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In questo dicembre 2014, quando tutti i previsori delle sorti e del capitalismo preannunciano un 2015 nel quale finalmente si cominceranno a vedere i segni della ripresa, almeno nelle aree di maggior importanza mondiale, continuano a presentarsi e rafforzarsi segnali di deterioramento in tante altre zone che smentiscono tante forzate belle speranze per un futuro che si dovrà stabilizzare.
Se è vero, e viene detto in ogni occasione, che economia e sistema finanziario sono una rete unica che compenetra ed opera su tutto il mondo, risulta assurdo pensare ad una uscita da una crisi decennale, che ha colpito appunto il mondo intero, facendo affidamento su un miglioramento della situazione in un’area, quando altre segnalano difficoltà sempre più pesanti, in termini di produzione, di lavoro e di finanza.
Ma la propaganda del mondo borghese non può continuare ad avvitarsi nel piagnisteo della difficoltà senza prospettive di questi anni ed ha ancora il tempo di presentare un ottimismo critico, anche se temperato dalle evidenti difficoltà di una ripresa ancora debole ma, ci dicono, sulla strada della stabilizzazione.
In particolare per gli USA una nutrita schiera di economisti, che fino ad ieri si dilettavano nel descrivere scenari di cupa preoccupazione, oggi, nel felice periodo festivo, ed una buona parola non può e non deve mancare per dare un po’ di speranza nell’anno che viene, hanno cambiato registro. Ottimismo sui dati di crescita del prodotto interno, sulla ripresa dell’occupazione, o meglio sulla diminuzione dei senza lavoro, borsa che cresce impetuosamente di trimestre in trimestre, utili in crescita per le corporation e, come conseguenza, la ripresa forsennata della leva finanziaria, a scorno dei passati impegni a non più forzare la finanza di carta.
Per quanto ci riguarda, sui tanti numeri che sono messi a disposizione, grafici, tabelle, studi ponderosi econometrici e proiezioni varie, nutriamo dubbi e scetticismo. Ma i dati disponibili sono quelli e dobbiamo prenderli per buoni; malgrado tutto, la nostra lettura, che è di parte, non ci fa intravvedere tutti quei motivi di ottimismo, al contrario ci conferma che la fase ciclica di crisi capitalistica è ben lungi dall’essere nella porzione di esaurimento della curva.
Non entriamo qui nel merito dell’evoluzione della crisi, che, in modo sicuramente non generalizzato, continua ad attanagliare il mondo, alla faccia di quanti, convinti o per dovere, sciorinano i bei risultati della condizione generale del capitalismo.
La stessa dinamica che in negativo appare nel mondo della produzione finanziaria – perché di quello si tratta, a scapito della produzione reale dei valori – muove tutti gli altri aspetti del mondo capitalistico; dalle drammatiche oscillazioni dei prezzi sui mercati internazionali delle materie prime, alle guerre commerciali, che ne traggono energia e vigore, alla aperta situazione conflittuale tra gli Stati. Ancora, almeno per gli Stati imperialistici, senza urto diretto.
Tra le tante minacce di questo feroce scontro, lo ripetiamo, per ora senza armi, una delle più serie è stata riportata da un articolo del New York Observer agli inizi di dicembre. Secondo questo articolo, comincia a farsi più insistente da parte di settori politici americani la volontà di inasprire le sanzioni alla Russia, ma questa volta con la richiesta di escluderne le banche e le aziende dal sistema di pagamento internazionale Swift. È il canale, legale, più usato per la circolazione monetaria, una rete telematica bancaria che consente trasferimenti internazionali in modo immediato, in forma di valuta elettronica, nei settori dei servizi commerciali, per pagamenti e transazioni finanziarie in genere.
La sua chiusura per la Russia comporterebbe di fatto il blocco di ogni rapporto finanziario col resto del mondo; in Polonia ed in Gran Bretagna, anche se non ufficialmente, la richiesta sembra abbia ottenuto appoggi. Se alla crisi dei prodotti petroliferi un contratto con la Cina, a quale condizioni non ci è dato sapere, può assorbire la perdita economica, le conseguenze del blocco innescherebbero una crisi finanziaria molto più grave dell’attuale con esiti imprevedibili.
La notizia, come è comparsa, è però subito sparita dall’attenzione della stampa. Non “commuove” a sufficienza il largo pubblico, che non intende la gravità della minaccia. E probabilmente, almeno nei tempi brevi, sembra più un ballon d’essai, una provocazione per saggiare la reazione degli interessati, che non un’operazione all’ordine del giorno in questo clima di inique sanzioni. Così come appare un bluff la risposta che dalla Russia giunge per bocca del capo della VTB Bank, appartenente al clan Putin, che ha dichiarato, come riportato da una intervista ad un giornale tedesco e non smentita, secondo la quale questa azione si configurerebbe come un atto di guerra – e non sul piano finanziario – a cui lo Stato russo non potrebbe non rispondere sul piano militare.
L’attuale Federazione Russa è una debole copia, sul piano politico, militare ed economico della disgregata USSR, che per quanto riguarda le capacità belliche poteva allora contare anche sugli Stati aderenti al Patto di Varsavia. Il confronto è impietoso e la stretta connessione che lega tutti gli Stati al meccanismo finanziario mondiale la rende ancora più debole verso questo genere di minacce, che si accompagnano anche ad una accentuata pressione sul terreno militare ad opera dell’imperialismo americano, declinante ma ancora formidabile e deciso ad imporsi su tutti i tavoli per mantenere il suo predominio. Che poi tutto questo sia mascherato sotto il nome della democrazia violata e della libera determinazione dei popoli, nulla cambia alla feroce determinazione di mantenere il suo ruolo egemone in tutti i campi.
Simili decisioni ed iniziative, tanto politico-militari quanto finanziarie ed economiche, sulle quali si trovano obbligati anche Stati ed economie che hanno tutto da perdere appoggiandole, come sono costrette a fare, senza la capacità politica né la forza economica di contrastarle, indicano che l’imperialismo per ora egemone impone la sua forza e “conta” i suoi futuri possibili alleati, e suonano al contempo da monito agli altri convitati di pietra che per ora sembrano semplicemente valutare l’evolversi dello scontro, anche se saranno costretti presto o tardi a prendervi parte.
In questa sfida noi vediamo non segni della ripresa di un imperialismo la cui economia sta uscendo dalla sua crisi locale, ma al contrario i sussulti di un mondo che nel vortice della sua crisi generale sta marciando verso lo stesso storico esito, perché abbiamo la certezza che l’attuale fase è nella sostanza ben più avanzata dei periodi che dal dopoguerra in poi hanno agitato ed a tratti sconvolto il sistema capitalistico.
In passato dichiarammo la difficile alternativa del Novecento, “O guerra o rivoluzione”, troppo anticipando l’evoluzione del capitalismo. Errore che è una felix culpa per i rivoluzionari, certi di un processo storico studiato e previsto e che non rinunciano a questa scientifica evidenza se le date non tornano. E non abbiamo timore o scrupoli a ribadire quanto allora affermato, ora che questa prospettiva si dimostra sempre più ineluttabile.
Capitolo 11 esposto alla riunione di Sarzana, settembre 2013
Il Partito Socialista Rivoluzionario e il Partito Operaio
Continua sotto i governi della sinistra borghese la repressione del movimento operaio e comunista
Al Convegno Internazionale di Studi “Andrea Costa nella storia del socialismo italiano” che si svolse ad Imola nel novembre del 1979, Leo Valiani affermava: «La libertà di stampa, riunione ed associazione era scarsa per gli oppositori, e molto scarsa per gli operai, ma, dopo l’avvento, nel 1876, del governo della sinistra cominciava ad essere sufficiente per permettere l’organizzazione delle plebi, in vista del miglioramento delle loro condizioni di vita e dell’allargamento dei loro diritti politici e sindacali».
Ciò equivale a dire che lo sviluppo delle organizzazioni politiche e sindacali del proletariato furono, se non favorite, almeno non ostacolate più di tanto dai nuovi governi democratici di sinistra. Noi nel corso di questo studio abbiamo detto una cosa del tutto opposta, che la repressione compiuta dalla “sinistra” contro le organizzazioni proletarie superò di gran lunga quella effettuata dai precedenti governi borghesi di “destra”.
Certo non vigeva più il regime assolutista e reazionario borbonico nel quale ogni libertà di stampa era repressa. Tipica era stata la vicenda capitata alla fine del 1848 all’ Indipendente, un giornale liberale di Napoli. Poiché sotto questo titolo veniva regolarmente sequestrato ne prese un altro, L’Indipendenza: fu nuovamente sequestrato. Ne prese un altro ancora: Gl’indipendenti: fu ancora sequestrato. Alla fine uscì con una striscia nera al posto del titolo, ma nemmeno questo lo salvò e fu sequestrato. Da ultimo uscì col motto “Qui potest capere capiat”: si trovò sequestrato.
Fatto un salto di 35 anni passiamo dal tirannico Franceschiello alla savoiarda monarchia costituzionale ed al governo di sinistra dell’Italia unita, per confrontare l’evoluzione nel campo della libertà di stampa. Nel febbraio 1883 alcuni parlamentari radicali portarono in Aula il caso del giornale di ispirazione repubblicana Il Ribelle: dopo undici uscite tutte undici sequestrate, il procuratore del re scrisse una lettera alla redazione del giornale invitandola a cessare le pubblicazioni, questo perché gli fossero evitate perdite di tempo e di fatica nell’ordinare ulteriori sequestri. Dopo l’avvertimento del procuratore, la redazione del giornale pensò bene di non provocare ulteriormente la suscettibilità del potere e stampò (si fa per dire) un giornale di quattro pagine con il solo titolo, tutto il resto fu lasciato in bianco. Ma pure il giornale in bianco venne sequestrato perché il titolo, “Il Ribelle”, così recitava l’ordinanza, «ha l’evidente significato di offesa al rispetto dovuto alla legge».
Il 19 febbraio 1883, intervenendo alla Camera, il deputato radicale Cavallotti affermava: «La stampa d’Italia è esposta ad una vera gragnuola (è la vera parola) di processi e di sequestri (...) Ed io che ho un po’ di tempo di fare delle statistiche (...) mi sono una volta preso il dolore di capo di fare il conto dei sequestri; eppoi, lo confesso, mi sono stancato. In poche settimane ho registrato la bellezza di 177 sequestri».
Se tali erano le misure prese contro la stampa borghese, sia pure repubblicana e radicale, ci possiamo fare un’idea di quale fosse l’“attenzione” che, in barba alle affermazioni di Leo Valiani, il governo riservava a socialisti ed anarchici. Il governo di “sinistra”, infatti, fin dal suo avvento al potere, per mezzo del ministro degli interni Nicotera, scatenò una persecuzione fino ad allora mai vista. Abbiamo ricordato come, nella sua famosa lettera, Andrea Costa gli avesse scritto: «Contro l’Internazionale si sono diramate più circolari da che siete Ministro, che non da quando ella esiste».
Se Andrea Costa aveva scritto a caldo, all’inizio del primo ministero Depretis (“l’irto e spettral vinattiere di Stradella”, secondo la definizione di Carducci), il giudizio dei socialisti sui successivi governi di sinistra non cambiò, se non in peggio. Vediamo cosa scriveva La Favilla di Mantova quasi 10 anni dopo: «È il suo governo il più obbrobrioso fra quanti ne ha avuti l’Italia dalla ristorazione (leggi: restaurazione, n.d.r.) in qua. In confronto degli odierni trasformisti, gli uomini della destra, della destra peggiore, quella della Regia, del furto delle Meridionali, del “facciamo quattrini”, e del “babbo paga”, erano dei fiori di galantuomini. Il governo dell’Austria, quello dei Borboni, quello del papa, non ha, crediamo, pagine più disonoranti, più abbiette di quelle che caratterizzano il governo di Depretis, di questo vecchio livido, cencioso astuto, che ha corrotto le fonti della vita pubblica, ha ridotto i rappresentanti del paese alla condizione di mercanti di voti, ha incatenato la fortuna d’Italia al carro dei banchieri» (10 dicembre 1885).
1881, esce Avanti!... Periodico socialistico settimanale
Per iniziativa di Andrea Costa, il 30 aprile 1881, ad Imola, usciva l’ Avanti!..., “periodico socialistico settimanale”. Significativa è la scelta del nome di questo nuovo giornale; era la traduzione italiana della testata socialdemocratica tedesca: Vorwärts.
La pericolosità del nuovo giornale fu avvertita dal potere statale ancor prima che il suo primo numero fosse stampato, ed il sotto-prefetto di Imola, il 25 aprile, in un rapporto inviato al prefetto di Bologna, chiedeva che Andrea Costa fosse immediatamente allontanato dalla città: «La sua presenza in questa città io la credo esiziale tanto più perché il paese è piccolo, il contingente degli internazionalisti è numeroso e dominato dal Costa, la sua deleteria influenza facile e feconda; ravviserei quindi opportunissimo che egli venisse allontanato dovunque si possa meglio sorvegliarlo e paralizzare la perversa opera, anche ammettendo che esso volesse restringerla all’apostolato pacifico, perché la propaganda larga ed estesa che col nuovo giornale va ad esercitare porterà senza dubbio frutti malefici e di pervertimento per queste popolazioni».
La proposta del sotto-prefetto non venne messa in atto, Andrea Costa non fu allontanato, ma all’Avanti!... la vita fu resa impossibile. A dimostrazione di quella libertà di stampa che, secondo Leo Valiani, la sinistra democratica avrebbe concesso, tale da «permettere l’organizzazione delle plebi», ci basti dire che il responsabile del giornale fu subito arrestato ed i primi quindici numeri dell’Avanti!... furono tutti e quindici sequestrati. Il n. 16, con stupore e quasi imbarazzo dei socialisti romagnoli «si vendé liberamente per le vie della città attonita che non sapeva persuadersi come mai il 16° numero dell’Avanti!... non avesse avuta la sorte degli altri 15». Fu però sequestrato il suo supplemento, che conteneva il programma del Partito Socialista Rivoluzionario in Romagna. «Gli agenti di questura lo cercarono inutilmente fin nelle sporte dei contadini che entravano in città, e nelle tasche e sotto il panciotto dei nostri soliti rivenditori». A causa delle persecuzioni e dei continui sequestri il giornale fu costretto a cessare le pubblicazioni.
Il nostro precedente rapporto si concludeva accennando alla costituzione del Partito Socialista Rivoluzionario in Romagna e riportando il più che positivo commento della nostra “Storia della Sinistra”. Riprendiamo velocemente il filo per fare alcune brevi annotazioni.
Innanzi tutto il perché della scelta del nome. «Essendo (...) socialisti e rivoluzionari – affermò Andrea Costa – e il nostro oggetto comune essendo la Rivoluzione sociale, il nome che meglio di ogni altro conviene al nostro Partito, che riassume meglio di ogni altro le nostre idee e la nostra condotta generale ed è un vincolo di unione fra noi e tutti i socialisti è questo: Partito Socialista Rivoluzionario».
Tra i delegati al congresso vi fu chi, intuendo che ciò avrebbe determinato una rottura con tutta la precedente tradizione anarchica, propose la denominazione di “Partito Socialista Anarchico Rivoluzionario”. Fu ancora Costa a chiarire la questione: lo scopo ultimo di tutti quanti i socialisti era l’abolizione delle classi sociali, dell’autorità e dello Stato. Ma questo era un progetto a lunga scadenza, nell’immediato il problema era quello della presa e del mantenimento del potere: «La rivoluzione non si può compiere senza la dittatura popolare, cioè senza l’accumulazione di tutte le forze sociali nelle mani delle classi lavoratrici insorte, all’oggetto di trionfare della resistenza dei nemici e d’instaurare il nuovo ordine sociale».
Già prima del congresso sul Catilina del 17 luglio 1881 aveva espresso in questi termini la necessità della dittatura di classe: «Il comunesimo libero od anarchico, propriamente detto, non si otterrà se non dopo altre e successive vicende storiche – quando la produzione, cioè, sia tanto ampia da bastare ampiamente a tutti, e l’ambiente sociale e l’uomo si siano di molto trasformati (...) Or bene: la dittatura stessa non è per noi se non l’accumulazione di tutta la forza sociale nelle mani dei lavoratori insorti. Essa avrà per oggetto: di abbattere gli ostacoli, che il vecchio ordine di cose oppone alla rivoluzione, di difendere, di provocare, di propagare la rivoluzione medesima, di eseguire l’espropriazione dei privati, di stabilire la proprietà collettiva, l’ordinamento sociale del lavoro. La dittatura è imposta dalla natura stessa delle cose».
Peccato che nessuno poté leggere queste chiare affermazioni: infatti il Catilina di Cesena, su 14 numeri stampati ebbe 14 sequestri.
Ad Osvaldo Gnocchi-Viani che, in una lettera indirizzata “Agli Amici socialisti di Romagna” e pubblicata su La Favilla del 9 ottobre 1881 aveva espresso delle riserve sul concetto di dittatura, si rispondeva in questi termini: «Credi tu, o non credi, che la forza sola possa sciogliere, alla fine la questione sociale? E se credi, che cosa è, dunque, codesto intervento della forza, se non la dittatura? Si eserciti per mezzo di decreti o di cannoni, è dittatura» (Avanti!..., 17 ottobre 1881).
Ad Andrea Costa va quindi il merito di avere introdotto nel movimento socialista italiano il concetto della necessità della dittatura di classe.
Il partito si propose il compito di incentivare la formazione di associazioni operaie, circoli di studi sociali, associazioni antireligiose, «tutti quei sodalizi che tendono a staccare le classi lavoratrici dalle classi dominanti ed a fecondare lo spirito rivoluzionario».
Dobbiamo però dire che se la costituzione del Partito Socialista Rivoluzionario segnò la rottura con l’ideologia anarchica, il congresso di Rimini non si propose la scissione con il movimento anarchico, ed al Citoyen di Parigi, che aveva presentato Rimini come una sconfitta degli anarchici, l’Avanti!... (che aveva ripreso le pubblicazioni) rispondeva: «Se ne persuadano i nostri amici d’oltralpe: il Socialismo, in Italia, non è, né può essere settario od assoluto. La diversità di svolgimento delle nostre regioni, l’apparizione contemporanea dei vari aspetti della questione sociale (...) ed altre varie cagioni ci pongono facilmente in grado di apprezzare, come va, l’importanza relativa di ogni sistema» (21 agosto 1881).
Andrea Costa comprendeva che, data l’arretratezza dello sviluppo capitalistico in Italia e le enormi differenze esistenti tra le varie regioni, l’anarchismo aveva ancora la sua ragione di esistere; la speranza dei socialisti romagnoli era di poter aiutare tutto il movimento internazionalista italiano (e non solo quello) a compiere quella evoluzione che loro stessi avevano effettuato; per questo motivo ritenevano importante non rompere ancora i legami con nessuna organizzazione operaia.
Ma, a dispetto delle intenzioni di Andrea Costa, la rottura con gli anarchici era destinata a consumarsi; questi ultimi definirono i congressisti di Rimini “apparato borghese” e “pecorume servo e stupido”. Ma questo non era niente in confronto alle accuse di tradimento che sarebbero successivamente giunte.
Se gli anarchici accusavano Costa di aver tradito e rinnegato la rivoluzione, da parte loro i radicali borghesi si compiacevano per il fatto che lui ed i suoi fossero diventati “evoluzionisti”. Per portare chiarezza e rimettere nei giusti termini la questione, Costa scrisse la seguente lettera al direttore della “Lega della Democrazia”: «Non avendo fiducia alcuna nei placidi tramonti delle attuali istituzioni sociali, ed essendo convinto che in certi determinati periodi storici l’azione rivoluzionaria sia il solo modo di manifestarsi che abbia un partito, io non penso di poter accettare il titolo di evoluzionista che Ella mi dà. Aggiungo che il disporre gli uomini in tante classi speciali, come si dispongono gli insetti nei musei, mi ripugna, perché tali classificazioni non corrispondono generalmente alla verità. A parer mio i socialisti han da essere evoluzionisti e rivoluzionari nel tempo stesso: tutto sta che sappiano sorprendere il “momento psicologico” e fiutare quando i tempi volgano al discutere e quando all’agire, la rivoluzione non essendo che l’ultimo termine dell’evoluzione» (23 aprile 1881). La lettera, stampata sul n. 3 del Catilina, non poté essere letta perché, come abbiamo appena detto, tutti i numeri furono sequestrati.
Ma, anche se le polemiche infuriavano, il Partito Socialista Rivoluzionario raccolse immediate adesioni non solo da parte di organizzazioni operaie di Romagna ma anche da altre parti d’Italia. In settembre i socialisti senesi dichiaravano la loro adesione al programma di Rimini, e successivamente diffondevano un manifesto nel quale si diceva: “A Siena, a Pisa, a Firenze, a Lucca, a Carrara, a Pistoia, tanto nelle città che nelle campagne, il socialismo conta buon numero di aderenti intelligenti ed energici. Il risveglio è generale; ed il socialismo ha acquistato, ed acquista ogni giorno più importanza (...) Uniamo dunque tutte le nostre forze (...) costituiamo come hanno fatto i nostri fratelli di Romagna, costituiamo il Partito Socialista Rivoluzionario di Toscana, nucleo potente del gran Partito Socialista Rivoluzionario Italiano» (Avanti!..., 13 novembre 1881). A seguito del manifesto toscano, l’Avanti!... lanciava il seguente invito ai socialisti italiani: «Organamento, da prima, di forti partiti regionali; federazione, poscia, dei partiti medesimi nel gran partito socialista rivoluzionario italiano» (22 gennaio 1882). Altre adesioni al programma del P.S.R. giunsero da un circolo di operai e studenti di Napoli, da un nucleo operaio di Firenze e persino da una sezione di romagnoli residenti ad Alessandria d’Egitto.
Ma ben più importante dell’espansione territoriale e numerica fu l’immediata crescita in profondità del P.S.R. Inoltre, cosa non meno importante è il fatto che il P.S.R. ebbe una immediata presa nelle campagne. L’“Avanti!...” del 28 agosto annunciava l’avvenuta riunione dei socialisti rivoluzionari di vari paesi di Romagna nella quale era stata proposta la costituzione di una Federazione socialista rivoluzionaria delle campagne e dove era stato presentato un documento nel quale si affermava «la necessità di un’ampia propagazione d’idee, di unioni e di federazioni di operai e contadini, di lotta contro il capitale mediante gli scioperi, di lotta contro il prete mediante la propaganda e le associazioni antireligiose, di lotta contro l’autorità mediante l’agitazione politica, qualunque aspetto essa assuma». Era questa la prima volta che, in Italia, il proletariato rurale era organizzato e ne veniva promossa la lotta economica.
La concessione del suffragio universale
Nel biennio 1880/81, da parte di democratici radicali, repubblicani, socialisti e perfino una parte di cattolici, era stata svolta una intensa campagna a favore del suffragio universale. È naturale che per la sinistra democratica la realizzazione del suffragio universale non rappresentasse una minaccia rivoluzionaria, anzi servisse a cementare la dominazione di classe. Rivelatrici sono al riguardo le parole pronunciate dal democratico Locatelli ad una conferenza del novembre 1880, quando parlò di evitare di dare alla rivendicazione il carattere di «lotta di classe contro classe».
Andrea Costa nel suo intervento attaccò con violenza questa impostazione: la rivendicazione del suffragio universale poteva avere senso solo se inserita in una più generale lotta contro l’ «ordine presente fondantesi sul privilegio». «Si crede che il suffragio universale tolga ogni pericolo di sconvolgimento violento (...) Io credo che fintantoché lo Stato sociale sarà basato sulla forza, solo la forza lo abbatterà: i cittadini manifesteranno il voto, ma se non sapranno appoggiare questo voto col fucile ci lasceranno nella medesima posizione riconoscendo questo voto una cosa inutile (...) Fino a tanto che l’operaio correrà il rischio d’esser cacciato dalla bottega, e il contadino d’essere cacciato dal fondo (...) il diritto al voto è un’illusione. Sarà un’illusione finché non mettiamo a base una rivoluzione economica che renda l’operaio indipendente (...) Fintantoché questa questione economica non sia risoluta, la questione politica non lo potrà mai essere».
Nel 1882 fu approvata la riforma elettorale nel testo presentato da Zanardelli. Per tutto l’Ottocento il suffragio universale era stato presentato come l’espressione massima della democrazia, il metodo supremo per dare espressione alla volontà popolare. Sarebbe stato quindi da prevedersi che, compiuta l’unità nazionale, la sinistra borghese lo mettesse al primo posto del suo programma. Invece non fu così, gli uomini di quella sinistra sapevano che la maggioranza della popolazione era ostile allo Stato monarchico, o perché, specialmente nelle campagne, influenzata dal clero, o, a maggior ragione, perché il proletariato esprimeva una ferma volontà rivoluzionaria. Questa paura fu espressa con tutta chiarezza da Zanardelli, il luminare giuridico della sinistra, che nel dibattito parlamentare argomentava la sua ostilità al suffragio universale «per non mettere in cimento le sorti stesse della libertà» (Camera dei deputati, 10 giugno 1881). «Noi – spiegava Zanardelli – riconosciamo tutto ciò che hanno di sacro i diritti individuali, ma crediamo che il diritto di giudicare implichi il dovere di conoscere; crediamo che non si abbiano diritti senza doveri, e che il primo dovere di chiunque è chiamato a decidere con il proprio voto le sorti del paese sia quello di procurarsi le nozioni indispensabili per sapere ciò che fa» (Camera dei deputati, 11 giugno 1881).
Il discorso di Zanardelli era elementare ma logico, la borghesia prima di concedere il suffragio alla classe oppressa, da una parte deve avere un solido e provato apparato repressivo, ma soprattutto deve aver trovato un partito che sia in grado di addomesticare il proletariato, cosa che ancora non esisteva. Ad addomesticare il proletariato ci penserà, trent’anni dopo, il Partito Socialista Italiano, ed infatti il suffragio universale (anche se solo maschile) venne concesso dal governo Giolitti nel 1912, dopo che il Partito Socialista, in occasione della guerra di Libia, aveva dato prova di saper contenere le “intemperanze” proletarie.
La legge del 1881 che, come la vecchia, manteneva il diritto di voto ai soli cittadini maschi, ne abbassava il limite di età da 25 a 21 anni e poneva come requisito l’alfabetizzazione, provata dal possesso della licenza di seconda elementare o, in alternativa, da attestazione di un notaio del saper leggere e scrivere. La sinistra borghese, nella sua riforma, si tenne quindi stretta temendo che un allargamento del diritto di voto, esteso a larghi strati del proletariato, avrebbe permesso ai partiti rivoluzionari di portare forti rappresentanze in parlamento. In effetti gli elettori che nelle elezioni del maggio 1880 erano stati 621.896, il 2,2% della popolazione, in quelle dell’ottobre 1882, le prime fatte in base alla nuova legge, passarono a 2.017.829, solo il 6,9% della popolazione totale. Comunque sia, una parte della classe operaia aveva ottenuto il diritto di voto.
Il P.S.R. affermò immediatamente che si sarebbero dovute presentare candidature di protesta e sfruttare le occasioni di propaganda offerte dai comizi elettorali, ma spiegando altresì che l’utilizzo della campagna elettorale non significava l’abbandono della prospettiva rivoluzionaria per l’adesione a quella legalitaria. Tra la contingente partecipazione elettorale e la futura prospettiva insurrezionale non esisteva contraddizione: «Socialisti attivi e non platonici, combattenti e non sognatori, noi abbiamo accettato – per valercene contro la legalità – le armi stesse che la legalità ci ha offerte (...) Sappiamo anche noi che la trasformazione dalle radici degli attuali ordinamenti sociali non può avvenire pacificamente; sappiamo anche noi (...) che la rivoluzione è fatale; ma sappiamo altresì che la rivoluzione non avviene ad un tratto (...) E quando non si possa insorgere, non a parole, ma a fatti, contro l’ordine esistente, bisogna approfittare delle sorgenti vive di agitazione (...) Il voto non impedirà, all’occorrenza, l’uso del fucile; frattanto valiamoci del voto. Valiamocene, per altro, senza dare ad esso importanza maggiore di quella che ha» (Avanti!..., 19 febbraio 1882).
La questione sulla partecipazione alla campagna elettorale fu discussa e risolta dal P.S.R. in una riunione che si tenne ad Imola il 26 febbraio. Se i partecipanti, 42 delegati, erano in massima parte romagnoli, molti furono i telegrammi inviati da nuclei socialisti di Firenze, Roma, Livorno, Milano, Monselice, Alghero, Pavia, Messina, che si dichiaravano favorevoli a partecipare alle elezioni.
Il primo quesito all’ordine del giorno: “Se si debba, o no, partecipare all’agitazione elettorale”, fu approvato, salvo un solo voto contrario.
Una volta decisa la partecipazione alle elezioni politiche, il dibattito si spostò sul titolo “Come vi parteciperemo?”: erano possibili coalizioni con altre forze progressiste? i socialisti eletti avrebbero rifiutato di prestare il giuramento di fedeltà alla Corona ed allo Statuto o la scelta andava lasciata alla volontà individuale?
Sul primo dei due quesiti fu deciso di lasciare ai compagni delle singole circoscrizioni elettorali libertà di formare le alleanze che ritenessero più opportune, a condizione che nelle liste risultasse presente almeno un socialista. Molto animato fu invece il dibattito sulla questione del giuramento; una minoranza sostenne l’utilità di avere comunque dei rappresentanti in parlamento dichiarando che il giuramento, in sé stesso, non era una questione rilevante. Per la maggioranza, invece, il giuramento rappresentava una “brutta commedia”, lesiva della dignità dei militanti ed infamante per il partito. L’importante era utilizzare tutti i vantaggi offerti dalla campagna elettorale, cioè la possibilità di divulgare pubblicamente ed in piena libertà il programma rivoluzionario del partito, senza che le forze dell’ordine potessero intervenire. Fu quindi stabilito che il deputato socialista si sarebbe rifiutato di giurare lasciandosi cacciare a forza dalla Camera.
In una lettera, inviata al Don Chisciotte di Bologna, Andrea Costa affermava: «Non intendiamo dire che la presenza di uno o più socialisti, al Parlamento, sia inutile. No certo. Né io disprezzo quel socialista, il quale, convinto di fare del bene, entrasse, fin da oggi, là dentro. Vi entri; e lo sosterremo del nostro meglio. Ma noi non deporremo la nostra dignità personale e di partito alla soglia del Parlamento, prestandoci all’indegna commedia del giuramento politico (...) Abolito il giuramento politico, il Parlamento sarà, per noi, un’arma come tante altre, ove entreremo, quando occorra, per piantarvi la bandiera della rivolta» (22 marzo 1882).
Come si vede la questione elettorale ebbe una veloce evoluzione: accettata la partecipazione del P.S.R. alla lotta elettorale, si passò poi alla proposta della presentazione di candidature di protesta. Dalla candidatura di protesta si giunse a sostenere effettive candidature, mantenendo un ostacolo puramente formale, il giuramento. Ma già all’Avanti!... pervenivano, e venivano pubblicate, molte lettere che invitavano a non dare eccessiva importanza al rituale del giuramento politico.
In vista delle elezioni in Romagna molte furono le manifestazioni tenute unitariamente da repubblicani e socialisti rivoluzionari e, con la formazione della Unione Elettorale Democratica Romagnola, fu siglato un patto di unità d’azione con un comune programma. Il programma elettorale andava dalla richiesta del suffragio universale alla abolizione degli eserciti permanenti, dalla limitazione legale dell’orario di lavoro alla nazionalizzazione dei mezzi di trasporto e delle miniere, dalla separazione della Chiesa dallo Stato all’emancipazione della donna.
Nei comizi elettorali, allo scopo di raccogliere il maggior numero di voti possibile, la regola da sempre adottata dai politicanti è quella di allargare di molto le maglie dei programmi dei propri partiti e di solleticare gli elettori con promesse (poi non mantenute) di futuri benefici. Non fu questo atteggiamento tenuto da Andrea Costa e, a Ravenna, si rivolse agli elettori socialisti in questi termini: «Io non posso promettervi né croci di cavaliere, né impieghi, né onori, né protezioni del governo, né una ferrovia, né un ponte, e neanche un misero spaccio di Sali e tabacchi (...) Io vi prometto invece una lotta continua, piena, tenace contro i pregiudizi, le oppressioni, le tirannie, i privilegi; io, lungi dal contribuire alle soddisfazioni del vostro amor proprio o dei vostri interessi, non posso promettervi che calunnie, persecuzioni, ammonizioni, carceri, esilio e per sola soddisfazione quella d’aver fatto lealmente, francamente e serenamente il vostro dovere».
Il parlamentarismo rivoluzionario ossimoro storico che occorse attraversare
Si giunse alle elezioni ed Andrea Costa fu candidato in diverse località.
Intanto a Milano da parte del Circolo Operaio, che raccoglieva la parte più colta ed evoluta degli operai milanesi, era stata creata una sezione elettorale. Questa lanciò un manifesto in cui faceva appello ai lavoratori salariati perché costituissero un Partito Operaio, che, indipendente da tutti gli altri partiti, sostenesse gli interessi di classe e partecipasse alla lotta elettorale. Oltre che a Milano il Partito Operaio (costituito in agosto) ebbe una sezione a Torino ed un’altra a Genova.
I programmi elettorali presentati dai due partiti di classe, tranne che per un elemento, non si differenziavano di molto da quelli della democrazia radicale; abbiamo infatti visto il programma della Unione Elettorale Democratica. Questo non deve meravigliare perché, con la nuova legge elettorale, ai radicali si apriva la possibilità di attingere voti all’interno delle schiere proletarie e quindi, demagogicamente, il loro programma si... radicalizzava.
L’unico elemento che distingueva i due partiti di classe dal radicalismo democratico era la rivendicazione della libertà di sciopero e l’uso dello sciopero come arma per la difesa dei diritti operai. La rivendicazione del diritto di sciopero rappresentava la coscienza da parte del proletariato di perseguire direttamente, come classe e con i propri sistemi di lotta, le sue specifiche rivendicazioni senza attendersi concessioni paternalistiche dall’alto.
Nel Nord Italia il Partito Operaio ebbe risultati insignificanti, tanto che dopo le elezioni si disgregò. Al contrario il Partito Socialista Rivoluzionario riportò un grandissimo successo; i risultati elettorali rappresentarono delle grandi affermazioni per Andrea Costa: ad Imola risultò il più votato con 1009 suffragi ed a Ravenna risultò invece eletto con ben 3554 preferenze, divenendo così il primo deputato socialista italiano. Altri candidati socialisti, pur non eletti, ottennero notevoli affermazioni; tra questi il carcerato Alcibiade Moneta ne raccolse 3683 a Mantova. Amilcare Cipriani, l’eroe di tante battaglie al fianco di Garibaldi e colonnello della Comune di Parigi, ebbe 2143 voti a Forlì, ma la sua elezione fu annullata in quanto stava scontando una pena di 25 anni di lavori forzati.
Soffermiamoci un istante su Amilcare Cipriani. Prima di poter essere scarcerato nel 1888, nei collegi elettorali di Forlì e Ravenna, nove volte era stato presentato ed eletto deputato in segno di protesta contro la sua condanna. Era stato il tribunale di Ancona, il 28 febbraio 1882, ad emettere il verdetto. Riportiamo alcuni passaggi di una corrispondenza dell’Avanti!... del 5 marzo 1882 che ci illustra quale fu la reazione del popolo anconetano: «Pronunciata la sentenza, la folla, riversatasi sulla strada, fece ala, trattenuta da forte nerbo di truppe di linea, carabinieri e guardie in gran numero. Occupavano in buona parte la prima linea donne e ragazzi, attendendo l’uscita del Cipriani. Un tenente di fanteria (...) eccitava i soldati a percuotere coi calci dei fucili i piedi dei malcapitati (...) Apparve in quel momento Cipriani, solidamente legato e circondato da una fitta schiera di carabinieri, salutato da lunghi battimani della folla (...) “Evviva l’eroico colonnello della Comune!” si gridava da ogni parte, quando ad un tratto, in fondo alla strada, di fronte all’entrata delle carceri (...) senza intimazione, senza squilli di tromba il tenente fece caricare la folla inerme alla baionetta (...) Nessuno venne risparmiato, non donne, non vecchi, non bambini; si percuoteva accanitamente coi calci dei fucili, colle sciabole, coi revolvers, senza remissione, senza risparmio. Donne e bambini caduti, schiacciati sotto la folla che fuggiva, emettevano grida strazianti, fu una scena d’orrore (...) Furono operati molti arresti sul luogo e durante la notte».
Un discreto successo ebbe anche Carlo Cafiero che, nelle elezioni suppletive di Corato in Puglia, ottenne 400 voti. In un manifesto affisso sui muri di questo comune si leggeva: «In mezzo a tanti candidati avidi di sedere in Montecitorio (...) uno solo è degno di rappresentare con decoro il nostro collegio. Questo è indubbiamente Carlo Cafiero, il vero rappresentante del popolo, l’umanitario, l’onesto, il compendiatore del “Capitale” di Carlo Marx, l’uomo dalla tempra diamantina e dalla fede inconcussa nel trionfo della giustizia sociale».
Con le elezioni del 1882 entrarono per la prima volta in parlamento un operaio che non era socialista (Antonio Maffi) ed un socialista che non era operaio (Andrea Costa). Antonio Maffi, dirigente della Confederazione Operaia Lombarda, sorta sotto gli auspici della democrazia milanese, era stato eletto nella lista radicale ambrosiana, che, forte dell’appoggio del Secolo, aveva avuto facilmente ragione dell’Unione Operaia espressione del neonato Partito Operaio che aveva tentato, senza riuscirci, di sottrarre gli elettori operai dalla tutela della borghesia radicale milanese.
Tra i tanti nomi di neo eletti troviamo anche quello di Giovanni Giolitti e Francesco Coccapieller. Cocca chi? Domanderanno i compagni, che probabilmente non hanno mai sentito pronunciare questo nome. Ed infatti non ebbe nessun merito nei confronti della storia né compì nessun gesto degno di essere ricordato. Ma, nonostante ciò, questo stalliere romano, ex guardia svizzera, a ragione può essere considerato un precursore della politica contemporanea. Depretis aveva favorito la sua elezione in quanto abituale diffamatore degli esponenti dell’estrema sinistra. Viceversa la piccola borghesia romana lo aveva votato per un impulso di sovversivismo antiparlamentare (oggi diremmo anti-politica), per protestare contro tutti e tutto. Al riguardo ci piace citare la Civiltà Cattolica: «Non meraviglia che il popolo romano, fra tanti competitori, abbia trascelto chi meglio ne rappresentava l’indole, i costumi ed anche le idee. Putiva infatti fieramente da un pezzo a tutti i romani questa tracotanza di alcuni farabutti che, non essendo in realtà che pulcinelli ed arlecchini, quando non erano ladri od assassini, facevano i politici e i capi popolo, ingrassando all’altrui dimagrire» (1883, Vol.1, pagg.218/219). Questo dicevano i preti dei politici italiani, quando ancora erano nemici; ora si sono riconciliati!
