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Quella delle passerelle è una pratica sperimentata per gli affari degli Stati capitalistici. Discussioni tra capi, reggicoda e alti funzionari, posizioni distanti che alla fine si ricongiungono e così via. Il 2017 ne ha viste di queste rappresentazioni, l’ultima a Taormina a giugno. Ed erano solo “in Sette”; a luglio si ritroveranno in 20, ad Amburgo, nel summit che sarà presieduto dal cancelliere tedesco, proprio lei, che ha dichiarato che “i tempi in cui potevamo fare affidamento sugli altri sono passati”, in risposta al presidente ossigenato che aveva sentenziato che “i tedeschi sono cattivi, molto cattivi”.
Storia divertente, quella del G7, nato nel 1975 come G6, diventato G7 nel 1976 con il Canada, poi ad 8 Stati nel 1997 con la Russia. È tornato a 7 nel 2014, dopo l’espulsione della Russia “per i fatti di Ucraina”, con sanzioni economiche fortemente volute dagli USA, che hanno pesantemente penalizzato i flussi di esportazione tanto tedeschi quanto dei paesi del sud Europa, un affare grande davvero, in specie per l’Italia che non è riuscita, come molte industrie di Germania, ad uscire dalle maglie della rete.
I Grandi del mondo si riunivano annualmente per “fare il punto della situazione”, e dimostrare che tutto era sotto controllo, che si stava lavorando per la pace mondiale e il benessere dei popoli. Tutta propaganda per il pubblico. Poi gli accordi, i trattati, gli impegni veri, quando c’erano, si facevano fuori dal cono dei riflettori, come fuori ne restavano tensioni e scontri. Ciò che appariva era aggiustato e sistemato in ponderosi documenti finali che promettevano sempre il meglio di prosperità sociale, economia in sviluppo e “sostenibile”, eliminando ogni spunto polemico, ogni frizione.
Questa volta non è andata così. Le dure dichiarazioni delle due parti, quasi insulti, sono state esplicite e pubbliche. Il presidente americano si è spinto fino a denunciare gli accordi di Parigi sul clima, suscitando un coro di reprimende internazionali.
Quegli accordi sono soltanto una sceneggiata per dar sollievo alla cattiva coscienza del capitalismo e non significano davvero nulla per la protezione dell’ambiente, che avrebbe invece assoluto bisogno della sparizione del sistema del profitto per non essere sconvolto. Accordi, per altro, dei quali il sistema politico e produttivo americano non ha mai tenuto alcun conto. Lor signori lo sanno benissimo, e valutano quella decisione di Trump per ciò che è: una dichiarazione di guerra ai trattati internazionali imposti agli Stati Uniti, o che gli Stati Uniti decidano di eliminare, non fosse altro che per ribadire la loro forza.
Il principale motivo del contendere riguarda, sul terreno europeo, per ora il commercio internazionale, piuttosto che presunte egemonie politiche, o meno ancora militari. Tra l’imperialismo ancora più forte alla scala mondiale e prima potenza capitalistica, e la Germania, che in un processo perfettamente naturale nel sistema delle nazioni si sta costituendo come potenza imperiale locale, il rapporto è ancora solido e in questo momento le alleanze militari non sono messe in discussione. A questo stadio i due capitalismi nazionali non sono in contraddizione, si possono fare una limitata guerra commerciale, ma il resto non è in discussione
Su quali saranno le dinamiche future non è oggi possibile individuare tendenze certe, ma ancora tra Germania e Usa non è arrivato il momento della rottura.
Solo si manifesta la difficoltà a mantenere un allineamento che bene o male ha caratterizzato gli anni passati ed ha costituito un fronte solido di alleanze politiche e militari nei confronti del grande vicino dell’Est. Poi le politiche economiche e finanziarie, com’è uso tra briganti imperiali, possono viaggiare su altri binari, il che è sempre accaduto nel mondo della politica borghese senza destare alcuno scandalo.
Anche senza andare a riproporre le vicende della politica commerciale e monetaria degli Stati Uniti negli anni ’80 verso Germania e Giappone, i quali si erano rafforzati a suo scapito sul piano finanziario e commerciale, quando l’amministrazione americana minacciò una politica decisamente protezionistica, nell’attuale decennio di crisi generale del sistema capitalistico la situazione del debito federale sempre crescente e del disavanzo commerciale col resto del mondo dimostrano la sostanziale debolezza del complesso economico e militare più forte di fronte alle sfide economiche provenienti dagli altri predoni.
La reazione non poteva mancare. Un assaggio significativo fu l’attacco alla tedesca Volkswagen portato qualche tempo fa dall’amministrazione americana, un semplice ed evidente episodio di guerra commerciale da parte di un complesso politico-produttivo-militare cui nulla interessa davvero di ambiente ed inquinamento. Che il Presidente di allora fosse di altro “colore”, che la bugia dei “crediti di CO2” trovasse spazio e considerazione presso quella amministrazione, fa parte del copione.
La “globalizzazione”, la politica di libero scambio, che oggi favorisce Germania, Cina e Russia, contrasta con gli interessi degli Stati Uniti. E gli Stati Uniti tendono a denunciare e ritirarsi dagli accordi commerciali globali, puntando su accordi bilaterali separati.
Non può mancare, in questo clima di scontro latente fra capitalismi nazionali, il risorgere dei nazionalismi. È evidente che gli altri capitalismi europei soffrano per la formazione di un polo imperialistico a guida tedesca, conseguenza di capacità produttive, di surplus commerciale, di forza industriale; quindi di preminenza politica. Ed è altrettanto prevedibile che sorgano, in opposizione a questo, movimenti di stampo nazionalistico, più o meno tollerati o incoraggiati, ma per il momento di natura essenzialmente piccolo borghese e ultra-reazionaria.
Particolarmente impotente quello che vede nella Unione Europea a conduzione tedesca la negazione delle identità nazionali e della libertà di scelta di politiche economiche e finanziarie nazionali, che i “lacci” comunitari impediscono o limitano. Il tutto travestito da difesa della democrazia, delle libertà fondamentali, del sacrosanto diritto a condurre i propri affari e sfruttare i “propri” operai, in nome del bene nazionale, e non “dell’Europa dei burocrati”. Le ricette per la salvezza nazionale, una volta sbarazzatisi della Germania, dell’Euro e dell’Europa, sono le più disparate, ma sempre in osservanza del sacro principio del profitto capitalistico che, moderato e nazionale, solo potrebbe accompagnare la “uscita dalla crisi”.
È una storia vista e rivista. Ogni classe e ogni mezza-classe esprime le sue ideologie, talvolta in conflitto fra loro. Ma tutta questa gente, stretta intorno all’interesse nazionale, i piccoli borghesi accodati ai grandi, la ritroveremo, quando sarà il momento del risorgere di un vero movimento di classe antiborghese, anticapitalista e contro tutte le patrie e nazioni, con la camicia del “colore giusto” addosso, avversari della rivoluzione.
Lo studio che qui iniziamo a presentare, già in parte esposto nelle nostre riunioni generali, ha lo scopo di ripercorrere, anche se solo per sommi capi, ed esaltare le lotte di classe ed i tentativi insurrezionali intrapresi dal proletariato italiano, a partire dalla fine della prima guerra mondiale e fino alla legale e democratica chiamata del fascismo al governo dello Stato borghese.
Si dovranno tenere ben presenti due aspetti. Primo: il fascismo altro non rappresenta che la reazione della classe borghese, tutta, di fronte alla minaccia rivoluzionaria. Come vedremo, contribuirono al suo nascere, al suo diffondersi ed al suo successo lo Stato liberal democratico, attraverso tutti i suoi organi centrali e periferici, i partiti politici borghesi di destra e di sinistra, la Corona, la Chiesa, la Massoneria, etc., etc. Ma tutto questo naturale e legittimo fronte unico della classe borghese non sarebbe stato sufficiente ad arrestare e sconfiggere il grandeggiante moto rivoluzionario se non fosse intervenuto un secondo e ben più determinante fattore: il nemico interno, il tradimento palese e, per alcuni aspetti, dichiarato del Partito Socialista Italiano, quell’organo che avrebbe dovuto rappresentare la coscienza di classe e lo stato maggiore della guerra civile rivoluzionaria.«La guerra mondiale, causata dalle intime, insanabili contraddizioni del sistema capitalistico che produssero l’imperialismo moderno, ha aperto la crisi di disgregazione del capitalismo, in cui la lotta di classe non può che risolversi in conflitto armato tra le masse lavoratrici ed il potere degli Stati borghesi» (punto V del Programma del PCd’I, 1921).
Durante la
guerra mondiale
Il proletariato, uscito dai tormenti della trincea venne immediatamente assillato da quelli economici, acuiti dallo stesso fatto della smobilitazione dei proletari trasformati in soldati e che ora tornavano sul mercato del lavoro. La lotta di classe politica ed economico/sindacale, in cui il proletariato italiano aveva una notevole tradizione, si riaccese immediatamente. Il moto fu spontaneo e simultaneo da un capo all’altro del paese, nelle città come nelle campagne, e la borghesia ebbe a tremare dell’avanzata che il proletariato iniziava.
Al proletariato italiano non mancava certo una lunga e vigorosa tradizione di lotta, che non è qui il momento di richiamare perché altrimenti faremmo un’altra storia; ci preme solo accennare a qualche significativo evento di poco anteriore, svoltosi nell’immediata vigilia dello scoppio della guerra e nel corso della guerra stessa.
Era il 7 giugno 1914, l’Italia borghese celebrava l’annuale festa dello Statuto; in contrapposizione gli estremisti avevano convocato manifestazioni contro il militarismo e contro le famigerate “compagnie di disciplina”. Ad Ancona, dopo i comizi, mentre la folla stava defluendo i carabinieri aprirono il fuoco uccidendo tre giovani proletari e facendo molti feriti. Al diffondersi della notizia in tutt’Italia divampò una spontanea ondata di indignazione. Prima che le organizzazioni decidessero lo sciopero già i lavoratori erano nelle piazze, specie nelle Marche e in Romagna. Fra le grandi città si levarono Torino, Milano, Parma, Napoli e Firenze, dove la folla affrontò i conflitti a fuoco senza retrocedere. Fu la formidabile “settimana rossa”.
A questa aveva in primo luogo contribuito l’Avanti!. Nel commentare i periodici eccidi proletari che hanno sempre distinta la prefascista Italia democratica il giornale socialista aveva più volte scritto: «Al prossimo eccidio lo sciopero generale nazionale!» Dopo l’eccidio di Ancona il proletariato non attese disposizioni o consegne: scese spontaneamente in azione.
La Confederazione Generale del Lavoro, anche allora diretta dai riformisti, sopraffatta dagli eventi fu costretta a proclamare lo sciopero generale nazionale, che però non mancò di sospendere non appena lo Stato e la borghesia si trovarono in difficoltà.
Il 12 giugno l’Avanti! definì “fellone” il comportamento della CGL. Il famoso articolo “Tregua d’armi” (non ha nessuna importanza di chi fosse la firma in calce) non poteva essere più chiaro: «Il proletariato esiste ancora dentro e contro la nazione dei nazionalisti, e il Partito Socialista è di esso proletariato l’espressione politica unica e dominante. Alla parola d’ordine lanciata dalla Direzione del Partito socialista, un milione almeno di proletari [...] sono scesi ad occupare le strade e le piazze [...] Ma ciò che conferisce una esemplare significazione al movimento è la sua intensità. Non è stato uno sciopero di difesa, ma di offesa. Lo sciopero ha avuto un carattere aggressivo. Le folle che un tempo non osavano nemmeno venire a contatto con la forza pubblica, stavolta hanno saputo resistere e battersi con un impeto non sperato [...] Nostra funzione e nostro scopo è appunto quello di accelerare fino al possibile il ritmo di questi antagonismi, di esasperarli, sino a che l’antitesi fondamentale della società borghese si risolva, attraverso l’atto fatale rivoluzionario, nella sintesi liberatrice del socialismo».
Lo sciopero era cessato, ma ciò non significava che la battaglia fosse finita, era solo sospesa. Si trattava appunto di una “tregua d’ami”. «Da ieri sera – continuava l’articolo – è cominciato un nuovo periodo di tregua sociale. Breve o lungo non sappiamo. Ne approfitteremo per continuare nella nostra multiforme attività socialista [...] cosicché quando batterà nuovamente la diana rossa, il proletariato si ritrovi sveglio, pronto e deciso al più grande sacrificio e alla più grande decisiva battaglia».
Il proletariato italiano, che già si era battuto vigorosamente contro la guerra libica, con altrettanta determinazione si batté contro l’entrata in guerra del 1915. Quello che mancò fu il partito: alla consegna, proposta dalla Sinistra, di rispondere alla mobilitazione con lo sciopero generale nazionale, venne contrapposta la sciagurata formula di Lazzari: “Né aderire, né sabotare”, che, tradotta nella pratica, significava: aderire!
Tuttavia la guerra esasperò ancora di più l’odio del proletariato nei confronti della classe borghese. È storia nota che, quando nel luglio 1917 la missione militare russa inviata in Europa occidentale dal soviet di Pietrogrado giunse a Torino, poi a Milano, Firenze, Roma, ed in tante altre città, i membri di essa furono accolti al grido di “viva il compagno Lenin”. Questo entusiastico saluto, ripetuto dal proletariato italiano di ogni città, non solo mise in profondo imbarazzo la delegazione russa, ma irritò molto i socialisti riformisti italiani che, nella “Critica Sociale” attaccarono l’Avanti! per non essere intervenuto a precisare che Lenin era il più deciso oppositore di quei delegati del soviet ai quali il proletariato italiano faceva così festose accoglienze.
