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Nel 1973, a seguito di negoziati, il Regno Unito decise l’ingresso nella Comunità Europea insieme alla Danimarca e all’Irlanda. A suggello delle dinamiche economiche sottese a quella storica decisione, e negli scontri tra le diverse correnti politiche inglesi, un referendum popolare nel giugno 1975, stravinto dai favorevoli alla permanenza nella CE, chiuse il discorso uscita.
Ma tutta la permanenza del Regno Unito nel Sistema Europa si è caratterizzato con una costante divergenza di posizioni su questioni fondamentali tra i diversi partiti inglesi, ed al loro interno tra le varie correnti. Tutta una facciata, verrebbe da dire, per spuntare nei negoziati condizioni più favorevoli rispetto agli obblighi imposti da trattati e regolamenti. Cosa che è riuscita benissimo in oltre 40 anni di partecipazione.
La UE, con tutta la sua debolezza e divisioni, ha costituito per decenni un polo di stabilità politica e militare per l’Europa, un mercato aperto che, nelle speranze delle borghesie aderenti, avrebbe dovuto garantire, pur sotto l’occhiuto dominio dei più forti ed attrezzati, un bacino quasi illimitato per le proprie merci ed una protezione dall’esterno. Nelle sue impostazioni era anche prevista una regolamentazione del mercato dei capitali per dargli, se non un minimo di razionalità, un controllo della feroce concorrenza.
Naturalmente questa opera inane e gigantesca è andata avanti tra mille difficoltà ed inciampi. Così, nei suoi ancora 27 Stati aderenti, si è strutturata con un insieme di regole ed eccezioni, di inclusioni e esclusioni, di accettazioni parziali di accordi e trattati. In particolare per il Regno Unito, un “socio” talmente importante che gli strappi nei negoziati sono stati accettati senza troppi distinguo.
Ma a far data dai primi anni 2000, fino alla svolta del 2008, con la deflagrazione di una crisi generale del sistema capitalistico che si è manifestata nella sua struttura finanziaria, la forma di un apparato europeo sovranazionale ha mostrato quanto fosse intrinsecamente debole ed illusorio. Incapace, e non poteva essere altrimenti, di una politica unitaria o almeno concordata, le fratture oggettive tra gli Stati aderenti si sono manifestate senza rimedio.
E il procedere in ordine sparso, o meglio unilaterale, ha naturalmente operato in funzione del più forte. Rigorosa e decisa verso gli altri, custode delle regole per i sistemi bancari degli altri, la Germania ha tranquillamente violato le “norme” finanziarie per i propri istituti bancari, adattato i vincoli ai propri interessi nazionali.
Il Regno Unito ha mantenuto la sua divisa nazionale, riservandosi il diritto di una politica economica più sciolta da quella di marca tedesca; ma la necessità di una svalutazione nei confronti dell’Euro più decisa di quella permessa dagli accordi ha dato la spinta a chiudere la partita. Il contratto della UE è stretto per molti, tanto da rappresentare, a questo punto della crisi mondiale, una camicia di forza per gli Stati a maggior sviluppo capitalistico-finanziario. La coabitazione di Germania e Regno Unito, sia pur con tutta la riduzione dei vincoli a questa concessa, è diventata sempre più difficile.
Uno strumento, un casus belli, doveva essere trovato per disarticolare, o almeno allargare le sbarre di questa gabbia. Poteva essere un referendum come quello del ’75, o quello della Danimarca del ’92 che bocciò l’adesione al Trattato di Maastricht; potevano essere le diversità di politica estera. Per questioni apparentemente interne al partito di governo l’occasione è stata trovata in sede “democratica”, con grande giubilo dei piccolo borghesi anti-UE che si sono figurati chissà quali “voti di protesta”, se non addirittura “di classe”.
E tocca leggere anche ignobile letteratura che osa definirsi “di sinistra” ed afferma senza vergogna che il voto per l’uscita è un evento “progressivo” in termini di classe, quando pervenuto dai distretti più poveri del proletariato e sottoproletariato, perché di protesta contro le disperate condizioni di vita degli strati più bassi della popolazione. Senza dubbio motivata quella protesta, ma non certo da prendere a riferimento di una risorgente coscienza di classe, anzi!
Il referendum non è stato un “incidente”, un “errore” dei governanti; né una sorta di rinsavimento e risveglio dei massacrati dalle “riforme” dell’era Thatcher e dai “perfezionamenti” di Blair. Avrebbe potuto avere esito diverso, ma la freccia storica è puntata in quella direzione: e se dalle urne fosse uscita l’indicazione “restare”, lo Stato britannico avrebbe trovato un altro pretesto per uscire.
Facile per la massa di sciocchezze della nauseante propaganda che ha preceduto e poi seguito il referendum imputare tutti i danni alla forma chiaramente oligarchica e chiusa di un “comitato” direttivo di non eletti, svincolato da ogni democratico controllo popolare e ammantato dalla più sfrenata ideologia liberista. È vero, la testa pensante della UE è finanziaria e non politica. Se il parlamento europeo è una ignobile accozzaglia di nullafacenti peggiore dei parlamenti nazionali, tutto dire, una struttura senza alcun potere oggettivo, parimenti i parlamenti, e anche i governi tutti hanno demandato il controllo della macchina statale al sistema finanziario – cioè ad una struttura di controllo pervasiva ed anonima che rappresenta l’ultima forma che il percorso storico del Capitale ha generato.
Analogamente, questo stesso anonimo comitato di affari, sovranazionale nella sostanza se non nella forma, opera con provvedimenti sempre più faticosi ed inefficaci per tamponare la violenza della crisi. Questa sovrastruttura politico-economica, volontaristica ed ideologica, si impone alla dinamica di governi e Stati.
Ugualmente antistorica ed impotente l’idea che, finalmente libero dalle pastoie comunitarie, il Regno Unito possa riprendersi dalla crisi sociale nella quale è precipitato dopo la cura liberista Thatcher-Blair, con la possibilità di riallineare i corsi dei cambi della sterlina, di riprendere un’autonomia politica economica, commerciale, fiscale, ecc. Tutte falsità interessate che attribuiscono alle sole politiche economiche imposte dalla UE i disastri sociali che hanno martoriato le classi inferiori; sì che, liberatisi da quella, strumento di banche, finanza e perfida Germania, il futuro nazionale si ripresenterebbe pieno di possibilità di rinascita e benessere.
La dinamica sociale evolve verso la sconfitta di ogni illusione socialdemocratica e di progresso con la rovina di amplissima parte del corpo sociale. Ma non sarà perché sarà venuto a mancare l’effetto ombrello dell’Unione Europea, che è, è bene tenerlo sempre a mente, costruzione borghese, capitalistica e finanziaria oggettivamente e necessariamente anti proletaria.
Le preannunciate e temute reazioni negative, le tragedie economiche e finanziarie minacciate dalla parte dei borghesi pro-Europa, si verificheranno di certo, ma non a causa dell’abbandono dell’accogliente “casa comune” – nido di vipere di lobby grandi-capitalistiche – ma perché tutte già presenti nell’asfittico e marcio sistema economico-finanziario, mondiale, europeo e d’oltre Manica.
Già ha iniziato a vacillare il sistema dell’immobiliare, su cui si fonda tanta parte del capitale fittizio. Se da un lato la deregolamentazione selvaggia del mercato dei capitali potrebbe avvantaggiare la piazza di Londra su quelle continentali, dall’altro, malgrado la ”svalutazione competitiva” su cui punta disperatamente il capitale inglese, il futuro per l’industria ed il commercio appare in difficoltà sotto la spinta di una feroce concorrenza.
L’economia britannica si sostiene sugli strumenti finanziari dell’immobiliare e si fonda su un indebitamento enorme delle famiglie – debito privato e non pubblico! – e caratterizza una fragilità sistemica per il Regno Unito. Un potenziale crack di questo fondamentale comparto risulterà fatale, sommato all’estrema fragilità del sistema bancario di tutta Europa.
Dappertutto il capitale finanziario ha fatto aggio su quello produttivo. Se per l’esausta UE noi non teniamo in nessuna importanza i nomi dei cosiddetti Grandi, finanzieri, gestori di Fondi, governatori di Banche centrali, Board vari e così via, per gli Stati ugualmente nulla ci interessano partiti, capi di governo, politicanti vari. Parlare di una “Europa delle genti” contrapposta ad una “Europa delle élite”, finanziarie e capitalistiche, che dovrebbe reagire e riconquistare la violata democrazia, è velleità reazionaria piccolo borghese.
Questa situazione, già da tempo matura ancor prima della ormai consumata oscena vicenda referendaria Esco-Rimango, ma non ancora conclusa con l’abbandono formale, sarà prodromo alla rottura dell’intera impalcatura comunitaria, che non può essere mantenuta con l’aggravarsi della crisi del capitalismo, e col progredire dell’infrangersi di tutti gli equilibri economici, commerciali, politici e militari stabilitisi all’indomani della seconda guerra.
Riguardo ai risultati del congresso di Milano Turati non si lasciava trasportare da facili entusiasmi e su “Critica Sociale” del 10 settembre 1891 prudentemente scriveva: «Il partito operaio-socialista, proclamato teoricamente al Congresso di Milano, è ancora, ben può dirsi, nelle condizioni di un infante di cui i medici stanno a domandarsi se sia vivo e vitale».
Al congresso Turati aveva dovuto barcamenarsi tra le varie correnti cercando di ottenere il possibile: sfrondò dallo Statuto del Partito Operaio Italiano l’esasperato corporativismo operaista mantenendone solo le parti generiche che, liquidato il passato, non avrebbero compromesso il futuro. Riuscì anche a fare proclamare dal congresso la costituzione del Partito dei Lavoratori Italiani: ad una commissione venne affidato l’incarico di formularne il Programma e lo Statuto ma si sarebbe atteso il successivo congresso per la loro approvazione. Infine, molto importante, fu stabilita la pubblicazione di un settimanale, organo del partito, che avrebbe avuto l’inequivocabile nome di “Lotta di Classe”.
Rispondendo alle varie critiche che da più parti erano mosse al congresso di Milano, Turati scriveva: «Può anche osservarsi che il congresso non concretò nulla di praticamente immediato (...) I primi passi sono i primi passi, barcollanti ed incerti, né noi siamo qui ad adularli, a esagerarne lo slancio. E noi sappiamo che le “parole” dei congressi, anche le più pratiche e savie sono chiacchiere e vento, se non segua l’opera accorta, minuta, indefessa, di coloro che dell’anima del partito portano in sé la miglior parte (...) A noi basta constatare che questo nuovo tentativo di intrecciare a gomena resistente le sparse e tuttor esili fila del movimento operaio italiano ha segnato, indubbiamente, un notevole progresso sullo stato quo ante, e non potrà essere infecondo di frutti» (“Critica Sociale”, 20 agosto 1891).
La fiducia che questo nuovo tentativo avrebbe dato i suoi frutti era ben riposta perché il Congresso di Milano era stato qualche cosa di diverso e di superiore dal quinto ed ultimo congresso del Partito Operaio; aveva liquidato la formula operaistica ed aveva posto le basi per la costituzione di un vero partito socialista. Questo aveva necessariamente comportato un raggruppamento di vari indirizzi politici. Lunga sarà la strada che il partito di classe dovrà ancora percorrere prima di potersi dotare di un definito indirizzo genuinamente marxista.
Ad esempio, la Commissione per il Programma, che svolgeva pure la funzioni di Comitato Centrale provvisorio, comprendeva sia l’ormai ex operaista Costantino Lazzari che aveva tuonato contro la “democrazia vile”, sia Antonio Maffi, deputato demo-radicale, che era ora diventato anche segretario della Commissione direttiva delle Società Operaie Affratellate e pure membro del Comitato Centrale del Partito Repubblicano. Il primo un “autentico proletario marxista” (vedi Storia della Sinistra, vol. I), il secondo un politicante consumato.
Appena il progetto di Programma e di Statuto del Partito dei Lavoratori Italiani fu approntato, Antonio Maffi si affrettò a rivendicarne la paternità e a farlo pubblicare dal giornale repubblicano “L’Emancipazione” (del 6 marzo 1892). Presumibilmente il proposito del Maffi era far convergere in un unico calderone socialisti e repubblicani, cosa che, se si fosse verificata, avrebbe tolto ogni carattere di classe al futuro partito.
Intanto a Milano il 18 giugno 1892 uscì il “numero unico” dell’annunciato settimanale “Lotta di Classe”. Vi si legge: «Il principio della lotta di classe – come tutte le idee nette, vere, precise, senza doppi fondi, le idee che servirono di base a nuova civiltà – ha anche questo di caratteristico: che serve a meraviglia di pietra di paragone, per saggiare gli uomini e i partiti. Dite giustizia, bene pubblico, miglioramento del popolo e simili frasi fatte – quadri vuoti in cui ciascuno dipinge quel che più gli torna – e potrete avere consenzienti, non solo tutti i partiti, ma più ancora tutti gli uomini senza partito e senza convinzioni. Non c’è nessuno che non voglia essere moderato, liberale, progressista, che non dica di amare i rimedi radicali, ecc. ecc. Tutte belle parole che impegnano tanto quanto dire “servitore umilissimo”! Ma l’idea della lotta di classe non ammette sottintesi e riserve. L’equivoco fugge da lei spaventato come Mefisto all’aspetto della croce. Essa suppone una comprensione a una ricognizione esatta dello stato attuale della società nel momento storico presente e traccia una linea d’azione netta e precisa da percorrere senza oscillazioni e senza giravolte. O di qua o di là: o dentro o fuori. Chi vuol starvi a cavalcioni fa il capitombolo».
E, nel numero 1, del 30 luglio 1892, era scritto: «Lotta di classe è la parola del momento. È la sola che qualifichi con precisione e allontani l’equivoco. I mistificatori e i confusionari la odiano, perciò l’abbiamo assunta a segnacolo nel nostro vessillo (...) La composizione dei partiti, la distinzione fra gli operai che discernono intera la via della emancipazione e la vogliono tutta percorrere, e quelli che hanno tuttora ingombra la mente dalle vecchie fisime borghesi, si opera attorno ed in base a codesto criterio: affermare oppure no la lotta di classe (...) La lotta di classe non l’abbiamo inventa noi. Essa fu la grande stimolatrice del progresso umano, la eterna animatrice della storia. Nel regime capitalista prende forme nuove e prepara alfine fatalmente la sua propria soluzione, la disparizione delle classi, il regno della eguaglianza nella civiltà. I padroni, i governi fanno la loro lotta di classe (...) Quanto a quelli che non c’intendono perché non vogliono intenderci, non è affar nostro il provarci a convertirli. Facciano essi la loro strada e sperino – fin che possono – che essa abbia un’uscita. Noi faremo la nostra, non badando a scongiuri o a vituperi».
Il 16 luglio “Critica Sociale” annunciava: «Il Comitato centrale del Partito dei lavoratori italiani, uscito dal Congresso operaio nazionale dell’agosto scorso in Milano ha diramato le circolari di convocazione del Congresso nazionale di quest’anno, che è opportunamente intitolato: “Congresso per l’organizzazione operaia italiana”, e che, profittandosi delle riduzioni ferroviarie per l’esposizione colombiana, avrà luogo in Genova, nei giorni festivi 14 e 15 agosto (...) L’invito è rivolto a tutti i Circoli e le Associazioni operaie che accettino i principi cardinali già approvati, e cioè: la costituzione di un grande Partito di lavoratori indipendente da tutti gli altri partiti; l’organizzazione per la rivendicazione delle terre e dei capitali in mano alla collettività dei lavoratori; la conquista dei poteri pubblici, come altro dei mezzi all’emancipazione del lavoro. Questi tre punti caratterizzano infatti la fisionomia del partito dei lavoratori quale si è affermato nel Congresso ultimo – del quale si farà punto di partenza per dare un nuovo passo avanti – e l’averli nettamente segnalati taglierà corto agli sprechi di tempo e alle ciarle accademiche che si volessero fare sui principii fondamentali. Il prossimo Congresso infatti, benché stretto nel limite di 48 ore (...) dovrà essere un propulsore di lavoro pratico e concreto e gettare veramente le basi – non soltanto teoriche, ma reali – di un partito operaio socialista, cosciente e compatto, ramificato fino alle più lontane regioni d’Italia».
Ogni Società, Associazione o Circolo operaio partecipante aveva diritto ad un voto, ma poteva inviare un numero illimitato di rappresentanti. La “Lotta di Classe” informava che da Milano sarebbe partito un treno speciale che al costo di 8,50 lire comprendeva biglietto di andata e ritorno valido 5 giorni e comprensivo dell’alloggio.
Il carattere del futuro congresso era riassunto in questi postulati: la meta finale è la socializzazione dei mezzi di produzione che si può realizzare solo con la conquista dei poteri pubblici, ed il mezzo per giungere a tanto è la lotta organizzata dei lavoratori consapevoli dello scopo finale. In questo sintetico enunciato c’era quanto bastava per porre l’organizzazione nel campo del socialismo, ma allo stesso tempo vi era tanta genericità da poter farvi rientrare un po’ tutto e tutti.
Secondo Turati al proletariato italiano, per il momento, non si poteva chiedere niente di più. «Nella classe operaia italiana – partito in formazione – covano ancora i fermenti che troviamo, agli inizii, nella storia di tutti i partiti operai. Essa non ha ancora superato tutte le malattie dell’infanzia e rimane ancor dubbio se potrà schivarne taluna, con qual esito affrontare le altre. Rotto (...) il cordone ombelicale che la univa ai partiti liberali della classe borghese, la sua vita indipendente è piena tutt’ora di tentennamenti e di atavismi, a cui l’ignoranza e la miseria della massa (...) prestano un terreno oltremodo propizio» (“Critica Sociale”, 16 agosto 1892).
Turati mette il dito sulla piaga dei problemi e pregiudizi incancreniti all’interno delle organizzazioni operaie italiane. «L’antagonismo – di cui acquista lentamente coscienza – colla classe borghese, si traduce, nelle menti rozze, in una specie di diffidenza irrazionale e istintiva verso tutto ciò che dalla classe borghese proceda, quand’anche si tratti di forze essenzialmente contrarie al dominio borghese o di armi adattissime e indispensabili a rovesciarlo: diffidenza che i meschini ambiziosi e gli sciocchi parolai ponno a meraviglia sfruttare. Di qui quell’anarchismo e semianarchismo che ha tutt’ora in Italia gran presa, mezzo fatto d’impazienza e mezzo d’indolenza, e che dove pare più violento ed estremo è invece più conservatore e più reazionario (...) Di qui quella tendenza a gittar via, come vana o corrompitrice, l’arma poderosa del voto, utilissima come strumento all’organizzazione e allo sviluppo della coscienza di classe (...) Di qui il disinteresse sistematico dall’azione politica, la sfiducia preventiva in tutti quei vantaggi immediati (...) che il proletariato organizzato può, con tenace sforzo, strappare alle classi dirigenti per servirsene a invigorirsi e volgerli contro di quelle. Di qui ancora e soprattutto quella tendenza, sempre viva fra molti dei nostri operai (...) ad appartarsi, a trincerarsi nell’ambito cosidetto economico – frase falsa e con la quale si intende l’ambito delle contese di puro mestiere – battezzando non meno falsamente questa tattica eunuca col nome grandioso e fatidico della lotta di classe. Che più! La gran frase riassuntiva e finale dell’opera di Marx: “Proletari di tutti i paesi, unitevi!”, la grande epigrafe dell’internazionale: “l’emancipazione dei lavoratori deve essere l’opera degli stessi lavoratori”, ridotte al sesto di certe teste, in cui la lettera fa groppo e impaccio allo spirito, vengono, ad uso degli idioti, tradotte così: “Separiamoci da quant’è intelligenza, indipendenza e coltura, guardiamo alla blouse, non ai principi, non all’animo, non alla vita; e formiamo il partito operaio degli analfabeti».
I concetti qui espressi da Turati assumono una grande importanza in vista della formazione del partito socialista in Italia. Ancora qualche decennio dopo, all’epoca della “bolscevizzazione” dei partiti comunisti da parte di “meschini ambiziosi e sciocchi parolai”, venne sfruttata la “diffidenza irrazionale ed istintiva” verso i transfughi della classe borghese, puntando sulla “blouse” per rinnegare i principi. Turati, da noi definito “valido marxista”, metteva in guardia il costituendo partito dagli errori infantili di allora e da quelli degenerativi del futuro.
Ma torniamo all’argomento. Il partito socialista doveva essere qualcosa di completamente diverso e distinto sia da un partito democratico sia da un’organizzazione corporativa.
Se in Italia si giungeva in ritardo al socialismo questo non avrebbe impedito lo sviluppo del partito perché i socialisti italiani avrebbero potuto fare tesoro dello sviluppo generale e della maturità del socialismo europeo. «Ogni movimento sociale, ogni lotta di partito segue – in ogni paese – certe leggi generali, comuni a tutti i partiti analoghi nello stesso stadio di civiltà economica, e certe leggi speciali proprie a quel dato ambiente in cui il partito si svolge. La forza delle influenze strettamente locali è però di tanto minore, di quanto l’esempio dei fenomeni similari prodottisi altrove e delle teorie che generarono penetra l’ambiente speciale di ciascuna nazione e lo illumina con la vasta luce di esperienze già fatte e di conclusioni già prese. È così che popoli e partiti in arretrato possono sino a un certo segno evitare, od almeno abbreviare, i giri viziosi che furono inevitabili ad altri e (...) raggiungere presto, nel combattimento generale, le prime e più agguerrite falangi».
Anche qui vediamo anticipati elementi della nostra condanna della teoria delle vie nazionali al socialismo.
Questa dichiarazione di volersi ispirare e di avere a guida i partiti di quei paesi dove il socialismo aveva attecchito su vaste masse di lavoratori e, soprattutto, erano riusciti a dotarsi di una buona base programmatica, non passò facilmente e diede luogo ad un acceso contraddittorio. Turati e la “Critica Sociale”, pur constatando l’esiguità del proletariato industriale italiano rispetto a quello di altri paesi, ben ne apprezzavano il crescere e il maturare, superando antiche inferiorità. All’opposto, altri, pur militando attivamente nel movimento operaio, non lo consideravano pronto ad esprimersi in un partito socialista e che bisognasse aspettare che le organizzazioni di resistenza si sviluppassero. Altri ancora credevano non che non si potesse, ma che non si dovesse.
A questo riguardo significativa è la lettera di Cabrini a Casati dell’1 agosto 1892, nella quale Turati e la Kuliscioff, definiti “tedescomani”, avrebbero preteso di imporre dall’esterno uno sviluppo artificioso al movimento operaio italiano. «Io vedo come il fumo negli occhi la supremazia dei borghesi socialisti nel movimento operaio: e benché non sia lieve e tenue l’affetto e la stima che mi legano a Turati, all’Anna ed al Croce, pure sono deciso di oppormi risolutamente all’andazzo tedescomane che ne sovrasta e soverchia fino ad asfissiarci (...) A me pare che sia fallace la credenza di quei compagni i quali proclamano essere giunto il giorno, l’ora ed il minuto di fondere il movimento di classe (partito operaio) con la propaganda astratta (partito socialista). A me pare che se i borghesi socialisti – specie nei centri intellettuali ed industriali – continuassero a lavorare nei circoli socialisti, nelle leghe socialiste, su per le colonne di riviste e di giornali, limitandosi a documentare, a consigliare, a difendere ed a legittimare col battesimo della scienza i movimenti di classe – lasciando che l’organizzazione di classe si formi e si concreti indipendente da tutti i partiti politici (ed il partito socialista è politico!) – si affretterebbe di molto proprio quel giorno, quell’ora e quel minuto sacro all’auspicata fusione. Oggi è troppo presto! – Queste idee sosterrò al Congresso di Genova; certo che la mia condizione di socialista non operaio gioverà, meglio che nuocere, alla buona causa».
In effetti il Partito Socialista Italiano terrà sempre a suo modello teorico e politico, e depositaria della tradizione rivoluzionaria marxista, la grande Socialdemocrazia tedesca. Di fatto questa, a seguito della fusione con i lassalliani, dopo la caduta delle leggi antisocialiste di Bismarck, e per il fatto che la Germania attraversava un periodo di relativo equilibrio e pace sociale, si era prevalentemente orientata verso i metodi legalitari trascurando il fine e l’azione rivoluzionari.
Il Casati, al pari del Cabrini, era deciso oppositore dell’invadenza dei “socialisti borghesi” in seno al Partito operaio. Nell’imminenza del congresso di Genova presero pubblicamente una posizione opposta a quella della “Lotta di Classe” e della “Critica Sociale”: il Partito dei Lavoratori doveva restare un puro partito “di classe”, dei suoi organi centrali dovevano far parte soltanto lavoratori manuali, dal congresso dovevano essere escluse le società politiche; di conseguenza il partito non avrebbe dovuto chiamarsi “socialista”.
Ma la crisi che aveva colpito il Partito Operaio, stava proprio a dimostrare il contrario: il “movimento”, privo di una base programmatica, rinchiuso all’interno delle fabbriche, con una coscienza più corporativa che di classe, non solo non cresceva spontaneamente come si auspicavano i teorici dell’operaismo, ma col passare del tempo si inaridiva ed anche il suo primitivo impulso alla lotta andava spegnendosi.
Il mattino del 14 agosto, a Genova, nella sala Sivori si riunirono i congressisti provenienti da tutt’Italia. Erano presenti i nomi più noti del socialismo italiano e rappresentate tutte le correnti politiche sotto la cui direzione si erano formate le società ed i circoli operai: Turati, Kuliscioff, Costa, Lazzari, Croce, Maffi, Agnini, Prampolini, Bissolati, Cabrini, Casati; erano rappresentati operaisti, socialisti rivoluzionari, anarchici, evoluzionisti, democratico-sociali, repubblicani collettivisti. Non volle prendervi parte Antonio Labriola.
La scissione con gli anarchici, anche se non esplicitamente annunziata, era più che scontata. A questo riguardo basta rileggersi l’articolo di Turati sul congresso di Bruxelles tenutosi l’anno precedente: «La separazione dagli anarchici (...) fu (...) un altro fatto importante e, anche a nostro credere, necessario, per quelle ragioni di antagonismo che rendono incompatibili le due opposte correnti. È cosa bisantina il discutere se l’anarchismo debba o non debba venir compreso nel socialismo lato sensu: dacché il socialismo positivo non ha di comune con l’anarchismo che una parte della critica negativa, ma diverso essenzialmente è fra le due scuole il concetto dell’evoluzione sociale, diverso il fine, diverso sopratuttto ed opposto il metodo d’azione, a che prò unirsi per intralciarsi a vicenda? A che prò mutare i congressi in accademie, rifriggendo un’altra volta le eterne contese fra legalitari e antilegalitari, fra astensionisti e non astensionisti, fra rivoluzionari organizzatori e rivoluzionari d’impeto o semplici rivoltosi?” (“Critica Sociale”, 10 settembre 1891).
Ma anche senza l’intervento degli anarchici si sapeva che non si sarebbe trattato di un congresso tranquillo. Infatti gli incidenti scoppiarono fin dall’inizio, quando si trattò di nominare la presidenza. Anna Kuliscioff propose una quaterna di nomi, scelti secondo un criterio di rappresentanza regionale; il Casati si oppose pretendendo che i membri della presidenza fossero degli autentici operai, suscitando un primo agguerrito scontro. Messe ai voti le due proposte, quella della Kuliscioff fu approvata a grande maggioranza. Ciò non impedì che immediatamente dopo si sollevassero nuovi incidenti sui nomi dei presidenti e sull’ammissione al congresso delle società dedite ad attività politica. Sta di fatto che tutta la mattinata e buona parte del pomeriggio si consumarono in inconcludenti diatribe preliminari. Gli anarchici pur di sabotare la maggioranza socialista si schierarono dalla parte degli operaisti, anche se non ne condividevano le posizioni.
L’atmosfera divenne rovente quando il Maffi prese la parola per riferire sul Programma e sullo Statuto del partito. L’anarchico Pellaco intervenne chiedendone il rinvio della discussione al giorno dopo affermando che non tutti i congressisti avevano avuto la possibilità di prenderne visione, seppure la proposta di Programma e di Statuto fossero stati pubblicati sul numero del 30 luglio di “Lotta di Classe”, 15 giorni prima del congresso. Fu allora che, nel subbuglio generale, Turati, rivolto agli anarchici gridò “Non vogliamo tirannie, fuori i despoti!”: offesa più grave non si sarebbe potuta rivolgere a degli anarchici.
Tornata una relativa calma prese la parola Prampolini: «Vi tratterrò pochi minuti ma vi parlerò col cuore, da amico franco, e parlerò per voi anarchici e nell’interesse comune. Dopo che mi avrete ascoltato dovrete dire che io ho ragione, e converrete con me nella proposta che faccio. Da anni e anni, quando incominciò a sorgere il partito socialista in Italia, noi combattiamo fra noi una lotta continua nei giornali, nelle assemblee, nelle pubbliche piazze, nei congressi; io non dirò che vi sia da una parte o dall’altra malafede, anzi non vi è. Voi siete onesti quanto noi, ma è indiscutibile che questa lotta esiste, ed è di tutti i giorni, di tutte le ore, e ciò perché noi siamo due partiti essenzialmente diversi, percorriamo due vie assolutamente opposte, fra noi non ci può essere comunanza, dunque lasciateci in pace. Ma perché dare a noi, agli altri, alle associazioni che ci mandarono a rappresentarle, il triste, il doloroso spettacolo di combatterci, di avvilirci; perché, perché questo?...».
Prampolini, a questo punto, preso dalla foga oratoria e dall’eccitazione ebbe un malore, ma, ripresi i sensi, volle portare a termine l’intervento: «Se noi dobbiamo battere due vie diverse, facciamolo da buoni amici; voi percorrete la vostra, noi proseguiamo la nostra, lasciamoci senza rancori; perché rompere anche le nostre amicizie personali? domani voi adunatevi in un altro sito, e noi faremo altrettanto e credete che solo così potremo riescire a qualche conclusione».
Prampolini sosteneva quello che era da tempo il punto di vista della maggior parte dei socialisti italiani, ossia la necessità di rompere con gli anarchici. Ma gli anarchici non intendevano ragioni: loro erano i veri rivoluzionari, gli autentici socialisti, tutto il resto non era che degenerazione e tradimento, compromesso con la democrazia borghese, etc, etc. Dal loro punto di vista la proposta di Prampolini era inaccettabile: anche se in minoranza ritenevano di avere pieno diritto a rimanere all’interno del partito con libertà di continuare a svolgervi la loro attività e propaganda.
Pietro Gori affermò infatti: «Noi siamo la minoranza, ma esigiamo la libertà di portare fra voi la nostra propaganda. Perché ci metterete alla porta? Dovunque voi sarete, là vi seguiremo». La risposta di Turati non poteva essere altra di quella che fu: «Voi non ci seguirete. Noi non vi metteremo alla porta. Soltanto, noi siamo stanchi di voi e ci separiamo. La vostra “libertà” è violenza contro di noi. La vostra propaganda la sappiamo a memoria. Da vent’anni la leggiamo nei vostri giornali e non ci ha convinti. Lasciate a noi la libertà di essere quello che siamo. La circolare di convocazione vi escludeva dal Congresso. Noi non vogliamo perder tempo, ne perdemmo già troppo. Disperando di metterci d’accordo coi cattolici sui dogmi della Chiesa non entreremmo in un Congresso cattolico: così non vogliamo discutere con voi su questioni che per noi sono risolte da un pezzo. Lasciateci dunque in pace. Per voi noi siamo reazionari: voi siete reazionari per noi, perché ci allontanate dalla via più breve che conduce alla rivoluzione. Siamo dunque intesi: domattina noi ci aduneremo fuori di qui senza di voi, e voi terrete, ovunque vi piaccia, le vostre riunioni».
Su questa dichiarazione, interrotta da rumori, il Congresso fu dichiarato sciolto.
Dei due giorni dedicati al congresso, il primo era stato completamente perduto, ed il secondo avrebbe avuto il medesimo esito se non si fosse operato un atto di forza e, visto che la minoranza non aveva nessuna intenzione di abbandonare il congresso, fu deciso che sarebbe stata la maggioranza a farlo.
La decisione fu presa la sera del 14 in una trattoria dove Turati si era ritrovato con un piccolo gruppo di congressisti, fu deciso di invitare tutti i membri del congresso che accettavano la partecipazione alle lotte elettorali (era la formula di separazione dagli anarchici) a riunirsi il giorno dopo nella sala dei Carabinieri Genovesi, in via della Pace.
Nella “Lotta di Classe” del 20 agosto si legge il seguente resoconto: «Fin dalla prima seduta, anzi dai primi momenti del Congresso, il 14, alla sala Sivori, fu chiaro a tutti che il manipolo dei dissidenti, battuto nella contesa per la nomina dei presidenti con la schiacciante maggioranza di 106 voti contro 46, era nondimeno deliberato di impedire che il Congresso compisse i suoi lavori. La domanda di rinvio della discussione del programma al giorno susseguente, sostenuta con urli e clamori d’ogni sorta contro la volontà ed il voto della grande maggioranza dei congressisti, pose il colmo alla esasperazione dei veri e coscienti mandatari dei lavoratori, i quali per quella discussione principalmente erano accorsi a Genova col mandato e col denaro sudato dei loro compagni e questo denaro non volevano frodarlo. Fatta impossibile la continuazione di quel Congresso, esso si sciolse, dichiarando la maggioranza di radunarsi il domattina in nuovo Congresso, scevro d’ogni immistione di anarchici. Invano i dissidenti gridarono che ci avrebbero seguito dovunque. Ad evitare ogni appiglio a recriminazioni e rappresaglie il Comitato promotore deliberò di ritenere sciolto il Congresso da esso indetto e di tenersi quindinnanzi neutrale. Invano i dissidenti gridarono che ci avrebbero seguiti dovunque. Il domattina le loro Commissioni non furono tampoco ricevute e i lavori procedettero nel modo più spiccio e più cordiale, malgrado la vivacità e il calore delle discussioni».
La decisione di convocare il nuovo congresso in un locale distinto da quello in cui si erano svolte le discussioni il giorno avanti fu presa da un ristretto gruppo di compagni perché non lo venissero a sapere gli anarchici. Questo impedì che l’informazione arrivasse anche ad alcuni rappresentanti della maggioranza, una parte dei quali la mattina del giorno 15 tornarono alla sala Sivori. Tra questi vi erano anche Andrea Costa e Carlo Monticelli, esponente del gruppo veneto. Romagnoli e veneti protestarono vivacemente e, pur dichiarando che, nella sostanza delle questioni, avrebbero aderito al congresso di via della Pace, disapprovarono il modo in cui si era prodotta la scissione e l’atto formalmente scorretto ed arbitrario compiuto da un piccolo gruppo di congressisti che si era arrogato il diritto di decidere in nome della maggioranza, e dichiararono di abbandonare l’uno e l’altro congresso.
Malgrado le defezioni di romagnoli, veneti ed una parte di liguri, malgrado che la notizia del nuovo luogo di riunione non potesse essere comunicato in tempo a tutti quanti, grandissima parte dei delegati partecipò al nuovo convegno: dal Consolato operaio di Milano al Fascio dei lavoratori di Palermo (8.000 organizzati), dall’Unione dei ferrovieri alle 450 Società affratellate, dalle Cooperative dell’Italia centrale alle decine di migliaia di braccianti organizzati, rappresentati da Agnini e Prampolini, senza parlare delle molte altre associazioni che sarebbe troppo lungo enumerare. Quanti aderirono e parteciparono alla riunione di via della Pace costituirono il nucleo omogeneo di un partito che usciva dai limiti regionali per abbracciare i lavoratori di tutt’Italia.
A questo punto il congresso apertosi a Genova il giorno 14 si era diviso, di fatto, in tre distinte frazioni: la maggioranza socialista, la minoranza anarco-operaista e il gruppo raccolto attorno ad Andrea Costa che si ritirava, irritato per la “scorrettezza” procedurale.
Quindi la mattina del lunedì 15 agosto si aprirono due congressi: alla sala Sivori si ritrovarono gli anarchici e gli operaisti intransigenti, mentre nella sala dei Carabinieri Genovesi i socialisti.
“Lotta di Classe” scriverà: «Qualcuno avrebbe desiderato una procedura diversa. Certo se era difficile alla maggioranza vincere gli ostruzionisti a colpi di votazione, ciò che, rinnovandosi di continuo gli incidenti, avrebbe ad ogni modo impedito ogni conclusione – non le era punto difficile per converso rispondere alla violenza colla violenza ed espellerli dalla sala. Ma se essa credette più conveniente che nessuno potesse dire di essere stato scacciato e se fu sua unica preoccupazione che si compisse il lavoro per cui era convenuta, non noi certamente ne faremo carico a chicchessia».