La strada aperta dal Coccapieller è stata poi percorsa, per limitarci al solo secondo dopoguerra, da molti altri, a cominciare da Guglielmo Giannini con l’“Uomo Qualunque”, e via via raffinando l’arte, da Bossi, Berlusconi, fino a giungere a quella perfezione raggiunta da Giuseppe Grillo e, perché no, da Matteo Renzi.
Cesare Lombroso nella sua opera “L’Uomo Delinquente”, al capitolo VI, dedicato ai “mattoidi” cita due volte Coccapieller. Secondo il Lombroso i mattoidi, specialmente quelli politici, riescono a trascinare le masse perché da queste sono visti come figure carismatiche che, in spregio alle convenzioni sociali, si mettono in contrasto con l’opinione corrente. Questa loro capacità deriva dalla commistione tra alcune caratteristiche del folle quali la sua convinzione irremovibile e fanatica, con quelle tipiche del genio, come la sua astuzia calcolatrice. Sempre secondo Lombroso i mattoidi, apparentemente normali, con un coraggio senza pari, una sfrenata ambizione ed una enorme capacità di accendere forti sentimenti nelle masse inerti, sono invece socialmente pericolosi. Ora, ammesso che le teorie di Lombroso non sono “scientifiche” e che ogni riferimento a persona vivente è puramente casuale, riprendiamo il discorso serio.
Andrea Costa aveva vinto, ma ora c’era da risolvere la questione del giuramento. Dall’esterno del P.S.R., sia La Plebe, per i socialisti milanesi, sia lo stesso Carlo Cafiero lo incitavano a giurare. La Plebe, fin dall’ottobre precedente, aveva auspicato che «non si rifiutasse la propaganda e l’agitazione, che possono scaturire dalla presenza di delegati socialisti al parlamento, ricorrenti all’ostruzionismo, facenti là dentro l’apologia di ciò che noi, rivoluzionari, facciamo fuori, dicendo no quando tutti gli altri dicono si (...) Costoro non sarebbero deputati, nel senso che comunemente si annette a questa espressione, ma agenti socialisti, che, dalla tribuna parlamentare, potrebbero giovare non poco alla diffusione delle nostre idee» (Numero sequestrato de La Plebe, ottobre 1881). All’interno del P.S.R., invece, i pareri erano contrastanti tra chi riteneva essere importante entrare in parlamento «non curandosi di quanto viene imposto per entrarvici» (L’Alfabeto, 19 novembre 1882) e chi riteneva che il deputato socialista avrebbe dovuto farsi cacciare a forza dalla Camera.
La questione fu risolta a Ravenna il 19 novembre nel corso della conferenza ufficiale del partito. Fu stabilito che Costa avrebbe dovuto giurare ed entrare in Parlamento, svolgendo da quella tribuna un’attiva propaganda a favore del partito. Nella risoluzione si diceva: «La Conferenza dei socialisti di Ravenna e delle ville e dei rappresentanti il Partito Socialista Rivoluzionario della Romagna deliberava che il nostro compagno Andrea Costa – eletto deputato dai suffragi dell’intera democrazia – entrasse in Parlamento, fatta sua speciale quistione personale, subendo, come l’aggredito la volontà dell’aggressore, il giuramento, e lasciando a lui la scelta di protestare il più efficacemente che si possa, contro il giuramento stesso. Il Costa non deve protestare e ritirarsi, ma giurare sapendo di giurare il falso, protestare e rimanere per provocare là dentro – fortezza del privilegio – affermazioni di principi finora mai avvenute e servirsi della posizione di inviolabile e di libero transito per tutta Italia, ad esclusivo interesse del partito nostro e della causa popolare» (Il Sole dell’Avvenire, 25-26 novembre 1882).
A differenza di alcuni deputati radicali, come il repubblicano Bosdari, che espressero posizioni di riserva, provocando la tumultuosa reazione della maggioranza, od il rifiuto di giurare di Falleroni, altro repubblicano, che veniva cacciato dall’Aula, Andrea Costa pronunciò, senza alcun commento la risposta di rito: “giuro”.
L’art. 49 dello Statuto Albertino stabiliva che: «Senatori ed i Deputati prima di essere ammessi all’esercizio delle loro funzioni prestano il giuramento di essere fedeli al Re di osservare lealmente lo Statuto e le leggi dello Stato e di esercitare le loro funzioni col solo scopo del bene inseparabile del Re e della Patria». Però c’era anche l’art. 51 che diceva: «I Senatori ed i Deputati non sono sindacabili per ragione delle opinioni da loro emesse e dei voti dati nelle Camere». In base a questo articolo il rifiuto del giuramento avrebbe potuto, quindi, essere considerato legittimo. Per risolvere il quesito venne presentato, ed immediatamente approvato, un disegno di legge secondo cui venivano dichiarati decaduti quei deputati che avessero rifiutato il giuramento. Abbiamo riportato questa norma, per ricordare a Berlusconi che non è lui la prima vittima di una legge retroattiva. (Se poi qualcuno avesse la curiosità di sapere cosa diceva l’art. 50, è presto accontentato: «Le funzioni di Senatore e di Deputato non danno luogo ad alcuna retribuzione od indennità»).
Il giorno stesso del giuramento Andrea Costa aveva inviato ai giornali una lettera in cui spiegava le ragioni del suo comportamento. Però nemmeno questa lettera ebbe la fortuna di potere essere letta: tutti i giornali che l’avevano pubblicata furono sequestrati, e, nel caso de Il Sole dell’Avvenire la polizia addirittura distrusse i caratteri di stampa in tipografia. Inoltre la lettera venne incriminata e la procura di Milano, 28 mesi dopo, chiese l’autorizzazione a procedere per reato di stampa nei confronti di Costa. Nella seduta del 24 febbraio 1885 Andrea Costa prendeva la parola: «“Io non parlo certamente per pregare la Camera di non consentire la richiesta di autorizzazione; al contrario, benché la mia preghiera sia probabilmente superflua, prego che l’autorizzazione venga data».
Il primo intervento parlamentare di Andrea Costa (12 dicembre) fu una interrogazione su sevizie a cui detenuti in varie carceri d’Italia erano sottoposti. Nel suo secondo intervento, il 19 dicembre, pronunciò un discorso contro il giuramento e, provocando scomposte interruzioni e proteste da parte dei deputati moderati, affermò di non aver alcuna intenzione di essere fedele alle istituzioni. «Il giuramento politico è inutile (...) È inutile per voi, perché, fedeli come siete alle istituzioni, non avete bisogno di giurare; è inutile per noi, perché ci sottomettiamo a queste istituzioni come a tante altre leggi e formule (...) che ci proponiamo (...) o di modificare o di abolire. (...) Credo di aver fatto un atto di lealtà, dicendo a voi come io consideri il giuramento politico, affinché non vi illudiate sulle mie intenzioni». Al Presidente della Camera, che cercava di redarguirlo dicendo: «Onorevole Costa (...) ella ha fatto un atto di dovere giurando (...) e la lealtà consiste nell’osservare questa promessa», Andrea Costa rispondeva: «Onorevole Presidente, io le risponderò che il procuratore del Re, domandando di procedere contro di me, e l’onorevole guardasigilli partecipando alla Camera questa domanda, non hanno creduto punto ch’io abbia fatto il mio dovere».
Sull’argomento delle richieste di autorizzazione a procedere, Andrea Costa prenderà di nuovo la parola nella tornata del 24 febbraio 1883; questa volta l’autorizzazione era richiesta nei confronti del radicale Felice Cavallotti, ancora una volta per reato di stampa. Andrea Costa: «Io mi pronuncio a favore dell’autorizzazione a procedere (...) perché quantunque io riconosca che non vi sia affatto ragione di procedere, pur tuttavia non credo che semplicemente perché noi siamo deputati, dobbiamo sottrarci alle conseguenze che possono derivare da un processo». E continuava: «Essendo anche iniziati vari processi di stampa contro di me (...) giacché me n’è offerta l’occasione, vorrei pregare la Giunta di volersi occupare delle domande fatte contro di me per autorizzazione a procedere, perché io credo che il miglior modo di dimostrare come leggermente si facciano certi sequestri, sia appunto di portare la questione dinanzi ai giudici del fatto». Esattamente come accade adesso!
Il Partito Socialista Rivoluzionario
La capillare opera di propaganda, la costante pressione esercitata sulla base del partito repubblicano, il lavoro di organizzazione dei braccianti e, non ultimo in importanza, la presenza di un deputato socialista in Parlamento, tutti questi erano fattori in grado di provocare vasti consensi ed adesioni attorno al P.S.R. romagnolo, che nel 1883 disponeva di proprie sezioni in più di 60 località. I primi mesi di quell’anno furono infatti dedicati alla organizzazione e strutturazione del partito attraverso riunioni e congressi che interessarono tutte le province, coinvolgendo anche i centri minori.
Uno dei momenti più importanti di questo lavoro fu il congresso provinciale di Ravenna che si svolse il 25 febbraio. Precedentemente, il 21 gennaio, lo stesso, convocato nel teatro Mariani, era stato sciolto dalla polizia. Il congresso costituì ufficialmente la Confederazione provinciale del Partito Socialista Rivoluzionario e fu eletta la nuova Commissione Federale e di Corrispondenza del P.S.R., e nella mozione finale veniva auspicata la convocazione del nuovo congresso del partito. Analoga richiesta veniva avanzata, il giorno successivo, alla riunione della Federazione Socialista Rivoluzionaria bolognese. Anche Il Sole dell’Avvenire, attraverso articoli e comunicati, fece propria tale richiesta. A Pisa intanto, il 20 febbraio si era svolto il locale congresso provinciale e le 15 sezioni presenti avevano adottato linee di condotta simili a quelle dei socialisti romagnoli.
Altra conferma del fervore che animava il partito fu la celebrazione del 18 marzo, anniversario della Comune di Parigi, che si svolse nelle principali città romagnole, a dispetto delle proibizioni governative, accompagnata dall’affissione di manifesti e dallo sventolare di bandiere rosso-nere, innalzate in punti inaccessibili alle guardie. Questa ricorrenza non poté però essere celebrata a Rimini, dove i dirigenti socialisti erano stati preventivamente arrestati. Adamo Mancini di Imola fu preso mentre attaccava un manifesto inneggiante alla Comune: dopo sedici mesi di carcere preventivo nel giugno del 1885 fu processato e condannato a ventidue mesi di galera e ad una multa. Rifiutatosi di pagarla, scontò altri undici mesi di carcere.
A luglio 1883 fu diramata la circolare di convocazione del secondo congresso del P.S.R., in cui erano stabiliti i particolari organizzativi e le modalità di partecipazione. Il congresso, che per evitare l’intervento della polizia avrebbe avuto carattere di riunione privata, si sarebbe svolto il 5 agosto a Ravenna con il seguente ordine del giorno: 1. costituzione definitiva del Partito Socialista Rivoluzionario in Romagna; 2. fissazione definitiva del Programma, regolamento e linea di condotta pratica del partito.
Immediatamente si profilarono forti dubbi sulla possibilità che il congresso potesse effettivamente aver luogo. Se è vero che dopo la sua elezione le persecuzioni poliziesche nei confronti di Andrea Costa si erano attenuate (ma continuava ad essere costantemente pedinato dalla polizia), non altrettanto poteva dirsi per gli altri membri del partito, tra i quali molti erano gli ammoniti e i sorvegliati. La polizia dava prova di zelo nella sua opera di repressione antisocialista in particolar modo a Ravenna dove Il Sole dell’Avvenire era quasi sempre sequestrato, con ovvie ripercussioni anche sulle sue già malandate finanze.
Il 3 agosto, due giorni prima della data fissata per il congresso, la polizia fece sapere che intendeva assistervi. Essendo il congresso organizzato per inviti nominali e potendovi partecipare solo chi fosse munito di mandato, era sotto tutti i punti di vista una riunione privata, non suscettibile di intervento della forza pubblica. Si trattava dunque di un patente abuso da parte dello Stato. A questo punto Andrea Costa inviò a Depretis il seguente telegramma: «Onorevole Presidente del Consiglio, ministro dell’interno – Roma. Autorità politica ravennate violando diritto di riunione privata, vuole viva forza intervenire congresso privato socialisti romagnoli che terrassi qui domani. Denunzio a lei quest’abuso, non aspettando riparazione; protesto». Naturalmente dal governo non venne data risposta. «Né l’oggetto – dichiarava Andrea Costa – che noi dovevamo discutere poteva dare argomento ad un intervento dell’autorità. Quell’oggetto era la costituzione di un partito, non era una cospirazione; una cospirazione non si annuncia sopra i giornali. E nemmeno il programma poteva dare argomento all’intervenzione dell’autorità» (Intervento parlamentare del 29 novembre 1883).
La mattina del 5 agosto, la città «presentava un insolito movimento pel numeroso concorso di affiliati al partito, fra i quali quelli delle frazioni rurali che distinguevansi dalle sciarpe rosso-nere, altri vestivano elegantemente e ci sembravano benestanti, ma la maggior parte avevano l’apparenza di lavoratori, artisti e contadini» (Il Ravennate, 7 agosto 1883).
Alle 11 nel palazzo Borghi, sede del congresso, erano presenti circa 250 spettatori, tra cui un’ottantina di delegati provenienti non solo dalla Romagna ma da Firenze, Pisa, Pistoia, Napoli e altre località, mentre alcuni romagnoli avevano mandato di rappresentare nuclei socialisti di Venezia, Roma, Parma, etc.
Quando stavano per iniziare i lavori, un congressista uscito alla ricerca di alcuni delegati dispersi, gridò che stava arrivando la polizia. Lasciamo la parola ancora ad Andrea Costa: «Erano appena passati dieci minuti, e l’ufficio di presidenza era appena formato, quando la porta si spalancò con fracasso, e precipitarono nella sala carabinieri, guardie di pubblica sicurezza, ed un ispettore, i quali, non avendo potuto trovare in tutta Ravenna (e ciò fa onore a quella nobile città) un fabbro, il quale, o coi grimaldelli, o cogli strumenti del suo mestiere, volesse entrare in casa altrui, come un ladro, avevano creduto bene di afferrare una scala a piuoli e di lanciarla a viva forza contro la porta. Contro questo intervento della forza pubblica noi protestammo con molta calma e molta dignità. Non ci separammo per altro, in quanto che non avevamo alcun motivo di nasconderci al pubblico ed alla autorità (...) Così continuammo. Ma appena fu data lettura al primo articolo, il quale diceva così: “Costituzione definitiva del Partito Socialista Rivoluzionario in Romagna”, il delegato, od ispettore che fosse, intervenne, e disse che non poteva permettere che la discussione continuasse. L’arbitrio, secondo me, e secondo noi tutti, era al colmo; non solamente si violava il domicilio, non solamente si calpestava il diritto di riunione, ma si voleva impedire ad un partito, che nessuna legge, o signori, ha ancora messo fuori del diritto comune, di costituirsi e di discutere i suoi statuti».
Di fronte al provocatorio intervento della polizia ed alla illegale intimazione di scioglimento della riunione, Andrea Costa propose una mozione di protesta, incitando i compagni a non cedere alla prima violenza e a continuare comunque i lavori e rivolto al capo della polizia dichiarava: «Il signor ispettore ricorda il comizio pubblico che ebbe luogo a Ravenna nello scorso gennaio; allora la forza intervenuta per legge ci sciolse e, quantunque avesse torto, noi cedemmo immediatamente, inquantoché essendo quella riunione pubblica in luogo pubblico, non vi era infatti alcuna ragione di resistere da parte nostra; ma se oggi noi cedessimo pacificamente, noi verremmo a disconoscere il nostro diritto; cosicché, se ella vuole che noi ci sciogliamo, ci pigli pel collo e ci cacci fuori». Questa ferma presa di posizione fu seguita dagli applausi sia in sala da parte dei delegati, sia in strada dalla folla crescente che si accalcava.
Così, Gaetano Zirardini, incurante degli ordini perentori dell’ispettore che gli ingiungeva di interrompersi, cominciò a svolgere il primo punto dell’ordine del giorno, dichiarando che ormai il partito era costituito sia in Romagna che nel resto d’Italia, e che occorreva unicamente fissare con chiarezza criteri comuni di condotta.
Alle prime parole di Zirardini echeggiarono tre squilli di tromba; quindi, poiché al terzo squillo nessun socialista si era mosso, una intera compagnia di granatieri fece irruzione con le baionette in canna. Fu Gaetano Zirardini che sedò il tumulto che ne era nato, invitando i compagni a risparmiarsi per occasioni migliori. Suo fratello, che aveva inneggiato alla rivoluzione venne legato e trascinato via dai gendarmi, che a stento poterono aprirsi un varco tra i popolani che affollavano le strade cittadine applaudendo l’arrestato e continuando a gridare “Viva la rivoluzione sociale!”. Intanto, la sala del congresso era stata invasa dai soldati che a furia di spinte e qualche colpo di baionetta allontanarono i socialisti rivoluzionari, che, nella strada, ricevevano entusiastici applausi da parte della popolazione. Per tutta la giornata la città fu occupata militarmente da esercito e gendarmi.
Ma, per quanto solerte fosse stata la polizia, nessuno si accorse che alle prime luci dell’alba del 6 agosto piccoli gruppi di socialisti silenziosamente uscivano dalle case e si avviavano verso quello stesso palazzo Borghi da cui erano stati cacciati la mattina precedente. Si ritrovarono in 70 e ripresero con tutta calma i lavori congressuali. Il fatto che non tutti i delegati fossero presenti rese però impossibile la discussione dell’ordine del giorno. Il dibattito, vertente su altre questioni, durò circa cinque ore, al termine delle quali fu votata una mozione con cui si istituiva una commissione di nove membri, incaricata di convocare un congresso socialista italiano, e si protestava per le persecuzioni governative contro i socialisti. Così ebbe termine il secondo congresso del P.S.R.
Non solo le riunioni ed i comizi socialisti, che sarebbe molto lungo e difficile enumerare, erano sciolte d’autorità e con l’uso della forza da parte della polizia, ma ci fu perfino il caso di un ispettore di pubblica sicurezza che venne deposto perché, a Venezia, aveva permesso lo svolgimento di un comizio socialista.
Come si interveniva in parlamento
Costa terminava il citato intervento parlamentare dicendo: «Ho detto da principio che io non chiedevo (...) soddisfazione alcuna. Io mi permetto solo di chiedere all’onorevole Presidente del Consiglio (...) quale sia in fondo la nostra posizione di fronte alla legge; e se le cose avvenute in Romagna (...) siano arbitrii delle autorità locali ai quali il ministro non consente, ovvero se sieno l’applicazione fedele dei suoi criteri di governo e di tutto un sistema di repressione brutale, al quale, lo ricordi il governo, il popolo romagnolo non si sottometterà mai come non si è mai sottomesso alle violenze del governo del papa».
L’oratore, nel bel mezzo di una assise composta al 99% da borghesi reazionari, specificherà le ragioni del nome dato al nuovo partito e le sue finalità: «Sebbene questo nome di socialisti rivoluzionari possa ispirare a certuni un sacro orrore, in fondo in fondo, quando andiamo a guardarci dentro, che cosa significa questo: che noi siamo convinti che, per l’accentramento sempre maggiore del capitale sociale, il quale promuove la costituzione di una nuova feudalità, la feudalità capitalistica, quelle stesse ragioni che hanno provocato, verso la fine del secolo scorso, una rivoluzione, che la borghesia ha sfruttato, produrranno un giorno un’altra rivoluzione, rivoluzione del resto che non siamo noi a provocare, ma quegli antagonismi sociali, che non si torranno certo di mezzo con quei progetti di legislazione sociale che stanno dinanzi alla Camera, per quanto possano essere ispirati alle migliori intenzioni».
Questo è quello che si chiama parlamentarismo rivoluzionario; nel tempio della conservazione Andrea Costa esponeva a chiare lettere la tesi della inevitabilità della rivoluzione. Da quel momento e sempre più spesso egli introdurrà, nei suoi discorsi alla Camera, dichiarazioni di sfida o di principio rivolte non certo alle mummie sedute ai banchi della maggioranza (ed a quelle dell’opposizione), ma ai proletari di tutta Italia. Mettendo in pratica l’impegno preso al momento della sua elezione, Andrea Costa usava il Parlamento come cassa di risonanza per la propaganda di partito.
Se diamo uno sguardo d’insieme agli interventi parlamentari di Andrea Costa vediamo che non sono mai stati molti, e soprattutto furono veramente pochi nei primi anni della sua carriera parlamentare. Questo non dipese dal fatto che, come è stato scritto, «deputato di recente nomina, egli non fosse ancora in grado di impiegare gli strumenti a propria disposizione». La ragione era un’altra; si serviva delle prerogative di deputato, quali la circolazione ferroviaria gratuita e la libertà di movimento (anche se sempre sotto il vigile pedinamento della polizia), per un capillare lavoro di diffusione dei princìpi socialisti in luoghi che non potevano essere toccati dalla normale propaganda del partito. Senza posa si spostava da un punto all’altro d’Italia, tenendo conferenze, comizi, dibattiti tanto nelle città quanto nei minuscoli centri rurali.
Ma, nonostante l’immunità parlamentare, era sempre considerato un sorvegliato speciale e con libertà individuali molto ridotte. A Cesena, il 9 settembre, veniva inaugurato un busto a Garibaldi; Andrea Costa avrebbe dovuto prendere la parola, ma la manifestazione improvvisamente si trasformò in un fuggi fuggi generale per la voce fatta circolare dalla polizia di una imminente carica di cavalleria. Costa non solo non poté parlare, ma venne pure denunciato per incitamento alla ribellione.
Lo stesso giorno si recava a Faenza per partecipare ad un comizio all’interno del Teatro Comunale sull’allargamento del suffragio amministrativo. A un certo punto il delegato di P.S., alla testa di un drappello di carabinieri armati, cinse la sciarpa tricolore e dichiarò sciolta la riunione. Costa prese la parola nel tentativo di calmare l’eccitazione della folla: «Cittadini, noi eravamo convenuti qui per affermare il diritto di tutti i cittadini a partecipare alle cose del comune; ma di fronte a questo apparato di forza la discussione riuscendo impossibile, affermiamo solennemente il diritto nostro, e sciogliamoci». Non aveva terminato queste parole che cinque o sei carabinieri gli si gettarono addosso e, strappandogli gli abiti e coprendolo di lividi, lo trascinarono fuori dal teatro. Gaetano Zirardini venne colpito alla testa con il calcio di un fucile ed un ragazzo trafitto alle reni da un colpo di baionetta.
Il 20 settembre, a Forlì, la polizia sparò sulla folla che protestava per l’arresto di alcuni repubblicani. Lo stesso giorno vi furono scontri a Longiano e il giorno seguente a Savignano.
Questi pochi episodi, seppure molto parziali, ci rendono l’idea di quali difficoltà e quali rischi i militanti del P.S.R. dovessero affrontare nella loro quotidiana attività politica. Alla faccia delle libertà concesse dai governi di sinistra, ricordate da Leo Valiani.
Il 18 novembre si tenne, a Forlì, una seconda sessione del secondo congresso del partito, ossia quello di Ravenna. Questa volta la convocazione venne tenuta segreta e il congresso fu clandestino. La sessione si svolse in maniera del tutto tranquilla, ma la segretezza determinò una partecipazione molto limitata (54 delegati, in rappresentanza delle sezioni di 58 località) e l’assenza delle rappresentanze esterne: toscane, campane, etc.
Il congresso apportò una piccola modifica al programma del 1881 – peggiorativa – riguardo la partecipazione alle elezioni «lasciando alle singole associazioni provinciali il fissare la condotta dei compagni, che potessero venire eletti deputati», ossia se le candidature dovessero essere «positive» o semplicemente «di protesta».
Il maggiore impegno della conferenza fu promuovere un congresso nazionale dei socialisti italiani.
Intanto le persecuzioni governative non diminuivano, le denunce contro Andrea Costa con richiesta al parlamento di autorizzazione a procedere si accumulavano. Oltre a lui erano colpiti i redattori de Il Sole dell’Avvenire; a fine anno il giornale fu costretto a chiudere definitivamente e Gaetano Zirardini a scappare in Francia inseguito da una condanna a quattro anni di carcere e a pagare una multa esorbitante; il 14 gennaio 1884 l’intera redazione fu arrestata.
Ma la repressione poliziesca non era l’unico nemico che il P.S.R. si trovava a dover affrontare: l’altro pervicace nemico era costituito dal movimento anarchico che, soprattutto con Errico Malatesta, tentava in ogni modo di dimostrare il tradimento di Andrea Costa. Nel dicembre 1883 Errico Malatesta iniziò a Firenze la pubblicazione di un nuovo giornale, intitolato La Questione Sociale dove quasi tutti gli articoli erano dedicati al traditore Andrea Costa, tanto che i socialisti rivoluzionari di Forlì ribattezzarono il giornale La Questione Personale. Già Malatesta aveva accusato Costa perfino di aver provocato la pazzia di Carlo Cafiero.
È naturale che a noi non interessi fare la cronistoria di maldicenze e battibecchi; ci sembra però opportuno accennare alla questione del ruolo del capo. Nella primavera del 1883, dalle colonne de L’Ilota di Pistoia, Malatesta metteva in guardia i socialisti romagnoli, ritenuti vittime di un capo che li avrebbe portati ad accettare una linea di azione controrivoluzionaria. Questa fu la risposta: «Costa avrà la fiducia e la stima dei buoni socialisti fintanto che la meriterà, ma il giorno in cui la demeritasse, o per iddio!, noi stessi lo precipiteremmo dalla sua rupe Tarpea anche senza il già pronto soccorso del compagno Malatesta» (Il Sole dell’Avvenire, 22 aprile 1883).
Anche da parte anarchica erano disapprovate le accuse avanzate da Malatesta. Francesco Natta e Francesco Pezzi, pur prendendo le distanze dal P.S.R., affermarono che il dissenso non giustificava le offese all’onorabilità dell’ex compagno; che, in definitiva, il P.S.R. differiva dall’anarchismo nei mezzi e non nei fini; che Costa aveva giurato perché autorizzato dal suo partito e che, infine, era paradossale che un antiautoritario diffamasse parte del movimento socialista solo perché aveva adottato un metodo diverso. Il “Caso Costa” era un falso problema: «Dal momento che i romagnoli e se non tutti personalmente almeno una gran parte di essi accettarono e fecer loro il programma proposto dal Costa, il Costa sparisce. Resta una collettività, resta una regione, bene organizzata, con i suoi comitati locali, con la sua commissione di corrispondenza. Sono adunque i romagnoli, quella parte almeno che accennavamo qui sopra, è quella collettività insomma che abbiamo di fronte, non il Costa. Il costianesimo non esiste» (Il Sole dell’Avvenire, 20 ottobre 1883). Ottima impostazione del problema, scientifica e spersonalizzata.
Nel gennaio del 1884 un altro deputato socialista entrò in Parlamento.
Nell’82 nelle campagne del parmense si erano avuti vari scioperi bracciantili. Queste agitazioni erano state organizzate e dirette dalle locali Società di Mutuo Soccorso che, abbandonata la tradizionale politica assistenziale, si erano trasformate in vere organizzazioni di classe. Nel corso di quelle lotte si era distinto il medico condotto Luigi Musini, ex garibaldino ed all’epoca radicale, che si era apertamente schierato dalla parte degli scioperanti tanto da essere accusato di sobillare le masse operaie. Nel gennaio del 1884, quando a Parma vennero indette elezioni suppletive, Musini fu presentato da Andrea Costa come candidato socialista. L’elezione di Musini sarebbe stata poca cosa se avesse significato solo l’ingresso di un secondo socialista nel parlamento borghese; la sua elezione fu importante perché a lui erano legati i migliori agitatori e organizzatori dei braccianti del parmense settentrionale ed il P.S.R. usciva così dai confini romagnoli per estendere la sua influenza su una zona coperta da una fitta rete di agguerrite organizzazioni operaie.
Nella discussione sull’uso repressivo e dispotico usato dal governo, Musini affermava: «Come uomo di partito non ho che da rallegrarmi di questo, perché vedo di giorno in giorno, come naturale reazione, manifestarsi sempre più tenace l’idea della ribellione al sistema di governo da voi inaugurato; vedo (...) che ogni giorno ripullulano sempre più vivi e più forti quegli ideali politici e sociali che sono la mia fede più viva; questi ideali che sono la bandiera dell’avvenire, perché contro di essi, né voi, né la vostra forza basteranno mai» (Intervento parlamentare del 23 giugno 1884).
Non tardò molto che anche nei suoi confronti arrivasse la richiesta di una autorizzazione a procedere per un discorso diretto a “svegliare gli odi sociali” chiamando ladri i proprietari che pagavano insufficientemente i loro contadini. Prendendo la parola Musini affermava: «Ho chiesto di parlare unicamente per pregare la Camera di concedere l’autorizzazione a procedere contro di me. Comprendo perfettamente che questo mio voto può e deve sembrare ingenuo, e puramente accademico dal momento che la maggioranza della Camera (...) ha ormai consacrato questo principio: che allorquando le domande dei procuratori del re sono rivolte contro i deputati dell’estrema sinistra è dovere sacro di accoglierle (...) Io appartengo ad una regione dove un povero lavoratore è compensato con 30 o 40 centesimi al giorno (...) a questo aggiungete che ivi la pellagra è un flagello spaventoso (...) Ora, domando io, chi (...) non giudica, come giudico io intorno a questi proprietari della terra che per scopo di lucro e per spirito di avarizia affamano il povero contadino? Chi non dirà che questi uomini sono ladri?».
Il Presidente della Camera interrompeva l’oratore, che aveva dichiarato di appartenere al P.S.R., dicendo: «Qui nella Camera nessuno può rappresentare un partito che sarebbe la negazione delle leggi dello Stato». Al che Musini rispondeva: «Se in quest’Aula a noi è vietato di affermarci socialisti rivoluzionari (...) voglio supporre che almeno nell’Aula del Tribunale, in omaggio, se non altro, al diritto di difesa, mi sarà concesso spiegare e svolgere quelle idee le quali informano il programma del partito cui mi vanto di appartenere (...) Accogliete dunque, onorevoli colleghi della maggioranza le conclusioni dell’onorevole Billia! E per dimostrarvi la mia gratitudine, vi accerto che farò voti ardentissimi perché ogni giorno vi si domandi una autorizzazione a procedere contro di noi, sicché in poco tempo possiate liberarvi di noi, profani in questo luogo sacro» (Intervento parlamentare del 25 febbraio 1885).
Contemporaneamente il P.S.R. si rafforzava pure a Bologna. Tra il 1883 e il 1884 i socialisti rivoluzionari riuscirono a conquistare importanti capisaldi tra la classe operaia bolognese. Nel maggio dell’83 guadagnò la direzione della Società dei cuochi e dei camerieri dandogli una struttura classista. Nei mesi successivi elementi socialisti assunsero posizioni direttive nella fortissima Società Operaia locale, ponendo fine alla gestione paternalistica che fino ad allora aveva avuto. Infine, muratori, calzolai e fabbri, unificando le rispettive associazioni, fondarono la Federazione Generale Operaia di Resistenza, influenzata anch’essa da socialisti rivoluzionari.
Anche in Romagna si assisteva ad un risveglio organizzativo del P.S.R. In aprile a Cesena nascevano due nuove sezioni composte di minatori, e alla fine di maggio fu costituita una sezione mista di operai di città e salariati agricoli. Nel maggio nacque la Federazione Socialista Rivoluzionaria cesenate che divenne una delle più combattive di cui il partito disponesse.
La pratica della creazione di sezioni miste operai-braccianti si estese presto anche ad altre provincie. Ad Imola accanto al circolo socialista adulto, che prese il nome de “I Figli del Lavoro”, sorgeva quello giovanile denominato “I Figli dell’Avvenire”. Entrambi avevano una bandiera verde: il partito stava cominciando ad adottare questo colore nella speranza di evitare le violente reazioni dei gendarmi alla presenza, nei cortei, dei vessilli rossoneri. Ma non era certo un colore diverso che avrebbe cambiato l’atteggiamento della polizia nei confronti del proletariato; ed infatti, ad esempio, il 2 giugno, i gendarmi ferirono a colpi di sciabola parecchi militanti di Predappio che sfilavano dietro una bandiera verde con sopra ricamato il motto “Vivere lavorando o morir combattendo”, una catena ed il numero 2403 (che corrispondeva al forzato Amilcare Cipriani). Tre socialisti che avevano tentato di difendere la loro insegna furono condannati a tre anni di carcere.
Contro le incertezze sul contegno verso la sinistra borghese e le illusioni sul movimento cooperativo
Malgrado le persecuzioni, e forse anche per merito di queste, il P.S.R. procedeva nel suo continuo sviluppo; dal 1884 aveva superato i limiti della Romagna ed aveva sezioni in varie parti d’Italia. Quindi il nome Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna non rispondeva più né alle aspettative né alla realtà. La questione del cambio del nome fu posta al terzo congresso del partito che si tenne a Forlì il 20 luglio 1884 dove, per acclamazione, fu stabilito che la denominazione fosse Partito Socialista Rivoluzionario Italiano. Il rappresentante dei “Figli dell’Avvenire” di Imola propose la costituzione ovunque di analoghe sezioni giovanili. Fu poi consigliato a tutti i nuclei del partito di adottare provvisoriamente bandiere verdi, «giacché i colori così detti sovversivi li assalgono a mano armata». Misero espediente perché non era contro il colore delle bandiere che la polizia si scagliava ma contro coloro che tali bandiere innalzavano.
Altra questione discussa al congresso riguardò l’adesione del partito al Fascio della Democrazia, raggruppamento politico borghese progressista. L’adesione al Fascio della Democrazia, anche se non rifiutata da Costa, era fortemente avversata dalla base del partito sia per il programma di questa organizzazione che professava la intangibilità della proprietà privata, sia per il ruolo subordinato al quale, al suo interno, i socialisti sarebbero stati costretti. E su questo punto il congresso non si volle esprimere in maniera netta. Il congresso mise così in evidenza quali fossero i limiti del partito: si trattava di una magnifica organizzazione di proselitismo e di lotta ma che ancora mancava di una sicura base teorica, di un programma e di una tattica ben delineati. Il partito risentiva ancora della sua origine anarchica e, allo stesso tempo, non escludeva di poter percorrere un tratto di strada assieme ai partiti democratici della borghesia progressista.
Il 1884 fu anche l’anno del colera. L’epidemia dalla Francia e dal Piemonte si diffuse in tutta la penisola, ma fu catastrofica al Sud, e soprattutto a Napoli. Le due organizzazioni rivoluzionarie, socialiste e anarchiche, parteciparono attivamente e direttamente alla assistenza delle popolazioni colpite. I due deputati socialisti, Costa e Musini, assieme a gruppi di socialisti e democratici partirono alla volta di Napoli per portare i loro soccorsi. Altrettanto fecero Malatesta e gli anarchici. Fatto curioso fu che nemmeno in quella occasione si ebbe una convergenza tra i due schieramenti politici: i socialisti si inquadrarono nella Croce Verde, mentre gli anarchici nella Croce Bianca.
In Romagna, il P.S.R. oltre a curare l’invio dei soccorsi alle zone colpite, si dedicò, localmente, alla prevenzione del contagio. A Ravenna fu costituito un Comitato socialista di salute pubblica, che attuò nei quartieri popolari misure sanitarie preventive, ed a Forlì fu compiuta una vasta inchiesta sulle condizioni igieniche delle abitazioni dei braccianti. L’inchiesta di Forlì fu appoggiata dall’amministrazione comunale repubblicana nel cui consiglio vi era anche un socialista rivoluzionario, il primo socialista entrato in una amministrazione locale.
Anche durante la permanenza a Napoli Andrea Costa continuò ad essere costantemente pedinato dalla polizia; chissà se qualcuno di questi “servitori dello Stato”, nell’adempimento del proprio dovere, non abbia contratto il morbo e ne sia morto, proprio come diversi socialisti rivoluzionari impegnati nell’azione di soccorso.
Attenuatasi l’epidemia i due deputati socialisti abbandonarono Napoli dove si erano acquistati una grande popolarità, e Costa intraprese immediatamente un lungo viaggio di incontri e conferenze in Piemonte, facendo ancora una volta breccia all’interno dei circoli anarchici.
A metà degli anni ‘80 l’agricoltura italiana fu colpita da una profonda crisi. In Romagna, dove il problema maggiormente avvertito dai braccianti era quello della disoccupazione stagionale, la prima forma organizzativa ed autodifensiva che spontaneamente adottarono fu la costituzione di cooperative, allo scopo di garantire ai soci una certa continuità occupazionale. La prima cooperativa degli operai di campagna fu fondata a Ravenna, nell’aprile del 1883, da 300 braccianti, e prese il nome di “Associazione Generale Operai Braccianti”. Secondo lo statuto gli utili della cooperativa sarebbero stati per 2/5 ripartiti tra i soci, 2/5 destinati ad un fondo riserva, ed 1/5 al fondo pensioni ed inabilità al lavoro. La Associazione dei Braccianti di Ravenna ebbe un rapidissimo sviluppo se si pensa che solo dopo un anno dalla sua fondazione contava già 2.400 soci. Questo positivo sviluppo rappresentò un esempio e nella Romagna tra il 1883 e l’84 si costituirono molte altre cooperative di muratori, fabbri, falegnami, etc.
Prendendo ad esempio l’Associazione di Ravenna l’Avanti!... del 27 aprile 1884 scriveva: «Ora più che mai urge però di far conoscere codeste forti Società di braccianti, nelle quali sta sì gran parte dell’avvenire (...) Esse si propongono specialmente la costituzione di un fondo sociale, che permetta di assumere per conto proprio la più gran parte dei lavori pubblici e privati, oggi deferiti all’ingordigia degli appaltatori. Con questo mezzo, gli operai ad essa aderenti pensano di fare il primo passo sulla via della loro emancipazione, poiché, sottratto il lavoro da ogni dipendenza, l’associazione offrirà ad essi il modo d’istruirsi, di educarsi e di togliersi dallo stato di miseria e di soggezione, in cui oggi si trovano. L’emancipazione del lavoro, ecco dunque il fine; la cooperazione, ecco uno dei mezzi, che i braccianti ravennati intendono di mettere in opera per migliorare, frattanto, la loro condizione sociale per muovere “il primo passo” verso la loro emancipazione. Fine e mezzo chiari ed aperti». La natura socialista del cooperativismo non era messa in dubbio ed Il Comune (allora organo del P.S.R.) definì le cooperative come «figlie predilette e legittime del socialismo moderno rivoluzionario, che in via sperimentale procede all’attuazione pratica di quella minima parte di principii, per quanto è consentito dalla coercizione de’ privilegi borghesi» (20 aprile 1884).