Il fatto era che, nella primavera del 1917, le notizie della rivoluzione russa di febbraio avevano diffuso tra i lavoratori la speranza di una prossima fine della guerra. Nel cuore dei proletari ogni russo rappresentava un rivoluzionario ed ogni rivoluzionario non poteva che essere un seguace di Lenin.
Nel Mezzogiorno ed in Lombardia erano scoppiate agitazioni di contadini e di operai culminate il 1° maggio a Milano in un grande movimento popolare. Schiere di donne, di bambini e di ragazzi con bandiere rosse e cartelli reclamanti pane e pace erano entrate in città e si erano dirette verso il centro dove erano state disperse dalla polizia.
Nell’agosto 1917 ancora una volta furono gli operai di Torino a condurre una viva e vera azione di guerra di classe. Il movimento era partito dalle fabbriche, specialmente da quelle metallurgiche. Il malcontento e l’agitazione tra gli operai aumentavano di giorno in giorno in conseguenza dei gravosi orari di lavoro, della disciplina da galera cui erano sottoposti nelle fabbriche, dei frequenti infortuni e del mancato rispetto dei contratti di lavoro. Alla fine di luglio la situazione si aggravò ulteriormente per la carenza di pane. Le lunghe code che ogni giorno duravano svariate ore esasperarono la popolazione. Il 22 agosto gli operai, in segno di protesta, abbandonarono il lavoro. Lo sciopero si fece ben presto generale. Il 23 cominciarono a sorgere per le strade le barricate, ed i lavoratori diedero l’assalto ai magazzini dei viveri. Il proletariato prese le armi che trovò e i soldati ne consegnarono anche di proprie. Per quattro giorni il proletariato respinse gli attacchi delle forze armate. Poi i moti vennero soffocati nel sangue. Non si seppe mai di preciso quale fosse il numero dei morti di quelle giornate. Le autorità comunicarono la cifra ufficiale di 70 morti ed alcune decine di feriti; altri parlarono (forse esagerando) di più di 500 operai caduti nella lotta e di circa 2.000 feriti. La gravità della repressione e le pesanti condanne emanate dal tribunale militare contro tutti i capi locali del partito, compreso lo stesso Serrati coraggiosamente accorso, formarono intorno a questi moti quasi una leggenda. Treves volle condannare l’errore di “localismo”, mentre i torinesi giustamente accusarono il partito di averli lasciati soli. Torino aveva dato con eroismo di classe un vivo, alto esempio, che segnò una tappa sulla via della preparazione del movimento comunista italiano.
A fine ottobre al fronte si ebbe la famosa “rotta” con il getto delle armi: in pratica i proletari in divisa avevano applicato, sia pure in modo insufficiente, il disfattismo, disertando il fronte. Avevano gettato le armi invece di tenerle per azioni di classe, come nello stesso tempo avveniva sui fronti russi; se non avevano sparato sui loro ufficiali era perché gli ufficiali erano scappati con loro e prima di loro. Le masse avevano capito quanto possono capire, finché non fa maggior luce il partito rivoluzionario.
Infatti, già da prima era maturata la necessità di una drastica selezione all’interno del partito. Al congresso socialista di Roma (1918) questa necessità venne formulata in modo netto. Repossi dichiarerà: «Finché lo Stato è borghese, guerre ce ne saranno sempre; il compito del partito è diverso, è superiore alla guerra, è di trasformare la società mediante la dittatura del proletariato [...] Noi nelle nostre organizzazioni, col nostro sacrificio, dobbiamo preparare la lotta contro la borghesia per il dopo la guerra; più nessuna blandizia, classe contro classe, da una parte la borghesia, tutta insieme, contro di noi, noi dall’altra, soli, contro tutto il resto del mondo: questo è il compito dei socialisti». La posizione dell’estrema sinistra fu svolta da Salvatori di Livorno che, rivolto ai destri affermò: «Voi dovevate aderire alla guerra, voi che avete aderito apertamente ad un certo punto; noi dovevamo sabotarla fin dal principio immediato».
Il
dopoguerra
Abbiamo fatto questo breve passo indietro nel tempo per dare una idea della determinazione alla lotta del proletariato italiano che sempre, in tutte le occasioni, aveva fatto il proprio dovere di classe e se vittorie non ne aveva conseguite non era per mancanza di slancio combattivo ma per l’assenza di un partito veramente rivoluzionario.
A guerra terminata, di fronte ad un proletariato con simili tradizioni e simile determinazione, il terrore della borghesia era pienamente giustificato. In aggiunta a ciò c’era il fatto che una marea rossa stava travolgendo tutta quanta l’Europa: il proletariato di Russia, sotto la direzione del partito bolscevico, nel novembre del 1917 aveva preso il potere ed instaurato la dittatura proletaria. Nel gennaio 1919 a Berlino gli spartachisti a loro volta tentarono l’assalto al cielo e il 7 aprile a Monaco veniva proclamata la repubblica dei soviet. Il 21 marzo era stata la volta dell’Ungheria. È su questo scenario internazionale che si inquadrano anche le lotte del proletariato italiano.
Sarebbe impossibile fare qui un resoconto di tutte le lotte sindacali, o scegliere tra di esse le più notevoli per durata, per numero di partecipanti, per le conquiste realizzate o anche per la violenta repressione esercitata da parte delle forze dello Stato liberal-democratico, ed un resoconto dettagliato non rientrerebbe nemmeno nell’economia di questo lavoro. Diremo soltanto che si viveva in uno stato di pre-guerra civile.
Lo storico Carlo Morandi ha scritto: «Si giunse all’occupazione delle fabbriche (estate del 1920). Chi, in quei giorni, si fosse affacciato al passo dei Giovi guardando giù nella vallata della Polcevera e più lontano, verso Voltri, verso Sestri, avrebbe visto sui tetti degli opifici fiammeggiare, nel chiaro sole di settembre, le bandiere rosse del proletariato. E così nella conca di Lecco, vigilata dal Resegone, e così verso Greco milanese, verso Mirafiori, nel biellese, nel bresciano» (“I partiti politici nella storia d’Italia”).
È vero che noi abbiamo più volte messo in evidenza i limiti della occupazione delle fabbriche. “Prendere la fabbrica o prendere il potere?”, domandammo. Però questo interrogativo non era rivolto al proletariato, ma al partito. Ed il partito non rispose perché non avrebbe potuto rispondere, visto che nel suo programma non era contemplata (se non a parole) la conquista rivoluzionaria del potere.
Ad illustrare quale fosse lo slancio rivoluzionario del proletariato italiano nell’immediato dopoguerra, e soprattutto il terrore che esso ispirava alla borghesia, vogliamo riportare una pagina tratta nientemeno che da “Tecnica del colpo di Stato” di Curzio Malaparte:
«L’iniziativa era passata agli operai [...] I capi dei sindacati conducevano la lotta a grandi colpi di sciopero: delle città, delle provincie, delle regioni intiere erano all’improvviso paralizzate da un conflitto che scoppiava in un piccolo borgo qualunque. Al primo colpo di fucile, era lo sciopero: al grido di angoscia delle sirene, le officine si vuotavano, le porte e le finestre delle case si chiudevano, il traffico si arrestava, le strade deserte prendevano quell’aria grigia e nuda che hanno le tolde delle corazzate che si preparano al combattimento. Gli operai, prima di abbandonare le officine, si equipaggiavano per la lotta: le armi uscivano da ogni parte, di sotto i banchi dei tornii, di dietro i telai, le dinamo, le caldaie; i mucchi di carbone vomitavano fucili e cartucce; uomini dai visi muti e dai gesti calmi scivolavano fra le macchine morte, gli stantuffi, i magli, le incudini, le gru, si arrampicavano sulle scale di ferro, sulle torrette, sui ponti di caricamento, sui tetti acuti ricoperti di vetro, andavano a prendere posizione per trasformare ogni officina in fortilizio. Bandiere rosse spuntavano in cima ai camini. Nei cortili gli operai si ammucchiavano in disordine, si dividevano in compagnie, in sezioni, in squadre; dei capi-squadra dal bracciale rosso impartivano ordini; al ritorno delle pattuglie inviate in ricognizione, gli operai abbandonavano le officine, camminando in silenzio lungo i muri per andare a occupare i punti strategici della città. Alle Camere del lavoro affluivano da ogni parte le squadre esercitate alla tattica della guerra di strada, per difendere le sedi delle organizzazioni sindacali da un eventuale attacco a tutte le uscite e sui tetti, granate a mano erano ammucchiate negli uffici presso le finestre. I ferrovieri staccavano le locomotive e proseguivano a tutta velocità verso le stazioni, abbandonando i treni in mezzo alla campagna. Le strade, nei paesi, erano sbarrate da carri messi di traverso, per ostacolare la mobilitazione fascista e impedire ai rinforzi di camicie nere di spostarsi da una città all’altra. Appostate dietro le siepi, le guardie rosse contadine armate di fucili da caccia, di forche, di zappe, di falci, attendevano il passaggio dei camion fascisti. Le fucilate si sgranavano lungo le strade e le ferrovie, di villaggio in villaggio, sino ai sobborghi delle città imbandierati di rosso. Ai gridi di allarme delle sirene delle officine, che annunziavano lo sciopero, i carabinieri, le guardie regie, gli agenti di polizia, si ritiravano nelle caserme».
Anche se con un tono meno letterario, perché classista, Umberto Terracini praticamente descriveva la medesima situazione (in “Bulletin Communiste”, 28 luglio 1921):
«La fine della guerra europea servì, agli operai italiani, per ingaggiare una lotta estremamente dura contro la loro borghesia capitalista. I pesi e le prove imposti dalla guerra, le sofferenze e le ansietà sopportate per cinque anni si erano trasformate in uno stimolo, in un incitamento all’azione. Gli operai ed i contadini italiani, entrando in centinaia di migliaia nei sindacati ed in decine di migliaia nel Partito Socialista, non manifestavano che una unica volontà: quella di travolgere, con il loro slancio, tutti gli ostacoli allo scopo di ottenere le maggiori conquiste. Di fronte ad un proletariato così determinato alla lotta, si trovava una borghesia in gran parte nuova e disorganizzata [...] uno Stato che, per quanto vittorioso, usciva dallo sforzo bellico con una struttura disorganizzata, sfasata, ridotta in miseria, senza potere né autorità.
«Non vi sarebbe stato alcun dubbio sul risultato di un duello tra due simili avversari. Per il proletariato fu dunque una avanzata continua, all’inizio lenta, in seguito più rapida, ed infine travolgente. Le conquiste economiche e le conquiste morali si succedevano di giorno in giorno. Al contrario la borghesia, dopo alcune velleità di difesa, abbandonò ogni speranza di salvezza e si sottomise a quello che essa stessa considerava come il terribile tributo imposto dalla storia ai responsabili della guerra. Si arrivò al punto che il combattimento divenne superfluo; per ottenere bastava chiedere. Il governo statale ed il Comitato Direttivo del Partito Socialista e della Confederazione Generale del Lavoro trattavano tra loro da pari a pari. Il padrone di fabbrica e la “Commissione Interna” si contendevano il diritto di assumere la direzione dell’impresa, e quasi sempre era l’autorità padronale a dover sottostare.
Ecco qualche esempio:
«La Commissione socialista partì per la Russia, nel giugno 1920, con due vagoni speciali e con tutti gli onori di una legazione diplomatica. Durante i moti contro il caro viveri, i negozianti, a migliaia, consegnavano le chiavi dei loro magazzini alle Camere del Lavoro, come all’unico effettivo organo di potere ed autorità ancora funzionante nelle città.
«Bastò solo una minaccia, da parte della direzione del partito, perché venisse abbandonata l’avventura imperialista di Albania nella quale l’esercito italiano era stato lanciato dalle cricche imperialiste.
«Elezioni politiche 1919: 156 deputati socialisti. Elezioni amministrative 1920: 2.300 comuni innalzarono la bandiera rossa. Infine, nel settembre 1920, la parte più cosciente e capace del proletariato, gli operai metallurgici, inferse alla borghesia un colpo dei più audaci e gravido di conseguenze. Con l’occupazione di tutta la grande industria italiana, era il cuore della società capitalista che veniva minato, era il principio della proprietà privata, intangibile, inviolabile, sacrosanto che veniva attaccato e leso».
Al IV Congresso dell’Internazionale Comunista il relatore italiano avrebbe dichiarato: «Si può dire che nell’anno 1919 e nella prima metà del 1920 la borghesia italiana si era in un certo modo rassegnata a dover assistere alla vittoria della rivoluzione». Parlando poi della situazione nelle campagne diceva: «La situazione che si presentava in una gran parte di Italia, anzi nella parte economicamente più importante di essa, cioè nella Valle del Po, assomigliava ad una specie di dittatura locale del proletariato, o almeno dei salariati agricoli. In questa zona, alla fine del 1920, il Partito Socialista aveva conquistato numerosi comuni che avevano praticato una politica fiscale locale diretta contro la borghesia media e agraria. Noi vi possedevamo fiorenti organizzazioni sindacali, importanti cooperative e numerose sezione del Partito Socialista. E, anche là dove il movimento si trovava nelle mani dei riformisti, la classe operaia delle campagne assumeva un atteggiamento rivoluzionario. Essa costringeva i datori di lavoro a versare all’organizzazione una certa somma che rappresentava in certo modo una garanzia della loro sottomissione ai contratti imposti nella lotta sindacale. Si verificò così una situazione in cui la borghesia agraria non poteva più vivere in campagna ed era costretta a ritirarsi in città».
