politici e militari; alla sua guida non vi era un vero partito risorgimentale borghese, né uomini adatti e l’impeto popolare fu vanificato in brevissimo tempo.
Il principale errore politico fu di limitare la Repubblica all’ambito cittadino, senza cercare l’unione con le altre città del Lombardo-Veneto che si erano sollevate. Pesava il ricordo dei fasti repubblicani della Serenissima, soppressa e ceduta all’Austria in epoca napoleonica. Benché a forma repubblicana mancava di una visione d’insieme del problema dell’unità nazionale. Firmò la fusione col Piemonte solo poco prima della battaglia di Custoza e perché per sopravvivere aveva bisogno dell’aiuto della flotta piemontese.
Questa, accorsa in suo aiuto, dovette poi lasciare la laguna veneziana in forza dell’armistizio Salasco, giacché Venezia non era negoziabile in alcun caso da Vienna. Vi ritornò in seguito perché gli austriaci non rispettarono da parte loro l’armistizio, non riconsegnando alla città buona parte delle batterie di artiglieria costiera e materiale militare convenuto.
Gli immediati e gravi errori sul piano strategico e militare ne determinarono la successiva sconfitta. Si permise alla modesta guarnigione austriaca di lasciare la città con le proprie armi, a bordo dei vapori del Lloyd di Trieste, una società di navigazione privata, oltre a consentire la partenza dei governatori austriaci militari e civili della città: queste truppe, soprattutto i comandanti, avrebbero rappresentato ottimi ostaggi da scambiare con i militari veneti che l’Impero utilizzava per la repressione dei moti rivoluzionari in Ungheria e in Germania.
Al momento della sollevazione, nel porto di Venezia si trovavano soltanto alcune navi militari minori, mentre il grosso della flotta austriaca era nei porti di Trieste, Pola e Fiume; ma quelle navi avevano equipaggi e comandanti per lo più veneziani o dalmati di origine veneziana; nessuno pensò di invitarli ad ammutinarsi e a riportare la flotta in Laguna; l’Austria, sostituiti gli equipaggi, poté disporre di una buona marina da guerra per bloccare prima e attaccare poi la città dal mare. Inoltre non esisteva a Venezia un ammiraglio capace di concepire un piano globale di guerra contro la marina austriaca, per cui le notevoli artiglierie a disposizione vennero utilizzate solamente nella difesa della Laguna, lasciando alle navi nemiche la possibilità della controffensiva da poche miglia dalla città, quando fu completato il blocco della città da terra.
Le operazioni navali italiane, che qui non descriviamo, hanno dell’incredibile se non del ridicolo. La flotta sabauda, lì inviata con 2.000 uomini a seguito di La Marmora, si unì a quella napoletana, la più moderna delle tre, ma che aveva l’ordine di combattere il meno possibile e solo se attaccata. Quella pontificia era più determinata, ma mancava di disposizioni e comando unico. Gli aiuti erano solo per un pro-forma, e di conseguenza si comportarono: mancati attacchi, cannoneggiamenti fuori tiro, inseguimenti interrotti per non ingaggiare battaglia.
L’anno successivo, il 22 agosto 1849, dopo la sconfitta piemontese a Novara del 23 marzo, saltata la copertura francese, la isolata Repubblica Veneta dovette capitolare, complici la fame e il colera.
Diversa la situazione a Milano dove il presidio austriaco di 14.000 uomini era comandato dal maresciallo Radetzky, militare di fama e capacità. L’insurrezione partì il 18 marzo dall’ennesimo rifiuto della concessione di una Guardia Civica, senza che alcun organo dirigente desse indicazioni e coordinasse i fatti d’arme e di politica. La popolazione era disarmata (il possesso di armi era motivo d’arresto) se non con pochi fucili da caccia. Le truppe austriache, bloccate dalle barricate, furono investite dai tetti con una pioggia di tegole e altri oggetti. Solo la mattina del 20 marzo si costituì il Consiglio di Guerra.
Dopo i sanguinosi combattimenti strada per strada nelle Cinque
Giornate,
il 23 marzo il Radetzky, dopo la perdita di un migliaio di uomini,
temendo
un attacco piemontese da ovest e l’insurrezione di altre province
lombarde,
che da est gli avrebbe tagliato la strada verso l’Austria, decise di
abbandonare Milano con le truppe rimaste e ripiegare sul Quadrilatero
(le
quattro piazzeforti di Mantova, Verona, Legnago e Peschiera),
attendendo
rinforzi per preparare la controffensiva. Anche nei ducati di Parma e
Piacenza
e in quello di Modena e Reggio, cacciati i regnanti furono istituiti
governi
provvisori.
4. Re Tentenna
La nostra scuola sostiene che non sono gli uomini, piccoli o grandi, a fare la storia, ma è la Storia che si trova gli uomini necessari per il suo divenire; questi non possono accelerarla né fermarla, al più la possono per breve tempo rallentare. Accenniamo sinteticamente alla figura di Carlo Alberto in quanto sicuramente era l’uomo sbagliato nel posto e nel momento giusto, confermando appieno il pesante giudizio di Marx su di lui e la sua dinastia. Ma l’unità nazionale è andata avanti egualmente, anche se con un percorso più tortuoso e doloroso.
Nel 1821 lo scoppio dei moti rivoluzionari a Torino dell’8 marzo erano stati preceduti da contatti di una parte dei congiurati con il principe Carlo Alberto nel tentativo di convincerlo ad allearsi a loro, mentre le guarnigioni di Torino, Alessandria e Vercelli insorgevano. L’anziano re assolutista Vittorio Emanuele I di Savoia, piuttosto che cedere, preferì abdicare in favore del fratello Carlo Felice, in quel periodo ospite nel ducato di Modena, piccolo Stato sotto tutela austriaca, il quale nominò reggente del Regno il nipote Carlo Alberto, che subito si impegnò a concedere una costituzione liberale. La sua reggenza durò appena tre settimane perché Carlo Felice disconobbe l’operato di Alberto, gli intimò di revocare la Costituzione e di trasferirsi presso la lealista guarnigione di Novara. E chiese l’intervento dell’Austria per sedare la rivolta, eseguita duramente dal suo esercito, che occupò militarmente il Piemonte per diversi anni. Carlo Alberto partecipò poi con un corpo di spedizione francese alla repressione del nuovo regime costituzionale in Spagna.
Fin dai primi giorni dell’insurrezione milanese giunsero messaggi a Carlo Alberto da parte degli insorti, che lo incitavano ad intervenire in loro aiuto, a schierarsi chiaramente alla testa del movimento per l’unità nazionale e a dichiarare guerra all’Austria; le altre città insorte si sarebbero affiancate al movimento sotto il suo comando. D’Adda, il liberale milanese inviato a Torino per chiedere 3.000 uomini di rinforzo, aveva avuto l’ordine, comunicato ai consiglieri di Carlo Alberto, che in caso di rifiuto avrebbe dovuto rivolgere la richiesta direttamente a Parigi. Così scrisse, senza la generale pesante retorica risorgimentale, Cesare Balbo, primo ministro sabaudo da pochi giorni: «Io vidi chiaramente che la peggior conseguenza del nostro rifiuto non sarebbe stato l’intervento francese – per dannoso che potesse essere – ma che in una settimana, avremmo avuto una repubblica a Milano, una a Venezia, una certissima a Genova, e molto probabilmente a Torino».
Il 23 marzo, a Torino, quando ancora non si sapeva nulla della ritirata nel Quadrilatero degli austriaci sul Giornale “Il Risorgimento” apparve un articolo di Cavour che esortava in forma indiretta ad intervenire senza indugio, avendo valutato la realtà dei fatti: tutta l’Italia, pur separatamente, aveva rotto la pace con l’Austria ed era entrata in guerra contro di essa. Chiedeva al sovrano: «La sola questione è di sapere se ci dichiareremo lealmente, altamente, per la causa dell’umanità e dell’Italia, o se seguiremo per lungo tempo le vie tortuose di una politica di esitazioni e di dubbi».
Nel consiglio di gabinetto di quel giorno stesso, alla proposta di lasciar partire 10.000 volontari, ben più di quanti richiesti, il re disse: «Io credo, che se dobbiamo agire, bisogna agire più risolutamente». Balbo apprezzò la scelta e consigliò di incaricare il ministro della guerra di far avanzare la parte disponibile dell’esercito, e di comunicare la cosa alla folla che stava riempiendo Piazza Castello al grido di “Vive le roi”, ma tutti a corte sapevano che significava invece “Vive la république”. Nel primo pomeriggio arrivò un dispaccio sulla cacciata degli austriaci da Milano. Giustamente i moderati lombardi, favorevoli all’unione della Lombardia col Regno di Sardegna, fecero notare che la città si era liberata da sola con un’insurrezione popolare e che se i Savoia perdevano l’occasione storica, l’unità l’avrebbero fatta i mazziniani con una Repubblica. Invece altri milanesi, come Gabrio Casati, ritenevano Carlo Alberto “una catastrofe per il trono in Piemonte e per il rimanente d’Italia”.
Forse questa prospettiva repubblicana fece rompere gli indugi e il
giorno
successivo, il 24 marzo, l’esercito sardo attraversava il Ticino ed
entrava
in Lombardia: aveva così inizio la Prima Guerra d’indipendenza
italiana.
Tanto era l’ardore sabaudo per l’unità nazionale: la scelta del male
minore.
5. La prima guerra d’indipendenza italiana
Le notizie dell’insurrezione milanese provocarono grandi manifestazioni di sostegno ovunque in Italia al punto che non solo nel Granducato toscano, nello Stato Pontificio e in quello napoletano i regnanti furono costretti a lasciar partire dei volontari, ma inviarono truppe regolari in appoggio all’esercito piemontese: la vittoria contro l’Austria in difficoltà pareva cosa fatta.
Ma non fu così, sia per l’ovvia intenzione dello stato maggiore sabaudo di mantenere il controllo di tutte le operazioni mettendo da parte i volontari – l’aiuto di Garibaldi, su cui pendeva ancora una condanna a morte, fu respinto dal re – sia perché le altre Case regnanti non avevano per niente l’intenzione di contribuire a proprie spese all’allargamento dei territori di casa Savoia, né tanto meno esserne inglobati senza aver prima discusso di eventuali indennità.
Si costituì comunque un esercito regolare, composto di 30.000 uomini del Regno di Sardegna, 7.000 del Granducato di Toscana, 7.000 dello Stato pontificio, 16.000 dal Regno delle Due Sicilie più 10.000 volontari, contro, nella prima parte della guerra, 70.000 austroungarici.
Le truppe piemontesi giunsero sulle rive del Mincio ai primi d’aprile e con irrilevanti combattimenti a Valeggio, Monzambano e Goito si assicurarono delle teste ponte al di là del fiume, ma lo attraversarono in massa solo tre settimane più tardi, quando iniziarono l’inutile l’assedio di Peschiera, che impegnò buona parte delle truppe piazzate alla fortezza mentre avrebbero potuto bloccare le vie per l’Austria e proseguire su Venezia. Si persero così tutti i vantaggi ottenuti con la vittoria di Goito, considerando il fatto che in quel momento Radetzky era quasi circondato nel Quadrilatero, poiché le truppe pontificie controllavano il Veneto alle sue spalle mentre a lui rimaneva solo il controllo della via del Brennero attraverso la quale gli potevano giungere i rinforzi.
Dopo i primi entusiasmi arrivarono subito le grosse difficoltà: il 29 aprile, con la famosa allocuzione, Pio IX, per non irritare la cattolica Austria, si ritirò dall’impresa e ordinò al generale Durando, comandante le truppe pontificie attestate in posizione strategica in Veneto, di riportarle al di qua del Po, all’interno dello Stato della Chiesa. Il giorno successivo con la battaglia di Pastrengo, a nord delle fortezze di Peschiera e Verona, le truppe sarde arrivarono sulle rive dell’Adige, ma a Santa Lucia fallì il tentativo di bloccare le truppe di Radetzky a Verona e di tagliargli la strada del Brennero.
A Pastrengo parteciparono 12.000 fanti con 2.500 cavalieri con 36
cannoni,
contro 7.000 fanti, 2.200 cavalieri con 24 cannoni austriaci. Le
perdite
furono minime: 15 morti e 90 feriti italiani contro 23 morti 140 feriti
e 380 prigionieri del multi-etnico esercito austriaco.
L’esercito sardo si limitò a proseguire l’assedio di Peschiera lasciando il tempo ai rinforzi del generale Nugent di giungere, da oltre l’Isonzo, sul teatro di guerra, rafforzando il blocco austroungarico; questa scelta si rivelò fatale.
Alla defezione di Pio IX si aggiunsero quella di Leopoldo II di Toscana, poi di Ferdinando II di Napoli, che non aspettava altro per ritirarsi dall’impresa. Ma i rispettivi comandanti rifiutarono di eseguire l’ordine di rientro, e rimasero, assieme alla maggior parte dei soldati, come semplici volontari. Il sogno di una guerra federale dei principi italiani contro l’Austria svaniva per sempre e rimaneva solo il tentennante Carlo Alberto, il quale premeva sui governi provvisori di Milano, Venezia, Modena e Parma che votassero in favore della annessione al Regno di Sardegna. Per evitare che anche questi si ritirasse dalla guerra contro l’Austria, lasciandola poi libera di scatenare la sua violenta repressione, a malincuore, mazziniani e democratici sostennero quel voto, pur sapendo che si trattava solo di un ingrandimento territoriale di casa Savoia; anche in questo caso fu la scelta del male minore.