Il salutare atto antidemocratico di Turati determinò il compimento della separazione, ormai storicamente irrevocabile, del socialismo scientifico dal movimento anarchico, chiuso un antico dibattito esauritosi ormai da troppo tempo, uno sterile ed ripetitivo discutere sulle stesse cruciali questioni che paralizzava il movimento. A 13 anni dalla lettera di Andrea Costa “Ai miei amici di Romagna”, era tempo di dare anche in Italia una netta separazione tra le due scuole e movimenti: l’anarchico e il socialista.
Non è neanche un caso che due movimenti, determinati dalla immaturità del proletariato italiano, l’anarchismo e l’operaismo, sebbene basati su due distinte ed inconciliabili concezioni della lotta di classe, al momento della resa dei conti abbiano fatto fronte comune per impedire la nascita del partito socialista. Il giorno 15 gli operaisti intransigenti, capeggiati da Casati, assieme agli anarchici tentarono di approfittare del vantaggio formale di essere riuniti nella sala Sivori, luogo in cui il congresso di Genova era stato convocato, per ostentarne la continuità e si costituirono pure loro in “Partito dei Lavoratori Italiani”, adottando lo Statuto del Partito Operaio.
“La Favilla” di Mantova del 21 agosto, che per loro parteggiava, commentò così l’avvenimento: «A noi consta che i nostri compagni anarchici hanno vinto su tutta la linea contro i socialisti collettivisti ed i socialisti alla tedesca. I socialisti che sono in buona fede devono assolutamente capire che il socialismo come lo intendono Bebel in Germania e Turati e Prampolini in Italia è un’utopia di impossibile realizzazione. I socialisti in buona fede che leggono le opere di Kropotkine, di Merlino e di Malatesta bisogna assolutamente che diventino comunisti anarchici. Quelli in mala fede poi possono restar socialisti fin che vogliono ma il popolo non sarà mai con loro. Al congresso socialista di Genova i rappresentanti anarchici erano numerosissimi; la sola Palermo, la nobile città siciliana aveva mandato quattro rappresentanti anarchici. Furono campioni applauditissimi dell’anarchia l’avvocato Gori ed il Galleani. Le ragioni del socialismo furono debolmente sostenute dal Turati e dal Prampolini. Evviva il comunismo anarchico!».
Intanto, in via della Pace, dopo l’infruttuoso tentativo di chiarificazione ad Andrea Costa, si cercava, per quanto possibile, di riguadagnare il tempo perduto nella precedente giornata. Turati, a nome di un gruppo di compagni, propose di apportare cambiamenti sostanziali al progetto di Programma, che, come sappiamo, era opera di Maffi.
“Lotta di Classe”, già nel suo numero 2, del 6 agosto, aveva avanzato delle forti critiche al progetto di programma. Ci limiteremo a riportare solo la significativa premessa: «Allo schema del Programma e Statuto inserito nel numero scorso facciamo per oggi, per conto nostro, poche osservazioni schematiche, riservandoci un maggior svolgimento, se lo spazio ce lo concederà, nel prossimo numero. Il programma, secondo noi, pecca soprattutto di indeterminatezza. Ora, l’indeterminato è la morte dei partiti che hanno bisogno di affermarsi. Le frasi generiche, le frasi vecchie, che hanno già servito a mille usi diversi e sono già, a così dire, vecchi vasi imbevuti di una grande varietà di odori e di succhi, non si prestano a una buona fermentazione del vino nuovo – delle nuove idee. Hanno troppi manichi; e ciascuno le può imbrandire e con esse si finisce al confusionismo che, nell’azione pratica, è l’impotenza».
Antonio Maffi aveva preso come base il Programma di Bologna del Partito Operaio e lo aveva rielaborato inserendoci anche concetti tipicamente democratico-borghesi, come l’uguaglianza naturale degli uomini, la sovranità popolare, etc. Ne era risultato un documento molto più idoneo ad un partito repubblicano, radicale, demo-sociale, non certo il programma per un partito socialista.
Il 6 marzo 1892 Antonio Labriola aveva scritto ad Engels: «Estensore del programma è il deputato Maffi, già tipografo milanese, ora signore in cilindro e cravatta bianca. Il Maffi venne su come candidato operaio: tollerato ed aiutato dai democratici uso “Secolo”. Perdette il collegio a Milano, ma fu rieletto a Massa Carrara. Ora vive come stipendiato di associazioni operaie e di camere del lavoro. Ne avrà letto il nome nei resoconti dei così detti congressi per la pace. E un omino che sta bene con tutti i Ministri. Il più comico gli è, che il Maffi presentemente è segretario stipendiato delle società affratellate, ossia mazziniane, di quelle che domenica prossima terranno il congresso repubblicano chiamato a scomunicare i radicali uso Canzio e Cavallotti!». Aggiungiamo noi che il deputato demo-radicale Maffi, oltre a quanto ricordato da Labriola sarà pure membro del comitato centrale del Partito dei Lavoratori Italiani ed anche del Comitato Centrale del Partito Repubblicano).
Il proposto nuovo Programma inoltre cozzava in modo lampante con l’abbinato Statuto, pedissequamente ricalcato su quello del Partito Operaio dal quale riportava persino, senza mutare una virgola, la famosa condizione restrittiva della qualifica di mestiere per l’ammissione al partito. Effettivamente, come aveva scritto “Lotta di Classe”, il progetto maffiano altro non era che un vaso con “troppi manichi”.
Turati si era tenuto estraneo alla elaborazione della proposta di Programma, tanto che questo suo “disinteresse” aveva allarmato Antonio Labriola che tempestò tutti con le sue critiche, e soprattutto il Turati stesso. Labriola considerava Turati “un ottimo figliuolo, onesto e disinteressato”, ma temeva che, per formare il partito socialista, usasse «la vecchia canzone bakuniana del mettere assieme una combriccola di spostati della borghesia, di malcontenti per temperamento, e di pessimisti per invidia (...) che vorrebbe poi dire una consorteria di politicanti» (Lettera ad Engels del 21 maggio).
Labriola ad Engels aveva già scritto il 6 marzo: «Ammiri in cotesto programma lo spirito di tradesunionismo di terza classe, o anzi l’anarchismo linfatico, se non vogliamo dire il prudonismo diventato scrofoloso. Guardi all’art. 3 come è trattata la questione dell’azione politica del partito operaio! Un piccolo incidentino: una cosetta accessoria, una faccenda locale da lasciare all’arbitrio dei negoziatori di voti!».
Labriola a Turati il 24 luglio: «Quando mi dite che il concetto di partito politico bisogna farlo entrare di straforo nella mente degli operai, e che perfino a Croce ripugna l’idea della lotta di classe, che ci corre poi da questo alla mia definizione di anarchismo anemico, che affibio ai sedicenti legalitarii? (...) Prevedo che il Congresso di Genova darà lo stesso risultato di quello di Milano di due anni fa (...) A Genova non vengo. Già vedo i segni della sommossa organizzata (...) Andare a un congresso per aver l’aria del conferenziere o del dottrinario non mi va. Il concetto che il partito socialista è un partito politico non si fa entrare nella mente degli operai con un ordine del giorno. È faccenda di esperienza, di tattica, di educazione, e d’istruzione, e per ciò di tempo».
Labriola a Prampolini il 30 luglio: «Vedete il prossimo congresso di Genova! La solita fisima della giacca contro il soprabito, e si lascia alle singole associazioni la libertà di partecipare o no alla vita politica (cioè anche di vendersi). Da quindici giorni polemizzo per lettera col Turati e col Croce, ma senza frutto. Me ne lavo le mani».
Labriola ad Engels il 3 agosto: «Da venti giorni sostengo una viva polemica epistolare, ma privata, con quei di Milano. Invitano le associazioni, che riconoscono il principio della conquista dei pubblici poteri, ma viceversa ammettono nel programma da votarsi a Genova, che le singole associazioni possano partecipare o non partecipare alla vita politica, a loro libito (...) e votano esplicitamente che al congresso saranno ammessi gli anarchici, e tutti gli altri astensionisti (...) Alle mie stringenti argomentazioni rispondono, che in teoria ho ragione, ma che in questo “mondaccio” bisogna far così per riuscire (...) Turati, il più colto di tutti, mi dice che gli operai hanno una invincibile antipatia per la politica, che vogliono emanciparsi da sé, che non è il caso di abbracciar tutto un sistema, e anzi si deve accoglier tutto e tutti come viene viene».
Date le premesse, dobbiamo ammettere che le critiche di Labriola, anche se in qualche modo esagerate, non erano campate in aria.
Labriola non partecipò al congresso di Genova, ma Turati fece tesoro di molte delle sue valutazioni. Così, quando si tratto di discutere il progetto di Programma, Turati, come abbiamo detto, propose e fece approvare sostanziali modifiche.
Se l’anarchismo e l’operaismo intransigente erano rimasti nella sala Sivori, c’era però ancora da sgombrare il campo dalla democrazia sociale e dal semi-operaismo che, entrambi, si opponevano a una netta caratterizzazione socialista del Programma. Turati però, ora, era determinato ad uscire dall’equivoco e, costi quel che costi, si riproponeva di fondare un partito socialista, fosse anche, come dirà Anna Kuliscioff, di “una cellula sola capace di sviluppo”. E ci riuscì.
Affermò che era indispensabile uscire finalmente dal vago, causa di eterna impotenza. Il progetto di programma dove si affermava che “tutti gli uomini hanno lo stesso diritto all’esistenza perché nascono uguali”, diceva cosa scientificamente inesatta e, in ogni caso, inutile. La “sovranità popolare” era un altro luogo comune che aveva perduto ogni significato; nella società capitalistica non esiste il “popolo”, ma le varie classi sociali in lotta fra loro; si doveva parlare di proletariato e borghesia, così come in altre epoche si era parlato di “popolo minuto” e “popolo grasso”, ai socialisti non interessava il generico popolo, ma il proletariato e le classi ad esso vicine che con esso possono avere interessi e scopi comuni.
Ancora: perché parlare di opporre l’organizzazione dei lavoratori “agli istituti attuali che politicamente, economicamente e moralmente li sfruttano”? perché un così contorto giro di parole per indicare la lotta di classe sul terreno economico, la resistenza? Unione, organizzazione, emancipazione erano concetti generali tali da poter essere accettati anche da un clericale. D’altro canto il movimento puramente economico, la lotta di mestiere, da sola, aveva dimostrato la sua impotenza di fronte al capitalismo.
Compito del programma era quello di specificare cosa voleva il partito operaio: socializzazione dei mezzi di lavoro e, per ottenerla, lotta di mestiere da un lato, conquista dei poteri pubblici dall’altro. Per la prima le leghe di resistenza, le Camere di lavoro, ecc.; per la seconda l’azione complessa del partito di classe.
Turati insisteva poi sulla palese discordanza esistente tra il Programma e lo Statuto: il primo eccessivamente largo, tale da poter accogliere tutti, il secondo improntato a concetti corporativi, di mestiere, che erano proprio quelli che dovevano essere combattuti. In realtà il Programma era un cappello democratico-sociale messo in capo ad uno Statuto operaista: un maldestro tentativo di rabberciare due tronconi, di mettere assieme mazzinianesimo ed operaismo.
Turati invece sosteneva un programma socialista senza che nessuna limitazione corporativa potesse impedire l’ammissione al partito. Propose quindi di emendare il programma nel senso dei concetti da lui esposti. In pratica gli emendamenti proposti da Turati, pur conservando qualche traccia della prima stesura, ne alterarono completamente la sostanza.
Era naturale che non tutta l’assemblea fosse d’accordo. Sia Maffi sia Lazzari, da punti di vista differenti, si dichiararono contrari alle modifiche proposte da Turati. Secondo Maffi il programma doveva essere ampio di modo che «le diverse scuole vi si trovino a loro agio». Da parte sua Lazzari ammetteva che i concetti esposti da Turati erano scientificamente esatti; «la massa dei lavoratori – affermava – dovrà un giorno o l’altro convincersene e, se vorrà vincere, dovrà passare per di lì», però riteneva che non fosse ancora matura e quindi non convenisse, per il momento, metterla di fronte a concetti che non potrebbe comprendere e difendere.
Efficace e precisa fu la replica di Turati: «I miei amici Maffi e Lazzari non sono ancora tornati, mi sembra, da una vecchia illusione: l’illusione del partito grande, che accolga un po’ tutti. Eppure le delusioni che provammo, e che essi stessi confessano, debbono insegnarci qualcosa. Non v’è che un solo terreno sul quale piantare un partito perché metta ed estenda radici: quel terreno è la convinzione. Voi temete l’ignoranza della massa: facciamo piuttosto di addottrinarla. In ogni caso non è sui piedi ma sulla testa di un partito che deve modellarsi il programma. Non si deve temere che la testa impacci il movimento dei piedi: essa anzi lo guida».
Anna Kuliscioff, entrando nella discussione su partito grande o partito piccolo, disse: «Vale meglio una cellula sola capace di sviluppo, che una gran massa inerte e priva di vita. Gli adattamenti all’ambiente danneggiano chi vi si adatta senza giovare all’ambiente. È necessario uscire dall’equivoco; esso produce la delusione e questa allontana i proseliti e rovina il partito».
Dopo una vasta ed animata discussione, l’assemblea approvò le modifiche proposte da Turati quasi all’unanimità, eccettuati 4 contrari ed alcuni astenuti, che però dichiararono di essere personalmente favorevoli ma che non si sentivano di impegnare su di una questione imprevista i propri rappresentati.
Così si chiuse la seduta antemeridiana al grido di: “Viva il Partito operaio socialista italiano”.
La seduta pomeridiana fu in gran parte dedicata alla discussione dello Statuto. A fondamento del partito fu posto, come unico criterio, il programma. Chi lo accetta e combatte per esso, sia società od individuo, “vesta blouse o stifelius, entra a far parte del partito”. Forse per non voler stravincere nei confronti degli operaisti, le questioni tecniche della lotta di mestiere furono demandate alle società operaie, costituite per arte e mestiere, composte e dirette da soli operai. Venne escluso che le varie sezioni del partito potessero decidere localmente se partecipare o meno alle competizioni elettorali, la lotta elettorale fu riconosciuta uno strumento necessario e un dovere del partito. Con questo veniva chiusa per sempre la porta agli astensionisti ed agli anarchici. Il partito diventava così una organizzazione disciplinata; alle sezioni rimaneva garantita la sola autonomia amministrativa.
Fu accolta da acclamazioni di entusiasmo la dichiarazione con cui Lazzari precisava che, malgrado l’opposizione da lui espressa per motivi di opportunità, riteneva dovere suo e di tutti quanti accettare interamente e lealmente il programma votato.
Si stabilì inoltre che il comitato centrale avrebbe avuto sede a Milano; la “Lotta di Classe” diveniva l’organo ufficiale centrale del partito; le Associazioni aderenti al Partito dovevano impegnarsi a sostenerlo con la loro propaganda e con il loro contributo.
Nei riguardi dei contadini fu approvato il seguente o.d.g.: «Il Congresso, riconoscendo come fino ad oggi si trascurò l’organizzazione, con metodi pratici e razionali, dei lavoratori dei campi, la quale deve procedere parallela a quella degli operai della città; riconoscendo insieme come le forme diverse della lavorazione della terra in Italia rendano impossibile l’applicazione di un unico metodo di organizzazione fino a tanto che le terre non siano sottratte al monopolio capitalistico e rivendicate alla collettività dei lavoratori; delibera: 1°) di propugnare la costituzione di cooperative agricole per l’assunzione delle affittanze, specialmente dove prevale il latifondo, quali organizzazioni costituenti un efficace ausilio alla conquista dei poteri comunali e provinciali e al miglioramento delle condizioni di miseria e di soggezione delle classi lavoratrici della campagna; 2°) di propugnare la costituzione di leghe di resistenza fra i mezzadri ed i coloni in genere per la revisione dei patti agrari; 3°) di aiutare le cooperative costituite da lavoratori avventizi (braccianti, risaiole, mietitori) perché questi possano sottrarsi alle ingorde speculazioni degli appaltatori e degli incettatori che acuiscono a loro danno lo sfruttamento capitalistico».
Fu votata la partecipazione al Congresso internazionale di Zurigo, previsto per il 1893; e stabilito che il secondo congresso del partito si sarebbe tenuto a Reggio Emilia.
“Su proposta di Turati [fu] acclamato un ringraziamento ai partiti operai delle nazioni sorelle che hanno mandato i loro auguri a questo Congresso, nonché alla solerte sottocommissione ordinatrice di Genova e un voto di simpatia alle tessitrici scioperanti dello stabilimento Schoch di Milano, per le quali vengono raccolte e mandate 50 lire alla Camera del Lavoro. Il Congresso si sciolse acclamando un’altra volta al Partito operaio socialista, colla convinzione rimasta in tutti di aver fatta opera non vana – purché la si prosegua alacremente sul terreno pratico – nell’interesse della causa del proletariato» (“Lotta di Classe”, 20 agosto 1892).
Lo Statuto approvato a Genova, anche se con importanti emendamenti, risentiva ancora non poco di quello del Partito Operaio. Molto probabilmente ad impedire una migliore formulazione fu solo la mancanza di tempo. Sia pure in misura molto ridotta, continuava a persistere la discordanza fra il Programma e lo Statuto: le due parti erano figlie rispettivamente della Lega Milanese e del Partito Operaio.
Ma l’importante del congresso di Genova fu il risultato raggiunto: la costituzione di un Partito Operaio-Socialista. Tale era infatti il nome proposto dal Dell’Avalle e preferito anche dal Turati e dalla Kuliscioff. Ma, cedendo su questo punto, per la seconda volta, al desiderio del Maffi, si accettò di mantenere quello di Partito dei Lavoratori Italiani. Il socialismo però, se non era nel nome, era nella sostanza. Al nome non si rinunciò del tutto: la “Lotta di Classe” dal 20 agosto cambiò il sottotitolo da “Giornale dei Lavoratori Italiani” in “Organo socialista centrale del Partito dei Lavoratori Italiani”. L’anno successivo l’attributo “socialista” entrò ufficialmente nella denominazione del partito.
Tra
i giornali socialisti stranieri che riferirono del congresso di
Genova ricordiamo:
-
“Le Socialiste”, che si felicitava con «Turati, Prampolini, Anna
Koulichoff, Monticelli et tous ceux qui, rompant avec la réaction
anarchiste, ont mis le prolétariat italien dans sa véritable voie».
-
“Vorwärts”, 20 agosto, che ricorreva alla nota metafora: «Die
langandauernden Geburtswehen einer sozialistischen Partei in Italien
sind endgültig überstanden“ (Le doglie del lungo parto di un
partito socialista in Italia si sono finalmente concluse).
-
“Die Arbeiterzeitung”, 30 settembre, salutava la nascita di un
Partito italiano dei lavoratori “mit klarem Programm und mit
geschlossener Organisation” (con un chiaro programma ed una
compatta organizzazione).
Anche la Gazzetta Ufficiale del Regno riportò la notizia del congresso: “Genova, 17. Nella seduta che la maggioranza del congresso operaio, non anarchico, abbandonata la sala Sivori, tenne nel locale dei carabinieri genovesi, fu proclamato e costituito il partito del lavoratori italiani. Fu deliberato che il comitato centrale abbia sede in Milano, e fu costituito da Maffi, Fossati, Lazzari, Croce, Sestini, Dell’Avalle e dalla signora Ferla. Avrà per organo La Lotta di Classe. Fu pure decretato che il congresso prossimo sia tenuto a Reggio Emilia. Ciò che è importante specialmente in questo avvenimento è la separazione netta verificatasi dagli anarchici» (n. 193 del 18 agosto).
Solo Antonio Labriola, quasi un Achille sdegnato, negava ogni valore al congresso e, in una corrispondenza ad Engels del 18 agosto, scriveva: «Nessuno, proprio nessuno dei grandi giornali d’Italia si è occupato del congresso di Genova (14 e 15 corrente). Le mando per ciò alcuni giornali locali di Genova (...) È stato un fiasco colossale. L’intervento degli anarchici ed astensionisti era giustificato dal carattere ambiguo, equivoco ed elastico del programma di convocazione. Gl’iniziatori di Milano hanno scoverta la Lotta di Classe al secondo numero del giornale di questo titolo».
Nella “Postilla al Congresso di Genova” Turati scriveva: «La separazione netta dagli anarchici, che era da gran tempo una necessità logica e che, col determinarsi del partito nostro, diventò anche una necessità pratica, assoluta ed urgente, ha destato nei due campi, e sopratutto nel terzo dei perpetui indecisi, un po’ di rumore, che si acqueterà presto e lascerà che ciascuno vada liberamente per la strada sua».
Di fronte all’anarchismo e all’operaismo corporativo ed antisocialista, stretti a Genova in una contraddittoria alleanza, era sorto e si era affermato il nuovo partito operaio socialista italiano. «Sappiamo – continuava Turati – quanto ancora è necessario di lavoro assiduo e paziente, di coraggio, di persistenza, perché il programma approvato a Genova abbia a dare in Italia tutti quei frutti di cui è capace. Ma gli ostacoli e la lunghezza del cammino non ci possono scostare dalla via che ci sembra la buona. Anzi, quanto son maggiori, tanto più ci è cagione di letizia il buon cominciamento. Poiché, per ogni altra via, sarebbero di gran lunga più difficili a vincere» (Critica Sociale, 1 settembre).
Era chiaro che Turati, parlando di “eterni indecisi” si riferiva soprattutto ad Andrea Costa, che, tornato a Imola, confermò la sua posizione di condanna di entrambi i congressi, pur ribadendo che i romagnoli accettavano i principi dei socialisti e non quelli degli anarco-corporativisti.
I socialisti rivoluzionari criticavano la procedura “inabile e scorretta” con cui si era arrivati alla separazione dagli anarchici, che, scriveva “Il Moto”, «se avvenire doveva, avrebbe dovuto avvenire in pieno Congresso, sopra un quesito di principio o di metodo, senza dare alla minoranza argomento di considerarsi, essa, la continuatrice vera del Congresso; mentre dal Congresso, avrebbe essa dovuto allontanarsi». Ma che non si trattasse solo di problemi di procedura lo conferma il fatto che l’articolo continuava facendo appello per la ricostituzione del vecchio Partito Socialista Rivoluzionario «affinché uscendo esso finalmente, dall’ombra in cui ora si tiene, voglia riprendere franco ed ardito il suo cammino» (21 agosto).
Alla proposta dei romagnoli risposero i socialisti veneti che organizzarono a Venezia un congresso regionale allo scopo. Ma la cosa non ebbe sviluppo, anzi, il 23 aprile dell’anno successivo deliberavano la loro adesione al Partito dei Lavoratori. Il nuovo partito ormai si imponeva e fra gli stessi romagnoli si faceva strada la convinzione che era ormai tempo di uscire dal provincialismo: il processo del loro avvicinamento e fusione con il Partito del Lavoratori iniziò subito e nel giro di un anno si compì.
Il forlivese Balducci aveva preso parte al congresso di fondazione in via della Pace; il circolo socialista di Russi per il 9 ottobre convocava un congresso dei socialisti della provincia di Ravenna che fece piena adesione al Partito dei Lavoratori e sarà questa la tendenza che finirà per prevalere.
Il 27 agosto 1893 si tenne il VI ed ultimo congresso del Partito Socialista Rivoluzionario. I delegati presenti rappresentavano 53 località ed altre 23 avevano inviato la loro adesione scritta.
Andrea Costa, acclamato presidente, prima di dare lettura dell’o.d.g. commentò i fatti di Aigues-Mortes e, per acclamazione, venne votato un documento contro le mene patriottiche suscitate da quegli eventi luttuosi. Si passò poi alla discussione dei punti all’o.d.g.: revisione del programma e degli statuti del partito; adesione al Partito dei Lavoratori e proposte relative da presentarsi al congresso di Reggio Emilia.
Non staremo a narrare i singoli interventi dei delegati, ci basterà solo dire che la discussione molto animata vide contrapposti i “giovani” ai “vecchi” militanti. Da parte dei primi era cosa priva di senso la formulazione di un nuovo programma del P.S.R. nel momento stesso in cui ci si accingeva a votare l’adesione ad un partito che aveva già il proprio e adesione non poteva che significare accettazione di quel programma. Andrea Costa, per i “vecchi”, ribatteva che il P.S.R. in Romagna aveva una lunga e gloriosa tradizione, una storia, un programma e una struttura ben definiti. Era dunque un vero partito quello che si apprestava a confluire nel P.d.L., e non un semplice coacervo di sezioni. Il P.S.R. sarebbe entrato nel Partito dei Lavoratori in un rapporto alla pari, mantenendo intatti struttura e princìpi, rifiutando insomma il ruolo di parente povero e subordinato.
«Noi che siamo un vecchio corpo veterano del partito socialista italiano vogliamo di tutto cuore aderire, fonderci col nuovo esercito vibrante di giovinezza e di forza; ma vogliamo entrarvi con la nostra uniforme e con la nostra bandiera; vogliamo conservare la nostra fisionomia. Vogliamo insomma aderire come un partito, quale siamo da un pezzo, non come una semplice sezione formata di fresco». Questo, a parere di Andrea Costa, non avrebbe significato separatismo od opposizione, ma sarebbe stato un modo per continuare l’opera già intrapresa in armonia con la realtà locale e, per avvalorare la sua tesi, citò l’esempio dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori nella quale con programmi propri si raccoglievano marxisti, lassalliani, anarchici, etc.
Gli fu fatto notare che quest’esempio si ritorceva contro di lui infatti «questi programmi speciali raccolti sotto il programma generale la fecero scoppiare e ne uscirono partiti diversi».
Malgrado la diversità di vedute, poiché tutti erano intenzionati ad aderire al partito uscito dal congresso di Genova, fu presentata da Costa ed approvata la seguente conciliante mozione: «Il Congresso, confermando in tutte le sue parti fondamentali il programma del 1882, salvo quelle modificazioni di forma che una commissione da esso nominata sarà per proporre, in vista anche di coordinare il programma stesso al programma che uscirà dal congresso di Reggio Emilia, passa al secondo oggetto dell’ordine del giorno».
Con questa mozione si chiudeva la prima parte della giornata, nella seduta pomeridiana furono discusse le proposte da presentare al Congresso di Reggio Emilia. Il commento di “Lotta di Classe” al congresso dei Socialisti Rivoluzionari di Romagna fu il seguente: «Diremo solo che non ostante che la discussione [sia stata] animatissima, in questo primo incontro nella Romagna dei nuovi coi vecchi elementi, si è potuto vedere quanto una perfetta fusione sia facile ed avviata, e come si possa aspettare da esso un rinnovamento fecondo del socialismo romagnolo, in questo tronco padre del socialismo italiano che per quanto screpolato contiene ancora tanta forza di succhi da dar vita a tutta una selva di germogli nuovi. Avanti, dunque, compagni! Avanti con tutta la vostra vecchia tenacia, col vostro caldo entusiasmo, avanti per la strada della propaganda e della organizzazione moderna! Avanti con gli altri compagni, sotto una sola bandiera» (2 settembre 1893).
Terminiamo ora questo rapporto con quanto è stato scritto al proposito nella nostra Storia della Sinistra.
«Il celebre congresso di Genova del 1892 che dette i natali, come si suol dire, al Partito Socialista Italiano, è anche ben noto non come un congresso di unificazione, ma come il congresso della divisione fra anarchici e socialisti (...) Il congresso fu drammatico e tumultuoso: vi prevalsero i socialisti politici che si erano formati al marxismo e che erano per la fondazione di un partito solidamente unico e disciplinato che conducesse tutta l’azione del proletariato italiano. Dall’incontro uscirono due partiti dello stesso nome: Partito dei Lavoratori Italiani; ma l’uno era di principi anarchici, l’altro di principi marxisti.
«Nel campo marxista, come sempre avviene in tali svolte, non si chiarirono le differenze tra la visione rivoluzionaria e quella, già allora apparsa in Europa, riformista o revisionista. Ne venne il famoso programma di Genova 1892 che il partito conservò fino al 1921, quando a Livorno ne uscirono i comunisti (...) In esso la tattica della partecipazione elettorale prende una formulazione di principio che non si concilia con la teoria marxista dello Stato e del potere, chiarissima già nel Manifesto del 1848 e negli Statuti della Prima Internazionale del 1864, a cui pure il partito proclamò sempre fedeltà. Non è infatti detto che solo a fini di propaganda e di agitazione si entrerà nel parlamento e nelle amministrazioni locali, ma si giunge a dire che tali organi, e lo stesso Stato, sono da conquistare per “trasformarli” in strumenti di espropriazione della borghesia capitalistica (...)
«Tradizionalmente i “principi” che dal programma di Genova venivano stabiliti, erano: lotta di classe - socializzazione dei mezzi di produzione - organizzazione del proletariato in partito politico - indipendenza da tutti gli altri partiti. Non dobbiamo qui richiamare come in tali formule non si racchiuda tutto il marxismo rivoluzionario, che da quando era sorto aveva chiaramente parlato di conquista del potere politico col mezzo della violenza rivoluzionaria, di distruzione dello Stato parlamentare borghese, di dittatura del partito proletario per l’abbattimento del capitalismo.
«L’espressione finale di espropriazione economica e politica della classe dominante fu particolarmente vaga, e lunga causa di confusione. Egualmente poco chiara è la rivendicazione della “gestione della produzione”, in cui manca il soggetto: il sindacato? lo Stato? E allora, lo Stato dovrebbe durare in eterno? Non sono dubbi su formule letterarie: è il contenuto reale di una lunga e sanguinosa lotta di decenni in Italia e in Europa.
«Nei primi cinque congressi del nuovo partito, fino a Bologna 1897, fu per tutti chiaro che lotta di classe e indipendenza da tutti gli altri partiti significavano rifiuto di alleanze elettorali e parlamentari con ogni partito, anche radicale. Dopo le lotte del 1898, quando la monarchia italiana si poggiò su governi di destra, questo principio venne scosso, e la sanzione se ne ebbe a Roma nel 1900 (VI congresso) con la vittoria della corrente riformista e dei suoi brillanti esponenti (Turati, Bissolati, Prampolini, Treves, Modigliani, ecc.). A Reggio Emilia nel 1893 tutti furono per l’intransigenza e contro ogni alleanza. Nelle firme dell’ordine del giorno che prevalse sull’altro, pure intransigente, firmato da Turati, troviamo i nomi di Lazzari, Serrati, Agnini; nel seguito, e fino alla crisi del dopoguerra, esponenti con altri del marxismo di sinistra».
(fine del rapporto)
Parte quarta - L’imperialismo
(Continua dal numero scorso)
Il periodo a cavallo dei due secoli vede profondi cambiamenti all’interno del sistema capitalistico che interessano le sue componenti fondamentali economiche, politiche, sociali, industriali e scientifiche. Il tutto segnato dalla gigantesca crisi che, ricordata nella nota citazione da “L’imperialismo...” di Lenin, «dal 1873 al 1889 (...) riempie la storia dell’economia europea».
Questo è anche il periodo della “seconda rivoluzione industriale”, partita dagli Stati Uniti, ormai la nuova potenza emergente: l’applicazione delle nuove scoperte costringe a profondi cambiamenti tecnici, organizzativi e sociali nel sistema produttivo, dal quale escono merci in qualità e in quantità enormemente superiori rispetto a pochi decenni prima.
Come la nostra teoria prevede, le crisi, e ancor più le guerre, sono un fattore di accelerazione del processo di centralizzazione capitalistica, con la formazione di entità finanziare e produttive sempre più grandi, che spazzano via quanto di arretrato, sotto ogni aspetto, incontrano sul loro cammino.
La crisi economica iniziata nel 1873 è molto più grave delle precedenti. Colpisce duramente per sei anni, poi un leggero miglioramento dal 1879 al 1880. Ma riprende con particolare forza nel 1882 negli Stati Uniti. Questi, dal fondo del 1886, iniziano un’incostante e debole ripresa mentre la crisi si trasferisce in Europa con diversi effetti nei vari paesi. La Germania ne esce nel 1893, l’Inghilterra nel 1895, gli Stati Uniti definitivamente nel 1897, detenendo da quegli anni il primato della produzione industriale mondiale.
L’andamento della crisi industriale dell’Inghilterra, fino allora indiscussa maggiore potenza mondiale, ha questa successione: il suo punto più acuto è tra il 1878-79, poi risale fino al 1882 per precipitare nel 1883 in una crisi generale. L’economia riprende tra il 1888-89, ma la crisi monetaria mondiale del 1890 fa precipitare nuovamente in basso l’Inghilterra fino al 1892-93 per risalire dal 1894. Durante la crisi agraria, durata un ventennio, dal 1875 al 1895, i prezzi dei prodotti agricoli inglesi scendono a circa la metà, rovinando la maggioranza dei piccoli e medi agricoltori. L’Inghilterra man mano che perde il primato delle esportazioni di merci, guadagna quello dei capitali: alla fine del secolo l’esportazione di capitali, e dei profitti di ritorno, sta diventando la voce principale della sua bilancia dei pagamenti.
La tregua è breve perché dal 1900 al 1903 si ha un’altra importante crisi che termina nel 1904. E arriviamo al periodo della guerra russo-giapponese.
È il periodo della concentrazione industriale e finanziaria, enormemente accelerata dal fallimento di numerosissime piccole imprese e banche, a vantaggio delle più grandi. Le potenze maggiori scaricarono gli effetti del crack finanziario sulle minori ed accrescono le rispettive aree d’influenza arrivando a spartirsi l’intero pianeta: da allora il capitalismo è pienamente entrato nella sua fase imperialista.
Nel tumulto dello sviluppo industriale e delle crisi nel Vecchio e Nuovo Mondo, in Estremo Oriente appare un nuovo capitalismo nazionale, il Giappone, che, per la sua giovanile forza e slancio nelle sue linee di sviluppo, entra in conflitto con l’arretrato impero della Russia zarista, e lì si misura contro il mondo capitalista più progredito.
2. Russia e Giappone: scontro tra due opposti giovani capitalismi
Dobbiamo necessariamente accennare alla storia dei due paesi all’impiantarsi in essi del capitalismo.
LA
RUSSIA
Lo zar riformatore Alessandro II aveva abolito la servitù della gleba nel 1861, 50 anni dopo il resto d’Europa. Era stata introdotta solo nel 1601, mille anni dopo l’Europa, dallo zar Boris Gudunov, con lo scopo di limitare il movimento delle masse contadine e di fissarle nelle aree di maggior produzione agricola. Le successive rivolte contadine erano state duramente represse. Caterina II aveva esteso la servitù della gleba anche all’Ucraina.
«I proprietari fondiari feudali non potevano ostacolare lo sviluppo commerciale tra la Russia e l’Europa, non potevano mantenere le vecchie forme di economia che si sfasciavano. La guerra di Crimea aveva mostrato la putrefazione e l’impotenza della Russia feudale (...) La “riforma contadina” fu una riforma borghese attuata dai fautori della servitù. Fu un passo sulla via della trasformazione della Russia in monarchia borghese» (Lenin, “Riforma contadina e rivoluzione proletaria-contadina”, 1911).
L’abolizione “dall’alto” intendeva liberare milioni di servi della gleba dalla fatica dei campi per spingerli nelle fabbriche, puri proletari senza riserve, un nascente sviluppo industriale che in Russia era nettamente in ritardo rispetto agli altri paesi europei, dai quali dipendeva fortemente per le importazioni di prodotti e macchinari industriali.
L’abolizione non significò maggiore libertà e migliori condizioni nemmeno per chi rimase contadino, oltre al carico delle responsabilità gestionali e la perdita delle tutele preesistenti, il sistema adottato per la redistribuzione delle terre fu a netto svantaggio degli ex servi: le migliori rimanevano ai nobili, pure con indennizzo per le terre concesse agli ex-servi e riscattate da piccoli affittuari che le coltivavano da secoli.
Il deflusso di questa enorme popolazione agricola verso le industrie fu molto lento e ne interessò solo una parte. Questa situazione si protrasse fino alla Rivoluzione d’Ottobre e fu una concausa del suo successo. In seguito alcuni milioni di braccianti ex servi della gleba avrebbero fatto parte dell’Armata Rossa.
Nel 1881 Alessandro II morì nell’attentato organizzato dal gruppo d’ispirazione anarchica Narodnaja Volja (il sottotitolo della omonima rivista era: “Rivista social rivoluzionaria”). Suo figlio Alessandro III accentuò il movimento di controriforma, iniziato già nel 1866. Rafforzò la polizia creando l’Ocrana, dotata di poteri straordinari. Nell’antistorico tentativo di salvare la Russia dal “modernismo” lo zar, con quella parte della società che lo seguiva, istituì nuovamente la censura religiosa, perseguitò i non ortodossi e le popolazioni non russe fomentando l’antisemitismo e sopprimendo del tutto l’autonomia delle università. I suoi attacchi ai progressisti e ai non russi alienarono al regime quasi tutte le classi. I nazionalisti non russi, in particolare polacchi, finlandesi, lettoni, lituani e ucraini, risposero intensificando il loro nazionalismo. Molti ebrei emigrarono o si unirono a movimenti rivoluzionari; organizzazioni segrete e movimenti politici continuarono la loro attività nonostante le repressioni.