La reazione
borghese
La borghesia si era rassegnata ad una eventuale sconfitta, ma non a perdere il potere senza combattere, tanto più che da parte di quello che avrebbe dovuto essere il principale nemico, il Partito Socialista, non veniva fatto niente per organizzare le masse proletarie in vista della presa del potere.
«L’occupazione delle fabbriche, accompagnata in molte parti d’Italia dalla invasione dei latifondi, fu effettivamente uno di quei momenti nei quali la capacità dei partiti politici e la preparazione delle classi sono messi alla prova. Ed il momento fu tragico e doloroso per il proletariato.
«Il Partito Socialista, di fronte alla necessità terribile dell’azione, retrocesse. Lo spavento di fronte alla mischia, di fronte alla vera lotta, lotta non più di parole o di idee o di abili scaramucce dialettiche, ma di uomini forti, coraggiosi, armati, violenti, ghiacciò il sangue dei più scalmanati demagoghi. E mentre il proletariato [...] chiuso nelle fabbriche, attendeva il segnale e l’ordine di agire, i capi, negli uffici governativi, mercanteggiavano la resa. L’inazione proletaria in questa congiuntura critica fu il segnale dell’inizio del contrattacco borghese» (Terracini).
Così, mentre di fatto il Partito Socialista paralizzava le lotte del proletariato, la borghesia aveva modo di riorganizzarsi: nell’aprile del 1919 industriali ed agrari a Genova stipularono una alleanza per la lotta al bolscevismo. Il 7 marzo 1920 a Milano si riunì la prima conferenza nazionale degli industriali italiani che crearono la Confederazione Generale dell’Industria e venne elaborato un piano di azione comune di risposta alle azioni sindacali. Il 18 agosto nasceva la Confederazione Generale dell’Agricoltura. Industriali ed agrari, animati da una spiccata coscienza di classe, capivano che contro la marea proletaria che avanzava non potevano battersi in ordine sparso ma avrebbero dovuto costituire un fronte unico di difesa. Oltre all’arma del licenziamento, della serrata, etc. avevano esigenza ed urgenza di disporre di una struttura armata, extra-legale, per affrontare il proletariato sul terreno dello scontro frontale violento. La borghesia si era resa conto che, dietro la terribile minaccia degli operai, da parte del partito del proletariato non vi era che incapacità ed inerzia e, per conseguenza, ora era possibile contrattaccare.
«La borghesia italiana ha osato. Essa ha insegnato al suo proletariato, al prezzo del suo sangue e delle sue sofferenze, che vi è una sola legge che domina gli avvenimenti nei momenti decisivi della storia: la legge della violenza. Ed in effetti era avvenuto ciò: le leggi, i codici, i regolamenti avevano perduto ogni capacità di difesa per la classe borghese. Superati dagli avvenimenti, questi non erano che delle armi spuntate [...] Solo sul terreno dell’illegalità era possibile vincere. E la borghesia italiana trasportò tutta la sua potenza e la sua azione al di là dei confini stabiliti dalla legge. Al di sopra delle leggi, essa mise il combattimento, l’arma decisiva, la violenza. Il fascismo non rappresenta nient’altro che un organo difensivo ed armato della borghesia italiana [...] In Italia di fronte all’eclissi subita dal Partito Socialista, fu la classe borghese che scatenò l’attacco. Il fascismo scese in campo in perfetto assetto di guerra. I giornali fascisti cominciarono la pubblicazione di bollettini di guerra ricalcanti, nello stile e nella forma magniloquente, quelli di Cadorna, Joffe ed Hindenburg. Vennero equipaggiate delle intere sezioni autotrasportate per gli spostamenti rapidi delle bande, raggruppate in divisioni, con elmi, fucili e mitragliatrici. Le autorità governative largheggiarono nella distribuzione di armi, di munizioni, di asilo, di garanzie e di immunità. Le masse lavoratrici, assalite così nel momento in cui la più grande confusione regnava all’interno del loro partito di classe, non ricevettero mai un colpo tanto terribile. Senza incontrare ostacoli, i fascisti poterono incendiare e distruggere centinaia di case del popolo, di abitazioni operaie, ferire ed uccidere migliaia di operai, disperdere a mano armata più di 50 municipalità socialiste. Le organizzazioni sindacali e politiche del proletariato ricevettero un grave danno da questa azione armata della borghesia» (Terracini).
Diamo ancora la parola a Malaparte: «Nel vuoto minaccioso che lo sciopero creava intorno a loro, le squadre fasciste specializzate nella guerra di strada si appostavano agli incroci, le sezioni esercitate alla difesa e all’attacco delle case si tenevano pronte a partire per andare a rinforzare i punti deboli, a difendere le posizioni minacciate, a vibrare colpi rapidi e violenti nei nuclei dell’organizzazione avversaria; le truppe d’assalto, formate di camicie nere esercitate alla tattica dell’infiltrazione, dei colpi di mano, delle azioni individuali, e armate di pugnali, di granate e di materiale incendiario, attendevano presso i camion che dovevano trasportarle sul terreno della lotta. Erano quelle le truppe scelte destinate alle rappresaglie. Nella tattica delle camicie nere, la rappresaglia era uno degli elementi più importanti. Appena l’uccisione di qualche fascista era annunziata in un sobborgo o in un villaggio, le truppe d’assalto partivano a compiere la rappresaglia: le Camere del lavoro, i circoli operai, le case dei capi delle organizzazioni socialiste, erano immediatamente attaccate, devastate, incendiate [...] Per domare gli scioperi rivoluzionari e le insurrezioni degli operai e dei contadini, che divenivano sempre più gravi, fino a paralizzare intere regioni, i fascisti adottarono la tattica dell’occupazione sistematica delle regioni minacciate. Da un giorno all’altro, concentramenti di camicie nere avevano luogo nei centri indicati nel piano di mobilitazione: migliaia e migliaia di uomini armati, qualche volta quindici o ventimila, si rovesciavano sulle città, sui paesi, sui villaggi, spostandosi rapidamente in ferrovia e in camion da una provincia all’altra. In poche ore tutta la regione era occupata e sottomessa allo stato d’assedio. Tutto ciò che restava dell’organizzazione socialista e comunista, Camere del lavoro, sindacati, circoli operai, giornali, cooperative, era disciolto o distrutto metodicamente. Le guardie rosse che non avevano avuto il tempo di prender la fuga, venivano purgate, pettinate e rimesse a nuovo: durante due o tre giorni i manganelli lavoravano su centinaia di chilometri quadrati. Alla fine del 1921 questa tattica, applicata in maniera sistematica su una scala sempre più vasta, aveva spezzato le reni all’organizzazione politica e sindacale del proletariato. Il pericolo della rivoluzione rossa era allontanato per sempre».
L’organizzazione mussoliniana, che in seguito inglobò tutte le altre, non era affatto l’unica struttura armata, extralegale, borghese: immediatamente dopo la fine della guerra in Italia erano sorti una miriade di raggruppamenti armati antioperai. Accanto alle camicie nere di Mussolini troviamo le camicie azzurre di Federzoni, gli Arditi, i Legionari dannunziani ed altre milizie dai nomi più disparati: la Lega Antibolscevica, i Fasci di Educazione Sociale, Umus, Riscatto Italico, etc.
Cesare De Vecchi, il futuro quadrunviro della Marcia su Roma, in un suo diario, racconta che quando i fascisti «non esistevano per nulla sulla piazza», gli industriali torinesi avevano creato «un surrogato del fascismo sovvenzionando una “Associazione Antibolscevica” [...] Ne era comandante il generale Setti, il quale, per la sua azione di comandante, percepiva un regolare stipendio. L’associazione disponeva di regolari squadre da lanciare nei momenti di emergenza e aveva lo scopo di contrastare l’azione rivoluzionaria dei partiti di sinistra. Le squadre di Torino erano comandate da un giovane capitano di complemento, Mario Gobbi, che diventò in seguito un esponente del fascismo torinese». Anche a Milano gli industriali avevano favorito la costituzione di un “Comitato di Intesa e di Azione”. Il De Vecchi dice inoltre che, appena iniziata l’occupazione delle fabbriche, «la sede dell’Associazione Combattenti fu presa d’assalto da numerosi rappresentanti di industriali che, a colpi di biglietti da mille, tentavano di barattare la loro difesa con il nostro intervento» (Riportato da: F. Catalano, “Potere economico e fascismo”).
Visto poi che nessuno sembra volersene ricordare, non va taciuta l’esistenza di squadracce armate cattoliche. Non saremo certo noi a meravigliarci se i cristianucci, dimenticando l’insegnamento del “porgi l’altra guancia” si armassero contro i nemici della civile convivenza.
Sfogliando l’Avanti! del 1920 ci si imbatte in note riguardanti il cosiddetto “teppismo cristiano”; in queste note si relaziona di attacchi da parte di squadre di “pipilari”, aderenti al P.P., il Partito Popolare fondato da don Sturzo, che, spesso guidate dai preti, attaccavano cortei operai o effettuavano imboscate e pestaggi di singoli militanti socialisti. Ne citiamo alcuni esempi: L’Avanti! del 1° giugno riporta il seguente episodio: a Pioltello, la sera del giorno prima, una ventina di “pipilari” avevano assaltato in armi tre esponenti socialisti. L’Avanti! del 5 giugno scrive che a Ravenna i clericali provocano conflitti e a Trezzo d’Adda un prete, con la pistola spianata, tenta di intimidire un corteo di proletari con la bandiera rossa. Sull’Avanti! del 24 giugno si legge che si intensificano gli episodi di “teppismo cristiano”; a Busto Arsizio viene pestato un quattordicenne che portava l’emblema dei soviet; l’Avanti! del 27 giugno: a Brescia, durante uno scontro tra giovani socialisti e clericali, le forze armate sparano facendo 5 morti e 4 feriti. Il giorno successivo si legge che a Cittadella leghisti bianchi, aizzati dai preti, compiono una imboscata a danno di giovani socialisti.
Il cattolico Giovanni Gronchi, futuro presidente della repubblica, nel novembre 1919, in un intervento a Viareggio, affermava: «Quando infuriava la bufera rivoluzionaria e parve che i poteri politici avessero abdicato, il nostro fu il primo partito che compisse il dovere di un’affermazione di antibolscevismo» (“Il Messaggero Toscano”, 7 novembre 1919).
In fondo, come ebbe a scrivere Il Popolo d’Italia, «i campi erano due: per Lenin o contro Lenin».
Nel Partito
Socialista
Data la radicalizzazione dello scontro sociale, alle organizzazioni proletarie si imponeva la necessità di creare e mantenere con le masse operaie uno stretto contatto non solo sul terreno limitato delle rivendicazioni economiche quotidiane, ma anche e soprattutto su quello dell’azione rivoluzionaria, cominciando dalla difesa, anche a mano armata, delle sue strutture e dei suoi uomini. In modo del tutto spontaneo, fin dal 1918, si costituirono, all’interno della gioventù socialista, gruppi di difesa che, nelle intenzioni dei promotori, avrebbero dovuto essere gli embrioni di una futura organizzazione militare di partito; la cosiddetta “Guardia rossa”.
L’Avanguardia, il giornale della gioventù socialista, del 29 giugno 1919 scriveva: «È chiaro come la luce del sole, che al presente i paesi dell’Intesa, l’Europa, il mondo, attraversano una situazione eminentemente rivoluzionaria. In attesa che la situazione del generale stato d’animo rivoluzionario provochi la scintilla dell’atto estremo che generando l’incendio distrugga il traballante e decrepito edificio borghese sul cui terreno ripulito dovrà edificarsi la società futura; nell’attesa non apocalittica ma laboriosa di questa causa determinante nei singoli paesi, il dovere dei giovani socialisti crediamo sia nel preparare gruppi d’avanguardia che dovranno prima concorrere ad ordinare l’esercito rosso dei proletari, poi precederlo nelle sue azioni di offesa e difesa. L’ora in cui i due eserciti nemici – la borghesia conservatrice ed il proletariato innovatore – si dovranno trovare definitivamente di fronte sta per suonare al grande orologio del mondo. Questa sarà l’ultima guerra.
«La borghesia anzi inizia i suoi attacchi. A Berlino massacra gli spartachisti, a Monaco soffoca la repubblica comunista, a Milano incendia l’Avanti!, a Parigi assassina Carlo Lorne, da Versailles progetta lo strangolamento dell’Ungheria soviettista. Essa – la borghesia – scende in campo contro i proletari con mitragliatrici, con bombe, con fucili, rivoltelle e pugnali. I proletari devono pagarla con ugual moneta. A violenza, violenza; a sangue, sangue. Perciò la gioventù socialista italiana ritiene necessario che in ogni paese si proceda all’armamento del popolo».
La borghesia viveva nell’incubo di una imminente rivoluzione; da tutte le prefetture del regno giungevano al ministero degli interni rapporti allarmanti. In data 20 marzo 1919 la Direzione generale della Pubblica sicurezza inviava al Presidente del Consiglio un rapporto in cui si diceva: «In seno al partito [socialista, n.d.r.] circolano ordini segreti di tenersi pronti alla prima occasione, e in molti centri come per esempio a Bologna, ad Ancona, a Roma, Firenze, ecc., a mezzo Bombacci e Lazzari, si tenta la costituzione, entro le sezioni del partito, di speciali comitati segreti, incaricati di preparare tecnicamente la rivoluzione e di preparare l’avvento del proletariato al potere strappato con la violenza. Tali mene sono naturalmente condotte con la più assoluta circospezione nei luoghi indicati e [...] aggiungo che tra i dirigenti del partito socialista è una vera affannosa ricerca del plausibile pretesto per inscenare uno sciopero generale nazionale che dovrebbe essere fiancheggiato ed alimentato dagli stessi comitati segreti, e per il quale tutto è preparato dalla Confederazione generale del Lavoro».