Radetzky, approfittando di questa confusa situazione politica italiana, sferrò un’improvvisa offensiva, bloccata appena in tempo dai volontari toscani a Curtatone e a Montanara, il 29 e 30 maggio, permettendo a Carlo Alberto di vincere nuovamente a Goito ed occupare la fortezza di Peschiera, che si era arresa.
Furono le ultime vittorie perché, con l’arrivo dei rinforzi del
generale
Nugent, che era arrivato sconfiggendo in Veneto le truppe del generale
Durando, Radetzky poté sconfiggere pesantemente l’esercito piemontese
a Custoza (22-27 luglio).
6. La colpevole sconfitta a Custoza
I piemontesi si trovavano ad oltre 200 chilometri dai loro punti di rifornimento di materiali e di uomini, mentre gli austriaci potevano contare su retrovie molto più accessibili. Dopo il primo momento di entusiasmo sopraggiunsero le incertezze sulla sorte della guerra, ed era mutato il sostegno da parte delle popolazioni locali, che iniziavano a vedere in Carlo Alberto non più un liberatore ma un nuovo padrone, e l’esercito ne risentiva nel morale. Una brutta situazione che solo un grande condottiero poteva ribaltare, ma il nostro non lo era.
Radetzky decise di sfruttare la pessima disposizione dell’esercito sardo, ora disposto su una linea lunga 70 chilometri, concentrato agli estremi e poco guarnito al centro. Il 23 luglio attaccò in forze il debole centro tra Sona e Sommacampagna, dove furono aspri combattimenti che obbligarono i piemontesi a perdere diverse posizioni e ripiegare. Era ancora possibile una controffensiva, visto il disagio austriaco per le loro perdite, in numero doppio di quelle sabaude, ma l’indecisione del comando la fermò per la mancanza di rifornimenti. Gli austriaci invece continuarono l’attacco in un’altra parte del fronte, a Salienze, con successo.
Il 25 ripresero i combattimenti con un infruttuoso attacco piemontese a Valeggio dopo di che quei reparti, stanchi e demoralizzati, ripiegarono in direzione di Goito. Già quella sera era chiaro che la battaglia era perduta, ciononostante continuò per altri due giorni. Il 27 mattina gli austriaci contrattaccarono e sconfissero definitivamente i piemontesi.
L’insuccesso, dovuto a una lunga serie di malintesi, ritardi, fatti mai chiariti, dette il colpo finale al morale delle truppe. Carlo Alberto, compreso finalmente che non era possibile una riscossa ma neppure una valida difesa, mandò una delegazione di alti ufficiali a trattare una tregua d’armi.
Carlo Alberto ripiegò su Milano, per abbandonarla disarmata nottetempo, portandosi via una parte dei cannoni della città e delle riserve auree delle banche milanesi, a risarcimento delle spese sostenute dal suo esercito. Inseguito da qualche fucilata (5-6 agosto), senza aver tentato neanche una minima resistenza, lasciò il generale Salasco a firmare l’omonimo armistizio che prevedeva il rientro di tutte le truppe piemontesi al di là del Ticino, nello stesso giorno in cui il governo provvisorio milanese votava l’annessione al Regno di Sardegna.
Da entrambe le parti non c’era stata vittoria né sconfitta. L’esercito sardo cedeva fortezze e postazioni ormai indifendibili, portandosi via il proprio materiale bellico e restituendo quello nemico, non doveva sborsare alcun indennizzo, mentre Radetzky poteva con tutta calma ristabilire il suo ordine nei territori del Lombardo-Veneto.
Non solo in Italia la situazione era peggiorata. In Francia alle prime elezioni dell’Assemblea Costituente ebbe la maggioranza assoluta la coalizione moderata tra repubblicani e monarchici e i socialisti solo 100 seggi su 900; fu eletto presidente della nuova repubblica l’ambizioso Luigi Napoleone Bonaparte che, pur in gioventù vicino ai Carbonari, non aveva alcuna intenzione di assumere atteggiamenti rivoluzionari invisi al suo elettorato. In Germania il tentativo di costituire un regno federale con un unico parlamento nazionale fallì per il rifiuto del re di Prussia di accettarne la corona e per l’ostilità dell’Austria. In quest’ultimo Impero, dopo la sollevazione di ungheresi, Croati, Cechi e italiani, il partito militare aveva ripreso il controllo della situazione, grazie anche all’intervento dello zar Nicola, intervenuto contro l’Ungheria repubblicana. Il 31 ottobre Vienna insorta fu bombardata e costretta alla capitolazione; i generali obbligarono l’imperatore Ferdinando I ad abdicare in favore del nipote Francesco Giuseppe, non compromesso con concessioni ai liberali: il regime autocratico fu ristabilito anche lì.
Quando a Venezia l’11 agosto giunse la notizia dell’armistizio Salasco furono immediatamente allontanati gli emissari di Carlo Alberto, colà inviati per promuovere l’annessione al regno di Sardegna, e conferiti poteri dittatoriali a Daniele Manin per predisporre le necessarie difese.
A Roma l’allocuzione di Pio IX non passò indenne, dopo una serie di gravi disordini il papa, il 24 novembre, fuggì a Gaeta chiedendo protezione a Ferdinando II, fu dichiarata la Repubblica e decaduto il potere temporale dei papi; giungeva in soccorso l’esperienza militare di Garibaldi. Anche in Toscana il granduca fu costretto alla fuga, pure lui riparò a Gaeta, e si pensò addirittura ad una Assemblea Costituente composta di deputati eletti in tutta Italia a suffragio universale. Soltanto nel regno delle Due Sicilie i democratici perdevano terreno: Ferdinando II ignorava la concessa Costituzione e continuava a montare e smontare governi, dettare leggi mentre organizzava la ripresa della Sicilia.
Qui il governo provvisorio era impantanato nei contrasti politici
tra
gli opposti partiti: questione di fondo fu quella agraria. I
democratici
intendevano vendere ai contadini le terre confiscate dallo Stato alla
Chiesa,
mentre i liberali, molti dei quali grandi proprietari terrieri, non
vedevano
volentieri il diffondersi in Sicilia della piccola proprietà contadina.
Con un violento bombardamento di Messina iniziò la riconquista
dell’isola,
che terminò nel maggio 1849 con la caduta di Palermo.
7. La ripresa della guerra e la sconfitta a Novara
L’armistizio di Salasco scatenò anche a Torino violente proteste dei democratici, che accusarono lo Stato Maggiore di molti errori, al Re di aver badato solo agli interessi della corona e ai moderati di non aver capito che si trattava di un movimento risorgimentale a carattere nazionale e quindi di non aver utilizzato a dovere i generosi aiuti dei volontari e addirittura di averli allontananti. Il Regno di Sardegna rinunciava così a divenire lo Stato guida del movimento di indipendenza. A sua volta lo Stato Maggiore accusò il re di aver spesso voluto decidere di testa propria disattendendo i loro consigli e chiese di sollevarlo dal comando diretto.
Nel frattempo occorreva riorganizzare l’esercito nel suo insieme con speciale riguardo alla catena di comando; si decise quindi di cercare all’estero un comandante generale capace di elaborare validi piani di guerra, da contrapporre all’esperienza del Radetzky. A quelli inglesi, e soprattutto francesi, interpellati, i rispettivi governi negarono il permesso, per ovvie ragioni diplomatiche, e alla fine si giunse al generale polacco Chrzanowsky, uno dei capi dell’insurrezione del 1830-31 nella sua patria, che viveva esule in Germania. Scelta infelice: pur esperto in strategia, era più un teorico che un guerriero, non capiva l’italiano, non conosceva il territorio e non possedeva personalità per imporsi al re e ai comandanti nostrani. Si ebbe infine che Caro Alberto deteneva nominalmente il comando supremo militare, esercitato però da Chrzanowsky, e il generale La Marmora divenne il nuovo comandante di Stato Maggiore: la confusione aumentò ulteriormente.
Carlo Alberto, valutando favorevole la situazione con l’Austria impegnata a domare la rivolta ungherese, il 12 marzo 1849 denunciò l’armistizio e riprese la guerra. Non si poteva contare sull’effetto sorpresa perché gli austriaci avevano concentrato per tempo truppe alle frontiere.
Il 18 marzo Radetzky mosse le sue truppe da Milano, per concludere in fretta la faccenda, perché pure lui temeva un’altra sollevazione in città. Diresse infine il grosso delle forze in direzione di Pavia, da cui poi attraversò indisturbato il Ticino, complice la disobbedienza e il tradimento del generale Ramorino.
Lo Stato maggiore sabaudo propendeva per una guerra lampo con un’offensiva lungo il Po in direzione di Piacenza e Mantova, per prendere gli austriaci alle spalle e risolvere il conflitto con una battaglia campale in quelle pianure, essendo Alessandria la sua base principale da cui potevano partire rinforzi e materiali. Il re, invece, voleva puntare direttamente su Milano e prenderla lui, per evitare: «che la popolazione, sparando magari qualche colpo di fucile sul nemico in ritirata, possa credere di essersi liberata da sola».
Il polacco, per assecondare e il Re e lo Stato Maggiore, concepì un piano ibrido che riproponeva l’errore di disposizione di Custoza, con due lunghi tronconi, separati al centro con vuoto di truppe. Il collegamento dei due blocchi era affidato alle truppe a cavallo, per lo più volontarie, del generale Ramorino, noto per la poca propensione a eseguire gli ordini e per le sue idee di fervente repubblicano.
A battaglia perduta gli costarono la condanna a morte per alto tradimento, poiché considerato l’unico responsabile. Aveva combattuto come comandante con Napoleone in Russia e come generale con Chrzanowsky in Polonia. Disattese gli ordini di spostarsi a sinistra verso Novara e si diresse invece, a destra, nell’Oltrepo pavese convinto, disse, di un attacco da quella direzione. Si tagliò così completamente fuori dal teatro di guerra, le sue truppe non furono impegnate in alcuna operazione, ma soprattutto disarticolò il già precario piano di Chrzanowsky.
Attraverso la falla gli austriaci marciavano indisturbati verso Mortara tagliando la strada tra Alessandria, Vercelli e Novara. Ma Radetzky si spostò poi a sud, liberando così la direttrice Novara, Magenta, Milano, per la quale l’esercito sardo poteva puntare direttamente su Milano, e prendere così alle spalle gli austriaci, dopo aver scatenato l’insurrezione della città. Ma era cosa che Carlo Alberto temeva di più della morte.
Però quel giorno, il 20 marzo, lo stratega polacco non prese alcuna decisione. La mattina del giorno successivo le truppe piemontesi del generale Bes, nei pressi di Mortara, senza attendere gli ordini del comando e in inferiorità numerica, fermarono l’avanzata austriaca, passarono al contrattacco facendo ripiegare notevolmente gli austriaci. Chrzanowsky ignorò la cosa e non sferrò alcun attacco su ampia scala. Il re si limitava a girare tra i soldati e a dormire all’addiaccio con loro. Radetzky, invece, la sera sferrò lui un violento attacco su Mortara, distante solo 12 chilometri dal comando generale sabaudo, che dovette cedere.
Il consiglio di guerra notturno doveva organizzare la ritirata che poteva essere fatta con due possibilità: la prima, più ardua, puntare su Vercelli, che però garantiva il contatto con la base dell’esercito di Alessandria, oppure la più semplice, su Novara, tagliandosi però fuori dalla via dei rifornimenti; fu scelta la seconda. Radetzky credendo che nessun serio comandante potesse prendere una così illogica decisione, divise le sue forze in due parti: condusse personalmente il 22 marzo la più consistente su Vercelli, mentre una minore diresse su Novara. Il corpo austriaco su Novara, convinto di trovarsi di fronte a ridotti reparti, li attaccò, ma fu respinto e quasi accerchiato. Se Chrzanowsky avesse contrattaccato sarebbero stati, secondo le successive stesse ammissioni del comandante austriaco, completamente sbaragliati e ridotti alla resa. Invece ciò non fu fatto e si permise loro di attendere i rinforzi.
Il giorno appresso, il 23 marzo, giunte le truppe di Radetzky con i rinforzi richiesti per complessivi 75.000 effettivi, mentre quelli dell’esercito sardo erano di poco superiori, l’esercito piemontese fu definitivamente disarticolato e battuto. La guerra era durata solo quattro giorni
Le pesanti condizioni imposte a Carlo Alberto per un armistizio, tra cui la consegna dell’erede al trono Vittorio Emanuele fino alla conclusione del trattato di pace, lo indussero ad abdicare in favore del figlio, sperando in un atteggiamento più disponibile. Nottetempo, su un calesse condotto da un domestico senza livrea, con passaporto falso e in abiti civili, prese la via dell’esilio in Portogallo, sicuramente da tempo già prescelta; passando da Nizza, al tempo ancora nel Regno sabaudo, presso un notaio firmò l’atto di rinuncia al trono.
Radetzky dal canto suo fu poi criticato per non aver continuato la facile avanzata fino a Torino, dove avrebbe potuto imporre condizioni più dure, ma spiegò sia che la Francia non avrebbe consentito la presenza austriaca sotto le sue frontiere, sia che temeva una sollevazione nazionale italiana in soccorso del Piemonte.
Il giorno dopo Vittorio Emanuele II firmò a Vignale un armistizio, concluso poi con la pace di Milano, dove non furono dettate gravose condizioni; non per magnanimità ma per preciso calcolo politico: al nuovo re non fu imposto di abrogare lo Statuto perché potesse iniziare il suo regno con minori problemi sociali; il Piemonte non avrebbe rappresentato, per un certo periodo, un pericolo militare, mentre occorrevano tempo e risorse per riprendere il controllo nell’Alta Italia.