In questa situazione si ebbe un poderoso sviluppo economico che così Lenin riassume: «Dopo il 1861 lo sviluppo del capitalismo in Russia avvenne con tanta rapidità che in alcuni decenni venne completata una trasformazione che in altri paesi d’Europa aveva richiesto interi secoli».
Un segno di tanto sviluppo si legge in quello della rete ferroviaria: nel 1860 era di 1.500 chilometri che diventano 31.200 nel 1892. Quando il bacino carbonifero del Donbass fu collegato con una linea ferroviaria alla regione di Krivoj-Rog, ricca di giacimenti minerari di ferro, ebbe rapidissima ascesa la metallurgia nella Russia meridionale. A metà di quella linea sorse infine la regione metallurgica del Dnepr con al centro Ekaterinoslav. Nell’area di Baku l’estrazione del petrolio crebbe dal 1870 al 1890 di ben 140 volte e alla fine del secolo la Russia, anche se temporaneamente, divenne il primo produttore mondiale di petrolio.
L’enorme disponibilità di carbone, ferro e petrolio, se permise quel rapido sviluppo, non impedì che durante la lunga crisi del 1863-75 molti fossero i fallimenti di imprese e di banche. Anche la leggera ripresa successiva fu abbattuta dalla grave crisi del 1882-86. La ripresa del 1887 si arenò nella stasi produttiva del 1890-91. Tre erano gli elementi che ostacolavano ogni ripresa: 1°) la ristretta capacità di acquisto del mercato interno; 2°) l’intreccio tra crisi industriale ed agricola, che non fu mai superata; 3°) il persistere di metodi e forme organizzative della produzione ormai superate.
Ma dal 1892 l’industria russa fu in forte e stabile ripresa raggiungendo i massimi delle produzioni anteriori alla prima Guerra Mondiale. Gli investimenti di capitali stranieri erano attratti da questo rapido sviluppo: nel 1890 il capitale straniero, francese e belga in testa, rappresentava il 25% del capitale azionario, che salì al 40% nel 1900 (vedi “La storia universale” dell’Accademia delle scienze dell’Urss).
Il potenziale produttivo ora a disposizione dell’autarchia russa rafforzò la necessità di espandersi territorialmente per poter conservare il regime, come ci ricorda Engels: «Per governare in modo assoluto all’interno del paese lo zarismo doveva nei rapporti internazionali non solo essere invincibile, ma riportare anche continue vittorie, doveva saper ricompensare la sottomissione incondizionata dei suoi sudditi con l’ebbrezza sciovinistica delle vittorie, con conquiste sempre nuove» (“La politica estera dello zarismo russo”).
Tre erano le direttrici dell’espansione della potenza continentale russa, a valenza euro-asiatica: verso sud-ovest su Costantinopoli e il Mediterraneo; verso sud sulla Persia e l’India attraverso il Turkestan, che fu conquistato un pezzo alla volta con una serie di campagne militari dal 1854 al 1895; nell’estremo oriente con l’occupazione della Manciuria iniziata nel 1900 e con alterne vicende dalla Mongolia al Sinkiang.
Sulla prima direttrice si scontrò con le mutevoli alleanze delle varie potenze europee; sulla seconda, oltre agli eserciti locali, contro quello inglese; sulla terza incontrò quello del Giappone, il più giovane capitalismo di livello internazionale che già esprimeva la sua vocazione imperialista nell’area dell’Estremo Oriente.
La cessione dell’Alaska nel 1867 agli Stati Uniti, abitata da poche migliaia di russi, dediti, sotto la “Compagnia Russa d’America”, all’acquisto di pelli dai nativi indiani, fu inevitabile perché quel vasto territorio era militarmente indifendibile da interventi dell’impero britannico, che controllava tutto il resto del Canada: anche per sopperire alle costanti necessità finanziarie dell’erario russo, lo zar Nicola II decise di venderlo agli Stati Uniti prima di doverlo cedere alle armi inglesi senza alcun indennizzo. Le rapide trattative fissarono il prezzo in 7,2 milioni di dollari del tempo, 119 milioni del 2014. Questo affare, precedente la scoperta del petrolio, presentato allora come una dispendiosa ricompensa al sostegno della Russia contro i Confederati nell’appena conclusa Guerra di Secessione, in realtà era una mossa dello Stato americano per il contenimento dell’Inghilterra in quello che già considerava il suo spazio economico. Era in applicazione della Dottrina Monroe che, in sostanza, affermava il principio della supremazia degli Stati Uniti sull’intero continente, dottrina a pieno titolo considerata la prima formulazione di quell’imperialismo. Questa ben si espresse alcuni mesi dopo nei confronti della Francia di Napoleone III, sconfitta nel tentativo di approfittare della Guerra di Secessione per prendere il controllo del Messico: Massimiliano d’Asburgo, posto sul trono, di lì a poche settimane, il 19 giugno 1867 fu fucilato dagli insorti messicani col compiaciuto consenso del presidente americano Johnson.
IL
GIAPPONE
Gli antichi imperatori del Giappone dell’VIII e IX secolo, mantenendo per sé tutte le altre cariche, avevano concesso il titolo di Shōgun, comandante generale e dittatore militare, al generale che meglio aveva difeso l’impero, scelto tra i maggiori feudatari. Inizialmente era una carica temporanea, ma dal 1192 lo Shōgun Yoritomo del clan Minamoto impose e ottenne che diventasse permanente ed ereditaria istituendo così un dualismo di potere che durò fino al 1867. Lo Shōgun, pur dovendosi occupare solo di affari militari, era solo formalmente sottomesso al potere centrale, un’amministrazione parallela con una propria organizzazione e sistema fiscale, che toglieva potere all’imperatore, relegato sempre più a secondaria figura simbolica. Il sistema trovò un suo equilibrio che durò per quasi sette secoli.
Forti le rivalità tra le varie alleanze dei clan feudali. La più importante fra queste culminò nella battaglia di Sekigahara del 21 ottobre 1600: con essa si chiuse il lungo periodo di guerre civili dell’epoca Sengoku che avevano devastato il Giappone dal 1478 ed iniziava un periodo di stabilità.
Queste favorevoli condizioni permisero l’aumento della produzione agricola e lo sviluppo del mercato interno. Il surplus agricolo consentì il lento affermarsi di una nuova classe borghese, mentre perdeva d’importanza quella dei guerrieri samurai, al soldo dei signori feudali. Jon Hallyday in “Storia del Giappone contemporaneo”, riferisce che alla vigilia della Restaurazione Meiji del 1868 vi erano 266 feudatari (Daimyo) e circa due milioni di samurai, comprese le loro famiglie, un numero di soldati mercenari che non trova paragone con le strutture militari europee dell’epoca feudale. Secondo l’antica regola feudale giapponese, tutta la terra apparteneva formalmente all’imperatore (Tennō), che la dava in concessione ai feudatari, i quali applicavano all’enorme massa di contadini, non esclusi artigiani e commercianti, dazi e tributi per il mantenimento della corte imperiale, per sé e per i loro samurai. Era escluso il diritto di compravendita della terra.
Il sistema produttivo comunque si era evoluto, col costante declino dell’antico sistema, e a metà Ottocento... «i quindici sedicesimi della ricchezza del paese erano, a quel che sembra, nelle mani della borghesia» (id).
L’isolamento del paese dall’esterno era considerato un necessario fattore di continuità e stabilità, al punto che gli ultimi Shōgun vietarono la costruzione di navi moderne di stazza oceanica; l’unico contatto ufficiale con l’Occidente era costituito dalla piccola colonia di olandesi stanziata nel porto di Nagasaki.
Con l’acquisizione della California e dell’Oregon, gli Stati Uniti avevano portato la loro frontiera occidentale sulle coste del Pacifico, sulle cui acque inizieranno la loro espansione imperialista. Nel 1853 si presentarono nel porto di Tokyo con una piccola ma significativa squadra militare di quattro “navi nere”, piroscafi a vapore, per pretendere l’apertura dei porti nipponici ai loro commerci ma, soprattutto, per usare il Giappone come ottimo scalo verso la Corea e la Cina. Consegnarono una lettera per l’Imperatore promettendo di ritornare l’anno successivo a ritirare la risposta.
Sotto la minaccia di un attacco militare americano lo Shōgun Yoshinobu dovette sottoscrivere il 31 marzo 1854 il trattato di Kanagawa “di amicizia e commercio” che prevedeva l’apertura dei porti di Kanagawa, Nagasaki, Niigata e Hyōgo, la possibilità di far risiedere a Edo e in quei porti cittadini americani e la limitazione dei dazi doganali. Negli anni immediatamente successivi altre potenze europee, Olanda Francia e Inghilterra in testa, cercando di neutralizzare la politica dello Shōgun e usando la minaccia delle loro moderne flotte, stipularono analoghi trattati che il Giappone definì sempre come Trattati Ineguali per le clausole vessatorie cui dovettero sottostare, non potendosi opporre adeguatamente con le armi.
Il Giappone usciva dal suo secolare isolamento, che aveva garantito il protrarsi di una struttura sociale ed economica arcaica. La crisi dette l’opportunità ai clan ostili e sottomessi ai Tokugawa di unirsi dietro la figura dell’imperatore per abolire lo shogunato e restaurare il potere e la figura dell’imperatore. Lo scontro, noto come Guerra Boshin (1868-69), si concluse con la pesante sconfitta dello Shōgun Yoshinobu che rimise tutti i suoi poteri all’imperatore Mutsuhito. La dittatura politico-militare dello shogunato, nei suoi molteplici aspetti, cessava di esistere e tutte le forme di potere ritornarono nelle mani dell’imperatore. Questi annullò molti decreti interni, trattati internazionali stipulati dagli Shōgun e chiese la revisione dei Trattati Ineguali.
Questa Restaurazione è denominata da alcuni storici come Meiji, traducibile con “Governo illuminato”, altri, per quanto avvenne poi, Rinnovamento Meiji o, impropriamente, Rivoluzione Meiji. Anche se fu un radicale cambiamento in ambito sociale e politico, la parte più dinamica della classe feudale ne uscì vincitrice rimanendo al potere al fianco ora di una nuova borghesia. Fu uno scontro ai vertici della società feudale senza coinvolgere le altre classi, un cambiamento dall’alto necessario per adeguare l’apparato politico giapponese ai mutamenti economici in senso capitalistico già emersi nell’ultimo periodo dello shogunato Tokugawa.
La prima Costituzione Meiji nel 1889, ispirata ai princìpi di quella tedesca, sanciva l’inviolabilità dei poteri dell’imperatore, stabiliva la struttura del parlamento (Camera dei Pari riservata ai nobili, e Camera dei Rappresentanti eletta a suffragio), e stabiliva i diritti e i doveri del popolo, in forza di leggi. Il Giappone divenne una moderna monarchia di stampo borghese mentre una parte della nobiltà feudale e militare si trasformava in borghesia o entrava nella nuova amministrazione burocratica.
Si rese necessaria una riforma fondiaria per adeguare la produzione agricola alle moderne forme capitalistiche. Essa fu varata nel 1873 basata su due importanti pilastri: i feudi furono soppressi e trasformati in prefetture gestite da funzionari nominati dall’imperatore, inizialmente scelti tra i precedenti Daymo più fedeli; la terra fu assegnata dal governo in proprietà privata comprendente il diritto della sua compravendita; molti terreni furono dati come liquidazione a quei samurai che non erano entrati nel nuovo esercito imperiale; i diritti comunitari come il pascolo e il legnatico furono soppressi. L’imposta fondiaria, da variabile e in natura commisurata al raccolto, divenne un’imposta fissa in denaro commisurata al valore catastale del terreno.
Alcuni anni dopo il governo per esigenze di bilancio impose tasse gravose: i piccoli contadini furono costretti a vendere le terre appena ottenute in proprietà, ma che coltivavano da sempre, i grandi proprietari aumentarono i canoni agli affittuari i quali molto spesso non riuscivano a pagarli. È stato calcolato che per questo gigantesco esproprio, circa 368 mila contadini persero la loro terra, che ritornò all’imperatore, ed andarono a ingrossare l’esercito dei proletari giapponesi.
L’industrializzazione del Giappone nasce nell’era Meiji con un processo guidato dallo Stato e finanziato dai prestiti dei “principi mercanti” e dall’imposta fondiaria pagata dalle masse agricole; le imprese private apparvero in seguito. Si fondò la Banca Nazionale del Giappone; le compagnie bancarie e mercantili si riunirono in cartelli riuscendo ovviamente a condizionare la politica del governo.
Come per la Russia, prendiamo ad esempio dello sviluppo industriale quello delle ferrovie: «Nel 1871 non vi erano che 26 chilometri di ferrovie (...) nel 1895 le ferrovie in esercizio toccavano i 4.151 chilometri (...) e ve n’erano in progetto (...) più di 31.100 chilometri, di cui alcune a doppio binario (...) Nel 1871 vi erano in tutto 38 chilometri di linea telegrafica con 24 uffici; nel 1895 vi erano in tutto 760 uffici con 52.704 chilometri di linea (...) Nel 1871 il Giappone non aveva che 86 piroscafi mercantili che raramente giungevano fino a San Francisco; nel 1895 la marina mercantile, incoraggiata dallo Stato, ne possedeva 717, di cui 87 mirabilmente forniti dediti al trasporto di merci e passeggeri con gli Stati Uniti, l’Australia, l’India inglese e l’Europa e 9 nuovi piroscafi, di cui tre da duemila e sei da seimila tonnellate in costruzione nei cantieri inglesi» (“I recenti progressi economici del Giappone”, in “La Riforma sociale”, 1900).
Lo spirito imprenditorial-imperialista del periodo è condensato nel motto lanciato alla nazione: “Arricchire la nazione, rafforzare l’esercito”. Questo fu fatto inizialmente con consiglieri militari francesi, inglesi e belgi; i primi erano il nucleo più importante, ma dopo la loro sconfitta nella guerra franco-prussiana nel 1871, Yamagata Aritomo, l’artefice della riforma militare giapponese, affidò ai prussiani la formazione dello Stato maggiore nipponico e l’organizzazione del moderno esercito imperiale, ora nazionale, e dotato di moderni sistemi d’arma di terra e di mare. Nel 1873 fu introdotta l’istruzione obbligatoria e la leva militare obbligatoria, di tre anni di servizio attivo più due di riserva, che garantì un flusso regolare di soldati.
Complessa e graduale fu l’eliminazione dei samurai, per il superamento del sistema militare feudale. Attorno alla loro casta si concentrarono le maggiori forze di opposizione al regime Meiji. Nel 1869 furono dimezzati gli stipendi dei samurai; nel 1876 fu loro imposta una misera liquidazione in denaro e titoli di Stato. Gli oltre 40.000 samurai che non accettarono di rinunciare ai vecchi privilegi, per darsi al nascente mondo degli affari o alla burocrazia statale, diede origine alla rivolta del 1877. Si concentrarono nel vecchio feudo di Satsuma guidati da Saigō, un samurai di rango elevato che si era ritirato quattro anni prima dai suoi incarichi nel nuovo governo per contrasti politici e militari; era un sostenitore di un attacco immediato alla Corea. La rivolta durò da gennaio a settembre del 1877 con diverse battaglie, quella decisiva fu combattuta con tecniche e armi moderne a Shiroyama. Fu un collaudo interno del nuovo esercito imperiale, presente in forze, e si risolse nel massacro di oltre 20 mila samurai. La vittoria spazzò via definitivamente ogni rigurgito feudale e opposizione al nuovo regime Meiji.
3.
L’espansione giapponese dal 1875
Poiché la particolare conformazione e posizione del Giappone lo espone facilmente ad attacchi dall’esterno, fu consigliata e adottata la strategia della “linea di sicurezza esterna”, consistente in una espansione territoriale nel continente e negli arcipelaghi vicini. Si creava una zona cuscinetto attorno al Giappone storico che lo avrebbe difeso da un’inattesa invasione. L’attacco alla Corea, vista come “un pugnale puntato al fianco del Giappone” fu il primo passo di questa strategia e il prologo del successivo scontro tra Russia e Giappone per il controllo di quel settore asiatico.
La Corea era un regno indipendente ma vassallo e tributario della Cina. Entrambi i paesi erano attraversati da una profonda crisi politica derivata dalla dilagante corruzione ed inefficienza della macchina statale; un’ottima condizione per le mire espansionistiche giapponesi che vedevano nella Corea non solo abbondanti risorse ma un ponte verso quelle ancor più appetibili della Manciuria e della Russia siberiana.
Nel 1876 il Giappone, replicando quanto avevano fatto pochi anni prima gli americani con loro, impose alla Corea l’apertura di alcuni porti per il commercio e dei trattati altrettanto ineguali; in più sostenne i circoli politici riformatori filo giapponesi in opposizione a quelli conservatori filo cinesi.
Cina e Giappone nel 1885 con il trattato di Tientsin si accordarono per un aiuto militare a sostegno della casa reale coreana. In caso di necessità sarebbero intervenuti e a crisi risolta si sarebbero simultaneamente ritirati. L’occasione per l’invasione capitò con la grande rivolta dei contadini coreani del Donghak nel 1894, la cui gran massa marciava sul palazzo reale. La Cina, su richiesta dall’imperatore coreano Gojong, inviò un contingente di 2.300 armati. Il Giappone, appigliandosi ad un cavillo del trattato, ne inviò uno di 8.000. Domata in poche settimane la rivolta, nessuno dei due soccorritori intese rientrare nei rispettivi confini, i giapponesi occuparono il palazzo reale, destituirono il regnante e imposero un governo fantoccio filo giapponese.
Si giunse così rapidamente alla prima guerra sino-giapponese dove il minore ma meglio organizzato esercito giapponese e la sua forte marina ebbero facilmente ragione del più grande ma disorganizzato esercito feudale cinese, sia su terra sia sul mare, aprendosi la breve e ora facile strada per Pechino. L’esercito cinese basava la sua forza sulla gran massa di soldati, ma scarsa era l’organizzazione, non un comando unico ma quattro regioni militari indipendenti, quando non in contrasto. Quello giapponese, ben strutturato, usò la tattica dell’attacco improvviso in profondità. Avanzava con decisione, con devastazioni e massacri, tra cui quello di 20 mila civili nella città di Lüshùn, poi ribattezzata Port Arthur.
Il trattato di pace di Shimonoseki dell’aprile 1895 toglieva alla Cina il primato nell’area consegnandolo al Giappone: la Cina dovette riconoscere la completa indipendenza della Corea, che a breve sarebbe stata sottomessa al Giappone; dovette cedere la penisola di Liaotung su cui era Port Arthur, al confine nord orientale della Manciuria, Taiwan e le vicine isole Pescadores, nonché versare a Tokyo l’incredibile indennizzo di 200 milioni di monete d’argento del peso di 38 g ciascuna, equivalente al costo sostenuto dal governo giapponese per allestire l’ultima sua moderna squadra navale di 6 unità da guerra!
Le potenze europee, preoccupate di una occupazione giapponese della Manciuria, intervennero già la settimana successiva con il Triplice Intervento di Russia, Germania e Francia: la Russia rafforzò la sua presenza nei territori a nord della penisola di Liaotung, Francia e Germania ottennero scali portuali, anche per navi militari, e concessioni commerciali.
L’asse geopolitico della regione era completamente mutato e il Giappone era entrato a pieno titolo nello scacchiere internazionale come si dimostrò con la partecipazione di un suo contingente nella repressione della rivolta dei Boxer in Cina nel 1900-1901.
4. La guerra russo‑giapponese (1904-1905)
a) Port Arthur
Per le pressioni internazionali il Giappone fu costretto a restituire la Penisola del Liaotung alla Cina, che, in cambio di un forte finanziamento per la costruzione di una ferrovia nell’area, subito la affittò alla Russia che avrebbe costruito a Port Arthur una importante base navale e un porto commerciale nella vicina Dalny. La penisola, ma soprattutto Port Arthur, avevano per i russi un’importanza vitale perché il porto russo di Vladivostok, al confine nordorientale con la Corea, è bloccato dai ghiacci per molti mesi mentre Port Arthur, in favorevole posizione nella baia di Corea, non lo è mai.
Era anche una questione di concorrenza commerciale, soprattutto dopo l’inizio nel 1903 dei collegamenti regolari sulla ferrovia Transiberiana, che lungo i suoi 9.434 chilometri apriva alle merci russe ed europee la strada più rapida per i mercati asiatici. Nonostante le difficoltà del viaggio invernale, la bassa velocità dei convogli, che non superavano i 25 chilometri orari, su un solo binario, fu già dagli inizi molto utilizzata. Nonostante le grandi difficoltà di costruzione, soprattutto nella zona dell’agitato lago Bajkal, che richiese importanti opere di ingegneria per poterlo costeggiare (inizialmente i convogli lo attraversavano a bordo di speciali traghetti), la Transiberiana nel tratto oltre gli Urali fu completata in soli 12 anni ad un ritmo di 15-20 chilometri al giorno impiegando 90 mila operai, per lo più condannati ai lavori forzati e deportati che lavoravano in condizioni terribili.
Tokyo, temendone il raddoppio, la considerò, specialmente dopo l’inizio dei lavori per il collegamento con le ferrovie cinesi via Harbin fino a Port Arthur, una diretta minaccia alla sua sfera d’interessi, che crebbe quando la Russia stazionò truppe in Manciuria. In più Tokyo, considerando ormai la Corea un suo avamposto sul continente e frontiera esterna protettiva, non poteva permettere la presenza di una consistente base navale russa sulla sponda opposta della baia di Corea. Le basi economiche e strategiche di un conflitto russo-giapponese erano pronte.
Iniziarono i soliti preparativi diplomatici tra le potenze mondiali. Il Giappone strinse con l’Impero Britannico un accordo di mutuo aiuto della durata di cinque anni, in funzione antirussa e delle sue alleanze: qualora uno dei contraenti fosse aggredito da due Stati congiuntamente, l’altro sarebbe intervenuto in soccorso.
Tokyo, saputo del forte armamento della fortezza di Port Arthur, di accaparramento di grandi scorte di viveri e di forti movimenti di truppe russe verso la Corea, capì che la Russia non intendeva affatto rispettare il precedente accordo di ritirarsi parzialmente. Intanto la Russia, convinta che il Giappone non sarebbe mai entrato in guerra per la sproporzione delle forze, continuava l’occupazione di settori strategici senza allestire una qualche protezione delle sue postazioni, al dislocamento della flotta e delle truppe. Nemmeno prese sul serio le proteste del Giappone, la partenza dell’ambasciatore giapponese a Pietroburgo e i grandi sforzi economici che il Giappone stava sostenendo per armarsi, anche grazie al finanziamento di 200 milioni di dollari ottenuti dal banchiere americano di origine ebraica, Jacob Schiff, indignato per il trattamento che lo zar destinava ai suoi correligionari.
Attraverso la successione cronologica dei principali combattimenti emerge il piano strategico generale di questa guerra moderna che, come abbiamo già specificato di quelle per l’unificazione della Germania e della franco-prussiana, ora è più ampio e complesso rispetto alle precedenti. La nuova disponibilità di grandi eserciti e armamenti più potenti e precisi e in gran numero permettono di elaborare un nuovo tipo di strategie, articolate su più fronti contemporanei, con l’obiettivo di disarticolare le linee nemiche, tagliarle dalle linee di rifornimento, cercare di concentrarle in un’area loro sfavorevole per lanciare l’attacco finale risolutivo.
Il 5 febbraio 1904 l’ammiraglio Togo riceve l’ordine di muovere la flotta e raggiungere gli obiettivi designati nei precisi piani di guerra con lo scopo prima di neutralizzare la flotta russa, dopo effettuare sbarchi di truppe di terra nel porto coreano di Incheon, vicino a Seul.
Il 7 febbraio, poiché la flotta russa è tutta ormeggiata a Port Arthur, e quindi non può ostacolare lo sbarco in Corea, la formazione giapponese si divide: una parte procede verso Incheon per sbarcarvi 2.500 soldati, il grosso punta su Port Arthur.
Il piano iniziale di Togo è di cogliere Port Arthur di sorpresa nella notte tra il 7 e l’8 febbraio, con la consistente flotta di 6 corazzate, 5 incrociatori, 15 cacciatorpediniere, 20 torpediniere più altre navi ausiliarie, per neutralizzarvi la moderna flotta russa dell’ammiraglio Stark di 7 corazzate, 5 incrociatori e alcune decine di altre navi, protette da batterie costiere poco efficienti perché i fondi destinati al loro potenziamento erano stati dirottati per ampliare il porto commerciale di Dalny.
Nonostante quella sera la maggior parte degli ufficiali russi, del tutto ignari dei movimenti giapponesi, stia partecipando a un festino organizzato dall’ammiraglio Stark, Togo, male informato che la base russa è in stato di allerta e credendo le batterie costiere ben potenti, stabilisce un diverso piano d’azione: tiene a distanza di sicurezza le navi principali e manda all’attacco due squadroni di cacciatorpediniere, uno su Port Arthur con 10 unità e l’altro su Dalny. Nelle prime ore notturne dell’8 febbraio quattro cacciatorpediniere si avvicinano non visti a Port Arthur, gli altri arrivano più tardi. Nonostante le favorevoli condizioni l’attacco ha scarsi risultati: dei sedici siluri lanciati solo tre colpiscono i bersagli tra cui la corazzata Cesarevič, la nave più potente della flotta russa e due grossi incrociatori.
Alle prime luci Togo invia una squadra di quattro incrociatori guidata dal viceammiraglio Dewa a verificare l’esito dell’attacco notturno; questi vede alcune navi inclinate dentro e fuori del porto e, poiché non vi sono reazioni quando giunge fino a 3 miglia, si convince che l’attacco ha neutralizzato la flotta russa. Invece questa si appresta a uscire per un contrattacco. Alle 11 inizia la battaglia tra le due flotte ad una distanza di 7 chilometri. Nonostante l’imprecisione dei tiri da entrambe le parti il gran volume di fuoco danneggia 5 navi russe; alle 12,30 Togo, che conta già 5 navi colpite più l’ammiraglia, decide la ritirata. La battaglia navale di Port Arthur termina senza il risultato atteso dai giapponesi, ma le navi più danneggiate per numero e gravità sono russe; inoltre nel porto non ci sono adeguati cantieri per le riparazioni, mentre quelle giapponesi rientrano nei loro attrezzati arsenali di Sasebo, nello stretto di Corea, vicino a Nagasaki.
Solo il 10 febbraio, due giorni dopo la battaglia, il Giappone emette la formale dichiarazione di guerra. Iniziare le operazioni militari prima della dichiarazione di guerra, dalla precedente contro la Cina, diventa una costante per il Giappone, come sarà per l’attacco a Pearl Harbor nel 1941.
L’11 febbraio un posamine russo intento a collocare torpedini all’ingresso del porto urta contro una di esse, esplode ed affonda uccidendo 120 uomini su 200 e facendo perdere l’unica copia della mappa dei campi minati; anche un incrociatore mandato in soccorso urta una mina e affonda. Il canale d’ingresso al porto ha una profondità di 5-6 metri per cui le grosse corazzate lo possono percorrere solo con l’alta marea.
Il 24 febbraio Togo si ripresenta in forze davanti a Port Arthur per affondare davanti all’ingresso 5 vecchi mercantili giapponesi e intrappolare la flotta russa. La manovra fallisce per il fuoco di un incrociatore russo arenato fuori del porto.
L’8 marzo il valente ammiraglio Makarov rileva il comando della flotta di Port Arthur e la sottopone a un duro addestramento nelle manovre di navigazione di squadra, nei tiri, nelle nuove tattiche di combattimento in ogni condizione, lavoro trascurato da tempo non presagendo particolari pericoli in quel settore: la massa avrebbe dovuto sopperire alla qualità, ma nella guerra moderna non era più così scontato.
Il 10 marzo la flotta russa passa all’offensiva e attacca il blocco giapponese, ma con scarsi risultati. Quella sera stessa Togo fa inseguire da 6 cacciatorpediniere russi 4 cacciatorpediniere giapponesi spinti davanti al porto; nel frattempo i giapponesi minano l’ingresso al porto: due navi russe al rientro saltano sulle mine.
Il 22 marzo, durante una sortita per togliere il blocco, due navi giapponesi sono seriamente colpite e devono rientrare a Sasebo per riparazioni. La flotta russa sotto Makarov acquista agilità nelle manovre e precisione nei tiri a distanza.
Il 27 marzo Togo cerca di affondare altri 4 vecchi mercantili pieni di pietre e cemento per bloccare il porto ma anche questo tentativo fallisce e le navi sono affondate lontano dall’ingresso. Il morale russo si riprende.
Il 13 aprile Makarov salpa con la Petropavlovsk, la nuova ammiraglia, con 2 incrociatori corazzati e altre 6 navi per andare in aiuto a una squadra di cacciatorpediniere mandata in ricognizione a Dalny, ma incontrano la flotta giapponese che li aspetta. Makarov si ritira protetto dalle batterie costiere ma entra in un campo in precedenza minato dai giapponesi. L’ammiraglia urta 3 mine, esplode e affonda nel giro di 2 minuti. Nel disastro muoiono 635 tra marinai e ufficiali tra cui Makarov. Subito dopo anche un’altra nave è seriamente danneggiata da una mina.
Memore degli antichi codici cavallereschi, Togo ordina alle navi di alzare le bandiere a mezz’asta e dichiara un giorno di lutto per onorare l’avversario caduto. Nei giorni seguenti Togo dichiara il successo di tutta l’operazione e apre la strada allo sbarco in Manciuria della Seconda Armata giapponese.
Del 1° maggio la prima battaglia terrestre di rilievo sul fiume Yalu, storico confine tra Manciuria e Corea, tra 42 mila giapponesi e 25 mila russi. È una netta vittoria giapponese. Le perdite giapponesi sono di 1.050 tra morti, feriti e dispersi, quelle russe di 2.020. Inizia la strategia giapponese di spingere l’esercito russo verso Port Arthur e di assediarlo nella base, e di catturare il porto di Dailan. In pochi giorni l’armata del generale Oku di 38 mila uomini occupa la penisola di Liaotung e inizia la manovra per la conquista di Port Arthur. La città era già stata facilmente conquistata dai giapponesi nella precedente guerra cino-giapponese del 1884 e si contava di replicare quel facile successo. Le linee di difesa allestite dai russi man mano cedono mentre i giapponesi cercano di conquistare le alture attorno alla base per poterla cannoneggiare con gli obici e far saltare le mura con le mine.
Il 3 maggio l’ultimo tentativo di Togo di chiudere l’ingresso del porto con 8 vecchi mercantili non raggiunge il risultato sperato. Ma le navi russe sono di fatto bloccate a Port Arthur dalla mancanza d’iniziativa dei successori di Makarov. Nei mesi successivi le perdite giapponesi nell’attività di blocco salgono a causa delle mine russe disseminate in mare. È la prima volta in cui le mine sono usate a scopo offensivo allestendo specchi d’acqua minati in cui attirare le navi nemiche mentre prima erano usate solo a protezione degli ingressi dei porti.
b) Le battaglie di Nanshan, del mar Giallo, di Ulsan
Il viceré russo Alekseyev, richiamato a Mosca dallo zar, lascia, senza ordini precisi, il comando delle truppe di terra al generale Stossel e quello della marina all’ammiraglio Vitgeft. Ciò, oltre una certa incompetenza dei comandanti, consente ai giapponesi di completare gli sbarchi e l’occupazione. Le forze terrestri russe sino di 47 mila soldati nella fortezza di cui 3 mila nelle barricate fortificate della collina di Nanshan che sovrasta la base, armate con 114 pezzi di artiglieria. Tutti i cannoni e relative munizioni delle navi danneggiate sono man mano sbarcati e vanno a potenziare quelli della base, la cui presa è diventata molto più difficile. Al tempo la fortezza di Port Arthur era considerata la meglio attrezzata e difesa al mondo per l’insieme di avamposti, trincee fortificate e forti esterni che la proteggevano.
Il 24 maggio una divisione giapponese attacca la città fortificata di Jinzhou, a nord della collina di Nanshan. Inizialmente respinti dai 400 difensori, i giapponesi con altri rinforzi aprono una breccia e conquistano la città; l’estremità della penisola su cui sorge Port Arthur è così tagliata dal retroterra.
Il 25 maggio inizia la battaglia della collina di Nanshan. il generale Oku inizia l’assalto principale alle forze russe sulla collina, assistito dal tiro a lunga gittata delle cannoniere all’ancora.
Nei nove assalti alle posizioni russe i giapponesi subiscono pesanti perdite sui campi minati e sulle intricate barriere di filo spinato che trattiene e ferisce gli assalitori, esposti al tiro preciso delle mitragliatrici. Nel tardo pomeriggio Oku impegna tutte le sue riserve ed entrambi gli schieramenti stanno esaurendo le munizioni. Alle 19,20 conquista la collina di Nanshan, ma qui deve fermarsi in attesa dei rifornimenti di munizioni per l’imprevisto enorme loro dispendio nei combattimenti.
Il 30 maggio Oku muove alla conquista del porto di Dailan che trova indifeso perché i russi avevano preferito ritirarsi per rafforzare Port Arthur.
Tutta l’operazione è un successo giapponese, pagato però a caro prezzo per l’ottima difesa di Tretyakov che con scarse forze in rapporto di 1 a 10 sui giapponesi li impegna duramente con gravi perdite. Quelle russe, tra morti feriti e dispersi, sono di 1.400 uomini su un totale di 3.800, quelle giapponesi di 4.300 su un totale di 35.500.
Il 1° agosto inizia il lungo assedio di Port Arthur, ulteriormente fortificata e che impegnerà i giapponesi in duri combattimenti con minimi e alterni risultati e con perdite enormi.
Riescono a stringere il cerchio attorno alla fortezza. Il piano iniziale predisposto dal comandante in capo giapponese generale Nogi prevede la conquista delle colline esterne alla base, dalle cui sommità poi bombardare il porto. Quelle di Takushan e Hsuaokushan sono le più esterne, isolate, debolmente fortificate. Il pianoro che le collega è stato allagato mediante la costruzione di una piccola diga sul corso d’acqua che vi scorre. Un primo bombardamento seguito da un assalto frontale dopo vari tentativi si rivela disastroso per le alte perdite e gli scarsi risultati. La base, sia per le caratteristiche orografiche sia per le grandi opere di fortificazione, conferma di essere imprendibile. Le colline sono conquistate l’8 agosto.
Nella base russa esplodono i contrasti tra il viceré Alexeiev, sostenitore di una linea offensiva che punta ad unire la flotta di Port Arthur con quella di Vladivostok per attaccare in mare aperto quella giapponese e togliere il blocco alla base, e il prudente ammiraglio Withöft che, con buona parte dei suoi ufficiali, ritiene non fattibile quel piano ed è per tenere lontano le navi giapponesi con i cannoneggiamenti da terra e attendere l’arrivo della flotta del baltico. Minacciato d’insubordinazione e disubbidienza a un ordine dello zar, Alexeiev deve partire. Per carenza di cibo fresco le truppe iniziano a patire di scorbuto e dissenteria.
Del 10 agosto la battaglia del Mar Giallo: salpano della flotta russa le navi in grado di affrontare il viaggio: 6 corazzate, 4 incrociatori e 14 cacciatorpediniere; alle 8,30 sono attaccate dalla flotta di Togo, che si aspettava una simile mossa: 4 corazzate, 2 incrociatori corazzati, 8 incrociatori, 18 cacciatorpediniere e 30 torpediniere.
Togo deva impedire quel congiungimento e il formarsi di un grande flotta nemica: avrebbe un’altra fortezza da assediare ed espugnare, anche se la base di Vladivostok è meno difesa di Port Arthur e con difficoltà di approvvigionamento di carbone.
Il piano predisposto da Togo prevede che una sezione comandata dal suo vice Dewa lasci passare i russi e sbarri il rientro a Port Arthur: delle torpediniere minerebbero il percorso previsto dei russi. Nel pomeriggio inizia un intenso cannoneggiamento da lontano dalle due ammiraglie seguito dalle altre. Una potente granata esplode sul ponte di comando dell’ammiraglia russa, muore Withöft con i suoi primi ufficiali; va in avaria la timoneria e la nave inizia a compiere giri in mare, seguita dalle navi di linea che non hanno ricevuto segnali di rettifica perché a bordo c’è il caos. Quando si capisce l’accaduto, la formazione è frantumata e ciascuna nave agisce individualmente: una parte con l’oscurità rientra a Port Arthur, tre raggiungono diversi porti sulla costa coreana dove sono messe sotto sequestro dalle autorità locali, l’incrociatore Novik, rimasto isolato, decide di raggiungere Vladivostok facendo il giro esterno del Giappone, ma è scoperto a rifornirsi nel porto russo di Korsakov nell’isola di Sachalin, costretto a battaglia è seriamente danneggiato e deve rientrare a Korsakov dove rimane inattivo.
I cannoni e i marinai delle navi rientrate a Port Arthur sono sbarcati per rinforzare le difese rimaste ed è escluso ogni nuovo tentativo di sortita della flotta. Rimane la difesa di terra.