I limiti del cooperativismo ed il pericolo che attraverso la cooperazione si considerassero risolti i problemi dei lavoratori erano chiari ad Andrea Costa che, in un comizio tenuto a Cremona il 13 novembre 1885, su “I diritti dell’operaio e la necessità dell’associazione”, ne elencherà i pregi e i limiti. Le cooperative erano «un buon mezzo di organizzazione operaia», ma non «un rimedio generale», in quanto mai gli operai avrebbero potuto «coi loro meschini risparmi (...) impadronirsi dei grandi mezzi di lavoro». Molto più importanti e superiori erano le organizzazioni di resistenza, con il compito di «svegliare l’operaio alla coscienza della sua posizione di classe in confronto alle altre classi sociali». Ma l’unico strumento veramente idoneo all’emancipazione del proletariato non poteva essere che «un partito politico-sociale, operaio e socialista, opposto a tutti gli altri partiti che stanno in alto – al potere». Ed ammoniva i lavoratori dicendo loro: «Appartenete pure alle associazioni di mutuo soccorso, di resistenza, cooperative; ma badate che non è solamente una questione di pane quella che dovete sciogliere».
Il Partito Operaio Italiano
Se nella Romagna si sviluppavano le organizzazioni operaie, specialmente bracciantili, il P.S.R., ormai non più romagnolo, continuava ad estendersi in Italia; adesioni giungevano un po’ dappertutto: Cremona, Alessandria, Genova, Livorno, Brindisi, Palermo. Perfino a Tunisi si era formata una Federazione socialista rivoluzionaria italiana. Però molte erano adesioni puramente formali, senza che ne seguisse un inquadramento organizzativo nel partito e soprattutto non contribuivano al suo sostegno finanziario, tanto che Il Comune, che all’inizio usciva due volte la settimana, ben presto divenne settimanale per cessare, poi, le pubblicazioni; anche l’Avanti!..., riapparso all’inizio del 1884, durò solo pochi mesi.
Intanto a Milano, all’inizio del 1885, da una scissione della Confederazione Operaia Lombarda, fino ad allora sotto il controllo dei demo-radicali, rinasceva il Partito Operaio Italiano che nell’aprile/maggio teneva il suo primo congresso con l’intervento di una cinquantina di delegati in rappresentanza di 20 società operaie. Scrivemmo nella nostra “Storia della Sinistra”: «Da questo momento abbiamo due correnti che confluiranno nel formare il partito proletario di classe: una è quella del Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna (...) l’altra è quella del Partito Operaio (...) È da notare che il Partito Operaio al suo inizio è “operaista”, o, per dirla all’inglese, laburista, non vuole avere una ideologia politica, non vorrebbe organizzare se non lavoratori salariati e manuali, ed è – come gli anarchici – astensionista elettorale per orrore degli intrighi corruttori della politica borghese».
Già alla prima costituzione di questo nuovo partito Andrea Costa aveva espresso un entusiastico giudizio: «È sorto da pochi giorni, non ha ancora fissati i suoi statuti, non ha ancora determinato l’oggetto pratico, che si propone; e già lo assalgono da ogni parte furiosamente. Buon sintomo! Il partito operaio è una nuova incarnazione del socialismo italiano: il quale, manifestatosi da prima nei fasci operai e nelle sezioni dell’Internazionale e passato, poscia, pei partiti socialisti, si afferma ora “Partito Operaio”, per affermarsi necessariamente, fra non molto, “Partito Operaio Socialistico”. Che il nuovo partito sia sorto a Milano (...) è chiaro: in nessun’altra città d’Italia le industrie e la vita moderna essendo tanto penetrate, e perciò l’opposizione di interessi fra operai e capitalisti riuscendo tanto evidente quanto in Milano. In Romagna, per ora, è possibile un “Partito Socialista Rivoluzionario”; un “Partito Operaio” propriamente detto forse no. Il sorgere del nuovo partito, o empirici della “Libertà” di Roma e del “Progresso” di Perugia e di tutti quelli periodici borghesi che hanno ripetute le ciance della “Libertà”, il sorgere del nuovo partito era, dunque, storicamente fatale, né saranno le vostre lamentazioni a trattenere il fatale andare» (Avanti!..., 4 giugno 1882). E il P.S.R. non mancò di inviare il suo saluto al congresso esprimendo l’augurio che «in un prossimo avvenire il partito operaio ed il partito socialista rivoluzionario italiano facciano una cosa sola, uno solo essendo l’oggetto pel quale combattiamo: l’emancipazione del lavoro». Il P.O.I. ricambiò, senza però dare cenno al problema dell’unificazione tra le due organizzazioni.
Sancita estraneità a tutti i partiti borghesi
I lavori del congresso furono dedicati interamente alla discussione ed approvazione dello statuto, che già nel primo articolo sanciva la totale diversità del Partito Operaio da qualsiasi altro partito radical borghese:
«Il Partito Operaio Italiano è costituito in difesa dei lavoratori, allo scopo di organizzare arte per arte, le falangi del proletariato ed affratellarle in nome di un unico diritto, il diritto all’esistenza.
«Il Partito Operaio Italiano, profondamente convinto dei bisogni e delle aspirazioni di tutti gli oppressi dal capitale, intende ottenere un reale e positivo miglioramento economico acciò tutti i lavoratori possano raggiungere la loro completa emancipazione.
«Il Partito Operaio Italiano inoltre è assolutamente estraneo ad ogni partito politico o religioso».
Balza agli occhi come siano completamente assenti affermazioni rivoluzionarie o richiamo al socialismo; allo stesso tempo era affermato che la completa emancipazione dei lavoratori si sarebbe ottenuta attraverso “reali e positivi miglioramenti economici”.
Anche leggendo il secondo articolo ci si accorge che più che partito il P.O.I. era sindacato: «Possono aggregarsi al Partito Operaio quelle Associazioni (...) che siano costituite da puri e semplici operai manuali di ambo i sessi (tanto dei campi che delle officine) salariati ed alla diretta dipendenza dei padroni, imprenditori o capitalisti».
Nello statuto, che si componeva di 30 articoli, ben 5 trattavano del problema degli scioperi e stabilivano che «quando uno o più soci (...) per ragioni di lavoro, sieno costretti a mettersi in isciopero, hanno diritto all’appoggio di tutto il partito». I Comitati centrali o locali, in vista dello sciopero od a sciopero avvenuto, avrebbero preso «i provvedimenti opportuni per distribuire i soccorsi, i quali sono in ragione di una lira al giorno per ciascun scioperante». In caso di richiesta di sciopero generale sarebbe stato compito del Comitato Centrale «assumere tutte le informazioni necessarie e tenere conto delle condizioni dell’arte dei più bisognosi, delle maggiori probabilità di poter ottenere un reale miglioramento e della convenienza di non esaurire totalmente i fondi del partito».
Il Partito Operaio, costituito esclusivamente da associazioni di resistenza di puri proletari, si riprometteva di condurre una tenace lotta di classe e diretta, soprattutto attraverso l’uso dell’arma dello sciopero, disinteressandosi completamente della più generale azione politica. Questo settarismo operaista impediva che maturassero le condizioni per quella unificazione tra P.S.R. e P.O.I., tanto auspicata dal Costa.
Il congresso di Milano stabilì che il prossimo si sarebbe tenuto a Mantova. La scelta di Mantova rispondeva ad una ragione precisa: tra il 1884 e il 1886 le campagne delle provincie di Mantova, Rovigo, Cremona, Parma furono agitate da quell’ondata di moti agrari noti poi sotto il nome de “la boje”, dal grido degli scioperanti: “la boje, la boje e de boto la va de fora” (Bolle, bolle e di colpo fuoriesce). Il motivo scatenante era sempre lo stesso: la fame. Le prime agitazioni iniziarono nel Polesine, ma il loro sviluppo maggiore si ebbe nel mantovano dove il proletariato agricolo era organizzato nella Associazione Generale dei Lavoratori Italiani. Lì lo sciopero durò parecchi mesi e provocò molta paura fra gli agrari. Per la prima volta i lavoratori della terra erano organizzati e si poté notare la crescita e la maturazione di questo proletariato. Alla disperata resistenza degli agrari si aggiunse la pesante reazione governativa con l’intervento armato. Nel marzo 1885 fu inviato l’esercito a soffocare violentemente lo sciopero: circa 200 scioperanti furono arrestati, 22 dei quali deferiti all’Autorità Giudiziaria. Il Partito Socialista Rivoluzionario sostenne gli scioperi per tutta la loro durata, sia con comunicati di solidarietà, sia con aiuti diretti tramite sottoscrizioni, sia organizzando i braccianti in società di resistenza. Queste fissavano una tariffa unica per la loro zona, costringendo molti proprietari ad accettarla.
Per quanto il P.S.R. avesse preso parte attiva in difesa del movimento de “la boje”, la Romagna non si mosse, forse perché le associazioni cooperative garantivano ai soci sia il lavoro sia un minimo di reddito, cosa che, di fatto, assopiva la conflittualità.
Così a Mantova il Partito Operaio tenne il suo secondo congresso (6-8 dicembre 1885). «A questo congresso vi è Costantino Lazzari, autentico proletario marxista» (“Storia della Sinistra”) e sarà lui a dare l’indirizzo di tutto il convegno. Il congresso era stato promosso, congiuntamente dal Partito Operaio e dalla Confederazione Operaia Lombarda. I 99 partecipanti rappresentavano 32 società operaie. La riunione si aprì con l’invio di un saluto di solidarietà verso «i nostri poveri contadini che si trovano prigionieri dell’egoismo sociale» e «martiri della rivendicazione agricola».
Subito dopo, sulla base di un o.d.g. proposto da Lazzari, si deliberò l’unificazione tra la Confederazione Operaia Lombarda ed il Partito Operaio: «Convinti che solo l’unione dei lavoratori di tutte le arti e mestieri in nome del diritto all’esistenza può incamminare la classe lavoratrice sulla via dell’emancipazione; convinti che i lavoratori italiani devono combattere per i loro diritti indipendentemente da ogni altro partito (...) deliberano di accettare la fusione delle due associazioni, (avendo) per base lo statuto del Partito Operaio Italiano, e passano alla discussione dei singoli articoli». Discutendo gli articoli dello Statuto, solo una breve aggiunta venne portata al primo: dove si diceva “Il Partito Operaio Italiano inoltre è assolutamente estraneo ad ogni partito politico o religioso», venne aggiunto: “Parteciperà alla lotta pubblica come classe, all’infuori di qualunque partito borghese». Per tutto il resto lo statuto rimase invariato.
È interessante riportare l’o.d.g. votato sul problema della disoccupazione: «Il Congresso, considerando la disoccupazione come conseguenza dell’attuale sistema capitalistico di produzione, trova che una soluzione di questa questione non si potrà avere che con l’emancipazione completa dei lavoratori, cioè, quando il capitale, le terre e gli strumenti del lavoro, siano diventati proprietà comune dei lavoratori e riconosce che un mezzo pratico di difesa è la riduzione delle ore di lavoro e l’abolizione del lavoro a cottimo imposta dai lavoratori organizzati».
Sulla questione contadina fu approvato un o.d.g., sempre proposto da Lazzari, in cui si affermava «essere comune la loro causa con quella degli operai» ed impegnava il Comitato Centrale a formare sezioni contadine ed organizzare la lotta di classe nelle campagne in vista del conseguimento di immediati miglioramenti materiali e morali.
Un vivace dibattito con contrapposte tesi si ebbe sul problema della partecipazione o meno alla lotta elettorale; in ultimo venne trovato un evidente compromesso nell’o.d.g., ancora di Lazzari, che suonava così: «Il Congresso delibera che il Partito Operaio entri nella lotta pubblica con criteri propri tendenti all’emancipazione della sua classe, lasciando alle singole sezioni ampia libertà di partecipare alle elezioni politiche, secondo l’opportunità dettata delle condizioni locali». A questo proposito, nella Storia della Sinistra, abbiamo scritto: «È originale la sua soluzione agnostica del problema elettorale: il partito “non avendo alcun programma di governo” lascia libere le sezioni di partecipare o no alle lotte elettorali. Chi conosce il pensiero del bravo Lazzari sa che egli non intendeva dire che la borghesia tenesse pure in mano il governo quanto voleva, ma, all’opposto, che i socialisti non dovevano entrare in governi borghesi democratici; sbocco della tattica parlamentare che il futuro dimostrò in Europa quasi inevitabile».
Poiché il ricordato articolo 50 dello Statuto stabiliva che «le funzioni di Senatore e di Deputato non danno luogo ad alcuna retribuzione od indennità», i deputati proletari si sarebbero trovati (ed Andrea Costa ne sapeva qualcosa) in una situazione economica insostenibile, fu stabilito che ai deputati operai sarebbe stata data una diaria da parte degli elettori proletari delle sezioni in cui erano stati eletti. L’eventuale deputato operaio entrava infatti in parlamento al servizio del partito e della sua classe, nella più totale estraneità del partito dai giochi della democrazia borghese.
Così come era iniziato, il Congresso terminò, con un indirizzo di solidarietà nei confronti dei contadini vittime della repressione e, per acclamazione, venne approvato il seguente o.d.g.: «Il congresso fa i più caldi voti perché presto risplenda di luce meridiana l’innocenza di quei generosi che da nove mesi gemono nelle carceri di Mantova per essersi dedicati all’emancipazione dei contadini».
Il giornale locale La Favilla (8 dicembre 1885) aveva dedicato il seguente saluto ai congressisti: «Ai bravi operai delle città sorelle, oggi ospiti carissimi della città dei Martiri [di “Belfiore” - n.d.r.], La Favilla, che da venti anni combatte strenuamente per l’emancipazione materiale e morale dei lavoratori tutti, dà di gran cuore un fraterno saluto e fa i più caldi voti perché il congresso operaio di Mantova segni una data incancellabile nella storia della redenzione del proletariato». E a commento del congresso scriveva: «Chi ha assistito alle varie sedute del congresso operaio (...) deve aver provato come noi un sentimento di vera compiacenza nel constatare che umili operai, costretti ad un incessante lavoro quotidiano, che si crederebbe debba atrofizzare ogni ispirazione, corretta e gentile, mantennero nella discussione una squisitezza di dire ed una profondità di concetti, sempre guidati, nel decidere le più importanti questioni, da un ammirabile sentimento di previdenza e d’esperienza che molte volte nelle adunanze dei più consumati congressisti vediamo difettare. Meritano speciale menzione, per la loro efficacia nel porgere, per la chiarezza delle idee, per le parole sgorganti franche e giudiziose senza apparato di rettoricume gli operai Lazzari, Dante, Croce, Mariani, e molti altri di cui non ricordiamo i nomi».
Ma, nonostante le ripetute proposte del P.S.R., e di Costa in particolare, di intraprendere un percorso di unificazione tra i due partiti, nessun progresso si poté registrare in questo senso; il Partito Operaio riteneva di essere l’unico legittimo rappresentante delle classi lavoratrici, anche se, come pure era costretto ad ammettere, era privo di una strategia rivoluzionaria che non poteva essere sostituita dalla pura e semplice lotta sindacale.
Conscio di ciò, in una conferenza tenuta a Cremona, nel febbraio 1886, Lazzari affermava: «La resistenza è proprio la nostra salvezza? Possiamo noi trovare giusta una eternità di lotta contro i capitalisti? È questo il vero carattere della vita umana? No: resistendo noi non combattiamo il nemico, resistendo noi vivremo in una continua alternativa di vittorie e di sconfitte, resistendo noi renderemo la nostra vita amareggiata dagli odi, da rancori, da collere tremende. Perciò la resistenza può essere il nostro mezzo non il nostro scopo. Il nostro scopo deve essere la nostra completa emancipazione. Emancipazione! Grande parola che vuol dire togliere il sistema dei padroni, dei capitalisti. Quando sarà possibile? Come si effettuerà? Noi non possiamo saperlo ma possiamo credere che essa soltanto sarà la nostra redenzione».
(Continua al prossimo numero)
(Continua del numero scorso)
(Indice)
La “Progressive Era”
All’inizio del secolo l’economia statunitense, ormai completamente riavutasi dalla grande depressione degli anni ‘90, si avviava verso un lungo periodo d’espansione destinato a concludersi con il boom degli anni della Prima Guerra mondiale. Nei quarant’anni dopo la guerra civile il paese si era trasformato da una nazione prevalentemente agricola, ed in gran parte ancora inesplorata, in una potenza industriale di prima grandezza. La vittoria riportata sulla Spagna nel 1898, nella guerra per il dominio su Cuba, e le successive annessioni di Porto Rico e delle Filippine, avevano mostrato al mondo intero che il giovane imperialismo americano doveva ormai essere considerato come uno dei protagonisti della scena internazionale. Se la sanzione della potenza politico-militare americana sarebbe venuta solo con il conflitto mondiale, il riconoscimento della sua forza economica era ormai un dato di fatto.
Già prima della fine del secolo la produzione industriale aveva raggiunto traguardi elevatissimi. Gli Stati Uniti avevano superato la Gran Bretagna nella produzione dell’acciaio e della ghisa nel 1890, e in quella del carbone nel 1895. All’inizio del secolo coprivano il 30% della produzione mondiale di manufatti, per passare al 36%, nel 1913, alla vigilia della guerra, abbondantemente al di là dei livelli raggiunti dalle altre grandi potenze industriali, la Gran Bretagna e la Germania. Sempre nel 1913, gli USA ottenevano il definitivo attestato statistico del proprio primato economico: in quell’anno infatti il prodotto nazionale lordo pro-capite superava anche quello della Gran Bretagna, sino ad allora la prima tra le nazioni per intensità industriale. Ma, cosa forse ancor più importante, gli Stati Uniti primeggiavano per il ritmo di crescita della loro economia, costantemente superiore a quello delle altre potenze industriali. Nel periodo compreso tra il 1870 ed il 1913 il tasso di crescita annuale della produzione per addetto era stato dell’1,9%, a fronte dell’1,6% in Germania, dell’1,4% in Francia, dell’1,0% in Gran Bretagna e dello 0,8% in Italia. Sempre nello stesso periodo, il tasso di crescita annuo del prodotto nazionale lordo per abitante era stato del 2,2%, nettamente superiore all’1,7% della Germania, all’1,4% della Francia, all’1,2% della Gran Bretagna ed allo 0,7% dell’Italia.
Lo sviluppo dell’economia statunitense nella seconda metà dell’Ottocento si accompagnò ad una vigorosa crescita della presenza sui mercati internazionali, soprattutto dopo la crisi degli anni ‘90. Il valore delle esportazioni quintuplicò nell’arco dei cinquant’anni compresi tra il 1860 ed il 1910, passando da 400 a 1.919 milioni di dollari: ma nei cinque anni successivi, dei quali gli ultimi due e mezzo di guerra in Europa, crebbe del 50%, raggiungendo nel 1915 i 2.966 milioni di dollari. Dagli anni ‘90 infatti imprenditori, finanzieri e dirigenti politici videro nell’espansione commerciale, nella conquista di nuovi mercati la soluzione indispensabile ai dilemmi posti dalla crescita. La fine del processo di colonizzazione interna, la cosiddetta “chiusura della frontiera”, indusse i capitalisti a cercare all’estero nuovi spazi per la collocazione delle eccedenze di merci e di capitali. Su tali basi fece i primi passi il giovane imperialismo americano. Innanzitutto consolidando il dominio, economico e politico, sulle Americhe, ed in secondo luogo cercando di estendere la propria influenza sull’area del Pacifico e dell’Estremo Oriente. La “dottrina della porta aperta”, enunciata dal segretario di stato John Hay nel 1899 a proposito della Cina, fornì a questa spinta espansionista una strategia generale fondata sul perseguimento della penetrazione economica in nuovi mercati piuttosto che sulla classica pratica coloniale della conquista territoriale. All’inizio del nuovo secolo dunque, gli Stati Uniti entravano decisamente nella competizione internazionale tra le grandi potenze. Vent’anni dopo, al termine della Prima Guerra mondiale, già si trovavano in una posizione di chiaro predominio.
Mentre il grande capitale conduceva questa avanzata epocale, nelle città si ammassava una classe operaia di recente formazione, le cui caratteristiche erano continuamente modificate, e addirittura sconvolte, dalle continue ondate migratorie provenienti dall’Europa. Le differenze prodotte dalle diverse esperienze vissute in patria si intersecavano e si sovrapponevano alle divisioni di carattere religioso, culturale ed etnico. Queste ultime poi divennero particolarmente rilevanti verso la fine del secolo e nei primi quindici anni del ‘900. Il flusso migratorio raggiunse infatti le punte più elevate, toccando la media di quasi un milione di arrivi l’anno nel periodo compreso tra il 1900 ed il 1914. Soprattutto in questo periodo divenne di gran lunga predominante l’afflusso dalle zone mediterranee od orientali dell’Europa di emigrati d’origine slava o latina, mentre nel secolo XIX gli immigrati erano stati per lo più di origine irlandese, tedesca o scandinava. Divenuta sempre più cara la terra, e sempre più rara la possibilità di lasciare l’Europa con un sia pur piccolo capitale, agli immigrati non si aprivano altre possibilità che la vita in un quartiere povero della città, lavorando in fabbrica, o quella in uno sperduto villaggio minerario. Nelle aree urbane si andavano quindi concentrando tutte le tensioni derivanti dall’impatto tra una classe lavoratrice estremamente composita e differenziata, ed un’industria che cresceva e mutava le sue caratteristiche sotto la spinta della meccanizzazione e della ricerca della massima efficienza.
Nel corso di quella che fu chiamata Progressive Era tutte le componenti sociali subirono una rapida evoluzione. La grande Corporation, in posizione di quasi monopolio, rappresentava l’antitesi dei precedenti ideali della democrazia americana di stampo rurale, le cui figure centrali, il farmer ed il piccolo commerciante indipendente, avevano dato vita alla cultura, ed ai miti, dell’individualismo. L’organizzazione dei Trust costituiva una minaccia mortale per quella cultura, perché la loro capacità di controllo del mercato e dei prezzi eliminava ogni possibilità, e anche parvenza, di libera concorrenza. In campo politico la concentrazione della ricchezza offriva la possibilità di corrompere e di controllare gli affari pubblici su di una scala fino ad allora impensabile. Per questo la lotta contro i Trust aveva costituito già negli ultimi decenni del secolo il principale obiettivo dell’agitazione populista di stampo rurale. Particolarmente radicato negli Stati agrari del Midwest, il movimento populista aveva richiesto, ed in parte ottenuto, intorno al 1890, un controllo pubblico sulle tariffe ferroviarie (Interstate Commerce Act) e misure di controllo sul rispetto delle regole della concorrenza (Sherman Act). Ma l’agitazione contro i Trust continuò a rimanere, almeno fino all’inizio del conflitto mondiale, uno dei temi centrali del politicantismo e la polemica antimonopolistica il primo argomento dei movimenti riformatori “progressisti”.
Esponenti delle vecchie élite dominanti come Theodore Roosevelt, intellettuali, professionisti, commercianti, in genere i membri più aperti della classe media e superiore, reagivano apertamente di fronte all’incalzante mutamento radicale di status che li minacciava. Mentre da un lato vedevano affermarsi il nuovo, arrogante potere di finanzieri ed industriali che, a capo di grandi imperi economici, accumulavano un enorme potere di condizionamento sulla vita del paese, dall’altro sentivano la minaccia di una classe operaia in crescita che tendeva ad organizzarsi in forti sindacati e, almeno potenzialmente, in un movimento alternativo di carattere socialista.
Di fronte agli sconvolgimenti sociali conseguenti all’impetuosa crescita di una economia industriale, l’agitazione di carattere “progressista” scelse la duplice via della denuncia di fronte all’opinione pubblica e della battaglia politica a livello locale e centrale. Nei primi anni del secolo divennero famosi i giornalisti soprannominati muckrakers (spalatori di letame): essi portarono alla luce numerosi scandali, abusi, episodi di corruzione nella vita pubblica delle città. Si diffuse con loro una pubblicistica di denuncia prima, e di analisi poi delle piaghe sociali prodotte dal boom dell’industria e dell’urbanesimo: quartieri fatiscenti, povertà, lavoro minorile e femminile in condizioni spaventose, infortuni sul lavoro. Ma, mentre attaccavano il grande capitale monopolistico, non perdevano mai di vista il pericolo rappresentato dalla classe operaia, della quale si temeva soprattutto l’organizzazione sindacale non controllata e la crescente presenza del socialismo, nelle diverse sue scuole.
Il grande capitale aveva ben chiari i suoi obiettivi: stabilità del sistema finanziario, prevedibilità dell’andamento del mercato, eliminazione degli effetti dannosi della concorrenza, eliminazione o riduzione dei conflitti del lavoro. Per questo le maggiori riforme, soprattutto a livello federale, finirono per essere appoggiate, e spesso disegnate e gestite, proprio dagli esponenti politicamente più “illuminati” del grande capitale finanziario ed industriale. Così la riorganizzazione del sistema bancario, attuata nel 1913 con il Federal Reserve Act, fu direttamente ispirata dai banchieri, che crearono una più elastica ed efficiente struttura del credito. Allo stesso modo, la regolamentazione della concorrenza nelle ferrovie, la nuova legge Clayton sui Trust, l’istituzione della Federal Trade Commission (preposta alla vigilanza su eventuali attività monopolistiche), la modifica delle tariffe protettive, furono tutte riforme varate con il consenso del grande capitale industriale. Gli uomini delle grandi Corporation parteciparono direttamente alla ideazione, ed alla progettazione di riforme che venivano presentate come un tentativo di controllo pubblico su alcuni aspetti della struttura economica. Ed erano loro quelli chiamati a far parte delle commissioni federali incaricate di far applicare le leggi di riforma. Si realizzava così quel controllo diretto delle maggiori concentrazioni economiche sullo Stato, quell’utilizzo degli strumenti politici in funzione di una “razionalizzazione” del sistema economico, definito “political capitalism”, quella guida dello Stato da parte del grande capitale, che è inevitabile col maturare del sistema di produzione capitalistico, ma che si tenta di nascondere per non mettere in evidenza la pratica esclusione dal potere degli altri ceti borghesi.
Il riformismo, un antidoto alla lotta di classe
La spinta “riformatrice” del grande capitale vantava, per contro, il grande merito di perseguire una “razionale” ed “efficiente” armonia tra le classi, e di prevenire così l’emergere di una classe operaia aggressiva ed organizzata, con tutti i pericoli che ciò avrebbe comportato.
Era, quest’ultima, una possibilità tutt’altro che remota, nei primi anni del secolo. Gli anni di espansione economica succedutisi alla crisi degli anni ‘90 avevano visto un vertiginoso moltiplicarsi di scioperi ed agitazioni dei lavoratori. Il numero degli scioperi ufficialmente registrati passò dai 1.098 del 1898 a 1.839 nel 1900; salì poi a 3.240 nel 1902 ed arrivò l’anno successivo ad un massimo storico di 3.648, che sarebbe stato superato solo negli anni della Prima Guerra mondiale. Gli iscritti ai sindacati, che alla fine degli anni ‘90 non superavano il mezzo milione, toccarono il milione nel 1901 e superarono i due milioni nel 1904. Non molti però in rapporto al totale dei lavoratori industriali, la percentuale dei membri dei sindacati essendo infatti 3,5% nel 1897, 4,4% nel 1899, 7,4% nel 1901, 11,3% nel 1903 e 12,3% nel 1904, l’anno con più iscritti. Nel periodo successivo avrebbe oscillato intorno al 10-11%, per riprendere a salire poi durante il conflitto.
Ma tre quarti degli iscritti facevano parte dei sindacati aderenti all’AFL, quella federazione della quale abbiamo già ampiamente parlato, i cui dirigenti erano fondamentalmente convinti che il benessere del lavoro fosse inevitabilmente connesso con quello del capitale.
Nel complesso, l’attitudine degli imprenditori si divise secondo due orientamenti politici nettamente differenti. Una parte cospicua delle aziende dette vita, a partire dal 1904, ad una vera e propria campagna, coordinata sul piano nazionale dalla National Association of Manufacturers, per allontanare ogni rappresentanza sindacale dalle aziende e colpire alla radice la forza delle Union. Fu una vera e propria offensiva generalizzata, che usò tutti gli strumenti repressivi possibili, sia statali sia privati, per ristabilire il più totale controllo padronale nelle aziende.
Altri settori industriali invece cercarono una linea diversa, alcuni esponenti delle maggiori Corporation, a cominciare da quelli legati alla casa finanziaria Morgan, pensando che la stabilità sociale, fuori e dentro la fabbrica, potesse essere più solidamente garantita attraverso il riconoscimento delle Union conservatrici a rappresentanza dei lavoratori, l’istituzione di una regolata contrattazione collettiva, la creazione di organismi di mediazione ed arbitrato dei conflitti di lavoro. A questo scopo nacque, nel 1900, la National Civic Federation (NCF). Abbiamo parlato in precedenza della nascita e delle attività di questa struttura che metteva insieme esponenti delle varie componenti sociali, con uno scopo chiaramente antiproletario e di collaborazione di classe. Essa simboleggiò l’aspirazione all’armonia sociale del movimento riformatore, ed in particolare dei settori più coscienti del grande capitale; sospinse l’AFL decisamente sulla strada della cooperazione.
Questa politica favorì il formarsi di ideologie e partiti di orientamento “riformatore” sulle questioni del lavoro. Nel 1912 questa mitologia fu portata anche sul piano elettorale, con la vittoria alle presidenziali di Woodrow Wilson, su di un programma, detto “Nuova Libertà”, di chiara impostazione “progressista”. Il partito socialista, Socialist Party of America, che era nato nel 1901 dalla convergenza del Social Democratic Party of America con elementi del Socialist Labor Party, ottenne il suo miglior successo, sfiorando il milione di voti.
Nei due anni successivi furono varate le riforme falsamente anti-monopoli che abbiamo citato sopra. Ma, soprattutto, l’affermazione dei democratici e la costituzione dell’amministrazione Wilson mutarono l’atteggiamento dello Stato nei confronti della classe operaia. Di fronte alla crescente conflittualità, l’esigenza di elaborare un’organica politica di stabilizzazione sociale spinse il governo a far propria la linea della “cooperazione” tra capitale ed organizzazioni dei lavoratori. Dapprima in modo incerto e sporadico, poi via via con maggiore organicità e determinazione, la responsabilizzazione della AFL e delle Union conservatrici al mantenimento della pace sociale ed all’incremento della produttività divenne una esplicita politica del governo. La guerra mondiale, con il moltiplicarsi del controllo dello Stato sulle sfere economiche e sociali della vita del paese, vide la piena affermazione di questa politica.
La legislazione del lavoro
Alla repressione delle lotte operaie, in particolare delle sue espressioni più radicali, si accompagnò la diffusione della contrattazione collettiva, col riconoscimento dei livelli sindacali dei salari e delle norme, e l’integrazione dei dirigenti delle Union negli organi di conciliazione dei conflitti di lavoro.
Misure quanto mai necessarie per la borghesia in quanto negli anni 1912 e 1913 negli Stati maggiormente industrializzati dell’Est emerse esplicita la radicalità dello scontro tra classe operaia e padronato. I settori più dequalificati della classe operaia, quelli di più recente immigrazione dall’Europa sud-orientale, esprimevano con forza le proprie rivendicazioni e la propria insubordinazione verso gli altissimi tassi di sfruttamento che la “razionalizzazione” produttiva portava con sé. Per accennare solo ai più noti, nel 1912 vi fu lo sciopero dei tessili a Lawrence, nel 1913 nell’industria della seta a Paterson, nell’industria della gomma ad Akron ed in quella dell’auto, alla Studebaker di Detroit. Si trattava del punto culminante di un ciclo di lotte decise che preoccupavano la borghesia industriale, la quale comprendeva che bisognava correre ai ripari, non basandosi più solamente sullo scontro diretto, ormai incapace da solo a tenere a freno gli strati più disperati della classe, soprattutto perché all’orizzonte, dal 1914, vi era il coinvolgimento nella Grande Guerra, e la necessità del riarmo preventivo, chiamato “preparedness”.
In questi anni la risposta riformistica alle lotte operaie, e più in generale all’agitazione sociale, riusciva a concretizzarsi in varie misure legislative, vantate dallo schieramento politico che ormai si atteggiava di “orientamento progressista”. Il Partito Democratico nella sua convenzione pre-elettorale accolse calorosamente la delegazione dell’American Federation of Labor, alla quale aveva lasciato praticamente il compito di scrivere la parte della sua piattaforma elettorale riguardante il mondo del lavoro.
La situazione apparve subito estremamente favorevole per i settori del grande capitale che dirigevano il movimento “progressista” e del quale erano l’anima, anche se in modo discreto e talvolta occulto. La NCF infatti costituiva un centro di ideazione e di elaborazione di quei progetti di riforma che interessavano le grandi Corporation ed uno degli strumenti più importanti attraverso cui intervenivano nel dibattito e nell’attività legislativa.
A tale quadro va aggiunto il rilevante successo ottenuto dal Partito Socialista, il cui candidato per la presidenza, Eugene Debs, ottenne circa 900.000 voti, poco meno del 6%, il più alto risultato nella storia del partito. Questa affermazione suonava minacciosa per il grande capitale e per tutti gli altri difensori del sistema economico e sociale, e contribuì quindi a stimolare le tendenze “riformatrici”.
Non tutto il multiforme schieramento padronale era favorito e condivideva questa politica di “riforme” che proveniva dalle Corporation e dal governo federale, e molti continuavano a preferire il tradizionale ed aperto atteggiamento antisindacale. Erano organizzati in centinaia e centinaia di associazioni locali, a cominciare dalle camere di commercio, ed in numerose organizzazioni di categoria, ma soprattutto disponevano di una forte organizzazione nazionale, la National Association of Manufacturers che, nata per far pesare sul governo l’esigenza di espansione del commercio estero, espresse poi una rigida e decisa posizione antisindacale. La NAM da un lato si occupava di organizzare e dirigere la violenta reazione di centinaia di imprenditori alle lotte operaie, dall’altro imbastiva campagne nazionali per l’open-shop e contro quella che essi definivano “una immorale legislazione classista”. La NAM utilizzava il suo potere di pressione sul piano locale, anche con la più smaccata corruzione; ma anche sul piano federale, con la creazione di apposite organizzazioni, un costume proprio della borghesia e che anzi tende ad istituzionalizzare.
Ma erano i tribunali a costituire il principale ostacolo alla attuazione delle iniziative “riformatrici”, e contro il loro atteggiamento verso le questioni sociali ed industriali si volgeva il malcontento popolare. Poiché la legge poneva i «diritti della proprietà privata al di sopra dei diritti personali e sociali», come lamentava Robert Hoxie, un noto riformista dell’epoca, molto spesso le corti annullavano leggi che riconoscevano un qualche diritto ai lavoratori dichiarandole incostituzionali, in base al 14° emendamento della Costituzione, proprio quello varato al termine della guerra civile per garantire i diritti e la libertà dei negri! Esso infatti stabiliva che nessun cittadino poteva essere privato «della vita, della libertà o della proprietà senza procedimento legale nella debita forma», e tale formula era usata dai giudici per invalidare qualsiasi legge che ponesse vincoli di sorta alla libertà dell’imprenditore.
Nella primavera del 1917, con la guerra alle porte, i “riformatori” presero il sopravvento e la Corte Suprema infine negò questa interpretazione del potere giudiziario: in pochissimo tempo emise una serie di sentenze che dichiararono costituzionali alcune delle più importanti misure varate in materia di legislazione del lavoro, sia a livello statale sia federale.
Molto estesa era anche la legislazione volta alla regolamentazione del lavoro minorile, dato che nel 1906 erano già ben 43 gli Stati ad aver votato misure in materia. Molte di esse erano però limitatissime se non addirittura formali e ridicole: nella Carolina del Sud ad esempio era stato votato un articolo che, dopo aver stabilito il limite di dodici anni per il lavoro infantile, permetteva eccezioni nel caso che ciò imponesse sacrifici alle famiglie!
Una vittoria solo apparente
La rivendicazione delle otto ore era fortemente condivisa e sostenuta da vigorose campagne sindacali. Anche perché i processi di ristrutturazione industriale investivano direttamente la gestione dell’orario, aprendo la questione anche da parte padronale. Però, se è proprio di questo periodo, dei primi mesi del 1914, l’introduzione delle otto ore alla catena della Ford, la stragrande maggioranza delle industrie continueranno almeno fino all’entrata in guerra a mantenere orari assai più lunghi, di dieci e spesso, come nell’acciaio, anche di dodici ore.
La questione dell’orario di lavoro restava quindi in questi anni affidata allo scontro diretto tra classe operaia e padronato, ed anche le misure legislative, che pure saranno votate a livello federale per alcune categorie, dovranno la loro origine, come vedremo, all’esigenza del governo d’intervenire per dirimere alcune importanti vertenze aperte.
Questo ampio sviluppo della legislazione del lavoro nel secondo decennio del secolo era dovuto a motivi complessi e spesso diversi, che riflettevano le differenti tendenze ed i differenti movimenti che, sul piano sociale, animavano il paese. Ma si possono individuare le ragioni di fondo che diedero vita al fenomeno.
La più importante, e soprattutto la più urgente, consisteva nell’esigenza di contenere l’impetuoso sviluppo dell’agitazione sociale e della lotta operaia. Più precisamente, vi era bisogno, da parte dei settori più coscienti del capitale e della classe dominante nel suo complesso, di deviare lo sviluppo dell’agitazione sociale dalle tendenze classiste ed anticapitalistiche, esemplificate, oltre che dai comportamenti di lotta di ampi settori della classe operaia, dalla crescita di un’organizzazione rivoluzionaria come gli Industrial Workers the World e dalle fortune del Partito Socialista.
D’altra parte molte di queste leggi avevano un’efficacia piuttosto relativa, e la loro funzione spesso non andò al di là della propaganda. La commissione sui minimi salariali istituita dal Massachusetts, ad esempio, non aveva poteri di sorta per costringere gli imprenditori ad applicare la paga minima che essa stessa aveva stabilito: poteva solo pubblicare degli elenchi degli imprenditori renitenti per sottoporli alla pubblica disapprovazione, niente di più. In altre situazioni, dove pure la legge aveva carattere obbligatorio, la sua efficacia era ridotta al minimo per il fatto che i livelli fissati non erano legati alle variazioni dei prezzi per cui, in tempi di aumento del costo della vita, le quote fissate divenivano presto più basse dei salari realmente applicati. A ciò deve essere aggiunta l’azione che il padronato poteva esercitare in ogni Stato, sia attraverso la pressione sugli organismi legislativi sia attraverso la presenza dei suoi rappresentanti all’interno delle commissioni incaricate di stabilire il livello dei minimi salariali. Della legislazione gli imprenditori poterono sfruttare gli aspetti politici e propagandistici a loro favorevoli senza per questo dover pagare costi particolarmente alti, né essere forzati ad introdurre grandi modificazioni nelle loro aziende.