Commenta Engels: «Il tradimento di Ramorino ha dato i suoi frutti. L’esercito piemontese è stato completamente sconfitto presso Novara e respinto verso Borgomanero, ai piedi delle Alpi. Gli austriaci hanno occupato Novara, Vercelli e Trino e la via di Torino gli è aperta (...) Che anche Carlo Alberto abbia tradito è ormai indubitabile: se lo ha fatto soltanto per mezzo di Ramorino o anche in altro modo, non potremo saperlo che domani» (“La sconfitta dei Piemontesi”, 31 marzo 1849).
Il giorno seguente aggiunge: «La sconfitta dei piemontesi presso Novara non è affatto così decisiva come affermava il telegramma spedito a Parigi. I piemontesi sono battuti, tagliati fuori da Torino e ricacciati sulle montagne. Questo è tutto. Se il Piemonte fosse una repubblica, se il governo di Torino fosse rivoluzionario e avesse il coraggio di usare i mezzi rivoluzionari nulla sarebbe perduto. L’indipendenza italiana sta per essere perduta, non per l’invincibilità delle armi austriache, ma per la codardia della monarchia piemontese (...)
«I piemontesi commisero fin dall’inizio un gravissimo errore contrapponendo agli austriaci soltanto un esercito regolare e volendo condurre una delle solite, honnêtes guerre borghesi. Un popolo che vuole conquistarsi la sua indipendenza non deve limitarsi ai soliti mezzi di guerra. Sollevazione in massa, guerra rivoluzionaria, guerriglia dappertutto, ecco l’unico mezzo con cui un piccolo popolo può vincere uno grande, e un esercito meno forte resistere contro un esercito più forte e meglio organizzato (...) Ciò che ha dunque rovinato gli italiani non è la sconfitta di Novara o quella di Vigevano; è la codardia e la moderazione a cui la monarchia li costringe.
«La battaglia perduta di Novara aveva unicamente uno svantaggio strategico: gli italiani erano tagliati fuori da Torino mentre gli austriaci avevano la via aperta. Questo svantaggio poteva non avere alcuna importanza se la battaglia perduta fosse stata immediatamente seguita da una vera guerra rivoluzionaria, se quel che rimaneva dell’esercito italiano si fosse proclamato fulcro dell’insurrezione nazionale di massa, se la stessa guerra dell’esercito regolare, strategica, e honnête, si fosse trasformata in una guerra di popolo, come quella che i francesi fecero nel 1793 (...)
«Ma Carlo Alberto è un traditore (...) Carlo Alberto aveva l’ordine di cominciare la guerra contro l’Austria, di farsi battere e di dare in questo modo la possibilità agli austriaci di ristabilire la “calma” in Piemonte, a Firenze e a Roma e di accordare dovunque delle Costituzioni ispirate alla legge marziale. Carlo Alberto ottenne per questo Parma e Piacenza, i russi pacificarono l’Ungheria, la Francia doveva diventare uno Stato imperiale e così la calma sarebbe ritornata in Europa. Questo, secondo i giornali francesi, il grande piano della controrivoluzione. E questo spiega il tradimento di Ramorino e la sconfitta degli italiani (...) Se l’Italia non vuole perire a causa della monarchia, bisogna che la monarchia in Italia perisca al più presto». (“La lotta in Italia”, 1 aprile 1849).
Questo il giudizio di Engels sull’abilità del vecchio Maresciallo
austriaco: «Che Radetzky – o piuttosto Hess, il suo capo di stato
maggiore
– abbia portato a termine con abilità il suo complotto con Ramorino,
siamo d’accordo. Ma è anche vero che dopo il tradimento di Grouchy a
Waterloo, non si era più commessa un’infamia paragonabile a quella di
Ramorino. Radetzky non appartiene alla classe del “demone delle
battaglie”,
Napoleone, ma piuttosto a quella di Wellington. E a entrambi le
vittorie
sono costate più denari in contanti che coraggio e abilità» (“Rassegna
degli avvenimenti di guerra”, 4 aprile 1849).
8. La Repubblica romana
Alla notizia della ripresa delle ostilità la città di Brescia, sottoposta a una pesante occupazione militare, insorse e costrinse il presidio austriaco di 650 uomini a ritirarsi nel castello. La mancata insurrezione di altre città lombarde e la subitanea fine a Novara della guerra e di ogni speranza si ripercossero a tutto svantaggio di Brescia. Fu attaccata dalle forze congiunte dei più validi comandanti austriaci con 6.500 effettivi. Dopo dieci giorni di violenti scontri, dal 23 marzo al 1° aprile 1849, la città cadde e fu sottoposta al saccheggio delle truppe del “macellaio” Haynau.
Dopo di che Radetzky si occupò della Toscana, dove la faccenda era più complessa perché da Gaeta, dove si era rifugiato, Leopoldo II, da una parte riceveva e organizzava coi moderati fiorentini il suo rientro in città, in cambio di minime concessioni costituzionali, dall’altra chiedeva l’aiuto militare austriaco, che arrivò con un nutrito corpo di spedizione di 18.000 uomini e 100 cannoni.
Questo, occupate Lucca e Pisa, si diresse verso Livorno dove era una situazione simile a Brescia. Dopo due giorni di combattimenti impari la città fu conquistata e sottoposta al saccheggio; seguirono diverse centinaia di fucilazioni e la richiesta austriaca di un risarcimento di 1,2 milioni di fiorini, oltre ad analoga cifra richiesta a Leopoldo II ad indennizzo delle spese sostenute.
Toccò poi a Firenze, occupata militarmente per diversi anni, scoprendo infine il doppio gioco del beneamato Granduca. Per primo, il 6 giugno giunse Radetzky, mentre il buon Leopoldo solo il 28 luglio, in uniforme da comandante austriaco, scortato da cavalieri ungheresi, a significare il suo stato di sudditanza, con la clausola di revocare la costituzione e ripristinare lo Stato assoluto.
Sempre da Gaeta anche Pio IX rivolse un appello a tutti gli Stati cattolici per tornare nella sua Roma. Qui tutto il potere politico è affidato al triumvirato mazziniano; quello militare ebbe l’aiuto di Garibaldi, già lì fin dai primi giorni della Repubblica romana con i suoi volontari sudamericani. Poteva contare, tra regolari e volontari ben determinati, su una forza di 10.000 uomini, ma con grandissimi problemi di armamento perché non vi erano nello Stato sufficienti industrie a questo dedicate e dall’esterno giungeva quasi nulla, con le frontiere controllate da austriaci e borbonici.
Risposero al Papa in quattro: il primo fu il presidente francese Luigi Napoleone, non ancora Imperatore, intento ad accrescere il suo prestigio personale fuori e dentro le frontiere. Si rifugiò nel doppio e triplo gioco: respinse l’invito austriaco per un intervento armato congiunto; ma assicurò al Nunzio Apostolico che avrebbe agito; disse agli austriaci che avrebbe occupato Roma per riportare il Papa; ai piemontesi che lo faceva per equilibrare il peso austriaco in Italia; agli inglesi e al resto d’Europa che andava a fare da paciere per convincere Papa e governo repubblicano a trovare un compromesso.
Fece sbarcare il 24 aprile a Civitavecchia un corpo di spedizione al seguito del generale Oudinot e occupò parzialmente la città. L’Assemblea affidò poteri assoluti a Mazzini. Garibaldi, spedito a Rieti dai mazziniani per occuparsi di brigantaggio, sentito dello sbarco francese, senza attendere ordini si precipitò a Roma coi suoi soldati giusto in tempo per l’assalto francese del 30 aprile.
Oudinot aveva preparato un piano d’attacco con 6.000 uomini basandosi su carte topografiche vecchie e imprecise secondo cui il passaggio più facile per invadere Roma era tramite Porta Pertusa, che però era stata murata alcuni anni prima. Lì giunto dovette allora fare conversione su Porta Cavalleggeri e Porta S. Pancrazio, scoprendo il fianco ai difensori che colpirono d’infilata provocando 250 morti. Nel mentre, giunto Garibaldi con la sua legione, con uno spericolato assalto alla baionetta costrinse i francesi a una precipitosa fuga inseguendoli fino quando non fu fermato da un ordine di Mazzini. Il generale francese umiliato si ritirò a Civitavecchia chiedendo rinforzi.
Il secondo che rispose al Papa fu Ferdinando II. Dopo aver bombardato e saccheggiato Messina e Palermo, aveva riconquistato la Sicilia, sciolto il Parlamento napoletano e restaurato la monarchia assoluta. Da Napoli verso Roma accompagnò un suo contingente di 8.500 soldati, 52 cannoni e cavalleria. Non avrebbero dovuto fare grandi battaglie sia perché il re cercava di risparmiare il suo esercito sia perché Oudinot gli fece sapere che la Francia non intendeva dividere il successo con nessuno.
Mazzini, per cercare di calmare Garibaldi, infuriato anche col generale Rosselli cui la repubblica aveva conferito il comando supremo, lo spedì incontro ai borbonici, di cui il 9 luglio, nella battaglia di Palestrina, sconfisse 6.700 uomini, mandati a stanarlo nei boschi.
Il terzo contingente di soccorso al Papa, quello spagnolo, forte di 9.000 uomini, sbarcato verso la fine di maggio a Gaeta, fu dirottato dai francesi in Umbria per i motivi esposti.
Il quarto, quello di Radetzky, dopo aver sedato Livorno, Firenze e Bologna, dopo un breve assedio di Ancona il 21 maggio, puntava su Roma. Il suo compito era più difficile perché aveva di fronte città molto agguerrite e distanti fra loro per cui dovette dividere le sue forze su più fronti, ma la sua discesa su Roma procedeva.
Nei fatti dei quattro contingenti soltanto due erano immediatamente pericolosi e i francesi avevano fretta di concludere a loro modo la questione.
De Lesseps, l’ambasciatore plenipotenziario francese, quello del canale di Suez, forse in buona fede, aveva concordato con Mazzini la pacifica occupazione della città da parte francese, garantiva la libera scelta del loro regime politico e la proteggeva dall’arrivo di altri eserciti in cambio della fraterna accoglienza dei francesi da parte dei romani.
Oudinot non riconobbe l’accordo, e comunicò al generale Rosselli la ripresa delle attività belliche. Alle tre di notte del 3 giugno iniziò un fitto bombardamento sulla periferia per aprire degli avamposti. I combattimenti furono terribili per tre settimane con perdite consistenti. Garibaldi, ritenendo impossibile difendere Roma, sosteneva che bisognava risparmiare quanto restava dell’esercito repubblicano per continuare la lotta; pure Mazzini era della stessa idea; l’Assemblea infine decise la capitolazione, esclusa la resistenza ad oltranza fino all’ultimo uomo. La notte tra il 29 e 30 giugno Oudinot guidò l’attacco finale che si risolse in un massacro; il 3 luglio i francesi entrarono in una città semidistrutta.
Mazzini dopo la scelta dell’Assemblea per la capitolazione si dimise
dagli incarichi assegnati, ma rimase a Roma e successivamente si
imbarcò,
non ostacolato dai francesi, per Marsiglia, poi Ginevra. Garibaldi con
4.000 seguaci si diresse verso Venezia per sostenerne l’indipendenza,
ma dopo alcuni giorni rimasero meno della metà per poi gradualmente
disperdersi,
braccati dagli austriaci. Riuscì a raggiungere Chiavari dove fu in
“honorata
militare custodia” del generale La Marmora; da Torino gli dissero di
dargli un sussidio e spedirlo in America, ma il focoso guerriero non
accettò,
andò a Nizza a salutare la madre per poi imbarcarsi per la Tunisia.
9. Repubblica a Venezia
Rimaneva ancora Venezia, le cui forze armate erano nominalmente affidate a Guglielmo Pepe, ma di fatto organizzate dal comandante Cavedalis, un friulano con i piedi per terra, l’unico nella situazione. Questa milizia, per la ragguardevole cifra di 15.000 effettivi, era un insieme di volontari di ogni sorta, profughi da ogni dove, compresi 5.000 veneti rifugiati in città per sfuggire alla coscrizione, imposta dagli austriaci in tutto il Lombardo-Veneto. Cavedalis conosceva bene i limiti operativi delle milizie volontarie.
Radetzky, ripreso il controllo sul Ticino, con 30.000 uomini arrivò alla fine di aprile a Venezia, ora bloccata da mare e da terra. Il piano prevedeva la conquista di Marghera, che avrebbe convinto i veneziani alla resa. Dai validi forti veneziani una potente artiglieria colpiva duramente gli austriaci. I cannoni dell’epoca avevano una gittata utile di 2.000 metri. In tre settimane di bombardamenti gli austriaci avanzarono con forti perdite. Il 24 maggio fu scatenato un terribile bombardamento che rase al suolo Marghera dove il 27 gli austriaci trovarono solo rovine piene di cadaveri. Venezia però non si arrendeva.
Da Vienna arrivò il ministro Bruck che giunse ad un preliminare di un accordo onorevole con Manin, “garantendo ampie concessioni, compatibili con l’integrità della monarchia austriaca”. A Vienna però a fine giugno queste proposte furono negate: Bruck e Radetzky furono accusati di arrendevolezza e al vecchio Maresciallo si impose la presa della città con la forza; nel frattempo anche la rivolta ungherese, grazie ai 150.000 russi dello zar, era stata domata e il loro capo riparato all’estero.
Poiché la flotta austriaca non poteva entrare in città per i robusti forti che la proteggevano, l’unica via era dalla terraferma tramite il ponte, costruito dagli austriaci nel ’46, lungo 3.600 metri con 222 arcate, una ventina delle quali erano state distrutte dai veneziani per tenere la città fuori dal tiro delle artiglierie. I genieri austriaci, modificato l’affusto dei cannoni, portano l’elevazione delle canne fino a 45°, aumentando la gittata a 5.000 metri, con però ridotta precisione e minima forza distruttiva. Tra il 28 e il 29 luglio incominciarono a colpire la città procurando solo lievi danni materiali, ma gravi sul morale; bombardamento che durò 24 giorni al ritmo di mille colpi al giorno, incredibile per quei tempi. Le riserve alimentari si ridussero al minimo.