La notizia della partenza della flotta da Port Arthur giunge del tutto inaspettata a Vladivostok nel pomeriggio dell’11 mentre le navi sono in fase di tranquillo rifornimento; l’ammiraglio Jessen riesce ad organizzare una squadra navale di tre incrociatori per andare incontro a quella di Withöft.
Il 13 agosto inizia l’assalto alla collina detta Quota 124 che cade dopo aspri combattimenti solo il 25. Il comando giapponese decide di abbandonare l’assalto frontale, troppo dispendioso anche per la presenza di reticolati elettrificati, e studia incisive tecniche di assedio.
Il 14 agosto la squadra russa di Vladivostok dirige verso lo stretto di Corea che pattuglia per un giorno intero dove però incontra la squadra dell’ammiraglio Kamimura, di presidio in quel tratto del mar del Giappone a nord di Tsushima, dotata di cannoni più potenti. In un intenso combattimento una nave russa affonda e le altre due, pur con forti perdite nell’equipaggio e seri danni, riescono a rientrare a Vladivostok. È l’ultima azione navale di un certo rilievo della flotta russa. I giapponesi riescono a bloccare anche la base di Vladivostok. Tutta la flotta russa è ormai inattiva e i giapponesi possono iniziare i trasporti via mare delle loro truppe senza alcun pericolo.
Il 25 agosto il generale Oyama dalla Corea dirige a nord con 125 mila giapponesi e 484 cannoni per assicurarsi il controllo dell’importante nodo ferroviario di Liaoyang, ancora in mano russa, mentre il generale Kuropatkin, che dispone di 160 mila soldati più altri 85 mila nelle retrovie e 673 cannoni, vi converge per tentare di raggiungere Port Arthur e rompere l’assedio. Inizialmente i russi tentano di aggirare le posizioni giapponesi che occupano le alture e i passi.
Il 29 e 30 agosto le truppe russe respingono un forte attacco a Liaoyang, ma il giorno successivo i giapponesi attraversano il fiume a nord della città.
Il 4 settembre, dopo attacchi senza alcun effetto, Kuropatkin sfiduciato ordina di evacuare Liaoyang e ripiega definitivamente a nord presso Mukden, l’attuale Shĕnyáng. La battaglia dura ancora 10 giorni con scontri molto intensi, con 5 mila morti e 19 mila feriti giapponesi contro 4 mila morti e 14 mila feriti russi.
Il 20 settembre inizia l’attacco alla Quota 203, importante per la sua posizione dominante il porto. La nuova strategia prevede lo scavo di trincee e gallerie fin sotto le mura della fortezza per farvi scoppiare delle mine e aprire delle brecce (ne furono scavate 7 chilometri in tre settimane). In più, trasportati in loco costruendo un’apposita ferrovia a scartamento ridotto di 13 chilometri, arrivano i nuovi potenti obici da 280 che sparano proiettili da 227 Kg fino a 7 chilometri il cui tiro dalle colline conquistate è coordinato dal comando attraverso centinaia di linee telefoniche.
Il 10 ottobre parte da San Pietroburgo la flotta del Baltico col compito di rompere il blocco di Port Arthur.
Il 28 novembre inizia l’assalto finale al sistema di fortificazioni di Quota 203 preceduto dal lancio di 1.000 proiettili dei grandi obici. Il generale russo Kondratenko fa appostare gruppi di tiratori scelti incaricati di sparare alle sue truppe di prima linea se tentino di abbandonare le posizioni. Gli assalti e gli scontri cruenti durano una settimana; le grandi masse di giapponesi sono fermati dai reticolati e falciati dalle mitragliatrici; quei pochi che riescono ad avanzare sono investiti dalle bombe a mano.
Il 5 dicembre i giapponesi conquistano definitivamente Quota 203 da dove possono rivolgere verso il porto gli obici catturati ai russi, che fino a ieri erano puntati contro di loro, per distruggere la rimanente flotta russa del Pacifico prima dell’arrivo della flotta del Baltico. Quel giorno stesso affondano una corazzata. Nei due giorni successivi altre 4 navi da guerra russe sono affondate o semi distrutte.
Dopo la perdita della flotta del Pacifico, il comando russo dei Port Arthur ritiene inutile difendere la base, ma la proposta di resa è rifiutata dagli ufficiali più anziani.
Intanto continua il lavoro dei giapponesi di scavo di trincee e di tunnel sotto i forti. Il 18 dicembre i giapponesi fanno esplodere una bomba da 1.800 Kg sotto il forte Coghikuan; il 28 dicembre un’altra bomba distrugge il forte Erhlung; il 31 dicembre 1904 una serie di mine sotto il forte Sungshu, l’ultimo superstite dei forti principali, lo danneggia gravemente costringendolo alla resa. Il 1° gennaio 1905: anche il forte Wantai, “nido d’aquila”, l’ultimo, posto su uno sperone roccioso direttamente sulla città è conquistato dai giapponesi.
Quello stesso giorno i russi offrono la resa, firmata il 5 gennaio. La guarnigione russa è fatta prigioniera tranne gli ufficiali che sono liberati sotto il giuramento di non prendere più parte alla guerra. I comandanti in capo al rientro a San Pietroburgo saranno processati da una corte marziale.
Il generale Nogi lascia una modesta guarnigione a Port Arthur e unisce il grosso dei superstiti della sua armata di 120 mila uomini a quelli in Manciuria per la battaglia finale contro le truppe di terra russe.
Le truppe giapponesi usate per la conquista della base navale erano aumentate da 80 mila fino ad un massimo di 180 mila uomini, con queste perdite ufficiali: 14 mila morti, 34 mila feriti, di cui 21 mila di beriberi (malattia causata da mancanza di vitamina B1); i rimanenti furono dichiarati dispersi. La marina giapponese perse 16 navi di cui 2 da battaglia e 4 incrociatori, 1 torpediniera e 1 posamine. Le perdite furono circa il 30% degli effettivi.
Le forze russe della base non superarono le 58 mila unità tra soldati di terra e marinai, con la perdita di 36 mila uomini di cui almeno 6 mila morti. I prigionieri furono: 878 ufficiali, 24 mila soldati e 9 mila marinai, di cui 15 mila feriti o ammalati. Furono catturati 546 cannoni e 82 mila proiettili d’artiglieria. L’intera flotta del Pacifico fu catturata o affondata.
Queste perdite per un singolo obiettivo, anche se importante, per il tipo di strategie adottate, per il tipo di assalti senza risparmio di soldati e per il tipo di armamento, il più sofisticato del tempo, anticipano il conflitto che 9 anni più tardi sarà ricordato come la Prima Guerra mondiale.
Il 22 gennaio a San Pietroburgo, dopo una settimana di giganteschi scioperi partiti dagli operai delle officine Putilov, a seguito del licenziamento di alcuni operai che protestavano per le dure condizioni di lavoro e la miseria crescente dovuta anche alla guerra, un corteo di oltre 100 mila manifestanti, guidati dal pope Gapon che portava una petizione allo zar, è fermato dalle fucilate dei cosacchi. Non si seppe mai il numero esatto dei morti, che superarono i 2 mila.
Come Lenin subito osserva in "La caduta di Port Arthur" del 14 gennaio 1905, si apre il fronte interno della guerra, non tra le opposte borghesie nazionali russe e giapponesi, ma tra le classi sociali russe. È il primo assalto allo zarismo, la prima sconfitta della figura sacrale dello zar, “padre di tutti i popoli” e l’antefatto della Rivoluzione del 1905.
c) La battaglia di Mukden (Shenyang)
Dopo la sconfitta nella battaglia di Liaoyang le truppe di terra russe si erano concentrate presso il nodo ferroviario di Mukden da cui lanciarono due controffensive, senza alcun risultato.
Con l’arrivo di nuovi rinforzi dal Giappone e con quelli di Port Arthur, il comandante Oyama fu pressato per una rapida conclusione del conflitto perché l’erario giapponese era svuotato e il loro unico alleato, la Gran Bretagna mostrava forti preoccupazioni per l’espansionismo giapponese in Asia.
Il generale Kuropatkin organizzò tutte le sue forze, di 350 mila unità compresa la forte cavalleria, su una linea di trincee lunga 75 chilometri alle spalle di una zona paludosa a cavallo della ferrovia. Divisi in 3 corpi d’armata erano dotati di 1.200 cannoni pesanti e 250 medi.
Il piano d’attacco giapponese di 315 mila unità divise in 5 armate con 900 cannoni pesanti e 170 medi e con ridotta cavalleria non all’altezza di quella russa, fu così organizzato: la 2° armata con un attacco frontale avrebbe impegnato il centro russo, la neonata e ancora inesperta 5° armata avrebbe simulato un aggiramento delle linee russe sulla sinistra attraverso una zona montuosa, la 3° armata, con dietro la 2°, doveva aggirare la destra russa attraverso la zona paludosa del fiume Hun, la 1° e la 4° dovevano impegnare il centro e la sinistra russa.
Il 19 febbraio iniziano 2 giorni di attacchi preliminari per saggiare le reazioni russe. Il 21 febbraio parte l’attacco vero e proprio secondo quanto stabilito, incontrando però la dura resistenza russa con avanzate e ritiri continui dalle trincee; la battaglia si fraziona in tanti combattimenti separati. La 2° armata giapponese si allenta dovendo affrontare una linea troppo estesa ma l’indeciso Kuropatkin non ne approfitta per attaccarla su un fianco e aggirarla. Il 27 febbraio iniziano due giorni di feroci scontri in cui si determina l’esito della battaglia. Kuropatkin preoccupato della lenta ma continua avanzata giapponese invia il grosso delle riserve alla destra del suo schieramento trascurando il centro e la sinistra. Seguono due attacchi giapponesi infruttuosi. Il 3 marzo i giapponesi rompono lo schieramento russo sulla destra; i rinforzi spostati in loro soccorso permettono ai giapponesi di penetrare anche nell’ala sinistra. Il 4 marzo Kuropatkin annulla un’offensiva e ordina di ripiegare su una seconda linea difensiva a ridosso di Mukden. L’8 marzo, nel mezzo di una tempesta di sabbia, riprendono gli attacchi giapponesi contro le retroguardie russe in ripiegamento, che comunque completano la manovra. Il 10 marzo Kuropatkin, preoccupato per i problemi logistici e per la tenuta del morale delle truppe, ordina un’ulteriore ritirata generale più a nord presso Tieling. I giapponesi esausti inseguono senza decisione le retroguardie riuscendo tuttavia a catturare diverse unità isolate. L’11 marzo i giapponesi entrano a Mukden evacuata dai russi.
La battaglia costò ai russi 90 mila tra morti e feriti e 40 mila prigionieri; i caduti giapponesi furono dai 40 ai 50 mila.
L’armata russa si era sottratta all’annientamento ma dovette lasciare tutta la Manciuria meridionale ai giapponesi che ottennero la tanto ricercata vittoria terrestre. Per la completa vittoria mancava ancora quella navale sulla flotta del Baltico.
d)
Tsushima
Dopo la dispersione della flotta russa del Pacifico, il 10 agosto 1904, nella battaglia del mar Giallo, nei cantieri del Baltico fu allestita in tutta fretta una poderosa flotta da inviare in soccorso di Port Arthur, con gran clamore e dettagli tecnici sulla stampa, cosicché i giapponesi erano perfettamente informati dell’entità e qualità degli armamenti russi. Era grande di numero ma non omogenea: nel convoglio, accanto a navi moderne, rallentarono l’andatura vecchie navi molto lente, prive di valore militare, addirittura un rompighiaccio, in precarie condizioni, adatte solo alla navigazione e a combattimenti costieri, con ufficiali ed equipaggi non all’altezza della situazione. All’ammiraglio Rožestvenskij fu assegnato un compito che già si sapeva irrealizzabile: da San Pietroburgo andare alla massima velocità a rompere il blocco di Port Arthur, e dopo la sua caduta, quello di Vladivostok sconfiggendo l’agguerrita ed esperta flotta giapponese dell’ammiraglio Togo!
L’allestimento delle 45 navi iniziali fu affrettato, con scarsi pezzi di ricambio e navi officina. Complesso fu il rifornimento di carbone lungo tutta la lunga navigazione, affidato alla ditta tedesca Hamburg-Amerika Line che, ostacoli diplomatici a parte, fu efficiente e rispettosa dei contratti stipulati con la marina russa.
Già nella Manica sorsero gravi difficoltà perché nella nebbia della notte una flottiglia di pescherecci inglesi (l’Inghilterra era alleata temporanea del Giappone) fu scambiata per una squadra di torpediniere giapponesi e uno fu affondato, provocando un serio problema diplomatico.
La flotta, dopo aver rimandato alla base alcune navi inservibili, giunta a Tangeri fu divisa in due parti: le navi il cui pescaggio non consentiva il passaggio dal Canale di Suez dovettero circumnavigare l’Africa, con le relative navi scorta, per ricongiungersi, dopo una dura navigazione, in alcuni porti del Madagascar, effettuare le riparazioni e nuovi rifornimenti.
Qui, agli inizi del 1905, ostacoli diplomatici francesi bloccarono la flotta nel caldo equatoriale per quasi due mesi demoralizzando gli equipaggi e fornendo tempo prezioso ai giapponesi per riparare le loro navi.
Dopo la resa di Port Arthur il 2 gennaio 1905, il nuovo obiettivo della flotta del Baltico è rompere il blocco di Vladivostok. Per arrivarci la via più breve è attraverso lo stretto di Corea, controllato per mare e per terra sulle due sponde dai giapponesi, o la rotta all’esterno del Giappone, molto più lunga, faticosa e dispendiosa per i rifornimenti di carbone. Rožestvenskij è costretto a scegliere la prima, cercando di attraversare la parte più critica dello stretto, di fronte all’isola di Tsushima, durante la notte, a luci spente contando sulle nebbie del mattino. La sua flotta è ora composta di 37 navi di cui 8 grandi corazzate, 4 incrociatori corazzati, 6 leggeri, 12 cacciatorpediniere e altre navi minori che non intervennero nei combattimenti. L’ammiraglio Togo, supponendo la rotta scelta dall’avversario, li sta aspettando nella base coreana di Busan disponendo di un totale di 142 navi di cui 4 corazzate, 11 incrociatori corazzati, 12 leggeri, 20 cacciatorpediniere, 13 sommergibili e altre navi minori.
Il 27 maggio 1905 la squadra russa divisa su tre divisioni in due file parallele avanza nella notte e nella nebbia riuscendo quasi a forzare lo stretto quando due navi ospedale sono individuate dai pattugliatori giapponesi: una di esse non ha rispettato l’ordine del totale oscuramento e, scambiata per un mercantile di passaggio, attira l’attenzione dei pattugliatori. Questi sono messi in fuga dal fuoco delle corazzate, azzerando completamente il fattore sorpresa.
La notizia è comunicata a Togo mediante il telegrafo senza fili, recente invenzione a disposizione di entrambe le flotte. Sull’incrociatore russo Ural è installata una stazione radio tedesca sperimentale, al suo primo collaudo in azione, che avrebbe potuto disturbare le comunicazioni giapponesi ma non è usata perché durante la lunga navigazione non aveva dato prove di reale efficienza, mentre le comunicazioni russe sono garantite dai piccoli impianti Marconi con portata utile di 90 miglia.
La flotta giapponese, già in allarme, va a intercettare la rotta di quella russa. Gli equipaggi di entrambe le flotte indossano uniformi pulite per evitare di infettarsi le ferite. Alle ore 11,30 i russi sparano il primo colpo contro i giapponesi, sulla loro sinistra, che si sganciano subito.
Alle ore 12.00 è distribuito il rancio, gli ufficiali russi brindarono per l’anniversario dell’incoronazione della coppia imperiale, mentre altrettanto facevano quelli giapponesi per il genetliaco della loro imperatrice.
Alle ore 12,20 il primo attacco è il lancio di siluri giapponesi, schivato dai russi.
Le navi assumono lo schieramento di battaglia con continui cambi di posizione e altrettante contromosse che qui solo riassumiamo.
Le navi russe hanno la carena incrostata per la lunga navigazione e possono raggiungere solo la velocità di 8 nodi, mentre quelle giapponesi, ben carenate, manovrano a velocità doppia, il che in una battaglia di quella portata fa una grande differenza. In più i cannonieri russi hanno poca esperienza nel tiro a distanza perché, per non consumare le camiciature interne dei cannoni, durante la navigazione le esercitazioni sono avvenute senza sparare colpi, mentre i giapponesi hanno acquisito grande esperienza e precisione. Altra importante differenza sta in un nuovo tipo di esplosivo, la melinite, usato dai giapponesi per le cariche dei proiettili che esplode al contatto devastando le infrastrutture superiori delle navi, ponti di comando in particolare, mentre i russi dispongono solo di proiettili perforanti.
Alle ore 14,08 inizia la battaglia tra le grandi corazzate.
La Alexander III al termine della manovra punta alla coda dello schieramento giapponese e dirige a tutta velocità, 10 nodi, verso Vladivostok seguita dalle navi in grado di farlo, costringendo Togo ad invertire la rotta.
Durante gli aspri combattimenti di quel giorno, la flotta russa perde le sue corazzate moderne, lo stesso Rožestvenskij, gravemente ferito alla testa, deve cedere il comando e, trasferito su un’altra nave poi catturata, è fatto prigioniero.
Poco più a sud la squadra delle navi più vecchie e lente di Nebogatov respinge con successo l’assalto di una maggiore formazione giapponese contro le navi onerarie lente e disarmate, colpendone seriamente alcune. Da formazione di coda quella squadra si trova ad essere quella di testa e issato il segnale “seguitemi” nell’oscurità dirige verso Vladivostok. Le navi giapponesi hanno solo lievi danni eccetto l’ammiraglia.
Un gruppo di cacciatorpediniere giapponesi riprende il contatto con le navi russe in fuga verso Vladivostok, ne affondano 2 e ne danneggiano altre 4.
Il 28 maggio è intercettato dai giapponesi il piccolo gruppo di 4 navi con il nuovo comandante Nebogatov che, per la disparità delle forze si arrende, altre ingaggiano impari combattimenti, sono affondate o si arrendono. Molte navi preferiscono l’autoaffondamento. Solo 2 cacciatorpediniere e una nave minore riescono a fuggire all’inseguimento e a raggiungere Vladivostok.
La flotta del Baltico è persa: 22 navi affondate, 6 internate in porti neutrali, 6 arresisi. Trovano la morte 4.500 marinai. I giapponesi perdono solo 3 torpediniere, hanno 177 morti e 282 feriti. La battaglia di Tsushima sancisce la definitiva sconfitta dell’Impero Russo.
Il 27 giugno ad Odessa i marinai dalla corazzata Potëmkin si ribellano e si ammutinano per protesta contro le pessime condizioni igieniche e alimentari dell’equipaggio. La rivolta contro il potere dello zar si estende a tutta la città dando energia ai moti rivoluzionari in tutta la Russia: scoppia la Rivoluzione del 1905. Il forte sindacato dei ferrovieri russi blocca i treni tagliando tutte le comunicazioni a lunga distanza.
Il 5 settembre 1905 con la pace di Portsmouth, il Giappone ottiene metà dell’isola di Sachalin, la base di Port Arthur e il protettorato sulla Manciuria e sulla Corea.
Aveva scritto Lenin il 4 gennaio 1905 in “Autocrazia e proletariato”: «Lo sviluppo della crisi politica in Russia dipende ormai, più che altro, dal corso della guerra contro il Giappone. Nulla più di questa guerra ha smascherato e smaschera il marcio dell’autocrazia, la esaurisce finanziariamente e militarmente, strazia e spinge all’insurrezione le masse popolari spossate dai patimenti e alle quali questa guerra infame e criminale chiede sacrifici illimitati. La Russia autocratica è già sconfitta dal Giappone costituzionale, e ogni dilazione non farà che accentuare e aggravare la disfatta. La miglior parte della flotta russa è già annientata, la situazione di Port Arthur è disperata, e la squadra navale che sta accorrendo in sua difesa non ha la benché minima possibilità, non dico di successo, ma neppure di giungere sul luogo; l’armata principale, comandata da Kuropatkin, ha perduto oltre 200 mila uomini e, ormai stremata e impotente, sta di fronte a un nemico che la schiaccerà senza meno dopo la presa di Port-Arthur. La catastrofe militare è inevitabile, e inevitabile è che il malcontento, il fermento e l’indignazione si accentuino fortemente, A quel momento dobbiamo prepararci con tutta la nostra energia. In quel momento una di quelle esplosioni che sempre più spesso si ripetono, ora in un luogo ora nell’altro, porterà a un grandioso movimento popolare. E allora il proletariato si metterà alla testa dell’insurrezione per conquistare la libertà per tutto il popolo, per assicurare alla classe operaia la possibilità di combattere per il socialismo, in modo aperto, ampio e avvalendosi dell’esperienza europea”.
5) L’ammutinamento della Potëmkin
Dal punto di vista militare l’ammutinamento della corazzata Potëmkin, in manovra nelle acque del Mar Nero, non era in collegamento con le operazioni della flotta impegnata nel Mar di Corea, se non per il contraccolpo morale che ebbe su tutti i marinai russi il disastro di Tsushima e nei soldati la sconfitta nella guerra russo-giapponese. Quell’ammutinamento era invece collegato alle generali condizioni dell’intera Russia zarista; la strage del corteo dei dimostranti sotto la guida degli operai di Pietroburgo nella domenica di sangue del 22 gennaio 1905 segnò l’inizio di tutte le manifestazioni e gli scioperi che confluirono nella Rivoluzione del 1905.
A Odessa il 26 giugno 1905 era stato dichiarato lo sciopero generale mentre la moderna corazzata Potëmkin, con un equipaggio di 750 uomini, entrata in servizio effettivo solo quell’anno e destinata al Mar Nero, era alla fonda presso la non lontana isola di Tendra, in attesa di essere raggiunta da altre navi militari russe per partecipare ad una esercitazione.
Il giorno seguente, il 27 giugno, i suoi marinai si ammutinarono in seguito al tentativo di Giliarovskij, primo ufficiale della nave, di obbligarli a mangiare carne avariata. Nei violenti disordini che seguirono, guidati dal marinaio Vakulenchuk, gli ammutinati uccisero 7 dei 18 ufficiali compreso Giliarovskij e il capitano Golikov; gli ufficiali superstiti furono messi agli arresti. Rimasto ferito mortalmente Vakulenchuk, gli ammutinati elessero a bordo una commissione e loro portavoce il marinaio Matjušenko.
Anche l’equipaggio della silurante di scorta seguì l’esempio di quello della corazzata. I marinai fecero rotta su Odessa issando la bandiera rossa. Qui appoggiarono i disordini che nel frattempo erano scoppiati in città e che si acuirono durante i funerali di Vakulenchuk.
Dalla Potëmkin partirono poi due colpi imprecisi verso il palazzo del governo di Odessa, dove erano riunite le locali autorità zariste, che rischiarono di colpire i manifestanti. L’ammiragliato inviò immediatamente due squadre di navi da battaglia con l’ordine di riprendere la nave o di affondarla. La Potëmkin riprese il mare e diresse sul gruppo avanzante. Quando l’impari battaglia pareva inevitabile i marinai delle altre navi si rifiutarono di aprire il fuoco, consentendo agli ammutinati di allontanarsi indisturbati verso il mare aperto. Un’altra corazzata, la Pobedonosets, si unì alla Potëmkin e insieme alla silurante puntarono su Sebastopoli. Ma sulla Pobedonosets le forze lealiste ebbero poi il sopravvento e la nave abbandonò gli ammutinati.
La Potëmkin a corto di carbone e di viveri incrociò nel Mar Nero alla ricerca di un porto e di rifornimento. Dopo alcuni tentativi di negoziare lo sbarco giunsero infine nel porto di Costanza in Romania dove le autorità concessero il permesso di attracco con condizioni di resa dignitose.
Lenin commenta: «Il governo romeno ha ordinato di non fornire né viveri né carbone alla Potëmkin, ma allo stesso tempo ha fatto sapere ai 700 marinai della corazzata che, se sbarcheranno sulla costa romena, saranno considerati solo come disertori stranieri. Dunque il governo romeno non è per nulla favorevole alla rivoluzione: tutt’altro! Ma, comunque, non vuole umiliarsi a rendere un servigio di tipo poliziesco allo zar di Russia, odiato e disprezzato da tutti». (“Lo zar russo cerca la protezione del sultano turco contro il proprio popolo” O.C. vol.8).
Molti degli ammutinati ottennero il permesso di restare in Romania; i più esposti trovarono rifugio clandestino a terra aiutati dalla popolazione; altri furono rimpatriati in Russia e sottoposti ai tribunali militari, che non lesinarono gli anni carcere e la fucilazione per gli organizzatori. Il portavoce Matjušenko, riuscito a fuggire alla cattura mischiandosi ai locali, nel 1907 rientrò ad Odessa per svolgere attività come anarco-comunista. Fu arrestato nello stesso anno in Ucraina e condannato a morte per impiccagione, eseguita nella base militare di Sebastopoli il 20 ottobre del 1907.
La nave fu presto restituita alla Russia e sottoposta a rifacimenti. Le fu, ovviamente, cambiato il nome.
Lenin: «Una cosa è fuori dubbio ed è che il passaggio della Potëmkin dalla parte dell’insurrezione ha segnato il primo passo verso la trasformazione della rivoluzione russa in una forza internazionale, ponendola faccia a faccia con gli Stati europei».
6) Conclusioni
Le due considerazioni più importanti sulla guerra russo-giapponese del 1904-1905 sono una di natura militare, l’altra politica.
La prima. Per l’articolata strategia adottata su più fronti terrestri e navali, per le grandi formazioni delle armate garantite dalla leva obbligatoria ormai in tutti i paesi, mandate senza risparmio in ripetuti assalti per la conquista di obiettivi ritenuti strategici, per la grande disponibilità di armamenti dovuta alla produzione dell’industria e per l’incessante e rapida applicazione di tutte le nuove scoperte scientifiche e tecniche, essa rappresenta l’immediata anticipazione della prossima Prima Guerra mondiale.
Quella di Tsushima è una delle grandi battaglie navali che fece storia nelle accademie di tutte le marinerie, soprattutto di quelle, Italia compresa, che si impegnarono nella costruzione delle moderne navi e dei loro armamenti. Dopo Tsushima non furono più allestite navi con armamenti di calibro differente poiché ormai i combattimenti avvenivano sulle grandi distanze. Anche per questo le torpediniere ebbero un ruolo marginale e non decisivo.
La seconda considerazione. Lo zarismo, di nuovo sconfitto sul piano militare, è costretto a combattere contro il nemico interno, la rivoluzione dei proletari e dell’enorme massa dei contadini sui quali era stato scaricato tutto il peso della guerra, in aggiunta al già duro sfruttamento sia del feudalesimo sia del giovane capitalismo russo. Il loro potere avrà ancora solo 12 anni di vita.
Lenin così sintetizza: «La grande “armata” – altrettanto enorme, ingombrante, assurda, impotente, mostruosa quanto l’impero russo – si mise in movimento sperperando una incredibile quantità di denaro per il carbone, per il mantenimento, suscitando il dileggio generale dell’Europa, soprattutto dopo la brillante vittoria sui pescherecci, calpestando brutalmente tutte le consuetudini e norme della neutralità. Secondo i calcoli più modesti, l’armata è costata 300 milioni di rubli, e il suo viaggio 100 milioni, in totale 400 milioni di rubli sono stati gettati nell’ultimo conato militare dell’autocrazia zarista (...)
«La borghesia europea, fedelissimo baluardo del potere zarista, comincia ormai a perdere la pazienza. L’atterriscono l’inevitabile rinnovamento dei rapporti internazionali, la crescente potenza del giovane ed energico Giappone, la perdita di un alleato militare in Europa. La preoccupa la sorte dei miliardi che ha generosamente prestato all’autocrazia» ("La disfatta", 9 giugno 1905).
(continua al prossimo numero)
Gli studi borghesi sulla Grecia antica sono pesantemente condizionati dal mito della “patria della democrazia”. Il marxismo al contrario sa che le istituzioni giuridiche del passato sono differenti da quelle odierne in quanto tutte le soprastrutture riflettono i sottostanti dominanti rapporti di produzione. Ciononostante la variante antico classica della forma di produzione secondaria è compresa tra i modi di produzione caratterizzati dalla divisione in classi della società, pertanto alcuni rapporti sociali che diverranno maturi nel capitalismo sono già presenti in quella in forma embrionale.
L’aumento imponente delle forze di produzione ha già avuto un effetto disgregante sugli antichi legami comunitari che saltano in pezzi non appena l’azione erosiva del mercato e del denaro, in sintesi la sottomissione del valore d’uso al valore di scambio, iniziano la propria marcia che li condurrà al mondo della “libertè, fraternitè, egalitè”. I testimoni migliori di questa rivoluzione sono senza dubbio gli scrittori antichi, liberi come sono dal trito bagaglio ideologico che appesta i sicofanti moderni.
Una buona rappresentazione del modo di produzione greco antico ce la offre Erodoto, che nelle sue Storie riporta una sentenza del re persiano Ciro II, il quale affermava orgogliosamente di non aver mai temuto uomini del tipo dei Greci, «che hanno in mezzo alla città uno spazio designato a radunarsi per farsi a vicenda falsi giuramenti» (Libro I). Il Gran Re si riferiva all’agorà, nella quale i mercanti avevano iniziato ad incontrarsi per concludere i propri affari; Ciro aveva colto l’essenza del mercantilismo: la truffa reciproca!
Assieme al mercato si svilupperà la moneta quale equivalente generale ed anche in questo caso il progresso sarà accompagnato da tutto il codazzo di imbrogli che non possono non circondare ogni rapporto sociale di una società mercantile. Il percorso del valore di scambio verso la propria autonomizzazione è solo agli inizi, perciò troviamo ancora diversi elementi che ci ricordano come il distacco dal comunismo primitivo sia recente e come sia stato doloroso il trapasso.
Fedeli alla propria scienza enciclopedica gli storici borghesi hanno sclerotizzato anche la storia ateniese e ce ne hanno trasmessa spesso un’immagine fissata nell’epoca classica, perdendo la vivacità di quei trapassi che ne hanno contrassegnato la storia della polis più dinamica del mondo ellenico. La borghesia cerca la sua immagine nel passato per giustificare il proprio dominio di classe eterno e naturale e non può non esaltare quelle riforme costituzionali che resero le magistrature elettive e remunerate ed introdussero una forma embrionale di democrazia delegata; non può non esaltare il maggiore rappresentante dell’Atene democratica, quel Pericle che illustri oratori attaccarono fieramente per aver condotto la città sull’orlo del tracollo a causa di una politica imperialista di dominio dei mari che sarà la causa scatenante secondo Tucidide della Guerra del Peloponneso. La democrazia imperialista di oggi si rispecchia in quell’impero ateniese su elleno e su barbari!
Se la variante antico classica non può identificarsi con la storia di Atene, questa polis meglio di altre ci permette di descriverne i contenuti essenziali. Il dinamismo della contraddizione tra proprietà privata individuale e proprietà collettiva cittadino-comunitaria, ha trovato qui il terreno fertile per farne sbocciare tutto il potenziale, altrove rimasto incastrato in vecchi legami comunitari.
Il mercantilismo di Atene ha il suo centro nel porto del Pireo. I resoconti dei politici ateniesi lodano le magnificenze delle merci provenienti da tutto il mondo allora conosciuto, quotidianamente colà scaricate per poi essere vendute nei mercati cittadini. Il volume di quei traffici, che impressionava i contemporanei, era già allora regolato da un sistema portuale con dazi e dogane; magistrati vegliavano sulle transazioni, sulla genuinità delle merci; compagnie assicurative si occupavano dei rischi del trasporto per mare: dove maggiore era la possibilità di perdere il carico lì stava il profitto più grande. Gli uomini politici provenivano spesso da famiglie arricchitesi grazie al commercio per mare, o sfruttando le miniere del Laurio: nell’epoca della divisione in classi la politica, resasi autonoma dalla società, è legata stretta all’affaristica più spregiudicata.
Se Atene era l’avanguardia dei nuovi rapporti di produzione, la rivale Sparta rappresentava un passato incombente ancora minaccioso. Chiusa in se stessa come potenza continentale era governata da un’aristocrazia che, dopo aver sottomesso e rese schiave le popolazioni originare, viveva dello sfruttamento dei campi col lavoro degli iloti e si difendeva con una forza militare terrestre. Scarse sono le testimonianze di fonte spartana sulla sua struttura sociale, mentre quelle ateniesi passano dall’esaltazione della purezza e vigore dell’oligarchia, che allevava i propri membri in un ambiente austero e tendenzialmente egualitario, all’attacco violento dei costumi militareschi e guerrieri, che indubbiamente erano alla base del suo sistema politico.
Paradossalmente sarà proprio la polis più retrograda, nel giudizio degli esponenti del “nuovo mondo”, ad uscire vincitrice dallo scontro epocale che sconvolse la regione alla fine del IV secolo a.C.. Ma quell’apogeo dell’agricolo Peloponneso sulla marinaresca Attica segnò anche l’inizio della fine del dominio delle città-Stato greche. La guerra tra città aveva dimostrato come fosse ormai indispensabile ingrandirne i limiti; i rapporti di produzione non sopportavano di rimanere schiacciati e chiusi in quegli angusti confini. Ma nessuna delle città elleniche era riuscita ad esercitare un serio e duraturo dominio sulla regione.
Sarà il regno di Macedonia a regolare per sempre i conti con quel passato di lotte intestine e vivaci rivolgimenti sociali. L’arcaico Alessandro Magno, ma allevato dallo scienziato Aristotele, si spingerà fino ai confini dell’impero Achemenide, conquistandolo e cercando di fonderne le istituzioni con quelle elleniche, in un’impresa titanica quanto di breve durata; alla sua morte le città-Stato avranno lasciato il posto ai grandi regni ellenistici, eredità dell’immenso ma fragile impero macedone. La società greca stava tramontando, in un’epoca densa di contatti tra oriente ed occidente, e non passerà molto tempo prima che Roma ne prenderà l’eredità spingendo questo modo di produzione agli estremi concessi dal dato livello delle forze produttive.
Geografia essenziale
Il nostro metodo materialista ci insegna a scovare le cause dell’apparire, del fiorire, del declinare e del perire delle formazioni sociali non nelle astuzie dei diplomatici, nelle pure astrazioni dei filosofi o negli interventi divini, ma nella contraddizione fondamentale tra le forze di produzione ed i rapporti di produzione. Occorre pertanto cominciare dall’analisi dell’ambiente fisico in cui quella forma produttiva è nata.
Gli antichi denominavano Ellade la parte meridionale della penisola balcanica, ovvero il territorio a sud dei fiumi Aoos e Aliacmone e comprendente il Peloponneso e le numerose isole del mar Egeo. Il paese è dominato da catene montuose che rendono difficili le comunicazioni, alte montagne, massimo l’Olimpo a quasi 3.000 metri slm, e poche pianure.
Oltre alla generale asprezza del suolo, il regime delle piogge è sfavorevole all’agricoltura per la sua irregolare distribuzione nell’anno. Salvo pochi fiumi maggiori gli altri sono in secca per molti mesi. La flora della Grecia era pertanto quella delle regioni meno favorite del Mediterraneo; l’agricoltura, salvo nelle poche pianure alluvionali come la Beozia, produceva poco. I cereali erano insufficienti a nutrire la non fitta popolazione: più abbondanti le leguminose, la vite e l’olivo. L’allevamento, salvo poche eccezioni, non era di bovini, che richiedono grasse praterie, ma di capre e pecore. Nell’epoca da noi studiata il territorio era ricco di foreste.
Gli antichi greci si sono però grandemente avvantaggiati della morfologia costiera caratterizzata dalla mutua penetrazione di terra e di mare: coste ricche di insenature, stretti golfi adatti a porti protetti; il mare è ovunque raggiungibile dalla terraferma dalla quale dista spesso non più di 50 km.
Una siffatta configurazione doveva necessariamente determinare da una parte la tendenza dei Greci antichi al frazionamento politico, dall’altra lo sviluppo della navigazione e del commercio marittimo. Anche con la tecnica dell’epoca si potevano facilmente raggiungere le varie isole, l’Asia Minore, l’Africa, la penisola italiana, la Sicilia.
Fra gli scarsi prodotti minerali si estraeva il ferro della Laconia, il piombo e l’argento del Laurio, il rame dell’Eubea, l’oro dell’isola di Sifno.
La Grecia perciò non ha mai potuto nutrire una numerosa popolazione e nei periodi di maggiore progresso demografico ha dovuto cercare sfogo nell’emigrazione e nella colonizzazione. Secondo calcoli raggiunse la più alta popolazione fra l’età di Pericle e quella di Alessandro Magno con quasi quattro milioni di abitanti e una densità di circa 55 per kmq. Le città erano molte, ma la maggior parte con poche migliaia di abitanti; soltanto in alcune delle maggiori la popolazione si poteva contare a decine di migliaia: nell’età ellenistica, quando l’urbanesimo raggiunse in Grecia il suo massimo sviluppo, Atene e Corinto superarono i 100.000 abitanti.