Il Prefetto di Milano il 9 aprile 1919 trasmetteva il seguente telegramma: «È certo che i dirigenti di dette sezioni formano, per la forza stessa delle cose, specie di singoli “Comitati segreti” che, con la massima circospezione e cautela, ricevono istruzioni dalla Direzione del Partito ed in conformità alle stesse istruzioni svolgono un’attiva e deleteria propaganda, destinata a preparare le masse ad un moto insurrezionale che già predicono prossimo».
In effetti il 20 marzo 1919 la Direzione del PSI aveva annunziato la preparazione di uno sciopero generale rivoluzionario. Naturalmente lo sciopero rivoluzionario non ci fu, o meglio, venne sempre rimandato. Alla vigilia del congresso di Bologna, nelle riunioni del settembre che lo precedettero, la Direzione del partito «riconfermando che il deliberato sciopero generale per la virtuale presa di possesso del potere da parte del proletariato, deve essere preceduto da una seria preparazione pratica e tecnica, oltre che spirituale, delibera la intensificazione di detto lavoro». E, come dovevasi dimostrare, tutto finì lì. Ma torniamo alle paure della borghesia.
In data 13 aprile la Prefettura di Napoli inoltrava questa comunicazione riservata: «Circa la costituzione di Comitati segreti i quali dovrebbero preparare tecnicamente la rivoluzione, risulta che qualche accenno se ne fa in alcuni gruppi ristretti, con grande circospezione, per confermare la prossimità di un movimento rivoluzionario».
Secondo gli informatori della polizia l’attacco rivoluzionario si sarebbe dovuto scatenare in occasione dello sciopero internazionale pro Repubbliche comuniste del 20/21 luglio 1919. E in una comunicazione del 24 giugno, indirizzata al capo del governo, si diceva: «La Direzione del Partito Socialista, a mezzo di diversi suoi membri che quotidianamente si alternano e partono, siede quasi in permanenza in via del Seminario, e scopo dei lavori di essa è quello di porre ogni cura affinché tutto il proletariato risponda al prossimo appello. Si emanano febbrilmente ordini e disposizioni in proposito e si perfeziona il piano rivoluzionario [...] Il piano predetto consisterebbe nelle linee generali nell’impossessarsi violentemente, specialmente qui a Roma, delle sedi e degli organi del potere e dichiarare decaduta la monarchia. Attivissimi si dimostrano i capi già noti, con alla testa Bombacci. Anche Voghera si mostra particolarmente occupato nell’inviare ordini alle sezioni socialiste d’Italia affinché si tengano pronte al grande cimento».
Da parte proletaria il problema consisteva nella necessità di impiantare una organizzazione clandestina armata, ma nello stesso tempo nel non cadere nella provocazione borghese dando vita a movimenti insurrezionali improvvisati che avrebbero fornito alla borghesia il pretesto per effettuare una sanguinosa repressione.
A tale riguardo, in preparazione delle manifestazioni del 1° maggio, Il Soviet del 27 aprile 1919 aveva scritto: «Per noi, per tutti i proletari [...] questo primo maggio [...] deve dire il proposito fermo e definitivo del popolo lavoratore di impadronirsi dappertutto del potere per sostituire alla sfruttatrice economia capitalista il comunismo, fondato sull’eguaglianza e sulla libertà dei lavoratori. La borghesia nostrana ha inteso questo significato preciso che la manifestazione assumerà, e va facendo grandi preparativi di repressione armata. Essa conserva la mentalità del ’98, e spera sempre che anche questa volta il proletariato si lasci trarre anzitempo, davanti a provocazioni sapientemente preordinate, a un moto di piazza, che permetta l’eccidio desiderato dai lanzichenecchi della classe dominante, e l’arresto degli elementi dirigenti. Vane illusioni!
«Il proletariato ha imparato molte cose dal ’98 ad oggi; e specialmente ha appreso il senso della disciplina e dell’azione metodica, come ha dimostrato nei recenti scioperi di protesta contro l’aggressione di Milano. Esso scenderà in piazza allora, e soltanto allora, quando la volontà di rivoluzione l’avrà per tal modo pervaso e permeato tutto, che il solo spiegamento della sua massa animata di incrollabile volontà basti a render vana, impossibile, inattuabile ogni resistenza borghese. E saranno i lavoratori a scegliere il momento. Sarebbe certo più comoda per la classe dominante una rivolta a breve scadenza e a data fissa; ma appunto perché la cosa sarebbe comoda alla borghesia, il proletariato la eviterà. Dunque il primo maggio non sarà la data della rivoluzione, ma soltanto un’alta affermazione politica, che valga a intensificare e ad allargare in strati sempre più profondi del proletariato la coscienza dei nuovi destini che maturano. Sarà un altro grandioso spiegamento di forze, e contribuirà a perfezionare i collegamenti tra le masse, a stimolare il senso della solidarietà proletaria, a convincere gli avversari della ineluttabilità degli eventi che la storia porta nel suo grembo. Con questa intesa, e con l’impegno della più salda disciplina contro ogni prevedibile provocazione, noi invitiamo i compagni [...] ad accorrere in massa ai comizi e ai cortei, che il Partito Socialista indirà per il primo maggio, che dev’essere questa volta una grande rassegna delle nostre forze».
Si noti come da parte dei rivoluzionari socialisti, quelli seri, si eviti di impegnare le masse in movimenti senza sbocco. Giustamente gli eserciti non si improvvisano e le rivoluzioni non avvengono a date fisse, il compito del partito è quello di prepararsi e predisporre le sue forze per l’attacco rivoluzionario e cogliere il momento opportuno per sferrarlo, ma senza lasciarsi coinvolgere dall’emotività lanciando anzitempo il proletariato in una lotta destinata a fallire. L’esortazione del Soviet non era quindi un invito a desistere dalla lotta, ma l’appello per una seria preparazione rivoluzionaria.
La borghesia
riarma
Dalla parte opposta, da quella del potere borghese, la situazione si presentava tragica perché le rivolte proletarie, se avessero trovato un partito pronto a prenderne la direzione, sarebbero sfociate nell’insurrezione. Seppure in mancanza di questa direzione, innumerevoli furono gli episodi di rivolta, i più eclatanti dei quali l’ammutinamento di Ancona e l’occupazione delle fabbriche. La temperatura sociale aveva raggiunto punte altissime e Nitti, formato il suo governo il 23 giugno 1919, si trovò di fronte ad una situazione molto grave, con una borghesia ormai rassegnata, che dava per scontato un imminente scoppio rivoluzionario, e viveva nell’incubo di un suo sbocco vittorioso. Di fronte ad una tale eventualità lo Stato borghese italiano si sarebbe trovato impreparato a contrapporsi e sostenere l’urto di un attacco rivoluzionario: la polizia quasi non esisteva; la maggior parte dei carabinieri, già ridotti nei ranghi, allo scadere dell’obbligo di leva lasciavano il corpo ed il reclutamento era difficoltoso dato l’odio accumulato contro di essi durante i quattro anni di guerra; l’esercito poi non era affatto affidabile, pronto com’era a solidarizzare con le masse in agitazione.
In una lettera a Luigi Albertini viene riportata questa amara constatazione di Nitti: «Se [...] avvengono tumulti e conflitti, con chi andrà la truppa? Non certo contro i proletari. E qui io, Nitti, vedo i pericoli del sovietismo. Che sulla truppa non si possa fare assegnamento lo prova quanto avviene nel Lazio ove i reparti, che sono mandati a mantenere l’ordine là dove i contadini invadono le terre dei proprietari, debbono essere cambiati dopo tre giorni o quattro perché i soldati si affiatano perfettamente con i contadini» (22 ottobre 1919).
Tommaso Tittoni, ministro del governo Nitti ebbe a scrivere: «Nei vari tumulti scoppiati in varie parti d’Italia, rimasi impressionato che, per riunire le forze sufficienti a fronteggiarli, occorresse far venire guardie e carabinieri dalle regioni immuni che rimanevano così sguarnite [...] Più volte ebbi a domandarmi che cosa avrebbe potuto fare il governo se un movimento di rivolta fosse scoppiato contemporaneamente in tutta la penisola» (da: “Nuovi scritti di politica interna ed estera”).
Urgeva perciò una rapida trasformazione degli apparati di “pubblica sicurezza”. Ormai sarebbe stato semplicemente ridicolo affidarsi al vecchio organico ante-guerra, composto da alcune migliaia di uomini, polizia e carabinieri, che compivano l’ordinario servizio di pattuglia e piantonamento. È vero che nei casi di grave pericolo sempre era stato fatto intervenire l’esercito, ma ora l’esercito era divenuto inaffidabile e si temeva che la truppa avrebbe fatto fronte comune con il proletariato insorto.
In un primo momento il governo si era affidato direttamente all’alto comando militare: per il mantenimento dell’ordine pubblico, venne organizzato un piccolo esercito all’interno dell’esercito, selezionato e con truppa che dava piena garanzia. Il territorio nazionale fu suddiviso in settori, e le principali città furono anch’esse suddivise in settori; ogni settore fu posto sotto un comando che sul luogo stesso disponeva di reparti in piena efficienza bellica.
La strategia usata fu quella di non disperdere le magre forze di cui lo Stato disponeva in azioni di repressione preventiva per la quale sarebbero state insufficienti. Il Governo si affidò alla abilità dei Prefetti e dei Funzionari a trattare le questioni locali, fingendo di cedere alle masse nelle questioni politiche. Al popolo venne lasciato libero sfogo. La borghesia cedeva terreno alle masse in attesa di essere in forze per la rivincita, temporeggiava apprestandosi al contrattacco.
Nel rapporto sul fascismo del PCd’I al IV congresso internazionale si legge: «Durante l’immediato periodo postbellico, l’apparato statale attraversa bensì una crisi, la cui causa manifesta è la smobilitazione; tutti gli elementi che fin allora partecipavano alla guerra vengono bruscamente gettati sul mercato del lavoro, e in questo momento critico la macchina statale che, fin allora, si era occupata di procurare ogni sorta di mezzi ausiliari contro il nemico esterno, deve trasformarsi in un apparato di difesa del potere contro la rivoluzione interna. Si trattava per la borghesia di un problema gigantesco. Essa non poteva risolverlo né dal punto di vista tecnico, né da quello militare mediante una lotta aperta contro il proletariato; doveva risolverlo dal punto di vista politico. In questo periodo nascono i primi governi postbellici di sinistra; in questo periodo sale al potere la corrente politica di Nitti e Giolitti.
«Proprio questa politica ha permesso al fascismo di assicurarsi la successiva vittoria. Bisognava, a tutta prima, fare delle concessioni al proletariato; nel momento in cui l’apparato statale aveva bisogno di consolidarsi, comparve in scena il fascismo; è pura demagogia quando questo critica i governi di sinistra postbellici e li accusa di viltà verso i rivoluzionari. In realtà i fascisti sono debitori della possibilità della loro vittoria alle concessioni della politica democratica dei primi ministeri del dopoguerra. Nitti e Giolitti hanno fatto delle concessioni alla classe operaia. Alcune rivendicazioni del Partito Socialista – la smobilitazione, il regime politico, l’amnistia per i disertori – sono state soddisfatte. Queste diverse concessioni miravano a guadagnare tempo per la ricostituzione dell’apparato statale su basi più solide».
Le concessioni servivano solo a guadagnare tempo, ad assorbire l’attacco proletario in vista del rafforzamento della difesa, legale ed illegale, dello Stato borghese. Nitti dunque si affrettò, nell’ottobre, a costituire un nuovo corpo di polizia, la Regia Guardia che, pur avendo tutti i caratteri di una armata, veniva sottratta al controllo della casta militare e posta alle dirette dipendenze del ministero degli interni. Dal momento che Nitti, oltre alla Presidenza del Consiglio si era riservato il Ministero degli interni, la Guardia Regia era alle sue dirette dipendenze.
Nitti, a giustificare la formazione del nuovo corpo militare, a settembre aveva dichiarato alla Camera: «Il Ministero dell’Interno [...] non può prescindere dalla necessità di avere alla propria diretta dipendenza un corpo armato [...] del quale disporre senza alcuna limitazione» (“Storia Contemporanea”, settembre 1977). In base al decreto n. 1790 del 2 ottobre 1919, alla Regia Guardia erano affidate «funzioni di polizia preventiva, repressiva e d’ordine pubblico».
(Di questo signor Francesco Saverio Nitti, ci basti dire che 30 anni dopo, alle elezioni comunali di Roma del 1952, fu capolista del “Blocco del Popolo” composto da PCI e PSI. Al riguardo si leggano gli istruttivi articoli apparsi su Battaglia Comunista dell’epoca).
A proposito della Guardia Regia, sempre nel rapporto al IV congresso dell’IC viene messo in tutta evidenza l’impotenza del Partito Socialista e soprattutto quello del suo gruppo parlamentare: «Fu Nitti a creare la Guardia Regia, un’organizzazione di natura non propriamente poliziesca, ma tuttavia di carattere militare affatto nuovo. Uno dei grossi errori dei riformisti fu di non considerare fondamentale questo problema, che pure avrebbero potuto affrontare da un punto di vista anche solo costituzionale mediante una protesta contro il fatto che lo Stato creasse un secondo esercito. I socialisti non capirono l’importanza della questione, e videro in Nitti un uomo con il quale si sarebbe potuto collaborare in un governo di sinistra. Altra dimostrazione dell’incapacità di questo partito di comprendere il processo della vita politica italiana».