Ma gli austriaci dovettero affrontare un inatteso nemico: favorita dal caldo-umido lagunare ben 12.000 di loro furono colpiti da malaria.
Manin cercò di riallacciare i negoziati con Bruck, ma la richiesta era di resa incondizionata. Il 18 agosto Cavedalis, con i consoli di Francia e Inghilterra, si presentò al quartier generale austriaco ma gli fu solo consegnato un ultimatum: resa dei forti, delle armi e delle navi in cambio della possibilità di lasciare la città per tutti entro 48 ore, compresi i capi della rivolta e i comandanti. Dieci giorni dopo la città si arrese; se ne andarono tutti tranne Cavedalis e il 30 agosto Radetzky fece il suo ingresso solenne a Venezia.
Dal punto di vista tecnico fu provato che, con la costruzione di
cannoni
sempre più potenti, precisi e forti disponibilità di munizionamento,
rese possibili dal continuo sviluppo industriale del settore,
l’artiglieria
assumeva ora un ruolo fondamentale e insopprimibile nell’organizzazione
delle campagne militari.
10. Una rivoluzione con troppi nemici e falsi amici
La sconfitta militare dei vari moti del biennio 1848-49 è il risultato della loro debolezza politica. Questa è dovuta da una parte alle residue capacità di resistenza della reazione assolutista in tutta Italia, dall’altra alla incertezza del pavido fronte borghese, che non aveva saldato i suoi conti tra filo monarchici, moderati e repubblicani di varie tendenze.
Le città insorte si arresero solo dopo pesanti bombardamenti e duri combattimenti, prova di una diffusa e determinata volontà nazionale per l’indipendenza, con la fattiva presenza di un giovane proletariato al seguito di una borghesia ancora incerta, quando non sostenitrice del vecchio regime. Questa avrebbe avuto bisogno dell’aiuto del giovane proletariato urbano, che non fu invece mai armato, nonostante le richieste di aprirgli i depositi militari. Vi era poi forte la componente contadina, la più oppressa, che, per la presenza dei suoi oppressori nel fronte borghese, rimase quasi assente in questa fase di lotta.
La borghesia non era ancora in condizione di determinare la direzione degli eventi, e ci potremo aspettare dei progressi in Italia solo dal maturare della generale situazione europea. La soluzione era rimandata a quando si fosse costituito un più solido partito borghese e formato un proletariato più esteso. Questo è ancora qui coinvolto nella rivoluzione democratico borghese. Poi sarà solo il proletariato a tenere il timone della storia.
«Come nel 1814 e nel 1815 la borghesia francese andò incontro
esultando
ai cosacchi e agli inglesi, così ora a Novara, ecc. ecc. “la parte
migliore
della popolazione” saluta esultante gli austriaci. Queste simpatie
austriache
della borghesia rivelano un notevole progresso nello sviluppo italiano.
Esse dimostrano che gli entusiasmi nazionalistici di tutte le classi
sono
finiti, che i movimenti dell’autunno e dell’inverno hanno portato alla
luce l’antagonismo di classe, hanno spinto il proletariato e i
contadini
in aperta opposizione contro la borghesia e hanno messo in pericolo
l’esistenza
politica della borghesia a tal punto che essa è stata costretta ad
allearsi
col nemico esterno» (Engels, “Il Tradimento della borghesia italiana”,
5 aprile 1849).
Rapporto esposto alla riunione di Genova, gennaio 2013
Il Capitale – impresa titanica di Carlo Marx ma,
materialisticamente,
espressione culmine di un maturo partito comunista della classe operaia
– nella edizione curata da Marx stesso, proseguita prima dal compagno
Engels, poi dall’allora marxista Kautsky, si compone, nella edizione
di cui disponiamo oggi, di quattro Libri.
Il Libro I ha per argomento il Processo di produzione del
capitale;
Il Libro II il Processo di circolazione del capitale;
Il Libro III il Processo complessivo della produzione
capitalistica;
Il Libro IV riguarda la Storia delle dottrine economiche.
Il piano dell’opera complessiva ha subito nel tempo diverse modifiche, alcune delle quali di importanza tale da modificarne l’impianto generale, delimitando il campo d’indagine ad alcune porzioni soltanto dello spazio storico dalla formazione socio-economica borghese e che Marx intedeva necessario investigare.
Indagare queste vicissitudini del parto teorico più importante della classe operaia mondiale ci insegna a meglio comprendere il metodo della scienza comunista e non dev’essere considerato un puro esercizio accademico.
Il primo piano del Capitale risale al 1857 e sue tracce si trovano sparse nella parte del Manoscritto pubblicata con il nome di Grundrisse. L’opera avrebbe dovuto essere preceduta da un’Introduzione (Einleitung) che avrebbe dovuto analizzare “le determinazioni generali astratte che sono più o meno proprie di ogni società”. Tale proposito verrà però presto abbandonato per evitare “ogni anticipazione di risultati”.
Marx dà a queste suddivisioni il nome di Libri, Sezioni e Capitoli. Per evitare confusioni qui chiamiamo le partizioni originarie Sezioni, mentre quelle dell’edizione del 1867 Libri.
La suddivisione originaria prevedeva una ripartizione della materia in sei Sezioni: le prime tre avrebbero dovuto andare a formare la Sezione sul Capitale, le successive rispettivamente quelle sullo Stato, il Commercio estero ed infine il Mercato mondiale e le Crisi, fornendo di queste ultime solo i rispettivi “tratti fondamentali” della materia.
Già nella lettera di Marx a Ludwig Kugelmann del 28 dicembre 1862 tuttavia si fa cenno ad una prima restrizione. Marx aggiorna il compagno sullo stato di avanzamento del lavoro, comunicando tra le altre cose, che «il materiale necessiterà soltanto di una “lucidatura finale” prima della stampa. È una continuazione della Parte I (Per la critica dell’economia politica), ma apparirà per conto proprio con il titolo di Il Capitale, ed il sottotitolo di Per la critica dell’economia politica. Infatti, tutto ciò che comprende è il materiale che avrebbe formato il terzo capitolo della prima parte, chiamato “Capitale in generale”. Quindi non comprende né la concorrenza tra capitali, né il sistema creditizio». E aggiunge: «Ciò che gli inglesi chiamano “I principi dell’economia politica” è contenuto in questo volume. È la quintessenza (insieme alla prima parte)».
Già a questo punto pertanto Marx decise di escludere le ultime tre sezioni, consegnando alle stampe la parte evidentemente già pronta, pressato dalla necessità di dotare il partito comunista di una robusta dottrina in vista delle future imminenti battaglie. Ciò a riprova del carattere non scolastico dei nostri sforzi teoretici.
Di poco successiva è l’ulteriore restrizione al piano della esposizione, che eliminerà le Sezioni II, sulla Proprietà fondiaria, e III, sul Lavoro salariato; così delle sei Sezioni previste nel 1857 ne resta solo una, quella sul Capitale. Questa avrebbe dovuto tornare a comprendere anche parte della materia prima esclusa, riguardante in massima parte le ultime due Sezioni, in quanto «vero e proprio sviluppo dell’economia».
Esaminiamo a questo punto ciò che rimane della partizione. La Sezione sul Capitale a sua volta avrebbe dovuto suddividersi ulteriormente in quattro Sottosezioni: a) del Capitale in generale, b) della Concorrenza, c) del Credito, d) del Capitale azionario. La redazione comunemente chiamata Rohentwurf (Bozza grezza) e quella del 1861-1863 in realtà si limitano al Capitale in generale.
È però proprio nel 1863 che Marx decide di rompere definitivamente con il vecchio piano e di non trattare più a parte i problemi della concorrenza, del credito e del capitale azionario. Questi andranno ad integrare il Libro III della edizione che abbiamo noi fra le mani, ed è perciò da questo momento in poi che si può parlare di ripartizione del Capitale come la conosciamo con i suoi quattro Libri.
La traccia di questa svolta fondamentale la rinveniamo nella lettera
a Ludwig Kugelmann del 13 ottobre 1866. «La mia situazione mi obbliga
a pubblicare il Volume I per primo, non entrambi i Volumi assieme, come
avevo inizialmente previsto. E ora ci saranno probabilmente tre Volumi.
L’intera opera è così suddivisa nelle seguenti parti:
Libro I - Il processo di produzione del capitale.
Libro II - Il processo di circolazione del capitale.
Libro III - Struttura del processo come un tutto.
Libro IV - Sulla storia della teoria.
Il primo Volume comprende i primi 2 libri. Il terzo libro formerà, credo, il secondo Volume, il quarto il terzo».
Possiamo schematizzare i due piani in questa tabella:
Piano del 1857 | Piano del 1865-66 | ||
Libro sul Capitale |
Il Capitale in generale |
Processo di produzione del Capitale | Processo di produzione del Capitale |
Processo di circolazione del Capitale | Processo di circolazione del Capitale | ||
Profitto e Interesse | Processo complessivo della produzione capitalistica |
||
Della Concorrenza | |||
Del Credito | |||
Del Capitale azionario | |||
Libro sulla Proprietà fondiaria | |||
Libro sul Lavoro salariato | |||
Libro sullo Stato | |||
Libro sul Commercio estero | |||
Libro sul Mercato mondiale e le Crisi | |||
Storia delle dottrine economiche |
Ancora maggiore è la discordanza tra la Sottosezione sulla Concorrenza ed il Libro II. Nella Bozza mancano le analisi sui cicli delle tre forme metamorfiche del capitale (produttivo, denaro e merci); inoltre non è presente l’indagine sulla circolazione del capitale totale (questione che il nostro partito ha già avuto modo di affrontare in diverse occasioni). La Sottosezione sul credito è, coerentemente, meno ampia del Libro III: dovendosi limitare al “Capitale in generale” non poteva trattare approfonditamente questioni riguardanti il capitale commerciale ed il credito, il primo presupponendo i molti capitali che si fronteggiano, il secondo il capitale come elemento generale dinanzi ai capitali concreti.
Nel gennaio del 1863 Marx darà delle “disposizioni per la pubblicazione delle parti ‘1’ e ‘3’ della sottosezione sul capitale in generale della sezione sul capitale”; pubblicate poi nel volume I delle Teorie sul plusvalore nell’edizione curata da Kautsky.
«A) Piano per la parte I o sezione I del “Capitale”
«La prima sezione, “Il processo di produzione del capitale”,
deve essere così suddivisa (...)
«5. Combinazione di plusvalore assoluto e plusvalore relativo. Rapporti
(proporzione) tra lavoro salariato e plusvalore. Sussunzione formale e
reale del lavoro sotto il capitale. La produttività del capitale.
Lavoro
produttivo e improduttivo (...)
«7. Il risultato del processo di produzione.
«9. Teorie sul lavoro produttivo e improduttivo».
Intanto possiamo notare come ancora nel 1863 Marx abbia il proposito di fornire una Storia delle dottrine economiche intorno ai temi in questione dopo di aver esposto la propria; ancora quindi intende usare appieno il metodo sperimentato nei Grundrisse.
Al punto “5” si trova un tema che occuperà gran parte del Capitolo VI Inedito del Libro I, la differenza tra sussunzione formale e reale del lavoro al capitale. Con il primo concetto s’intende quella lotta che caratterizza ogni alba di un nuovo modo di produzione (che pertanto si ripeterà anche nel passaggio dal capitalismo al comunismo) tra i nuovi rapporti di produzione che a fatica s’impongono sugli antichi e l’ambiente circostante, ancora permeato dalle vecchie forme di produzione. La sottomissione reale invece sancisce la vittoria del modo di produzione specificamente capitalistico; i nuovi rapporti di produzione non si limitano a sfruttare il processo di lavoro così come lo hanno trovato elaborato dalle forme precedenti, lo rivoluzionano da cima a fondo creandone uno adeguato alle esigenze della valorizzazione del capitale. Per sintetizzare possiamo certamente sostenere che il passaggio dalla sottomissione formale a quella reale equivale alla differenza che intercorre tra plusvalore assoluto e relativo.
Al punto “6” troviamo invece un tema che ha sovente tratto in inganno. Cosa intende Marx per “change nel modo di manifestarsi della law of appropriation”? Kautsky ha creduto d’identificare questo “change” con il processo che culmina nella espropriazione degli espropriatori, che è la tendenza storica dell’accumulazione capitalistica. In realtà qui Marx tratta lo stesso tema che poi svilupperà nel Capitolo XXII del Libro I del Capitale, dove descrive la riproduzione progressiva quale tendenza immanente al rapporto di capitale stesso; questo allargamento della scala produttiva rovescia le leggi della proprietà della produzione mercantile semplice in leggi dell’appropriazione capitalistica. L’inversione permette quella grande socializzazione del processo di lavoro che solo l’odierno modo di produzione borghese è stato in grado d’attuare, trasformando la vecchia appropriazione privata individuale in proprietà della classe borghese e preparando il terreno all’abolizione della proprietà stessa (problema affrontato dal Partito in Proprietà e Capitale).
Nell’ultimo punto delle “disposizioni” abbiamo un esempio perfetto dell’applicazione del metodo dialettico. Qual è la differenza tra lavoro produttivo e improduttivo? È legittima la pretesa di definire la produttività del lavoro “in generale”? Nella Introduzione del 1857, che analizzeremo in dettaglio nella seconda parte di questo lavoro, vedremo questo stesso quesito applicato alla determinazione di produzione “in generale” (vecchio tarlo degli economisti classici). In entrambi i casi rinverremo un principio dottrinale fondamentale per cui è necessario non sopravvalutare l’importanza delle determinazioni comuni più o meno a tutte le epoche storiche, perché in tal caso si perde la differenza specifica che caratterizza il modo di produzione storico che produce quelle determinazioni stesse.