Storia minima
Il primo popolamento della regione ha ancora origini incerte; alcuni ritengono che la penisola sia stata invasa da nord da genti indoeuropee nel II millennio a.C.; secondo altri il popolamento sarebbe più antico.
Verso la metà del millennio seguente si ebbe l’ascesa della civiltà micenea. Qualche secolo più tardi l’espansione della civiltà acheo-ionica si sarebbe rivolta verso le coste dell’Asia Minore, tramandata dal ciclo omerico narrante la guerra di Troia. Verso la fine del millennio però due nuove ondate migratorie, dei cosiddetti popoli del mare e dei Dori, pose fine al periodo miceneo.
Secondo gli storici a questo punto si apre il cosiddetto Medioevo Ellenico che copre i secoli dal dodicesimo al nono prima di Cristo, segnati da intensi fenomeni emigratori che spopolarono relativamente la parte continentale, con abbandono dell’agricoltura, dell’economia palaziale e dell’allevamento.
Proprio le migrazioni daranno però origine nei secoli successivi a grandi fenomeni di colonizzazione interessanti soprattutto sia le sponde orientali del Mediterraneo, Tracia e Mar Nero, sia occidentali, Italia meridionale, Francia e Spagna. L’esodo determinò una serie di conflitti tra le città della Magna Grecia, in particolare Siracusa e la colonia fenicia di Cartagine.
Nel 500 a.C. città greche in ribellione contro i persiani chiesero aiuto alle polis greche, ma rispose soltanto Atene. Dopo aver ristabilito il suo dominio Dario I si volse contro Atene. Questa chiese l’intervento di Sparta che lo negò. L’esercito persiano sbarcò in Attica e si schierò nella piana di Maratona dove sorprendentemente il potente esercito persiano fu sconfitto.
Un decennio più tardi, il successore di Dario, Serse I, ripartì alla volta della Grecia. Questa volta le città greche stipularono una precipitosa alleanza e l’esercito spartano guidato dal re Leonida sbarrò la strada ai barbari sul passo delle Termopili. Nel frattempo l’ateniese Temistocle ingaggiò una battaglia navale al largo di Salamina, dove nel 480 a.C. riportò una grandiosa vittoria. L’anno seguente l’esercito spartano comandato dal re Pausania sconfisse i resti nemici nella battaglia di Platea. Dopo la vittoria e consolidata la sua supremazia navale Atene si fece promotrice di una lega tra alcune città elleniche che prese il nome da Delo. Da questo punto la polis si rese protagonista di una aggressiva strategia imperiale, in opposizione a quella dei persiani.
In questo periodo Pericle accentuò ulteriormente l’imperialismo ateniese, scontrandosi ben presto con le resistenze della Lega del Peloponneso. Nel 431 a.C. Sparta invase l’Attica con l’intento di prendere per fame Atene; questa stremata nel 421 a.C. stipulò la pace.
Ma l’espansionismo non si poteva arrestare. Una spedizione in Sicilia per fronteggiare l’avanzata della città di Siracusa fu un disastro per le truppe ateniesi. La flotta spartana sorprese quella ateniese nei pressi dei Dardanelli e la distrusse totalmente; le truppe spartane di terra invasero nuovamente l’Attica ed occuparono Atene. Il regime instaurato dagli occupanti ad Atene fu però presto messo in fuga dai democratici.
L’egemonia di Sparta fu di breve durata. L’invio di un corpo di mercenari in Asia per sostenere Ciro II contro il fratello Artaserse II, come narra Senofonte nell’Anabasi, si rivelò un grave insuccesso e la Persia riuscì anche a riacquistare il controllo delle città costiere.
Nel Peloponneso la tregua, intanto, era già stata infranta dalla stessa Sparta, che questa volta si vide costretta a combattere anche contro Tebe, nuova alleata di Atene; Sparta fu sconfitta nella battaglia di Leuttra nel 371 a.C., ma presto si trovò ad allearsi con la storica rivale Atene per contrastare l’ascesa della potenza tebana.
Della situazione approfittò il regno di Macedonia guidato da Filippo, che tentò di invadere l’Attica. La potenza della falange macedone era troppo per gli opliti greci, così tutte le polis, ad eccezione di Sparta, furono forzate alla lega di Corinto, con a capo la Macedonia, avente lo scopo di invadere la Persia.
La invasione ebbe successo ma il territorio immenso era privo della necessaria solidità politica. La strada era aperta per i regni ellenistici. Il III e II secolo a.C. vedono i tentativi di raccogliere l’eredità macedone, ma la partita sarà infine regolata da un terzo incomodo: Roma.
Albori della nuova forma
Ad un quarto di secolo dalla fine della guerra del Peloponneso, in una situazione di forte divisione interna, l’ateniese Isocrate in una orazione decanta i meriti passati della polis nel tentativo di convogliare la politica cittadina sulla strada della riconciliazione con la rivale Sparta.
«Avendo trovato gli Elleni che vivevano senza leggi e abitavano dispersi, alcuni oppressi da tirannidi, altri rovinati dall’anarchia, li liberò da questi mali, degli uni facendosi protettrice, agli altri proponendosi come modello: perché per prima si era data leggi e scritta una costituzione. Eccone la prova: coloro che cominciarono ad intentare processi per omicidio, e vollero dirimere le controversie reciproche con la ragione e non con la violenza, emisero in merito sentenze conformandosi alle nostre leggi» (Panegirico, 39-40)
Atene infatti, tra i villaggi ellenici, era stata la prima al salto fuori del comunismo primitivo. La spiegazione non potrebbe essere più chiara e conferma appieno uno degli assunti della dottrina marxista: la nascita della legislazione, civile e penale, coincide con il progredire della divisione in classi della comunità. Secondo la tradizione, infatti, Teseo, re leggendario che uccise il Minotauro, riunì gli abitanti dell’Attica nella città di Atene e diede loro istituzioni comuni. Il progresso storico è di portata generale e le altre città ancora immerse nella “età dell’oro” non poterono che adeguarsi schiacciate dal progredire delle forze di produzione. L’antico organicismo comunistico è oramai spezzato ed i dissidi tra clan rivali sfociano in sanguinose faide che il tessuto sociale definitivamente disintegrato e molecolarizzato non è in grado di riassorbire.
La Grecia, conquistata l’egemonia sull’Egitto, si assicurava i traffici marittimi vicini dai quali accaparrava nuove ricchezze: nuovi ceti sociali, armatori e commercianti, si aggiungevano ai vecchi ceti dominanti dei proprietari di terre, di bestiame e di schiavi, e davano maggior dinamicità all’economia cittadina. L’accesso al potere politico dei nuovi ceti sarà raggiunto a prezzo di lotte armate, in cui spesso essi si serviranno dell’aiuto delle classi meno abbienti.
Il germe del valore di scambio ha incancrenito i rapporti naturali; i produttori saranno costretti ad una vita di schiavitù ed i proprietari non produttori potranno vivere del sopralavoro altrui. A questo punto lo scambio mercantile estendendosi acuisce la nascente divisione in classi e la loro lotta per i propri interessi particolari; la produzione di merci, presupponendo la separazione di compera e vendita, fa sì che il produttore sia indifferente al prodotto del proprio lavoro, il quale prodotto si autonomizza e lo domina. Diventa un feticcio. «Il possesso privato di armenti e di oggetti di lusso che andava affermandosi portò allo scambio tra individui e alla trasformazione dei prodotti in merci. Ed è qui il germe di tutto il rivolgimento che ne seguì. Non appena i produttori non consumarono più direttamente il loro prodotto, ma lo passarono in altre mani nello scambio, perdettero il dominio su di esso» (Engels, L’origine...).
La produzione per il mercato permette un’abbondanza di prodotti prima impensabile. Ogni città inizia a sfruttare in maniera intensiva le risorse naturali di cui è ricca, dando avvio alla distruzione dell’ambiente circostante, processo che potrà arrestarsi solo nel comunismo superiore quando finalmente la Specie tornerà a godere di un ricambio organico con la Terra, non più matrigna.
Atene prima fra le polis elleniche spinse al massimo la divisione del lavoro. «Poiché i singoli popoli possiedono un territorio non autosufficiente, ma che ora manca di una cosa, ora ne possiede un’altra più del necessario, e quindi v’è molto imbarazzo ora sul luogo dove bisogna vendere, ora su quello da dove bisogna importare, rimediò anche a questi inconvenienti: allestì come mercato al centro dell’Ellade il Pireo, dove l’esuberanza di merci è tale che quelle che altrove è difficile trovare una alla volta nei singoli paesi qui è facile procurarsele tutte insieme» (Panegirico, 42).
La parte finale della citazione è cristallina. La produzione finalizzata al consumo, una produzione di autosussistenza, non è in grado di replicare la varietà di beni che, al contrario, lo scambio mercantile garantisce. Il mercato come luogo fisico è il simbolo del salto compiuto dalla società: non è più necessario viaggiare in lungo ed in largo per godere della fantastica varietà di ricchezze che la terra ci offre. È iniziato quel processo millenario che oggi, e non da molto, si è finalmente completato, del progressivo infrangersi di ogni cerchia chiusa di vita in piccoli gruppi, l’umanità nel suo insieme si avviava a farsi un unico organismo di produzione, di consumo, di pensiero. Le resta ormai solo da rompere il guscio aziendale, mercantile, salariale. Perché il mercato porta con sé la necessità della sua distruzione.
Per estendere gli scambi presto è d’obbligo servirsi di un equivalente generale che favorisca le transazioni, un segno che ovunque sia riconosciuto come rappresentante della ricchezza in generale, il denaro. «Una volta trovata la moneta in seguito alla necessità dello scambio, sorse il commercio al minuto, esercitato dapprima probabilmente in forma semplice, ma che in seguito, grazie all’esperienza, divenne sempre più organizzato, cercando ormai le fonti e il modo di ricavare i più grossi profitti mediante lo scambio» (Aristotele, Politica, Libro I, § IX).
La nuova ossatura sociale che mano a mano viene a plasmarsi attorno ai nascenti rapporti di produzione va a modificare il millenario rapporto della Specie con la principale forza produttiva dell’epoca, la terra. «Con la produzione delle merci venne la coltivazione della terra da parte di individui per proprio conto, e conseguentemente la proprietà fondiaria individuale. Più tardi venne il danaro, la merce universale, con la quale tutte le altre erano scambiabili» (L’origine...).
Il lavoro nei campi in comune, architrave delle comuni originarie, lascia lentamente spazio ai piccoli contadini parcellari. Il lotto di terra verrà prima periodicamente redistribuito; in seguito la proprietà privata individuale ha il sopravvento, e si ha prima il predominio del demanio collettivo sulle parcelle individuali, poi la contrapposizione tra il primo e le seconde.
Proprietà implica necessariamente il suo contrario, l’assenza di proprietà, la non proprietà; una parte della società è spogliata del bene all’epoca più prezioso; il possesso della terra diviene condizione per essere considerati cittadini e godere dei relativi diritti. Il viaggio che condurrà l’antico produttore comunistico alla condizione del moderno proletario libero, cioè spogliato di ogni proprietà, inizia con il doloroso distacco del produttore dalle condizioni della produzione, prima fra tutte appunto la terra intesa come arsenale produttivo.
Atene prima nel modo di produzione antico passa da un’economia di sussistenza ad una di scambio. «Dopo aver cooperato a compiere le imprese più importanti, essa non trascurò il resto ma, se diede inizio ai suoi benefici col trovare nutrimento per i bisognosi – prima cosa da farsi da coloro che intendono ben provvedere alle altre necessità – ritenendo poi che la vita limitata a questo non soddisfi il desiderio di viverla, si curò a tal punto anche del resto che, fra i beni di cui dispongono gli uomini, quanti non abbiamo dagli Dei, ma ci sono venuti per reciproco scambio, nessuno esiste senza il concorso della nostra città, anzi la maggior parte sono dovuti ad essa» (Panegirico, 38).
Da una parte ci sarebbero i beni donati dagli Dei, cioè quelli che il territorio comunitario è in grado di produrre, dall’altra i prodotti che vi possono arrivare soltanto grazie allo scambio mercantile, affare evidentemente al quale gli Dei più non bastano. Ed il commercio è essenzialmente centrato sul porto del Pireo.
L’intensificarsi dei traffici stimola la già crescente divisione sociale del lavoro; il commerciare diviene un’occupazione accanto alle altre ed i mercanti un ceto particolare; le possibilità di ottenere enormi profitti spingono le grandi famiglie proprietarie a convogliarvi parte delle risorse, non senza rischi nelle traversate marittime. Al tempo di Socrate i commercianti sono già un ceto ben differenziato, necessario per la sopravvivenza dello Stato.
L’aumento del denaro in circolazione presto esercita la propria possente azione corrosiva degli antichi legami comunitari ed Engels descrive questo fenomeno con la consueta chiarezza sottolineando come il commercio marittimo arricchisse «la nobiltà, concentrando nelle sue mani la ricchezza monetaria. Di qui l’economia monetaria, che andava sviluppandosi, penetrò come un acido corrosivo nel modo di esistenza tradizionale delle comunità rurali fondato su un’economia naturale. La costituzione gentilizia è assolutamente incompatibile con un’economia monetaria» (L’origine...).
Le gentes e le tribù si disgregano davanti ai nuovi signori del denaro. Presto il far denari diventa un’attività accanto alle altre; con l’usura si accumulano grandi ricchezze. Ma queste non potranno trasformarsi in capitale e Marx rileverà che neppure Roma e Bisanzio arriveranno al capitalismo. Perché al polo opposto della ricchezza nella forma del denaro deve trovarsi il produttore nullatenente, il salariato.
Lo sviluppo della lotta di classe condusse alla sottomissione dei produttori al territorio: non importava più l’appartenenza ad una unione gentilizia, ma solo il luogo di residenza e gli abitanti divennero politicamente semplice appendice del territorio.
La plutocrazia del denaro costituì anche un nuovo diritto per garantire il creditore nei confronti del debitore e per la consacrazione dello sfruttamento del piccolo contadino da parte del possessore di danaro. Le campagne dell’Attica erano piene di cippi ipotecari. Se il ricavato della vendita di un fondo non bastava a coprire il debito, o se era stato contratto senza garanzia ipotecaria, il debitore era costretto a vendere all’estero i suoi figli come schiavi per soddisfare il creditore.
L’accumulazione
Nella città si accentra la nuova forma di produzione e la sede del potere statale di classe. «Sotto Cecrope e gli altri re la popolazione dell’Attica aveva sempre vissuto in borghi separati che avevano propri pritanei e magistrati; e, quando nessun pericolo li minacciava, non si adunavano per deliberare presso il re, ma si governavano e decidevano in piena autonomia. Capitò anche che alcuni di questi borghi muovessero guerra al re (...) Ma quando salì al trono Teseo, che oltre al senno aveva la forza dalla sua, nel sistema delle riforme con cui riordinò il paese ci fu anche l’abolizione dei consigli e delle magistrature degli altri borghi; e con l’istituzione di un unico consiglio e di un unico pritaneo riunì tutta la popolazione in quella che adesso è la città. Gli abitanti dei singoli borghi vissero nei propri campi come prima; ma li costrinse ad avere questa come unica città, la quale, confluendovi i tributi di tutti, acquistò importanza; e tale fu lasciata da Teseo ai successori» (Tucidide, La guerra del Peloponneso, Libro II).
È la violenza della classe dominante che permette di attuare le riforme istituzionali a Solone e Clistine. I vecchi rapporti di produzione devono essere annientati anche giuridicamente e i consigli periferici spogliati delle attribuzioni che testimoniano del recente passato. Già all’epoca di Solone gran parte della terra è nelle mani di poche famiglie e i poveri non in grado di pagare le locazioni erano ridotti in schiavitù.
La proprietà individuale si contrappone a quella comunitaria. Storicamente la parcellizzazione dei beni del clan ha riguardato per prima la ricchezza mobiliare (carri, casa, utensili, ecc.); la proprietà della terra è ancora collettiva e lega le famiglie tra loro; i proprietari sono contemporaneamente membri della comunità e solo in quanto membri sono proprietari.
«La seconda forma è la proprietà della comunità antica e dello Stato, che ha origine dall’unione di più tribù in una città (...) Accanto alla proprietà della comunità già si sviluppa la proprietà privata mobiliare e in seguito anche la immobiliare, che però è una forma anomala, subordinata alla proprietà della comunità. I membri dello Stato possiedono soltanto nella loro comunità il potere sui loro schiavi che lavorano, e già per questo sono legati alla forma della proprietà della comunità (...) Il rapporto di classe fra cittadini e schiavi è completamente sviluppato» (Marx-Engels, L’Ideologia Tedesca).
Una forma a base schiavista
La forma di produzione secondaria nella sua variante antico classica è fondamentalmente schiavistica. La storia ha conosciuto epoche in cui lo schiavismo era assente. Diodoro Siculo: «Tra le strane abitudini in vigore tra gli indiani, possiamo considerare quella più sorprendente, introdotta in passato dai saggi del paese; ovvero, la legislazione vuole che tra loro nessuno sia schiavo, senza eccezione, e che vivano come uomini liberi nel rispetto dell’uguaglianza per tutti» (Biblioteca Storica, 2, 39, 5).
Come Engels ha mostrato nell’Origine, nel comunismo primitivo la schiavitù comincia con la sconfitta della tribù o del clan avversari che non possono essere assorbiti dalla comunità vittoriosa perché le scarse forze produttive non bastano ad alimentare un numero maggiore di membri. La situazione muta nella forma di produzione secondaria; il procacciarsi schiavi diventa un’attività accanto alle altre; certamente la schiavitù in tempo di guerra resta una parte importante dell’intero fenomeno, ma ora il mercato di schiavi si arricchisce di uomini caduti in questa condizione o per non aver pagato i propri debiti o perché nati da madre e padre a loro volta schiavi. Gli eserciti continuano a riportare a casa come bottino di guerra un certo numero di schiavi. L’impero romano comincerà a declinare quando il costo di questa intrapresa supererà il guadagno che lo schiavo riesce a garantire a Roma.
Ma ora anche il cittadino della polis può diventare schiavo, evento prima impensabile. Ulteriore impulso al fenomeno è dato dallo sviluppo del denaro; lo schiavo per debiti rappresenta una fetta importante della popolazione schiava.
Accanto alla contrapposizione tra città e campagna si sviluppa la divisione sociale del lavoro ed al suo interno la distinzione tra lavoratori intellettuali e produttori manuali. La nascita di Stato e politica alimenta l’espansione di un ceto di intellettuali incaricati di tessere le lodi dei nuovi rapporti di produzione e di marcare teoreticamente il confine che separa la classe dominante da quella dominata. Il lavoro manuale dev’essere sbeffeggiato ed infine relegato tra le abiezioni.
A Sparta la questione è differente ma la sostanza non muta. Il terreno della fertile valle dell’Eurota, dopo che ne furono prelevate determinate porzioni assegnate alle famiglie reali e ai templi, venne diviso fra i conquistatori dori in lotti eguali e inalienabili; in mancanza di eredi, il lotto ritornava allo Stato. Secondo la tradizione, dopo la conquista della Messenia il numero totale dei lotti venne portato a 9.000, ciò che permise di assegnare un lotto a tutti i membri della comunità spartana in grado di portare le armi, i soli veri cittadini in mezzo a tutti i liberi abitanti della Laconia. I lotti erano coltivati e amministrati a proprie spese dagli iloti, la cui posizione era quella di schiavi di Stato, legati al terreno che lavoravano. Corrispondevano al padrone un’aliquota fissa dei prodotti; lo seguivano in guerra come armati leggeri oppure prestavano servizio militare nella flotta come rematori.
Lo Stato greco
«La premessa dell’origine dello Stato è la formazione di classi sociali, e questa presso tutti i popoli si determina colla spartizione della terra da coltivare tra i singoli e le famiglie e con le parallele fasi della divisione del lavoro sociale e delle funzioni, da cui deriva una diversa posizione dei vari elementi rispetto alla generale attività produttiva, e il profilarsi di gerarchie diverse con funzioni di primo artigianato, di azione militare, di magia-religione, che è la prima forma della scienza tecnica e della scuola, a sua volta staccatasi dalla vita immediata della gens e della famiglia primitiva» (I fattori di razza e nazione nella teoria marxista).
Dal punto di vista geografico le comunità sparse si aggregano e dopo generazioni si danno una costituzione, come la chiama Platone, ovvero una forma giuridica di regolazione dei rapporti sociali. Il nascente Stato di classe non può ammettere accanto a sé altre istituzioni di pari grado, specie se rappresentanti il vecchio modo di produzione, le deve distruggere. In Atene la fratria ad esempio era un organismo non statale, di origine remota; ancora viveva un’esistenza parallela, con adunanze annuali in occasione della festa delle Apaturie: letteralmente, la ricorrenza di quanti hanno lo stesso padre. Eleggeva magistrature; approvava decreti che diventavano leggi proprie; prescriveva norme ai suoi membri e aveva possibilità di infliggere sanzioni; possedeva beni propri (case e cimiteri).
È sempre quella ripartizione sociale tra i membri della comunità che fa sì che ci sia un gruppo della classe dominante che si dedica alla politica. Questo gruppo costituisce la direzione dello Stato. Lo Stato necessita di una potenza militare per difendere sé stesso. «I nuovi gruppi formatisi con la divisione del lavoro, dapprima tra città e campagna, poi tra i diversi rami di lavoro cittadino, avevano creato nuovi organi per la tutela dei loro interessi. Erano stati istituiti uffici di ogni specie. E allora il giovane Stato ebbe bisogno, prima di tutto, di una sua propria potenza» (ivi).
Questa violenza dev’essere legalizzata, nasce allora un complesso di norme che traducono le necessità dei rapporti di produzione. Le contraddizioni tra i produttori, che nel comunismo erano riassorbite in maniera organica, ora esplodono senza possibilità di sintesi spontanea; è necessario un complesso meccanismo di contrappesi per evitare che la inevitabile lotta di classe scoppi in aperta rivolta mettendo a rischio il potere degli sfruttatori.
La stratificazione sociale aumenta e parallelamente le magistrature si differenziano. Già all’epoca di Draconte (620 a.C.) la partecipazione al governo della comunità avviene su base censitaria.
La democrazia è il governo di una società divisa in classi. Con l’ateniese Solone la popolazione dell’Attica venne divisa in categorie fondate sulla ricchezza e non più sulla nobiltà ereditaria, e la ricchezza divenne il requisito di base per ottenere una funzione pubblica. I cittadini sono divisi in quattro classi di censo, calcolando la ricchezza secondo i prodotti delle loro terre. Il simbolo del potere è la finanza, intesa come amministrazione del patrimonio statale, ed essa è gestita dalla classe che lo detiene: Solone attribuì alla classe dei pentacosiomedimni la eleggibilità alle magistrature di competenza finanziaria.
Clistene si incarica della creazione del nuovo organo di governo, la Bulè dei Cinquecento, designati per sorteggio 50 per ciascuna delle 10 tribù. Era divisa in dieci sezioni, corrispondenti alle dieci tribù e dette pritanie: ogni pritania teneva la presidenza della Bulè per una decima parte dell’anno, redigeva l’ordine del giorno per le adunanze dei buleuti.
L’assemblea, la ecclesìa, era il popolo riunito; almeno teoricamente tutti i cittadini ateniesi avevano non solo il diritto ma il dovere di assistervi. Ma l’assemblea non poteva discutere né votare se non sulle questioni messe all’ordine del giorno dai pritani.
Nessun livello di censo era richiesto per candidarsi alla bulé, ma erano i più ricchi a rendersi disponibili per questo incarico, non poco gravoso. Dato l’alto numero dei componenti la bulé non era in grado di lavorare collegialmente, pertanto i 50 buleti di una tribù a rotazione assumevano mensilmente la guida del consiglio.
Con il progredire del dominio della classe proprietaria dal sorteggio si passa all’elezione. La contrapposizione in classi si perfeziona, si fronteggiano partiti rappresentanti le diverse classi e sottoclassi. La lotta si fa aperta. Le assemblee aumentano di poteri ma nel classismo compiuto diventano organi del potere di classe. I politici devono dedicarsi a tempo pieno all’opera di dominio, pertanto le magistrature divengono retribuite. All’inizio ciò permette di estendere il lavoro politico a tutti i liberi, ma ben presto si trasforma nel suo opposto; il salario per la politica crea il ceto politico.
La divisione in classi dell’antichità è anche e soprattutto divisione tra liberi e schiavi. I produttori hanno ancora molte divisioni al loro interno perciò la linea divisoria fondamentale è altrove e la contrapposizione fondamentale non può essere tra lavoratori proprietari e lavoratori non proprietari. «Quanto lo Stato, ormai compiuto nei suoi tratti principali, fosse adeguato alla nuova situazione sociale degli Ateniesi, appare chiaro dal rapido fiorire della ricchezza, del commercio e dell’industria. L’antagonismo di classe, su cui posavano le istituzioni sociali e politiche, non era più quello fra nobili e popolo comune, ma quello fra schiavi e liberi, fra protetti e cittadini» (L’origine...).
Manca, tuttavia, nelle città greche fino al IV secolo inoltrato, un vero e proprio bilancio dello Stato; ogni magistrato provvedeva alle spese necessarie al disbrigo delle incombenze con una sua cassa particolare; l’unico elemento di unità era costituito dall’azione della Bulè, che controllava la distribuzione delle somme, giudicava delle richieste dei singoli magistrati e collaborava all’opera rigorosa dei 30 contabili, incaricati di controllare, alla fine di ogni pritania, la gestione delle casse dei singoli magistrati.
In Atene, dal 500 a.C. in poi, il principale introito dello Stato fu rappresentato dall’appalto delle miniere d’argento del Laurio. Fra i tributi indiretti tenevano il primo posto i dazi di varia specie: quello per l’uso dei porti, che si percepiva nella misura dal 2 al 5% su tutte le merci in entrata e in uscita. A queste si aggiungevano speciali tasse d’esercizio per quelle professioni che richiedevano la vigilanza della polizia (come le meretrici), il rimborso delle spese processuali da parte di coloro che ricorrevano ai tribunali, i proventi risultanti dai beni confiscati ai debitori dello Stato insolvibili e ai condannati per cause politiche.
Alle contribuzioni personali in Atene erano tenuti, in diversa misura, i più ricchi fra i pentacosiomedimni, cioè tutti quei cittadini che possedevano un censo di almeno 20 talenti. Si distinguevano in ordinarie e straordinarie; fra le seconde la più gravosa, che poteva essere ripartita fra tre cittadini facoltosi, era la trierarchia, consistente nell’allestire, riparare e comandare una trireme durante le operazioni militari.
Anche a Sparta i proprietari sanciscono il proprio potere sullo Stato. A fianco dell’apella, l’assemblea di tutti i cittadini, andò crescendo in autorità la gerusia, presieduta dai due re e composta di 28 pari che l’apella eleggeva a vita, scegliendoli fra gli anziani di oltre 60 anni. Aumentò via via il numero degli affari sui quali la gerusia deliberava direttamente: inoltre essa preparava i disegni di legge da sottoporre al giudizio dell’apella, sulle cui deliberazioni poteva (sebbene non formalmente) esercitare in pratica un limitato diritto di veto sotto forma di rinvio dell’assemblea. Lo Stato infine si autonomizza in organismi come l’Eforato. Spettava ad esso vigilare sulla disciplina dei cittadini; nelle loro mani si concentrò la giurisdizione civile e gran parte di quella criminale.
La costituzione è fondata sul censo e il dovere politico-sociale è legato alla proprietà. Quote aggiuntive di proprietà danno diritto a quote aggiuntive di potere.
Ai nostalgici borghesi della Grecia classica rispondiamo con un nostro testo ormai classico: «Lo Stato lacedemone come lo Stato ateniese (o quello tebano) non sono soltanto perfetti Stati nel senso politico con un territorio esattamente definito, con istituzioni giuridiche, e con un potere centrale da cui promanano gerarchie civili e militari, ma assurgono alla forma di nazioni in quanto il tessuto sociale, pur conservando la divisione tra classi ricche e povere rispetto alla produzione agricola ed artigiana e al già sviluppato commercio interno ed esterno, ed assicurando il potere politico agli strati economicamente forti, consente una impalcatura legale ed amministrativa che applica le stesse formali norme a tutti i cittadini, e tra esse la partecipazione con parità di voto alle assemblee popolari deliberative ed elettive. Una tale sovrastruttura giuridica contiene sostanzialmente una funzione analoga a quella che il marxismo denunziò nelle democrazie parlamentari borghesi, ma corre tra i due modi storici di organizzazione sociale una differenza di base: oggi chiunque è cittadino e si afferma che per tutti valga la legge medesima; allora il complesso dei cittadini, che soli assurgevano a formare la vera e propria nazione, escludeva la classe degli schiavi, benché in dati tempi numerosissima, cui la legge negava ogni diritto politico e civile» (I fattori...).
(Continua al prossimo numero)
Wilson cambia registro
Abbiamo visto come il primo governo Wilson (1913-1916) avesse mostrato molta più attenzione al controllo della classe operaia rispetto alle amministrazioni precedenti. Oltre agli interventi dei quali abbiamo trattato, il segno più tangibile di tale interesse fu la creazione del Dipartimento del Lavoro, un vero e proprio ministero, a capo del quale, non a caso, fu posto William B. Wilson, deputato ex dirigente del sindacato minatori, iniziando una tradizione di diretta corruzione dei vertici sindacali da parte dello Stato, in contemporanea allo stesso fenomeno in Europa. Il compito del nuovo Dipartimento era di ridurre al minimo la conflittualità, impegno non facile per l’esistenza di forti resistenze in entrambi gli schieramenti: gli IWW tra gli operai, e settori del padronato che si affidavano solo alla repressione e nella distruzione delle organizzazioni operaie.
Un’altra iniziativa significativa fu la creazione della Commission on Industrial Relations (CIR), un organo consultivo di indagine sulle cause dell’agitazione sociale, che però arrivò a rivestire un ruolo politico non secondario. Ne entrarono a far parte sindacalisti AFL e rappresentanti “moderati” del padronato; in pratica fu quasi una consacrazione ufficiale della NCF. Era il subentrare dello Stato nell’impegno e nella funzione di regolamentare il conflitto sociale, stimolo alla cooperazione tra le “parti sociali”, fino ad allora condotta in via “privata” da esponenti delle Corporations e delle Unions conservatrici.
Nel corso del 1913 divenne sempre più chiaro l’impegno del governo federale a far giocare alle Unions un ruolo di contenimento e di regolamentazione delle spinte più radicali sorte dall’agitazione operaia; crescevano i settori del Capitale che condividevano questo atteggiamento.
È esemplare il grande sciopero di Paterson guidato dagli IWW, dove una campagna di reclutamento di crumiri condotta dall’AFL, peraltro destinata al fallimento, fu apertamente sostenuta ed incoraggiata dai giornali conservatori al fine di rafforzare un interlocutore con cui appariva possibile raggiungere quelle mediazioni impossibili fino a quando la gestione della lotta fosse rimasta in mano ai wobblies. Il movimento sindacale non era più visto necessariamente come un implacabile nemico: in forme moderate e ben organizzate poteva diventare l’interlocutore stabile del Capitale, in grado di controllare le forme spontanee e locali di rappresentanza operaia.
Il padronato si mosse anche sul piano del sindacato padronale aziendale; il progetto più significativo fu quello lanciato da Ford con l’istituzione delle otto ore e della paga giornaliera di 5 dollari per gli operai alle linee di montaggio. William Haywood la definì “una assicurazione contro le agitazioni”, che non solo mirava a prevenire l’organizzazione collettiva degli operai nella fabbrica ma, inserita in un più vasto piano comprendente un progetto di ripartizione dei profitti ed altre misure di carattere assistenziale (assicurazioni, crediti, associazioni ricreative, ecc.), tendeva a sviluppare un’ideologia ed un modo di vita fondati su un rapporto stabile tra lavoratore ed azienda. Si trattava di esperienze ancora molto limitate, ristrette ad alcuni settori industriali più avanzati, ma indicavano da un lato una tendenza che si affermerà pienamente negli anni ‘20, dall’altro l’urgenza di far fronte alla crescita delle lotte operaie e della più generale instabilità sociale con dei mezzi che non si limitassero più solo alla repressione frontale ed alla negazione di ogni forma di organizzazione sindacale.
In alcuni casi quindi si passò da metodi brutali e repressivi a forme di paternalismo aziendale. Un esempio fu un lungo e violentissimo sciopero dei minatori del carbone del Colorado, che si trascinò dal settembre 1913 a tutto il 1914. Dopo la solita sequenza di aggressioni da parte di padroni e governo, con scontri a fuoco, morti, intervento di milizia e poi di truppe federali, la soluzione, favorevole soprattutto alle aziende minerarie, fu effetto principalmente dell’opera di convincimento del governo sulla UMW, il sindacato affiliato alla AFL.
La Colorado Fuel and Iron Company, la principale delle aziende coinvolte, di proprietà di Rockefeller, dopo aver atteso il progressivo indebolimento dello sciopero, capì che non avrebbe potuto proseguire con il vecchio sistema. Imposto nuovamente l’ordine nelle miniere, che continueranno ad essere presidiate dall’esercito federale fino all’inizio del 1915, l’azienda dette rapidamente vita ad un progetto di rappresentanza dei minatori che divenne famoso sotto il nome di Rockefeller Plan. Il progetto prevedeva l’elezione di rappresentanti dei lavoratori in ogni miniera e distretto, che si incontravano periodicamente con le varie istanze dirigenti dell’azienda per dirimere le eventuali vertenze. Inoltre furono costituite delle commissioni miste di rappresentanti dei lavoratori e della Compagnia preposte allo studio ed alla risoluzione dei problemi inerenti la sicurezza, la salute, l’igiene, gli alloggi, la ricreazione e l’istruzione dei dipendenti. Costituiva insomma una alternativa alla contrattazione con le organizzazioni dei lavoratori. Fu accompagnato dall’annuncio della concessione della giornata di otto ore e da un impegno della Compagnia a concedere aumenti salariali in futuro. Restava del tutto immutato invece il totale potere discrezionale della Compagnia in merito ad assunzioni e licenziamenti.
Contemporaneamente a quello schema di rappresentanza aziendale, che fu accettato dai lavoratori con una votazione nel mese di ottobre del 1915, anche sul piano dello Stato furono introdotte importanti innovazioni nella conduzione delle questioni del lavoro: in particolare fu istituita una Industrial Commission che doveva occuparsi dell’applicazione delle leggi, svolgere un’inchiesta preventiva sulle condizioni di lavoro laddove fosse minacciato uno sciopero e prevenire così ogni interruzione della produzione. Inoltre costituiva l’autorità arbitrale a cui aziende e lavoratori dovevano rivolgersi in caso di mancato accordo nelle trattative.
Con tale intreccio di misure assistenziali e di costanti rapporti con la direzione aziendale, e con l’istituzione della Industrial Commission sul piano statale, le Corporations si dettero un’organica struttura di gestione dei rapporti con i lavoratori che avrebbe dovuto al tempo stesso tenere le Unions fuori dalle miniere ed impedire nuove esplosioni di lotta operaia. Il Rockefeller Plan fu così uno dei primi esempi di Company Unions, i sindacati gialli che sarebbero diventati nel dopoguerra un elemento centrale della controffensiva capitalistica.
La vicenda del Colorado mise in luce elementi interessanti anche per ciò che riguardava la linea di condotta del governo federale: dimostrò infatti che se il governo era favorevole all’istituto della contrattazione collettiva, ciò non significava che per principio essa dovesse attuarsi per mezzo delle Unions.
I lavori della Commission on Industrial Relations si conclusero nel 1915, con l’approvazione di un rapporto che prevedeva difesa delle condizioni di lavoro, tassazione più progressiva, controllo dei monopoli, diritti sindacali, e proposte per evitare le lotte.
I lavori della Commissione toccarono anche un altro punto fondamentale del dibattito di quegli anni: quello del mercato del lavoro e del suo controllo. Cominciavano infatti a manifestarsi tutti i problemi sociali ed economici connessi a quella politica dell’occupazione “in negativo” che il capitale aveva perseguito negli anni a cavallo del secolo, una fondata sull’immigrazione massiccia di lavoratori dequalificati, ed in particolare dalle zone contadine più povere dell’Europa meridionale ed orientale, volta a mettere a disposizione dell’industria una costante riserva di braccia. Si intendeva così procedere a quell’ammodernamento delle fabbriche, con la loro accentuata meccanizzazione, che richiedeva grandi masse di operai privi di specializzazione. Ma tale politica, che faceva venir meno la forza sindacale degli operai di mestiere, base delle lotte negli ultimi decenni dell’Ottocento, presto rivelò i suoi contraccolpi. I lavoratori immigrati erano diventati protagonisti di radicali processi di organizzazione sindacale e di lotte sempre più minacciose; protagonisti degli scioperi più duri e più importanti degli ultimi anni, base sociale di organizzazioni rivoluzionarie come gli IWW, erano diventati il principale fattore di instabilità sociale fuori e dentro la fabbrica.