Nel campo della legislazione del lavoro e di carattere sociale per il capitale il problema era, quindi, quello di prevenire delle soluzioni di carattere radicale, senza opporsi al movimento riformista ma, al contrario, standoci dentro e cercando di influenzarlo, di orientarlo verso disposizioni consone alle proprie esigenze. Il caso della workmen’s compensation (cioè garanzie e indennizzi nel caso di infortuni sul lavoro) è estremamente indicativo in tal senso. Molte grandi aziende, anche ferocemente antisindacali, avevano già varato programmi di assicurazione antinfortunistica, sia perché era una misura che non poteva più essere evitata, a pena di dare un’ulteriore ragione allo scontro sociale, sia per aumentare la dipendenza del lavoratore dall’azienda. La legislazione non fece che prenderne atto estendendola a tutte le aziende e, soprattutto, sollevando le aziende dai relativi oneri.
Pregnante il parallelo circa questi interventi di tipo “sociale” con le analoghe misure prese dagli Stati europei, a regime democratico o meno, qualche anno dopo: prevenzione, assistenza, disciplina del lavoro femminile e minorile, valorizzazione del lavoro domestico e del ruolo della casalinga, ecc.
Nel complesso, le varie misure della legislazione sociale e del lavoro, pur traendo la loro origine dalla crescita delle lotte operaie e dalla minaccia che costituivano per l’intero assetto sociale, furono determinate nel loro contenuto e realizzate proprio dai settori più coscienti del grande capitale.
L’atteggiamento dell’AFL verso la legislazione del lavoro fu sempre ben differenziato, in funzione degli interessi della bottega sindacale. I suoi dirigenti infatti vedevano nell’azione riformatrice dall’alto uno svuotamento del ruolo dei sindacati “per bene” ed un loro esautoramento. La AFL tendeva a restare arroccata su quell’ideologia e su quella pratica di sindacalismo “puro e semplice” su cui aveva basato i suoi successi. Ciò faceva sì che la linea della Federazione in merito alla legislazione del lavoro fosse inizialmente rifiutare ogni misura volta ad intervenire su problemi o in settori della classe operaia dove le Union erano presenti o contavano di poter arrivare ad organizzare i lavoratori. Questo voleva dire rifiutare pressoché tutte le leggi volte a regolamentare in qualche modo le condizioni di lavoro degli operai maschi adulti, ovvero del settore su cui le Union di mestiere si basavano ed a cui si rivolgevano.
Ad esempio l’AFL si opponeva apertamente alle leggi per la limitazione dell’orario di lavoro per gli uomini, poiché voleva che tale questione fosse risolta solo e soltanto dalla contrattazione diretta con gli imprenditori, dalla lotta sindacale. Viceversa favoriva, e spesso si impegnava direttamente per la promulgazione di leggi volte a regolamentare le condizioni di lavoro in quei settori dove non giungevano le Union o per limitare la concorrenza agli operai da loro organizzati: così la Federazione s’impegnò affinché i dipendenti pubblici, tra i quali il divieto di scioperare rendeva impossibile una forte presenza sindacale, ottenessero attraverso delle apposite leggi del Congresso l’orario di otto ore, i minimi salariali e la workmen’s compensation. Anche la battaglia per la regolamentazione del lavoro minorile vide l’AFL ampiamente impegnata ed attiva, dato che la sua diffusione era uno strumento efficacissimo per tenere bassi i salari ed esercitare con maggior forza il ricatto della disoccupazione sui lavoratori adulti.
Nel campo della limitazione dell’orario di lavoro per le donne poi l’AFL fu sempre in prima fila, e addirittura giunse, come in California, a promuovere essa stessa i progetti di legge. Diversi motivi stavano dietro a questo atteggiamento. In primo luogo le Union non organizzavano, né avevano intenzione di farlo, le donne, ed in particolare la gran massa delle lavoratrici dequalificate cui la legislazione era principalmente rivolta. Inoltre, da parte dei dirigenti delle Union e della Federazione, c’era una certa convergenza ideologica e politica con i progetti capitalistici di limitazione del lavoro femminile e di ribadimento della sottomissione familiare. Nelle organizzazioni operaie di mestiere era piuttosto radicata una reazionaria opposizione allo sviluppo del lavoro femminile, e numerose erano state le battaglie condotte contro l’assunzione di donne nelle fabbriche. Riguardo all’istituzione di minimi salariali per le donne, invece, l’AFL si trovò contro, o si limitò a dare un sostegno puramente formale al movimento: questo perché erano convinti che livelli salariali minimi per le donne avrebbero rimesso in discussione le tabelle sindacali anche per gli uomini e indebolito le Union.
Negli anni della prima presidenza Wilson però l’atteggiamento della Federazione cominciò lentamente a mutare. È importante ricordare che le Union basavano la propria forza, e spesso la loro stessa esistenza sulla capacità di esercitare un controllo pressoché monopolistico (e di qui la tendenza ad istituire il closed-shop) del mercato del lavoro mestiere per mestiere, lasciando perciò fuori l’enorme massa dei lavoratori dequalificati. Sarà proprio lo sviluppo delle lotte e della organizzazione operaia nei settori dequalificati, in aperto antagonismo con l’AFL e le Union di mestiere, ad avere un peso determinante nel far loro mutare posizione ed accettare la politica “riformistica” del capitale, per il comune interesse ad evitare l’estendersi di queste lotte. Nel complesso rimase però abbastanza salda la posizione di contrasto ad ogni regolamentazione legislativa dei principali aspetti delle condizioni di lavoro, e innanzitutto dell’orario e dei minimi salariali, a proposito dei lavoratori maschi adulti.
Ma una sintonia crescente tra AFL e governo si concretizzò nel 1913 con la chiamata a dirigere il Dipartimento del Lavoro, appena istituito, di William B. Wilson, un ex-dirigente del sindacato dei minatori che Gompers aveva proposto per la carica. A questo punto quindi, nel momento in cui l’avvio della campagna per la “preparedness” e, soprattutto, l’inizio di un ciclo di lotte operaie di grandi dimensioni mutano il quadro sociale. Tra la Federazione ed il governo erano maturati rapporti tali da far passare in secondo piano la tradizionale sfiducia dei vertici della AFL nell’intervento dello Stato nei problemi del lavoro. Nel 1916 il mutamento diventò palese ed esplicito: mentre la campagna di mobilitazione economica ed ideologica del paese in vista di un possibile ingresso in guerra consolidava la cooperazione tra Union e governo, la diffusione di una massiccia ondata di scioperi costringeva il governo a scelte più chiare ed esplicite nella sua politica del lavoro.
Verso la guerra: gli scioperi e il paternalismo presidenziale
Lo scoppio della guerra in Europa aveva riversato sull’industria statunitense una domanda tale da superare la crisi del 1914 ed avviare, a partire dalla primavera del 1915, una consistente ripresa economica; al tempo stesso essa aveva prodotto un calo vertiginoso dell’immigrazione. Il risultato di questi due fenomeni fu una rapida scomparsa della tradizionale riserva di forza-lavoro ed un conseguente rafforzamento del potere contrattuale della classe operaia.
Dai 737 scioperi del 1914 si passò ai 658 del primo semestre del 1915 ed ai 675 del secondo semestre. Nel 1916 poi le cifre salgono in modo costante: 111 scioperi nel mese di gennaio, 195 a febbraio, 189 a marzo, 329 ad aprile, 461 a maggio. È un ciclo di lotte che durerà fino all’entrata in guerra degli Stati Uniti e, sia pure in diverse condizioni, anche durante la guerra stessa, esprimendo una forza e spesso una unità tra differenti categorie operaie, tra immigrati e non, tra lavoratori qualificati e dequalificati, che tendeva a superare vecchie divisioni.
In questo clima, nell’estate del 1916 il governo si trovò di fronte ad una vertenza aperta dalle quattro Brotherhood (fratellanze), che organizzavano oltre 350.000 lavoratori delle ferrovie, con tutte le compagnie per ottenere l’orario di otto ore, una percorrenza massima giornaliera di 100 miglia ed il pagamento degli straordinari al 50% in più della normale paga oraria, per tutto il personale dei treni merci. Di fronte al rifiuto delle compagnie ed alla decisione sindacale di indire uno sciopero che avrebbe paralizzato l’intera rete dei trasporti, Wilson intervenne personalmente con un proprio progetto di mediazione. Ma le compagnie rifiutarono il piano e le Brotherhoods. Lo sciopero era fissato per il 4 settembre.
A questo punto il presidente, non avendo altri mezzi per impedire la paralisi dei trasporti derivata dallo sciopero, si presentò direttamente al Congresso, il 29 agosto, chiedendo ai parlamentari di decidere immediatamente di 1) ristrutturare ed allargare lo Interstate Commerce Commission, l’organo che presiedeva alla regolamentazione del sistema ferroviario, 2) istituire un orario di otto ore per tutti i lavoratori delle ferrovie interstatali, 3) istituire una commissione d’inchiesta sui risultati ed i costi d’applicazione dell’orario di otto ore, 4) dare il proprio consenso ad una riconsiderazione delle tariffe ferroviarie delle merci da parte della ICC dopo l’introduzione delle otto ore, 5) rendere obbligatoria l’inchiesta sulle dispute di lavoro nelle ferrovie prima che potessero essere dichiarati scioperi o serrate, 6) affidare al presidente il potere di controllo sulle ferrovie e di organizzazione del personale in caso di necessità militari.
L’aspetto più importante di tutta la proposta era evidentemente la ricerca esplicita di un modello di relazioni sindacali controllato dall’alto. Di fronte alle critiche degli ambienti più tradizionali Wilson rispose: «Mi è sembrato, considerando l’oggetto della controversia, che l’intero spirito del momento, e l’evidenza della recente esperienza economica, parlino in favore della giornata di otto ore», laddove per “spirito del momento” si deve intendere la forza del movimento di lotte in corso nel paese, e per “recente esperienza economica” le ormai tutt’altro che trascurabili ristrutturazioni produttive che comportano, a volte, la riduzione dell’orario. È insomma la prima importante anticipazione della politica del lavoro che il governo adotterà nel corso della guerra, fondata sulla efficienza industriale e sull’inserimento a pieno titolo del sindacato in un meccanismo di contrattazione collettiva controllato dall’alto. La fretta costrinse il Congresso ad affrontare solo il problema dell’orario, e la proposta del presidente fu accolta. Lo sciopero fu scongiurato e si aprì un periodo in cui l’intervento del governo e dello Stato nelle questioni del lavoro non solo diverrà costante.
L’AFL accettò la legge senza fare una piega, soddisfatta dell’orientamento pro-Union del governo. I dirigenti della Federazione, a questo punto, erano pronti ad accogliere, e a sollecitare, l’attività normativa delle condizioni di lavoro e dei salari che nel corso della guerra il governo avrebbe imposto. Eppure erano passati appena tre anni da quando Gompers aveva perentoriamente affermato: «Io spero che non verrà mai sulla faccia della Terra il momento in cui saranno l’autorità ed il potere del governo a fissare i minimi salariali, o l’orario massimo, almeno per i lavoratori maschi».
La svolta, come si vede, fu piuttosto radicale e trova le sue ragioni, oltre che nel pericolo costituito per l’AFL dallo sviluppo di lotte operaie e di organizzazioni di classe che ne minacciavano l’esistenza stessa, dal mutato atteggiamento del governo nei confronti delle Union e delle loro rivendicazioni in vista del riarmo e della guerra. Come sappiamo la democrazia è la migliore culla del militarismo.
Da anni gli uomini della NCF, dirigenti sindacali e gli esponenti più intelligenti del grande capitale si battevano per la divisione del movimento operaio, per il pieno riconoscimento ed integrazione delle sue componenti conservatrici, per lo sviluppo di una pratica di contrattazione collettiva ordinata e “costruttiva”, per l’isolamento e la repressione dei comportamenti e delle organizzazioni antipadronali espresse da settori considerevoli della classe operaia. Negli anni che separano l’ascesa di Wilson alla presidenza dall’ingresso in guerra questa linea fu progressivamente fatta propria dal governo e dalle altre strutture dello Stato, fino alla Corte Suprema, ed ispirò i caratteri di fondo della legislazione del lavoro. La stessa iniziale opposizione padronale a questo teatrino, esemplificata dalla NAM e da organizzazioni consimili, si modificava, e affettò accettazione della legislazione di carattere sociale, con il conseguente sfruttamento dei vantaggi di immagine che comportava, mentre, ovviamente, continuava a boicottarne gli effetti pratici.
Il nuovo atteggiamento in cui lo Stato borghese si compiacque presentarsi traspare dai discorsi per l’elezione di Wilson nel 1912, nei quali egli espose il suo programma di “New Freedom” e si mostrò paladino del lavoratore indifeso nei confronti del big business.
Si tentava di far fronte alla crescita delle lotte operaie attraverso l’istituzione di un sistema di rapporti di “cooperazione” tra il capitale ed i settori moderati delle organizzazioni dei lavoratori, un sistema di relazioni “ordinate”, prevedibili e controllabili tra lavoratori ed aziende, fondato su di una contrattazione collettiva “costruttiva”, tesa all’efficienza e all’innalzamento della produzione.
Era per l’AFL l’occasione per vedere realizzate le riforme che aveva sin dal 1906 presentato al Congresso, il “Bill of Grievances”. Esso comprendeva la richiesta di una legislazione completa sulle otto ore per tutti i dipendenti del governo, alcune misure di restrizione dell’immigrazione, un progetto di legge per la protezione dei lavoratori dalla concorrenza del lavoro forzato e varie misure per il miglioramento delle condizioni di lavoro dei marinai che sarebbero poi confluite nel La Follette Seamen’s Act; ma i suoi punti principali riguardavano le questioni connesse al diritto dei lavoratori di organizzarsi collettivamente e di intraprendere azioni di lotta.
Il primo punto del Bill richiedeva una legge che impedisse l’uso della injunction (ingiunzione giudiziaria) da parte dei tribunali contro le lotte o altre attività sindacali, il principale strumento di intervento repressivo nei confronti dei lavoratori e delle loro organizzazioni. Il giudice poteva imporre l’interruzione di una qualche azione quando minacciasse di comportare “un danno irreparabile” ad una proprietà; la non osservanza implicava l’incriminazione per oltraggio alla corte e l’immediata incarcerazione. Questo temporary restraining order (ordine restrittivo temporaneo) era emesso da un giudice senza udienze o avvisi di sorta, sulla base di una semplice denuncia, cioè dell’opinione dell’imprenditore e della sua versione dei fatti; con una rapidissima procedura era un formidabile strumento d’intervento contro uno sciopero od un’altra azione fin dai primi passi. Delle posizioni filopadronali dei giudici non si può dubitare: nelle sole corti federali per il periodo tra il 1901 ed il 1921 i magistrati concessero una ingiunzione su richiesta dell’imprenditore ben 70 volte e la rifiutarono solo una volta! Quello che doveva essere un “rimedio straordinario” divenne, nell’attacco alle lotte operaie ed alle loro organizzazioni, un provvedimento abituale usato nelle occasioni più disparate.
In altra parte del Bill si chiedeva che fosse resa più severa la legislazione sui Trust e che se ne escludesse l’applicazione alle organizzazioni dei lavoratori, cioè che potesse essere usata contro i sindacati una legge nata per punire ogni restrizione e limitazione del commercio. Lo Sherman Act del 1890 infatti era stato usato ben più per colpire le organizzazioni operaie che per perseguire e sciogliere i Trust. Le corti federali avevano il potere di incriminare i dirigenti delle organizzazioni dei lavoratori ogni volta che si ravvisasse in qualche azione di lotta una “limitazione” al commercio e alla concorrenza, e ciò evidentemente, grazie alla genericità della legge, occorreva sempre.
In ogni numero dell’ “American Federationist” si susseguivano articoli che, oltre ad illustrare gli innumerevoli abusi commessi dalle corti, cercavano di convincere della necessità di una disciplina giuridica più liberale verso le organizzazioni dei lavoratori. L’argomento più usato era la minaccia di una forte crescita del radicalismo e dell’agitazione operaia nel caso che le Union continuassero ad essere indebolite e perseguitate. L’AFL, sottolineando come la repressione dei sindacati “responsabili” e “costruttivi” alimentasse la sfiducia dei lavoratori nel sistema democratico e nella cooperazione per lo sviluppo economico, si offriva così apertamente come l’organizzazione che poteva garantire la stabilità sociale e sviluppare il consenso di massa al regime del capitale. Gompers, con una franchezza impressionante, scriveva: «Se non concedete il pieno diritto d’associazione alle masse lavoratrici del nostro paese, dovrete vedervela con altri elementi che non vi lasceranno dormire così tranquilli e con così poche preoccupazioni».
Due metodi, uno scopo
Al solito, la borghesia non era unita sul rapporto da tenere con i sindacati: abbiamo visto che la piccola e media imprenditorialità facevano capo alla NAM ed alla Anti-boycott Association. Questi ultimi, oltre ad opporsi al progetto complessivo del governo e delle grandi Corporation, non intendevano privarsi di nessuno strumento per la repressione delle Union. Viceversa l’atteggiamento dei più acuti tra i dirigenti delle Corporation era probabilmente già ispirato all’idea di concedere alle Union i diritti legali che esse reclamavano, proprio per portarle sempre di più su di un terreno di collaborazione e per favorire un atteggiamento di responsabilità nei confronti dell’ordine sociale. Ma soprattutto per garantirsi dallo sviluppo di organizzazioni radicali e classiste dei lavoratori, per le quali una presenza diffusa e solida delle Union di mestiere costituiva un ostacolo non piccolo. Queste diverse politiche derivavano, oltre che da una maggiore lungimiranza dei dirigenti delle Corporation, anche dal fatto che questi potevano permettersi un simile atteggiamento in virtù della loro forza economica e politica, che consentiva loro di addomesticare con successo le Union all’interno delle proprie fabbriche, mentre i piccoli imprenditori avevano una maggiore necessità dell’intervento repressivo dello Stato per poter vincere le loro battaglie antisindacali.
Una legge viene infine promulgata nell’ottobre 1914 (Clayton Act), che legittima l’esistenza delle Union: l’American Federation of Labor esulta per ciò che ritiene la più grande affermazione della sua attività legislativa, e Gompers definirà il Clayton Act come la “Magna Charta” dei lavoratori. In realtà si trattava di un successo poco più che formale, poiché la legge, molto vaga, pur volendo dimostrare un atteggiamento aperto dello Stato verso le organizzazioni dei lavoratori, non avrebbe comportato certo una diminuzione della repressione contro di esse, o meglio, contro gli scioperanti, quando il momento lo avesso richiesto. Tanto è vero che i procedimenti contro i sindacati per la violazione della legge sui Trust finirono per essere in numero maggiore nei ventiquattro anni successivi alla emanazione della legge Clayton che non nei ventiquattro precedenti, in cui era in vigore la sola legge Sherman. In pratica era solo l’esistenza delle Union ad essere dichiarata legale, mentre qualsiasi loro attività, come il boicottaggio o la pubblicazione di liste degli imprenditori antisindacali, poteva tranquillamente ricadere in quella categoria di azioni volte a “limitare il commercio” che la legislazione antitrust intendeva punire. In fondo l’unico risultato reale era proprio quello a cui quelle organizzazioni corrotte tenevano.
È sintomatico il modo con cui lo stesso Wilson era intervenuto nell’estate del 1914 in due conflitti del lavoro piuttosto gravi e pressoché contemporanei, poco dopo l’approvazione della legge Clayton. In occasione di una vertenza tra le Brotherhoods delle ferrovie e le Compagnie ferroviarie a proposito dei salari e delle condizioni di lavoro in 98 linee dell’Ovest, Wilson non esitò ad intervenire presso i dirigenti delle ferrovie invitandoli ad accettare un piano di mediazione; la loro intransigenza infatti, dopo aver fatto fallire un tentativo di mediazione, avrebbe potuto portare ad uno sciopero. In quest’occasione comparve per la prima volta da parte del presidente l’appello alla responsabilità per l’emergenza nazionale determinata dalla guerra, ed il suo intervento indusse sì le compagnie ferroviarie ad accettare un arbitrato, che però si rivelerà ampiamente sfavorevole alle Brotherhoods su quasi tutti i punti della vertenza.
Ma pochi mesi dopo, nel novembre dello stesso anno, quando una lotta dei minatori dell’Arkansas guidata dalla United Mine Workers si trovò di fronte l’ingiunzione di una corte federale contro i picchettaggi (e per di più si vide nominare come esecutore delle disposizioni del tribunale nientemeno che uno dei proprietari della miniera), Wilson operò diversamente e non ebbe incertezze nel venire incontro alla richiesta del giudice inviando sul posto delle truppe per garantire che l’ordinanza fosse rispettata. Avallò così il comportamento apertamente antisindacale dei magistrati e, per evitare che la lotta dei minatori potesse comunque ignorare l’ingiunzione, ordinò alle truppe federali di sciogliere senza esitazione ogni “riunione illegale” nel territorio del distretto. Insomma, la sostanza della repressione delle lotte proletarie non cambiava, era solo demandata agli organi centrali dello Stato borghese, e tolta all’arbitrio dei piccoli o medi capitalisti, e dei tribunali locali, che con la loro avidità e grettezza potevano mettere inutilmente in pericolo la pace sociale.
Quindi tutto il complesso di raffinati strumenti di repressione antisindacale, a cominciare dall’ingiunzione, continuò a rimanere più che legittimo e disponibile, pronto per ogni situazione, e soprattutto funzionale a ricordare sempre ai sindacati gialli che il loro attuale potere dipendeva dalla loro disponibilità alla cooperazione, dalla loro attiva partecipazione all’opera di stabilizzazione dell’ordine economico e sociale in cui il grande capitale e lo Stato si stavano impegnando, in vista della partecipazione americana al grande macello che già divorava l’Europa.
Parte terza - Il capitalismo
F - Il Risorgimento italiano
1. La Prussia e l’unificazione tedesca
Non è certamente per gli insegnamenti nell’arte della guerra e della diplomazia che possiamo trarre dallo studio di questo breve evento militare sul fronte italiano, altrimenti ricordato come la “guerra delle sette settimane”, che ce ne occupiamo, anzi questo è l’ennesimo esempio di come non si conduce seriamente una campagna militare. Completamente di segno opposto quello sul fronte prussiano.
Il processo di unificazione italiana contro l’Austria, la principale potenza straniera occupante, prosegue fin qui perdendo o conseguendo in limitati episodi sui campi di battaglia, escludendo le vittorie di Garibaldi su fronti secondari e l’impresa nel Regno delle Due Sicilie. Fu più frutto delle diplomazie europee in direzione anti-austriaca e della necessità dello sviluppo capitalistico in Europa che dell’abilità dello Stato Maggiore italiano su questo che correttamente deve essere inteso come il fronte meridionale della più importante guerra austro-prussiana del 1866.
Dal Congresso di Pace di Vienna del 1815, come già riferito, era derivato un assetto dell’Europa in funzione antifrancese e per contrastare il suo espansionismo, ben espresso nel periodo napoleonico dal raggrupparsi delle piccole entità statali, pur rimanendo ancora significative frammentazioni nel meridione di Europa, in l’Italia, e al nord-est, nella Germania. Ma le necessità di sviluppo industriale e capitalistico spingevano per una rapida unificazione di questi due Stati, che hanno però seguito diverse strade specialmente per le oggettive differenze storiche ed economiche. Già a suo tempo l’abile Cavour aveva indicato nella Prussia il miglior alleato della causa italiana in funzione anti-austriaca, avversario comune alle rispettive unità nazionali, ed emissari ad alto livello dei due Stati avevano allo scopo continui contatti. Occorreva attendere il momento più opportuno.
Il presente studio è utile sia a comprendere la guerra franco-prussiana, che seguirà l’austro-prussiana di soli 4 anni, ma ancor più la Prima Guerra mondiale del 1914, che ripropose simili schemi di mercanteggio di alleanze con l’Italia.
La Confederazione Germanica era nata al Congresso di Vienna come libera associazione di 39 Stati indipendenti e sovrani, tra grandi e piccoli, comprese 4 Città libere. Escludendo le Fiandre, all’epoca parte del Regno dei Paesi Bassi, aveva gli stessi confini del Sacro Romano Impero dopo la pace di Vestfalia, che aveva posto fine alla Guerra dei Trent’anni nel 1648; per questo ne era esclusa buona parte dei territori della Prussia e dell’Impero d’Austria. Era presieduta dall’imperatore d’Austria; l’articolo 2 dell’Atto costitutivo gli attribuiva il fine di «mantenere la sicurezza interna ed esterna della Germania e l’indipendenza e l’integrità degli Stati tedeschi». Come tutti i disegni artificiali della diplomazia, se da un lato poneva le basi di alleanze interne dall’altro non risolveva due grosse contraddizioni: differenti organizzazioni statali, alcune di tipo feudale fondate su princìpi assolutistici altre su basi costituzionali, avrebbero presto generato conflitti nel processo della loro associazione e trasformazione in senso liberale; l’altra, più dirompente, era la lotta per l’egemonia tra Prussia e Austria, entrambe espressione della reazione, che avrebbe condotto ad un loro scontro diretto.
Nella Tavola, in neretto i confini della Confederazione germanica.
Primo atto di integrazione economica era stata l’unione doganale del 1818 fra gli Stati prussiani, che aveva abolito i dazi interni e favorito l’importazione di manufatti inglesi a basso costo, in particolar modo quelli che richiedevano materie prime importate. La Prussia in questo modo aveva creato le basi del suo rapido sviluppo economico e commerciale, diventando il centro di aggregazione di tutti gli altri Stati della Confederazione e provocando al contempo il declino e in alcuni casi il fallimento di quelli più deboli, che chiesero di entrare a far parte di quel sistema. Lo Zollverein, la unione doganale tra i paesi membri si estese nel 1834 per raggiungere tutti nel 1842, insieme alla rivoluzione industriale; ma escluse l’Austria che proteggeva fortemente le sue industrie, fatto che aumentò il contrasto tra i due paesi, a conferma delle cause economiche dei conflitti. Bismarck non avrebbe potuto operare con tanta determinazione e sicurezza se non dopo 30 anni di Zollverein!
Il potere politico era saldamente tenuto dagli Junker, l’aristocrazia terriera, che forniva i vertici militari e della burocrazia statale e nelle cui terre i contadini erano ancora soggetti alla servitù della gleba. A commento della fallita rivoluzione del 1848 così Engels critica: «Una classe commerciale e industriale che è troppo debole e dipendente per prendere il potere e governare nel suo diritto e che perciò si getta nelle braccia dell’aristocrazia terriera e della burocrazia reale, scambiando il diritto di governare con il diritto di fare soldi». Erano praticamente ininfluenti le classi medie, e duramente represse dalle truppe prussiane le masse contadine e operaie che chiedevano miglioramenti delle loro condizioni: «In Germania la popolazione rurale è di due volte più consistente della popolazione cittadina, cioè 2/3 vivono dell’agricoltura, 1/3 dell’industria. E poiché in Germania la grande proprietà fondiaria è la regola e la coltivazione di piccoli appezzamenti l’eccezione, ciò può esprimersi con altre parole dicendo che se 1/3 dei lavoratori sono ai comandi del capitalista, 2/3 sono ai comandi del signore feudale (...) In Germania i feudatari sfruttano i lavoratori il doppio di quanto non facciano i borghesi: sono in Germania avversari diretti degli operai quanto lo sono i capitalisti» (“La questione militare prussiana e il partito operaio tedesco”, 1865).
Sempre da questo opuscolo, sappiamo che la popolazione del regno di Prussia, che si era accresciuto, passò dai 10 milioni del 1810 ai 18 del 1861. In questo contesto lo sviluppo industriale dal 1848 crebbe in modo vertiginoso; grazie ai giacimenti di ferro e carbone della Ruhr e della Slesia l’industria siderurgica e meccanica progredì rapidamente in quantità e qualità e l’industria chimica divenne la prima al mondo. Lo sviluppo della rete ferroviaria in tutta la Germania passò dai 3 mila chilometri del 1848 agli 11 mila del 1860 ai 16 mila del 1867. Le acciaierie Krupp produssero acciai di qualità ancora mai ottenuta che trovarono subito impiego nel materiale rotabile ferroviario ma soprattutto nel 1851 realizzarono la prima fusione di un cannone a canna rigata in acciaio. Fu anche prodotto a scala industriale il primo fucile a retrocarica a canna rigata fornendo alle truppe prussiane un immediato enorme vantaggio tecnico.
Anche in agricoltura vi fu una forte accelerazione produttiva. Il 2 marzo 1850 fu approvata in Prussia una nuova legge sul riscatto e il regolamento dei rapporti tra proprietari fondiari e contadini: aboliva senza riscatto un limitato numero di piccole prestazioni obbligatorie feudali ma prevedeva a costi particolarmente alti la possibilità del riscatto dei canoni e delle prestazioni feudali. Engels scrisse: «La somma pagata dai contadini alla nobiltà e all’erario per liberarsi da prestazioni obbligatorie imposte illegalmente su di loro raggiungeva per lo meno i 300 milioni di talleri, e forse un miliardo di marchi». (“Per la storia dei contadini prussiani”). Questi enormi capitali, con l’introduzione massiccia delle nuove macchine agricole, accelerarono la trasformazione in senso capitalistico delle antiche tenute agrarie feudali, col favore anche degli alti prezzi del grano sul mercato mondiale negli anni ’50 e del grande rendimento della patata, particolarmente richiesta sia per l’alimentazione che per la produzione di alcool.
Guglielmo I salì sul trono di Prussia nel 1861, sostenuto dagli junker, che spingevano per allestire un esercito di 400 mila uomini; l’anno successivo nominava Primo ministro Otto von Bismarck, grande proprietario fondiario della Pomerania noto per il suo spiccato nazionalismo e carattere forte e deciso. Questo passo sintetizza il suo programma di unificazione della Germania: «Non al liberalismo della Prussia guarda la Germania, ma alla sua potenza (...) Non coi discorsi né con le delibere a maggioranza si risolvono le grandi questioni della storia – ciò fu un errore del 1848 e del 1849 – ma col ferro e il sangue». Occorreva preparare le condizioni militari e diplomatiche per questo programma di unificazione germanica dall’alto, a spese dell’ Austria.
All’interno della Germania non avevano alcun peso né il proletariato tedesco, influenzato dalle posizioni democratiche di Lassalle, né la timida borghesia liberale.
2. I preparativi diplomatici e militari prussiani e italiani
Conscio dei rapporti di forza tra le potenze europee, al momento sfavorevoli alla Prussia, Bismarck operò su vari fronti cercando di evitare eventuali blocchi anti-prussiani, in particolar modo temeva un’alleanza russo-francese che lo avrebbe impegnato su due fronti.
Ma nel 1861 i rapporti russo-francesi si incrinarono per l’ostruzionismo francese a rivedere alcuni pesanti e umilianti articoli del trattato di pace di Parigi del ’56, a seguito della guerra di Crimea. Contemporaneamente anche i rapporti tra Francia ed Inghilterra risentivano fortemente della lotta per le colonie, le loro diplomazie erano così distolte dalla Prussia. La neutralità di Napoleone III fu di seguito ottenuta da Bismarck con fumose “compensazioni territoriali” in Europa.
Puntando sul forte risentimento della Russia contro l’Austria, una volta apparentemente solide alleate, per la condotta dell’Austria nella guerra di Crimea, Bismarck sfruttò la rivolta in Polonia del 1863 per proporre una reciproca alleanza con lo zar Alessandro II in funzione anti-polacca. Anche se non fu mai attuato tale accordo servì allo scopo.
Nel 1864 la Prussia si alleò con l’Austria per risolvere militarmente la questione della Danimarca. Il controllo delle vie marittime e delle città portuali nei ducati di Schleswig-Holstein, con maggioranza di popolazione tedesca, era stato motivo di conflitti nei secoli. La guerra del 1848, iniziata per l’unificazione tedesca, si era risolta a favore della Danimarca, sostenuta dal grande Stato svedese-norvegese, preoccupato di un suo eventuale smembramento, con una cocente sconfitta della Prussia. L’accordo con l’Austria del 1864 prevedeva una spartizione di postazioni importanti per i traffici di entrambi.
La guerra fu rapida per la superiorità delle forze e dell’organizzazione austro-prussiana. Per evitare che il conflitto arrivasse all’interno della Danimarca questa chiese, dopo la sconfitta di Dybbol, un armistizio che di fatto chiuse le operazioni militari. Anche se i meriti del successo vanno alla macchina organizzativa austriaca, i prussiani intervenendo solo all’ultimo momento, fu un grande successo diplomatico di Bismarck sia interno come prestigio personale sia militare perché costrinse consistenti forze austriache in una occupazione sine die in terre lontane. Lo Schleswig più a nord, con l’importante porto di Kiel sul Baltico, fu annesso alla Prussia e l’Holstein all’Austria; questa nuova provincia risultò quindi circondata da territori prussiani. Ma i vincitori non giunsero nemmeno ad un preciso e stabile accordo per il governo di quei territori, fatto che determinerà futuri attriti.
Gli storici documentano che Bismarck propose segretamente all’Austria una alleanza per una guerra congiunta contro l’Italia, per consentirle di rafforzarsi nel Veneto e per riprendersi la Lombardia, accordo rifiutato poi dai rispettivi sovrani; questo mentre organizzava incontri con emissari militari ad alto livello di La Marmora per un’alleanza anti-austriaca.
Bismarck quindi, forte del recente successo, rivolse le sue brighe contro l’Austria: affidò il comando supremo militare all’abile generale von Moltke e con il ministro della guerra generale von Roon misero mano ad una ulteriore organizzazione dell’esercito e ad impostare precisi piani di attacco.
Engels nel predetto opuscolo del 1865 sulla questione militare prussiana sottopose a puntuale critica l’impostazione del suo esercito, la sua organizzazione, la catena di comando, l’inesperienza generale dopo 50 anni in cui i prussiani non avevano combattuto guerre di una certa importanza, il reclutamento, la durata della leva e le mille scappatoie con le quali ci si poteva esentare. Il problema di fondo era che «La Prussia arriverebbe al massimo a un esercito di 300-400 mila uomini, 200 mila sul piede di pace. Ma, per agire da grande potenza, bisogna che possa partire già con la prima armata da campo, ha cioè bisogno, con le guarnigioni delle fortezze, le unità di riserva ecc., di 500-600 mila uomini. Se i 18 milioni di prussiani devono mettere in campo un esercito approssimativamente pari a quello dei 35 milioni di francesi, dei 34 milioni di austriaci e dei 60 milioni di russi, l’unica via è la coscrizione universale, periodo di servizio breve ma intenso e un obbligo nella Landwehr relativamente lungo (...) Finché ci sono da una parte l’esercito francese, dall’altra quello russo, e resta la possibilità di un attacco combinato simultaneo, occorrono truppe che non debbano imparare i primi rudimenti della scuola di guerra quando sono già davanti al nemico».
3. I problemi italiani
In campo italiano i principali problemi militari erano due: la solita questione del comando supremo preteso da re Vittorio che, se pur valente soldato, ma non condottiero, non aveva le cognizioni tecniche e strategiche per dirigere un esercito di quelle dimensioni. Inoltre, morto il valente generale Fanti esplose la conflittualità già palese tra il generale La Marmora, al tempo primo ministro, ed il generale Cialdini, capo di Stato Maggiore. Ognuno dei tre si considerava il miglior stratega.
La Prussia offrì la collaborazione militare all’Italia, mentre l’Austria, vista ormai inevitabile la guerra con i prussiani, le offrì di ritirarsi dal Veneto in cambio della neutralità. In questo contesto l’offerta prussiana fu respinta con supponenza e quella austriaca con sdegno affermando che quelle terre sarebbero state liberate con gloriose vittorie sui campi di battaglia. Alla base della sabauda arroganza stava la riorganizzazione del nuovo esercito italiano, specialmente dopo l’impresa dei Mille e la dissoluzione dell’esercito borbonico.
L’Esercito Italiano nasce ufficialmente il 4 maggio 1861; con l’incorporazione delle province centrali e meridionali vede raddoppiata la forza in uomini. Difficile fu l’inquadramento dei soldati borbonici, in termini di fedeltà e professionalità, su 3.600 domande di incorporamento di ufficiali ne furono accolte solo 2.300; solo un terzo dei 60 mila tra sottufficiali e truppa. I garibaldini in genere furono rifiutati e nemmeno accolti nella Guardia Nazionale, solo un esiguo numero di ufficiali furono inquadrati regolarmente, anche se si dubitava del grado acquisito rapidamente sul campo e non nelle accademie. Ancora più complessa fu la questione dei soldati italiani provenienti dall’esercito austriaco. C’erano evidenti problemi per uniformare addestramento e regolamenti. La compilazione delle liste di leva, in assenza di un’anagrafe nazionale, fu demandata ai sindaci che spesso usavano i registri dei battesimi delle parrocchie. Con continui aggiustamenti si giunse negli anni tra il 1861 e il 1871 ad una leva annuale tra le 40 mila e le 55 mila reclute, non senza difficoltà per la Sicilia. La ferma per la prima categoria era di 11 anni di cui 5 in servizio sotto le armi e 6 in congedo illimitato, secondo il principio francese di esercito di qualità; la seconda categoria doveva sottostare, almeno in tempo di pace, ad un massimo di 40 giorni di addestramento, provando così a conciliare i principi di qualità e di quantità secondo il nuovo modello prussiano.
Altro grande problema riguardava l’armamento, molto dissimile tra i vari eserciti regionali. Gran parte delle armi erano di origine francese date a titolo di “assistenza militare” vista l’insufficiente produzione degli arsenali locali. Nel 1860 si dette inizio alla produzione di una classe di armi uguale per tutti: alle truppe di fanteria fu assegnato il fucile Mod.1860, l’ultimo ad avancarica, mentre ai gruppi scelti, tiratori e bersaglieri, erano fornite le armi migliori e più moderne. Si uniformarono i calibri, erano tutte a canna a 4 righe calibro 17,5 e usavano pallottole ad espansione tipo Peeters. Nonostante tutto si ottennero concreti e apprezzabili risultati. Ma non si giunse a ricomporre la radicata rivalità tra le varie marinerie nella Regia marina, in particolar modo tra quella ligure-piemontese e quella napoletana.