Oltre ad istituire la Guardia Regia, con un organico di 45.000 unità, Nitti portò a 65.000 il contingente nei carabinieri, a 35.000 quello della Guardia di Finanza e dotò il servizio di spionaggio di 12.000 agenti investigativi. Furono costituiti anche 18 Battaglioni Mobili di Carabinieri e 20 di Guardie Regie (organico del Battaglione 750 uomini, 28 ufficiali, una o due sezioni mitragliatrici, sezione automobilistica). Anche la Guardia di Finanza fu raggruppata in Battaglioni (azione contro i minatori di Albona); la Guardia Regia ebbe squadroni di cavalleria. Ufficiali e sottufficiali di questi tre corpi frequentarono corsi di aviazione, di artiglieria e altre specialità. I Battaglioni Mobili e di pronto intervento furono ubicati nei punti di maggiore interesse strategico.
Gli assetti furono ammodernati e sburocratizzati; un esempio fra tutti: il Governo stabilì per decreto che anche un modesto brigadiere di provincia per ragione di ordine pubblico potesse adoperare il marconigramma e comunicare direttamente col Ministero degli Interni, scavalcando tutta la scala gerarchica. Lo Stato, organo di difesa della classe borghese, a difesa dei propri interessi di classe, si attrezzava per “prevenire e reprimere” l’assalto proletario.
Il proletariato, da parte sua, era inquadrato nel più grande partito italiano, per numero, per struttura, per ramificazione; il Partito Socialista oltre all’enorme rappresentanza parlamentare di 156 deputati, frutto di circa 2 milioni di voti, possedeva 3.000 sezioni, amministrava 2.500 comuni, e tramite il sindacato organizzava milioni di lavoratori, operai e contadini. Ma il Partito Socialista, organo della classe proletaria, era in grado di dotarsi di una organizzazione rivoluzionaria per coordinare la lotta di classe, indirizzarla e condurla alla la vittoria finale?
E il finto
riarmo del PSI
Chiaramente ogni organizzazione illegale rivoluzionaria deve essere costituita ed agire in modo clandestino, e fare la storia di una organizzazione segreta è estremamente difficile non fosse altro perché la regola prima di una struttura illegale è l’eliminazione delle prove della propria attività. Ma, malgrado ciò, se l’organizzazione esiste, gli effetti non possono essere che palesi.
In vista dello sciopero generale internazionale L’Avanguardia scriveva: «Allo scopo intanto di coordinare il lavoro di preparazione per i giorni 20/21 luglio e per le esigenze di tutte quelle altre manifestazioni di carattere proletario e socialista che precederanno o seguiranno lo sciopero generale internazionale, noi impegniamo ogni sezione giovanile a mobilitare tutti i suoi iscritti ed a costituire immediatamente i corpi delle Guardie Rosse, intendendosi – ove sia il caso – con i compagni delle sezioni adulte. Le Guardie Rosse dopo essersi risolutamente impegnate per qualunque nostra azione e dopo essersi obbligate alla più stretta osservanza della disciplina di partito, dovranno liberamente scegliere i propri capi, i quali peraltro funzioneranno sotto il controllo della Commissione esecutiva del circolo giovanile. Contemporaneamente invitiamo i segretari dei circoli giovanili a coordinare il lavoro dei gruppi dei ciclisti rossi per stabilire una sicura rete di comunicazioni tra paese e paese, tra paese e città, tra città e città, tra le provincie e tra le regioni. L’azione che si prepara ha bisogno di poter contare, in questo momento specialmente, sulla volonterosità e sulla destrezza dei nostri compagni delle squadre volanti cicliste. Questa sarà certamente una delle buone occasioni per dimostrare l’utilità della nostra istituzione».
La gioventù socialista era effettivamente disposta a darsi un inquadramento militare, sia di difesa sia di offesa, “nella più stretta osservanza della disciplina di partito”. Ecco il problema: il partito sarebbe stato disposto a dotarsi di una sua struttura militare clandestina?
La risposta a questa domanda, all’apparenza, risultava pienamente affermativa. Non era stato certo un dirigente di secondo piano, ma Serrati in persona, che al congresso di Bologna aveva affermato: «Il fatto vero, evidente, è ora questo: che dopo trenta anni di lenta, graduale opera per la conquista del pubblico potere allo scopo di trasformare l’organismo dello Stato [...] noi abbiamo avuto la guerra mondiale; abbiamo avuto cioè la dimostrazione più palmare, più limpida, più chiara che questi strumenti non si trasformano, che arriva un momento in cui essi diventano più precisamente e più intensamente gli strumenti del dominio della classe capitalistica, che la classe capitalistica non si lascia spossessare dei suoi privilegi attraverso la graduale conquista dei poteri. Abbiamo avuto la sensazione precisa, dopo la guerra, che se il proletariato vuole arrivare alla conquista del pubblico potere, è necessario che dopo la opera lenta di preparazione graduale che noi abbiamo accettato e che abbiamo fatta, impieghi altri mezzi, altri strumenti di lotta e di battaglia [...] Quale è oggi la realtà se non la rivoluzione?» (Resoconto stenografico del XVI Congresso Nazionale del P.S.I.).
Nel manifesto lanciato dal Partito Socialista nell’agosto del 1919 si parlava chiaro: «L’instaurazione della società socialista non può essere compiuta con un decreto o con una deliberazione di qualsiasi Parlamento o Costituente. Sono egualmente da rigettarsi e da condannarsi come pericolose ed insidiose le forme ibride di collaborazione tra parlamento e consigli dei lavoratori. Si deve invece spingere il proletariato alla conquista violenta del potere politico ed economico che dovrà essere affidato interamente ai Consigli degli operai e dei contadini».
Il fatto è che nei momenti in cui la situazione sociale è oggettivamente rivoluzionaria è facile parlare di rivoluzione da parte di tutti quanti, non esclusi i riformisti social-traditori. Bisogna però vedere qual’è lo scopo per cui si parla di rivoluzione: per farla o per impedirla? A questo proposito è illuminante quanto scrisse il social-reazionario Gaetano Salvemini: «È innegabile che nella psicosi postbellica le movenze agitate erano indispensabili a chi voleva tenersi a contatto con le moltitudini esasperate per sottrarle alla conquista del bolscevismo vero. Essere convulsionari era allora la sola via pratica per evitare le vittorie rivoluzionarie. Fu una specie di vaccinazione antitetanica fatta col bacillo attenuato del tetano. Anche molti socialisti riformisti dovettero fare del mimetismo leninista per non rimanere a predicare nel deserto, rifiutati dalle moltitudini». Più chiari di così non si può essere.
Vediamo infatti come l’Avanti! del 23 settembre 1919 avesse pubblicato la seguente disposizione dell’Unione socialista romana: «Avviso ai soci smobilitati. Tutti i soci possessori dell’uniforme militare, specialmente se graduati, sono invitati a conservarla. Tutti i soci aventi grado di ufficiali sono invitati ad inviare all’Unione socialista romana il loro indirizzo, con indicazione del grado che rivestono». Ed il 4 ottobre: «Ufficiali e soldati proletari-socialisti, conservate la uniforme e le armi, la fede nel nostro diritto e la volontà combattiva! Vigilate il nemico borghese-capitalista, di qualunque tinta sia tinto, ed i suoi turpi servi e bravacci! Viva il socialismo!».
Non è certo conservando le uniformi dell’esercito borghese che si può mettere in piedi quello proletario, e nemmeno basandosi sull’armamento individuale. Ma tutto ciò serviva a dare al proletariato l’impressione che il Partito Socialista effettivamente si ponesse il problema dell’organizzazione militare e della preparazione alla conquista armata del potere.
Ancora più esplicito appariva l’appello, ai contadini che occupavano le terre, lanciato dalla Direzione del partito: «Se domani suonasse l’ora decisiva della battaglia contro tutti i padroni, contro tutti gli sfruttatori, accorrete anche voi. Impadronitevi dei municipi, delle terre, disarmate i carabinieri, formate i vostri battaglioni insieme con gli operai, marciate verso le grandi città per aiutare il popolo che si batterà contro gli sbirri assoldati dalla borghesia. Perché, forse, il giorno della libertà e giustizia è vicino» (Avanti!, 6 settembre 1920). Peccato che questi appelli rivoluzionari venissero conditi con i “se” ed i “forse”!
Su questa linea il riformista Giuseppe Bianchi, dirigente della CGdL, a Mosca, al I Congresso del Profintern, aveva la faccia tosta di affermare, riferendosi agli avvenimenti del 1919: «Nel pieno della battaglia la questione del “che fare?” si è imposta con urgenza estrema. Le fabbriche erano state occupate in parecchie località. Trentamila ettari di terra erano in possesso dei contadini. Una speciale commissione venne creata per discutere la tattica da seguire: era uno stato maggiore di guerra che doveva decidere se era possibile passare dalla difensiva all’offensiva e sulla creazione eventuale di un’armata rossa, nel caso che questa ultima alternativa si presentasse. Di questa commissione facevano parte specialisti militari, informati sullo stato delle forze militari e in grado di rendersi conto della possibilità della creazione di un’organizzazione militare».
Allo stesso congresso l’altro dirigente sindacale Azimonti affermava: «Si, sono un riformista e non l’ho mai nascosto [...] io sono l’ala destra del movimento socialista. Ma [...] quando il compagno Repossi mi ha chiamato a Milano, e mi ha detto che bisognava prepararsi all’insurrezione, sono stato il primo a rispondere al suo appello. Ho preparato meglio che ho potuto nella mia città l’armamento dei militanti per iniziare la insurrezione, e se non si è potuti riuscire a provocarla, se non ci hanno dato il segnale necessario, non ne abbiamo colpa, né io, né i miei compagni». È stupefacente vedere come i riformisti italiani, a parole, fossero così ben disposti all’atto rivoluzionario.
Non più credibili erano le pose rivoluzionarie dei massimalisti che detenevano la direzione del partito. Se ai massimalisti del PSI fosse davvero interessato fare opera rivoluzionaria, prima di pensare (o solo di parlare) alla organizzazione militare rivoluzionaria, avrebbero dovuto far pulizia all’interno del partito, liberandolo dalla frazione socialdemocratica che costituiva una vera e propria quinta colonna borghese nel partito. La prova che i massimalisti si distinguevano dai socialdemocratici solo per la verbosità rivoluzionaria la si avrà nel gennaio del 1921 quando, nella scelta obbligata se stare con la rivoluzione o con la conservazione, optarono per la seconda alternativa.
Però i dirigenti massimalisti del PSI all’inizio non sconfessarono l’organizzazione illegale (lo faranno in seguito), anzi, come da consumata tattica dell’opportunismo, finsero addirittura di promuoverla, e di volerla organizzare a scopo insurrezionale. D’altra parte è questa la tattica tipica di tutti i rinnegati.
Il prefetto di Milano in un suo rapporto al Presidente del Consiglio dei Ministri, il 2 maggio 1920 riferiva di una riunione tenutasi il giorno 26 aprile presso la locale Camera del Lavoro dove Serrati era intervenuto parlando a circa un migliaio di ex soldati ed ex ufficiali. Nel rapporto si legge testualmente: «Egli esordì con la constatazione che i fasci di combattimento, di conserva con le altre associazioni politiche e patriottiche nemiche del Pus [Termine dispregiativo con il quale veniva indicato il Partito Socialista, n.d.r.], hanno organizzato delle vere bande armate, le quali si propongono, con l’assistenza delle autorità di P.S. e militari, di difendere i capitalisti [...] Continuando affermò che per combatterle il partito socialista è venuto nella determinazione di organizzare un vero e proprio esercito rosso, con il fine ultimo di rovesciare l’attuale regime. Il lavoro di organizzazione si propone di raggiungere l’intento con un duplice ordine di mezzi: 1° - intensificare la propaganda per attirare l’esercito alla causa del proletariato perché la borghesia è tutt’ora forte [...] 2° - Invitare ognuno che intenda entrare a far parte dell’esercito rosso a consegnare i propri documenti militari ai capi del partito socialista ed alla segreteria della Camera del Lavoro. Le armi sono già raccolte in buon numero [...] ma ancora molte altre ne occorrono perché il numero degli armati dovrà ascendere ad almeno 30.000».
Fatto questo resoconto, il prefetto però concludeva il suo rapporto con le seguenti considerazioni personali: «Tale movimento non mi sembra destinato a gran successo, sia perché ad esso è contraria tutta la parte più moderata del partito, sia perché al momento necessario non tutte le forze elencate risponderebbero all’appello [...] Di ciò sono convinti gli stessi dirigenti ed a me sembra che tutti i tentativi che oggi fanno per organizzare l’esercito rosso, a prescindere dalle notizie del Serrati, che è sempre uno dei più accesi nel partito, hanno lo scopo di mantenere sempre viva l’agitazione e vincere quel senso di stanchezza al quale ho sopra accennato».