Se la disoccupazione causava un indebolimento delle lotte e delle organizzazioni operaie, provocava notevoli reazioni nei settori più colpiti o in quelli che rischiavano di esserlo, tanto che si arrivò persino a situazioni di organizzazione e di lotta degli stessi disoccupati. Visto che la disoccupazione era inevitabile, per la necessità di mantenere la riserva di forza-lavoro, si trattava di prevenire i movimenti della massa dei disoccupati. Fu così proposto che il governo costituisse un apposito fondo da usare per opere pubbliche durante i momenti di crisi, in modo da assorbire parte dei disoccupati. Altra misura proposta fu l’ “assicurazione di disoccupazione”, un’indennità per i disoccupati a carico del padronato. Sostenuta da numerosi economisti era però decisamente osteggiata dalle Unions. La AFL vi scorgeva, come in altre misure di assistenza sociale, un tentativo di sostituire la funzione delle organizzazioni sindacali con l’iniziativa diretta degli imprenditori e dello Stato, che avrebbe indebolito il rapporto tra lavoratori ed Unions. Poiché queste erano totalmente imbelli sul piano delle lotte, senza questa funzione assistenziale la loro esistenza avrebbe perso qualsiasi significato.
Nonostante i buoni propositi e le proposte ragionevoli, è indubbio che i risultati più importanti dell’attività della Commissione furono di carattere politico e propagandistico e che il suo effetto principale fu di conquistare l’appoggio dei lavoratori e dei radicali al governo Wilson e all’idea che le Unions e gli intellettuali radicali potessero avere un effettivo potere sulla politica sociale. Ciò fu di enorme importanza per il governo e per il Capitale che, come vedremo, fonderanno proprio su tale fattore le loro scelte degli anni successivi, ed in particolare nella preparedness e nella marcia verso la guerra.
Il
progetto governativo sulla politica del lavoro sarà adottato nel
1916, ultimo anno del primo mandato del presidente Wilson.
1916: lotte operaie e preparazione alla guerra
Nel 1916 si compì la svolta nella politica del lavoro adottata dal governo e dal grande capitale. Di fronte alla crescita e alla diffusione delle lotte operaie, e con la prospettiva dell’entrata in guerra, diventava prioritaria la necessità di isolare le forze socialiste e radicali e rafforzare i rapporti con la classe operaia su un piano “responsabile” e patriottico. Grazie anche ai buoni uffici delle Unions, d’ora in poi il governo non perderà mai di vista l’obiettivo preparare il paese e l’industria alla mobilitazione bellica facendo fronte al movimento di scioperi.
Il ciclo di lotte operaie sviluppatosi con la ripresa economica provocata dalla guerra europea – la quale, oltre a stimolare la produzione, aveva determinato una situazione del mercato del lavoro favorevole ai lavoratori, con la diminuzione dell’immigrazione e la concorrenza tra le imprese per l’assunzione di forza lavoro – assunse ben presto delle proporzioni impressionanti: gli scioperi si moltiplicarono dai 1.204 del 1914, ai 1.593 del 1915, ai 3.789 del 1916 e ai 4.450 del 1917. Moltissimi di questi scioperi nascevano completamente al di fuori delle Unions. Secondo i dati ufficiali la percentuale degli scioperi indetti dai sindacati, fino allora mantenutasi su di una media oscillante tra il 75% e 1’80%, calò improvvisamente nel 1916 al 66,6%, e la tendenza doveva accentuarsi negli anni successivi, durante la guerra, quando la percentuale toccò i suoi valori più bassi, con il 53,3% nel 1917 ed il 55,5% nel 1918.
Gli scioperi ottenevano abbastanza frequentemente gli obiettivi che si erano prefissi, soprattutto per ciò che riguardava gli aumenti salariali, i quali per altro avevano un valore relativo data la crescente inflazione. Spesso erano gli stessi imprenditori a concederli per prevenire le lotte: è il caso, ad esempio, della U.S. Steel che decise due aumenti dei salari del 10% ciascuno nei mesi di febbraio e maggio del 1916. Anche le otto ore furono a volte conquistate, soprattutto dalle categorie con una maggiore tradizione d’organizzazione sindacale, come i minatori d’antracite o i ferrovieri.
L’AFL doveva quindi cercare di riconquistare una posizione preminente all’interno della classe operaia.
Complesso era il problema del riconoscimento della presenza delle Unions e di una stabile contrattazione collettiva nelle aziende. In generale, laddove le Unions erano già state riconosciute, ed esisteva una pratica abituale di accordi sindacali, questa si rafforzò ed estese il suo raggio d’azione, sia per effetto della spinta della base sia per scelta di alcuni settori padronali, al fine della stabilità produttiva tramite la cooperazione con le Unions. A volte la pressione delle lotte, o per evitare la loro acutizzazione, portò anche degli imprenditori fino ad allora intransigentemente antisindacali a mutare tattica e ad accettare la contrattazione collettiva. Ma nel complesso non mancavano certo le resistenze, ed anche le controffensive, tese a distruggere o ad indebolire le Unions, e che vedevano nella situazione creata dal conflitto una occasione per portare a fondo l’attacco. Si trattava però di forze ormai minoritarie, di un padronato che non aveva ancora capito in che senso i rapporti sociali si stessero spostando, ma che esistevano e che continuavano con i loro metodi, soprattutto a livello locale.
Il governo federale era però ormai decisamente orientata a favorire il riconoscimento delle Unions conservatrici per il loro ruolo di contenimento della conflittualità operaia all’interno degli schemi della contrattazione collettiva. Mano a mano che si avvicinava la possibilità dell’entrata in guerra degli Stati Uniti, vi si aggiunse l’esplicito riconoscimento del ruolo che le Unions potevano svolgere nello sviluppo della produzione e nella costruzione di un’identità nazionale e patriottica che indebolisse gli elementi classisti all’interno del movimento operaio. Contemporaneamente il governo cercò, e con successo, di sostituirsi alle Unions nei rapporti con il padronato tutte le volte che si dimostravano disubbidienti o incapaci.
Come conseguenza, la percentuale dei conflitti conclusisi con una conciliazione, dopo aver per anni oscillato tra il 18% e il 19% ed aver raggiunto il 20,9% nel 1915, balzò nel 1916 al 36,3%. Se si pensa che il numero assoluto degli scioperi era enormemente cresciuto, e che soprattutto era cresciuto il numero di quelli non indetti dalle Unions, risulta evidente come l’attività governativa di mediazione, assieme agli sforzi delle Unions stesse, in quell’anno aumentasse enormemente.
L’AFL cinghia di trasmissione del governo borghese
Oltre agli interventi nelle vertenze e alle prese di posizione sulle più importanti rivendicazioni operaie, il governo iniziò a muoversi verso il traguardo più ambizioso: integrare l’AFL, o per lo meno le sue strutture dirigenti, nel complesso della sua politica del lavoro, farla diventare una componente di quel vasto apparato statale di coordinamento dell’economia che nella guerra si dispiegherà in tutta la sua estensione ed articolazione, ma le cui fondamenta furono tracciate proprio nel 1916, nel corso della preparedness. Si trattava, per il momento, di indurre i dirigenti della Federazione ad un impegno diretto per la mobilitazione ideologica in senso patriottico, trasferendo anche sul piano istituzionale e politico quei rapporti di cooperazione che si ricercavano, ed in buona parte già si attuavano, sul terreno produttivo e sindacale.
Fin dall’inizio dell’anno l’AFL cominciò ad esprimersi ed a premere in questa direzione, rivendicando il diritto delle organizzazioni dei lavoratori ad essere rappresentate «in tutte le Agenzie che controllano e determinano la politica pubblica o questioni di interesse generale», e garantendo la disponibilità delle Unions a fare per il Paese, a tutti i livelli, ciò che già erano impegnate a fare nella fabbrica: battersi per l’efficienza, la produzione, la mobilitazione patriottica. Per i dirigenti delle Unions le caratteristiche generali che la preparedness doveva quindi assumere erano, con il mantenimento e il miglioramento delle condizioni di lavoro, da raggiungere con più favorevoli accordi sindacali, una gestione “democratica” dello sforzo bellico, ovvero che comprendesse anche i rappresentanti dei lavoratori nella determinazione delle principali scelte economiche, e lo sviluppo dell’unità patriottica tra tutti i settori sociali.
Nell’ottobre del 1916 la nomina di Gompers nell’Advisory Commission (Commissione Consultiva) del Council of National Defense, in qualità di rappresentante delle organizzazioni sindacali, con il compito di orientare la politica bellica nel campo del lavoro, ne segnò ufficialmente l’avvio da parte del governo Wilson e ne preparò la più compiuta realizzazione durante la guerra.
Il favore dello Stato verso i settori padronali che si affidavano allo contrattazione collettiva e al riconoscimento delle Unions, come strumenti per contenere la conflittualità e mantenere la normalità produttiva, indusse la classe operaia, in assenza del suo partito, a rafforzare le Unions e l’AFL.
La cooperazione nelle imprese restava comunque condizionata alla volontà padronale, mentre tutti gli strumenti giuridici di discriminazione antisindacale, che permettevano spesso di estromettere o di impedire l’ingresso in fabbrica delle Unions, restarono in vigore e vennero confermati in diverse sentenze delle Corti.
La forza delle Unions fondate sul mestiere, che non tendevano all’organizzazione di tutta la classe operaia, stava nella capacità di raggiungere e mantenere un controllo del mercato del lavoro nell’azienda o nella categoria. Ciò era ancor più acuito dalle caratteristiche storiche dello sviluppo economico americano, segnato da una generale sovrabbondanza di forza lavoro. Per questo esse avevano sempre mirato all’imposizione del closed shop, il controllo delle assunzioni, che impediva agli imprenditori di ricorrere all’esercito industriale di riserva. Ora, le diverse offensive padronali contro le organizzazioni dei lavoratori, sommate alla distruzione della loro base a seguito della razionalizzazione produttiva, che faceva scomparire la classica figura dell’operaio qualificato, si erano incentrate sull’attuazione dell’open shop, che ripristinava il potere dell’imprenditore sulle assunzioni ed i licenziamenti. Questo significava che l’organizzazione dei lavoratori poteva essere facilmente espulsa da una fabbrica attraverso un ricambio accelerato della manodopera.
Il complemento dell’open shop era il contratto yellow dog, un contratto individuale in cui il lavoratore s’impegnava a non iscriversi ad una Union, o a non pretendere la contrattazione collettiva o a far sciopero. A mantenere al padronato queste armi vennero sentenze della Corte Suprema che annullavano precedenti sentenze contro i contratti yellow dog, in quanto in contrasto con il 14° Emendamento della Costituzione secondo cui non si poteva privare una persona «della libertà e della proprietà senza un dovuto processo».
Così, mentre sul piano giuridico e politico i sindacati ottenevano significativi riconoscimenti e la contrattazione collettiva era accettata da ampi settori della borghesia e del governo, rimanevano intatti tutti i diritti del padronato ad una conduzione violentemente antisindacale dei rapporti di lavoro.
L’unico importante successo che l’AFL ottenne in questo periodo fu l’avvio della legislazione di contenimento dell’immigrazione, che nel dopoguerra sarebbe giunta al virtuale blocco degli arrivi in massa dall’Europa. D’altronde il padronato puntava a sostituire la riserva di forza lavoro proveniente da fuori con l’incremento del lavoro femminile, con lo spostarsi dalle campagne alle città e, soprattutto, con la grande migrazione dei negri dal Sud alle grandi città industriali del Nord.
Quest’ultima migrazione interna era dovuta a una serie di fattori che meriterebbero una trattazione a parte: in primo luogo eventi meteorologici uniti a infestazioni di insetti avevano azzerato la produzione di cotone di tanti piccoli agricoltori, che avevano dovuto pagare i debiti con i risparmi, con i muli, o addirittura con la piccola proprietà; poi una politica degli Stati del Sud tesa negli decenni precedenti a escluderli dai diritti civili; infine una serie infinita di discriminazioni, persecuzioni, linciaggi per tenerli separati dai diseredati bianchi e come riserva di forza lavoro in condizioni di servaggio di fatto. I dati ufficiali dicono che solo nel 1916 e nel 1917 giunsero nelle concentrazioni industriali del Nord tra i 500.000 ed i 700.000 negri. Spesso, giocando sulle divisioni e i pregiudizi razziali, erano usati come crumiri contro le lotte degli operai bianchi, così come negli anni precedenti si era cercato di fare con gli immigrati.
La ragione di questo cambiamento di strategia era che i lavoratori di recente immigrazione, impiegati in gran quantità alle catene di montaggio, erano divenuti un fattore d’instabilità sociale, presto trasformati nel maggior pericolo per il sistema economico e sociale delle Corporations. Perciò nel periodo della preparedness venne dato il via ad un attacco politico e repressivo contro le organizzazioni nelle quali gli immigrati si sarebbero potuti identificare: le organizzazioni radicali e di sinistra, in particolare l’IWW, attacco che sarebbe poi montato fino alla Red Scare del primo dopoguerra. L’ondata repressiva verso i socialisti e gli IWW, e più in generale verso tutte le occasioni di lotta sociale e politica che si ponevano al di fuori del modello di cooperazione tra lavoro e capitale, costituiva il complemento della politica di integrazione delle Unions e di consolidamento di un rapporto privilegiato tra l’AFL, gli imprenditori ed il governo.
Mentre si moltiplicavano gli interventi violenti contro le lotte operaie, soprattutto se interessavano le industrie impegnate nei programmi di riarmo e per la mobilitazione bellica, la repressione andava assumendo i connotati della crociata patriottica e nazionalista che, approfittando del radicalismo e dell’origine straniera di molti scioperanti al di fuori della tutela delle Unions conservatrici, li bollava come traditori del Paese. La repressione era facilitata, ed otteneva un certo consenso, in una situazione generale che vedeva le forze socialiste e di estrema sinistra in fase calante rispetto agli anni precedenti, e queste tendenze in forte isolamento sociale. La politica riformista, per quanto moderata, impostasi durante il primo governo Wilson, e la campagna ideologica condotta principalmente dalla NCF, mirante a sottolinearne i pregi in alternativa ai programmi socialisti, avevano indebolito l’influenza socialista negli ambienti riformatori e favorito quella strategica alleanza tra Big Business e interessi middle class che caratterizza storicamente questa epoca “progressista”.
Le elezioni del 1916 testimoniarono di quest’arretramento dei socialisti, i cui voti, dagli 897.000 del 1912, scesero a 590.000. Aveva fatto presa l’immagine “liberale” che il governo presentava di sé, costruita nei suoi quattro anni di vita ed in particolare negli ultimi mesi precedenti le elezioni, vantando la nuova regolamentazione del lavoro minorile e con la legge sulle otto ore per i ferrovieri, per finire con la promessa di mantenere il Paese fuori dal conflitto europeo, una intenzionale menzogna.
Il movimento sindacale partecipò attivamente alla campagna elettorale di Wilson, e furono proprio alcune delle Unions più tradizionalmente vicine al Partito Socialista, come la Western Federation of Miners e la International Association of Machinists, a spostarsi nell’area elettorale del Partito Democratico. Il rapporto di fiducia stabilitosi tra la AFL e il governo Wilson permetteva che le riforme da questo fate approvare, benché non producessero alcun sostanziale mutamento nella vita della maggior parte dei lavoratori, apparissero come una alternativa istituzionale alla prospettiva politica di classe e rivoluzionaria, e furono sufficienti ad arrestare la crescita costante di cui il Partito Socialista aveva goduto nei quattro anni precedenti.
Si scrive “cooperazione”, si legge “collaborazione”
L’intervento degli Stati Uniti alla Prima Guerra mondiale, che ne sancì l’emergere quale nazione imperialista dominante, fu, tra l’altro, il risultato del processo di espansione e penetrazione economica nel mercato internazionale da tempo intrapreso.
La guerra sancì la definitiva affermazione sul piano della politica internazionale e della direzione dello sviluppo economico delle scelte delle grandi Corporations. Essa vide anche giungere a compimento l’operazione politica da tempo avviata nei confronti del movimento operaio da parte dei più perspicaci governanti. La tradizionale strategia della NCF, tesa alla divisione del movimento dei lavoratori, alla repressione delle organizzazioni che ne rappresentavano le tendenze classiste e rivoluzionarie, ed al riconoscimento e alla cooperazione con quelle moderate, filocapitalistiche ed ora anche patriottiche, divenne negli ultimi mesi della preparedness la politica ufficiale del governo federale, ottenendone così un’organica ed estesa applicazione.
I vertici dell’AFL ovviamente assecondarono con tutti i mezzi questa evoluzione, confermando senza alcun pudore il definitivo e totale asservimento al Capitale. «Il nostro paese – disse Gompers – ha l’opportunità di divenire il banchiere del mondo, il grande protagonista del commercio mondiale». La preparedness vide l’ulteriore avvicinarsi delle Unions conservatrici alla politica del governo, il quale cercava di cogliere i frutti di tale “opportunità” con ben altra energia.
Nei primi mesi del 1917 l’imminenza della guerra spinse la direzione dell’AFL a serrare le file sia verso l’esterno sia nei confronti del corpo dell’organizzazione. Durante una riunione non ufficiale del Consiglio Esecutivo della Federazione Gompers propose di convocare il più rapidamente possibile una conferenza nazionale di tutte le Unions in modo da prendere una posizione chiara ed inequivocabile sulla guerra, affinché il movimento sindacale non fosse colto di sorpresa dalla dichiarazione di guerra alla Germania. Si voleva evitare il rischio che gli imprenditori, approfittando dell’emergenza nazionale, troppo apertamente si avvantaggiassero sui sindacato, del quale si puntava a dare la migliore immagine possibile. Inoltre ci si voleva presentare al governo con delle posizioni chiare in modo da farlo certo di poter contare senza riserve sulle Unions. Fu convocata per il 12 marzo a Washington una conferenza dei dirigenti di tutte le più importanti organizzazioni per formulare «una precisa politica costruttiva» e definire i principi in base ai quali il movimento dei lavoratori «coopererà alla difesa nazionale». Gompers aveva già fatto sapere che intendeva «compiere ogni passo necessario per tenere a freno le opinioni di dissenso sulla guerra che erano presenti nelle file del movimento operaio organizzato».
La conferenza produsse un documento che non accennava nemmeno all’opportunità di entrare in guerra, tanto era scontata l’approvazione da parte sindacale. Il documento prometteva il massimo impegno patriottico, e chiedeva al governo che riconoscesse «il movimento organizzato dei lavoratori come l’Agenzia attraverso cui (...) cooperare con i lavoratori salariati». Conseguentemente i suoi rappresentanti avrebbero dovuto far parte «di tutte le Agenzie per la determinazione e l’amministrazione della politica di difesa nazionale». Se queste Agenzie avessero adottato una politica conforme alle esigenze dei lavoratori, facendo in modo che si rispettassero ovunque gli standard sindacali in materia d’orario, salario e condizioni di lavoro, in cambio il sindacato garantiva la massima collaborazione allo sforzo bellico.
Almeno ufficialmente, pochissime Unions espressero deboli critiche alla risoluzione della conferenza di marzo; tra queste spiccavano la Western Federation of Miners e la Typographical Union, che non parteciparono alla riunione. Solamente alcune Unions indipendenti, in particolare dell’abbigliamento, si schierarono con la campagna anti-interventista condotta dai socialisti, i quali videro rapidamente diminuire la propria influenza all’interno delle organizzazioni sindacali, benché le loro posizioni incontrassero un crescente consenso tra i lavoratori, come dimostrarono alcune scadenze elettorali dei mesi successivi.
Ma il Capitale non aveva rinunciato all’offensiva.
L’entrata in guerra vide lo smantellamento delle diverse misure di legislazione del lavoro degli Stati in quanto la mobilitazione avrebbe richiesto l’abolizione di ogni restrizione al completo utilizzo del potenziale di lavoro del paese. In particolare si cercava di ottenere la revoca o la sospensione delle leggi sul lavoro minorile, sulla limitazione dell’orario di lavoro delle donne, sull’esclusione dell’immigrazione dall’estremo oriente e, in alcuni Stati, come la West Virginia, si proposero anche leggi per vietare lo sciopero. Anche se qualche misura in qualche Stato fu approvata, in generale prevalse l’atteggiamento dello Stato federale, teso a definire in modo uniforme le condizioni di lavoro, anche nella prospettiva della pianificazione dell’attività produttiva.
Ma la marea montante delle lotte per aumenti salariali e le otto ore non poteva essere affrontata con la semplice repressione, che avrebbe rischiato di scatenare un precipitare dello scontro di classe, e una radicalizzazione del proletariato. D’altronde il boom prodotto dalle ordinazioni del governo e degli alleati portava alle Corporations, e soprattutto alle più grandi, dei profitti enormi: quelli della US Steel ad esempio passarono da una media annua di 76 milioni di dollari nel triennio 1912-1914 a 478 milioni di dollari nel 1917, mentre le cifre aggregate dei guadagni netti dell’industria americana salirono dai 4 miliardi di dollari del 1913 (l’anno fino ad allora migliore) ai 7 miliardi del 1916 ed a cifre ancor maggiori per il 1917. Ciò rendeva possibile una politica di aumenti salariali, che molte Corporations concessero, tesa a contrastare l’inflazione o quanto meno a mascherarne gli effetti sul potere d’acquisto dei lavoratori.
Così, se veniva abolito il limite delle otto ore nelle attività in cui era stato conquistato, si retribuivano le ore in eccesso in misura del 50% in più.
Tutto ormai dipendeva dalle decisioni governative e dall’arbitrato delle Agenzie appositamente create dopo il Council of National Defense. Lo stesso Presidente Wilson si curò di richiamare i governi dei vari Stati affinché non si approfittasse della situazione per legiferare ai danni dei lavoratori.
La repressione delle organizzazioni di classe
Tutti questi provvedimenti avevano però un’influenza minima sul complesso della situazione economica e sociale, in cui dominavano, nonostante la regolamentazione statale, da una parte il caos capitalistico e l’anarchia di una ripresa produttiva tanto intensa, caratterizzata da una fortissima concorrenza, dall’altra un ulteriore estendersi delle rivendicazioni operaie e degli scioperi per sostenerle. Le imprese si contendevano gli operai, e fra gli imprenditori il labor stealing, il “furto di manodopera”, diventò una fonte di forza per gli operai: non erano più loro a concorrere per i posti ed i salari, ma gli imprenditori a concorrere per la manodopera; ne conseguiva una fortissima spinta alla lotta per il salario e una crescente mobilità dei lavoratori, che andavano là dove erano nuovi posti di lavoro e salari più alti. Si ebbe così una rapidissima congestione dei centri industriali, nei quali, non essendosi presi sufficienti provvedimenti per alloggiare gli operai, si ebbe un enorme rincaro degli affitti, con inasprimento delle differenze salariali tra i vari settori e regioni diversamente impegnati per la guerra. Tutto ciò, e l’inflazione fortissima che ne derivava, accrebbe ulteriormente l’agitazione sociale e l’espandersi degli scioperi.
La situazione sembrava quindi andare verso una progressiva radicalizzazione, in cui avrebbero potuto dilagare gli scioperi selvaggi ed espandersi l’influenza delle organizzazioni di sinistra: in molte zone, e particolarmente all’Ovest, dove era assai più debole la presenza della AFL, scoppiarono scontri durissimi tra lavoratori e padronato. Una simile evoluzione verso lo scontro sociale più duro era all’ordine del giorno in tutti i settori industriali in cui non esisteva una pratica di accordi sindacali, e la AFL non mancava di sottolinearlo per accelerare i tempi della diffusione della contrattazione collettiva e del proprio riconoscimento come affidabile intermediario tra le esigenze del Capitale e la classe operaia.
Di fronte a questa situazione, in vista dell’impegno bellico, il governo federale cominciò a muoversi sempre più decisamente in direzione di una offensiva nei confronti dell’agitazione sociale, basata su concessioni alle organizzazioni favorevoli alla guerra, come l’AFL, e sulla soppressione delle organizzazioni e delle riviste antibelliciste. Si delineò presto un’attività diffusa e capillare di disintegrazione delle organizzazioni che avrebbero potuto consolidare uno scontento e un’opposizione alla guerra. Il primo strumento furono le leggi contro il sindacalismo (criminal syndicalism) che diversi Stati occidentali, a cominciare dall’Idaho e dal Minnesota, votarono nel corso della primavera del 1917 e negli anni seguenti. Esse stabilivano gravi pene (in genere da 1 a 10 anni di reclusione, ma il massimo poteva salire a 25 anni) per dei reati tipicamente d’opinione come la propaganda e l’agitazione. Potevano esser ritenuti colpevoli non solo coloro che propagandavano tali dottrine, ma anche chi le condividesse o appartenesse ad organizzazioni che vi si ispiravano e persino coloro che avessero concesso i locali per riunioni. È da notare infine che tali leggi contenevano spesso delle clausole che le sottraevano alla possibilità di referendum popolare abrogativo!
Alle leggi sul “sindacalismo criminale” se ne aggiunsero presto altre che tendevano a colpire ogni atteggiamento contrario al governo ed all’ordine costituito o alla bandiera, le quali stabilivano, per esempio, che non potesse essere portata in una manifestazione «alcuna bandiera rossa o nera e nessuno stendardo, emblema od insegna che porti scritte contrarie al governo costituito, o che siano sacrileghe, o che possano essere offensive per la morale pubblica». In tal modo veniva affidato ai vari poteri degli Stati ogni sorta di strumento per colpire le agitazioni e la protesta popolare. In genere le leggi erano dirette a reprimere in modo particolare gli IWW e le loro attività poiché, soprattutto negli Stati occidentali, erano individuati come i più pericolosi organizzatori del malcontento operaio. Ma spesso le leggi andavano oltre: diverse clausole colpivano, quando ciò fosse stato opportuno, anche certe attività delle Unions conservatrici o delle comuni libertà civili.
Le Unions conservatrici erano talmente prese dal vortice della mobilitazione patriottica che le Federazioni statali della AFL non si opposero alla promulgazione delle leggi sul “sindacalismo criminale”, limitandosi, peraltro con scarso successo, a premere perché ne fossero escluse le loro organizzazioni; non furono mai apertamente contrarie alla legislazione repressiva e alla loro applicazione pratica, che la loro campagna patriottica ed antiradicale contribuì certo a facilitare. Anche se poteva essere utilizzata in funzione puramente antisindacale, accettavano con piacere una legislazione che faceva fuori le altre organizzazioni che avrebbero potuto influenzare la classe operaia.
Attivo sostenitore e promotore di tali leggi fu ovviamente il padronato, che mirava a sfruttare il clima di guerra per dotarsi di ulteriori strumenti di repressione delle lotte operaie. La paternità dei progetti di legge fu infatti quasi sempre di un qualche gruppo od associazione imprenditoriale. Intorno a queste forze si erano poi radunate tutte le organizzazioni patriottiche, come la American Legion, i più importanti organi di stampa, ed i più influenti circoli politici. In tal modo si diffuse nei primi mesi di guerra una frenetica mobilitazione di carattere locale degli apparati pubblici, dei maggiori interessi politici ed economici, di gruppi di vigilantes o di volontari, che chiudevano le sedi del Partito Socialista e degli IWW, ne cacciavano i militanti, ne distruggevano la rete organizzativa, usufruendo di sempre maggiori strumenti istituzionali che ne coprivano l’opera.
In questo quadro si aggiunse, all’inizio dell’estate 1917, l’iniziativa di carattere nazionale del governo federale: il 15 giugno il Congresso votava l’Espionage Act, una legge richiesta direttamente dal presidente per dotare il governo di ampi poteri di repressione. Wilson aveva richiesto ai parlamentari di autorizzare la censura diretta della stampa da parte della Casa Bianca, ma la proposta era stata bocciata sia per le proteste vivacissime della stampa sia per il timore del legislativo di concedere una simile discrezionalità all’esecutivo. Un altro articolo dell’Espionage Act che fu invece approvato dava al Direttore delle Poste l’autorità di bloccare l’inoltro di qualsiasi materiale incitasse «al tradimento, all’insurrezione o alla resistenza nei confronti di qualsiasi legge degli Stati Uniti». Furono così confiscati quasi tutti i principali giornali socialisti, privando il partito dei suoi strumenti di propaganda e gettando nello scompiglio le sue organizzazioni locali tagliate dai contatti con il centro.
Inoltre il governo e i tribunali attaccarono gli oppositori con una lunga serie di incriminazioni che colpivano sia i dirigenti sia molti membri alla base del partito. Tali iniziative, e la grande campagna propagandistica che le accompagnava, alimentarono naturalmente la violenza e l’attività squadristica in tutte le zone del paese, il lavoro dei militanti dovette diventare semiclandestino e le manifestazioni pubbliche difficilissime a farsi, ed ancor più a portarsi a termine. Si calcola che nell’ultimo anno della guerra furono circa 1.500 le sedi del partito distrutte, su di un totale di circa 5.000, e ciò, unito alla soppressione dei giornali ed all’arresto di parecchi attivisti, indebolì molto il partito, soprattutto nell’Ovest e nel Midwest.
Questa furiosa campagna repressiva era probabilmente resa ancora più urgente dal notevole consenso che il Partito Socialista andava guadagnando tra i lavoratori e gli agricoltori in virtù della sua opposizione alla guerra, e di cui si ebbero precisi riscontri in alcune elezioni locali. Malgrado le notevoli difficoltà della sua campagna elettorale, e la terroristica campagna di stampa di cui era fatto oggetto, il partito moltiplicò infatti i suoi voti in modo impressionante: nelle elezioni di Dayton (Ohio) tenutesi il 14 agosto, i socialisti ottennero il 44% dei voti contro il 6,5% dell’anno precedente; a Buffalo, il mese seguente, passarono dal 13 al 32% dei voti, a Chicago ottennero il 34%, a Cleveland il 22,4% ed a New York, in un’elezione di notevole rilevanza nazionale, il 21,7%. Tali successi erano pressoché totali nei piccoli centri industriali o, nel caso delle grandi città, nei rioni operai, a testimonianza del carattere di classe che l’opposizione alla guerra rivestiva.
L’altro obbiettivo principale della campagna repressiva furono gli IWW, attaccati soprattutto nel loro centro nazionale ed in quelle situazioni di lotta operaia nell’Ovest che costituivano i loro principali punti di forza. Dai borghesi di diverse zone dell’Ovest cresceva la pressione perché fossero presi provvedimenti eccezionali contro la presenza e l’influenza tra i lavoratori dei wobblies. Dopo aver ottenuto il passaggio delle leggi contro il “sindacalismo criminale”, ed aver avviato una campagna contro gli IWW, gli imprenditori ed i governanti di diversi Stati cominciarono a rivolgersi al governo federale affinché sciogliesse l’organizzazione. Il governo sulle prime rispose in modo negativo, ma diede il via ad un’inchiesta sull’organizzazione, diretta dal Dipartimento della Giustizia. Nel frattempo erano prese dagli Stati le più diverse iniziative di repressione.
Il
governo federale accolse infine le pressioni. Verso la fine
dell’estate diversi giuristi, in seguito all’indagine del
Dipartimento della Giustizia, gli suggerirono di incriminare gli IWW
di cospirazione per aver violato la legge sul servizio di leva e
l’Espionage
Act.
Il governo, e il presidente Wilson, approvarono il progetto. Il 5
settembre agenti federali, insieme agli sceriffi locali, fecero
irruzione in tutte le sedi degli IWW del Paese, a partire dalla
direzione nazionale a Chicago, ed il 28 dello stesso mese una corte
federale incriminò per cospirazione 166 dirigenti degli IWW, tra cui
tutti i maggiori esponenti nazionali. Iniziò così una serie di
processi contro i membri dell’organizzazione che la decapitarono
dei suoi quadri dirigenti e finirono per trasformarla da combattivo
sindacato industriale in un comitato di difesa legale.
Nel paese in guerra, il sindacato come istituzione
Il paese era in guerra e la borghesia non poteva ammettere le voci di dissenso che di solito si accompagnano alle lotte rivendicative. Queste non cessarono mai del tutto nel breve periodo bellico che riguardò gli Stati Uniti.
Alla repressione di qualsiasi manifestazione di lotta di classe, e alla mobilitazione patriottica ed antioperaia che l’accompagnava, si affiancò ben presto un’altra iniziativa volta a contrastare l’influenza della propaganda antibellicista all’interno del movimento operaio.
I dirigenti della AFL ed alcuni esponenti della destra socialista, appena usciti dal partito proprio perché contrari alla sua posizione contro la guerra, si preoccuparono di portare il movimento operaio ad appoggiare la mobilitazione. Vollero perciò dar vita ad una organizzazione per combattere l’influenza delle idee e della propaganda pacifista fra i lavoratori che fosse composta di rappresentanti delle organizzazioni sindacali e di socialisti, naturalmente fuoriusciti dal partito. Quando Gompers iniziò ad elaborarne i piani, Ralph Easley (della NCF), pienamente d’accordo con l’iniziativa, gli consigliò di rivolgersi al governo per i necessari finanziamenti. In particolare suggerì di cercare l’appoggio di George Creel, il capo dell’ufficio per la propaganda di guerra (il Committee on Public Information), che disponeva di un fondo speciale del presidente e ne poteva disporre a piacimento. Lo stesso Wilson del resto aveva già consigliato a John Spargo, il leader dei socialisti interventisti che gli aveva sottoposto il progetto, di «non perdere tempo a raccogliere denaro per l’organizzazione» dato che avrebbe messo a disposizione i soldi del fondo speciale.
Sorse così la American Alliance for Labor and Democracy (AALD) che tenne la sua prima Convention a settembre, a Minneapolis: Gompers ne era il presidente e due ex-socialisti i principali esponenti. L’AALD doveva favorire e promuovere l’abbandono del Partito Socialista di tutti coloro che erano insoddisfatti della sua posizione antibellicista e, soprattutto, tentare di conquistare i lavoratori alla causa della guerra. I suoi compiti erano quindi di propaganda e caratteristica principale apparire, o per lo meno l’avrebbe voluto, come un’iniziativa completamente gestita dai lavoratori e dalle loro organizzazioni, in modo da accreditare una immagine della patria in guerra la più vicina possibile ai loro interessi. Ciò fu sottolineato da George Creel che, aderendo alle richieste di finanziamento di Gompers e soci, precisava che l’intero movimento doveva essere governato e diretto dai lavoratori e che il governo non doveva assolutamente comparire come il vero promotore dell’iniziativa. Così la guerra, dopo aver consentito l’inglobamento definitivo dei sindacati ufficiali nella struttura statale, arrivava a giustificare un partito “operaio” di emanazione statale.
In realtà il governo federale non si limitava a fornire i fondi necessari all’organizzazione, ma ne teneva saldamente in mano la direzione per mezzo di Creel, che sovraintendeva ad ogni attività della AALD e manteneva uno stretto controllo sia sulle questioni finanziarie sia sulla sua politica. In tal modo, con la collaborazione di ex-socialisti e di dirigenti delle Unions, il governo cercava di dare alla propaganda di guerra un aspetto credibile ai lavoratori, affiancando alla repressione dei socialisti e dei radicali un tentativo di loro isolamento ideologico e pratico.
In realtà la AALD non ottenne i successi che speravano i suoi promotori: il sostegno alla guerra della classe lavoratrice rimase piuttosto tiepido e la stragrande maggioranza dei socialisti continuò ad opporvisi. La AALD invece riuscì ad accelerare l’integrazione delle Unions nello schieramento governativo, patriottico ed “americano”, che nel conflitto celebrava i suoi fasti, integrazione che all’inizio non era certo scontata per molte delle Unions.
Nel corso dell’estate del 1917 prese corpo, a fianco dell’iniziativa contro le organizzazioni socialiste e di estrema sinistra, una pratica di cooperazione tra le Unions ed il governo in alcuni importanti settori della produzione bellica: essa si basava su una serie di accordi che regolavano le condizioni di lavoro e la presenza stessa delle Unions all’interno delle industrie che operavano con contratti governativi.
Per il governo il principale problema era costituito dalla determinazione con cui le Unions, sentendosi particolarmente forti per l’enorme domanda di forza lavoro e per l’urgenza delle produzioni, chiedevano che in tutti i contratti fossero rispettate le condizioni salariali e normative sindacali e, soprattutto, il closed shop. Per il governo il problema risiedeva nell’accresciuta combattività operaia, nella richiesta del closed shop da parte delle Unions e in una certa insofferenza del padronato verso gli aumenti salariali, visto che nelle industrie belliche i profitti erano garantiti dallo Stato: mentre le industrie si contendevano gli operai a suon di aumenti di paga, lo Stato ne avrebbe dovuto compensare i maggiori costi.