In sostanza, non c’erano le condizioni favorevoli per un conflitto così importante.
4. La preparazione bellica
Considerando maturi i tempi, l’8 aprile 1866 Bismarck, tramite la mediazione di Napoleone III, firmò con il generale La Marmora una singolare e contorta alleanza offensiva della durata di tre mesi, qualora la Prussia avesse dichiarato guerra all’Austria. L’articolo 3 stabiliva che «La Prussia e l’Italia non concluderanno né pace né armistizio senza mutuo consenso». Altra clausola riguardava un eventuale parziale spostamento della Regia flotta nel Baltico qualora quella austriaca lì si fosse concentrata prima dell’inizio delle ostilità per il blocco di quelle vie d’acqua. Altri accordi riguardavano le annessioni territoriali italiane: il Lombardo-Veneto, il Trentino, l’Alto Adige, Gorizia e Trieste, escludendo tutti i territori appartenenti alla grande Confederazione germanica. Potevano quindi essere acquisiti i territori già veneziani in Istria e Dalmazia; ciò spiega la decisione italiana di conquistare l’isola di Lissa, ora Vis, al largo di Spalato nell’attuale Croazia, per la sua storica importanza strategica. La Marmora chiese di tornare alla guida dell’esercito come Capo dello Stato Maggiore, cosa che avvenne il 20 giugno appena tre giorni prima dell’entrata in guerra.
Lo schieramento delle forze in campo era consistente: i prussiani con 13 Stati tedeschi alleati potevano disporre di 500 mila effettivi, ben equipaggiati con moderne artiglierie e per buona parte di loro con i nuovi fucili a retrocarica che ovviamente fecero la differenza. Avevano un tiro rapido e potevano essere ricaricati in posizione prona mentre per quelli ad avancarica il fante doveva stare in piedi, concentrare sguardo e attenzione all’operazione e senza ripari costituendo un facile bersaglio.
Al riguardo così Engels: «La grande superiorità di quest’arma si è mostrata nella guerra danese, e non c’è dubbio che gli austriaci la subiranno in misura ben maggiore. Se, come deve aver ordinato Benedeck, non perderanno molto tempo a sparare ma passeranno subito all’assalto alla baionetta, avranno perdite enormi. Nella guerra danese le perdite dei prussiani non raggiungevano mai un quarto, e a volte erano solo un decimo delle perdite dei danesi (...) i danesi sul campo furono quasi dovunque sconfitti da un nemico numericamente inferiore» (“Considerazioni sulla guerra in Germania”, giugno-luglio 1866).
Nominalmente il comando prussiano era di Guglielmo I ma i piani furono elaborati da von Moltke, da tutti riconosciuto comandante in capo; concentrò il grosso delle forze che si stavano radunando su tre direttrici verso il confine della Sassonia, nell’area attraversata dal fiume Elba, affidate rispettivamente al principe ereditario Federico III, all’altro principe Federico Carlo e al generale von Bittenfeld.
Quelle italiane sulla carta erano 270 mila con cannoni moderni ma con grossi problemi su chi effettivamente avesse il comando, fatto grave che si ripercosse sia sulla definizione di una esatta strategia sia generando malintesi e una situazione, come affermava Napoleone, di “ordine, contrordine, disordine!”. Il comando sarebbe spettato al Capo di Stato Maggiore, La Marmora, ma re Vittorio si era riservato il diritto di emanare ordini potendolo così scavalcare. Non ritenendosi inferiore per meriti, Cialdini rivendicava una sua autonomia. Alla fine il piano prevedeva che le truppe al comando di La Marmora e il re, numericamente più forti, avrebbero dovuto attuare un attacco diversivo, attraversare il Mincio ma senza mettere sotto assedio le fortezze del Quadrilatero, che secondo loro gli austriaci avrebbero evacuate per rinforzarsi dietro l’Adige, dove credevano fosse concentrato il grosso delle truppe, e penetrare nel Veneto. Quelle di Cialdini, passando il Po da sud, avrebbero dovuto aggirare le fortificazioni austriache, e su due fronti puntare su Venezia e, perché no, su Vienna! I due fronti si sarebbero però trovati assai distanti tra loro con evidenti problemi di coordinamento e di mutuo soccorso in caso di necessità; la riserva era affidata al generale La Rocca. Vi era poi il consistente corpo dei volontari guidato da Garibaldi a liberare il Trentino. Il comando della flotta fu affidato al vecchio ammiraglio Persano con il difficile compito di integrare le diverse marinerie dotate di naviglio moderno ma non omogeneo e con diverse esperienze e tradizioni.
Gli austriaci, diretti da Benedeck, con 13 Stati tedeschi alleati, disponevano di 600 mila effettivi; per ottima e consolidata catena di comando ed organizzazione militare avevano una sensibile superiorità rispetto agli avversari. Avevano però armamenti meno efficienti e consideravano il sistema delle fortezze del quadrilatero un’ottima barriera contro le forze italiane, di cui non avevano alcun timore considerandole già vinte. Ma dovettero dividere le loro armate con la parte maggiore sul fronte nord, concentrata a Olmutz in territorio ceco.
Engels osserva, sul piano strategico: «La zona in cui devono essere inferti i primi decisivi colpi è il territorio di confine tra Sassonia e Boemia. È difficile che la guerra in Italia porti a risultati decisivi finché non viene preso il quadrilatero, e questa potrebbe rivelarsi una faccenda abbastanza complicata (...) L’intendenza austriaca è tutto un intrico di corruzione e ladrocini (...) in questo momento il vettovagliamento delle truppe è scadente e irregolare; sul campo e nelle fortezze sarà ancora peggio. Insomma, per le fortezze del quadrilatero l’amministrazione austriaca può essere più pericolosa dell’artiglieria italiana». In sintesi: Berlino e Vienna sono i naturali punti di ripiegamento degli eserciti, i prussiani tenteranno di prendere Vienna mentre gli austriaci punteranno su Berlino. Per la corografia generale, delle tre possibili direttrici di movimento quella sulla riva destra dell’Elba risulterebbe la più rapida tra le due capitali ben servita da strade e ferrovie.
Se sui due fronti sono due eventi militari separati e indipendenti, l’accorta attività diplomatica di Napoleone III giunse a legarli insieme con il trattato segreto tra Francia e Austria stipulato l’11 giugno, 6 giorni prima dell’inizio delle ostilità: per quanto riguarda l’Italia, “l’Austria si obbliga, se vittoriosa in Germania, di cedere la Venezia al governo francese, e se vittoriosa in Italia s’impegna a non mutare lo status quo ante a meno di un’intesa con la Francia, la quale riconoscerebbe gli ingrandimenti territoriali in Germania purché non siano tali da turbare l’equilibrio dell’Europa stabilendo un’egemonia austriaca su tutta la Germania». Tutto era già stabilito all’insaputa dell’Italia, e rendeva quindi inutile la guerra sul fronte italiano; non escludiamo che l’imperatore francese abbia stipulato altri patti con la Prussia, pensando agli interessi francesi.
5. Il diario di guerra
16 giugno. La Prussia, prendendo a pretesto alcune decisioni sfavorevoli ai suoi interessi del governatore austriaco dell’Holstein, invade quei territori e apre la guerra all’Austria. Muove la terza armata verso la Sassonia, dove alcuni giorni dopo sconfigge pesantemente i 25 mila dell’esercito sassone e si unisce alla prima armata; muovono anche gli austriaci verso Olmutz. Secondo accordi anche gli italiani alla stessa data avrebbero dovuto avanzare, ma re Vittorio ritardò di due giorni la presentazione di guerra a Verona.
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17 giugno. La Marmora e Cialdini si incontrano a Bologna ma non riescono nemmeno a stabilire obbiettivi strategici comuni, né quale delle due azioni avesse la priorità sull’altra, quale la principale quale la diversiva, ciascuno convinto della superiorità della propria. Di fatto si ebbero due eserciti indipendenti con modi diversi di gestire il conflitto, statico uno e dinamico l’altro. I servizi logistici e di informazione furono del tutto trascurati: mentre quelli austriaci ben efficienti e precisi permisero al loro Stato Maggiore di elaborare un piano ben concepito secondo le strategie napoleoniche. Le truppe, già concentrate dalla fine di aprile alla frontiera italiana visti gli analoghi spostamenti al di là del Mincio, avrebbero dovuto attaccare e sconfiggere per prime il contingente maggiore di La Marmora per poi rivolgersi a quello minore di Cialdini.
Sul fronte italiano le forze regolari in campo erano di 220 mila uomini, 36 mila cavalli e 456 cannoni, due terzi di questi erano con La Marmora e il re, un terzo con Cialdini; il corpo dei volontari al seguito di Garibaldi era di 38 mila fanti 200 cavalli e 24 cannoni. Era palese la contraddizione fra la distribuzione delle forze: alla manovra diversiva furono affidate i 2/3 delle truppe, con armamento leggero da diversione mentre solo un terzo a quello d’attacco con relativo tipo d’armamento! L’esercito imperiale, guidato dall’arciduca Alberto d’Asburgo, aveva in forza 143 mila uomini,15 mila cavalli e 192 cannoni, di questi però soltanto 95 mila uomini, 13 mila cavalli e 168 cannoni operavano nel Veneto, ossia la metà circa delle truppe italiane.
23 giugno. La Marmora con re Vittorio muove per primo, attraversa il Mincio incuneandosi tra Mantova e Peschiera. Vaghe informazioni asseriscono che tra il Mincio e l’Adige non ci sono truppe imperiali che si sarebbero concentrate dietro l’Adige; vaghe scaramucce sono intese come precipitose ritirate. In sostanza La Marmora non sa dove si trovi il grosso degli austriaci e trascura l’esplorazione del territorio. Il servizio informazioni è così disorganizzato che, interrotte le linee telegrafiche, non riescono a comunicare nemmeno i capi d’armata perché, cambiando all’ultimo momento i piani da diversivo a offensivo, non sono dove dovrebbero essere e si spostano senza comunicare le nuove destinazioni. L’esercito del Mincio doveva attirare a sé il nemico presso Sommacampagna per permettere a una parte delle truppe di Cialdini di passare il Po a Occhiobello, presso Ferrara, tra la notte del 25 e del 26 giugno. La Marmora trovando i ponti intatti si convinse che gli austriaci stavano preparando una controffensiva e cadde nell’inganno: mentre avanzava verso le colline presso Custoza gli austriaci spostavano le truppe proprio dietro quelle colline dove si attestarono con cura, preparando altresì un attacco laterale.
24 giugno. Alle prime luci muovono le truppe di La Marmora ma alle 7 del mattino le diverse colonne italiane che avanzavano in direzione di Villafranca furono inaspettatamente attaccate da destra e da sinistra; i combattimenti nei vari punti di contatto furono aspri, molta la confusione soprattutto nel disporsi da linea di avanzata a quella di difesa a quadrato, alcuni reparti tennero testa, altri dovettero ripiegare. Con maggiore accanimento si combatté nei pressi di Custoza dove reparti italiani avevano occupato le alture del Monte Torre e del Monte Croce. Ripetuti furono gli attacchi e contrattacchi, posizioni prese e perse più volte, mentre gli austriaci, soprattutto per l’arrivo di truppe fresche, potevano da posizioni ben preparate e con maggiore artiglieria contrastare tutti gli attacchi. Non arrivarono i rinforzi richiesti dalla riserva del Della Rocca; alle truppe di Bixio e del principe ereditario Umberto fu negato il permesso di andare in soccorso e le due divisioni rimaste sole a combattere, demoralizzate e pure affamate, dovettero resistere dalle 11 alle 17 prima di potersi ritirare.
Il grande generale, terrorizzato dal ripetersi della disfatta del ’49, perse la testa e il controllo della situazione; nonostante gli mancassero solo 650 uomini contro i 1.200 degli austriaci, e buona parte delle truppe fossero ancora intatte e con il morale alto, esagerò fortemente nei suoi dispacci la gravità della situazione impedendo anche al re con le sue forze il contrattacco sul lato destro, che avrebbe sicuramente riaperto la battaglia. Anche Cialdini, che non aveva nemmeno messo sotto assedio la vicina fortezza di Borgoforte, sul Po, non intervenne, anzi abbandonò le posizioni e ripiegò per mettersi in salvo verso Modena. Di fatto la battaglia si risolse in scontri isolati tra vari reparti; solo la 2° divisione del generale Pianell tenne le posizioni e respinse il nemico, ma visto l’esito complessivo dovette poi ritirarsi anch’essa; tutta la ritirata fu disordinata, gli austriaci rioccupavano le posizioni perse senza incontrare resistenza e prima che spuntasse l’alba del 25 tutto l’esercito italiano aveva ripassato il Mincio.
Il bilancio di questa battaglia fu che su 120 mila italiani presenti vi furono 720 morti, 2.600 feriti e 4.100 prigionieri e dispersi, mentre gli austriaci su 75 mila presenti ebbero 1.200 morti, 4 mila feriti e 2.800 tra prigionieri e dispersi. Poiché buona parte dell’esercito austriaco era formato da popolazioni venete queste perdite furono considerate “uno sbudellamento fra italiani”.
Questi i dovuti impietosi commenti degli storici militari del tempo sulla totale inaffidabilità dei vertici militari, fatto salvo il valore dei soldati riconosciuto anche dagli austriaci: «Del comando supremo la colpa maggiore è che non funzionò né prima né durante la battaglia: trascurò infatti il servizio d’informazione e l’esplorazione del terreno, in modo da render possibile al nemico la sorpresa; non precisò l’ora in cui i Corpi avrebbero iniziato l’avanzata il mattino del 24; non curò l’ordine di marcia facendo sì che la cavalleria si trovasse dietro la fanteria; i carriaggi si frammischiarono ai combattenti ostacolandone i movimenti; dimenticò a Piadena 54 cannoni, che portati sul campo, avrebbero data la superiorità sul nemico; ed infine, per non dire altro, non comunicò ai comandi di corpo d’armata e di divisione il luogo del Quartier Generale» (Pollio). «La Marmora, senza stato maggiore, né ufficiali d’ordinanza, andò lui errando per il vasto campo, impartendo comandi contraddittori, secondo le parziali e immediate necessità, ma del tutto ignaro dell’insieme del combattimento. I capi di Corpo, disorientati e privi di iniziativa, non sapevano dove cercare il comando generale, con un La Marmora sempre vagante in mezzo all’azione. Il re stesso vanamente e a lungo ne fece ricerca in ogni dove» (Gori). «Si aggiunga che per l’insufficienza del comando supremo un intero corpo d’armata, il II, rimase inoperoso (...) Le nostre divisioni operarono così slegatamente alla spicciolata da trovarsi quasi sempre di fronte a nemici superiori di numero (...) Nel settore di destra intorno a Custoza tra la mattina e la sera 24 mila italiani si trovarono di fronte a 48 mila austriaci, nel pomeriggio, la lotta si svolse tra 30 mila austriaci e 15 mila italiani, mentre altri 20 mila si trovarono inoperosi a poca distanza» (Silva).
Più che una sconfitta fu un insuccesso dei comandi generali, facilmente rimediabile, tant’è che l’arciduca Alberto, viste le sue maggiori perdite, non si considerò il vincitore e attendeva un contrattacco meglio organizzato per il giorno seguente; ma, invece delle granate sul nemico, scoppiarono mille polemiche interne su chi scaricare le responsabilità dell’insuccesso.
29 giugno. Si persero giorni preziosi per appianare, e solo in apparenza, la crisi di comando e si convenne di sferrare un’offensiva per il 5 luglio su due direttrici a sud: La Marmora attraversando l’Oglio e Cialdini attaccando Borgoforte. Ma la battaglia di Sadowa del 3, con l’avvio delle frenetiche trattative per l’armistizio nel giorno seguente, azzerò tutti i piani.
30 giugno. Si completa lo schieramento delle tre armate prussiane nel corso del quale avvengono scontri secondari con sensibili perdite austriache; fu un’ottima manovra di concentrazione sul campo di battaglia di molte unità per intrappolare il nemico. Per due giorni la cavalleria prussiana non perse mai il contatto con gli austriaci che a causa delle forti perdite subite si stavano ritirando dietro l’Elba. Benedeck ricevette dall’imperatore Francesco Giuseppe l’ordine di contrattaccare con decisione, rimosse alcuni aiutanti per incompetenza e scelse una posizione difensiva nei dintorni di Sadowa dove pensava di bloccare i prussiani fino al completo ritiro oltre l’Elba.
1 luglio. Garibaldi riprende la sua marcia verso il Trentino incontrando una forte resistenza fino al 4 luglio, poi solo scaramucce e riposizionamenti per attaccare i forti austriaci.
2 luglio. Avvistato con certezza il concentramento austriaco, Federico Carlo pianificò di attaccare per il mattino successivo, ma Moltke gli ordinò di avanzare immediatamente. Però, saltate le linee telegrafiche, fu necessario inviare dispacci con ufficiali a cavallo che arrivarono solo alle 4 del mattino.
3 luglio. La battaglia iniziò all’alba, nella nebbia e nella pioggia. Alle ore 11 l’attacco prussiano è neutralizzato, ma Benedeck non ordina una carica di cavalleria che avrebbe ricacciato indietro i prussiani. Alle 12 schiera le unità di riserva ma l’esito della battaglia è incerto mentre i comandanti prussiani attendono i rinforzi del principe ereditario che arriva alle 14,30 con 100 mila uomini dopo aver ingaggiato scontri con gli austriaci durante la marcia. La seconda armata rompeva le linee nemiche mentre anche l’armata dell’Elba sfondava lo schieramento di sinistra, e fu ordinato l’attacco generale su tutto il fronte. Nonostante l’attività dell’artiglieria austriaca, Benedeck fu costretto a ritirarsi ordinando un fuoco di copertura sulla cavalleria per ritirare la sua artiglieria e coprire la ritirata, che non venne ostacolata dai prussiani nonostante li avessero quasi circondati.
Così Engels commenta: «Per quanti errori potessero esserci nel piano operativo dei prussiani, essi li hanno compensati con la loro velocità e con la decisione delle loro azioni. Non c’è nulla da ridire sulle operazioni delle loro due armate. Tutti i loro colpi sono stati rapidi, violenti e decisi, e hanno avuto pieno successo. Quest’energia non è venuta meno neanche dopo il ricongiungimento delle loro due armate; esse continuarono ad avanzare, e già il 3 luglio l’esercito prussiano al completo incontrò le truppe di Benedeck riunite e assestò loro un ultimo distruttivo colpo (...) Non vi è dubbio che in tutto ciò una gran parte l’ha avuto il fucile ad ago. Senza quest’arma sarebbe stato ben difficile arrivare al ricongiungimento delle due armate prussiane (...) Ma altre circostanze ancora hanno determinato il successo (...) Non è fuori luogo dire che in una sola settimana l’esercito prussiano si è conquistato la posizione migliore che abbia mai avuto. Ora può essere sicuro della sua superiorità su qualsiasi altro nemico. Un successo così straordinario in un tempo tanto breve e senza alcun insuccesso degno di nota non è mai stato conseguito nella storia da nessuna campagna» (“Considerazioni sulla guerra in Germania”).
Parteciparono a questa battaglia 220 mila prussiani con 700 cannoni, subirono 1.900 morti, 6.800 feriti 275 dispersi e 940 cavalli uccisi. Gli austriaci erano 184 mila con 22 mila sassoni e 650 cannoni ed ebbero pesanti perdite: 5.800 morti, 8.500 feriti, 8.000 dispersi, 22.000 prigionieri, 6.000 cavalli morti e persi 116 cannoni. Dopo questa pesante sconfitta la sera stessa a Vienna un concitato consiglio della Corona stabilì di invitare Napoleone III ad intervenire per un armistizio generale: dell’Italia gli cedevano le fortezze del quadrilatero e il Veneto come gesto di buona volontà.
5 luglio. L’attacco italiano previsto fu bloccato mentre Cialdini stava già cannoneggiando Borgoforte essendo arrivato da Parigi a re Vittorio il telegramma sulla proposta di armistizio di Napoleone III, che aveva già fatto pubblicare quel giorno stesso sul parigino Le Moniteur, obbligandolo ad accettare la proposta. Il francese si impose come ago della bilancia: perché la Germania non si ingrandisca troppo, non volle indebolire troppo l’Austria a nord, come pure a sud dando il Veneto all’Italia; per i suoi buoni uffici ottenne qualche ritocco alla frontiera sul Reno.
Seguirono giorni di intensi scambi diplomatici; da parte italiana, bene le fortezze, si obiettava, ma ricevere in dono Venezia senza che nessun soldato vi fosse nemmeno arrivato né attaccato il nemico in ritirata, era disonorevole; si cavillò sull’articolo 3 del Trattato con la Prussia per quanto riguardava la firma di armistizio separato. Infine prima dell’imminente entrata in vigore dell’armistizio si ricercò la tanto pretesa gloriosa battaglia terrestre puntando su Garibaldi per la liberazione del trentino e su Cialdini con un corpo di 100 mila uomini verso l’Isonzo, e nelle retrovie La Marmora e il re con 70 mila uomini in riserva. Sarebbe stata anche necessaria una prestigiosa vittoria navale che equilibrasse l’onore delle armi italiane.
16 luglio. Intanto riprese l’avanzata di Garibaldi che aveva ricevuto dei rinforzi, il forte austriaco d’Ampola cadde dopo una settimana di attacchi.
6. La guerra sul mare
16 luglio. L’ammiraglio Persano, nonostante le sue obiezioni, è costretto a salpare da Ancona pena la sua rimozione. Ha l’ordine perentorio di «sbarazzare l’Adriatico dalle forze nemiche, attaccandole a Lissa o bloccandole in qualunque altro posto dove si trovano», e di sbarcare nell’isola un corpo di occupazione. Non ha valide informazioni sulla natura dei luoghi, lo stato e l’entità delle difese di terra e di mare.
Dispone di una potente flotta di 30 navi da guerra tra cui 12 corazzate in acciaio, 17 navi trasporto in legno e una nave ospedale. Una moderna corazzata, la “Affondatore”, dotata di uno sperone di acciaio di 2,5 metri, appena uscita dai cantieri inglesi, sta arrivando, ma nessuno l’ha mai provata in combattimento. Questa avveniristica unità lunga 94 metri, con una torretta mobile a prua e una a poppa per due cannoni di grande calibro al posto dei 20 o 30 di calibro minore sulle fiancate, evidenziò subito gravi difetti sia per la scarsa potenza dei motori, per il baricentro troppo alto quando si esaurivano il carbone e le munizioni, la scarsa visibilità dalle strette feritoie e un raggio di curvatura nelle virate troppo ampio che ne limitava l’uso in acque ristrette.
La flotta è disomogenea e niente affatto sufficiente per armamento: alcune cannoniere per operazioni costiere sono state frettolosamente modificate ma restano inadatte a combattimenti d’altura, la corazzatura in acciaio aggiunta su alcune navi è solo parziale e non protegge il timone creando problemi di velocità e manovrabilità, molti cannoni sono stati spostati da altre navi che risultavano indebolite, i depositi di carbone sono insufficienti, nessuna coesione fra comandanti, ufficiali ed equipaggi, scarsa disciplina e addestramento all’azione in comune. Mancano macchinisti, cannonieri e timonieri, 87 allievi dell’accademia navale sono immediatamente promossi guardiamarina e imbarcati, tre navi di costruzione francese sono ancora in periodo di garanzia e hanno personale tecnico francese; nel mese di giugno si devono arruolare 18 macchinisti francesi per completare gli organici. Nessuno degli ammiragli ha mai partecipato ad una battaglia navale di una certa consistenza, solo assedi o cannoneggiamenti costieri, tanto meno tra squadre navali da battaglia. Ben fondate quindi le obiezioni di Persano, ma non giustificabile la sua condotta in battaglia.
La flotta austriaca di stanza a Pola è di poco inferiore per numero di naviglio e tonnellaggio; con anche loro problemi di addestramento per squadre così grandi; ma hanno nel contrammiraglio von Tegetthoff una figura di spicco. Gli equipaggi sono composti da veneti, istriani e dalmati; lo stesso Tegetthoff impartisce gli ordini in quel dialetto: un altro caso di sbudellamento tra italiani.
18 luglio. Dopo un’ultima esplorazione di una nave attorno l’isola il giorno precedente, all’alba parte il piano elaborato sulla base di quelle poche informazioni: Lissa sarà investita da tre gruppi di navi sui tre principali ancoraggi, lo sbarco avverrà su porto Manego; due navi dislocate a nord e a sud dell’isola in funzione di avvistamento, così la flotta è sparpagliata e in caso di attacco nessun blocco è in grado di reggere la flotta nemica. Dopo un giorno di bombardamenti i risultati sono modesti e inferiori a qualunque previsione. Il consiglio di guerra della sera si trasforma in un aspro litigio tra i comandanti senza che si giunga ad alcuna decisione.
Nel frattempo parte da Pola la flotta di Tegetthoff: il suo piano, per la relativa minor potenza di fuoco, è di stringere le distanze con il nemico, far fuoco solo a distanza ravvicinata per “concentrazione”, cioè tutte le artiglierie di ciascuna nave dirigono il fuoco su un unico preciso bersaglio; in più speronare una piccola porzione della flotta italiana dopo averla isolata dal resto della squadra per affondarla, demoralizzare con questi attacchi d’impeto gli italiani e costringerli alla ritirata. Dice: «Una volta in battaglia, speronate qualunque cosa pitturata di grigio!»: le navi italiane sono verniciate di quel colore, le loro di nero.
19 luglio. Riprendono i cannoneggiamenti con altri modesti risultati; la sera arriva l’attesa corazzata “Affondatore”; nella notte arriva anche una nave trasporto con altri 500 fanti di marina perché il 20 è il giorno previsto per lo sbarco.
20 luglio. La nave vedetta Esploratore avvista la flotta austriaca in arrivo, si sospendono le operazioni di sbarco. Persano per contrastare in forze la squadra nemica, che avanza in triplice formazione a cuneo, raduna le navi disperse e le organizza su tre gruppi disposte a “T”, lungo oltre 1.500 metri contrariamente ai 400 regolamentari. Ciò perché il vice ammiraglio Vacca con le navi più veloci non adegua la loro manovra a quelle più lente.
Alle 10,45 inizia quella che fu la prima grande battaglia marina con navi a vapore corazzate e l’ultima nella quale si compirono manovre deliberate di speronamento. La flotta austriaca si incunea facilmente nel varco dello schieramento a T e insegue i bersagli assegnati per speronarli. È una battaglia concitata con complesse manovre, durata esattamente un’ora, con Persano che trasborda sull’ “Affondatore” senza comunicarlo a nessuno, navi che rimangono inattive e non sparano un colpo, vice ammiragli che abbandonano il combattimento, navi speronate, un’altra che esplode colando a picco in pochi secondi in cui si crede ci sia a bordo l’ammiraglio italiano. Persano, scombussolato e fuori di sé sull’Affondatore, esita nell’inseguire gli austriaci e non approfitta, dirà per mancanza di carbone, delle rimanenti otto ore di luce per inseguire Tegetthoff, pur danneggiato, che si allontana indisturbato con tutte le sue navi avendo conseguito l’importante obbiettivo di impedire lo sbarco italiano.
La flotta austriaca ha sparato 4.456 colpi; gli italiani solo 1.452, di cui 412 a segno, ma solo i colpi dei cannoni Armstrong da 150 e 300 libbre con palle d’acciaio riescono a perforare le corazze austriache il cui spessore era di 12,5 mm sulle fiancate e 50 mm sui ponti; le palle in ferro dei cannoni da 80 libbre non vi riescono. Gli italiani hanno due navi affondate, l’ammiraglia Re d’Italia e la Palestro, 650 marinai annegati, 8 morti e 40 feriti in combattimento; gli austriaci 38 morti e 138 feriti. Dopo questa sconfitta Persano è processato, privato del grado e destituito; i viceammiragli Vacca e Albini collocati a riposo anticipato. Poi si cercherà di minimizzare, addirittura ci fu chi parlerà di vittoria. Non a caso si dirà poi che a Lissa combatterono «Comandanti di legno su navi di ferro contro comandanti di ferro su navi legno».
21 luglio. Arriva la tanto celebrata vittoria dei volontari di Garibaldi a Bezzecca, per nulla rilevante sul piano militare e strategico. Dopo la presa del forte d’Ampola, gli austriaci intendevano ricacciare i garibaldini e riprendere il controllo della val di Ledro con una manovra di accerchiamento attraverso vallette laterali. Inizialmente la manovra ebbe successo: interi battaglioni dei volontari furono fatti prigionieri, altri si ritiravano disordinatamente fino a quando giunse Garibaldi in persona, che ferito alla coscia nei giorni precedenti si muoveva solo in carrozza. Riorganizzate le truppe le portò con ripetuti assalti alla baionetta a riprendere il controllo del centro abitato di Bezzecca, dove si erano concentrati gli austriaci i quali ripiegarono su posizioni più sicure. Vi furono altri alterni scontri in valli laterali mentre un’intera compagnia austriaca fu distolta dai combattimenti per scortare a Trento, dove giunsero due giorni dopo, i prigionieri garibaldini. In sostanza l’obiettivo strategico di riconquistare la val di Ledro fallì sebbene i garibaldini avessero la peggio in termini di perdite. Gli austriaci arretrarono in attesa dei rinforzi, che stavano giungendo dalla Boemia, per un contrattacco che non fu mai sferrato per la cessazione delle attività militari; quelle forze regolari avrebbero travolto i volontari garibaldini. Parteciparono a questa battaglia 15 mila garibaldini che ebbero 121 morti, 451 feriti e 1.070 prigionieri. Gli austriaci erano 13 mila e ebbero 25 morti, 82 feriti e 100 prigionieri.
21 luglio. Austria e Prussia firmarono un armistizio con i primi preliminari di pace senza informare né invitare l’alleata Italia, che si trovò di fronte al fatto compiuto. Il trattato di pace firmato tre settimane dopo vedeva la nascita della “Confederazione Tedesca del Nord”, divenuta poi Stato l’anno successivo, di cui facevano parte tutti i territori a nord del Meno, sotto la supremazia prussiana. L’Austria fu estromessa dalla confederazione tedesca; l’Impero Austriaco divenne di Austria-Ungheria. Nei giorni seguenti l’Austria spostò truppe dalla Boemia verso l’Isonzo per vendicare la sconfitta di Sadowa, attribuita all’Italia per l’attacco sul Mincio, e bloccare l’avanzata italiana.
23 luglio. Il governo italiano venne “convinto” ad accettare le proposte di armistizio; La Marmora per la cessazione delle ostilità chiese l’annessione del Veneto, mediante plebiscito, la cessione del Trentino senza compenso e la consegna di Venezia come pegno. Cialdini, che era avanzato fino ad Udine, comunicò che le sue truppe erano senza rifornimenti, molti senza scarpe, stanchi, senza avvicendamento e lontani 300 chilometri dai depositi, mentre gli austriaci, praticamente a casa loro, si stavano rafforzando con truppe fresche.
25 luglio. La colonna di Giacomo Medici arrivava in vista delle mura di Trento, militarmente più importante della vittoria di Bezzecca.
8 agosto. L’Austria ovviamente respinse le proposte italiane di un armistizio e inviò un ultimatum per ritirare tutte le truppe italiane dal Tirolo e dal Goriziano non appartenenti al Veneto entro l’11 agosto. Cialdini fece sapere che è già stato costretto, per le predette difficoltà, a ritirarsi dall’Isonzo sul Tagliamento.
9 agosto. La Marmora, saggiamente e contro tutti quelli che pretendevano continuare la guerra, ordinò al generale Petitti di trattare condizioni di pace con l’Arciduca Alberto d’Asburgo e telegrafò a Garibaldi col famoso dispaccio 1072 di ritirarsi dal Tirolo, a cui notoriamente Garibaldi rispose “Obbedisco”.
12 agosto. A Cormons fu firmato l’armistizio che salvò l’Italia da ben peggiori sconfitte. Finì così la terza guerra di indipendenza, che rivela tutti i difetti della situazione italiana sia dal punto di vista tecnico produttivo sia politico borghese.
24 agosto. Francia e Austria a Vienna firmarono la “Convenzione per la cessione delle Venezie” a cui l’Italia non era stata invitata né informata. L’Austria non si considerava sconfitta dall’Italia.
3 ottobre. Firmata la pace tra Italia e Austria con l’umiliante clausola della concessione del Veneto attraverso la cessione alla Francia; in più quasi tutto il Friuli e la provincia di Mantova.
21 ottobre. Si svolse nel Veneto il controverso plebiscito per l’annessione al regno d’Italia. Su una popolazione di 2,6 milioni di abitanti i SI sarebbero stati 642 mila contro 69 NO!
I veneti pagarono un prezzo altissimo perché l’Italia dovette accollarsi tutto il debito pubblico austriaco e le spese per le infrastrutture fatte per quei territori. Quei rimborsi non vennero dalle casse statali ma da nuove tasse imposte a quelle popolazioni, compresa quella sul macinato. Non furono concessi aiuti economici per l’agricoltura e l’industria, mentre erano sparite le commesse pubbliche dell’impero austriaco ai lanifici vicentini, alle seterie e ai cotonifici veneti e ai cantieri navali provocando un crollo generalizzato dell’intera regione. La popolazione era ridotta alla fame tanto che iniziano di lì a poco i primi esodi migratori specialmente verso l’America del Sud; la decadenza del patrimonio artistico, delle ville venete e di quel patriziato che lo accudiva iniziò in quel periodo.
Questi versi di un ritornello popolare ben esprimevano quelle condizioni: «Savoja, Savoja / i nà portà ‘na fame troja. / Savoja, Savoja / intanto noaltri... andemo via... vaca troja».
(Continua al prossimo numero)
La successione dei modi di produzione nella teoria marxista
Rapporto esposto alla riunione di Genova nel maggio 2014
1. La concezione materialistica della storia
La ricerca sulla dottrina dei modi di produzione non ha lo scopo di far emergere nuove risultanze inattese dalla scienza marxista, tanto che già ne possiamo anticipare una sintesi e le conclusioni. Questo procedimento “invertito” permetterà di afferrare una serie di categorie fondamentali che ritorneranno spesso nel prosieguo, la cui esatta comprensione ha consentito al Partito di leggere correttamente il corso storico e di agire conseguentemente ai propri fini, quando le circostanze gliel’hanno consentito.
Il punto di partenza della trattazione non è scontato né ovvio: il problema, pratico prima che teorico, della lotta tra materialismo ed idealismo. Il comunismo scientifico ha dovuto farsi largo tra le pastoie tanto del secondo quanto di una concezione materialistica volgare, fino a pervenire alla sintesi delle Tesi su Feuerbach. In questi anni Marx ed Engels liquidano definitivamente l’idealismo hegeliano e criticano le conclusioni del materialismo feuerbachiano. Di questa impresa titanica ci rimane, tra gli altri, un lavoro che verrà pubblicato solo successivamente alla morte di entrambi, un semilavorato la cui importanza è senza pari.
Vi si afferma che «I presupposti da cui muoviamo non sono arbitrari, non sono dogmi: sono presupposti reali, dai quali si può astrarre solo nell’immaginazione. Essi sono gli individui reali, la loro azione e le loro condizioni materiali di vita, tanto quelle che essi hanno trovato già esistenti quanto quelle prodotte dalla loro stessa azione. Questi presupposti sono dunque constatabili per via puramente empirica» (Marx-Engels, L’Ideologia Tedesca). Il dogmatismo di provenienza religiosa, che sta al fondo di ogni idealismo, è definitivamente gettato tra i ferri vecchi, al suo posto si fa largo la scienza positiva caratterizzata da analisi empiriche e da leggi generali.
Anche la nostra teoria rivoluzionaria, però, presto subirà il trattamento riservato ad ogni concezione della classe dominata ancora schiacciata sotto il tallone degli sfruttatori: da una parte la si svuoterà del contenuto sovversivo, dall’altra la si canonizzerà in vuoti concetti, ormai slegata dalla prassi del Partito di classe e capovolta nel suo contrario, conferma ideologica di un programma di collaborazione con il nemico. Solo il Partito Comunista Internazionale è rimasto a difendere il programma integrale del comunismo e la sua dottrina monolitica, ed è il solo che la utilizza come metodo d’azione sulla realtà.
Il vecchio Engels aveva ben chiaro questo pericolo se si sentì in dovere di sottolineare che «la nostra concezione della storia è anzitutto una guida per lo studio, non una leva per la costruzione alla maniera hegeliana» (Engels a Conrad Schmidt, 5 agosto 1890). I comunisti non sono dei costruttori di sistemi filosofici, ma scienziati della rivoluzione proletaria, i quali ricercano nello studio della storia le conferme al programma di emancipazione della classe di cui sono le avanguardie coscienti.
Alcune delle citazioni che utilizzeremo nel presente rapporto sono già state inanellate in numerose opere del nostro movimento mondiale, ma vale certamente la pena di ripeterle, non fosse altro per il lavorio ai fianchi operato dall’ultima e più infame controrivoluzione, che dallo sterminio della leva bolscevica continua a produrre effetti mefitici a distanza di quasi un secolo.
Una concezione grossolana della vita delle formazioni storiche che si sono succedute nel tempo, che non ha nulla a che fare con il marxismo autentico, concepisce questi modi di riproduzione della specie come degli insiemi caotici, privi di proprie leggi di funzionamento, senza un ordine di determinazioni sulle relazioni sociali. Al contrario, afferma Engels nella Prefazione del 1884 a Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, «secondo la concezione materialistica, il momento determinante della storia, in ultima istanza, è la produzione e la riproduzione della vita immediata. Ma questa è a sua volta di duplice specie. Da un lato, la produzione di mezzi di sussistenza, di generi per l’alimentazione, di oggetti di vestiario, di abitazione e di strumenti necessari per queste cose; dall’altro, la produzione degli uomini stessi: la riproduzione della specie. Le istituzioni sociali entro le quali gli uomini di una determinata epoca storica e di un determinato paese vivono, sono condizionate da entrambe le specie della produzione; dallo stadio di sviluppo del lavoro, da una parte, e della famiglia, dall’altra. Quanto meno il lavoro è ancora sviluppato, quanto più è limitata la quantità dei suoi prodotti e quindi anche la ricchezza della società, tanto più l’ordinamento sociale appare prevalentemente dominato da vincoli di parentela».
Quanto meno le forze di produzione sono sviluppate, tanto più i rapporti di produzione determinati di un modo di produzione specifico sono condizionati in maniera preponderante dalle condizioni geofisiche, i legami di sangue, ecc. Questa determinazione continuerà ad esercitare il proprio strapotere fino all’apparire del capitalismo, nel quale per la prima volta nella storia saranno i legami sociali e non quelli “naturali” a giocare il ruolo determinante nella caratterizzazione di una formazione sociale.