Evidentemente il prefetto di Milano nelle sue considerazioni peccava di generosità nei confronti del Partito Socialista; lo scopo non era quello di mantenere viva l’agitazione per scongiurare il senso di stanchezza di cui il proletariato non soffriva affatto, il motivo era esattamente l’opposto, ossia fare in modo che l’esuberanza rivoluzionaria dei giovani venisse contenuta e lentamente attenuata e dispersa attraverso progetti di organizzazioni rivoluzionarie che non sarebbero stati mai attuati o, se attuati, sarebbero stati lasciati morire di naturale logoramento. Comunque il prefetto giustamente evidenziava che questa organizzazione militare, nelle mani del Partito Socialista non avrebbe potuto produrre nulla di serio.
Anche il prefetto di Torino, nel suo rapporto al Ministro degli interni del 13 luglio 1920, diceva praticamente la stessa cosa: «L’attività esplicata dai sovversivi per costituire la Guardia Rossa si è, dallo scorso anno, allentata e gli organi direttivi di tale corpo sono andati dissolvendosi tanto che nelle riunioni dei sovversivi, se viene fatto abitualmente l’invito ad armarsi, non si parla più di organizzazione vera e propria [...] La Guardia Rossa ora esistente è [...] numericamente esigua, senza formazione organica alcuna né comando e di per se stessa di non troppo possibile pericolo per l’ordine pubblico anche perché provatamente timida e niente affatto aggressiva. Lo stesso dicasi dei ciclisti rossi, che sono piccoli nuclei di soci dei circoli sovversivi possessori di bicicletta e che si sono finora limitati a presenziare alle feste delle organizzazioni socialiste dei paesi vicini».
Molto interessante è pure una informazione fiduciaria, inviata in data 5 agosto 1920 al questore di Roma. Il relatore del rapporto scrive che «l’elemento socialista, per mantenere la propria egemonia tra le masse, ha bisogno assoluto di promettere la rivoluzione [...] di farla vedere come cosa vicina, imminente, trionfante [...] perché sono le masse che [...] questa desiderano, cercano [...] Onde tutto quello che si può fare di meglio [ossia: tutto quello che i socialisti possono fare di meglio, n.d.r.] è di lasciar correre e fingere di seguire, incoraggiare questo inutile sentimento morboso di rivolta che, per il modo con cui si esplica [...] non aggiunge che nuova esca al fuoco dell’odio, ma pertanto mantiene la situazione ed impedisce la esplosione definitiva della sommossa». Dopo aver detto ciò l’anonimo fiduciario commenta: «A mio modo di vedere, a meno che avvenimenti di eccezionale importanza non cambino faccia alle cose [...] gli avvenimenti tumultuosi che si susseguono troppo spesso, allontanano il moto insurrezionale vero e proprio, perché mentre rivelano l’impotenza dei lavoratori – per quanto in essi permanga l’odio di classe – danno al contempo alla borghesia la sensazione di un pericolo imminente e continuo e perciò la costringono ad una eccessiva politica di preparazione alla violenza repressiva».
È notevole l’intuizione del compilatore di questa informativa: i socialisti che cavalcano l’odio di classe, senza peraltro imprimergli una direzione rivoluzionaria, mano a mano che le varie esplosioni di rivolta si susseguono, da un lato contribuiscono a generare nel proletariato una sensazione si sfiducia e di impotenza, dall’altro sentimenti di riscossa nella classe borghese che si predispone alla più violenta repressione.
Molto e serio fu invece l’impegno profuso dall’organizzazione giovanile del PSI che, per quanto poteva, cercò di impiantare a scala nazionale un efficiente apparato illegale di partito, e soprattutto ripromettendosi di fare opera rivoluzionaria di disgregazione all’interno dell’esercito.
In merito alla chiamata alle armi della classe 1901, L’Avanguardia del 29 agosto 1920 riportava il seguente appello del C.C. della FGSI:
«Mentre altre organizzazioni politiche vanno ventilando l’idea della diserzione in massa, la Federazione Giovanile Socialista, di fronte alla chiamata alle armi del 1901, riafferma i criteri rivoluzionari dell’oggi per la penetrazione negli eserciti. Non disertare, ma penetrare, scompaginare l’esercito borghese! La gioventù proletaria dovrà partecipare alla leva, ma porterà nell’esercito incapace alla difesa borghese, preparandolo invece alla solidarietà completa al movimento insurrezionale che il proletariato inizierà contro l’ordinamento capitalistico. Non soldati della reazione, bensì soldati della rivoluzione, saranno i giovani che la borghesia recluta ed arma!
«Ai Comitati
Provinciali, alle Sezioni, ai Circoli!
«Sono
indetti comizi antimilitaristi in tutta Italia. Ogni sezione deve fare il suo
comizio. I Comitati provinciali dovranno esplicare tutta la loro attività a tale
proposito. Gli oratori dovranno illustrare il concetto antimilitarista dei
socialisti e la necessità odierna della penetrazione rivoluzionaria
nell’esercito borghese. Appositi manifestini dovranno essere diffusi largamente
tra la gioventù proletaria principalmente. L’agitazione deve riuscire degna
delle tradizioni antimilitariste della gioventù socialista. I giovani della
classe 1901 debbono essere propagandati instancabilmente: la loro coscienza deve
essere illuminata dalla luce della verità socialista. L’esercito così sarà
nostro; sarà l’esercito rosso della rivoluzione!».
Sfogliando il giornale della gioventù socialista si possono trovare molteplici altre prese di posizioni a questo riguardo, prese di posizione che, queste sì, non mancarono di allarmare le alte sfere delle forze armate.
A titolo di esempio possiamo riportare quanto il Ministro della guerra scriveva al Presidente del consiglio il 3 maggio 1920: «Dal complesso di tali notizie e dalle informazioni riservate che completano, risulta che l’attività dei sovversivi non si limita ad una semplice opera di propaganda e di predicazione di idee. Si mira soprattutto a paralizzare l’esistenza dell’Esercito e all’uopo, mentre si ripetono i tentativi di impossessarsi di armi e munizioni [...] si cerca con ogni mezzo di porre i soldati contro gli ufficiali e di prepararne la defezione».
Ma la Frazione comunista aveva ben chiaro che la prima azione rivoluzionaria da compiere era quella di liberare il partito e le organizzazioni proletarie dagli elementi controrivoluzionari.
Se
l’attività svolta dalla gioventù socialista non produsse una efficace
organizzazione, e all’interno del PSI non avrebbe potuto, non fu lavoro speso
inutilmente in quanto tornò utile poi, quando si trattò di costituire
l’organizzazione illegale del Partito Comunista.
In un documento interno del PCd’I, relativo alla guerra civile in Italia negli anni 1919/22, e da noi ripubblicato integralmente su Il Partito Comunista, n. 41, gennaio 1978, si legge: «Le masse tendevano a insorgere. Ma, ricche di elementi giovani, entusiasti, pratici anche delle norme elementari di guerra, mancavano di coordinazione. Il Partito Socialista non pensava a formare un organismo, che in quel momento, con poco sforzo, valutasse il problema e lo risolvesse [...] Effettivi reali di uomini ed armi; delle masse operaie e contadine, dei reparti di esercito nei quali fosse possibile penetrare; armamento del proletariato. Inquadramento e direzione. In tal senso, in alto ed in basso, c’era della buona volontà; mancava la chiara visione e la centralizzazione degli sforzi. In ogni momento nel quale avvenimenti esterni causavano emozioni violente (eccidi, inizio di moti in qualche regione, ecc.) le masse non avevano idea netta di ciò che si dovesse fare, non avevano nessuna ossatura sulla quale appoggiare l’azione [...] La germinazione spontanea degli scatti proletari faceva sì che sotto l’emozione tutti fossero solidali e frementi all’inizio, ma che incominciata la lotta questa morisse per stanchezza, diminuzione di combattenti, si esaurisse [...] I collegamenti non venivano prestabiliti [...] Mancanza di capi, di armi, di munizioni, di collegamenti, di riserve, di piano d’azione [...] ecco i principali difetti organizzativi di parte operaia nella lotta armata».
Dunque, disponibilità alla lotta ed entusiasmo, soprattutto da parte della gioventù socialista e proletaria, assenza totale di direttive e di programma militare da parte del partito. Di conseguenza tutte le formazioni paramilitari che in molte punti d’Italia spontaneamente si formarono non furono altro che frutto di iniziativa di gruppi locali autonomi, privi di coordinamento centrale.
Già dai primi mesi successivi all’armistizio in molte provincie dell’Italia settentrionale, soprattutto a Torino e a Milano, vennero formate organizzazioni illegali armate. Ma basta vedere quale fosse l’opinione del Prefetto di Torino nei confronti di quella che era considerata la formazione militare socialista più numerosa e meglio organizzata, quella di Torino appunto, per capire che si trattava di ben poca cosa. Scriveva il prefetto: «Non può ancora dirsi quanti siano gli iscritti alla Guardia Rossa, perché detta istituzione sovversiva non ha ancora preso forma e finora appare ancora slegata avendo solo piccole squadre presso i circoli ed un nucleo più forte presso la sezione socialista [...] A rettifica delle informazioni fiduciarie pervenute a codesto Ministero, posso affermare che le guardie rosse non sono disciplinate agli ordini di una commissione esecutiva [...] Per quanto tratta l’armamento si può con certezza affermare che nulla di stabilito vi è fin d’ora in proposito perché in tutte le riunioni si insiste da parte dei capi ad invitare gli associati a procurarsi armi ognuno per conto proprio, ciò esclude un armamento razionale ed uguale per tutti gli iscritti» (Rapporto del 22 giugno 1919 al Ministero degli Interni).
Durante i moti per il caro-viveri le guardie rosse, in moltissime località della Liguria, dell’Emilia Romagna e della Toscana si distinsero per l’opera di controllo dei prezzi, requisizione delle merci vendute a prezzi superiori od occultate dai commercianti, provvedendo ad una loro regolare distribuzione. Tutto ciò rappresentava una attività che poteva essere anche illegale, che colpiva gli interessi di una parte della borghesia, ma che non intaccava minimamente il potere borghese e non preoccupava affatto i suoi organi.
Ad un anno e mezzo di distanza dal citato rapporto del prefetto di Torino vediamo ora cosa scriveva il questore di Milano e ci faremo un’idea di quanto poca cosa fu la Guardia Rossa, non certo per demerito dei militanti che vi aderivano, ma per essere nata ed avere operato al di fuori di qualsiasi direttiva di partito.
Vi si legge: «Che in Milano vi sia una vera “guardia rossa” costituita con quadri, comandanti, regolamenti etc. è da escludersi. Una primordiale organizzazione fu tuttavia iniziata in modo segreto ma si è arrestata ad una formazione embrionale. Invero, varie riunioni, nei mesi scorsi ebbero luogo alla Camera del Lavoro, con l’intervento spesso di Serrati, per un’attiva propaganda per la costituzione di un esercito rosso composto specialmente di ex combattenti, organizzati alla Camera del Lavoro ed iscritti al Partito Socialista; sotto il comando di ex ufficiali, pure iscritti al partito [...] Lo scorso anno, quando si pensava di organizzarle sul serio, le guardie rosse erano munite di una tessera di riconoscimento, ma poi la cosa non ebbe più seguito [...] Al presente gli inscritti [...] in caso di bisogno vengono chiamati alla Camera del Lavoro, alla Sezione socialista ed ai circoli od all’Avanti! [...] però gli inscritti per quanto in numero di parecchie migliaia, non sempre rispondono all’appello, lo che pure starebbe a dimostrare come finora non si possa parlare di vera formazione disciplinare ed organica [...] In occasione delle elezioni amministrative, giovani operai, sotto il nome di guardie rosse, prestarono qui servizio presso le sedi delle sezioni elettorali, ma è risultato trattarsi, per la maggior parte, di elementi nuovi, scelti alla rinfusa per l’occasione».
Il giudizio di prefetti e questori la dice lunga sulla volontà dei dirigenti massimalisti di organizzare il partito come avanguardia rivoluzionaria. Per poter parlare di un serio e disciplinato inquadramento rivoluzionario si dovrà attendere la scissione di Livorno e la nascita del PCd’I. Il PSI non avrebbe mai potuto dare vita ad una vera organizzazione militare rivoluzionaria perché era infetto dalla peggiore delle malattie che possano colpire il movimento proletario: il morbo della democrazia. Ai fini della lotta democratica non solo era indispensabile mantenere nel suo seno la corrente riformista, ma era anche necessario considerare lo Stato non come Stato borghese, di classe, ma al di sopra delle classi, e ad esso appellarsi per il mantenimento della legalità e l’ordine costituzionale.
Le potenze europee erano riuscite a gestire la grave crisi nei Balcani esplosa poi nelle due guerre del 1912-1913 senza dover intervenire direttamente in maniera significativa, conseguendo lo storico obiettivo di eliminare definitivamente il potere dell’Impero ottomano nei territori europei lasciandogli solo una ridotta area a nord di Costantinopoli protetta dal sistema delle fortezze attorno ad Adrianopoli. I territori liberati furono suddivisi tra i paesi della informale Lega Balcanica, grosso modo sulla linea dell’avanzata delle rispettive truppe, senza però giungere ad una soluzione definitiva. Nei piani strategici dei famelici imperialismi europei questa crisi né li distolse dai loro contrasti, né dette l’occasione di risolverli.
Evidenziamo per punti i più importanti contrasti in essere al 1914 partendo dal grafico seguente, l’insieme combinato di essi furono le concause della guerra:
a) Il grafico, riferito alla sola esportazione dell’acciaio, ad esemplificare
la forza industriale, mostra il rapido sviluppo della potenza tedesca, ben
superiore alla somma dell’analoga francese e britannica, mentre quest’ultima
decresce, a tutto vantaggio dell’esportazione di capitali finanziari, come
documentato in un precedente capitolo. La Gran Bretagna, la più grande potenza
marittima, controlla tutte le rotte commerciali e ciò rappresenta un punto di
forte contrasto con la Germania.