L’esigenza di una regolamentazione della situazione era perciò urgentissima, e richiedeva da parte del governo delle scelte precise verso le Unions e le loro rivendicazioni. Fu quindi istituita un’Agenzia (una delle tante padroni-governo-sindacati che sorsero nel periodo della guerra) per la determinazione ed il controllo dei salari, degli orari e delle condizioni di lavoro: era composta da un rappresentante dell’esercito, da uno del “pubblico” e da uno del movimento sindacale. Le decisioni della Commissione, vincolanti dalle parti, riuscirono ad appianare i problemi più pressanti, che impedivano una decisa ed immediata crescita della produzione e che provocavano un costante stato di tensione nei cantieri, concedendo alle Unions le condizioni salariali e normative da loro richieste – cosa che indubbiamente dava loro un certo prestigio e seguito fra i lavoratori – in cambio della definitiva rinuncia al closed shop. Per gli imprenditori, che più di tutto temevano proprio il crescere del potere del sindacato attraverso il suo controllo sulle assunzioni, e che non avevano particolare interesse all’entità degli aumenti salariali, l’accordo rappresentò un indubbio successo.
Altre Agenzie furono create per la composizione dei conflitti di lavoro nei settori di rilevanza militare. La più importante fu di emanazione presidenziale, la commissione presidenziale di mediazione (President’s Mediation Commission) che Wilson nominò il 19 settembre 1917 per affrontare l’emergere di importanti focolai di lotta operaia nelle zone occidentali del paese.
La sua istituzione rispondeva all’esigenza, ormai improrogabile per il governo, di affiancare le iniziative repressive verso gli IWW con un’opera di trasformazione delle condizioni materiali e sindacali in cui si trovavano quei settori di lavoratori che nelle loro lotte cercavano un’organizzazione radicale o ne mutuavano i metodi e gli obbiettivi. La presenza degli IWW all’interno degli scioperi, e la forza crescente che stavano acquisendo, corrispondeva allo sviluppo di una notevole radicalità nelle lotte là dove vi erano salari bassissimi ed orari ben più lunghi di otto ore, e dove, sia per la debolezza delle Unions di mestiere, sia per l’intransigente oltranzismo padronale, non esistevano meccanismi di mediazione dei conflitti e tanto meno una pratica organica di contrattazione collettiva.
Verso la fine dell’estate l’agitazione, in particolare nelle miniere di rame dell’Arizona e nell’industria del legname del Nord-Ovest, era giunta ad un punto tale da rappresentare una minaccia per la produzione bellica e per la pace sociale. Erano state proprio le strutture locali della AFL in Arizona, insieme ai vertici nazionali della Federazione, a rivolgersi al presidente Wilson e a chiedergli d’intraprendere una qualche azione per proteggere i diritti dei lavoratori dello Stato. Analoghe richieste erano giunte a Washington anche da altre zone occidentali del paese dove le Unions erano molto deboli e si vedevano schiacciate dal crescere dello scontro tra il radicalismo dei lavoratori e l’indiscriminata repressione padronale e poliziesca. I sindacati tradizionali, di fronte alla scelta tra unirsi ai lavoratori più combattivi mettendo a loro disposizione le potenti strutture organizzative di cui disponevano, o rivolgersi allo Stato borghese, apparentemente per proteggere i lavoratori, in realtà per essere aiutate a riprendersi una posizione egemone nella classe, non ebbero dubbi, in quanto il loro cammino verso l’integrazione sostanziale nello Stato non era più reversibile.
Nei distretti minerari i lavoratori, per la maggior parte di recente immigrazione, erano scesi in lotta oltre che per ottenere aumenti salariali e riduzioni d’orario, per porre fine a ciò che la stessa Commissione definì poi una «conduzione autocratica dell’industria». Ai lavoratori, infatti, era praticamente impedita ogni forma di organizzazione collettiva ed il dominio del padronato sulle autorità politiche e di polizia era tale da scatenare la più brutale repressione di fronte alla minima agitazione. La deportazione nel deserto di mille scioperanti di Bisbee, dove la lotta era guidata dagli IWW, ma nel corso della quale gli scioperanti avevano osservato un atteggiamento totalmente pacifico, era stata eseguita dalle guardie private delle compagnie guidate dallo sceriffo! Le Unions di mestiere, piuttosto deboli, non avevano alcuna possibilità d’intervento nello scontro, e non avevano potuto fare altro che rivolgersi a Washington, sperando che l’intervento del governo eliminasse gli IWW, permettendo loro di conquistare nuovi iscritti.
La President’s Mediation Commission, avendo lo scopo di far immediatamente riprendere l’estrazione del rame e garantire le condizioni di un regolare andamento del lavoro per tutto il corso della guerra, decise di intervenire drasticamente contro quegli elementi che spingevano verso la prosecuzione e la precipitazione dello scontro. Impose agli imprenditori un piano in cui veniva istituito in ogni miniera un Comitato dei Lavoratori rappresentativo di tutti gli operai, indipendente da ogni influenza della Compagnia ed aperto alla partecipazione di membri delle Unions; in tal modo si cercava di assicurare un meccanismo di confronto e di contrattazione che risolvesse le vertenze. Alle Unions fu garantita la fine di ogni discriminazione antisindacale e la riassunzione di tutti gli scioperanti, ad eccezione di «quelli colpevoli di espressioni sediziose verso gli Stati Uniti o quelli membri di un’organizzazione che non riconosce l’impegno del contratto». Si sanciva così l’estromissione di tutti i membri degli IWW e di quanti si erano distinti nell’organizzazione della lotta, consegnati alla persecuzione degli organi giudiziari e di polizia. In tal modo il governo finiva per concludere l’opera di repressione iniziata dalle autorità locali, ed imponeva ai lavoratori che i loro rappresentanti potessero venir scelti solo tra le organizzazioni disponibili alla cooperazione. Analoghe misure furono prese in altre simili situazioni sulla costa Ovest.
Si dava così avvio alla contrattazione collettiva e si garantiva alle Unions, quelle affiliate alla AFL, il riconoscimento e la fine della discriminazione antisindacale da parte delle Compagnie. La “democrazia industriale” aveva un confine invalicabile: avevano diritto di lavorare, e di rappresentare i lavoratori, solo coloro che aderivano alla politica d’unità nazionale. Come scrisse la Commissione stessa, agli operai erano ora «concesse le possibilità di diventare disciplinati, attraverso un’organizzazione responsabile, con il risultato di una accresciuta efficienza». Allo stesso tempo la repressione contro gli IWW diveniva sistematica e spietata. Più in generale tutta l’attività della President’s Mediation Commission mostrò in modo illuminante quale importanza il governo annettesse alla contrattazione collettiva ed agli accordi sindacali.
Assai interessante è notare cosa la Commissione fece là dove le Unions non esistevano o erano troppo deboli per garantire la rappresentanza dei lavoratori: gli shop committees, i comitati dei lavoratori, instaurati tanto nelle miniere dell’Arizona quanto nei campi petroliferi della California, non coincidevano con le Unions, anzi tendevano ad esserne i sostituti. Le loro caratteristiche li distinguevano da quelli con lo stesso nome già esistenti in Gran Bretagna: in primo luogo rappresentavano i lavoratori di una sola azienda, anche se molto piccola; il padrone e i suoi rappresentanti erano ammessi alle riunioni; erano in genere di iniziativa padronale e non avevano alcun legame con i sindacati. In tal modo tendevano alla costituzione di sindacati aziendali, che si affermarono nell’immediato dopoguerra con le Company Unions. Tale tendenza era tutt’altro che in contrasto con la politica del governo, scaturendone anzi abbastanza naturalmente come sbocco, una volta che le Unions di mestiere della AFL fossero state colpite alla radice dalla diffusione della razionalizzazione produttiva e dall’inasprirsi dello scontro sociale, come avvenne negli anni che seguirono la fine del conflitto mondiale.
Nonostante questa alleanza tra padroni, sindacati venduti e Stato, la combattività della classe operaia non fu mai del tutto scongiurata, al contrario. Il 1917 fu l’anno con il maggior numero di scioperi del decennio, e il 1918 non fu da meno. Nonostante la nascita nel luglio 1917 del War Industries Board, che avrebbe dovuto controllare tutti i settori produttivi coinvolti nello sforzo bellico, all’inizio del 1918 centinaia di scioperi erano in corso in tutto il paese nelle industrie di importanza vitale per la guerra.
Incontestabilmente, gli scioperi o la paura degli scioperi furono le cause principali del miglioramento delle condizioni di lavoro. Il riconoscimento delle Unions, il loro inserimento nelle sedi preposte alla regolazione dei conflitti ed alla determinazione delle condizioni di lavoro, l’estensione della contrattazione collettiva e l’abbandono padronale della discriminazione antisindacale, traevano la loro origine proprio dalla impossibilità di altrimenti frenare l’agitazione operaia. Proprio per questo il governo non esitò a ricorrere ad altri mezzi, come gli shop committees, quando per garantire la contrattazione collettiva non era necessario ricorrere alle Unions o queste non erano sufficientemente forti. E fu anche per questo che il governo concesse alle Unions solo quelle contropartite che erano indispensabili per ottenere la loro collaborazione, ma non, ad esempio, il closed shop, che avrebbe dato ai sindacati delle posizioni di forza ed avrebbe provocato uno scontro aperto con consistenti settori del padronato.
Lo Stato affina le armi
Nella prima fase della guerra il governo intervenne a regolare le condizioni di lavoro in particolare nei settori industriali direttamente chiamati a rifornire le forze armate o a consentirne l’operatività. I salari, per lo meno quelli nominali, salirono fino a raggiungere i livelli previsti dalle tabelle sindacali, anche dove non era stata stabilito da precedenti accordi, come nel caso dei cantieri navali. Ciò derivava dalla pressione che, malgrado tutto, i dirigenti sindacali inseriti nelle varie Agenzie potevano esercitare. Ma la ragione principale stava indubbiamente nel fatto che senza tali aumenti la lotta operaia sarebbe esplosa con asprezza ed estensione, eliminando ogni possibilità di garantire la pace sociale e rendendo impossibile l’uso delle Unions come strumenti di conciliazione e di “responsabilizzazione” dei lavoratori.
In quanto all’orario, fu sancito dappertutto il limite base delle otto ore, con gli straordinari pagati il 50% o anche il 100% in più, il che finì per divenire la regola data l’enorme domanda di produzione. Anche il riconoscimento di questo tradizionale obbiettivo operaio fu dovuto alla sola minaccia di vaste agitazioni: prima ancora che i lavoratori scendessero in lotta per ottenerlo, fu concesso dalle Agenzie padroni-governo-sindacati o dal padronato senza alcun intervento governativo. Gli imprenditori nel loro complesso accettarono questa politica del governo e solo in casi sporadici ci fu una qualche opposizione.
Questa politica consentì un notevole rafforzamento delle Unions all’interno dei luoghi di lavoro, per la maggior libertà che avevano nei confronti degli imprenditori e per la proibizione delle discriminazioni antisindacali. Aumentava il numero degli iscritti mentre accrescevano il loro potere attraverso l’integrazione nell’apparato statale, cioè del tutto all’interno della società borghese, prigionieri ed ostaggio delle sue istituzioni.
Il contraltare era costituito dalla repressione e dalla distruzione delle forze del movimento operaio che rappresentavano l’unica alternativa organizzata alle Unions conservatrici, a deterrente per tutti coloro che intendessero non rispettare la tregua decisa dal governo e dai vertici della AFL.
Questi fattori, mentre contribuivano al rafforzamento delle Unions, ne spostavano la principale ragione di forza dalla capacità di scontro con il padronato, e di vittoria in questo scontro, alla permanenza dei rapporti di cooperazione con il governo. Ciò rendevano le Unions tendenzialmente sempre meno “autosufficienti”, come amavano definirsi, e sempre più legate agli equilibri politici ed al loro orientamento in senso liberal. Questo produceva degli importanti mutamenti all’interno della stessa organizzazione della AFL, dove si accentuavano le tendenze alla burocratizzazione ed al trasferimento dei poteri nelle mani dei vertici.
Nel gennaio 1918 nasce l’ennesima Agenzia, deputata a regolare il mercato del lavoro, la United States Employment Service (USES), un ufficio di collocamento federale col fine di programmare e distribuire la forza lavoro secondo i bisogni dei diversi settori produttivi, rimediando al caos che si era prodotto nel primo anno di guerra con l’anarchica e sfrenata corsa degli imprenditori all’ingaggio di manodopera. Anche assecondò e organizzò direttamente nuovi flussi di forza lavoro verso l’industria per garantire la ricostituzione della riserva di manodopera, che una volta era costituita dagli immigrati europei e che, oltre a non essere più disponibile nella congiuntura della guerra, aveva dimostrato di non essere più un fattore di stabilizzazione sociale poiché si era dimostrata il principale soggetto della lotta operaia e dell’agitazione sociale.
Infine, nel marzo 1918 il presidente Wilson decise di dare al War Industries Board (WIB) quella autorità che gli era fino ad allora mancata, trasformandolo in una Agenzia autonoma, che doveva rispondere solo al presidente stesso, ed il cui direttore disponeva di vasti poteri, sia per ciò che riguardava le priorità nella produzione sia per la distribuzione dei rifornimenti tra i diversi settori. All’interno del WIB inoltre veniva istituito un comitato prezzi (Price Fixing Committee) con il compito di stabilire e controllare i prezzi dei vari prodotti industriali. In definitiva la guerra ebbe l’effetto di imporre un tentativo di autoregolazione dell’industria, sgombrando il campo dalle polemiche politiche sui trusts e realizzando su larga scala quell’interazione tra Stato ed industria che era necessaria al consolidamento del sistema delle Corporations, del tutto compatibile con il capitalismo ma che la borghesia riesce a realizzare, per brevi periodi, in condizioni di estremo pericolo per la sua sopravvivenza o per la sua prima affermazione. Lo statalismo staliniano è nato a Washington.
L’ultima delle Agenzie create dal governo (aprile 1918) fu il National War Labor Board, al quale si chiedeva di espletare una doppia funzione: in primo luogo doveva costituire l’Agenzia centrale di mediazione dei conflitti del lavoro, coordinando il lavoro di tutte le altre Agenzie già in funzione e fungendo da autorità ultima. In secondo luogo doveva occuparsi di istituire e selezionare nuove strutture di conciliazione per i settori produttivi ancora non controllati, in teoria con interesse bellico ma in realtà con amplissimi poteri discrezionali. In tal modo il NWLB divenne una specie di corte d’appello per le dispute non risolte localmente.
Era confermato il diritto dei lavoratori ad organizzarsi in sindacati e a trattare in modo collettivo attraverso propri rappresentanti con gli imprenditori, e si dichiarava esplicitamente che i padroni non potevano licenziare dei lavoratori perché appartenenti ad un sindacato o per aver svolto delle legittime attività sindacali. Venivano così accolte le esperienze di varie Agenzie, ed in particolare della President’s Mediation Commission, che affidavano un ruolo decisivo alla contrattazione collettiva per il contenimento della conflittualità, ma che al tempo stesso delimitavano le possibilità di organizzazione e di attività sindacale nei confini della scelta “patriottica” della cooperazione per l’elevamento della produzione bellica. È evidente, infatti, che con il termine “legittime” non ci si limitava ad indicare tutte le attività giuridicamente considerate legali, ma si sconfinava in un giudizio politico di merito: restava aperta la porta alla repressione di tutti quei lavoratori che non rispettassero gli accordi e la tregua sociale decisa dalle Unions. Il diritto all’organizzazione collettiva era quindi subordinato ancora una volta alla condizione che avesse scopi e metodi omogenei con la politica ufficiale del governo e dei suoi alleati sindacali.
In tutto il periodo della guerra la rivendicazione sulla quale il proletariato industriale lottò ripetutamente e ovunque furono le otto ore, che alla fine furono estese a tutti i settori. Fu proprio l’insistenza dei lavoratori per le otto ore e la loro ostinazione ad organizzarsi e lottare per ottenerle a rendere così generale e diffusa la concessione di questa misura durante la guerra, mentre l’atteggiamento del NWLB e delle altre Agenzie nei confronti dell’orario fu più che altro il risultato della pressione operaia.
Altro punto di interesse del NWLB furono gli shop committees, che ebbero una diffusione senza precedenti ed iniziarono a giocare un ruolo nella composizione delle vertenze direttamente sul luogo di lavoro, attraverso un’attività di conciliazione e contrattazione gestita direttamente dall’imprenditore e dai lavoratori interessati. Alla conclusione della guerra gli shop committees perdettero ogni parvenza di strumenti di lotta e di organizzazione operaia e diventarono Company Unions, sindacati gialli, nucleo della reazione del capitale all’interno di quello che fu designato lo American Plan. Era in fondo la conferma del Rockefeller Plan del 1915.
Nel complesso l’azione delle Agenzie paritetiche non produsse grandi mutamenti sul terreno salariale. I miglioramenti durante la guerra furono in gran parte illusori: benché infatti le retribuzioni fossero aumentate in termini monetari, rispetto al 1914, dell’11,6% nel 1916, del 30% nel 1917 e del 63% nel 1918, ciò fu a mala pena sufficiente a tener dietro al ritmo dell’inflazione; in termini reali infatti i salari aumentarono, rispetto sempre al 1914, del 4% nel 1916, dell’1% nel 1917 e del 4% nel 1918. L’azione del governo e delle sue varie strutture di regolamentazione non aveva fatto altro che impedire una svalutazione delle retribuzioni rispetto all’aumento del costo della vita, ed anche tale risultato fu ottenuto soprattutto in virtù della costante pressione esercitata dai lavoratori con gli scioperi o con la semplice minaccia della lotta.
Il vero ed importante mutamento che si verificò nella struttura salariale, l’incremento reale delle retribuzioni dei lavoratori meno qualificati, e la conseguente diminuzione delle differenze salariali tra le categorie più alte e quelle più basse, fu determinato da un fattore di carattere economico e sociale: per la prima volta i lavoratori non qualificati, generalmente non organizzati nelle Unions, avevano potuto approfittare di una situazione di rigidità del mercato del lavoro, di una carenza di forza lavoro di riserva. Avevano quindi potuto sfruttare tale temporanea ragione di forza per imporre le proprie rivendicazioni tanto agli imprenditori quanto al governo.
La soluzione borghese: patriottismo-democrazia-corporativismo
Nell’ultimo anno di guerra il governo entrò ancora più decisamente nei rapporti tra borghesia e proletariato d’industria. L’istituzione del National War Labor Board e del War Labor Policies Board rappresenta l’avvio di una politica del lavoro volta da un lato a coordinare e centralizzare la regolamentazione dei conflitti, dall’altro a coordinare e fino a un certo punto pianificare la produzione, intervenendo soprattutto sulle condizioni salariali e di lavoro. Un intervento causato dalla contingenza bellica, prima prevista poi reale, che, come d’altronde in altri paesi in situazioni analoghe, richiese un coordinamento delle risorse. In questi casi lo Stato borghese non esita a colpire anche singoli capitalisti che non si adeguano alla regolamentazione. Il capitalismo però non potrà mai superare la più totale e strutturale anarchia della produzione, che chiama con il termine di “libertà”.
È il proletariato che subisce il peso maggiore delle emergenze, nelle crisi di pace e di guerra, ed è al proletariato che sono chiesti i sacrifici, o con le buone (patriottismo, promesse, propaganda) o con le cattive (arruolamento, repressioni, licenziamenti).
Il documento costitutivo del NWLB dava carattere ufficiale e massima autorevolezza alla contrattazione collettiva e ai suoi strumenti, definendo i confini entro cui poteva svilupparsi, e costituendo così un potente deterrente verso ogni tentazione di rompere l’equilibrio che si era venuto a creare tra imprenditori, governo e Unions conservatrici.
Il consolidamento della cooperazione tra le parti e la sua centralizzazione sotto l’egida statale e governativa tese ad assumere presto dei connotati autoritari, d’ordine. La politica salariale delle Agenzie governative, mentre andava incontro ad alcune rivendicazioni operaie per eliminare alcune delle maggiori cause di conflittualità, istituendo i minimi salariali e legando le retribuzioni all’andamento del costo della vita, tracciava anche dei precisi limiti alle richieste dei lavoratori. Al di là vi era solo lo scontro frontale con l’apparato statale e con l’ampio schieramento politico e sindacale che ne sosteneva la politica.
Anche perché il diffondersi e il consolidarsi della contrattazione collettiva, per quanto ampio, soprattutto durante la guerra, mai intaccò né ammorbidì gli ordinamenti giuridici e repressivi fino ad allora usati per combattere le Unions. Tali strumenti erano mantenuti anche se, per il momento, utilizzati solo verso le Unions radicali. Si era costituito un quadro istituzionale per far fronte alle lotte dei lavoratori, capace anche di intervenire con durezza nei loro conflitti. Portò ad accelerare l’integrazione delle organizzazioni sindacali e ne stravolgeva i comportamenti e le scelte più radicate nella loro tradizione.
Questi fattori portarono ad una diminuzione degli scioperi rispetto all’anno precedente, anche se in confronto dell’anteguerra rimasero pur sempre molto numerosi (nel 1918 se ne ebbero 3.353, di fronte ai 4.450 del 1917 e ai 1.593 del 1915). Il governo fu costretto a cercare di stroncare ogni agitazione sociale al di fuori della sua politica, intervenne deciso sia nei confronti di quegli imprenditori, pochi, che avevano rifiutato le decisioni del NWLB, non accettando alcuna forma di contrattazione con i propri dipendenti organizzati collettivamente, sia soprattutto nei confronti delle lotte dei lavoratori che rompevano la tregua sindacale e ponevano rivendicazioni che le Agenzie di conciliazione avevano rifiutato di accogliere.
Con la guerra si realizzò la moderna risposta del grande capitale al movimento operaio organizzato: la duplice politica ideata dalla NCF, imperniata sulla integrazione e la cooperazione con le Unions conservatrici e sulla contemporanea battaglia frontale contro i sindacati e i partiti anticapitalisti e radicali, giunse con il conflitto mondiale alla massima estensione ed affermazione. Intorno ad essa si venne formando una larga unità degli imprenditori e più in generale delle classi dominanti, ed un certo consenso di vasti settori d’opinione pubblica, favorito ed alimentato dal clima d’emergenza e di unità nazionale che la guerra portava con sé.
Di conseguenza, da un lato le Unions accentuavano il loro carattere burocratico a detrimento dell’assetto di organizzazioni di lotta, sottraendosi sempre di più al controllo della base, dall’altro le Unions radicali e i comportamenti operai spontanei non riconducibili alla contrattazione “legale” venivano isolati, emarginati, colpiti dalla repressione. La AFL e le Unions apparvero come strumenti per il mantenimento della pace sociale in fabbrica e garanti dell’equilibrio e del consenso sociale. Come scrisse Commons: «Si scoprì che le organizzazioni americane dei lavoratori, per quanto aggressive potessero essere, erano il primo baluardo contro la rivoluzione ed i più forti difensori del governo costituzionale».
Un tradimento che, per altri, non valse mai alle Unions un posto nella struttura istituzionale.
Conclusioni su cento anni di storia
Lo studio del partito sul movimento operaio americano qui si interrompe, con l’entrata in guerra degli Stati Uniti, il 6 aprile 1917.
Ha preso le mosse dal secolo XVII, quando la necessità di riempire i forzieri di borghesi e aristocratici costrinse l’Inghilterra a drenare ricchezze dalle sue colonie oltre Atlantico. Ricchezze che potevano essere prodotte solo dal lavoro, che doveva esservi condotto da fuori, dall’Europa e dall’Africa.
Da allora si sono susseguite ondate di immigrati, una delle costanti che caratterizzano lo sviluppo del capitalismo in Nordamerica, e la sua classe operaia. Il continuo e diverso flusso migratorio, che ha sbarcato nel paese inglesi, irlandesi, tedeschi, in una prima fase, e successivamente emigranti dall’Europa meridionale ed orientale, accompagnato dalla crescente attrazione dei territori dell’Ovest, dove era facile ottenere terra vergine da coltivare, ha prodotto un continuo rinnovamento e rimescolamento della composizione della classe operaia, con la conseguente difficoltà di crescita della coscienza di appartenere ad una classe, e di cristallizzazione di organizzazioni proletarie, sia economiche sia politiche.
Altra costante è stata la violenza con la quale negli Stati Uniti è stata affrontata la lotta difensiva dei lavoratori: a quella borghesia può essere imputata la più sanguinosa storia del movimento operaio nel novero delle nazioni industrializzate.
I sindacati di mestiere, che esistevano in buon numero sin dalle origini, subivano le ripercussioni delle frequenti crisi, nascendo e scomparendo rapidamente.
Nella guerra per l’indipendenza dall’Inghilterra, mentre la borghesia era divisa nei due campi, furono prevalentemente gli operai delle città a combattere e a vincere; non ne ottennero alcun vantaggio, se non un generalizzato sviluppo economico del Paese, a solo vantaggio della borghesia. Sviluppo dovuto all’impietoso sfruttamento del proletariato, donne e bambini compresi.
L’associazionismo sindacale stentava a decollare, come il movimento politico, nonostante numerosi tentativi di creare un partito operaio, che si protrassero per tutto il secolo XIX.
La Guerra Civile del 1861-1865 rappresentò un’ulteriore battuta d’arresto dell’associazionismo sindacale, che però fu seguita da un periodo di notevole attivismo, anche per l’influenza dei militanti della Prima Internazionale, che importavano dall’Europa i risultati ultimi del pensiero e del dibattito teorico del proletariato.
Negli anni successivi alla guerra, parallelamente alla tumultuosa crescita economica, la classe operaia crebbe sia di numero sia di combattività, e si impegnò in grandi scioperi nazionali. Verso la fine degli anni ’70 i Knights of Labor, a differenza dei sindacati di mestiere, organizzarono tutti i lavoratori, compresi i non specializzati e le donne. Nonostante i numerosi successi però la loro dirigenza rifiutava l’arma dello sciopero, determinando il declino dell’organizzazione in favore dei sindacati di mestiere, ora riuniti nell’American Federation of Labor. Questa, nonostante che i sindacati che ne facevano parte continuassero a tenere lontani i lavoratori non specializzati, iniziò verso la fine degli anni ’80 una rapida ascesa.
Purtroppo il sindacalismo di mestiere, spesso localistico, mirante a risultati parziali e per la sola aristocrazia operaia, non era quello che serviva in un paese in cui una borghesia famelica non arretrava davanti a niente pur di imporre le sue condizioni. Contro gli operai in lotta, oltre ai pistoleri dell’azienda o affittati, erano sempre presenti le milizie locali, mentre i giudici, sempre pronti a sottomettersi alle richieste dei padroni, non lesinavano ingiunzioni e condannavano gli scioperanti a pesanti pene detentive. Non di rado, quando queste risorse non bastavano, intervenivano le truppe federali. Oltre all’apparato borghese, erano numerosi i casi in cui gli stessi sindacati AFL si schieravano con i padroni, o addirittura organizzavano il crumiraggio. Molte lotte erano caratterizzate da scontri armati, che lasciavano sul terreno morti e feriti.
All’inizio del XX secolo apparve chiara la tendenza dell’AFL a presentarsi a difesa della società capitalistica, proprio mentre, con scopi sindacali e politici opposti, nascevano gli Industrial Workers of the World. Questi, che pure rappresentarono un esempio di milizia e dedizione alla causa della classe operaia, furono sempre un movimento minoritario, anche per il loro collocarsi in posizione intermedia tra la forma partito e la forma sindacato; il che però non impedì loro di condurre grandi e dure lotte, soprattutto nell’Ovest.
La parte finale di questa prima parte dello studio descrive la crescente attenzione e presenza dello Stato federale nelle questioni sindacali, in vista dell’entrata in guerra, a lungo preparata, con l’intento sia di organizzare centralmente la difesa del padronato, anche contro individuali suoi atteggiamenti pericolosamente provocatori, sia di organizzare le condizioni dello sfruttamento della classe operaia e ridurne al minimo la conflittualità: con le buone se possibile, con le cattive tutte le volte che fosse necessario: una spietata persecuzione di tutti gli agitatori sindacali non collaborazionisti e la messa fuorilegge degli IWW, anche con l’emanazione di leggi speciali.
I sindacati collaborazionisti, l’AFL in particolare, si fecero entusiasti difensori della pace sociale e dello sforzo bellico, venendo quasi integrati nella struttura dello Stato, benché mai in modo formale. Il sindacato “responsabile” fu accettato dalla borghesia nella struttura del suo regime, un evento storico che sarà imitato in tutti i paesi capitalisti, in modo non istituzionale nei regimi “democratici”, o esplicito nei regimi apertamente dittatoriali.
In USA, a differenza che nei corrispondenti anni nei paesi industrializzati di Europa, fu sempre scarsa la penetrazione nella classe operaia del verbo socialista e marxista, con i vari partiti che si succedettero deboli in teoria ed in organizzazione, non per poca estensione e combattività della classe ma per fattori quali le grandi distanze tra le concentrazioni industriali, la virulenza della reazione borghesia, la fluidità della composizione della classe, multietnica e spesso plurilinguistica, con successive stratificazioni di ondate migratorie di proletari ogni volta meno evoluti dei precedenti. Fa eccezione la migrazione dei tedeschi nel periodo centrale del secolo XIX, in genere operai socialisti. Una pluralità di esperienze e di retaggi umani che, insieme alla prevalente ideologia individualista derivata dal passato pionieristico e dalla dispersione geografica, ha condizionato finora negli Stati Uniti lo sviluppo della classe operaia sia in senso politico sia sindacale.
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I documenti che ripresentiamo in questo numero della rivista sono tratti dal giornale “Lotta di Classe” del 1892, anno di fondazione del Partito Socialista. Nel primo si spiegano le ragioni che determinarono la nascita del giornale. I due successivi affrontano la questione del Congresso di Genova, la definitiva rottura con il movimento anarchico e la nascita del Partito Socialista. Gli altri si soffermano sulla questione della tattica elettorale e la affrontano in maniera perfettamente classista.
Gli articoli che abbiamo scelto non avrebbero bisogno di presentazione: per la loro estrema chiarezza, basta leggerli.
Il Partito Socialista, che a Genova prese il nome di “Partito dei Lavoratori Italiani”, nacque con orientamento riformista, ma indubbiamente su solida base monoclassista e sul puro marxismo. Infatti, come in altra occasione abbiamo scritto, al suo interno vi era lo spazio e la possibilità di formarsi di correnti coerentemente rivoluzionarie. Nel 1892, d’altra parte, essere dei riformisti non significava necessariamente essere controrivoluzionari: la pregiudiziale che sarà della Internazionale Comunista della presa violenta del potere era ancora dalla storia impregiudicata.
Malgrado nascesse riformista, aveva più di un carattere distintivo del partito rivoluzionario, soprattutto la spersonalizzazione dei compagni all’interno del partito.
Del settimanale “Lotta di Classe” abbiamo già ampiamente scritto nel n.61, del 2006, di questa rivista, la cui rilettura raccomandiamo ai compagni. In sintesi qui ricordiamo che il 30 luglio 1892, diretto da Camillo Prampolini, ne usciva il primo numero che per sottotitolo portava “Giornale dei Lavoratori Italiani”.
Il movimento operaio italiano possedeva già una serie di pubblicazioni periodiche, sia di carattere rivendicativo sia politico; il loro limite, però, era costituito dal localismo e dalle impostazioni più disparate. Quello che mancava era un organo centrale che imprimesse un indirizzo unitario al movimento. La “Lotta di Classe” venne fondata con questo preciso obiettivo. Nel suo primo numero si legge: «Sforniti di unità d’indirizzo, preoccupati in prevalenza da questioni affatto locali o da questioni di dettaglio, quei fogli erano bensì la voce di alcuni lavoratori, di alcune associazioni; non potevano essere la voce dei lavoratori in generale – e perciò, commilitoni utilissimi, attissimi a parziali scaramucce, da soli non bastavano a far breccia nella pubblica opinione, a impegnare battaglie campali [..] La questione operaia non è questione locale, questione limitata ad un’arte o ad una federazione di arti, questione di rapporti fra Tizio padrone e Sempronio operaio, questione di orari, di salari, di regolamenti; la questione operaia è innanzi tutto una questione sociale».
Con il 4° numero del 20 agosto divenne “Organo socialista centrale del Partito dei Lavoratori Italiani”. Da quella data, oltre al cambio del sottotitolo, dalla testata scomparve la dizione “Direttore Camillo Prampolini”, perché il giornale aveva «perduto ogni carattere personale per diventare l’organo ufficiale delle organizzazioni da esso rappresentate. Direzione, Redazione, Amministrazione – scriveva “Lotta di Classe” – rispondono della linea di condotta generale [...] al Comitato Centrale eletto dal Congresso e in via definitiva di fronte al potere deliberante del Partito».
Il lettore del terzo millennio può considerare “datato” l’articolo “Il perché di questo Giornale” a causa di quel suo tono aulico e da arringa, ma, soffermandosi nei contenuti, i compagni non potranno che apprezzare la chiarezza delle posizioni in esso espresse.
Al direttore di “Lotta di Classe” Camillo Prampolini, come del resto a Filippo Turati, a Costantino Lazzari ed a tanti altri che nel corso del tempo si persero senza che nessuno di loro giungesse al comunismo, dobbiamo tuttavia riconoscere che nella loro migliore stagione furono dei poderosi combattenti e che dedicarono tutto se stessi alla causa della emancipazione del proletariato senza indietreggiare di fronte a persecuzioni e carcere.
Nei due articoli che trattano del Congresso di Genova si sente l’orgoglio di avere finalmente realizzato anche in Italia una organizzazione nazionale, un partito che non fosse una accozzaglia di ribellismi istintivi ed in contraddizione tra loro: «Ai moti incomposti succede la disciplina di guerra, all’orda subentra l’esercito, all’agglomerato l’organismo».
I due articoli trasmettono al lettore il carattere drammatico e tumultuoso del congresso appena compiuto e la lucidità con la quale si afferma la necessità della definitiva rottura con chi non condivide il programma. Della massima importanza è il dichiarato rifiuto della illusione del “partito grande” che accolga tutti gli elementi ostili all’ordine borghese, cosa che anziché rafforzare l’organizzazione politica del proletariato di fatto la paralizza.
Naturalmente non possiamo ignorare le lacune del famoso programma di Genova, che sarà conservato fino al 1921 e alla scissione di Livorno. Il programma si rifaceva ai seguenti principi: lotta di classe; socializzazione dei mezzi di produzione; organizzazione del proletariato in partito politico indipendente da tutti gli altri partiti. Però non si parlava di conquista rivoluzionaria del potere, di distruzione dello Stato borghese, di dittatura del proletariato. Al contrario, in modo ambiguo si parlava di «conquistare i poteri pubblici per trasformarli da strumenti di oppressione e sfruttamento, in uno strumento per l’espropriazione economica e politica della classe dominante».
Questa espressione finale di “espropriazione economica e politica” fu particolarmente vaga e causa di grande confusione. Ugualmente troppo vaga fu la rivendicazione della “gestione della produzione”: da parte di chi?
Se è vero che per il partito socialista la tattica elettorale assumerà finalità di riformista e gradualista conquista dello Stato, ciò non toglie che la partecipazione alle elezioni del 1892 venisse impostata in modo del tutto corretto, come rivelano gli articoli che seguono. È innanzi tutto chiarito che il progresso di un partito non si giudica dai successi elettorali e viene messo in conto il fatto che la rottura con i partiti cosiddetti “affini” avrebbe pregiudicato i risultati elettorali. Ma questo, si disse, significherà solo che la tattica del partito ha raggiunto un potenziale di classe molto più alto che nel passato. Infatti “Lotta di Classe” affermava che, anche nel caso in cui il responso delle urne non solo non avesse portato aumenti ma addirittura fossero perduti quei pochi seggi già occupati dai socialisti, il Partito non per questo avrebbe cambiato la propria tattica: questo l’atteggiamento assunto nei confronti dell’elettoralismo e del Parlamento.
«I nostri candidati – scriveva l’organo del partito – non devono essere legislatori ma agitatori. La stessa battaglia elettorale è oggi sovrattutto un mezzo di agitazione; un mezzo di creare il partito. I successi personali ponno conferire anche essi a questo scopo, ma solo in limitata misura». Categorici i socialisti affermavano che anche se l’elettore era costretto a scrivere il nome di un candidato, il voto non sarebbe stato per il candidato, ma per il partito.
Il 1892 fu già anno di elezioni.
A giudizio degli storici borghesi, tra tutte quante le elezioni truccate quelle del 1892 ebbero il primato. Ma, nonostante i trucchi legali ed illegali per far sì che il responso fosse negativo per i socialisti, i risultati furono soddisfacenti: il numero dei deputati socialisti restò praticamente inalterato.
Da parte nostra diciamo che la stessa “legalità” era truccata perché, oltre che alle donne e agli analfabeti, alla stragrande maggioranza della popolazione era impedito il diritto di voto. Per votare non era nemmeno sufficiente saper leggere e scrivere perché, ad un anno dall’entrata in vigore della legge elettorale, bisognava anche attestare la frequenza per due anni ad una scuola comunale o di reggimento. Un’altra innovazione fu non poter più presentarsi con schede già compilate, ma vi si doveva scrivere all’interno del seggio elettorale, cosa per la gran parte degli elettori proletari semi-analfabeti allora di grave impedimento.