Se il corso storico può essere definito come la progressiva separazione dal produttore delle condizioni della produzione, parallelamente si ha la dissoluzione degli antichi legami comunitari che mano a mano vengono sostituiti da rapporti di dipendenza economica; legami comunitari, che solo per approssimazione possono essere denominati familiari, di certo non intendendo per famiglia l’attuale sua configurazione monogamica, e la centralità dalla Comune primitiva, a differenza della subordinazione della moderna società civile alla “comunità del capitale”.
Grazie al metodo materialistico e ad una analisi empirica rigorosa è pertanto possibile ricostruire i riflessi ideali di questa fitta trama di rapporti sociali ed individuare le loro stringenti determinazioni reciproche. Finalmente le soprastrutture appaiono quali esse sono, e non quali gli individui se le rappresentano nella propria coscienza. Il passo che segue, tratto sempre dall’Ideologia Tedesca, lo conferma: «Individui determinati, che svolgono un’attività produttiva secondo un modo determinato, entrano in questi determinati rapporti sociali e politici. In ogni singolo caso l’osservazione empirica deve mostrare empiricamente, e senza alcuna mistificazione e speculazione, il legame fra l’organizzazione sociale e politica e la produzione. L’organizzazione sociale e lo Stato risultano costantemente dal processo della vita di individui determinati; ma di questi individui, non quali possono apparire nella rappresentazione propria o altrui, bensì quali sono realmente, cioè come operano e producono materialmente, e dunque agiscono fra limiti, presupposti e condizioni materiali determinate e indipendenti dal loro arbitrio».
A scanso di equivoci, sarà Marx stesso a riassumere le conclusioni del proprio studio nella Prefazione a Per la critica dell’economia politica; in poche righe l’essenza della dialettica materialistica seppellisce per sempre tutte le antiche concezioni del mondo: «Il risultato generale al quale arrivai (...) può essere brevemente formulato così: nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una soprastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza».
Il determinismo che è alla base della scientificità del comunismo marxista, difeso dalla Sinistra Comunista italiana, è stato volutamente confuso con il materialismo meccanicista di una certa parte della seconda Internazionale, volgarizzazione teorica che, attribuendo eccessiva o addirittura esclusiva importanza al “fattore economico”, finisce con l’abbracciare una prassi gradualista del processo rivoluzionario. Questione vecchia quanto la lotta delle frazioni comuniste contro le concezioni borghesi e piccolo-borghesi nel seno della Internazionale ed affrontato da par suo già da Engels negli ultimi anni della propria vita: «Secondo la concezione materialistica della storia la produzione e riproduzione della vita reale è nella storia il momento in ultima istanza determinante. Di più né io né Marx abbiamo mai affermato. Se ora qualcuno distorce quell’affermazione in modo che il momento economico risulti essere l’unico determinante, trasforma quel principio in una frase fatta insignificante, astratta e assurda. La situazione economica è la base, ma i diversi momenti della sovrastruttura – le forme politiche della lotta di classe e i risultati di questa – costituzioni stabilite dalla classe vittoriosa dopo una battaglia vinta, ecc. – le forme giuridiche, anzi persino i riflessi di tutte queste lotte reali nel cervello di coloro che vi prendono parte, le teorie politiche, giuridiche, filosofiche, le visioni religiose ed il loro successivo sviluppo in sistemi dogmatici, esercitano altresì la loro influenza sul decorso delle lotte storiche e in molti casi ne determinano in modo preponderante la forma. È un’azione reciproca tra tutti questi momenti, in cui alla fine il movimento economico si impone come fattore necessario attraverso un’enorme quantità di fatti casuali (cioè di cose e di eventi il cui interno nesso è così vago e così poco dimostrabile che noi possiamo fare come se non ci fosse e trascurarlo). In caso contrario, applicare la teoria a un qualsiasi periodo storico sarebbe certo più facile che risolvere una semplice equazione di primo grado» (Engels a Joseph Bloch, 21 settembre 1890).
Aggiungere alcunché a queste limpide parole è impresa che non vogliamo osare, solo ne sottolineiamo i passi decisivi. La determinazione “in ultima istanza” non implica la “tirannia” totale della base economica sulle soprastrutture: altrimenti non si dovrebbe neppure parlare di “determinazione” ma di semplice “definizione” delle seconde da parte della prima. Per la dialettica materialistica, invece, la base economica domina solo facendosi largo nel complesso di determinazioni reciproche tra i vari rapporti sociali.
Il caos, direbbe il sicofante. Tutt’altro. Proprio perché il legame tra tutti questi fatti è debole, il più delle volte è possibile trascurarlo, e su questo intreccio fragile la struttura ha modo di esprimere tutta la propria forza. Alla fine del passo Engels fa un paragone matematico: se la base potesse semplicemente definire le soprastrutture, l’analisi storica si ridurrebbe ad una banale equazione di primo grado. La soluzione della rivoluzione è invece, aggiungiamo noi, quella di una equazione differenziale, lo studio di un rapporto fra forze che variano nel tempo in intensità ed orientamento. Compito del comunista non è né ricercare la causa economica immediata dietro ogni alito di vento, né affidarsi al cieco indeterminismo e volontarismo, ma ricondurre – in ultima istanza – il generale corso degli eventi alle determinazioni materiali essenziali. In questo senso il determinismo rimane il cardine del materialismo dialettico.
Da quanto precede una certa letteratura d’accatto sedicente marxista ha preso le mosse per contrapporre il “meccanico” Engels, che sarebbe figlio del positivismo del XIX secolo, al “romantico” Marx precursore di certe correnti filosofiche del XX secolo. Qui due citazioni, la prima è una lettera del 25 gennaio 1894 a W. Borgius di Engels, impareggiabile nell’esegesi della dottrina – compito al quale si è dedicato costantemente dopo la morte del compagno Marx – e la successiva di Marx, tratta dall’Ideologia Tedesca, opera magnifica elaborata in stretto contatto col primo, a dimostrazione – se ce ne fosse bisogno – della totale comunanza di vedute.
«L’evoluzione politica, giuridica, filosofica, religiosa, letteraria, artistica, ecc. poggia sull’evoluzione economica. Ma esse reagiscono tutte l’una sull’altra e sulla base economica. Non è che la situazione economica sia causa essa sola attiva e tutto il resto nient’altro che effetto passivo. Vi è al contrario azione reciproca sulla base della necessità economica che, in ultima istanza, sempre s’impone (...) Non si tratta quindi, come talvolta si vorrebbe comodamente immaginare, di un effetto automatico della situazione economica; è che gli uomini fanno sì essi stessi la loro storia, ma in un ambiente dato, che li condiziona, sulla base di rapporti reali, esistenti in precedenza, tra cui i rapporti economici, per quanto possano venire influenzati dai rimanenti rapporti politici e ideologici, sono però in ultima istanza i decisivi e costituiscono il filo rosso continuo che solo permette di capire le cose». Ancora ritorna il concetto fondamentale della determinazione “in ultima istanza” e della mancanza di automaticità dell’azione della struttura sulle soprastrutture.
Ed ecco cosa entrambi i nostri maestri scrivevano mezzo secolo prima (a scorno dell’ulteriore contrapposizione mistificatrice tra il giovane ed il maturo Marx): «La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza, è in primo luogo direttamente intrecciata all’attività materiale e alle relazioni materiali degli uomini, linguaggio della vita reale. Le rappresentazioni e i pensieri, lo scambio spirituale degli uomini appaiono qui ancora come emanazione diretta del loro comportamento materiale. Ciò vale allo stesso modo per la produzione spirituale, quale essa si manifesta nel linguaggio della politica, delle leggi, della morale, della religione, della metafisica, ecc. di un popolo. Sono gli uomini i produttori delle loro rappresentazioni, idee, ecc., ma gli uomini reali, operanti, così come sono condizionati da un determinato sviluppo delle loro forze produttive e dalle relazioni che vi corrispondono fino alle loro formazioni più estese. La coscienza non può mai essere qualche cosa di diverso dall’essere cosciente, e l’essere degli uomini è il processo reale della loro vita. Se nell’intera ideologia gli uomini e i loro rapporti appaiono capovolti come in una camera oscura, questo fenomeno deriva dal processo storico della loro vita, proprio come il capovolgimento degli oggetti sulla retina deriva dal loro immediato processo fisico.
«Esattamente all’opposto di quanto accade nella filosofia tedesca, che discende dal cielo sulla terra, qui si sale dalla terra al cielo. Cioè non si parte da ciò che gli uomini dicono, si immaginano, si rappresentano, né da ciò che si dice, si pensa, si immagina, si rappresenta che siano, per arrivare da qui agli uomini vivi; ma si parte dagli uomini realmente operanti e sulla base del processo reale della loro vita si spiega anche lo sviluppo dei riflessi e degli echi ideologici di questo processo di vita. Anche le immagini nebulose che si formano nel cervello dell’uomo sono necessarie sublimazioni del processo materiale della loro vita, empiricamente constatabile e legato a presupposti materiali. Di conseguenza la morale, la religione, la metafisica e ogni altra forma ideologica, e le forme di coscienza che ad esse corrispondono, non conservano oltre la parvenza dell’autonomia. Esse non hanno storia, non hanno sviluppo, ma gli uomini che sviluppano la loro produzione materiale e le loro relazioni materiali trasformano, insieme con questa loro realtà, anche il loro pensiero e i prodotti del loro pensiero. Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza. Nel primo modo di giudicare si parte dalla coscienza come individuo vivente, nel secondo modo, che corrisponde alla vita reale, si parte dagli stessi individui reali viventi e si considera la coscienza soltanto come la loro coscienza» (L’Ideologia Tedesca).
Le soprastrutture “non hanno storia”, cioè non hanno storia autonoma, perché ciò che le condiziona è – alla fine – la base materiale data dalla produzione e riproduzione della comunità umana storica, reale. Si farebbe carta straccia del materialismo se dalla tesi dell’azione e reazione reciproca tra struttura e soprastrutture si volesse concludere circa la possibilità di comprenderle separatamente e, conseguentemente, di lasciare libero il Partito di agire indipendentemente dalle dinamiche profonde dell’economia. Non è questo l’insegnamento marxista e non è certo la conclusione cui arrivò Marx stesso: «Tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato non possono essere compresi né per sé stessi, né per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell’esistenza il cui complesso viene abbracciato da Hegel, seguendo l’esempio degli inglesi e dei francesi del secolo XVIII, sotto il termine di “società civile”; e che l’anatomia della società civile è da cercare nell’economia politica» (Prefazione a Per la critica dell’economia politica).
Abbiamo scritto in Fattori di razza e nazione nella teoria marxista: «L’elemento determinante è un faticoso adattarsi e ordinarsi delle collettività degli uomini alle difficoltà e ostacoli del luogo e del tempo in cui si trovano, risolvendo non miliardi di problemi di adattamento di singoli uomini, ma quello, sempre più tendente ad essere visto in modo unitario, dell’adattamento prolungato di tutta la specie come insieme alle esigenze che pongono le circostanze esterne».
Determinismo e libertà
Il gradualismo nella pratica, corollario necessario al meccanicismo nella teoria, condusse ben presto la seconda Internazionale nella palude del revisionismo; alcune correnti reagirono a quella degenerazione abbracciando l’opposta deviazione volontarista; la Sinistra italiana le definì entrambe con il termine di immediatismo. Il processo rivoluzionario riconosciuto e guidato dal partito, e non sbocco automatico causato dalla crisi del capitalismo o dal movimento immediato della classe, si surrogò con la sola manifestazione della volontà del proletariato cosciente.
Chi “fa” la storia? Gli uomini sono gli autori del proprio destino o sono semplici agenti in balìa del fato? Continua Engels scrivendo a Joseph Bloch: «Ci facciamo da noi la nostra storia, ma, innanzitutto, a presupposti e condizioni assai precisi. Tra di essi quelli economici sono in fin dei conti decisivi. Ma anche quelli politici, ecc, anzi addirittura la tradizione che vive nelle teste degli uomini ha la sua importanza, anche se non decisiva (...) Ma in secondo luogo la storia si fa in modo tale che il risultato finale scaturisce sempre dai conflitti di molte volontà singole, ognuna delle quali a sua volta è resa quel che è da una gran quantità di particolari condizioni di vita; sono perciò innumerevoli forze che si intersecano tra loro, un gruppo infinito di parallelogrammi di forze, da cui scaturisce una risultante – l’avvenimento storico – che a sua volta può esser considerata come il prodotto di una potenza che agisce come totalità, in modo non cosciente e non volontario. Infatti quel che ogni singolo vuole è ostacolato da ogni altro, e quel che ne viene fuori è qualcosa che nessuno ha voluto. Così la storia, quale è stata finora, si svolge a guisa di un processo naturale, ed essenzialmente è soggetta anche alle stesse leggi di movimento. Ma dal fatto che le singole volontà – ognuna delle quali vuole ciò a cui la spinge la sua costituzione fisica e le circostanze esterne, in ultima istanza economiche (le sue proprie personali o quelle generali e sociali) – non raggiungono ciò che vogliono, ma si fondono in una media complessiva, in una risultante comune, da questo fatto non si può dedurre che esse vadano poste = 0. Al contrario, ognuna contribuisce alla risultante, e in questa misura è compresa in essa».
La storia come processo, sinora, naturale o, il che è la stessa cosa: il comunismo è la fine del regno della necessità. Che le singole volontà prese in se stesse non possano spiegare i complessi fenomeni che fanno epoca non esclude, anzi implica, che quelle stesse – le loro relazioni reciproche – agiscano di riflesso sull’evoluzione della struttura e possano influenzarne pesantemente e talvolta disgraziatamente il percorso.
Scrive sempre Engels a W. Borgius: «Gli uomini fanno essi stessi la loro storia, ma finora, neppure in una determinata società ben delimitata, non con una volontà collettiva, secondo un piano d’assieme. I loro sforzi si intersecano contrastandosi e, proprio per questo, in ogni società di questo genere regna la necessità, il cui complemento e la cui forma di manifestazione è l’accidentalità. La necessità che si impone attraverso ogni accidentalità è di nuovo, in fin dei conti, quella economica (...) Quanto più il terreno che stiamo indagando si allontana dall’Economico e si avvicina al puro e astrattamente ideologico, tanto più troveremo che esso presenta nella sua evoluzione degli elementi fortuiti, tanto più la sua curva procede a zigzag. Ma se Lei traccia l’asse mediana della curva troverà che quanto più lungo è il periodo in esame, quanto più esteso è il terreno studiato, tanto più questo asse corre parallelo all’asse dell’evoluzione economica».
L’ultradeterminista Engels coglie ancora una volta nel segno. Più l’analisi si rivolge alla base materiale più ha la precisione di una scienza esatta, più se ne allontana più il rapporto di causalità è occultato dalle molte accidentalità caratterizzate da elementi casuali. Ciononostante è proprio a causa della debolezza di questo legame che la necessità s’impone come determinazione dominante.
Scriveva Marx a Pavel Vasilevic Annenkov il 28 dicembre 1846: «Gli uomini non sono i liberi arbitri delle loro forze produttive, la base di tutta quanta la loro storia; infatti ogni forza produttiva è una forza acquisita, è il prodotto di una attività precedente. Le forze produttive, dunque, sono il risultato dell’energia pratica degli uomini, ma questa energia stessa è circoscritta dalle condizioni in cui gli uomini si trovano situati, dalle forze produttive già acquisite, dalla forma sociale loro preesistente, che essi non creano, che è il prodotto della generazione precedente. Grazie al semplice fatto che ogni nuova generazione trova davanti a sé le forze produttive acquisite dalla vecchia generazione, che servono ad essa come materia prima per una nuova produzione, si forma un contesto nella storia degli uomini, si forma una storia dell’umanità, che è tanto più storia dell’umanità quanto più le forze produttive degli uomini e conseguentemente i loro rapporti sociali sono cresciuti».
La società ha ereditato dalle generazioni precedenti una certa quantità di forze produttive, il poco sviluppo delle quali determina il suo grado di “naturalità”; all’inverso il grande sviluppo delle forze di produzione consente alla società di interagire maggiormente sulla natura esterna; per questa ragione il comunismo è possibile solamente sulla base dei grandi progressi contraddittoriamente generati – a prezzo di milioni di vite – dal capitalismo.
Se l’azione cosciente è impedita al singolo, nel modo di produzione mercantile borghese si determina un germe della futura società consapevole, il Partito Comunista. «La giusta prassi marxista afferma che la coscienza del singolo e anche della massa segue l’azione, e che l’azione segue la spinta dell’interesse economico. Solo nel partito di classe la coscienza e, in date fasi, la decisione di azione precede lo scontro di classe. Ma tale possibilità è inseparabile organicamente dal gioco molecolare delle spinte iniziali fisiche ed economiche» (Teoria e Azione nella dottrina marxista).
Anche il Partito non è libero di “fare” la rivoluzione a proprio piacimento, in ultima istanza sono sempre le spinte materiali che lo condizionano, più giustamente che ne impongono certe azioni e non altre, i limiti alla libertà d’azione appunto. Così «mentre il determinismo esclude per il singolo possibilità di volontà e coscienza premesse all’azione, il rovesciamento della prassi le ammette unicamente nel partito come il risultato di una generale elaborazione storica. Se dunque vanno attribuite al partito volontà e coscienza, deve negarsi che esso si formi dal concorso di coscienza e volontà di individui di un gruppo; e che tale gruppo possa minimamente considerarsi al di fuori delle determinanti fisiche, economiche e sociali in tutta l’estensione della classe».
La Struttura
L’infinita ricchezza del ciclo della riproduzione della vita quale potrà cominciare nel comunismo risplende già nella sua teoria anticipatrice, il marxismo. Solo questa concezione del mondo concepisce la base materiale nella sua totalità, non limitandosi a cingerla negli angusti confini dell’economia, intesa per giunta puramente come un conto monetario in partita doppia. La struttura diventa, allora, nella scienza rivoluzionaria, l’insieme dei rapporti che permettono il ricambio organico dell’umanità con la circostante natura.
Il nostro testo Fattori di razza e nazione nella teoria marxista, del 1953, a tal proposito afferma: «Al materialista dialettico (...) è imperdonabile supporre che la sottostruttura economica, nelle forze e nelle leggi della quale si cerca la spiegazione della storia politica dell’umanità, comprenda solo la produzione ed il consumo della più o meno vasta gamma di beni occorrenti a tenere in vita l’individuo; che a tale campo si limitino i rapporti materiali tra individui, e che dal gioco delle forze che legano queste innumeri molecole isolate si compongano le norme, regole e leggi del fatto sociale; mentre tutta una serie di soddisfazioni della vita restano fuori di questa costruzione; e sono per molti dilettanti quelle che vanno dal sex appeal fino ai godimenti estetici o intellettuali. Tale accezione del marxismo è spaventosamente falsa, è il peggiore degli antimarxismi in circolazione, ed oltre al ricadere implicito ma inesorabile nell’idealismo borghese, piomba in pieno individualismo, altro non meno essenziale carattere del pensiero reazionario; e ciò tanto se sia posto in prima linea e come grandezza base l’individuo biologico, che quello psichico».
Ogni teoria che riduca il marxismo, scienza totale e totalitaria, ad una fredda analisi del “fatto economico” non può che difendere gli interessi delle classi avversarie, le quali nel semplice scambio tra capitale e lavoro si sentono a proprio agio; al contrario i lavoratori sono costretti a vedere nelle relazioni che intercorrono al di fuori dell’industria la loro vera e profonda essenza e viceversa il lavoro come sviluppo di istinti bestiali. Nei Manoscritti Economico-Fisolofici del 1844 la questione è ben approfondita e l’analisi dell’alienazione conseguente è completa, approfondita poi nei passi del Capitale dedicati al feticismo.
Ancora dai Fattori: «Il concetto di “base economica” di una data società umana si allarga dunque ben oltre i limiti di quella superficiale interpretazione che lo limita ai fatti della remunerazione del lavoro e dello scambio mercantile. Esso abbraccia tutto il campo delle forme di riproduzione della specie, o istituti familiari, e mentre ne formano parte integrante le risorse della tecnica e la dotazione di strumenti ed attrezzi materiali di ogni natura, non ne va limitata la portata a quella di un magazzino campionario, ma vi va incluso ogni meccanismo di cui si dispone per il trapasso di generazione in generazione di tutta la “sapienza tecnologica” sociale. In questo senso e come reti generali di comunicazione e trasmissione, vanno dopo il linguaggio parlato considerati e annoverati tra i mezzi di produzione, la scrittura, il canto, la musica, le arti grafiche, la stampa, in quanto sorgono come mezzi di trasmissione della dotazione produttiva. Nella considerazione marxista anche letteratura, poesia e scienza sono forme superiori e differenziate degli strumenti produttivi e nascono per rispondere alla medesima esigenza della vita mediata ed immediata della società».
Che l’ideologo borghese non riesca a vedere oltre il proprio naso è comprensibile, se così non fosse verrebbe meno al proprio dovere per cui è lautamente retribuito. In tutte le relazioni umane scorge lo scambio tra individui, atomi isolati che solo sul mercato entrano in contatto e la concorrenza è il metodo regolatore di ogni aspetto della vita. Nello scorcio della lettera di Engels a W. Borgius del 25 gennaio 1894 qui di seguito riprodotto il tema è affrontato con taglio storico, ne deriva necessariamente la transitorietà del capitalismo al cui fondo sta appunto lo scambio mercantile e la divisione del lavoro. L’ultimo aspetto è di grande rilevanza e verrà affrontato approfonditamente nei rapporti dedicati specificamente al modo di produzione borghese.
In questa società ormai putrescente la negazione dialettica della divisione del lavoro produce una cooperazione crescente tra i vari operai parziali della singola azienda (intendendo per tale l’unità economica e non il singolo stabilimento) i quali non scambiano già più tra di loro valori ed ognuno dei quali non produce una merce, creazione finale di questo processo caratterizzato da scambi non mercantili.
«Parlando dei rapporti economici, che noi consideriamo come la base determinante della storia della società, intendiamo il modo in cui gli uomini di una determinata società producono il proprio sostentamento e si scambiano i prodotti (nella misura in cui esiste divisione del lavoro). Vi è dunque compresa l’intera tecnica della produzione e dei trasporti. Questa tecnica determina, secondo la nostra concezione, anche il modo dello scambio, quindi anche della distribuzione dei prodotti e, dopo la dissoluzione della società gentilizia, anche la divisione in classi, quindi i rapporti di signoria e di servitù, quindi lo Stato, la politica, il diritto, ecc. Sono inoltre comprese nelle condizioni economiche la base geografica sulla quale esse si manifestano e i relitti effettivamente trasmessi di stadi precedenti dell’evoluzione economica, che si sono perpetuati, spesso soltanto per tradizione o per forza d’inerzia, e naturalmente l’ambiente esterno che circonda questa forma di società».
Appare ancora una volta in chiaro la determinazione finale delle soprastrutture da parte della struttura ed il loro legame determinato. Vi si trova, inoltre, un’altra tesi chiave della dialettica materialista per cui la produzione determina la distribuzione, intesa non solo come scambio di prodotti ma anche come distribuzione dei produttori nei vari rami di cui si compone la produzione materiale stessa.
Il comunismo scientifico è dialettico perché concepisce i rapporti caratterizzanti un determinato modo storico di produzione non nella loro staticità ed eternità assoluta, ma nel loro continuo scontro-incontro, cozzo che produce il progredire della storia. Questa, arrivata alla propria tappa capitalistica, ha raggiunto un livello di contraddittorietà tale per cui l’ulteriore proseguimento non può che derivare dallo scioglimento di tutti i contrasti in un’unità superiore armonicamente sviluppantesi. Il capitale è coerentemente definibile come una contraddizione in processo, per cui da un lato sviluppa enormemente e tendenzialmente all’infinito le forze produttive, dall’altro è costretto a rinchiuderle in rapporti di produzione ormai palesemente inadeguati a contenerle. Ripetiamo questo noto passaggio de I Fattori, dato che proprio ciò che è dato per scontato è spesso in utilizzato per distorcere la dottrina complessiva:
«Forze produttive materiali della società. Sono, ai vari momenti dello sviluppo, la forza di lavoro delle braccia dell’uomo, gli utensili e strumenti di cui si dispone per applicarla, la fertilità della terra coltivata, le macchine che aggiungono alla forza dell’uomo le energie meccaniche e fisiche; tutti i procedimenti di applicazione alla terra e ai materiali di quelle forze manuali e meccaniche, procedimenti di cui una data società ha nozione e possesso.
«Rapporti di produzione relativi ad un dato tipo di società sono “i necessari rapporti tra loro a cui gli uomini accedono nella produzione sociale della loro vita”. Sono rapporti di produzione la libertà o il divieto di occupare terra per lavorarla, di disporre di utensili, macchine, manufatti, di disporre dei prodotti del lavoro per consumarli, spostarli, assegnarli ad altri. Ciò in genere; in particolare sono rapporti di produzione la schiavitù, il servaggio, il salariato, la mercatura, la proprietà terriera, l’impresa industriale. I rapporti di produzione, con espressione che riflette non l’aspetto economico ma quello giuridico, possono parimenti dirsi rapporti di proprietà o anche in altri testi forme di proprietà: sulla terra, sullo schiavo, sul prodotto del lavoro del servo, sulle merci, sulle officine e macchine, ecc. Tale insieme di rapporti costituisce la base o struttura economica della società».
Arrivata ad un certo grado di sviluppo la contraddizione tra forze e rapporti di produzione il vecchio involucro deve saltare. Il marxismo legge con particolare attenzione i momenti di rottura perché, come detto più volte, è scienza dei trapassi rivoluzionari e parallelamente scienza delle controrivoluzioni, ovverosia degli ostacoli materiali e spirituali che si frappongono tra la vecchia e la nuova società di cui la prima è già gravida. Non può definirsi comunista colui il quale si limiti ad indagare i modi di produzione alla maniera delle scienze enciclopediche nelle quali la realtà è prima vivisezionata con il bisturi ed i suoi vari pezzi analizzati separatamente.
Se la teoria delle fasi di transizione, sulle quali la dialettica posa il proprio sguardo, è stata talmente mistificata dalla degenerazione della seconda Internazionale da renderla irriconoscibile e solo la paziente opera dei bolscevichi e della Sinistra Comunista italiana è stata in grado di ridonarle l’originario vigore, che poi il centrismo è tornato ad appannare.
Il trapasso tra i successivi modi di produzione non può avvenire con gradualità e progresso costante e continuo, il salto è in realtà frutto di un urto violento tra classi che sono espressione l’una delle vecchie e l’altra delle nascenti relazioni sociali. La teoria della violenza è parte essenziale del programma del Partito Comunista; così come del partito della reazione, il quale non ne fa particolare mistero, sempre pronto a sfoderare la spada quando la violenza nascosta e normalmente insita nella base economica non è più sufficiente ad impedire alla classe rivoluzionaria di portare a termine il lavoro del becchino per il quale è sorta.
L’intero testo, Forza, violenza, dittatura nella lotta di classe, è stato dedicato al tema; la citazione che segue non è però tratta da quel lavoro, bensì da un rapporto ad una nostra Riunione Generale del 1962: «La violenza non esiste in sé e non deriva dalla natura umana come pretendono gli idealisti, ma è una manifestazione necessaria dello sviluppo sociale dell’umanità durante tutta la storia vissuta fino ad oggi. Essa deriva dallo sviluppo reale della società ed ha un ruolo, una funzione ben determinata, che, in date condizioni storiche, la rendono inevitabile, e ciò sia che tale funzione sia favorevole allo sviluppo storico o ad esso contraria. Fino a che l’agente, il potere politico che adopera la violenza, svolge una funzione sociale positiva, esso si mantiene in vita. Quando questa funzione non la svolge più, è destinato a cadere sotto i colpi di una violenza ancora più forte prodotta dalle ragioni economiche e sociali nuove che si vogliono aprire la strada».
L’assalto al cielo si indirizza modernamente contro le istituzioni decadenti che sorreggono il mondo del mercato e del denaro ed ha come obiettivo primario la distruzione dei rapporti di proprietà quale manifestazione giuridica delle corrispondenti forme della produzione. La propaganda dei comunisti ha spesso insistito sulla parola d’ordine della “abolizione della proprietà”, usualmente slegando il rapporto di proprietà dalla base economica che lo genera; la dottrina dei modi di produzione al contrario deve continuamente ricordarsi di questo legame, tanto che il Partito appena ricostituitosi nel secondo dopoguerra ha sentito il bisogno di tornare sull’argomento per chiarire le idee ad una classe ubriacata dalle lucciole statalizzatrici fasciste, staliniste o roosveltiane che fossero. «Ogni rapporto economico e sociale si proietta in formulazioni giuridiche, e partendo da tale posizione il Manifesto dice che i comunisti pongono avanti in ogni stadio del movimento la “questione della proprietà”, poiché essi pongono avanti la questione della produzione, più generalmente quella della produzione, distribuzione e consumo, quella dell’economia (...) Nel passo fondamentale della prefazione alla Critica dell’economia politica Marx enuncia la dottrina del contrasto delle forze produttive con le forme della produzione e subito aggiunge: “oppure – il che è solo un modo giuridico di esprimere la stessa cosa – con i rapporti di proprietà”. La giusta accezione della formulazione giuridica non può dunque fondarsi che sulla giusta presentazione del rapporto produttivo ed economico che il socialismo postula di infrangere» (Proprietà e Capitale).
Le Soprastrutture
Come si è visto più sopra la ricca base materiale, ampliatasi per opera delle forze di produzione mobilitate dal modo di produzione capitalistico a tal punto da permettere – dopo il rivoluzionamento dei rapporti di produzione borghesi ed una fase di transizione aperta dalla dittatura del proletariato e dal terrore rosso – il pieno sviluppo delle individualità in un armonico ricambio organico con la natura; quella grandiosa struttura, dicevamo, determina in ultima istanza gigantesche soprastrutture che, da quando la storia è caratterizzata dalla lotta tra classi con interessi antagonistici, invece di aderire alla base la cingono per costringere le relazioni umane entro confini che diventano sempre più angusti.
L’attenzione dei marxisti per le dinamiche interne alle varie soprastrutture pertanto è giustificata proprio dall’essere i principali ostacoli alla lotta della classe operaia. In generale. questa la definizione di soprastruttura:
«Sovrastruttura, ciò che deriva, che si sovrappone alla struttura economica di base, è fondamentalmente in Marx la impalcatura giuridica e politica di ogni data società: costituzioni, leggi, magistrature, corpi armati, potere centrale di governo. Questa sovrastruttura ha tuttavia un aspetto materiale, concreto. Ma Marx tiene a distinguere tra la realtà del trapasso nei rapporti di produzione e in quelli di proprietà e di diritto, e in fine di potere, e il trapasso quale si presenta nella “coscienza” del tempo e anche della classe vincente. Questa (fino ad oggi) è una derivazione della derivazione; una sovrastruttura della sovrastruttura, e forma il campo mutevole della opinione comune, della ideologia, della filosofia, dell’arte e sotto un dato aspetto (fino a che non è una normativa pratica) della religione (...) Per distinguere i due “strati” della sovrastruttura si potrebbero adottare i termini di sovrastrutture di forza (diritto positivo, Stato) e sovrastrutture di coscienza (ideologia, filosofia, religione, ecc.)».
Nei successivi rapporti sui modi di produzione ci atterremo proprio a questa distinzione interna alle soprastrutture e porteremo il nostro sguardo anche sui meccanismi dei trapassi, durante le fasi di transizione, dei cambiamenti che dalla base materiale si riverberano sulle soprastrutture di forza (prima derivazione) e da queste nelle soprastrutture di coscienza (derivazione seconda). Risulterà confermata una tesi che i comunisti hanno sempre difeso con le unghie ed i denti: l’ideologia non è frutto di un “errore” tutto interno al pensiero, ne tanto meno opera di cricche corrotte di uomini malvagi, ma la necessaria derivazione di rapporti che risultano invertiti già nella struttura economica di una società classista.
Tra le soprastrutture di forza il ruolo dominante lo svolge lo Stato. Non casualmente è contro di esso che si fionda l’ira proletaria nei momenti in cui divampa la guerra di classe; i lavoratori percepiscono istintivamente, dai loro stomaci, il suo ruolo di garante degli interessi della classe dominante ed in pochi istanti cancellano dalle proprie menti decenni di propaganda socialpatriottica che ha inteso dipingere quella macchina di oppressione neutrale rispetto la lotta di classe.
Lenin, il grande restauratore russo del marxismo ortodosso, ha dovuto combattere due invarianti deviazioni dal comunismo scientifico: la teoria dello Stato conciliatore tra le classi e quella anarchica sulla non necessità dello Stato nel periodo successivo la presa del potere da parte del proletariato vittorioso. Entrambe sono accomunate dalla mancata comprensione della natura dello Stato, della sua origine storica, e conseguentemente del processo della sua estinzione. «Lo Stato è il prodotto e la manifestazione degli antagonismi inconciliabili tra le classi. Lo Stato appare là, nel momento e in quanto, dove, quando e nella misura in cui gli antagonismi di classe non possono essere oggettivamente conciliati. E, per converso, l’esistenza dello Stato prova che gli antagonismi di classe sono inconciliabili» (Stato e Rivoluzione).
Lo Stato nasce pertanto ad un determinato grado di sviluppo delle forze di produzione quale manifestazione tangibile dell’antagonismo tra le classi, al servizio di quella dominante. Nella Ideologia Tedesca Marx ed Engels già avevano messo a punto la concezione materialistica della storia e già in quell’occasione colse nello Stato della classe borghese il nemico principale da abbattere: «Con la divisione del lavoro è data la contraddizione fra l’interesse del singolo individuo, o della singola famiglia, e l’interesse collettivo di tutti gli individui che hanno rapporti reciproci; e questo interesse collettivo non esiste puramente nell’immaginazione, come “universale”, ma esiste innanzi tutto nella realtà come dipendenza reciproca degli individui fra i quali il lavoro è ripartito. Appunto da questo antagonismo fra interesse particolare e interesse collettivo l’interesse collettivo prende una configurazione autonoma come Stato, separato dai reali interessi singoli e generali, e in pari tempo come comunità illusoria, ma sempre sulla base reale di legami esistenti in ogni conglomerato familiare e tribale, come la carne e il sangue, la lingua, la divisione del lavoro accentuata e altri interessi, e soprattutto – come vedremo più in particolarmente in seguito – sulla base delle classi già determinate dalla divisione del lavoro, che si differenziano in ogni raggruppamento umano di questo genere e delle quali una domina tutte le altre. Ne consegue che tutte le lotte nell’ambito dello Stato, la lotta fra democrazia, aristocrazia e monarchia, la lotta per il diritto di voto, ecc. ecc., altro non sono che le forme illusorie nelle quali vengono condotte le lotte reali delle diverse classi (...) Inoltre che ogni classe la quale aspiri al dominio, anche quando, come nel caso del proletariato, il suo dominio implica il superamento di tutta la vecchia forma della società e del dominio in genere, deve dapprima conquistarsi il potere politico per rappresentare a sua volta il suo interesse come l’universale, essendovi in un primo momento costretta».
Nella citazione è chiaro come da un lato le lotte politiche che agitano i partiti siano le manifestazioni superficiali degli interessi contrastanti di cui quei partiti sono la rappresentazione politica, e come tali non possono essere prive di interesse per il Partito Comunista, riprova ne siano gli scritti di Marx su Le lotte di classe in Francia e Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte; dall’altro lato si pone come obbiettivo dell’assalto al cielo proprio lo Stato anche da parte di quella classe che in se stessa rappresenta già potenzialmente la negazione di tutte le classi; la negazione dialettica dello Stato di classe ha bisogno di una mediazione consistente nel trapasso al non-Stato proletario o Commune senza la quale non sarà mai possibile l’esistenza della società comunista senza classi; risolvere le contraddizioni reali al modo anarchico equivale solamente a negarle nell’Idea credendo in tal modo di averle superate anche materialmente.
Nel precedente rapporto “sul metodo” facemmo riferimento ad un passaggio della Introduzione del 1857 a Per la critica dell’economia politica dove Marx tornava sul concetto di “produzione in generale”; a tal proposito è possibile estendere quel ragionamento alle soprastrutture e nella fattispecie allo Stato. La Stato in generale è definibile appunto come lo strumento di oppressione della classe sfruttata da parte della classe dominante; questa macchina si concretizza storicamente in base agli attori della lotta assumendo in ogni caso determinate sembianze.
Scrive Engels ne L’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato: «Lo Stato, poiché è nato dal bisogno di tenere a freno gli antagonismi di classe, ma contemporaneamente è nato in mezzo al conflitto di queste classi, è, per regola, lo Stato della classe più potente, economicamente dominante che, per mezzo suo, diventa anche politicamente dominante e così acquista un nuovo strumento per tener sottomessa e per sfruttare la classe oppressa. Come lo Stato antico fu anzitutto lo Stato dei possessori di schiavi al fine di mantenere sottomessi gli schiavi, così lo Stato feudale fu l’organo della nobiltà per mantenere sottomessi i contadini, servi o vincolati, e lo Stato rappresentativo moderno è lo strumento per lo sfruttamento del lavoro salariato da parte del capitale. Eccezionalmente tuttavia, vi sono dei periodi in cui le classi in lotta hanno forze pressoché eguali, cosicché il potere statale, in qualità di apparente mediatore, momentaneamente acquista una certa autonomia di fronte ad entrambe. Così la monarchia assoluta dei secoli XVII e XVIII che mantenne l’equilibrio tra nobiltà e borghesia; così il bonapartismo del primo e specialmente del secondo Impero francese che si valse del proletariato contro la borghesia e della borghesia contro il proletariato».
Nell’ultima parte di questo passo Engels dà importanti indicazioni utili all’indirizzo del Partito nei momenti di profonda crisi della formazione sociale capitalistica; in questi frangenti lo Stato appare come l’arbitro della lotta fra le classi e può apparire un potere neutro; al contrario rimane pur sempre lo strumento di soggiogamento della classe dominata e l’azione dei comunisti non può che rimanere sulla strada tracciata una volta per sempre dai bolscevichi.
«Lo Stato dunque non è affatto una potenza imposta alla società dall’esterno e nemmeno “la realtà dell’idea etica”, “l’immagine e la realtà della ragione”, come afferma Hegel. Esso è piuttosto un prodotto della società giunta a un determinato stadio di sviluppo, è la confessione che questa società si è avvolta in una contraddizione insolubile con se stessa, che si è scissa in antagonismi inconciliabili che è impotente a eliminare. Ma perché questi antagonismi, queste classi con interessi economici in conflitto non distruggano se stessi e la società in una sterile lotta, sorge la necessità di una potenza che sia in apparenza al di sopra della società, che attenui il conflitto, lo mantenga nei limiti dell’”ordine”; e questa potenza che emana dalla società, ma che si pone al di sopra di essa e che si estranea sempre più da essa, è lo Stato».