La preesistente necessità del Drang nach Osten, spinta ad est, ora esprime la
linea di espansione dell’imperialismo tedesco verso quelle importanti zone di
influenza che da tempo si sono già spartite Gran Bretagna e Russia, e in parte
la Francia, e contro le quali la Germania dovrebbe scontrarsi.
b) L’imperialismo francese rischia di rimanere schiacciato tra i colossi economici britannico e tedesco e vedersi preclusa ogni ulteriore via di sbocco per le sue merci e i suoi capitali. Cerca anche una rivalsa dopo la pesante sconfitta subita nella guerra franco prussiana del 1870-71, con la perdita della Alsazia e della Lorena, importanti per motivi di prestigio, di economia e di strategia; il recupero delle due regioni è un forte alimento alla propaganda nazionalista.
c) Gli Stati Uniti, già con il 32% del totale della produzione industriale mondiale, sono di gran lunga la maggior potenza del pianeta e il loro imperialismo è pronto a varcare l’Atlantico per imporre il suo dominio; basta attendere il momento propizio, quando gli imperialismi europei si trovino in una situazione di crisi e difficoltà, come ad esempio una guerra fra di loro.
d) L’Austria-Ungheria non aveva ancora definitivamente risolta la questione della Serbia e del suo progetto di una Grande Serbia che riunisse in un unico Stato tutte le popolazioni serbe sparse nei Balcani, in gran parte nell’Austria-Ungheria, soprattutto dopo l’annessione della Bosnia e dell’Erzegovina da parte del governo di Vienna. Altro esplosivo che si aggiungeva alla “polveriera balcanica”.
e) L’imperialismo italiano, che usciva dalla guerra di Libia dove aveva mostrato il suo moderno apparato bellico, ma anche il suo consueto vile doppiogiochismo politico e diplomatico, era sempre teso, proclamava, a completare gli ultimi rimasugli di unità nazionale, in realtà ad assumere il ruolo di potenza regionale nell’Adriatico, a scapito dell’alleato austroungarico.
f) La Russia zarista intendeva approfittare della profonda crisi dell’agonizzante Impero ottomano per ottenere un più agevole sbocco al Mediterraneo. Ciò le era anche necessario, come aveva spiegato Engels, per alimentare il suo militarismo, indispensabile per mantenere l’autocrazia. Profondamente provata dalla guerra russo-giapponese del 1904-1905 aveva affidato la riorganizzazione dell’intera sua struttura militare a tecnici inglesi e francesi, suoi alleati nella Triplice Intesa.
g) Il movimento rivoluzionario dei Giovani Turchi era alla ricerca di un riscatto politico e militare per consolidare la sua posizione di guida della nascente Turchia borghese, aspirando al tempo stesso al ruolo di potenza regionale.
h) Tra gli Stati balcanici insoddisfatti dei loro nuovi assetti territoriali, la Grecia era fortemente intenzionata a consolidare e ad estendere i suoi territori a nord dell’importante porto commerciale di Salonicco.
i) Nel lontano Oriente, il Giappone, ormai prima potenza regionale, era in movimento per espandere il suo imperialismo sul continente.
j) Il principale sistema di alleanze che legava i sei principali Stati europei, come già ricordato, erano la Triplice Intesa, tra Inghilterra, Francia e Russia, e la Triplice Alleanza, tra Germania, Austria-Ungheria e Italia. Quei trattati erano di natura “difensiva”, ovvero impegnavano ciascun Stato contraente ad intervenire militarmente in sostegno di una nazione alleata solo quando aggredita. Nella loro apparente semplice formulazione questi trattati nascondevano diversi cavilli di cui poi la diplomazia avrebbe potuto approfittare per trarne acconci “casus belli”.
2. La preparazione della guerra
Già dalle due crisi del Marocco, del 1905 e del 1911, tra Francia e Germania, era partita una forte accelerazione nella corsa agli armamenti di tutti gli Stati europei, producendo un forte sviluppo dei settori industriali collegati ed un aumento dell’esercito industriale proletario. La Germania nel 1913, dopo due importanti leggi sugli armamenti, spendeva il 3,9% del suo prodotto nazionale netto; l’Austria-Ungheria, sua prima alleata, era al 2,8%. La Gran Bretagna investiva in armamenti il 3,2%, la Francia il 4,8% e la Russia il 5,1%. Anche l’Italia era fortemente impegnata nel riarmo con il 5,1% del suo prodotto interno netto.
I grafici dimostrano che già dai primi mesi del 1911 tutte le potenze aumentano sensibilmente le spese militari. Il vistoso picco della Russia al 1905 coincide con la guerra col Giappone. Per i due sistemi di alleanze europee si nota il forte prevalere di investimenti in strutture militari della Triplice Intesa, circa il doppio della rivale.
La Germania si trovava schiacciata fra il blocco russo ad est e quello francese ad ovest. La corsa al predominio sul mare le era ostacolata dalla Grande Flotta britannica, che le imponeva un notevole sforzo economico e produttivo per allestire una sua flotta in grado di equilibrarla.
In questa situazione lo Stato Maggiore tedesco diretto dallo stratega A. von Schlieffen nel 1905 preparò un piano di guerra generale, da cui prese il nome, che grosso modo ricalcava quello vincente della guerra franco prussiana del 1870-71.
Partiva dalla considerazione che il principale avversario non era alle frontiere orientali ma a quelle occidentali: «La Germania tutta deve gettarsi su un solo nemico, su quello che è il più forte, il più potente e il più pericoloso, e questo può essere soltanto l’Occidente, la Francia-Inghilterra. Il destino dell’Austria si deciderà sulla Senna, non sul Bug in Galizia», rivelando una chiara e precisa visione strategica.
Rielaborò lo schema della manovra avvolgente della battaglia di Canne: il piano, minuziosamente dettagliato, prevedeva un unico grande attacco iniziale contro la Francia di un’ala destra, composta da 54 divisioni organizzate in 5 armate, violando la neutralità di Olanda e Belgio, sviluppato su un lungo fronte ruotante attorno alla fortezza di Metz, per aggirare le difese francesi. In questa manovra a ventaglio, con l’ultimo soldato dell’ala destra a «sfiorare con la manica il canale d’Inghilterra», avrebbe dovuto rastrellare tutto l’esercito francese per concentrarlo e successivamente accerchiarlo in una adeguata area dove lo si sarebbe bloccato con un ridotto numero di truppe ed energie. Intanto l’ala sinistra, 8 divisioni in 2 armate, avrebbe dovuto attirare in territorio tedesco l’esercito francese esponendolo ad un attacco tedesco da sud e chiuderlo in un cul di sacco. Ad ogni unità tedesca corrispondeva un preciso obiettivo che doveva essere assolutamente conseguito nei tempi stabiliti dal piano generale; così facendo la sconfitta della Francia era prevista in 42 giorni, una guerra lampo, secondo le nascenti nuove teorie della Blitzkrieg.
In seguito, le forze liberate dal fronte francese avrebbero rafforzato quelle sul fronte russo per l’assalto all’esercito zarista, dislocato su una vasta area senza barriere naturali, contando sul suo indebolimento dopo la guerra russo giapponese, sulla lentezza della mobilitazione russa e sulle difficoltà del trasporto delle truppe, erroneamente valutate tra le 6 e le 8 settimane, quando invece i russi si schierarono in soli 10 giorni.
Il piano Schlieffen era molto ardito, e rischioso perché cedeva al nemico, almeno inizialmente, territori di recente acquisizione, non prevedeva possibili diverse reazioni dei francesi, considerava una scarsa resistenza belga e non teneva conto di un intervento inglese. Inoltre non chiariva bene come le ali più esterne avrebbero dovuto affrontare il trasporto delle truppe e dei materiali in territori sempre più estesi, prevalentemente su carri trainati da cavalli poiché non sarebbe stato sempre possibile usare la rete ferroviaria francese, e al tempo stesso mantenere la rigorosa tabella di marcia lontani dalle loro basi di partenza ed esposti a contrattacchi che li avrebbero rallentati se non anche parzialmente bloccati, mettendo in serio pericolo tutta l’avanzata.
Nel 1906 Schlieffen fu sollevato dall’incarico di comandante di Stato maggiore perché, dissero, era un militare “tecnico” e non faceva sue le considerazioni del predominio della “politica” sulla sfera militare secondo i concetti di von Clausewitz.
Il piano fu aggiornato e parzialmente modificato dal suo successore von H.J. von Moltke, il figlio del vittorioso stratega della guerra franco-prussiana: portò a 56 le divisioni dell’ala destra e a 16 quelle della sinistra, prevedeva l’invasione del Lussemburgo ma non più della neutrale Olanda, perché da quei porti sarebbero arrivati via mare i rifornimenti necessari, fece affidamento sulle autoblindo, che non risolsero il problema, anzi, a causa di un insieme di fattori negativi, fu poi loro attributo il fallimento di tutta la campagna militare. Rimaneva comunque un piano molto vasto, complesso, rigido ed esposto a molti imprevisti dove anche il più piccolo di questi poteva inficiarlo. Lo stesso piano fu ripreso in occasione della Seconda Guerra mondiale, combattuta sugli stessi territori e con le stesse alleanze della Prima, e, con sistemi di trasporto più veloci ed efficienti, ebbe pieno successo!
Il comando tedesco alla richiesta di mobilitazione immediata delle truppe in organico dovette prendere atto che buona parte di quelle di origine contadina stavano godendo di un congedo straordinario per aiutare le famiglie nei lavori dei raccolti estivi. Contavano anche su un qualche aiuto dall’Italia.
Il piano strategico francese fu approntato sotto l’influenza di molti contraddittori fattori militari, politici ed economici, soprattutto condizionati dal profondo sfavorevole divario economico generale, e dell’industria bellica francese, rispetto quella tedesca. Anche l’esercito francese era numericamente inferiore a quello tedesco: per porre parziale rimedio la Francia in quegli anni portò la ferma obbligatoria da 2 a 3 anni, aumentando così del 50% il numero dei suoi effettivi.
Dopo la sconfitta della guerra del 1871 era stata stabilita una linea di confine tra Francia e Germania senza vere barriere naturali, come erano stati il Reno e la catena montuosa dei Vosgi, per cui, dopo essersi ripresa economicamente e militarmente, la Francia dette inizio alla costruzione di un nuovo sistema difensivo. Questo non era più basato principalmente sulla fortezza di Metz, che poi si rivelò una trappola, o sulla fortificazione delle città, ma sulla costruzione di due linee continue di forti, il sistema Séré de Rivières dal nome del generale che lo ideò, che si sviluppava dal nodo principale del complesso delle fortezze attorno a Verdun.
Con la ripresa economica dei primi anni del 1900 cambiò anche l’atteggiamento complessivo della nazione e si diffuse un deciso desiderio di rivincita verso la Germania. In campo strategico questo si tradusse in un ribaltamento che da difensivo, secondo il sistema Séré de Rivières, divenne “offensiva ad oltranza”, così descritto dal suo principale sostenitore, il colonnello Louis de Grandmaison: «Se il nemico osa prendere l’iniziativa anche per solo un istante, ogni pollice perso di terreno deve essere difeso fino alla morte e, se perduto, riconquistato con un contrattacco immediato anche se inopportuno». Quella impostazione fu propagandata ed estesa non solo nell’ambito militare ma anche in tutta la società allo scopo di alimentarne lo spirito guerrafondaio e per creare i presupposti per un deciso sostegno alla guerra.
Così cambiarono anche le tattiche militari, ignorando il forte aiuto dell’artiglieria pesante alla fanteria, che già adottavano i tedeschi, e l’uso manovrato delle mitragliatrici, mentre si esasperò la tattica degli attacchi impetuosi e ripetuti alla baionetta, volutamente trascurando l’utilizzo dell’artiglieria campale pesante, ritenuta valida solo per la difesa, secondo le nuove concezioni di Grandmaison. I francesi non modificarono questa impostazione nemmeno dopo i ripetuti sciagurati fallimenti dei primi due anni di guerra che solo in quel settore provocarono, con i loro insulsi attacchi alla baionetta, oltre un milione di morti. Non fu da meno il generale Cadorna, che oltretutto accusò di viltà i propri soldati mandati allo sbaraglio contro le trincee austriache, i quali, ai suoi ordini, se arretravano erano falciati dalla mitraglia italiana!
I piani francesi furono quindi impostati sulla base di compromessi: una attesa passiva; le informazioni sui piani tedeschi di passare dal Belgio che imposero uno sbilanciamento delle forze verso la frontiera settentrionale; soddisfare il revanscismo nel paese che chiedeva azioni incisive in Alsazia e Lorena. Furono infine schierate quattro armate lungo tutto il fronte ed una quinta in seconda linea.
L’Inghilterra non pareva intenzionata ad intervenire in maniera consistente nella guerra terrestre, preferendo mantenere il controllo dei mari, e cercava di scaricarne il peso su Francia e Russia; insisteva solo sulla necessità di una difesa attiva del Belgio, dove il corpo di spedizione inglese e l’esercito belga avrebbero avuto un ruolo secondario. L’esercito inglese mantenne la sua tradizione di arruolamento volontario e la proposta di W. Churchill, allora Primo Lord dell’Ammiragliato, di introdurre la leva obbligatoria fu ampiamente e sdegnosamente respinta dal parlamento inglese.