Un’altra innovazione che rasentò l’assurdo fu quella introdotta dalla legge complementare secondo cui “o l’elettore dev’essere riconosciuto da alcuno dei componenti il seggio, o vi dev’essere presente un elettore conosciuto che attesti della sua identità». Chiaramente questa era una ulteriore vessazione per respingere dalle urne i poveri diavoli.
Inoltre a partire dal 1892 dallo scrutinio di lista si passò all’uninominale: se il primo permetteva una rappresentanza proporzionale ai voti espressi, il secondo la negava colpendo le minoranze. Come se non bastasse i collegi elettorali furono ridisegnati in modo da impedire sicure vittorie proletarie.
Fino a qui tutto sotto la copertura della “legalità”. Dopo si passava al mercato dei voti.
Naturalmente i candidati borghesi potevano avvalersi delle loro risorse economiche per finanziarsi la campagna elettorale. Specialmente nelle campagne si andava dalle regalie ai preti perché questi attestassero la religiosità del candidato, ai buoni spesa dati ai contadini per andare nelle osterie gratuitamente, alla distribuzione di banconote da 5 o 10 lire tagliate a metà: l’altra metà l’avrebbero avuta solo se il candidato fosse stato eletto.
Ma queste non erano che truffe di piccolo cabotaggio, la truffa vera era quella organizzata dal governo attraverso gli organi dell’amministrazione statale. Non è un caso che il governo fosse presieduto da Giovani Giolitti, il famigerato “ministro della malavita”.
Il giornalista Giovanni Ansaldo, in un suo libro, cerca di scagionare Giolitti: «A leggere certi autori, pare che fino a quella data precisa del ‘92, il gioco elettorale si svolgesse con una correttezza inappuntabile [...] Giolitti non fece che continuare ad applicare la vecchia tattica, già attuata da tutti i suoi predecessori, e nota perfino ai seggioloni delle anticamere delle prefetture del regno [...] Consentire che i prefetti dessero il bollo di “governative” a certe candidature, e avallassero in vari modi le promesse di lavori pubblici, di concessioni, di piccoli favori locali [...] Tattica vecchia in Italia come lo stesso sistema elettorale; che fin dai tempi di Cavour, sissignori, di Cavour, aveva fatto le sue prove, e suscitato l’orrore di tutti i candidati soccombenti. Ciò che costituì, se si vuole, la novità delle elezioni del ‘92, è che Giolitti applicò questa tattica contro tutti gli avversari del governo, senza lasciarsi impressionare né da nomi, né da posizioni sociali cospicue» (da Il ministro della buonavita).
Quindi in queste democratiche campagne elettorali venivano utilizzati prefetture, polizia, esercito, mazzieri...
Da
allora è passato un secolo ed un quarto e se la democrazia allora
era marcia, ora è ancora più marcia: cosa di cui noi ci
rallegriamo.
IL PERCHÉ DI QUESTO GIORNALE
Lotta
di Classe, n. 1, 30 luglio 1892
Dacché, sgominato dai casi della vita il nucleo dei suoi redattori, è morto il Fascio Operaio – il giornaletto battagliero che tenne per tanti anni acceso, a traverso tante persecuzioni e tanti abbandoni, il fuoco della idea emancipatrice – la voce dei lavoratori dell’Alta Italia era rimasta silenziosa. Un grande ammutolimento, una specie di paralisi pareva che pesasse sulla classe lavoratrice della parte più industriale del paese. Le fila del partito, che qui aveva avuto la sua culla, che qui aveva affrontato le prime e forse le più amare battaglie, si erano – per effetto di quella paralisi – come rallentate dapprima, indi disperse.
Invano dalle varie città di provincia, invano dal seno delle singole arti, giungevano i piccoli giornali locali e speciali dei lavoratori e dei loro amici – giornali spesso redatti con coscienza, infiammati dal coraggio e dalla fede che non abbandonano mai gli apostoli delle nobili cause. Certo quei giornali impedivano che la fiamma si estinguesse, che l’apatia, questo immenso spegnitoio, si estendesse più oltre. Essi sono grandemente benemeriti della causa operaia, e si deve ad essi se l’ambiente è caldo tuttora e se noi possiamo oggi, con lena e con fiducia rinnovate, riprendere lietamente il nostro vecchio posto di battaglia.
Ma, per fatalità di circostanze, le loro voci disunite e lontane l’una dall’altra, non riescivano, non potevano riuscire a dominare l’ambiente rumoroso della vita borghese. Sforniti di unità d’indirizzo, preoccupati in prevalenza da questioni affatto locali o da questioni di dettaglio, quei fogli erano bensì la voce di alcuni lavoratori, di alcune associazioni; non potevano essere la voce dei lavoratori in generale – e perciò, commilitoni utilissimi, attissimi a parziali scaramucce, da soli non bastavano a far breccia nella pubblica opinione, a impegnare battaglie campali e decisive. Nulla, né gli scioperi, né le conferenze, né i Congressi e neppure quella grande propaganda dei fatti che nasce dal continuo sviluppo del sistema borghese, che pone – a dispetto dei ciechi e dei sordi – formidabile e gigante, sul tappeto della storia,la questione sociale; non potevano supplire a quella mancanza. Milano, capitale industriale d’Italia, doveva essere per ciò stesso il centro dell’organizzazione operaia. Il silenzio della classe lavoratrice in Milano, era quasi il silenzio della classe lavoratrice dell’intera nazione.
Perocché a torto, accennando più sopra al defunto Fascio Operaio, dicevamo che esso rispecchiava il movimento e i bisogni dei lavoratori dell’Alta Italia. L’azione sua, il suo spirito valicavano i monti ed i fiumi, si spingevano ben oltre i confini d’una sola regione. Esso infatti era nato nel nome di un grande partito, nel nome e con l’insegna del partito operaio italiano, e quest’origine, questo battesimo, li portava, a così dire, nelle proprie carni e nel proprio sangue. Quando esso tacque, i primi a dolersi furono i redattori degli altri giornali operai, i nostri cari compagni della provincia, i quali, più di chiunque, sentivano come la mancanza di quel focolaio di propaganda centrale affievolisse, isterilisse, quasi la loro propaganda. Essi ci dicevano ad ogni tratto: – e voi, da Milano, che fate? – Ed era giusta rampogna e ci metteva nell’animo il rimorso come d’un dovere tradito.
* * *
E invero il significato, il valore, l’importanza del vecchio giornale del Partito operaio, per cui esso – malgrado gli errori in cui poté incorrere – rimarrà documento glorioso del primo risveglio del proletariato italiano, il suo significato stava appunto in questo: esso affermava che la questione operaia non è questione locale, questione limitata ad un’arte o ad una federazione di arti, questione di rapporti fra Tizio padrone e Sempronio operaio, questione di orari, di salari, di regolamenti; la questione operaia è innanzi tutto una questione sociale. Come tale, essa ha bisogno, per essere risolta idealmente, di tutto il concorso della scienza contemporanea; per essere risolta nei fatti, dello sforzo di tutta la massa dei lavoratori, resi coscienti e concordi da un unico e supremo ideale rinnovatore. Gli scioperi, le società di resistenza, le cooperative, ecc. sono ottimi strumenti d’agitazione, ottimi mezzi per reclutare ed agguerrire l’esercito; ma guai al movimento operaio, guai all’avvenire della classe lavoratrice se essa riponesse in quei mezzi ogni sua speranza e ne facesse gli ultimi fini! Logorato dalla lotta del più debole contro il più forte, consunto in un eterno e vano lavoro di Sisifo, il movimento dei lavoratori finirebbe per dover riconoscere la propria impotenza.
La radice di tutte le angherie, di tutti i soprusi pei quali il salariato è una forma nuova, e forse peggiorata, dell’antica schiavitù, consiste nel monopolio dei mezzi della produzione e della direzione sociale in mano dei privilegiati. La socializzazione di quei mezzi è la sola soluzione del problema. Perduto di vista questo fine, la questione operaia rimane una questione borghese, una piccola questione di accordi fra servi e padroni. È la questione come interessa ai padroni di considerarla.
Ma non interessa ai lavoratori di considerarla così. Essi non intendono di lasciar decapitare il loro movimento pel piacere degli avversari. Dacché gli studi faticosi, le esperienze dolorose della lotta hanno aperto i loro occhi, e i loro congressi hanno proclamato la necessità di formare un partito di classe per socializzare i mezzi del lavoro – da quel giorno il partito operaio, in Italia come all’estero, diventò una forza temuta, una forza sicura, che ha per sé molta parte del presente e tutto l’avvenire.
La questione meramente operaia nel suo senso meschino, nel suo senso borghese, venne abbandonata per sempre; si capì che la questione operaia, separata e tenuta lontana dall’idea socialista, è un nonsenso: che il movimento operaio e il socialismo sono le due facce di un fenomeno istesso: il primo è il fatto, il secondo è la coscienza, l’anima del fatto; separarli è distruggerli. Fonderli insieme è render ad entrambi l’organismo e la vita.
Quest’opera di fusione, di elaborazione cosciente, quest’opera di educazione e di vivificazione del partito, non può compiersi alacremente se al lavoro parziale e minuto dei giornali speciali, non si aggiunge – ad integrarlo e riassumerlo – il lavoro di un organo centrale, giornale non di questa o quella città, di questa o quell’arte – giornale del partito medesimo. Il lavoro è dunque da riprendersi dove il Fascio Operaio lo lasciò interrotto – profittando delle maggiori esperienze maturate in questi anni in Italia ed all’estero, che aggiunsero determinatezza alle idee, coscienza e precisione alla tattica e permetteranno di procedere innanzi più sicuri e più rapidi.
* * *
Si capisce perciò, senza molte parole, come allorquando, nell’agosto scorso in Milano, al Congresso Nazionale Operaio venne proposto l’impianto d’un giornale, che fosse l’organo centrale del Partito dei lavoratori italiani in quell’occasione solennemente riaffermatosi – si capisce, diciamo, che l’idea fosse accolta con entusiasmo. Era, a così dire, la proposta di tutti i convenuti, quella che tutti avean portato nel cuore – sulla quale non potevano nascere dissidi. E infatti non nacquero.
Il Comitato centrale del Partito venne incaricato dell’attuazione. Ma la somma prevista nel deliberato del Congresso come necessaria all’impianto non essendosi potuta raccoglier – prima che il giornale uscisse, e parendo vergognoso presentarsi al nuovo Congresso senza nulla di fatto, una rappresentanza del Comitato, coadiuvata da alcuni dei più fidi amici della causa operaia, pensò non essere il caso di indugiare più oltre.
Invero la necessità del giornale si faceva ogni giorno più urgente. Nella stessa Milano le questioni operaie, la crisi, la disoccupazione, il grande sciopero dei meccanici ed altri minori, la fondazione della Camera del Lavoro, il movimento elettorale schiettamente socialista-operaio esplicatosi per la prima volta, e via via una quantità di fatti e di bisogni operai che invadevano perfino le colonne, per quanto renitenti, dei giornali borghesi, sempre disposti ad irriderne l’importanza, o a falsarne il significato – tutto ciò reclamava a gran voce l’esistenza di un giornale operaio, di una piattaforma operaia sulla quale si potessero portare alla gran luce della pubblicità tutte le nostre questioni, discutere le nostre idee, liberarci dai nostri pregiudizi, chiarire i malintesi, illuminarci, organizzarci, difenderci, affermarci, farci valere. Far valere quella potenza che noi possiamo essere, che noi dobbiamo essere nella vita moderna – che ci è anche riconosciuta a parole – ma che ignoranza e scetticismo di molti di noi e l’opposto interesse degli avversari non ci permettono ancora di far valere nei fatti.
Ed ecco perché e come nacque il presente giornale. – Esso è dunque – salva la sanzione definitiva che non potrà essere chiesta che al Congresso di Genova, al quale rimetteremo interamente l’opera nostra – il giornale acclamato e voluto dal Congresso di Milano. Ed è perciò che a dirigerlo fu invitato e quasi sforzato – malgrado la sua modestia lo facesse esitante e peritoso – il compagno Camillo Prampolini, direttore da tanti anni della valorosa consorella reggiana la Giustizia: quegli cioè che già nel Congresso di Milano veniva da tante voci designato come colui che doveva dare a quest’opera la sua inesauribile attività, la sua capacità caratteristica, la sua provata devozione al partito. Della quale è novella prova l’aver egli accettato l’incarico – grave certo di fatiche e di responsabilità più che ricco di materiali compensi – e ciò mentre tanti vincoli lo legano ai suoi cari ed operosi compagni di propaganda nell’Emilia, alla quale dovrà ancora per qualche mese – dividendosi fra Reggio e Milano – dedicare una parte del suo tempo e del suo lavoro.
Ed ora ai compagni – che son capaci d’intenderci – coadiuvare e render fecondo il nostro lavoro!
Il
Consiglio di Redazione
LA NOSTRA VITTORIA
Lotta di Classe, n. 4, 20 agosto 1892
Malgrado la congiura degli ostruzionisti, alleati fedeli della borghesia, che non lasciarono intentato alcun mezzo per sventare l’opera dei volonterosi convenuti a Genova per costituire l’organizzazione delle forze proletarie italiane sulla base dei principî, con fini e norme di condotta ben determinati, il nostro scopo è raggiunto. Il Partito socialista dei lavoratori è un fatto compiuto anche in Italia, un fatto che nessuna forza dissolvente varrà più ad intaccare.
Nella giornata del 15 agosto i convenuti in Via della Pace, nel salone dei Carabinieri genovesi, ponendo al Partito le basi granitiche dei principî, hanno compiuto in poche ore un lavoro che dieci anni di propaganda, finché ci angustiava l’assenza di un programma preciso, non avrebbero riescito a compiere. Ormai si sa d’onde si parte, per che vie si procede e dove si vuole arrivare. Al camminare tentennoni, senza bussola e senza meta, che ci aveva fatto sprecare tanti anni in un inutile lavoro di Sisifo, dovendo ad ogni tratto cominciare da capo, sarà sostituita la marcia serrata per vie conosciute e definite – quella marcia nella quale ogni passo è una conquista sicura.
I desiderî da noi esposti e propugnati nei precedenti numeri di questo giornale furono tutti accolti senza restrizione e trasformati in programma: Partito operaio socialista indipendente come base d’operazione – socializzazione dei mezzi di lavoro come scopo ultimo – organizzazione di classe e conquista dei pubblici poteri come mezzi adeguati al fine, ecco la piattaforma sulla quale il Partito operaio italiano ha rizzato finalmente la propria bandiera.
Con questa proclamazione di principî, di metodi, di fini, il Partito operaio italiano – che fin qui era rimasto addietro mille miglia dagli altri partiti operai delle nazioni civili, smarrito nella nebulosa della propria indeterminatezza, dubitoso del proprio cammino, incosciente e impotente – è entrato alfine nella medesima lizza nella quale si muovono e combattono i lavoratori organizzati di tutto il mondo. Esso è entrato, non con declamazioni platoniche di simpatia, ma col vincolo ferreo dei principî e delle convinzioni, a formare un membro vivo ed attivo della vera Internazionale dei lavoratori, la nuova Internazionale delle forze proletarie coscienti e militanti.
“Comune la battaglia! Comune la vittoria!”. Così telegrafavano al Congresso i rappresentanti della Democrazia socialista degli Stati austriaci; e questo grido possiamo ormai intonare con sicura coscienza, con animo tranquillo.
Sì, comune la battaglia, comune la vittoria! Il Partito operaio italiano non è più la Cenerentola dei partiti operai, non è più, come fu sinora, un nonsoché, un’accozzaglia di aspirazioni vaghe, di astii e di ribellioni istintive, di ideali mal definiti e cozzanti fra loro, un impasto di socialismo, di anarchismo, di possibilismo e di economicismo borghese. Esso ha trovato intera la coscienza della sua missione e ne ha proclamato la formula. A lui si può dire come a Lazzaro risanato: “Prendi il tuo lettuccio e cammina!”
Esso prende il suo lettuccio e cammina. Esso ha gettato le scorie, ha superato le malattie dell’infanzia. Esso ha avuto il coraggio di sé stesso, delle proprie convinzioni e dell’essere suo. Ciò che era implicito divenne esplicito, ciò che era contraddittorio divenne coerente, ciò che era multiforme e confuso divenne chiaro e preciso. Ai moti incomposti succede la disciplina di guerra, all’orda subentra l’esercito, all’agglomerazione l’organismo. È una trasformazione che equivale a una nascita.
E noi salutiamo questa nascita, da tanto tempo caldeggiata, con tutti gli entusiasmi più caldi del nostro cuore. La salutiamo con l’acclamazione solenne ed unanime che, votato il programma, chiuse, fra gli applausi incessanti, la prima seduta del Congresso di via della Pace:
Via!
Viva! Viva! Il Partito operaio socialista italiano!
LA ROTTURA COGLI ANARCHICI
Lotta di Classe, n. 4, 20 agosto 1892
E anche questo è un fatto compiuto ed irrevocabile. Anche questo è un fatto che avevamo preveduto e desiderato e i cui vantaggi pel Partito sono inestimabili. Noi lo salutiamo con gioia.
Il Partito operaio italiano era infatti – per quanto lo negasse – prigioniero dei suoi nemici. Per quanto essi costituissero una infima minoranza di pochi chiassosi, rivestiti di delegazioni di lavoratori il più spesso fittizie, tuttavia quell’infima minoranza, quelle rappresentanze effimere di Circoli effimeri, quel manipolo di pellegrini del disordine e dell’ostruzione che sbucava da per tutto e si frammetteva dovunque ai nostri lavori, era la palla del forzato, era la catena al piede che ci inceppava ogni moto ed ogni progresso.
Ora cotesta catena noi l’abbiamo spezzata.
E a spezzarla una crisi violenta era necessaria. L’indeterminatezza del programma serrava il Partito operaio in un circolo vizioso: per liberarlo dagli elementi eterogenei era necessario il programma: ma gli elementi eterogenei rendevano impossibile il programma liberatore. Così le eterne, inutili, tediose questioni – sempiterno bagaglio degli anarchici – si ripresentavano alla soglia di ogni nostra adunanza, le avevamo sempre fra i piedi, ogni nostra iniziativa veniva da essere frustrata, ogni deliberato era sempre rimesso in discussione, ogni nostro Congresso rimaneva (lo dicemmo più volte) il primo Congresso. Camminare era impossibile: si affogava nell’accademia; e in nome della libertà subivamo ogni altro giorno costrizioni e violenze.
La utopia di voler improvvisare il “partito grande” che accogliesse tutti gli elementi ostili, per qualunque verso, al presente disordine di cose, la illusione di concordie impossibili tra fazioni discordanti nell’indole, nei fini e nei mezzi; un certo sentimento cavalleresco verso alcuni perseguitati in buona fede, tutto ciò aveva spinto la nostra tolleranza al di là di tutti i limiti che sono concessi a un partito, il quale ha coscienza del suo fine e della seria responsabilità della propria condotta. Noi lasciavamo il campo all’equivoco e l’equivoco s’impadroniva di noi e ci paralizzava.
Le condizioni speciali dell’Italia aggravavano questo danno. Paese a mala pena industriale, dove l’organizzazione d’arte e mestiere era più difficile e lenta che altrove, la debolezza del Partito operaio era la forza di coloro che all’organizzazione avevano giurato la guerra. L’ignoranza e la miseria estrema di gran parte del proletariato, unite all’indolenza che è carattere nazionale di noi italiani, davano anch’esse buon giuoco ai disorganizzatori, a tutti quanti congiuravano contro il lavoro ordinato, disciplinato, paziente, veramente fecondo, solleticando le diffidenze, gli odî gli istinti di ribellione incosciente, predicando attentati individuali ripugnanti ed inutili, insurrezioni impreparate, intempestive, impossibili: tutto ciò che in fondo rendeva ai nemici dell’emancipazione proletaria il migliore dei servigi. Ed essi ben sapevano valersene.
Così – per queste condizioni speciali al nostro paese – la gramigna anarchica allignava nel nostro campo tanto più rigogliosa quanto noi meno sapevamo lavorarlo di erpice e di zappa. La tendenza anarchica e la semi-anarchica, quella tendenza puramente negativa che traspariva anche negli inizî del Partito operaio italiano, vigoreggiava fra noi, vivendo della nostra vita, alimentandosi del nostro lavoro ed intristendone i frutti. Silenziosa, inerte dove noi non eravamo, dove noi eravamo essa appariva, cresceva ed ingrossava con noi e a nostre spese: noi portavamo nei nostri visceri il nostro parassita, senza credere quasi alla possibilità di strapparlo.
Ma ormai tutto questo è finito, e finito per sempre. L’Italia s’avvia ogni giorno di più verso il livello – economico e morale – degli altri paesi industriali, ed è appunto dai delegati delle regioni più industrialmente avanzate, dai delegati dell’Alta Italia, dove la questione sociale ha la stessa imponenza ed urgenza che in Francia, in Germania, in Inghilterra e nel Belgio, che era più sentito, e da gran tempo, il bisogno di un distacco definitivo.
Fin dalla prima seduta, anzi dai primi momenti del Congresso, il 14, alla sala Sivori, fu chiaro a tutti che il manipolo dei dissidenti, battuto nella contesa per la nomina dei presidenti con la schiacciante maggioranza di 106 voti contro 46, era nondimeno deliberato di impedire che il Congresso compisse i suoi lavori. La domanda di rinvio della discussione del programma al giorno susseguente, sostenuta con urli e clamori d’ogni sorta contro la volontà ed il voto della grande maggioranza dei congressisti, pose il colmo alla esasperazione dei veri e coscienti mandatari dei lavoratori, i quali per quella discussione principalmente erano accorsi a Genova col mandato e col denaro sudato dei loro compagni, e questo denaro non volevano frodarlo. Fatta impossibile la continuazione di quel Congresso, esso si sciolse, dichiarando la maggioranza di radunarsi il domattina in nuovo Congresso, scevro d’ogni immistione di anarchici
Invano i dissidenti gridarono che ci avrebbero seguiti dovunque. Il domattina le loro Commissioni non furono tampoco ricevute e i lavori procedettero nel modo più spiccio e più cordiale, malgrado la vivacità ed il calore delle discussioni.
Ad evitare ogni appiglio a recriminazioni e rappresaglie il Comitato promotore deliberò – la sera stessa della prima giornata – di ritenere sciolto il Congresso da esso indetto e di tenersi quindinnanzi neutrale.
Qualcuno avrebbe desiderato una procedura diversa. Certo se era difficile alla maggioranza vincere gli ostruzionisti a colpi di votazioni, ciò che, rinnovandosi di continuo gli incidenti, avrebbe ad ogni modo impedito ogni conclusione – non le era punto difficile per converso rispondere alla violenza colla violenza ed espellerli dalla sala. Ma se essa credette più conveniente che nessuno potesse dire di essere stato scacciato e se fu sua unica preoccupazione che si compiesse il lavoro per cui era convenuta, non noi certamente ne faremo carico a chicchessia.
Del resto – malgrado che le condizioni speciali della giornata, essendo chiuse le tipografie per il Ferragosto e per la gita dei tipografi in mare, abbiano impedito di dare al Congresso di Via della Pace tutta la pubblicità desiderabile – ad onta di tutto ciò la grandissima parte dei delegati partecipò al nuovo convegno. Dal Consolato operaio di Milano al Fascio dei lavoratori di Palermo forte di 8000 operai organizzati, dall’Unione dei ferrovieri alle 450 società affratellate rappresentate dal Maffi, tutte le associazioni di qualche entità, comprese le numerose e potenti Cooperative dell’Italia centrale, diecine di migliaia di braccianti organizzati rappresentati da Agnini e Prampolini ecc. ecc., aderirono alla nostra riunione e la presenziarono, formando così la cellula vitale, il nucleo omogeneo di un partito che ormai non ha più nulla a temere da interni nemici.
Questo ben sentivano i dissidenti: essi sentivano che il Congresso di Genova era decisivo, che il partito si sarebbe formato ad ogni costo e che questa era la loro sentenza di morte. Di qui il loro accanimento, anche troppo spiegabile.
E quel che doveva essere fu. La scissione di Genova ha rimesso ciascuno a suo posto. Lo spettacolo degli scandali e delle collisioni brutali fra delegati che si dicono militi di una stessa battaglia, gli sprechi enormi di forza, di tempo, di dignità che ci hanno tarpato fino a ieri ogni slancio, tutto ciò di cui la borghesia si allegrava e traeva profitto, è cosa che appartiene al passato.
La
borghesia porrà le gramaglie. Noi sventoleremo fidenti la nostra
bandiera.
PREVISIONI
Lotta di Classe, n. 13, 22 ottobre 1892
Alcuni dicono che sarebbe di grande vantaggio pel partito operaio-socialista se in queste prossime elezioni potesse almeno raddoppiare gli attuali quattro o cinque rappresentanti socialisti alla Camera. Lo sarebbe infatti, e la propaganda ne avrebbe per più versi profitto, se la cosa potesse avvenire; ma non lo crediamo e non ce ne doliamo e spieghiamo il perché.
Il nostro partito traversa un momento critico. Crisi benefica, a parer nostro, crisi anzi da noi provocata, ma pur sempre crisi. Esso lavorò a costituirsi su nuove basi, a determinarsi e quindi ed epurarsi. Ruppe quasi ovunque i legami più o meno saldi e sinceri che l’avvincevano ai partiti sedicenti affini. Per crescere, per diventare forte volle camminare da solo. Proclamò infine la lotta di classe – questa formula così grande e bella per chi la capisce, così antipatica a tutti i confusionari, gli ipocriti, i pusilli e i sentimentali. Ossia dichiarò la guerra al socialismo romantico e spurio per abbracciare il socialismo scientifico, netto, preciso, sicuro, come un teorema d’Euclide.
Ora questa tattica nuova – che è anzi qualcosa di più di una tattica, è una vera affermazione e ricostituzione di partito – se esso godrà i benefizî avvenire, non può ricusare né sfuggire le conseguenze immediate. Esse appariranno un regresso per chi giudica il progresso d’un partito dall’indice dei successi elettorali.
È certo che il partito operaio-socialista, mentre acquistò sulla massa proletaria una forza virtuale immensa che verrà mano a mano sempre meglio esplicando, allontanò però da sé tutti coloro che amoreggiavano seco finch’esso rappresentava l’equivoco. La gente equivoca – ed è legione in ogni borgo d’Italia – è perduta per noi. Costoro erano fieri e felici di dirsi più o meno socialisti, quasi a lusinga del loro amor proprio, finché ciò permetteva loro di vivere d’amore e d’accordo coi democratici, coi progressisti, coi conservatori, colle autorità. Ora non lo ponno più, sono messi al muro, costretti a decidersi; i nove decimi sono ricacciati a forza nelle file dei partiti avversari.
Usiamo una vecchia metafora: come il ginnasta che, per prendere lo slancio di un salto più alto e più lontano, deve prima rinculare; così dovette fare il nostro partito.
Il collegio uninominale ha aggravato gli effetti di questa naturale condizione di cose. Lo scrutinio di lista, colle sue combinazioni complicate, permetteva una certa quale – non diciamo perfetta – rappresentanza delle minoranze. In una grande città dove il partito socialista rappresentasse, poniamo, un terzo della popolazione politicamente militante, otteneva facilmente in una lista di cinque candidati un posto per uno dei suoi. Ciò era fomite di transazioni e mescolanze funeste e al carattere e alla propaganda e noi non rimpiangiamo lo scrutinio di lista. Ma l’effetto apparente era quello.
Il collegio uninominale è assolutamente rigido. La maggioranza vi regna brutalmente. Se i partiti (poiché sono essi, e non la popolazione, che fanno le elezioni) fossero egualmente distribuiti nei collegi del paese, e l’uno dei partiti avesse ovunque la maggioranza di un solo adepto; tutta la Camere risulterebbe [composta] dagli eletti di quel partito.
Ora non c’è forse ancora un solo collegio in Italia – anche là dove la propaganda fece miracoli – in cui i socialisti coscienti ed attivi sieno il partito che ha la maggioranza.
A tutto ciò dobbiamo aggiungere le condizioni difficili di una organizzazione appena nata. Non intendiamo censurare il nostro Comitato centrale. Esso fece quello che poté, ma quello che poté, come già notava in una lettera il prof. Antonio Labriola, non poteva essere molto. Basti dire che molte società, e non solo di fuori ma perfino tra quelle di Milano, non hanno ancora esaurita la procedura interna necessaria per deliberare l’adesione al partito. Anche il servizio di semplici informazioni è tutt’altro che completo.
Ne venne che la nostra battaglia elettorale non fu punto organizzata. Molti collegi – ove potevamo batterci con successo – in questo torpore generale o non vennero neppure tentati o caddero in mano di altre iniziative. Nessuna distribuzione opportuna e concertata di candidature venne fatta. Alcuni dei nostri e dei più forti sono portati dove hanno certa la sconfitta, mentre altri collegi ove sarebbero vittoriosi, cercano invano un nostro candidato. Altri, oppressi dalla soma di un lavoro mal organizzato e mal diviso, rinunciarono alla battaglia.
Di tutto ciò i nostri avversari – ed è giusto – traggono profitto. Noi potremo trarne soltanto qualche insegnamento.
Ma per conto nostro, quale che sia il responso delle urne, non metteremo lamenti, se anche – invece di guadagnare – noi dovessimo perdere tutti anche quei pochi seggi che abbiamo ora in Parlamento, ce ne stimeremmo largamente compensati dal nuovo e fecondo atteggiamento che il partito ha preso. Gli avversari rideranno oggi, ma non rideranno gli ultimi.
I nostri candidati – dice bene il manifesto – non devono essere legislatori ma agitatori. La stessa battaglia elettorale è oggi sovrattutto un mezzo di agitazione; un mezzo di creare il partito. I successi personali ponno conferire anche essi a questo scopo, ma solo in limitata misura.
Se anche Agnini, Prampolini, Costa, Maffei, Colajanni, rimanessero in terra, non v’è borghese così ingenuo od ottimista da concluderne che il partito socialista è oggi più debole di ieri.
Esso è semplicemente più squisitamente socialista. Fa più paura. Non attira più le compiacenti carezze. Non ha più con sé che dei convinti e dei volenti.
Questo
bimbo sta per diventare un Uomo.
LE ELEZIONI A MILANO - I nostri candidati
Lotta di Classe, n. 13, 22 ottobre 1892
L’adunanza tenuta sere fa dalle Associazioni milanesi aderenti al Partito dei Lavoratori, ha proclamato i candidati seguenti:
1° | Collegio | Carlo Dell’Avalle, operaio tipografo |
2° | “ | Dott. Osvaldo Gnocchi-Viani, pubblicista |
3° | “ | Angelo Carugati, operaio tipografo |
4° | “ | Costantino Lazzari, contabile |
5° | “ | Avv. Filippo Turati, pubblicista |
6° | “ | Silvio Cattaneo, muratore. |
Noi, a differenza di tutti i giornali borghesi, non faremo l’elogio particolare dei nostri candidati. Noi non abbiamo, nella nostra lista, degli affaristi da cui bisogni stornare i sospetti, dei vitelli d’oro di cui si debbano inventare i meriti, delle perfette nullità che debbano essere rimpolpate a furia di epiteti, degli uomini di mezzo colore o di mezza fede la cui sincerità e integrità, a cui nessuno crede, debbano essere difese mercé sapienti apologie. I nostri candidati sono tutti noti – noti nel midollo – alla classe proletaria e ai suoi amici che si affermeranno nel loro nome. Sono gente d’un colore solo, d’un significato preciso: gente il cui nome non desterà dubbi o esitanze in nessuno. Ciascuno saprà subito se può accettarli o se deve ripudiarli.
Questo è l’onore, il decoro, l’orgoglio, il carattere della nostra lista.
Operai che, dacché vi è un movimento operaio, vi hanno dedicato nelle società e nel partito ogni loro cura. L’uno è l’organizzatore, l’anima della importante Società Genio e Lavoro; collaboratore di giornali operai; ebbe spesso la fiducia dei colleghi e il Congresso di Genova lo portò nel Comitato centrale del partito. L’altro è presidente dell’Associazione italiana dei tipografi. Il terzo – muratore – redattore del giornale Il Muratore, e una delle colonne della Cooperativa muraria. Tutti e tre, i compagni li vedono a traverso, ne conoscono ogni piega dell’animo.
Non operai che alla propaganda socialista consacrarono tutta l’anima, la vita, non curanti d’ogni loro interesse personale, che hanno dato al partito nostro impulso, precisione, valore; che ci insegnarono a lottare come classe pel più alto e severo ideale dei tempi nostri; che non ci hanno mai blanditi per sfruttarci; che non ci hanno mai abbandonati; che non si piegarono mai. E non senza perché v’è nella nostra lista il nome d’un salariato impiegato. A parte ogni altro argomento personale, il movimento degli impiegati che vengono ogni giorno più verso noi, che ci sentono nostri fratelli, doveva avere anche questa sanzione.
Tutti – operai e non operai – accettano la designazione che abbiam fatta di loro, come si accetta un posto di battaglia. Senza discutere, senza esitare, senza calcolare. Un giornale di Roma dice che noi li spingiamo su per un Calvario. Ed è vero. Essi preferiscono questo Calvario alle colline fiorite dell’opportunismo sulle quali – sol che l’avessero voluto – avrebbero potuto mietere allori ben più dilettosi. Essi sono assai più orgogliosi ed ambiziosi degli altri; perché non contano i voti probabili; ma intendono che ogni voto rappresenti una coscienza e una fede.
Coerenti al manifesto pubblicato in queste colonne noi non li presentiamo come legislatori futuri. Dell’azione parlamentare – in questo momento – essi si interessano mediocremente. Se potessero venire eletti – e lo diciamo per figura retorica – non ripeterebbero certo l’errore di sciupare le loro forze nelle Commissioni e negli Uffici, a condire leggine destinate a rimanere empiastri sulle gambe di legno del tribolato popolo italiano. Non è come conquista di uno scanno che essi e noi concepiamo la conquista dei poteri da parte del proletariato.
La
loro azione sarebbe – come è già – l’azione largamente
popolare dell’organizzazione sempre più compatta e cosciente per
le grandi rivendicazioni. Il loro nome, gettato nell’urna, sarà
insieme la protesta contro le iniquità del regime presente e
l’affermazione di un regime diverso, chiaramente percepito colle
vie che vi debbono condurre. L’affermazione della lotta
di classe
come mezzo confessato e predicato; del socialismo
come fine.
LA NOSTRA LISTA È UNA
Lotta di Classe, n. 14, 29 ottobre 1892
Sebbene non si lotti più collo scrutinio di lista e la nostra legge ci impedisca di portare all’urna più d’un voto, noi sentiamo il bisogno di proclamare a tutti che la nostra lista è una e tutta d’un colore; che le persone in essa spariscono e non resta di essenziale che la bandiera; che chi vota per uno dei nostri è come votasse per tutti gli altri; vuol dire che accetta intera la nostra azione e il nostro programma.
Sappiamo che vi ponno essere degli operai che voterebbero per taluno dei candidati operai, perché operaio e benché socialista; vi ponno essere degli elettori che darebbero il voto a qualcuno della lista e non agli altri, perché hanno per quel qualcuno simpatia personale, perché gli suppongono una speciale competenza, ecc. ecc. Dicono insomma: questo sì e quello no.
Queste distinzioni noi non le intendiamo, le crediamo contraddittorie al principio in nome del quale lottiamo, e dichiariamo di riprovarle. E lo dichiarano con noi quelli dei nostri candidati dei quali, per l’appoggio di altri giornali o associazioni estranee al partito o per notorietà personale, si possa supporre che radunino sul proprio nome un numero maggiore di voti.
L’elettore è libero di votare come crede; ma i nostri candidati sono anche liberi di dichiarare – e noi lo dichiariamo per essi – che non sanno che farne dei voti dati alla persona e non al partito.
Essi non si illudono di entrare in Parlamento, né credono che l’entrare in Parlamento – oggi – alcuni di essi o dei loro simili sarebbe una grande vittoria. La grande vittoria è nell’affermare e nel costruire il partito.
Si capisce che i candidati borghesi, la cui aspirazione – nell’assenza ormai d’ogni distinzione di partito, d’ogni lotta di principî, d’ogni grande ideale animatore – non può essere che il riuscire, si studino di barcamenare, di sfumare le tinte, di lambiccare e di evaporizzare le frasi, così da contentare un po’ tutti senza spaventare nessuno. Il loro scopo è fare dei voti. Il nostro è far delle idee, delle convinzioni, delle forze, che non si squaglino all’indomani.
Perciò il contegno nostro e dei nostri – nelle adunanze come nel giornale – non è atteggiato a lusingare, ma piuttosto a respingere: a respingere tutto ciò che verrebbe a noi senza convinzione chiara del perché. Gli opportunisti ce lo rimproverano. È perciò che vi persistiamo sempre più allegramente.
I nostri candidati sono dei portabandiera. Abbiamo curato, nella scelta, che avessero polso e persona atta all’ufficio: che la bandiera non avesse in grazia loro a soffrire tentennamenti. Ma sia bene inteso che chi vota per uno di essi – qual che sia la sua qualità o il suo nome – ha votato per la bandiera.