Lo Stato appare al di sopra della società perché ha la funzione di trovare una soluzione di forza alle contraddizioni che dominano le società divise in classi, soluzione temporanea e mai definitiva, anzi testimonianza stessa dell’inconciliabilità degli interessi di quelle classi in mortale conflitto. Più la crisi della vecchia società matura e più si eccita la guerra sociale, più lo Stato ingigantisce e si distacca dalla sua base sociale e la sovrasta come un Leviatano.
Il limitato orizzonte della democrazia borghese dipinge uno Stato non prodotto storico ma da sempre strumento indispensabile alla vita associata della specie: Stato, famiglia, religione, classi, ecc. cessano d’essere forme storiche proprie di relazioni sociali determinate e divengono idee eterne ed immutabili. Al contrario lo Stato, prodotto dell’antagonismo tra classi, morirà con esse. «Lo Stato non esiste dall’eternità. Vi sono state società che ne hanno fatto a meno e che non avevano alcuna idea di Stato e di potere statale. In un determinato grado dello sviluppo economico, necessariamente legato alla divisione della società in classi, proprio a causa di questa divisione lo Stato è diventato una necessità. Ci avviciniamo ora, a rapidi passi, ad uno stadio di sviluppo della produzione nel quale l’esistenza di queste classi non solo ha cessato di essere una necessità ma diventa un ostacolo effettivo alla produzione. Perciò esse cadranno così ineluttabilmente come sono sorte. Con esse cadrà ineluttabilmente lo Stato. La società che riorganizza la produzione in base a una libera ed eguale associazione di produttori, relega l’intera macchina statale nel posto che da quel momento le spetta, cioè nel museo delle antichità accanto alla rocca per filare e all’ascia di bronzo».
Il passaggio dialettico non potrebbe essere più chiaro, tuttavia è stato capovolto nel suo contrario dal revisionismo che ha dilaniato la seconda Internazionale (prima di divorare anche la terza). Per addolcire il programma del Partito e renderlo accettabile anche dalla piccola borghesia trasfigurarono i concetti e lo Stato proletario da mezzo per difendere il proletariato vittorioso e schiacciare la resistenza nemica è divenne un ibrido senza capo ne coda, uno “Stato popolare ibrido”: Scriveva Engels a Bebel nel marzo 1875: «Non essendo lo Stato altro che una istituzione temporanea di cui ci si deve servire nella lotta, nella rivoluzione, per tener soggiogati con la forza i propri nemici, parlare di uno “Stato popolare libero” è pura assurdità: finché il proletariato ha ancora bisogno dello Stato, ne ha bisogno non nell’interesse della libertà, ma nell’interesse dell’assoggettamento dei suoi avversari, e quando diventa possibile parlare di libertà allora lo Stato come tale cessa di esistere. Noi proporremo quindi di mettere ovunque invece della parola Stato la parola Gemeinwesen, una vecchia eccellente parola tedesca, che corrisponde alla parola francese Commune».
Le volgarizzazioni del comunismo scientifico che hanno attaccato nel passato il movimento e che cercheranno di soffocarne la spinta insurrezionale quando divamperà nuovamente la lotta di classe, hanno le loro fondamenta nel processo di riproduzione della formazione sociale. La struttura, le soprastrutture e le loro relazioni reciproche hanno il proprio riflesso nel pensiero. Senza addentrarci in una esposizione sistematica delle tesi marxiste sulla oggettività della scienza, rimandando a precedenti studi del partito, ricapitoliamo brevemente la concezione materialistica del rapporto tra essere e pensiero.
Da L’Ideologia Tedesca: «Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza materiale dominante è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale. Le idee dominanti non sono altro che l’espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come idee: sono dunque l’espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe la classe dominante, e dunque sono le idee del suo dominio. Gli individui che compongono la classe dominante sono possessori, fra l’altro, anche della coscienza, e quindi pensano; in quanto dominano come classe e determinano l’intero ambito di un’epoca storica, è evidente che essi lo fanno in tutta la loro estensione, e quindi fra l’altro dominano anche come pensanti, come produttori di idee che regolano la produzione e la distribuzione delle idee del loro tempo; è dunque evidente che le loro idee sono le idee dominanti dell’epoca».
La teoria marxista della conoscenza trova qui un primo fondamento, definendo le idee come i riflessi ideali dei rapporti materiali; essendo i secondi caratterizzati da un rapporto di dominio, il loro riflesso si configura come l’ideologia della classe dominante. Colui il quale, perciò, si configura il processo rivoluzionario come un aumento progressivo della coscienza di classe in seno al proletariato, con ciò stesso scardina i fondamenti della dottrina materialistica. La coscienza segue l’azione e solo successivamente alla presa del potere e in un percorso travagliato e certo non di breve durata il proletariato nella sua interezza potrà appropriarsi della scienza; infine sarà solamente nel comunismo che la scienza cesserà d’essere di classe e specchio di rapporti materiali estraniati.
Oltre ad essere la ideologia l’espressione spirituale del dominio della classe borghese, la sua produzione e distribuzione è di pertinenza di un ceto ristretto che gode del massimo rispetto, moderni sacerdoti incaricati di celebrare quotidianamente il trionfo della classe che meschinamente servono. Questa separazione del ceto intellettuale dal resto della società è frutto della crescente divisione sociale del lavoro che separa il lavoro manuale da quello intellettuale, relegando i secondi al triste ma ben pagato compito di reggicoda del regime; per questo, e per altri motivi, il Partito si tiene alla larga da tutto il codazzo di intellettuali che circondano il dominio della classe borghese.
Scriveva Engels a Conrad Schmidt il 27 ottobre 1890: «Per quel che concerne gli ambiti ideologici maggiormente campati in aria, religione, filosofia, ecc., questi hanno a che fare con un patrimonio che risale alla preistoria e che il periodo storico ha trovato e ha fatto proprio: quello che oggi chiameremmo la stupidità. Il fattore economico è alla base di queste varie idee sbagliate sulla natura, sulla stessa condizione umana, su spiriti, forze magiche ecc. per lo più solo in modo negativo: il basso sviluppo economico del periodo preistorico ha come complemento, ma talvolta come condizione e persino causa, le idee sbagliate sulla natura (...) La storia delle scienze è la storia della graduale eliminazione di questa stupidità, ovvero della sua sostituzione con stupidità nuove, ma sempre meno assurde. Coloro che provvedono a ciò appartengono a loro volta a determinate sfere della divisione del lavoro, e presumono di trattare un ambito indipendente. Ed in quanto essi formano all’interno della divisione sociale del lavoro un gruppo autonomo, le loro produzioni, compresi i loro errori, hanno un influsso che si ripercuote sull’intero sviluppo sociale, persino su quello economico. Con tutto ciò sono però a loro volta sotto l’influsso dominante dello sviluppo economico».
Gli scienziati, a cui il proletariato ancora si prostra credendo di aver a che fare con dei neutrali ed innocenti studiosi della natura, sono in realtà gli eredi degli antichi sacerdoti, e come quelli servitori dei potenti. L’ideologia non una sua storia autonoma, e lo studio della storia della scienza va effettuato analizzando i suoi collegamenti con la base economica. L’umanità si pone solo problemi che la realtà ha già risolto. Nello studio dei modi di produzione successivi dovremo occuparci del corrispondente ammasso ideologico che li avvolge e ne annebbia i reali meccanismi; risalendo indietro nel tempo ci imbatteremo in concezioni del mondo che al borghese appaiono assurde e ridicole, e sarà invece nostro compito mostrarne il collegamento con la società che li ha creati; allora apparirà in chiara luce, per esempio, l’importanza rivestita dalle religioni primitive come fonte di conoscenza della natura circostante, ancora matrigna a causa del basso livello delle forze di produzione.
Scriveva Engels a Franz Mehring il 14 luglio 1893: «L’ideologia è un processo che il cosiddetto pensatore compie bensì con coscienza ma con falsa coscienza. Le vere forze agenti che lo muovono gli restano sconosciute; se così non fosse non si tratterebbe di un processo, appunto, ideologico. Egli quindi si immagina delle false o, rispettivamente, illusorie forze agenti. Trattandosi di un processo raziocinante, ne deduce sia il contenuto sia la forma dal puro pensiero, il suo o quello dei suoi predecessori. Lavora con puro materiale intellettivo che, senza accorgersene, egli crede prodotto dal pensiero, non preoccupandosi di andare in cerca di un’origine più remota, indipendente dal pensiero; e tutto ciò gli riesce di per sé evidente, perché ogni azione in quanto mediata dal pensiero, gli appare anche fondata nel pensiero.
«L’ideologo storico (qui, storico deve stare sinteticamente per politico, giuridico, filosofico, teologico, insomma per tutti i campi appartenenti alla società e non soltanto alla natura), l’ideologo storico, dunque, dispone in ogni campo scientifico di un materiale enucleatosi autonomamente dal pensiero di generazioni precedenti e che ha percorso nel cervello di queste successive generazioni una serie autonoma e tutta sua propria di sviluppi. Certo, fatti esterni, appartenenti al suo o ad altri campi, possono avere influito in modo codeterminante su tali sviluppi; ma questi fatti, secondo la tacita premessa, non sono a loro volta che semplici frutti di un processo intellettivo, e così continuiamo a muoverci nell’ambito del puro pensiero, il quale, a quanto sembra, ha felicemente digerito anche i fatti più duri (...)
«A tutto ciò si collega la sciocca concezione degli ideologi, secondo cui, poiché neghiamo alle diverse sfere ideologiche che recitano una parte nella storia uno sviluppo storico indipendente, negheremmo loro anche ogni efficacia storica. Alla base di ciò è la volgare concezione antidialettica di causa e di effetto come poli rigidamente contrapposti, l’assoluta dimenticanza dell’azione e reazione reciproca. Che un fattore storico, una volta dato alla luce da altre cause, in definitiva economiche, possa a sua volta reagire sul mondo circostante perfino sulle sue stesse cause, quei signori lo dimenticano, spesso, quasi di proposito».
Il processo di alienazione del pensiero operato dagli ideologi, così ben descritto da Engels, è alla base di tutta la moderna produzione cosiddetta scientifica. Essendo l’ideologia un riflesso della struttura di base, ne eredita necessariamente tutte le contraddizioni e le determinazioni. Assistiamo pertanto ad una crescente divisione del lavoro anche in campo intellettuale, il prototipo rinascimentale dello studioso completo è oggi una chimera e questo fatto inficia di per sé stesso la ricerca scientifica, limitata e imprigionata in spazi sempre più ristretti ed in compartimenti non comunicanti; i pochi tentativi di elaborare sistemi di pensiero di una certa ampiezza finiscono per diventare, appunto, sistemi, ma alla maniera hegeliana, cioè viziati da idealismo ed i cui prodotti invece di spiegare la realtà la occultano.
Questa rappresentazione capovolta, invertita della realtà deriva dalla presenza di rapporti sociali antagonistici, come spieghiamo in Teoria e Azione nella dottrina marxista: «Il materialismo storico-dialettico, contrapponendosi alle concezione di stampo illuministico ed idealistico, non vede quindi nell’ideologia, cioè nella rappresentazione mistificata e capovolta dei rapporti reali, il frutto di un errore da correggere per aprire gli occhi ai ciechi, ma la risultanza indispensabile di un processo reale corrispondente a rapporti materiali, quelli stessi che l’ideologia proietta nella sua distorsione. Tale distorsione deriva a sua volta necessariamente dalla situazione storica delle forze sociali che nell’ideologia si esprimono e che la impongono all’insieme sociale, essendo sempre ideologia dominante quella della classe dominante. La concezione marxista respinge parimenti l’idea illuministica del “cosciente inganno” dei capi-ideologi (gli “astuti sacerdoti”), giacché la stessa rappresentazione dell’ideologia – necessariamente fantastica perché sublimazione di uno stato di cose storicamente caduco – si impone appunto come programma e sovrastruttura necessaria di fattori e trapassi sociali necessari. Così per esempio l’ideologia borghese si fonda sull’effettiva conquistata libertà dei lavoratori dai vincoli giuridici e microproprietari feudali: né la borghesia può ripudiarla, perché con ciò ripudierebbe se stessa».
Transizione e rivoluzione
I lavori di partito non vogliono essere esercizi accademici; lo studio sulla dottrina marxista dei modi di produzione mira ad analizzare le epoche storiche rivoluzionarie in cui la classe oppressa ha sferrato l’attacco alle strutture del potere vigente, ultimo nell’Ottobre Rosso, per affinare le armi per la prossima certa battaglia. La controrivoluzione mondiale successiva alla sconfitta dalla classe operaia non ha cessato ancora oggi di produrre i suoi effetti, tuttavia da questo tragico evento il partito ha tratto ulteriori importanti lezioni.
Ribadiamo antichi chiodi, rifacendoci a studi poderosi, primo fra tutti quello di Bucharin sulla Economia del periodo di transizione.
Materialisticamente, il trapasso di un modo di produzione nel successivo non ha nulla di misterioso. Abbiamo in Marx, nella Prefazione a Per la critica dell’economia politica: «A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura».
Ciò che aveva permesso lo sviluppo della ricchezza ne diventa l’ostacolo principale. Sta alla classe dominata spezzare il vecchio guscio. La dialettica della violenza rivoluzionaria all’interno del contrasto tra forze e rapporti di produzione è stringente nel determinare la transizione, tanto da non lasciar il minimo spazio ne al volontarismo piccolo borghese ne al gradualismo riformista. I germi della nuova società devono essere già tutti presenti nella vecchia cosicché il compito della classe dominata si configuri come l’opera di una levatrice.
Scrive Marx nei Grundrisse: «Tutte le forme di società finora esistite sono crollate in presenza dello sviluppo della ricchezza – o, che è la stessa cosa, delle forze produttive sociali. È per questo motivo che presso gli antichi, che avevano questa consapevolezza, la ricchezza viene denunciata direttamente come elemento di disgregazione della comunità. L’ordinamento feudale da parte sua crollò in presenza della industria cittadina, del commercio, dell’agricoltura moderna (e persino di singole invenzioni, come la polvere da sparo e la stampa). Con lo sviluppo della ricchezza – e perciò di nuove forze e di più estese relazioni tra gli individui – si dissolsero le condizioni economiche su cui poggiava la comunità, i rapporti politici dei diversi elementi della comunità che ad essa corrispondevano: la religione, in cui essa veniva idealizzata (e l’una e l’altra poggiavano a loro volta su un determinato rapporto con la natura, nella quale ogni forza produttiva si risolve), il carattere, il modo di pensare ecc. degli individui.
«Lo sviluppo della scienza – ossia della forma più solida della ricchezza, al tempo stesso prodotto e produttrice della stessa – era sufficiente, da solo, a dissolvere questa comunità. Ma lo sviluppo della scienza, di questa ricchezza ideale e pratica ad un tempo, non è che uno dei lati, una delle forme, in cui si manifesta lo sviluppo delle forze produttive umane, ossia della ricchezza. Dal punto di vista ideale la dissoluzione di una determinata forma di coscienza era sufficiente ad uccidere un’intera epoca. Nella realtà, questo limite della coscienza corrisponde ad un determinato grado di sviluppo delle forze produttive materiali e perciò della ricchezza. Naturalmente non si ebbe soltanto uno sviluppo sulla vecchia base, ma uno sviluppo di questa base stessa. Il più alto sviluppo di questa base stessa (la sua fioritura; ma si tratta pur sempre di questa base, di questa pianta che fiorisce; ed è per questo che appassisce dopo la fioritura e come conseguenza della fioritura) è il punto in cui essa si è elaborata nella forma in cui è compatibile con il più alto sviluppo delle forze produttive, e per ciò stesso con il più ricco sviluppo degli individui. Non appena questo punto è raggiunto, l’ulteriore sviluppo si presenta come decadenza, e il nuovo sviluppo comincia da una base nuova».
Non appena il contrasto in seno alla formazione sociale ha raggiunto il suo apice non si è più in presenza di uno sviluppo della ricchezza ma si apre un periodo di decadenza e di putrefazione in cui le contraddizioni si esasperano e la loro soluzione non può che venire da un urto improvviso di forze. Oggi che il capitalismo attraversa la fase imperialistica questa dinamica è ben visibile persino limitando l’osservazione alla superficie. Il modo di produzione borghese ha creato tali e tante ricchezze da non poterle più cingere entro i propri angusti limiti, da non poter continuare oltre a subordinare la produzione alle esigenze della valorizzazione del capitale; le stesse forze di produzione vengono allora evocate a distruggere, nelle crisi e nelle guerre, la ricchezza che hanno creato, in un lavoro di Sisifo volto a contenerla entro le anguste necessità della riproduzione.
Ne L’Ideologia Tedesca il programma del comunismo è già condensato in poche e cristalline tesi. Mentre la vecchia talpa si appresta a scavare in favore della rinascita della lotta di classe su larga scala il Partito continua sulla strada di sempre nel necessario lavoro preparatorio di messa a punto della dottrina.
«1) Nello sviluppo delle forze produttive si presenta uno stadio nel quale vengono fatte sorgere forze produttive e mezzi di relazione che nelle situazioni esistenti fanno solo del male, che non sono più forze produttive ma forze distruttive (macchine e denaro) e, in connessione con tutto ciò, viene fatta sorgere una classe che deve sopportare tutti i pesi della società, forzata al più deciso antagonismo contro le altre classi; una classe che forma la maggioranza di tutti i membri della società e dalla quale prende le mosse la coscienza della necessità di una rivoluzione che vada al fondo, la coscienza comunista, la quale naturalmente si può formare anche fra le altre classi, in virtù della considerazione della posizione di questa classe;
«2) Le condizioni entro le quali possono essere impiegate determinate forze produttive sono le condizioni del dominio di una determinata classe della società, la cui potenza sociale, che scaturisce dal possesso di quelle forze, ha la sua espressione pratico-idealistica nella forma di Stato che si ha di volta in volta, e perciò ogni lotta rivoluzionaria si rivolge contro una classe che fino allora ha dominato;
«3) In tutte le rivoluzioni fin’ora avvenute non è mai stato toccato il tipo dell’attività, e si è trattato soltanto di un’altra distribuzione di questa attività, di una nuova distribuzione del lavoro ad altre persone, mentre la rivoluzione comunista si rivolge contro il modo dell’attività che si è avuto finora, sopprime il lavoro e abolisce il dominio di tutte le classi insieme con le classi stesse, poiché essa è compiuta dalla classe che nella società non conta più come classe, che non è riconosciuta come classe, che in seno alla società odierna è già l’espressione del dissolvimento di tutte le classi, nazionalità, ecc.;
«4) Tanto per la produzione in massa di questa coscienza comunista quanto per il successo della cosa stessa è necessaria una trasformazione in massa degli uomini, che può avvenire soltanto in un movimento pratico, in una rivoluzione; che quindi la rivoluzione non è necessaria soltanto perché la classe dominante non può essere abbattuta in nessun’altra maniera, ma anche perché la classe che l’abbatte può riuscire solo in una rivoluzione a levarsi di dosso tutto il vecchio sudiciume e a diventare capace di fondare su basi nuove la società».
(Continua al prossimo numero)
IL PARTITO SOCIALISTA RIVOLUZIONARIO IN ROMAGNA
Il 30 aprile 1871 usciva, ad Imola, il primo numero dell’ Avanti!... Quando i socialisti romagnoli iniziarono i preparativi per questa nuova pubblicazione, da più parti si sentirono dire: «Non ve lo lasceranno dar fuori, lo sequestreranno sempre». Furono facili profeti, infatti lo stesso 30 aprile il pretore di Imola emanava la seguente ordinanza: «Visto il n. 1 del giornale “Avanti!...” pubblicato in Imola-Bologna il 30 aprile spirante; ritenuto che cogli articoli contenuti nella prima, seconda e quarta pagina (...) si offende la inviolabilità del diritto di proprietà e si provoca l’odio fra le varie condizioni sociali – reato previsto e represso dagli art. 24 e 17 sulla stampa 26 marzo 1848; ordina il sequestro del periodico di cui si tratta».
Che il sequestro dell’ Avanti!... fin dal suo primo numero fosse preordinato lo si ricava dal fatto che il pretore, nella sua ordinanza, non citava nessuna frase o periodo incriminato, come è di regola fare, ma si manteneva nel vago parlando di offesa alla inviolabilità del diritto di proprietà ed all’eccitamento all’odio di classe. Il linguaggio adoperato in questo primo numero dell’ Avanti!... era stato, volutamente, moderato; non vi era una parola che potesse offendere «l’inviolabilità sacrosanta del diritto di proprietà, tanto caro a chi ne gode», né vennero incitate «le classi le une contro le altre». Semplicemente si anticipava «l’avvenimento di una trasformazione inevitabile nella forma della proprietà e la disparizione di ogni distinzione e di ogni governo di classe».
In una dichiarazione congiunta dell’ Avanti!..., del Catilina e della Vita Nuova si legge: «I nostri giornali non sono stati sequestrati per questa o per quella frase, ma per tutto il loro contenuto: non è una violazione delle leggi positive della stampa quella che ci ha tirate addosso le scomuniche dei pretori e dei procuratori; ma, sequestrandoci si volle sequestrato lo spirito stesso delle nostre pubblicazioni» (Avanti!..., n. 3, 4 aprile 1881).
Oltre al sequestro, «il sistema, messo in opera da una polizia senza scrupoli legali, che arrestava arbitrariamente il redattore responsabile e pretendeva che tutto il giornale fosse scomposto sotto i suoi occhi» costrinse l’ Avanti!... a cessare, temporaneamente, le pubblicazioni solo dopo tre numeri. Ai socialisti rivoluzionari fu offerta ospitalità nel Catilina.
Il 6 luglio Andrea Costa scriveva: «Durante la sospensione forzata dell’ Avanti!..., gli amici di Cesena mi hanno proposto la redazione del Catilina; ed io l’ho accettata. L’ho accettata sebbene il nome del foglio non mi vada gran fatto a sangue, e non partecipi a tutte le opinioni, che vi si vennero svolgendo».
Questo è il motivo per cui il resoconto del congresso dei socialisti di Romagna (il primo dei documenti che vengono ripubblicati in questo numero della rivista) apparve sul Catilina n. 14 del 7 agosto 1881; regolarmente sequestrato come tutti i 13 precedenti.
I socialisti rivoluzionari romagnoli, riuniti a congresso, prendevano atto del fatto che un partito, per esistere realmente, deve avere un preciso programma ed una organizzazione. Un aggregato di organizzazioni indipendenti, dove ognuna di esse, ed anche ogni singolo compagno, secondo il criterio anarchico, abbiano la facoltà ed il diritto di fare quello che vogliono, non può essere considerato un partito, ma la sua negazione. La stessa scelta del nome da dare al partito assumeva quindi un valore importantissimo, e lucida fu l’affermazione secondo cui «La rivoluzione non è un’aspirazione platonica; è, prima di tutto, un’insurrezione materiale violenta contro l’ordine di cose esistenti. Questa insurrezione materiale violenta è la negazione dell’anarchia, perché l’anarchia è la negazione della violenza».
Notiamo come questa dichiarazione fosse molto simile a quanto Engels, in polemica con gli anarchici, aveva notoriamente affermato: «Una rivoluzione è certamente la cosa più autoritaria che ci sia».
Oltre a questo la dichiarazione della necessità della dittatura da parte del proletariato dopo la presa del potere poneva il Partito Socialista Rivoluzionario in Romagna fuori dal terreno anarchico, e lo inseriva in quello marxista.
Nei documenti e nella stampa del P.S.R., e soprattutto negli scritti di Andrea Costa possiamo più volte imbatterci in definizioni acquisite dai testi di Marx e di Engels; tuttavia, in questi documenti e nella stampa, non ci è stato possibile trovare un solo riferimento esplicito a Marx o ad Engels: questo, molto probabilmente, per non rompere in maniera definitiva con l’anarchismo. Infatti, se del P.S.R. in Romagna volessimo evidenziare una debolezza, un difetto di origine, che con il tempo finì per determinare l’insuccesso di questo primo tentativo di partito proletario in Italia, questa fu nella generosa speranza di riuscire a traghettare il movimento anarchico nel campo dell’organizzazione politica e programmatica di classe. L’illusione di un partito che potesse contenere sia socialisti sia anarchici, autoritari e libertari si ricava anche dall’atteggiamento assunto nei confronti dei due congressi internazionali di Londra e di Zurigo.
Sul n. 11 del Catilina, del 10 luglio 1881, si legge: «Vari compagni di Romagna hanno inviata al Congresso di Londra la lettera seguente: Compagni, siamo certi d’interpretare i sentimenti di tutti i Socialisti della nostra Regione, augurando al Congresso, che state per celebrare, de’ risultati conformi a quelli, che ne attendono i socialisti e i Rivoluzionari di tutto il mondo. Noi non abbiamo mandato Rappresentanti a Londra perché desideriamo di concentrare la nostra attività e i nostri mezzi all’organamento interno; ma siamo di cuore con tutti quelli che vogliono seriamente l’unione di tutti i Rivoluzionari, senza differenza di sistema o di scuola, contro la internazionale Reazione; ed esprimiamo questi stessi sentimenti al Congresso di Zurigo. Salute e solidarietà».
Diamo ora qualche breve accenno sui due congressi internazionali.
Il congresso di Londra fu il tipico congresso anarchico intransigente. Si svolse rigidamente a poste chiuse e, per aumentarne la segretezza, ad ogni partecipante, circa una quarantina, fu attribuito un numero identificativo e con il numero, non con il nome, furono indicati gli interventi dei convenuti. Ai due italiani presenti vennero assegnati i numeri 25 e 26. Il delegato 25 affermò che «L’operaio italiano è piuttosto conservatore o indifferente. L’elemento rivoluzionario è composto dei campagnoli, della piccola borghesia e di coloro che si chiamano impropriamente le feccia della società». Il numero 26, dopo avere lanciato ingiurie contro i socialisti rivoluzionari romagnoli, che non avevano partecipato al congresso, annunciò l’imminenza di una rivoluzione in Italia: «I nostri gruppi si sono trasformati in gruppi d’azione, che stanno fra loro in relazioni continue».
Al termine dei lavori il congresso, come era prevedibile, si dichiarò avverso alla politica parlamentare e deliberò che «è giunta l’ora di passare dal periodo dell’affermazione a quello dell’azione, e d’aggiungere alla propaganda verbale e scritta, la cui inefficacia è dimostrata, la propaganda del fatto e l’azione insurrezionale (...) Il più semplice fatto, diretto contro le attuali istituzioni, parla alle moltitudini meglio di un migliaio di stampati (...) Il congresso raccomanda agli organamenti e agl’individui di dare un gran peso allo studio delle scienze tecniche e chimiche [che hanno] già reso dei servigi alla causa rivoluzionaria e [saranno] chiamate a renderne ancora in avvenire».
Questo il commento al congresso dato dai socialisti di Romagna: «Certo, noi siam lungi dall’accettare tutte le risoluzioni del congresso di Londra: alcune di esse ci paiono in contraddizione col movimento sociale moderno (...) In generale pensiamo che il congresso di Londra abbia dato assai meno di quello che, alcuni aspettavano: ciononostante, lo spirito, che animava i convenuti a Londra, era lo spirito della rivoluzione: e, quando la rivoluzione passa, noi gridiamo: Viva!...» (Catilina, 7 agosto 1881).
L’altro congresso internazionale, indetto dai cosiddetti socialisti “legalitari”, non poté tenersi a Zurigo perché vietato. Ne La Civiltà Cattolica dell’epoca si legge: «Poiché i socialisti della Svizzera e dei paesi circonvicini si proponevano di tenere in quest’anno un’assemblea a Zurigo (...) il Consiglio di Stato si è deciso a interdire la meditata riunione. Dopo avere inutilmente interposto appello da questa decisione presso il Gran Consiglio, i promotori del congresso si sono rivolti al tribunale federale, allegando una pretesa violazione dell’art. 56 della Costituzione elvetica, il quale guarentisce ai cittadini il diritto di organizzare associazioni, purché non siano illegali o pericolose per lo Stato (...) Frattanto il tribunale federale ha avuto occasione di conoscere se l’associazione, della quale si tratta, sia, o no, pericolosa per lo Stato».
E, a dimostrazione della pericolosità, La Civiltà Cattolica riportava una lettera, che puzza da lontano di emanazione poliziesca, la quale sarebbe stata inviata nientemeno che al presidente del tribunale presso cui era stato inoltrato ricorso: «Signor Presidente, il vostro Tribunale avrà quandochessia a pronunciare sul ricorso concernente la riunione del Congresso socialista, a Zurigo, ed io intendo, come socialista di interessarvi, perché non ci sia data una sentenza sfavorevole, se non volete essere fra i primi a saltare per aria, allorché principierà la danza, che deve presto aver luogo. Noi abbiamo sufficiente quantità di dinamite da far saltare in aria metà della Svizzera. Quando i nostri valorosi capi verranno con i loro battaglioni di operai, le cose saranno ben presto regolate, e da qui allora partirà l’incendio che deve mettere a fuoco il mondo» (1881, Vol.VIII, pag.384).
Il Congresso, vietato a Zurigo, si tenne, sempre in Svizzera, a Coira (Chur). Di questo congresso fa cenno pure la Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia che, in data 6 ottobre 1881, riportava il seguente telegramma: «Zurigo, 4 - Il congresso socialista fu aperto oggi a Coira. Vi assistevano 50 persone». In verità il congresso si svolse nei giorni 2, 3 e 4 ottobre presso il Felsenkeller (Cantina delle rocce) un casolare fuori mano, ma per evitare altri eventuali divieti i socialisti, “legalitari” ma non fessi, ne annunciarono l’apertura a chiusura avvenuta.
Nella Gazzetta Ufficiale dell’8 ottobre si leggeva: «Da una lettera da Coira risulta che il congresso socialista riuscì inconcludente». Se la prima informazione era errata, quest’ultima, purtroppo, no.
Giustamente i francesi avevano proposto che la riunione, anziché Congresso, più modestamente prendesse il nome di Conferenza. Sullo stato dei vari partiti nazionali furono tenuti brevi rapporti improvvisati perché solo una piccola parte dei delegati aveva preparato dei rapporti scritti. La Conferenza si limitò, molto genericamente, ad affermare che «gl’interessi sono antagonistici, e ne’ loro limiti generali, sono rappresentati da classi in lotta: onde la necessità, per l’insieme degli sfruttati, di costituirsi in partiti di classe, distinti dai partiti borghesi». La conferenza dichiarava inoltre «l’accettazione di tutti i mezzi di lotta, a seconda delle circostanze: voti, scioperi, riforme, rivoluzioni ed anche cospirazioni (come in Russia, per esempio)». (Riportato da: Avanti!..., 17 ottobre 1881).
Tutto qui, tutto venne rimandato a futuri congressi. Anche riguardo alla redazione di un manifesto internazionale rivolto ai lavoratori e tradotto nelle varie lingue, la conferenza dichiarò di non credere che fosse giunto il momento.
* * *
L’ Avanti!... riprendeva le pubblicazioni il 21 agosto ed avvertiva: «Tutti sanno che il Programma e la condotta nostra non cangiano. Senonché, l’esperienza avendoci mostrato che, quantunque adoperiamo un linguaggio calmo e mite ed evitiamo studiosamente di dar di cozzo nel Codice, il delitto, negli scritti nostri, ci si trova sempre, e il sequestro è immancabile, perciò non lesineremo più tanto sulle frasi, ma diremo tutto intero il parer nostro. L’autorità proceda, se vuole. Noi siamo qua per rispondere; e risponderemo». Inutile dire che il giornale venne immediatamente sequestrato.
Nell’ Avanti!... del 28 agosto, l’unico numero che si salvò dal sequestro, la Commissione nominata dal Congresso, allo scopo di redigere il programma del partito, annunciava che il programma stesso sarebbe stato pubblicato la settimana successiva su apposito supplemento. Ed invitava tutte le associazioni appartenenti al partito di esaminarlo, discuterlo e poi comunicare i risultati dei loro esami alla commissione medesima «affinché questa possa parteciparli al prossimo Congresso, chiamato, appunto, per fissare definitivamente il Programma teorico e pratico del Partito».
Quello che di seguito ripubblichiamo è, appunto, questa prima proposta di programma copiata direttamente da quel supplemento al n. 16 dell’ Avanti!..., sequestrato ed al quale la polizia diede una caccia spietata arrivando persino alle perquisizioni personali nell’intento di trovare e distruggere le copie sfuggite alla requisizione.
Le differenze che si trovano tra la prima proposta ed il Programma e Statuto effettivamente approvati sono veramente poche e tali da essere considerate irrilevanti. L’unica importante differenza è quella che si riscontra nel punto 7 del programma dove si prende in considerazione l’atteggiamento del partito nei confronti delle elezioni politiche. Nel programma approvato questo punto verrà modificato nel modo seguente: «Porre al Parlamento candidature socialistiche ed operaie, siano positive, siano di protesta, lasciando alle singole associazioni provinciali il fissare la condotta dei compagni, che potessero venire eletti deputati». E, di conseguenza, saranno tolte le seguenti due proposizioni che si trovavano in chiusura: «Per ora, dato, cioè, l’attuale ambiente politico, non pensiamo che il Partito debba mandare i suoi Rappresentanti al Parlamento; pensiamo, per altro, come già dicemmo, che importa impadronirsi dei comuni e porre al Parlamento candidature di protesta».
IL CONGRESSO DEI
SOCIALISTI IN ROMAGNA
“Catilina”,
n. 14, 7 agosto 1881
Quaranta rappresentanti di città e di campagna, oltre ad un inviato dei socialisti delle Marche, assistevano, or sono alcuni giorni, al Congresso dei Socialisti romagnoli; le località rappresentate erano cinquanta, circa.
Letto l’Elenco dei convenuti e delle Associazioni, che rappresentavano, vennero fissati i quesiti da discutersi; e si stabilì che i convenuti non si separassero, se non dopo che li avessero sciolti.
La Ricostituzione del Partito Socialista in Romagna, essendo il primo oggetto da trattare, vari Rappresentanti espongono come l’utilità, anzi la necessità di tale ricostituzione sia indiscutibile; e citano, all’uopo, parecchi esempi.
Un Rappresentante solo nega la necessità della ricostituzione del Partito – “il Partito, egli dice, essendo costituito è inutile costituirlo di nuovo”.
Il che solleva esclamazioni di sorpresa da parte di quasi tutti i Rappresentanti, alcuni dei quali provano ad evidenza come la pretesa costituzione del Partito socialista in Romagna non sia ora, in gran parte, se non apparente.
– “Vi sono, si dice, organizzazioni locali più o meno ben costituite; ma fra queste organizzazioni non v’è un vincolo efficace. Questo vincolo si tratta, appunto, di stabilirlo, mediante la ricostituzione del Partito, che darà ai nostri sforzi quella coesione, di cui mancano. Noi abbiamo, altresì, tutti, le medesime idee generali; ma, in molti, particolarmente fra i membri delle associazioni, che sono sorte da poco, le idee stesse sono assai vaghe e confuse. Onde, la necessità di adottare un programma comune, non che di stabilire fra le associazioni una corrispondenza regolare, e così via”.
La ricostituzione del Partito socialista in Romagna essendo stata posta a’ voti, il Congresso l’approva ad unanimità.
E già si cominciava a discutere il nome da darsi al Partito novellamente ricostituito, quando un Rappresentante interruppe la discussione per dichiarare che ritirava il voto dato e votava contro la ricostituzione del Partito. Meraviglia generale.
Il Presidente al Congresso, seguendo le norme parlamentari, non avrebbe voluto che la questione fosse nuovamente posta a’ voti; ma, alcuni Rappresentanti avendo insistito perché lo fosse, affinché il dissidente, o i dissidenti, non potessero dire che non avevano avuta libertà di votare, il Presidente cedé e mise nuovamente a’ voti la ricostituzione del Partito socialista in Romagna, la quale fu approvata ad unanimità, meno due voti, i voti, cioè, di un Rappresentante di Forlimpopoli e del Rappresentante il Circolo anarchico rivoluzionario di Forlì, novellamente costituito, e da non confondersi con la Federazione socialista di Forlì. Questi Rappresentanti noi li indichiamo, avendo essi stessi raccomandato al Segretario del Congresso che il loro voto fosse reso pubblico.
La questione del nome da darsi al Partito tenne, per qualche tempo, occupati i rappresentanti. Essendo essa strettamente legata ai principii generali professati dal Partito, la fissazione del nome non era una vuota formalità, ma indicava la implicata accettazione di certi principii generali. Perciò la discussione di questi principii, a cui presero parte vari Rappresentanti, precedé la fissazione del nome, e fu fatta in modo ampio e chiaro per tutti.
– “Noi siamo, si disse, Socialisti. Siamo convinti, cioè, che la società va incontro ad una trasformazione e sostanziale di tutte le sue istituzioni, e ci adoperiamo, con tutte le forze nostre, perché questa trasformazione avvenga nel più breve tempo possibile e apporti tutto quel bene, che può apportare. Noi siamo, oltre a ciò, Rivoluzionari. Siamo convinti, cioè che, sebbene il progresso avvenga in tanti modi, pure le resistenza cieca e brutale, che oppongono ed opporranno alla trasformazione sociale gli elementi reazionari e conservatori della società, provocherà inevitabilmente la rivoluzione e che senza la rivoluzione non si potrà né vincere la resistenza degli elementi conservatori e reazionari, né instaurare il nuovo ordine sociale.
Essendo, adunque, Socialisti e Rivoluzionari e il nostro oggetto comune essendo la Rivoluzione sociale, il nome che meglio di ogni altro conviene al nostro Partito, che riassume meglio di ogni altro le nostre idee e la nostra condotta generale ed è un vincolo di unione fra noi e tutti i Socialisti, è questo: Partito socialista rivoluzionario.
Contro tal nome insorsero due o tre Rappresentanti. – “Noi siamo, essi dissero, anarchici: perciò proponiamo che il Partito si chiami: Partito socialista anarchico rivoluzionario”.
A cui altri obiettarono: che il nome di Socialista rivoluzionario non escludeva punto che quegli, il quale lo adottava, fosse anarchico. Siccome, per altro, quel nome conveniva tanto a coloro che erano anarchici, quanto a coloro che non lo erano, e il nostro oggetto era quello di unire e non quello di dividere, e il primo fondamento dell’unione era quello di avere una denominazione comune, perciò si manteneva il nome più largo e comprensivo, quello, cioè, di Partito socialista rivoluzionario senz’altre determinazioni.