«B) Piano per la parte III o sezione III del “Capitale”
«La terza sezione, “Capitale e profitto”, deve essere così
suddivisa: (...)
«6. La legge della caduta del saggio del profitto (...)
«9. Revenue and its sources. Qui bisogna inserire anche il
problema del rapporto tra processo di produzione e processo di
distribuzione».
«C) Piano per il secondo capitolo della parte III del “Capitale”
«Nel secondo capitolo della terza parte, su “Capitale e profitto”,
dove si tratta della formazione del saggio generale del profitto,
devono
essere esaminate le seguenti questioni: (...)
«4. Per il capitale complessivo vale però ciò che è stato
esposto nel cap. I. Nella produzione capitalistica ciascun capitale è
posto come una parcella, come una parte aliquota del capitale
complessivo.
Formazione
del saggio generale del profitto (concorrenza)».
Nel punto “9” viene distrutta la cosiddetta formula trinitaria dell’economia politica, per cui il reddito percepito dalle tre classi fondamentali (capitalisti, proprietari fondiari e salariati) deriverebbe dalle tre parti costitutive del valore dei prodotti, rispettivamente il profitto, la rendita fondiaria ed il salario. Marx al contrario mostra magistralmente che quelle tre fonti non sono niente altro che parti aliquote del valore prodotto dal lavoro proletario, e solo successivamente si scindono andando a sfamare le pance di capitalisti e fondiari e quelle meno piene degli operai. Ancora una volta assistiamo ad un riflesso ideologico dell’antagonismo dei rapporti sociali. Non a caso l’intento è di inserire in questo punto del testo il problema del rapporto tra processo di produzione e processo di distribuzione.
Dalle disposizioni (punto 4 della lettera c) sul capitolo
riguardante
la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto medio,
traiamo infine nuovo esempio del metodo scientifico marxista. In
opposizione
all’esasperato individualismo borghese (egoismo già soppresso dalla
stessa impetuosa socializzazione delle forze produttive messa in moto
dal
capitalismo stesso) i capitali individuali devono essere considerati
come
particelle di un tutto più ampio (il modo di produzione) e le
loro
metamorfosi non sono niente altro che un ciclo da inserire nel processo
di riproduzione del capitale sociale totale ed è questo circolo
che determina i rapporti tra i singoli capitali, non viceversa.
I documenti che presentiamo in questo numero sono in continuità con quanto già pubblicato nei precedenti 72 e 73 di questa rivista: riguardano l’organizzazione proletaria, di difesa e di offesa, in quell’arroventato clima di guerra civile.
Il primo articolo, tratto da “Rassegna Comunista” dell’aprile 1921, tratteggia in maniera limpida la differenza, nei confronti della violenza e del suo uso, tra il comunismo rivoluzionario e l’opportunismo socialdemocratico.
Gli altri documenti si riferiscono tutti all’agosto 1922, ed in particolare allo sciopero generale indetto dalla Alleanza del Lavoro: quali furono i risultati di quei giorni di lotta, molti dei quali entusiasmanti e positivi; quali le conseguenze del tradimento dei capi sindacali e dei dirigenti socialisti, compresi i massimalisti; quali le batoste subite dai fascisti; quale l’atteggiamento dello Stato liberal-democratico a difesa delle bande nere.
Interessantissimo e magnifico esempio di parlamentarismo rivoluzionario è il discorso pronunciato alla Camera dal proletario Luigino Repossi che, a rischio della vita, nell’ “aula sorda e grigia” faceva risonare alta la voce del partito. Nel 1924 sarà ancora Repossi a gridare “Assassini! assassini!”, riferendosi all’assassinio di Giacomo Matteotti, unico, di fronte ad un parlamento completamente composto di fascisti inferociti.
Il Partito Comunista d’Italia, fin dal suo sorgere, aveva impegnato gran parte della sua attività in seno alla classe operaia allo scopo di costituire un fronte unico di classe, attraverso un organismo unitario che non fosse frutto di un compromesso tra partiti, ma nato sul terreno della lotta sindacale.
Si trattava di un programma a cui il proletariato istintivamente sentiva di dover aderire e, all’interno dei vari sindacati, questa esigenza di unità, espressa dalla base degli iscritti, si fece sempre più pressante.
A livello ufficiale l’iniziativa dell’unità di classe fu avanzata dal sindacato ferrovieri (SFI), che, nel febbraio 1922, propose alle maggiori organizzazioni sindacali (CGL, USI, UIL, Federazione Nazionale Lavoratori dei Porti) di accordarsi su di un programma comune di lotta, da contrapporre alla offensiva politica ed economica della borghesia. Tale fronte venne chiamato Alleanza del Lavoro.
Il Partito Repubblicano, l’Unione Anarchica ed il Partito Socialista tennero anche una riunione per una intesa preliminare e per influenzare i loro aderenti inquadrati nelle organizzazioni sindacali. Il Partito Comunista comunicò, per lettera, che avrebbe impegnato tutte le sue forze per una azione unitaria del proletariato, ma non partecipò all’incontro per non intralciare, con la sua presenza, i primi passi verso un più vasto reclutamento di forze proletarie e perché la presenza dei partiti politici, con l’incompatibilità dei rispettivi programmi, avrebbe messo a rischio la riuscita dell’iniziativa.
Il Comitato Sindacale comunista chiese invece che le minoranze, presenti nelle rispettive organizzazioni economiche, avessero, in proporzione alla loro consistenza, dei rappresentanti al convegno di Genova, che avrebbe dovuto tracciare le direttive unitarie di azione ed eleggere il comitato nazionale. Naturalmente questa richiesta venne respinta ed il comitato nazionale fu, a larga maggioranza, in mano ai riformisti.
L’Alleanza del Lavoro si diede come obiettivi la restaurazione delle pubbliche libertà e la difesa delle conquiste conseguite dalla classe operaia, sia sul terreno economico sia morale.
Si trattava di obiettivi molto generici. La restaurazione delle libertà pubbliche poteva essere intesa come pieno ossequio alle leggi borghesi, ma anche come difesa dei diritti di organizzazione della classe operaia. Allo stesso modo il secondo punto poteva essere interpretato come rifiuto dell’uso della violenza per un ritorno alla “civile contrattazione”, oppure difesa con tutti i mezzi delle condizioni di vita e di lavoro del proletariato.
Tutto stava su come l’azione di classe si sarebbe sviluppata e quale indirizzo sarebbe stato possibile imprimerle. Per il nostro partito si trattava di un risultato non da poco: sarebbe stata una organizzazione unitaria di puri salariati alla quale potevano aderire tutti i lavoratori a qualunque partito appartenenti.
Quindi, sebbene i comunisti fossero stati esclusi dal Comitato Nazionale, il PCd’I invitava i propri militanti, ed i lavoratori che ne seguivano le direttive, a riconoscere la direzione del Comitato ed a seguirne disciplinatamente le disposizioni. In più stabiliva che i militanti comunisti si facessero essi stessi promotori della costituzione di Comitati locali dell’Alleanza del Lavoro, che, attraverso l’azione diretta dei rappresentanti operai, vincessero la tiepidezza della CGL. Inoltre il Comitato Sindacale comunista faceva pressione perché la sezioni locali dell’Alleanza del Lavoro venissero chiamate ad un congresso nazionale, il solo che avrebbe potuto nominare un Comitato Centrale con criterio proporzionale, esteso a tutte le frazioni politiche presenti nei sindacati.
Al consiglio nazionale di Verona circa un terzo dei suffragi furono a favore della mozione comunista; si trattava quindi di una minoranza molto forte in seno alla CGL.
Perché l’Alleanza del Lavoro divenisse un vero fronte unico di
classe, da opporre con efficacia alla offensiva capitalista, avrebbe
dovuto
basarsi su tre capisaldi:
1) «Impegno effettivo al reciproco sostegno in un’azione
comune di tutti i sindacati in difesa di qualunque di essi venga
colpito
dall’offensiva capitalistica [...] Con lo schieramento compatto del
fronte
sindacale deve essere impedito che pure una sola categoria sia
costretta
dall’offensiva capitalistica a subire le rinunce a posizioni già
raggiunte».
2) «Salvaguardia dei postulati che rappresentano il diritto
all’esistenza del proletariato e delle sue organizzazioni, difesa della
causa dei disoccupati e mantenimento di tutti i patti di lavoro vigenti
e dei livelli dei salari».
3) «Azione diretta delle masse e sciopero generale nazionale
come mezzo di lotta a cui bisogna tendere con una decisa preparazione»
(Deliberato del comitato sindacale comunista, 19 maggio 1922).
Come si vede non si trattava di altro che della riproposizione della tattica comunista all’interno delle organizzazioni economiche.
L’Alleanza del Lavoro era sorta in una maniera piuttosto ambigua, ed il partito comunista fece di tutto perché divenisse sempre più una unione fra tutti i lavoratori e sempre meno un accordo fra capi politici o sindacali: era chiaro il pericolo che, lasciata in mano ai riformisti, divenisse un mezzo di contrattazione e di collaborazione interclassista, in vista della formazione del nuovo governo.
L’azione comunista non mancò di dare i suoi frutti. I dirigenti socialdemocratici, minacciati di farsi superare dalle spinte della base, favorendo così l’azione comunista, furono costretti ad aderire alle rivendicazioni delle masse proletarie e mettersi, loro malgrado, alla testa della preparazione della difesa operaia. Solo in questo modo avrebbero potuto (e ci riuscirono) controllare gli alleati ferrovieri ed anarchici e manovrare per sbarrare la strada ai comunisti per spezzare ogni resistenza organizzata del proletariato.
La parte più “avanzata” (come direbbero i democratici) della borghesia italiana si compiaceva di questo loro atteggiamento: il giornale nittiano “Il Mondo” scriveva: «Si propongono di valorizzare l’influenza del movimento operaio nella politica nazionale fino ad avere una parte rilevante nella formazione del nuovo governo e al tempo stesso con la non esclusione dello sciopero generale riescono a mantenersi il seguito delle masse abituate alle enunciazioni nette».
L’Alleanza del Lavoro fu costretta a proclamare lo sciopero, ma lo fece nella maniera peggiore possibile, ossia con l’intento di sabotarlo.
Il 1° agosto si riuniva il CC dell’Alleanza del Lavoro, che eleggeva un Comitato Segreto, il quale proclamava lo sciopero generale.
Il Partito Comunista espresse subito i suoi dubbi sulla riuscita di una mobilitazione disposta all’improvviso, senza una adeguata preparazione. I comunisti ritenevano inoltre che lo sciopero avrebbe dovuto coincidere con una azione significativa della classe, o con un avvenimento di portata nazionale, come avrebbe potuto essere lo sciopero metallurgico, o anche in risposta ad un episodio saliente dell’offensiva fascista, come le recenti occupazioni in forze di Ravenna e Novara.
Lo sciopero non ebbe la minima preparazione; tant’è vero che l’ordine pervenne alle organizzazioni sindacali periferiche solo grazie alla organizzazione illegale del nostro partito, mentre le prefetture governative, e quindi anche i fascisti, ne erano pienamente a conoscenza. Il Comitato Segreto aveva lavorato bene: il proletariato era stato tenuto all’oscuro di tutto!
I fascisti, con la loro solita tracotanza da palcoscenico, lanciarono un ultimatum di 48 ore, trascorse le quali avrebbero ripreso “libertà di azione” sostituendosi alla “impotenza statale”.
Lo sciopero che, inatteso, era cominciato stentato, iniziò a crescere in potenza e gli operai correvano ad armarsi per fronteggiare la reazione statal-fascista. Senonché all’improvviso giunse l’ordine di cessare la lotta, che ormai, secondo i dirigenti riformisti, aveva dimostrato la forza e la determinazione del proletariato. Questo ordine rappresentò la classica pugnalata alla schiena, nel momento in cui i fascisti battevano in ritirata su quasi tutti i fronti ed in loro difesa doveva intervenire l’esercito con l’impiego di blindati, mitragliatrici e perfino la marina militare.
Smobilitati ed abbandonati i proletari si trovarono in balia
della
reazione fascista che imperversò in tutta Italia lasciando dietro di sé
una lunga scia di distruzioni, incendi e assassinii. Fu così che i
dirigenti
sindacali e i socialisti aprirono in Italia le porte alla presa del
potere
da parte del fascismo.
“Rassegna Comunista”, 15 aprile 1921
TRA LE GESTA FASCISTE
E LA CAMPAGNA ELETTORALE
I fatti salienti della cronaca quotidiana che ogni lettore cerca nei grandi giornali sono gli scontri, che a volte assumono pretto carattere militare, tra “fascisti” e proletari.
Veramente l’episodio si ripete con monotonia considerevole, e non ha che due varianti fondamentali: o i fascisti escono vincitori alla prima, o si ritraggono battuti, ed allora cedono il posto di combattimento alla forza pubblica, che finisce coll’aver ragione degli avversari.
Ma vi sono anche due modi sostanziali di imbastire i resoconti del fatto da parte dei giornali di vario colore.
I giornali borghesi cercano in tutti i modi di fare apparire i socialisti, i comunisti specialmente, come “i provocatori”. Gli stessi organi specificamente fascisti, ostentano sì i successi delle loro imprese, ma cercano pure di farle apparire come azioni difensive, le chiamano “rappresaglie” o “spedizioni punitive” per rintuzzare pretese offese dell’avversario.
Ma il primo dei metodi, il metodo veramente piagnone, è specificamente seguito dal giornale socialdemocratico.
Questo appare felice quando può riferire che i lavoratori, quieti, inermi, passivi, senza nulla avere osato, sono stati santamente picchiati.
Norme elementari di guerra vogliono che si esaltino i propri successi e si deprimano le vittorie avversarie: si celino le proprie perdite e si pongano in evidenza quelle nemiche. Questo si fa per rialzare il morale dei propri. Chi sa che i suoi le hanno date si rinvigorisce nello slancio ad agire e... le dà sul serio.
La socialdemocrazia insegna l’illusione di un metodo opposto, che dovrebbe presiedere alle “lotte civili”, di idee, di programmi, di schede!... Essa si illude di speculare sulla simpatia molto ipotetica che riscuote chi è vittima di una forza superiore; affida la sua rivincita al gioco indefinibile di questo coefficiente astratto.
Credere in questa risorsa psicologica per consolarsi delle batoste – peggio, per esibirle al proprio passivo anche quando, si sa di averle date! – equivale a credere alla illuminata giustizia di un potere supremo assiso a decidere dei contendenti: sia esso l’occhio (e dito) di Dio, o il giudizio della Storia, o il tribunale della Pubblica Opinione, o l’Insopprimibilità dell’Idea, e simili castronerie di cui noi, comunisti, ridiamo serenamente.
Il Partito Socialista prende precisamente un atteggiamento che discende da queste sballate ideologie – dominanti nel recente pietoso discorso Turati, ma che traspariscono anche nei documenti firmati dai massimalisti. Basti dire che il Partito Socialista si illude ancora di riguadagnare la battaglia perduta in campo aperto, battendosi col metodo civile della scheda, nel segreto dell’urna.
Accarezzando così la menzogna socialdemocratica, che al prepotere della classe dominante il proletariato possa utilmente opporre, anziché l’insurrezione violenta, l’utilizzazione pacifica dei mezzi legali che gli offre il regime borghese, il Partito Socialista non vede di essersi scavata la fossa colle sue proprie mani.
Il Partito Socialista non intende una elementarissima verità. Non solo è inutile conquistare col mezzo elettorale posizioni che non si sanno poi difendere e tenere per poco che all’avversario piaccia “illegalmente” ritoglierle, ma gli stessi elettori non daranno più il proprio voto ad uomini, ad un partito, che non sanno conservare le deleghe loro affidate, che hanno abbandonato sotto la imposizione fascista le amministrazioni recentemente conquistate.
Sarà la bancarotta della pletorica forza elettorale e parlamentare del Partito Socialista. Il fascismo strepitosamente battuto nell’urna nel 1919, dominerà – grazie agli alalà, al piombo e alla fiamma – le situazioni elettorali.
È utilissimo che sia così. Nessuna migliore prova potrebbe pensarsi della giustezza delle direttive rivoluzionarie dei comunisti.
Se veramente la borghesia andrà fino in fondo e nella reazione bianca strozzerà la socialdemocrazia, preparerà – non sembri un paradosso – le migliori condizioni per la sua rapida sconfitta da parte della rivoluzione.
Forse la borghesia si fermerà in tempo. Appena il gladiatore fascista avrà atterrato l’avversario, il suo padrone, lo Stato borghese, fermerà con un cenno il colpo di grazia, e tenderà una mano al caduto.
Se la socialdemocrazia – e ciò è fatale – prenderà quella mano,
sarà per passare ai servigi dello Stato, per dare alla borghesia i
ministri
oggi, gli scherani domani per fronteggiare il proletariato avanzante
nel
nome del comunismo.
“L’Adda”, 25 agosto 1922
I MEZZI PER LA NUOVA LOTTA
I fascisti cantano vittoria.
È questione di opinione e, nel nostro secolo, dicono che ci sia la libertà di opinione. Noi, per conto nostro, la concediamo. C’interessa invece di soffermarci su di un altro fatto molto più importante.
L’anno passato, di questi tempi, il proletariato sottostava, o fuggente o rassegnato, agli eccidi e alle devastazioni fasciste. A distanza di una dozzina di mesi, quel proletariato che un anno fa non rispondeva ha tenuto dovunque testa alle masnade fasciste, le quali, se hanno voluto avere ragione dei fortilizi operai, han dovuto richiedere l’aiuto delle forze di polizia e della truppa.
Si sono infatti combattute delle vere battaglie, in cui il valore proletario non può da nessuno essere negato.
L’esercito operaio, male armato, ancora male organizzato, rudimentalmente formato, ha dovuto ed ha saputo affrontare una massa formidabilmente organizzata, ed armata, ed inquadrata.
Tutto ciò è avvenuto perché si è capito, non ancora in modo generale, la necessità che ogni operaio, che ogni soldato del lavoro, sia anche contemporaneamente soldato dell’esercito proletario e sia armato.
Due cose sono ormai superate.
Il metodo della lotta sindacale è... il selcio.
La lotta sindacale si spunta innanzi alla fame che centuplica i crumiri. Il selcio diventa inutile innanzi alla bocca dei moschetti fascisti. Occorre che il sindacato abbia ai suoi margini i mezzi di lotta adeguati alla NUOVA LOTTA.
Gli operai che sperano di conservare le posizioni acquisite, o di conquistarne delle migliori, con il solo sciopero, sono degli illusi quando non sono degli sciocchi. Contro gli scioperanti si adopera oggi, sotto l’usbergo della legge e con il consenso dell’autorità, il bastone e la rivoltella. È una nuova forma di schiavitù più palese dell’antica, che s’instaura in Italia, ora come da tempo già fu introdotta in America.
Gli schiavi, quando non vogliono essere tali, debbono ascoltare
l’appello
di Spartaco. Ma Spartaco parlava a degli armati. Armatevi, o compagni!
“Il Comunista”, 8 agosto 1922
LA LOTTA CONTINUA
Le gesta della controffensiva fascista, aiutata nell’azione dalle guardie regie e dalle autoblindate che rastrellano i quartieri operai e prendono d’assalto le trincee e le barricate improvvisate dalla generosa azione proletaria, ed altresì dalla circolazione dei treni che insieme alla smobilitazione dello sciopero nazionale ha permesso i concentramenti degli squadristi, le imprese schiavistiche sono continuate nella giornata di ieri, con l’incendio di sedi e giornali operai.
Le orge di tricolore e i pretesi passaggi di sindacati operai al fascismo, le soppressioni di amministrazioni locali rosse, completano il quadro sulle cui tinte caricano tutti senza distinzione i giornali borghesi, compresi i quattro paltonieri del nittismo.
Ma la resistenza operaia non è crollata. Dove si può si assestano dei colpi e spesso non si manca il segno. Il fascismo imparerà che malgrado l’incredibile somma di vantaggi che ha la sua posizione di combattimento rispetto a noi, non resterà più solo a vantarsi di aver colpito.
Lasciando a disposizione delle gesta schiavistiche il logico sostegno dello Stato borghese, sarebbe forse bastato che i capi dell’Alleanza del Lavoro non avessero smobilitato lo sciopero nel momento più idiota – se erano dei caconi tanto valeva mollare prima dello scadere dell’ultimatum fascista, e togliere almeno a questo un alibi comodo per azioni preordinate in un piano molto più vecchio dello sciopero, e se erano degli uomini di fede e di lotta non dovevano troncare il movimento proprio quando le rappresaglie stavano per scatenarsi e avevano bisogno della smobilitazione dell’avversario per localizzare i loro colpi – oggi la situazione sarebbe diversa.
Malgrado tutto, non si illudano i condottieri dell’azione a fondo fascista e tanto meno i pochi rammolliti che conducono la barcaccia statale, che questa lotta segni la fine della resistenza antifascista: la verità è l’opposto, essa non fa che indicare la strada e segnare l’inizio di una disperata guerriglia in cui ogni casa diverrà un fortilizio e l’odio e la maledizione serviranno a forgiare dal nulla le armi quando mancassero ferro ed esplosivi.
Basta vedere che razza di paura ha fatto alla borghesia il semplice invito nostro ai comitati dell’Alleanza per convocarsi e decidere su una nuova ondata di azione rossa.
I capi dell’Alleanza del Lavoro tacciono. Non spiegano che cosa hanno voluto fare, con quali obiettivi hanno lanciato lo sciopero, perché ne hanno deliberata la cessazione, dietro quali passi e quali accordi, e con chi.
La responsabilità di chi senza dare spiegazioni alle masse le trascina dietro di sé, ingaggia un’azione che ha sempre svalutata e diffamata, e quando questa rasenta il culmine la stronca improvvisamente, è responsabilità che dev’essere la pietra sepolcrale di metodi e di gruppi dirigenti.
Urge che i lavoratori si sostituiscano a costoro: e di qui la proposta da noi fatta.
Intanto il governo del signor Facta emana un suo documento onanistico e buffone con cui invoca la pace fra le fazioni.
Questo testo merita da noi la semplice dichiarazione che per quanto riguarda la “fazione” comunista, lo si riconsegna al portalettere con scritto su: “si respinge - al mittente”.
Non abbiamo bisogno di incomodare la nostra dottrina, secondo cui il proletariato deve prendere la iniziativa della lotta rivoluzionaria di classe.
Prima di arrivare a tanto, basta rilevare l’ipocrisia e l’impotenza che sono servite a vergare la parola dei poteri ufficiali. Raramente essi hanno fatto tanto schifo.
Sotto le parole di pace vi è una minaccia. Non per i fascisti, è per i rossi. Si preparerebbe un nuovo Novantotto, con stati d’assedio e tribunali eccezionali. Dal punto di vista critico noi potremmo osservare che forse non riuscirà alla borghesia il conciliare la reazione classica di Stato e di polizia con quella moderna del martellamento fascista, che ha bisogno del prezioso e purissimo ambiente della “libertà”, quella libertà che lasciamo del resto invocare ai minchioni, noi che tendiamo alla dittatura rossa che pesti sulle libertà degli incendiari e degli assassini di oggi. Non si sa quindi quale dei due tipi di repressione sarà per prevalere: i fascisti non appaiono disposti a smontare il loro ingranaggio per cedere la bandiera del risanamento nazionale ad un qualunque Bava-Beccaris che non saprebbe condurre i tramways elettrici con la perizia dell’on. Aldo Finzi, e non supererebbe probabilmente i capi fascisti nella seminagione dell’odio.
Ma se il programma che ha regalato alla vacuità rivoltante del presidente del consiglio il neo ministro dell’interno, amico e cooperatore di tattiche socialdemocratiche, dovesse attuarsi, alla minaccia non possiamo che rispondere – questa volta – “si accetta”.
Ormai si sa che nel futuro prossimo della vita italiana, il ballo
sarà
animatissimo. A voi, signori del governo!
“Il Comunista”, 11 agosto 1922
MENTRE I DEPUTATI FASCISTI NELLE DISCUSSIONI
PARLAMENTARI
IMPIEGANO LA RIVOLTELLA DOVREBBERO GLI OPERAI NEGLI SCIOPERI GENERALI
SERVIRSI DEL RAMOSCELLO D’ULIVO ?
[Seduta parlamentare del 9 agosto 1922]
Alle ore 17,30 la seduta è ripresa.
Facta ed i ministri Alessio, Taddei, Soleri,
Anile, Bertone, Dello Sbarba e De Vito.
L’aula è sempre affollata.
Il PRESIDENTE rivolge preghiera a vari
gruppi
di designare un solo oratore per la discussione sulle comunicazioni del
Governo.
COCCO-ORTU – Aderisce alla proposta del
presidente, però, per renderne pratica l’attuazione, propone di
rinviare
la seduta a domani (rumori).
Da varie parti si rumoreggia. Il Presidente
scampanella e domanda ai primi due iscritti, onorevoli Lupi
e
Celesia, se essi intendono parlare a nome dei rispettivi gruppi.
Articoli di Mussolini riletti da Lupi
Avutane risposta affermativa, dà la parola
all’on. Lupi.
LUPI – L’ultima crisi, contro la volontà
degli uomini, ha avuto una importanza storica, perché attraverso di
essa
si è potuto fare il processo di chiarificazione delle forze che
agiscono
nel tumulto della vita nazionale.
Due forze oggi si contendono la conquista
dello Stato e due mentalità diverse.
Esistono due forze, delle quali una
squisitamente
volitiva e giovane, che non vuole ritorni dittatoriali e reazionari ma
soltanto lo svolgimento evoluzionistico graduale; l’altra in aperto e
dichiarato fallimento. Il collaborazionismo dovrebbe salvare soltanto
la
crollante oligarchia socialista.
Se è vero che una nemesi storica esiste,
i socialisti scontano, oggi, con la loro impotenza, il grave errore e
la
grave colpa di aver offeso i combattenti. (Applausi a destra).
MAFFI – Non è vero!
LUPI – L’andata al Quirinale dell’on.
Turati non è il risultato di una onesta trasformazione delle coscienze.
(Approvazioni a destra).
Di errore in errore, i socialisti hanno
provocato
lo sciopero generale, che ha prodotto lutti e sangue al Paese. (Applausi
a destra).
MATTEOTTI – Lo avete versato voi il sangue.
GIUNTA (ai socialisti) – State zitti! Sono
fantasie queste!
LUPI rileva la contraddizione fra la andata
al Quirinale e lo sciopero generale, definito legalitario, che è stato
invece una pugnalata alle spalle della Nazione. (Applausi a destra).
O lo Stato assorbirà il fascismo come linfa
nuova, che lo rinnovi, o il fascismo si sostituirà allo Stato.
Siamo – continua l’oratore – contro
lo Stato democratico che combattiamo; ma non siamo rivoluzionari.
Il nostro movimento aderisce alla realtà
e non nega la lotta di classe ma vuole superarla.