La discussione continuando, ed essendo stato detto da un Rappresentante che l’Anarchia era la ribellione continua, si rispose press’a poco: Non v’ha socialista ragionevole, progressivo e sopra tutto rivoluzionario, che non riconosca come, ad ogni passo che il genere umano muove avanti, non cada uno dei tanti ostacoli, che s’impongono allo svolgimento sempre maggiore della umana personalità: tanto che verrà un giorno, in cui l’uomo potrà svolgersi nella pienezza completa della sua facoltà e de’ suoi mezzi, senza trovare alcun ostacolo artificiale nell’ambiente sociale, in cui vive, e senza ledere, per questo, la personalità e la libertà umana degli altri; verrà un giorno, insomma, in cui, volgarmente parlando, l’uomo potrà fare tutto quello che vuole, senza nuocere, per questo, a sé e agli altri. Questo stato di svolgimento pieno ed intero dell’umana personalità, in cui gli uomini non saranno più retti da leggi artificiali, fatte da minoranze o da maggioranze; questo stato sociale, in cui gli uomini produrranno, consumeranno, vivranno secondo le norme stabilite dalla natura stressa delle cose, senz’autorità e senza violenza, si chiama Anarchia. Basta la stessa definizione per far comprendere che l’Anarchia non può essere l’oggetto che si attuerà immediatamente dopo la rivoluzione. La rivoluzione non è un’aspirazione platonica; è, prima di tutto, un’insurrezione materiale violenta contro l’ordine di cose esistenti. Questa insurrezione materiale violenta è la negazione dell’anarchia, perché l’anarchia è la negazione della violenza. Ora, ammettiamo benissimo che il fine ideale del Socialismo moderno sia l’Anarchia o il Comunismo anarchico, od anche qualche cosa di più, se è possibile; ma il fine nostro, di noi, uomini d’oggi, che viviamo nell’attuale ordine di cose, può forse essere la riedificazione anarchica della società; o non è, invece, e non dev’essere l’atterramento degli ostacoli, che la presente società oppone all’attuazione della volontà popolare? E se il nostro fine, se l’oggetto, che ci sentiamo capaci di compiere noi stessi, è appunto l’atterramento di questi ostacoli per mezzo della rivoluzione sociale, poiché, prima di riedificare, bisogna distruggere; e se la rivoluzione non si può compiere senza la dittatura popolare, cioè senza l’accumulazione di tutte le forze sociali nelle mani delle classi lavoratrici insorte, all’oggetto di trionfare della resistenza dei nemici e d’instaurare il nuovo ordine sociale, perché non ci chiameremo noi dal compito speciale, che il secolo ci affida?
Trasformate le condizioni della società, vinti i nemici, aumentata indefinitivamente la produzione, ingentiliti i caratteri, poste, insomma, le condizioni di uno svolgimento normale e progressivo del genere umano, allora, l’anarchia si verrà compiendo; fino allora, no.
Queste considerazioni non impediranno, naturalmente, che i filosofi, che i pensatori, che noi stessi ci occupiamo della riedificazione sociale, e adottiamo, all’uopo, certe idee, o certe teorie; ciò non impedirà che quelle associazioni che lo vogliono, in omaggio alla loro autonomia, si chiamino anarchiche, come altre si chiameranno collettiviste o comuniste; ma, considerata la cosa generalmente, v’ha altrettanta ragione di chiamarsi anarchico, quanto di chiamarsi collettivista o comunista.
Per queste ragioni: Considerando cioè, che il nome di Partito socialista rivoluzionario determina chiaramente il compito sociale nostro; che questo nome conviene a tutti i Socialisti, e li distingue nettamente da coloro, che, impensierendosi dei gravi problemi che agitano l’odierna società, cercano, per disarmare il popolo, d’istituire un falso socialismo cristiano o cesareo; considerando, altresì che questo nome è un vincolo di unione, che accomuna tutti i nostri sforzi, senza dividerci in sette speciali, e senza impedire che professiamo l’una anziché l’altra teoria, o pratichiamo una speciale condotta; per queste ragioni proponiamo che il nostro Partito ricostituito si chiami: Partito socialista rivoluzionario.
Nonostante la lunga discussione e gli schiarimenti, alcuni mantengono l’aggiunta di anarchico al nome del Partito, dichiarando che una delle ragioni, per cui dobbiamo mantenerlo, è altresì questa: che la parola Anarchia non piace ai borghesi, anzi li spaventa. A cui si risponde che sarebbe questa una soddisfazione ben puerile e una ragione per non accettar l’aggiunta, dovendo noi cercare piuttosto di conciliarci la pubblica opinione, anziché alienarcela.
Chiusa finalmente, la discussione, il Presidente mette a’ voti, per appello nominale, le due proposte: e il Congresso con una maggioranza di 32 voti contro 6 delibera che il Partito ricostituito assuma il nome di Partito socialista rivoluzionario. I 6 voti contrari sono quelli di un Rappresentante di Forlimpopoli, del Rappresentante del Circolo anarchico di Forlì, del Rappresentante di Morciano e di San Marino e di 3 rappresentanti di Cattolica, giunti, questi quando la discussione volgeva al fine.
Trattandosi, in seguito, di discutere e di fissare il Programma del Partito, i Rappresentanti, viste le poche ore, di cui potevano disporre, vista l’impossibilità di discutere e di stabilire in tanto poco tempo tutti gli articoli di un Programma, scambiate alcune idee generali, nominarono, a schede segrete, una Commissione composta di 5 membri, incaricandola di metter giù il Programma generale teorico e pratico e gli Statuti generali del Partito.
Tosto che la Commissione avrà eseguito il suo lavoro, spedirà copia del Progetto di Programma a tutte le associazioni, componenti il Partito; queste lo discuteranno; e una nuova riunione lo approverà definitivamente in questo modo, tutte le questioni relative a’ principî generali e alla condotta pratica, sono, per ora, lasciate alla Commissione, tutti i cui membri sono stati scelti fra coloro, che votarono il Partito dover chiamarsi socialista rivoluzionario, senz’altro.
Or si tratta di stabilire di quali associazioni il Partito socialista possa farsi promotore, oltre alle associazioni con programma schiettamente socialistico, e si decide, senza opposizione, esser utile che il Partito cerchi di promuovere la costituzione di società operaie, di circoli di studi sociali, di associazioni antireligiose, di tutti quei sodalizi, insomma, che tendono a staccare le classi lavoratrici dalle classi dominanti ed a fecondare lo spirito rivoluzionario.
Il Congresso; udito che la Commissione provvisoria per la riorganizzazione del Partito socialista rivoluzionario nelle Marche, ha aderito al Congresso di Londra, considerando che il Programma del Congresso di Londra non differisce, se non per certe modalità, dal Congresso di Zurigo; che questi due Congressi si sono voluti porre in opposizione l’uno all’altro, mentre dovrebbero essere, un compimento l’uno dell’altro: considerando, altresì, che noi, Italiani, non abbiamo ragione alcuna per preferire il Congresso di Londra a quello di Zurigo, l’opera dei Congressi non dovendo essere che quella di mettere in presenza le varie opinioni e i vari metodi di condotta, seguiti dai Socialisti militanti dei vari paesi; considerando, in fine, che, se le nostre condizioni ce lo avessero permesso, avremmo, probabilmente, partecipato a tutti e due, il Congresso raccomanda alla Commissione marchigiana e a quei gruppi italiani, che hanno aderito al Congresso di Londra, di aderire, altresì, al Congresso di Zurigo, tanto più che il Mandato della Commissione marchigiana, parte del quale pubblichiamo altrove, è assai largo e comprensivo, e che al Congresso di Zurigo ha aderito anche il Circolo Operaio di Milano.
Il Congresso raccomanda, oltre a ciò, di porre all’ordine del giorno nelle varie associazioni il Congresso operaio nazionale, proposto dalla società operaia d’Imola.
Delibera, in fine, di promuovere la costituzione di un Partito socialista rivoluzionario italiano; e incarica la Commissione già eletta di mettersi in relazione con le associazioni e coi nuclei socialistici, esistenti in Italia, all’oggetto di affrettarne la costituzione.
A questo punto il Congresso, avendo discusse e risolute le questioni poste all’ordine del giorno, si scioglie.
IL PROGRAMMA
DEL PARTITO SOCIALISTA
RIVOLUZIONARIO DI ROMAGNA
Supplemento
al n. 16 di Avanti!..., 6 settembre 1881
Compagni,
Eletti
dal Congresso a redigere il Programma e gli Statuti del Partito, noi
vi porgiamo, oggi, e gli uni e l’altro.
Voi
vorrete esaminarli e discuterli nel più breve tempo possibile e
comunicarci i risultati dei vostri esami e delle vostre discussioni,
affinché possiamo parteciparli al prossimo congresso, chiamato,
appunto, per fissare definitivamente il Programma teorico e pratico
del Partito.
Noi
vi proponiamo, frattanto, il presente:
PROGRAMMA GENERALE
- I -
Considerando:
che
la condizione attuale della classe lavoratrice, in Italia, cioè
dei
quattro quinti della popolazione è quella di essere soggetta in
tutto e per tutto: economicamente, politicamente, intellettualmente e
moralmente:
economicamente,
dipendendo essa, per vivere, dai posseditori della ricchezza sociale:
terra, miniere, strumenti di lavoro, capitali di ogni fatta e
così
via;
politicamente,
essendo essa costretta ad obbedire a leggi, che non ha fatte né
direttamente, né indirettamente;
intellettualmente,
non avendo essa, in generale, istruzione alcuna, od avendola monca e
superficiale;
moralmente,
in fine, l’educazione, che riceve, essendo intesa, sopra tutto, a
soffocare, in essa, ogn’istinto di rivolta contro l’ordine di
cose esistente ed a farle accettare come istituti soprannaturali e
divini, e perciò inviolabili, le attuali istituzioni della
proprietà, dello stato e della chiesa;
Considerando, altresì:
che questa molteplice dipendenza, i cui effetti visibili sono: la miseria del gran numero, l’ignoranza, la corruzione, la morte prematura, la guerra, la prostituzione e la maggior parte dei delitti, costituisce uno stato contrario alla natura perfettibile dell’uomo, alla civiltà e alla dignità umana; e, quando si prolungasse all’infinito, e nuove forze sociali non ne neutralizzassero gli effetti, ricaccerebbe il genere umano nella barbarie;
Considerando, in fine,
che ognuno, che senta la propria dignità d’uomo e il vincolo, che lo lega agli altri esseri umani, non può non ribellarsi intimamente a quest’ordine antiumano di cose né mancar di aggiungere i suoi sforzi a quelli degli altri per promuoverne ed affrettarne il decadimento e per instaurare un ordine di cose, ove l’uomo possa svolgere liberamente tutte le sue facoltà, e sentirsi uomo in mezzo a uomini;
Per queste ragioni, noi, non mossi da alcuna idea d’interesse personale, né per soddisfare a bassi sentimenti di odio, di vendetta o di ambizione; ma per contribuire, per quanto è da noi al progresso generale del genere umano ed al miglioramento delle condizioni sociali della classe lavoratrice in Italia, nonché alla sua finale emancipazione, che addurrà l’emancipazione di tutti gli esseri umani,
in nome della solidalità, che vincola fra di loro tutti gli uomini, in nome del progresso infinito, che non è, insomma, se non la verità, la giustizia e la morale infinitamente svolgentesi, ci proponiamo, per quanto è da noi, di promuovere con ogni mezzo il decadimento dell’attual forma di società e l’avvenimento di una società socialistica, a fondamento della quale poniamo i seguenti principii generali, che risultano dalle condizioni stesse dell’attuale civiltà, e riassumono, a parer nostro, tutto il socialismo rivoluzionario moderno, nel tempo stesso che sono la norma direttiva della nostra condotta pratica.
Avendo constatata, cioè, la molteplice soggezione della classe lavoratrice, noi constatiamo, altresì, che, per porvi un termine, occorrono:
1°.
Economicamente: La Proprietà collettiva (o sociale) della terra,
delle miniere, degli strumenti da lavoro, delle vie di comunicazione,
degli edifizi, di tutto ciò, insomma, che è capitale
sociale o mezzo di lavoro.
La
proprietà collettiva dei mezzi di lavoro (terra, capitali ed
altro)
metterà il lavoratore in grado d’impiegare le sue forze senza
dipendere da un padrone, che gli tolga la maggior parte di quello,
che produce.
Il
lavoratore, avendo, così, ampiamente assicurata, per mezzo del
lavoro, la sua esistenza materiale e la sua indipendenza economica,
sarà in grado di fruire di tutti i beneficî e di tutte le
libertà
sociali: l’emancipazione economica essendo la condizione essenziale
di ogni libertà e di ogni svolgimento umano.
La
proprietà collettiva, l’organamento del lavoro e la
distribuzione
dei prodotti del lavoro medesimo assumeranno quella forma, che
sarà
suggerita dalle condizioni generali delle popolazioni, presso cui
s’inaugureranno. Noi pensiamo, frattanto che il collettivismo,
cioè la proprietà collettiva (corporativa, comunale,
nazionale,
internazionale) dei soli mezzi di lavoro, o, al più al
più, delle
cose di prima necessità, sarà la prima forma, in cui si
verrà
incarnando la rivoluzione economica: fino a che, aumentata
indefinitamente la produzione e resa capace di bastare ampiamente a
tutti, possa stabilirsi anche la proprietà collettiva dei
prodotti
del lavoro collettivo, cioè il comunesimo.
2°.
Politicamente: Riconoscimento dei diritti civili e politici in ogni
essere, umano, uomo o donna, giunto all’età in cui sia
generalmente stimato capace di esercitarli.
Avendo,
così, ognuno il voto nella cosa pubblica, potendo votare con
indipendenza per l’ottenuta emancipazione economica e con coscienza
di causa, trattandosi generalmente di decidere questioni relative
all’organamento del lavoro; la rivoluzione, altresì, avendo
abolite di fatto le differenze di classe e d’interessi, sarà
possibile ottenere ciò, che non ottennero giammai le istituzioni
politiche attuali, cioè un ordinamento sociale, che sia
l’espressione sincera della volontà del popolo. Senonché,
questo
stato di cose non sarà, alla fine, anch’esso, che transitorio.
Il
suffragio universale, che scioglierà, tosto dopo la rivoluzione,
la
maggior parte delle questioni, che non si sciolsero
rivoluzionariamente, perderà a poco a poco della sua importanza:
fino a che, trovato il miglior modo di ordinamento sociale del lavoro
e della distribuzione dei prodotti, questo stato transitorio
cederà
il luogo ad un organamento sociale, ove ogni individuo produrrà
e
consumerà non per legge, ma perché così vuole la
natura stessa
delle cose: condizione indispensabile, tanto della vita individuale
quanto della vita sociale, essendo il produrre ed il consumare.
Noi
giungeremo così all’Anarchia nei rapporti politici, come
si
giunse al comunesimo nei rapporti economici. Il Comunesimo
anarchico o libero, è, infatti, l’ideale del Socialismo
rivoluzionario moderno; ma nessuno può dirci se lo svolgimento
delle
idee e dei fatti sociali ci darà un ideale ancor più
vasto e
luminoso di questo. Noi siamo, in ogni caso, per lo svolgimento
progressivo e infinito dell’umana personalità.
3°.
Intellettualmente e moralmente: Impartizione, per parte della
Società, ad ogni fanciullo, maschio o femmina, di un’educazione
umana, in armonia collo stato della scienza e col progresso generale,
e di un’istruzione integrale (professionale e intellettiva), che
rendano possibile lo svolgimento armonico di tutte le facoltà
umane:
fisiche, intellettuali e morali.
Per
questo mezzo, ottenuta già l’emancipazione economica e politica,
sarà ottenuta la piena emancipazione intellettuale e morale di
ogni
essere umano, e si prepareranno le nuove generazioni all’attuazione
di quel Comunesimo anarchico, di cui abbiamo discorso.
Perciò: tanto la proprietà collettiva della terra e degli strumenti da lavoro, quanto l’universalità dei diritti civili e politici e l’educazione e l’istruzione integrale non sono, secondo noi, il fine ultimo del Socialismo rivoluzionario moderno, ma costituiscono le condizioni necessarie allo svolgimento normale e progressivo del genere umano e al compimento del Programma ideale del Socialismo stesso.
- II -
Considerando:
che condizione primordiale della emancipazione umana delle classi lavoratrici, e perciò di tutti gli esseri umani, è l’emancipazione economica;che questa non può ottenersi, se non quando le classi lavoratrici delle città e delle campagne s’impossessino, pel bene di tutti, della terra e dei capitali e, per conseguenza ancora, di tutto il potere politico, militare e sociale, che dà il loro possesso;
che, l’esperienza storica dimostrando come una classe privilegiata non ceda mai pacificamente i suoi privilegi secolari, l’appropriazione della terra, dei capitali e di ogni potere sociale non può avvenire se non per via di rivoluzione, tanto che la rivoluzione non è soltanto il miglior modo, che noi proponiamo, per isciogliere efficacemente la questione sociale ed emancipare le moltitudini, ma è una fatalità storica inevitabile, che noi non facciamo se non formulare, rendere cosciente ed affrettare con tutte le forze nostre;
Per queste ragioni;
Il Partito socialista di Romagna è e non può non essere rivoluzionario.
La rivoluzione è, prima di ogni altra cosa, una insurrezione materiale violenta delle moltitudini contra gli ostacoli, che le istituzioni esistenti oppongono all’affermazione ed all’attuazione della volontà popolare.
La rivoluzione è, perciò, prima di tutto, dittatura temporanea delle classi lavoratrici, cioè accumulazione di tutto il potere sociale (economico, politico, militare) nelle mani dei lavoratori insorti, all’oggetto di atterrare gli ostacoli, che il vecchio ordine di cose oppone all’instaurazione del nuovo, di difendere, di provocare, di propagare la rivoluzione, di eseguire l’espropriazione dei privati, di stabilire la proprietà collettiva e l’ordinamento sociale del lavoro.
Le rivoluzioni politiche, avendo per oggetto il cambiamento della forma di governo, cioè la sostituzione di alcuni uomini, rappresentanti più o meno fedeli di certe idee, ad altri uomini, possono avvenire ed avvennero, talvolta, per opera di cospirazioni, di raggiri diplomatici e di decreti: esempi, il 2 di Dicembre e l’instituzione della repubblica in Ispagna ed in Francia; ma la rivoluzione, come il Socialismo la intende, proponendosi la trasformazione dalle radici di tutto l’ordinamento sociale, ed avendo per oggetto non solo la conquista (o l’abbattimento) del potere politico, ma la conquista di tutto il potere sociale, e, per primo oggetto immediato, la presa di possesso, vuoi per via d’insurrezione, vuoi per via di decreto rivoluzionario, della terra e dei capitali, all’oggetto di metterli in comune e di sfruttarli a vantaggio di tutti, perciò la nostra rivoluzione non può essere che sociale; e, perché si attui, occorre non solamente la cooperazione degl’individui coscientemente socialisti e rivoluzionari, che non sono, generalmente mai, se non una piccola minoranza; ma occorre la cooperazione efficace ed energica delle moltitudini lavoratrici della città e delle campagne.
I particolari organamenti rivoluzionari, i fatti individuali, le cospirazioni, i tentativi di rivolta di minoranze audaci possono scuotere momentaneamente le moltitudini, porre e rendere cosciente la questione sociale, promuovere e mantenere un certo fermento nel popolo e, in condizioni favorevoli, provocare una rivolta aperta; ma non possono fare la rivoluzione.
La rivoluzione, è il popolo solo, che la fa e può farla; e, per renderla possibile, bisogna che, da partito che siamo, diveniamo popolo: che abbiamo, cioè, con noi la parte più intelligente ed energica delle città e delle campagne.
Che, se la lotta individuale può essere accettata e resa, anzi, necessaria in paesi, ove il potere politico è individuale ed assoluto: tanto che, ove si possano tôr di mezzo certi individui, è tolto di mezzo l’ostacolo maggiore, che si opponga all’attuazione della volontà popolare; e l’oggetto dei rivoluzionari è e non può non essere la conquista del potere politico, la lotta individuale riesce inefficace in paesi, ove il potere politico e la responsabilità del cattivo stato sociale l’ha tutta una classe.
Quivi la lotta non può essere che da classe a classe, la rivoluzione non può essere che sociale.
Con ciò, non intendiamo di negare assolutamente le lotte e le proteste individuali, le cospirazioni ed i tentativi; affermiamo, anzi, che, in certe particolari condizioni e in certi momenti, ma non in tutte le condizioni e in tutti i momenti, l’uso di questi mezzi è inevitabile – è il solo modo di manifestarsi che abbia un partito. Senonché questi mezzi medesimi debbono lasciarsi alla iniziativa individuale – e non possono, né debbono essere levati a principio generale, non possono, né debbono essere la condotta sistematica di un gran partito, che deve poter disporre di mezzi d’azione maggiori assai e poter muoversi alla luce del sole.
La rivoluzione, altresì, non attuando, generalmente, se non ciò che è già penetrato nella coscienza generale, per non essere sfruttata dalle attuali classi dirigenti, dev’essere preceduta da un’ampia propagazione delle idee socialistiche rivoluzionarie ed aver per organo un partito fortemente organizzato, capace di provocarla, quando esistano le condizioni necessarie alla sua buona riuscita, e d’inspirarla e anche di dirigerla, quando sia scoppiata.
Perciò il nostro partito ha un doppio oggetto: quello di svegliare con la parola, con gli scritti, con gli esempi, e all’uopo, con altri mezzi, le moltitudini assopite delle città e delle campagne, preparandole alla rivoluzione, che si va compiendo inesorabilmente nella società per opera di quegli stessi fattori sociali, che ora ci tengono oppressi; e quello di approfittare della occasione favorevole per rovesciare le moltitudini stesse sull’ordine esistente, inspirarle e dirigerle nella lotta e far ogni sforzo perché la rivoluzione dia quei frutti, che le moltitudini ne aspettano.
La rivoluzione sociale, comprendendo le manifestazioni tutte della vita e tendendo a trasformarle tutte, è preceduta necessariamente da tutte quelle riforme o tentativi di riforme, che si propongono di trasformare successivamente i particolari congegni dell’attuale società: onde l’utilità, anzi la necessità, che ha il partito, per vivere, per progredire, per istare a contatto col popolo ed inspirarsene, di prender parte e, ove occorra, di provocare tutte quelle riforme e tutte quelle agitazioni economiche, politiche, antireligiose, che hanno per oggetto la trasformazione sempre maggiore delle istituzioni attuali ed affrettano la rivoluzione, fecondando nel popolo lo spirito di opposizione e di rivolta. La partecipazione del partito a tali agitazioni è tanto più utile e necessaria, quando queste siano dimostrate storicamente inevitabili. Allora, oltre all’offrire occasione di affermarci pubblicamente, di svolgere e di propagare le nostre idee, quelle riforme, quelle agitazioni diventano per noi un mezzo efficace di lotta, sol che impediamo che i partiti avversi le sfruttino a loro vantaggio.
Non importa se le agitazioni e le riforme han da principio aspetto pacifico e legale, e talvolta paiono intese a consolidare l’ordine esistente.
Il movimento, pacifico e legale, dapprima, si trasformerà a poco a poco, per la resistenza che incontra (carattere essenziale delle classi soddisfatte e dei governi essendo quello di conservare ad ogni costo), si trasformerà, diciamo, in movimento rivoluzionario; le agitazioni, incominciate all’oggetto di ottenere riforme, diverranno, noi intervenendo, altrettanti combattimenti d’avamposti, che spingeranno vieppiù sempre alla lotta finale, dimostrandone la necessità e rendendola cosciente. Non escluderanno, poi, anzi provocheranno l’uso di mezzi più efficaci ed energici.
Rivoluzionari, adunque, prima di tutto, ed avendo sempre presente che, date le attuali condizioni storiche, l’azione rivoluzionaria sola può sciogliere efficacemente la questione sociale, di guisa che tutto ciò che facciamo, entro l’ordine attuale di cose deve aver per oggetto di propagare, di preparare, di affrettare, di provocare l’azione rivoluzionaria cosciente delle moltitudini lavoratrici, noi pensiamo che un Partito, come il nostro, il quale non si propone soltanto una momentanea superficiale agitazione, ma vuol essere strumento efficace di progresso sociale, dee prender parte direttamente od indirettamente a tutte quelle manifestazioni, a tutte quelle agitazioni, a tutti quegli atti della vita presente, che, pur rimanendo entro l’ordine attuale di cose, contengono germi di dissoluzione dell’ordine medesimo, germi, che la nostra azione deve appunto aver per oggetto di fecondare.
Senonché bisogna ricordare, per non confondere il fine col mezzo, e per non iscambiare l’oggetto di un Partito socialistico e rivoluzionario coll’oggetto dei Partiti meramente riformatori, che le riforme, le quali, per questi Partiti, sono un fine, per noi non sono che un’occasione, un mezzo di agitazione e di lotta – mezzo passeggiero il quale non impedisce che rendiamo possibili e approfittiamo di altre manifestazioni dell’attività popolare e rivoluzionaria, particolarmente quando ogni manifestazione legale ci sia resa impossibile.
L’azione del partito dovendo essere molteplice come molteplice è la dipendenza, che si tratta di tôr di mezzo, molteplice l’oggetto, che ci proponiamo, tra le varie attività che sono generalmente possibili ed attuabili nel presente ordine di cose, e possono valere come mezzi di agitazione e di lotta e preparare un ambiente, ove il socialismo possa prosperare, noi proponiamo le seguenti, lasciando libere le associazioni, che compongono il Partito, di praticare le une piuttostoché le altre, lasciando, altresì all’iniziativa individuale e a quella dei singoli gruppi, tutte quelle particolari attività e l’uso di quei mezzi d’azione, che escono compiutamente dall’ordine attuale di cose, ed importano ribellione aperta all’ordine stesso.
1°. Propagare ampiamente e costantemente le idee socialistiche per mezzo di conferenze, di giornali, di opuscoli, di comizi e di dimostrazioni pubbliche: che la propagazione di queste idee varii secondo il variare degli elementi, presso cui deve farsi: contadini, operai, donne, gioventù studiosa e così via.
2°. Organizzare fortemente tutti gli elementi socialistici e rivoluzionari delle città e delle campagne in Sezioni del Partito, in Circoli di studi sociali, in Circoli operai, in Società di educazione e d’istruzione popolare, e così via;
3°. Organizzare nel miglior modo possibile la classe operaia delle città e delle campagne: che possa persuadersi, di fatto, dei buoni effetti dell’associazione, e senta la necessità di applicare l’associazione a tutti i bisogni della vita;
4°. Sostenere e, se occorre, provocare la lotta contro al capitale mediante gli scioperi, le richieste d’aumento di salario, di diminuzione delle ore di lavoro, e così via;
5°. Sostenere e, talvolta, provocare tutte quelle riforme politiche ed economiche, che porgono occasione di propagare il socialismo, di agitare e di lottare; che tendono all’abolizione di un privilegio, che trarrà seco l’abolizione di altri; che favoriscono l’organamento del lavoro e la coltura popolare; che possono diminuire la resistenza del governo, renderci personalmente più liberi, affrettare l’esaurimento delle forme politiche attuali e favorire l’ordinamento socialistico della società;
6°. Impadronirsi dei Comuni, mediante una viva partecipazione alle elezioni amministrative, e trasformare, a vantaggio del popolo e dell’autonomia comunale, l’attuale ordinamento amministrativo, affidando, per esempio, alle associazioni operaie i lavori comunali e l’esercizio delle proprietà del Comune ed impegnando, all’occorrenza, la lotta contro lo Stato;
7°. Porre al Parlamento candidature di protesta, non perché i nostri vadano ora colà a sommergersi, ma per dar loro occasione di svolgere il nostro Programma nei Comizi elettorali e per porgere, in forma viva, la Questione sociale;
8°. Secondare, e, all’occorrenza, provocare le manifestazioni popolari contro il privilegio economico e politico, e sostenerle, al bisogno, sino agli estremi;
9°. Combattere accanitamente i pregiudizi religiosi, che tengono avvinta tanta parte degli operai delle campagne;
10°. Lottare, insomma, ogni giorno, ogn’istante, con ogni mezzo, fino a che ci sentiamo in grado di impegnare la lotta finale.
Quest’azione molteplice del Partito non è il fine del Partito stesso; tanto meno, poi, è il fine del Socialismo: essa non farà che preparare un ambiente migliore, ove il Socialismo potrà svolgersi più liberamente ed incontrare minori difficoltà ad attuarsi. Il poco ottenuto inciterà il popolo a rivendicare e ad ottenere il molto. Basta avvezzare il popolo a pretendere e ad ottenere; e, quando non ottenga, a prendere ciò che chiede; basta avvezzarlo a guardare fieramente in faccia il nemico e a non temerlo.
Abbiamo determinate le norme generali, che debbono informare la nostra condotta.
Un programma particolareggiato di riforme e di azione immediata non potrà essere fissato se non dalle condizioni stesse della lotta in cui il partito si troverà impegnato.
Per ora, dato, cioè, l’attuale ambiente politico, non pensiamo che il Partito debba mandare i suoi Rappresentanti al Parlamento; pensiamo, per altro, come già dicemmo, che importa impadronirsi dei comuni e porre al Parlamento candidature di protesta.
L’ambiente politico mutando, la nostra azione politica potrà mutare.
L’azione rivoluzionaria domanda, altresì, un Programma particolareggiato di azione, che non potrà essere fissato se non dalle condizioni stesse della lotta.
Questo, compagni, è il Programma generale, che vi proponiamo.
Sebbene esso sia alquanto lungo, non contiene, per altro, se non ciò, che importa conoscere per rendere ragione e dei nostri principi e della nostra condotta.
Mediante questo Programma, la cui larghezza niuno porrà in dubbio, noi abbiamo indirettamente cercato di tôr di mezzo ogni divergenza, di conciliare ogni aspirazione ragionevole, di comprendere ogni speciale attività socialistica e rivoluzionaria, di far entrare, insomma, nelle nostre file tutti quelli, che si propongono l’emancipazione umana dell’uomo.
Dando alle varie concezioni socialistiche l’importanza che hanno, noi abbiamo cercato, altresì di prevenire l’accusa d’intolleranza e d’assolutismo.
Determinando le condizioni della rivoluzione sociale, abbiam voluto farne penetrare la coscienza in chiunque ci legga, nel tempo stesso che cercammo di togliere quelle pericolose illusioni, che, rappresentando la rivoluzione sociale possibile da un momento all’altro, riescono, talvolta, a sperperare, in luogo di congiungere, le nostre forze, e allontanano dal far ciò che occorre per affrettare la rivoluzione stessa.
Constatando,
in fine, quel che possiamo pretendere e fare sin da oggi, nel tempo
stesso che tracciavamo la società avvenire, abbiamo cercato di
sfuggire all’accusa, che ci danno, di essere sognatori ed utopisti.
-
Siamo noi riusciti?
-
A voi la risposta.
Noi
ci contenteremo, frattanto, d’aver fatto intravvedere quanto ampio
e vario sia il Socialismo e quanto ampia e varia debba essere
l’azione dei Socialisti.
La Commissione
STATUTO E REGOLAMENTO
del
Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna
Supplemento
al n. 16 dell’ “Avanti!...”, 6 settembre 1881
1°. Il Partito socialista rivoluzionario di Romagna si compone di tutte quelle Società e di tutti quegl’individui, che accettano i principii generali di socialismo rivoluzionario moderno, e s’adoperano, secondo le loro forze e i loro mezzi, a propagarli e ad attuarli.
2°. Il Partito stesso lascia la più ampia libertà alle associazioni e agl’individui nella scelta delle speciali teorie sociologiche, onde si dirigono, nonché nell’adozione della loro particolare condotta pratica; ma non possono far parte del Partito quelle società e quegl’individui, che non accettano il Programma generale suesposto.
3°. Le Società, componenti il Partito, sono autonome in tutto ciò che si riferisce al loro svolgimento interno, all’ammissione dei Soci, all’interna amministrazione, e così via; sono autonome, altresì, in tutte quelle manifestazioni ed atti pubblici che si rendono necessari nelle singole località; ma sono vincolate alle altre associazioni, componenti il Partito, in tutto ciò che concerne il Partito intero.
4°.
Sebbene le varie associazioni e le varie località godano della
più
ampia autonomia, pure vien loro raccomandato di costituirsi in modo
che le varie condizioni, le varie aspirazioni e i vari interessi dei
Soci abbiano nelle associazioni, di cui fan parte, i loro organi
naturali. Così in quelle località, ove la cosa è
possibile,
vengono raccomandate le unioni e le federazioni di mestieri, ovvero
le unioni e le federazioni per rioni o quartieri delle città, le
istituzioni di Circoli di studi sociali, e così via.
Le
varie località possono, altresì, federarsi sia per
circondario, sia
per provincia, quando ciò riesca utile.
Cura
speciale dev’essere posta alla propagazione del Socialismo nelle
campagne e alla federazione delle società di campagnoli fra di
loro.
Alle
società locali si raccomanda, altresì, l’istituzione di
società
operaie ed antireligiose, di circoli operai, di biblioteche
socialistiche circolanti, di conferenze e di letture pubbliche e
così
via.
5°. La rappresentanza del partito è affidata ad una Commissione federale, composta di 7 membri, 3 dei quali, domiciliati in una sola località, costituiscono la Commissione di Corrispondenza, gli altri 4, domiciliati in località diverse, surrogano la Commissione di corrispondenza, ogni qual volta, per un accidente qualsiasi, sia per arresto, sia per altro, essa venga a mancare: nel qual caso, i 4 membri restanti convocano un Congresso del Partito per la rielezione della Commissione; quando anche uno solo dei membri della Commissione rimanga illeso, ha diritto a prendere su di sé l’ufficio di corrispondenza ed a convocare il Congresso del Partito.
6°.
Oggetto della Commissione di corrispondenza è quello di dare
alle
singole associazioni e agl’individui, che ne la richiedono, tutti
gli schiarimenti di sua competenza; essa promuoverà,
altresì, la
formazione di nuove società e l’adesione delle società,
già
esistenti, al Partito; riscuoterà le tasse federali,
curerà le
pubblicazioni del Partito, convocherà i Congressi, e così
via.
Essa
avrà riunioni regolari, alle quali interverranno tutti e 7 i
membri
nominati, responsabili collettivamente degli atti della Commissione.
7°.
I Congressi ordinari del Partito hanno luogo ogni 6 mesi.
Ufficio
dei Congressi è quello di discutere e di sciogliere i quesiti,
che
le varie associazioni faranno porre all’Ordine del giorno
della Commissione di corrispondenza, di eleggere la Commissione
federale, nonché i Rappresentanti ai Congressi nazionali e
internazionali, di fissare la sede dei prossimi Congressi, di
constatare il movimento del Partito, di modificare e di fissarne la
condotta temporanea, di prendere, in fine, tutti quei provvedimenti
che saran riputati necessari.
8°.
Oltre ai Congressi ordinari, possono aver luogo, in ogni tempo,
congressi straordinari. Il convocarli spetta alla Commissione
federale, la quale, invitandovi le associazioni componenti il
Partito, indicherà il quesito, o i quesiti, la cui discussione
rese
necessaria la convocazione di un Congresso, e sarà responsabile
della convocazione stessa dinanzi al Congresso convocato.
Congressi
straordinari avranno luogo, altresì, ogni qualvolta 10
associazioni,
componenti il Partito, ne facciano proposta alla Commissione
federale: nel qual caso, le associazioni stesse indicheranno
chiaramente la ragione, per cui vogliono convocato un Congresso.
9°.
Il Partito si metterà in relazione con tutte quelle
Società,
italiane od estere, che hanno oggetti identici a’ suoi.
Esso
si farà rappresentare a tutti quei Congressi nazionali ed
internazionali, che avranno per oggetto l’unione delle forze
socialistiche e rivoluzionarie. Occorrendo tali Congressi, la
Commissione di corrispondenza ne farà avvisate le singole
associazioni, comunicando loro i quesiti da trattare, e convocandole
all’oggetto di nominare i loro Rappresentanti, e di dar loro
Mandato imperativo.
10°.
Il Partito stesso promuoverà la costituzione di un Partito
socialista rivoluzionario italiano, ove si fondano tutte le varie
attività socialistiche e rivoluzionarie d’Italia. A
quest’oggetto,
la Commissione di corrispondenza si metterà in relazione con
tutte
le Società socialistiche esistenti in Italia.
Promuoverà
altresì la costituzione di tutte quelle società, che
possono
contribuire al miglioramento economico, politico, intellettuale e
morale delle classi popolari.
11°.
La tassa federale obbligatoria, da pagarsi alla Commissione federale
da ogni Società componente il Partito, è di 5 cent.
mensili per
socio. Del pagamento di questa tassa, sono responsabili le
società
collettivamente.
Il
prodotto delle quote sborsate dalle singole società
servirà a
sostenere le spese di corrispondenza, a dar soccorsi ai Soci
perseguitati, o a quelli, che, per casi urgenti, debbono allontanarsi
dal loro paese, nonché a sostenere quelle spese di propaganda e
di
stampa, che dalla Commissione federale saranno reputate necessarie.
Delle spese incontrate, la Commissione stessa è responsabile al
Congresso. Occorrendo spese straordinarie urgenti, la Commissione
federale si rivolgerà alle singole associazioni.
12°.
Alle singole associazioni si raccomanda vivamente di mantenere una
Corrispondenza regolare, tanto fra di loro, quanto con la Commissione
di corrispondenza, di promuovere visite fraterne dei soci di un luogo
ai soci di un altro, e così via.
Quando,
poi, occorra che un socio debba allontanarsi dal proprio paese, e
voglia essere raccomandato alla società del paese, ove si reca,
egli
dee recar seco una lettera bollata della società, a cui
apparteneva.
Per
ciò, si raccomanda alle associazioni di aver un bollo. Si
raccomanda
loro, altresì, di non rilasciar commendatizie per soccorsi se
non a
que’ soci, che sono veramente costretti ad allontanarsi dal loro
paese.
13°.
Il Partito non ha organo officiale. I suoi atti saranno pubblicati
dai giornali socialistici, o saranno divulgati per mezzo di fogli
volanti, e porteranno l’intestazione di: Partito socialista
rivoluzionario di Romagna.
La
Commissione federale è responsabile di queste pubblicazioni.
14°.
Se un’associazione contravvenga sia al Programma, sia al
Regolamento, che ha accettato, o manchi alla solidarietà, o
faccia
atti dannosi al Partito, la Commissione federale ne darà
rapporto
alle singole associazioni. Occorrendo, potrà convocare un
Congresso.
Viceversa,
ogni associazione potrà liberamente accusare la Commissione
federale, quando questa manchi a’ propri doveri; e, se 10
associazioni si trovino d’accordo, un Congresso dovrà essere
chiamato per giudicare la Commissione.
15°. Il Programma, lo Statuto e il Regolamento del Partito non possono essere modificati se non dai Congressi – a maggioranza di voti.
La Commissione.