Occorre una radicale revisione della funzione
dello Stato nel tragico periodo che il nostro Paese attraversa. Per
risolvere
la crisi occorre affrontare e sgominare tutti coloro che hanno
propositi
antinazionali. Il governo deve avere gli occhi aperti nel Paese non nel
piccolo mondo montecitoriale: deve ascoltare la voce possente che viene
da fuori. Se i governanti non sapranno provvedere, i fascisti nulla
lasceranno
di intentato per assolvere il compito nazionale affidato loro da Dio e
dal destino. (Applausi a destra, rumori all’estrema sinistra)
ROCCO A. – A nome del gruppo nazionalista,
invita il Governo a prendere severi provvedimenti contro i responsabili
dello sciopero dei servizi pubblici. Domanda che siano presi
provvedimenti
contro coloro i quali offendono la bandiera nazionale e i simboli della
Patria.
Dichiara che i nazionalisti accorderanno voto
favorevole al Governo, nella speranza che vorrà fare una politica
conforme
alla volontà ed all’interesse nazionale.
Il discorso del comp. Repossi
A questo punto prende la parola l’on.
REPOSSI
e dice:
La crisi ministeriale che si è svolta in
questi giorni, e molto più lo sciopero generale e le lotte a cui questo
ha dato luogo, mettono oggi qui tutti in condizione di perplessità.
Tutti
i gruppi si avvolgono e si dibattono in un equivoco, assai più di
quanto
or sono tre o quattro settimane quasi tutti avevano già dovuto
confessare.
Noi, comunisti, sentiamo di avere soltanto
da continuare sulla diritta via del nostro programma e della nostra
azione.
Programma, che più volte abbiamo esposto da questa e da altre tribune
alle masse proletarie e agli avversari stessi, azione che deve essere
riconosciuta
nella generosa battaglia che i lavoratori di tante città italiane hanno
saputo condurre negli ultimi giorni a difesa di sé stessi e delle loro
idealità di classe.
Dirò poche cose della crisi, qualche altra
su argomento in cui occorre essere rudemente sinceri: sullo sciopero
generale,
sulle sue cause e nei suoi effetti. Nel momento in cui si rinfacciano e
palleggiano responsabilità non credo che non si vorrà qui dentro
ascoltare
la dichiarazione di quelle che noi fortemente e nettamente assumiamo.
Crisi di regime
Che la crisi sia crisi di regime politico non vi è chi possa più negare. Lo si riconosce oltre che dalla parte nostra, anche dalla estrema destra che conduce una crociata contro la vigente costituzione dello Stato. È evidente che questa non offre più la piattaforma di una qualunque possibile amministrazione degli affari pubblici. Ma poiché non vi è crisi di forme politiche senza che le sue origini si riscontrino nei rapporti sociali e nel regime della proprietà, noi non abbiamo molto a temere che la stabilità dell’assetto borghese che noi combattiamo possa essere salvata con una soppressione di date garanzie liberali e parlamentari. Non vi è posto per una soluzione di destra che ponga un punto fermo alla crisi dello Stato italiano. Se il fascismo, che dice di trovarsi al bivio, fra un riformismo di destra ed un rivoluzionarismo di destra, possedesse una simile soluzione, da attuarsi sia col suo estendersi come partito parlamentare che col colpo di stato, esso dovrebbe mostrarci le premesse programmatiche di ordine amministrativo ed economico.
Il fascismo al bivio
Noi contestiamo, perché i fatti contestano,
che il movimento fascista, innegabilmente forte militarmente e capace
di
colpire rudemente i suoi avversari, contenga una simile potenzialità
programmatica.
I suoi atteggiamenti riformisti e sindacali non ci danno nulla di
nuovo,
se non la concomitanza di mezzi di conservazione che prima agivano
separati:
la repressione violenta e la illusione del miglioramento per i
lavoratori
nei quadri dell’assetto capitalistico. Il fascismo in questo campo non
sfuggirà al dilemma: o ricadere nella sfatata demagogia del gradualismo
sindacale per cui non vi è più posto né nella situazione economica né
nella esperienza politica della collettività, o lavorare sia pure a non
breve scadenza per noi: per la rivoluzione dei salariati e la
espropriazione
degli imprenditori. Un movimento, per legittimarsi innanzi alla storia,
non può contentarsi di essere in grado di distruggere, di stroncare e
di incendiare, e nel caso di imporre una dittatura delle sue armi. Esso
deve poter aprire con questi mezzi la via a nuovi sviluppi della
organizzazione
sociale, se non vuole crollare sotto il peso delle sue armature. Ed è
per questi motivi che solo attraverso l’armamento di uno squadrismo
rosso
si potrà arrivare alla rottura del bubbone che è costituito dalla
presente
decomposizione sociale.
E se le forze che possono dare un tale
inquadramento
sono ancora limitate, questo prova soltanto che il percorrere tutto il
processo costerà più caro, ma più caro a tutti.
I partiti tradizionali
Messo in questi termini l’equivoco in cui
si muove il fascismo, che pur rappresenta il tentativo di creare una
nuova
via ed un nuovo metodo, non vale la pena di indugiarsi sulle capacità
e le risorse di un governo come quello di cui Facta ci ha data la
seconda
edizione, e che si riattacca alle scolorite e parassitarie clientele
personali
formante le così dette democrazie e l’agonizzante liberalismo. Né
uomini
né gruppi su cui questa o altre combinazioni vengano a poggiare possono
essere menomamente considerati in grado di tracciare nuovi indirizzi:
meno
di tutti quelli che fanno capo alle ambizioni dei solleticatori del
collaborazionismo
socialista, mostratisi poi così pronti a buttarlo a mare come zavorra
pericolosa nelle tempeste dei giorni scorsi: e questi sarebbero poi i
capitani
da cui le masse dovevano attendere la crociata contro il fascismo!
Gli operai ne sanno abbastanza per giudicare,
da vecchie e nuove imprese, queste volpi già corrive ad offrire
alleanza
ai lupi, essendo la loro avidità pari alla loro viltà.
Le contraddizioni dei popolari
Di poco su questa morta gora dei partiti tradizionali si eleva il partito popolare. Su di essi ha il vantaggio di una organizzazione politica, come ha il fascismo quello di una organizzazione militare: ma ogni potente organizzazione mal vive se non possiede una ideologia feconda storicamente, che si traduca nel saper muovere con metodo sicuro e completo verso i punti di arrivo, o se si vuole di tappa, della storia. Ed anche il partito popolare si avvolge in contraddizioni ed equivoci, neanche esso possiede la ricetta per assumere con novità di successi il governo del paese, ed ha a suo carico la sua impotenza a difendere dai colpi della reazione quelle masse contadine su cui dovrebbero appoggiarsi. Queste, dalle organizzazioni cattoliche o fasciste, dovranno un giorno affluire in un tipo di inquadramento che, sulla base di un intelligente programma di rivoluzione agraria che pur non sia ancora una rivoluzione comunista, si alleerà con l’insopprimibile movimento del cessante [?] alla fiamma della agitazione sovversiva. La organizzazione e la preparazione del partito popolare, che sono indubbiamente notevoli come serietà e come tecnica, non hanno dunque costituito né costituiranno, la tavola di salvezza del regime.
I comunisti rivendicano le loro responsabilità
Resta da dire del partito socialista.
Questo
argomento, che più da vicino ci interessa, si combina con quello dello
sciopero nazionale ultimo. Prima di dirne come esperienza dei metodi
della
lotta di classe, mi sia lecito rivendicare la riuscita del movimento
contro
le falsificazioni che sono state diffuse. Dovunque la disposizione di
sciopero
è stata data in tempo e con decisione i lavoratori hanno abbandonato il
lavoro e dovunque l’attacco avversario è venuto, se si è ceduto spesso
a forze superiori, non è mancata la confortante dimostrazione di un
risveglio
di combattività nelle masse. Noi rivendichiamo di essere stati gli
agitatori
tra le masse della idea dello sciopero nazionale contro la reazione,
che
presentammo e sostenemmo in modo chiaro e completo. Fu il nostro
partito
a ottenere che le masse premessero irresistibilmente sui capi della
Alleanza
del Lavoro, perché un tale programma fosse attuato con la
partecipazione
di tutte le forze proletarie.
Fu in nome del principio del fronte unico
che noi tra il consenso delle masse invano chiedemmo che non si
lasciassero
soli i metallurgici, i lavoratori del novarese, quelli di Romagna,
impegnati
in lotte che non erano se non aspetti episodici delle lotte di tutte le
categorie e di tutte le zone.
La propaganda del partito comunista è
l’artefice
e la responsabile dello sciopero generale e delle sue ardite
manifestazioni,
e questo qui dichiariamo senza riserve. Ma questo non ci toglie di dire
alle masse che da altre parti la nostra propaganda fu combattuta. Le
masse
non potevano immaginare che sarebbe stato proclamato lo sciopero
nazionale,
quando sapevano delle aspre polemiche condotte contro di noi, delle
critiche
di principio allo sciopero dei pubblici servizi. Si sapeva che la
dirigenza
della massima organizzazione operaia, che deteneva malgrado ogni nostra
protesta la maggioranza assoluta della Alleanza del Lavoro, e che
faceva
e che ha fatta la politica di essa, era fieramente avversa ad uno
sciopero
generale nazionale, come aveva sempre affermato nei dibattiti dei
convegni
proletari.
Gli errori dei capi riformisti
Ecco perché i comunisti, che hanno il
merito
di aver diffusa fra le masse la idea dello sciopero generale, devono
separare
le loro responsabilità da quelle di chi ne ha avuta la direzione, ne ha
scelto il momento, ne ha dettate le direttive ne ha infine deliberata
quando
non si doveva la cessazione prematura.
Lo sciopero doveva essere innestato allo
sviluppo
reale dell’azione proletaria. Avrebbe dovuto essere proclamata la
decisione
e la preparazione e forse lo stesso ordine di inizio, e nel tracciare
gli
obiettivi dello sciopero si doveva dire apertamente che esso non poteva
non essere accompagnato da una lotta diretta ed armata, che se non
poteva
essere la vittoria finale rivoluzionaria, doveva essere la conquista di
una posizione di sicuro appoggio per altre lotte.
L’on. Giunta interrompe con la rivoltella in pugno
MISURI – Ma questa è apologia di reato!
FINZI, GIUNTA, CIANO ed altri fascisti –
Basta! Basta! Non deve parlare più. È apologia di reato!
DE NICOLA scampanella energicamente, ma i
fascisti sono ora tutti in piedi, si agitano nervosamente e urlano:
Basta,
basta!
L’on. GIUNTA eccitatissimo porta la destra
nella tasca posteriore dei pantaloni e fa il gesto come di estrarre
un’arma.
(Taluni affermano che il deputato fascista non solo ha fatto il gesto,
ma ha effettivamente estratto la rivoltella che rimise subito nella
tasca
laterale dei pantaloni). Ma parecchi colleghi lo trattengono e tentano
di calmarlo.
Il deputato fascista però continua ad urlare:
– Se continua qui si spara!
Una voce dai banchi di destra urla per tre
volte nel tumulto: sparo, sparo, sparo!
La seduta è sospesa
Appena queste frasi giungono alle orecchie
del PRESIDENTE, questi sospende la seduta e si allontana dall’aula.
I popolari rimasti impassibili durante
l’incidente
scattano in piedi ed applaudono.
Le tribune vengono sgombrate, ma l’agitazione
nell’aula è sempre intensissima.
Si formano vari capannelli.
A destra attorno all’on. Giunta sono gli
on. Sarrocchi, Misuri, Cavazzoli, Sacchi, Federzoni ed altri. Il
deputato
fascista continua a discutere animatamente.
L’on. Finzi avvicinatosi ai banchi ove siedono
i popolari urla: – Quando si bestemmia in quel modo tutta la Camera
dovrebbe
uscire.
I popolari ascoltano impassibili il deputato
fascista. Poi alcuni di essi si mettono a discutere con lui.
Perrone ed altri deputati di vari gruppi,
presso il banco delle commissioni, commentano vivamente l’accaduto.
L’on. Torre investe i popolari.
Il compagno Repossi assiste alla bufera e
l’affronta serenamente. Non ostante che la seduta sia sospesa l’operaio
metallurgico milanese rimane in piedi con le cartelle del suo discorso
nelle mani pronto a continuare a svolgerlo. Intorno a lui un gruppo di
socialisti tentano di persuaderlo a modificare nella sostanza il
contenuto
politico delle sue dichiarazioni. Ma Repossi senza grandi gesti afferma
esplicitamente (lo comprendiamo attraverso i suoi gesti dalla nostra
tribuna)
che non muterà una virgola di quanto ha stabilito di dire alla Camera,
apertamente e senza reticenze il pensiero del Partito Comunista.
L’on. Arpinati prepara un “agguato”
Mentre queste discussioni si svolgevano
l’on.
Arpinati si recava sui banchi dell’estrema sinistra sedendosi proprio
alle spalle del compagno Repossi con aspetto inquietante.
L’improvviso spostamento del deputato fascista
sui settori dell’estrema sinistra è stato notato dal questore on.
Rondani,
e dagli on. Rossini, Paolucci, Pietravalle ed altri.
Secondo quello che poi ci ha narrato lo stesso
on. Rondani, che è venuto nella nostra tribuna, il questore socialista
si è avvicinato all’on. Arpinati e gli ha domandato – Perché lei
è venuto su questi banchi.
ARPINATI – Perché, quando sono stati uccisi
dei fascisti, non possiamo permettere che si inciti alla violenza.
RONDANI – Scusi, lei, parlando da gentiluomo
a gentiluomo: è armato?
ARPINATI – Perché mi domanda questo? Lei
chi è?
RONDANO – Sono Rondani, questore della Camera.
Anche l’on. Rossini, dubitando che l’Arpinati
fosse armato, lo ha esortato a consegnargli l’arma. Dapprima l’on.
Arpinati si è dimostrato riluttante, ma poi, alla preghiera dell’on.
Paolucci, il deputato fascista bolognese si è arreso alle esortazioni
ed ha consegnato una rivoltella, che è stata portata alla Presidenza
della
Camera.
L’episodio dimostra chiaramente che l’on.
Arpinati premeditava di assassinare il deputato Repossi nell’aula.
I deputati socialisti ritornano, a poco a
poco, a rioccupare i banchi di estrema; ma dalla loro bocca non esce
una
parola di protesta. I fascisti sono anch’essi ai loro posti. I settori
del centro e della sinistra sono quasi completamente vuoti.
La calma è ritornata nell’aula.
Forse è dipeso dal tatto dell’on. Rondani
se un turpe delitto è stato oggi evitato al Parlamento italiano.
Dopo circa un’ora e mezzo di sospensione
– sono le ore 20,20 – il PRESIDENTE ritorna al suo posto e riapre la
seduta.
Al banco del governo siedono quasi tutti i
ministri: i settori rapidamente si popolano; anche le tribune si
affollano.
L’on. Repossi termina il discorso
FACTA dichiara che durante la discussione
sono
state pronunciate frasi che non ha udito...
DE NICOLA – On. Presidente, io non posso
consentirle di parlare ora. L’on. Repossi ha la parola e deve
continuare
il suo discorso. Ella potrà parlare dopo. (Rumori a destra).
GIUNTA, TORRE, ed altri – Non parlerà,
non parlerà!
DE NICOLA – Io sono qui per far rispettare
il regolamento! (Applausi al centro ed a sinistra, rumori a destra).
GIUNTA – Contro di noi, in occasione analoga,
si agì diversamente!
DE NICOLA – Ricordi che io non volli
sospendere
la seduta! (Rumori a destra)
I fascisti continuano a rumoreggiare
gesticolando
verso l’estrema e gridando che l’on. Repossi non deve parlare. Ad un
tratto per impedire che il deputato comunista possa far udire la sua
voce
i fascisti cominciano a cantare il loro inno: “Giovinezza, giovinezza”.
Questo non sconcerta affatto l’oratore
comunista
che prosegue fra i grandi clamori della Camera a svolgere il suo
discorso.
I rumori [sono] così assordanti che gli stessi stenografi della
Camera non riescono a raccogliere le parole del compagno Repossi.
Egli dice:
Invece si è innestata l’azione proletaria
agli svolgimenti degli intrighi della politica parlamentare.
Quando il piano collaborazionista, malgrado
le ultime dedizioni minacciava di fallire e le estreme profferte erano
respinte, si è voluta seguire una tattica che combinasse i metodi
antitetici
della lotta di classe e della collaborazione: le masse hanno ricevuto
una
parola incomprensibile e contraddittoria, poiché quelli che avevano
combattuto
il metodo dello sciopero generale con l’argomento che esso non può
essere
che il preludio dell’apocalisse sociale, pretendevano di imprimergli
le insegne della legalità costituzionale e monarchica.
E quando, malgrado le incertezze determinate
da una così assurda attitudine, i lavoratori guidati dal sacro istinto
della lotta di classe e della propria difesa, si erano lanciati nella
battaglia,
siccome al tempo stesso era avvenuto quello che solo un cieco poteva
non
aver previsto, che cioè la borghesia chiudeva le porte in faccia ai
questuatori
di compromessi, allora, solo perché il raggiungimento dell’obbiettivo
collaborazionista diveniva impossibile, si è fermato il movimento,
abbandonando
i più generosi gruppi proletari impegnati più a fondo, alle
rappresaglie
del fascismo che ha potuto fare a suo comodo gli opportuni spostamenti
delle sue forze, non più costrette ad una lotta generale.
La funzione del Partito socialista
Con questi elementi decisivi di
recentissime
esperienze, è possibile dire della funzione politica del partito
socialista.
Esso era ieri al bivio fra due metodi. Quello preconizzato dalla destra
può dirsi liquidato dagli avvenimenti: per fare un compromesso bisogna
essere in due e la più spinta buona volontà collaborazionista rimane
sterile quando è unilaterale. D’altra parte checché valga il metodo
riformista, il partito socialista ha la responsabilità fondamentale di
essersi reso inadatto al riformismo e alla rivoluzione, e alla sua
destra
che ha voluto condurre all’ultimo il gioco della sua politica all’ombra
della più accesa demagogia, va fatta anche la colpa di aver mancata,
per
voler troppo sfoggiare di abilità, la sua stessa missione.
Quanto al programma della sinistra socialista,
a cui guarda ancora con simpatia parte del proletariato, esso sembra
finora
assommarsi nella negativa della collaborazione. Ma il processo al
riformismo
va fatto non per la sua velleità di collaborazione parlamentare, cui
rinunzierà
senza alcun merito e con infinito rimpianto, ma per il suo
atteggiamento
nelle organizzazioni, nella Alleanza del Lavoro, nello sciopero
generale.
La sinistra socialista si pronunzierà essa
sul problema della organizzazione e della direzione dell’Alleanza del
Lavoro, in modo concreto e preciso, e non con vaghi appelli ad una
concordia
platonica, cattivo surrogato di una [parola illeggibile]
vigorosa
su sicure linee di azione?
Lo sciopero generale non è che un’arma
che bisogna saper adoperare e che non deve affidarsi a chi ha mostrato
di afferrarla per la punta.
Da esso non ci attendevamo il miracolo, ma
la piattaforma su cui poteva realizzarsi un avviamento alla formazione
di altre risorse indispensabili della lotta proletaria. Malgrado tutto
questo si è realizzato in una certa misura, se la disastrosa esperienza
dei metodi opportunisti condurrà ad una revisione degli stati maggiori
e dei piani di guerra del proletariato. Qui il centro del problema
della
riscossa.
Se lo sciopero che i suoi responsabili
ufficiali
chiamarono legalitario e collaborazionista non ha dati i risultati che
si attendevano, deve intensificarsi la preparazione dello sciopero non
collaborazionista ma classista e libero dalle pastoie attuali.
Portata violentemente fuori dalla illusione
di una difesa della sua causa fatta nei quadri delle istituzioni, anche
la parte più incerta del proletariato verrà ad unirsi alle avanguardie
rivoluzionarie, dopo aver guardata in faccia la situazione. Questa
presenta
difficoltà tremende e ci prospetta un ben duro cammino, ma quegli che
dubitasse della vittoria non meriterebbe di aver militato un sol giorno
sotto la rossa bandiera del socialismo.
Il partito comunista assume in base a questi
concetti la sua posizione. In un dibattito su un indirizzo di governo
esso,
dopo aver mostrato con la sua critica la impotenza dei programmi degli
altri partiti non può che denunziare alle masse come ingannevole ogni
promessa che l’apparato statale agisca altrimenti che contro di esse,
ogni illusione che i diritti e le conquiste proletarie possano essere
garantiti
da una altra forma di potere che non sia un governo poggiato sulle
classi
degli operai e dei contadini.
Facta può parlare
Allora il PRESIDENTE dà facoltà di parlare
al Presidente del Consiglio.
FACTA – Non ho udito le parole pronunciate
dall’on. Repossi, perché in quel momento parlavo con l’on. Agnini.
Mi fu riferito che l’on. Repossi ha fatto
l’apologia dello sciopero.
Io non ho che a riferirmi alle parole
pronunziate
oggi stesso affermando che lo sciopero dei pubblici servizi è la rovina
della nazione (Applausi della destra, dei popolari e delle sinistre).
Nessuno può dubitare che io non abbia sentito la dignità del mio
ufficio.
(Applausi replicati).
CORGINI – Abbasso Cagoja! A morte Cagoja.
(Applausi dei fascisti, rumori sugli altri banchi)
IMPUDENZA
[L’organo centrale del Partito Comunista d’Italia premetteva alla cronaca del dibattimento parlamentare il seguente, breve, ma significativo cappello redazionale]
Alcuni giornali borghesi, tra cui La
Tribuna
e Il Mattino di Napoli hanno affermato che il compagno Repossi
alla
ripresa della seduta, di fronte alle minacce dei fascisti avrebbe
rinunciato
alla parola.
Rileviamo l’impudenza di questa affermazione
perché non è lecito estendere anche al gruppo comunista la fama di
acquiescenza
e di viltà che ormai pesano sui gruppi parlamentari degli altri partiti
impotenti a reagire, anche nell’aula di Montecitorio, alle
intimidazioni
fasciste.
L’on. Repossi, non sconcertato né dal tumulto,
né dalle minacce ha pronunciato fino all’ultima parola il suo discorso.
OTTIMO ARGOMENTO
[Ma ancora più importante è l’articolo in cui si commenta l’incidente, limpido esempio di quel parlamentarismo rivoluzionario, sebbene attuato dal Partito Comunista d’Italia solo per disciplina internazionale alle direttive di Lenin]
Un saluto cordiale alla rivoltella
parlamentare
del deputato fascista Giunta.
Che cosa voleva dimostrare la dichiarazione
comunista di Repossi? Che le garanzie della libertà e della legalità
costituzionale non offrono nessuna utile via all’azione proletaria, e
che questa deve essere diretta ed armata.
Per questa tesi esiste un argomento di più,
poiché nel Parlamento, il Palladio delle istituzioni, il tempio della
libertà, si stroncano le discussioni per far parlare le rivoltelle.
Peccato, on. Giunta, che non avete tirato!
Il partito comunista avrebbe visto realizzarsi in pieno la sua tattica
parlamentare. Perché dei diritti e delle garanzie per gli avversari,
abbiamo
l’onore di dirvi che ce ne fottiamo quanto e più di voi. Se avessimo
le vostre forze, allora sì che il baraccone sarebbe già saltato, e chi
vi esibisce le sue libidini antiproletarie sarebbe per sempre ridotto
al
silenzio!
Repossi non ha ceduto a pressioni e a minacce,
e ha parlato malgrado voi, e ha confermato la parola del nostro Partito
ai lavoratori: armatevi!
Ma di questo noi siamo lieti non perché sia
stato rispettato un diritto parlamentare, ma perché si è dimostrato che
i comunisti non cedono alle imposizioni e non nascondono il proprio
pensiero,
e non sfuggono alla proprie responsabilità.
E il colmo del ridicolo è questo: il calcio
che avete tirato nel sedere onoratissimo delle istituzioni, l’avete
motivato
non con una simpatica formola di forza, ma con una espressione
piattamente
legalitaria, da avvocatonzoli di pretura, da quacqueri della lotta
sociale,
degna di un rammollito come il principe del fòro pinerolese, oggi
presidente
del Consiglio: apologia di reato! – avete gridato a Repossi.
Superfluo dirvi: l’apologia di reato la
fate voi ad ogni cinque minuti. Questo argomento lo svolgono i
pennaioletti
di colui a cui avete gridato: Cagoia! E di cui ci freghiamo.
Superfluo dimostrarvi che la legge stessa
della borghesia la conoscete... quanto la lingua nazionale. Si potrebbe
opporvi che la frasi di Repossi, “in quel momento” era esattamente:
“si doveva dire che lo sciopero non poteva non essere accompagnato da
una lotta diretta ed armata”. Dunque una constatazione obbiettiva che
i fatti hanno provata: scoppiato lo sciopero dalle due parti si è fatto
uso delle armi. Secondo noi bisognava farlo prevedere alle masse.
Si capisce che a voi faccia comodo la tattica
dei capi riformisti della Alleanza del Lavoro, che hanno detto alle
masse:
fate uno sciopero dignitoso e civile; nessuno verrà a provocare ed
usare
violenza contro di voi.
Si potrebbe aggiungere che quella legge che
avete invocato concede ad un cittadino assalito con le armi il diritto
alla difesa colle armi, e poiché purtroppo la iniziativa della lotta
armata
è oggi vostra, non vi è reato né apologia di esso a sostenere la
legittima
difesa.
Ma se questo vi si spiegasse voi potreste
credere che si vuole attenuare il nostro pensiero, mentre si tratta di
dimostrarvi che non capite niente e tirate sassi in Piccionaia, quando
commettete un reato qualificato, dal punto di vista borghese, puntando
le rivoltelle sul deputato che parla in forza del suo mandato legale.
Perché in realtà il nostro pensiero è che
la violenza del proletariato armato deve essere offensiva e deve andare
contro la legge, poiché appunto tende a spezzare la impalcatura della
legale autorità dello Stato.
Perché sottolineando il nostro grido alle
masse: Armatevi! Armatevi! Voi ci avete reso un clamoroso servizio col
forte tiraggio dei vostri giornali che ampiamente ripetono l’incidente.
Perché in realtà il nostro pensiero, che
non si è potuto raccogliere completamente dalla voce di Repossi coperta
dalla gazzarra, è che i dirigenti dello sciopero dovevano fare la
propaganda
e la organizzazione della lotta diretta ed armata, spiacesse questo sia
ai vulcanici campioni del fascismo che ai podagrosi magistrati messi a
custodia della legalità.
E di qui la nostra osservazione: perché dunque
non avete tirato?
Che non significa che se domani si
revolverasse
– coraggiosamente: alla schiena, e mentre brandisce... un fascio di
cartelle
– un rappresentante del proletariato comunista, tutto finirebbe lì,
come se aveste tirato il collo a un pollastro.
Sarebbe molto comodo, che aveste sempre a
che fare con chi recita la parte gloriosa di quel tale personaggio
della
vecchia commedia il cui ruolo era di prenderle sempre, e non darle mai!