Il piano russo, seguendo gli obiettivi politici e strategici dello zarismo, indirizzava lo sforzo principale contro l’Austria-Ungheria ed avrebbe voluto schierare lungo il fronte austriaco quattro delle sei armate attive. Ma la Russia, secondo gli accordi bilaterali dell’Intesa con la Francia, avrebbe dovuto schierare lungo il suo confine con la Germania un esercito di 800.000 soldati entro 15 giorni dalla mobilitazione generale per aprire subito le ostilità con la Germania.
3. Il fallimento della Seconda Internazionale
Mentre gli imperialismi europei si mobilitavano in difesa dei loro interessi sul fronte dell’esercito proletario, assistevamo all’avvilente disfatta della Seconda Internazionale che di fatto consegnò il proletariato europeo ai cannoni e alle baionette del capitalismo. Qui ne accenniamo brevemente rimandando alla precisa critica di Lenin nel suo scritto del 1915: “Il fallimento della Seconda internazionale”.
La Seconda Internazionale, fondata nel 1889, si era assunta il compito di centrale di coordinamento tra tutti i partiti nazionali del movimento operaio di ispirazione socialista volto all’emancipazione dallo sfruttamento capitalista di tutti i proletari. Il Partito Socialdemocratico di Germania, che contava circa un milione di iscritti, assunse infine un ruolo egemone al suo interno. Questa fu interessata fin dagli inizi da profonde divergenze interne, con la formazione di correnti opposte, in particolare tra un indirizzo classicamente marxista e uno riformista, che infine ebbe il sopravvento.
Nonostante ciò e presagendo l’imminente macello in Europa, nel Congresso internazionale socialista straordinario di Basilea del 1912, il Consiglio emise una Risoluzione di dura condanna contro la guerra e circa la posizione che avrebbero dovuto tenere i partiti aderenti.
Lenin scrive:
«La risoluzione di Basilea è la sintesi di innumerevoli pubblicazioni di
agitazione e di propaganda di tutti i paesi contro la guerra ed è l’enunciazione
più precisa e completa, più solenne e formale delle idee socialiste sulla guerra
e della tattica socialista di fronte alla guerra. Non si può non chiamare
tradimento anche il solo fatto che neppure una delle autorità
dell’Internazionale di ieri e del socialsciovinismo di oggi – né Hyndman, né
Guesde, né Kautsky, né Plechanov – abbia il coraggio di ricordare questa
risoluzione ai suoi lettori. O non ne parlano affatto o ne citano (come fa
Kautsky) punti secondari, tralasciando tutti quelli essenziali (...)
«Ma forse il manifesto di Basilea non è altro che un appello senza
significato, senza un contenuto preciso, né storico né tattico, che lo connetta
incontestabilmente alla guerra attuale?
«Al contrario, nella risoluzione di Basilea c’è meno vuota declamazione e più
contenuto concreto che in altre risoluzioni. La risoluzione di Basilea parla
precisamente della guerra che è in atto, dei conflitti imperialistici che sono
scoppiati negli anni 1914-1915. I conflitti fra l’Austria e la Serbia per i
Balcani, tra l’Austria e l’Italia per l’Albania, ecc., tra l’Inghilterra e la
Germania per i mercati e per le colonie in generale, tra la Russia e la Turchia
e altri per l’Armenia e Costantinopoli: ecco di che cosa parla la risoluzione di
Basilea, prevedendo appunto la guerra attuale. Precisamente a proposito della
guerra attuale tra “le grandi potenze europee”, la risoluzione di Basilea dice
che questa guerra “non si può giustificare col minimo pretesto di un qualsiasi
interesse dei popoli”!».
I vari partiti nazionali, tradendo gli originali scopi e i solenni proclami dell’Internazionale, infine votarono i crediti di guerra e aderirono completamente ai piani dei vari imperialismi. Il Partito Socialdemocratico tedesco il giorno dopo la dichiarazione di guerra alla Russia, il 1° agosto, invitò le masse «a difendere la patria dalla barbarie russa e a combattere fino alla vittoria finale». Dal “Vorwärts”, l’organo di stampa del partito, sparì ogni riferimento alla lotta di classe e all’odio di classe. Tre giorni dopo votarono i crediti di guerra.
Anche il Partito Socialista Francese tradì il proletariato che diceva di difendere: ai funerali del socialista Jean Jaurés, assassinato il 31 luglio per aver preso una decisa posizione contro la guerra, i dirigenti del partito Socialista e della Confederazione Generale del Lavoro invitarono gli operai all’unità nazionale, alla cessazione della lotta di classe per prendere parte ad una “guerra difensiva” ed essere “portatori di progresso”. Successivamente si seppe che il governo non attuò il piano preventivo di arrestare alcune migliaia di socialisti e sindacalisti in caso di guerra perché si fidava del controllo dei lavoratori da parte delle centrali politiche e sindacali passate al fianco del governo. Dopo la dichiarazione di guerra i dirigenti socialisti J. Guesde, M. Sembat e A. Thomas occuparono incarichi ministeriali.
Nel Belgio il leader del partito socialista E. Vandervelde, presidente dell’Ufficio Socialista Internazionale, divenne ministro della Giustizia. Anche il Partito Socialista Austriaco e i Laburisti inglesi presero quella direzione.
Solamente i socialdemocratici serbi votarono contro i crediti di guerra, come pure si opposero i socialisti di sinistra bulgari, la sinistra tedesca con Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg. Il gruppo parlamentare bolscevico votò contro il bilancio per la guerra alla IV Duma, e per questo buona parte dei deputati furono arrestati e deportati in Siberia. L’anno successivo in Italia si compirà il tradimento di Mussolini e il dissolversi del PSI nell’equivoco “né aderire, né sabotare”.
È emblematica l’ultima circolare dell’Internazionale che annunciava: «In seguito agli ultimi avvenimenti il Congresso di Parigi è aggiornato a data da stabilirsi». Non si riunì più e nemmeno si tenne il IX congresso previsto per l’agosto 1914 a Vienna.
4. Da Sarajevo alla guerra
L’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914 colse di sorpresa tutte le diplomazie e per la Germania fu un’occasione da sfruttare velocemente. “Ora o mai più” fu il commento di Guglielmo II ad una riunione di vertici militari tedeschi e austriaci a Potsdam il 5 e 6 luglio. L’invito dei comandi tedeschi all’agire immediato si basava sulla convinzione che l’iniziale rapporto di forze a loro favorevole col tempo si sarebbe capovolto, per cui alla vittoria era necessaria una rapida e risolutoria guerra lampo.
Di conseguenza dovevano appoggiare e spingere all’azione l’Austria-Ungheria, perché ritenevano che la Russia, che consideravano in grave crisi economica e politica e quindi non disponibile a grandi impegni militari, non si sarebbe occupata di sostenere la Serbia sua alleata.
Dovevano passare immediatamente all’azione anche nella convinzione che l’Inghilterra non sarebbe intervenuta subito per vari motivi. Il primo considerava il forte impegno inglese nella repressione dei moti indipendentisti in Irlanda, che in quegli anni la legavano notevolmente. Il secondo teneva conto del suo lento meccanismo di arruolamento volontario e del tempo necessario per addestrare nuovi grandi contingenti. Consideravano inoltre che i rapporti tra Inghilterra e Russia sulla questione della spartizione della Persia nel 1914 erano giunti ad un punto critico con la necessità della revisione del trattato del 1907. In più si erano riaperte le trattative anglo-tedesche sull’annosa questione della ferrovia Berlino- Baghdad, fortemente avversata dall’Inghilterra perché avrebbe permesso la diffusione delle merci e dei capitali tedeschi in quel settore del Medio Oriente che Londra considerava il suo “cortile di casa”. Vi era inoltre la questione della spartizione delle colonie portoghesi in Africa, che sarebbero potute diventare oggetto di scambio.
Ma forse più importante era il problema della stabilità politica interna in Germania e la guerra poteva diventare una via d’uscita alla crisi che stava maturando: da tempo si cercava di spostare l’attenzione della società sui problemi della politica estera allo scopo di trattenere lo sviluppo in senso socialista del movimento della classe operaia.
5. Le manovre della diplomazia per giustificare la guerra
La diplomazia austriaca inviò al governo della Serbia, che riteneva direttamente corresponsabile dell’assassinio dell’erede al trono dell’Austria-Ungheria, richieste tali da essere inevitabilmente respinte per presentare immediatamente dopo l’ultimatum allo scopo di far cadere sulla Serbia la responsabilità dello scontro militare. Intanto la diplomazia tedesca manovrava per spingere l’Austria alla guerra. Dal 20 al 23 luglio si svolsero a Pietroburgo importanti colloqui del presidente francese Poincaré con i vertici russi su punti importanti dei loro accordi bilaterali da cui emerse la volontà di non sottostare ad alcuna intimidazione di Germania e Austria-Ungheria.
Il 23 luglio Vienna presentò a Belgrado un duro ultimatum composto di 15 punti, che di fatto significavano la perdita della sovranità della Serbia, e praticamente impossibili da attuare nelle 48 ore intimate. Berlino spingeva Vienna ad attaccare subito nei Balcani allo scopo di cogliere di sorpresa gli avversari e mettere il mondo di fronte al fatto compiuto.
Il 24 luglio Mosca mobilitò i quattro distretti militari più importanti e le flotte del baltico e del Mar Nero e dichiarò lo stato prebellico. Anche la Francia quel giorno prese analoghi provvedimenti. L’Inghilterra si propose come mediatrice, ma al tempo stesso voleva saggiare le vere intenzioni della Germania e informava l’opinione pubblica inglese che i suoi interessi si intrecciano con quelli di Francia e Russia. Così riferì l’ambasciatore russo a Londra: «L’Inghilterra teme non tanto l’egemonia austriaca nei Balcani, quanto l’egemonia mondiale della Germania sul mondo».
Il 25 luglio la Serbia rispose all’ultimatum austriaco accettandone 14 punti e dichiarò di essere disposta a trattare sull’ultimo, che imponeva la sostituzione della polizia austriaca a quella serba nelle indagini sul territorio serbo; il governo austroungarico si dichiarò insoddisfatto.
Il 28 luglio sul confine austro-serbo iniziarono le operazioni militari.
Il 29 luglio l’ambasciatore inglese a Berlino comunicò l’intenzione di Londra di essere pronta a scendere in guerra immediatamente.
La sera del 30 luglio lo zar Nicola II firmò il decreto della mobilitazione generale in Russia, reso noto la mattina seguente.
Il 31 luglio il governo tedesco presentava alla Russia un ultimatum perché sospendesse la mobilitazione. Nonostante l’originale piano strategico tedesco prevedesse l’apertura delle ostilità prima con la Francia e successivamente con la Russia, all’ultimo momento il comando tedesco decise il contrario, per giustificare davanti alle masse una campagna contro il dispotismo russo. Considerando che la Francia sarebbe subito intervenuta dichiarando guerra alla Germania a difesa della Russia aggredita, si sarebbe potuto dare inizio al piano Schlieffen.
Il 1° agosto: l’ambasciatore tedesco a Pietroburgo, Pourtalès, si presentava al ministro degli esteri russo, Sazonov, per ricevere la risposta all’ultimatum tedesco che esigeva la revoca della mobilitazione russa. Avendo ricevuto un netto rifiuto, Pourtalès, consegnò subito a Sazonov la nota contenente la dichiarazione di guerra, che segnava l’inizio del grande conflitto. Anche la Francia aveva dichiarato la mobilitazione generale ma cercava un motivo per scaricare sulla Germania la responsabilità della guerra.
Il 2 agosto la Germania inviò al governo belga una richiesta-ultimatum di lasciar passare attraverso il suo territorio le truppe tedesche dirette in Francia. Nello stesso giorno reparti avanzati tedeschi occuparono il Lussemburgo. La Turchia, formalmente neutrale, firmava in quel giorno un accordo segreto con la Germania impegnandosi a sostenerla con tutto il suo esercito posto sotto il diretto comando tedesco e dichiarava la mobilitazione generale sotto la copertura della neutralità armata. Nei giorni seguenti due incrociatori tedeschi attraversano gli stretti sul Bosforo e il contrammiraglio tedesco Souchon assume il comando della flotta turca. Dalla Germania arrivarono convogli di armi, munizioni, ufficiali e specialisti militari. Le forti contraddizioni nella politica sul Vicino Oriente tra Russia, Francia e Inghilterra impediscono di elaborare una linea comune per coordinare dei negoziati col governo turco.
Il 3 agosto la Germania dichiarò guerra alla Francia. Il governo belga respinse la richiesta tedesca e chiese aiuto all’Inghilterra che usò questa richiesta d’aiuto come motivo per mobilitare l’esercito.
Il 4 agosto truppe tedesche invasero il Belgio e attaccarono la fortezza di Liegi. Il governo di Londra inviò a quello di Berlino un ultimatum con la richiesta di non violare la neutralità del Belgio con scadenza alle ore 23 di Londra. Alle 23 e 20 minuti W. Churchill comunicava di aver inviato un messaggio radio in tutti i mari e oceani a tutte le navi da guerra inglesi di aprire le ostilità con la Germania, aprendo la guerra per il controllo dei mari.
Nei giorni a seguire Bulgaria, Grecia, Svezia, Norvegia, Danimarca, Olanda, Spagna, Portogallo, come pure l’Italia e la Romania, alleate con le potenze centrali, dichiararono la loro neutralità; anche gli Stati Uniti, vari stati asiatici e dell’America latina si dichiararono neutrali, ma molti cambieranno posizione nel corso della guerra secondo il mercanteggio dei due blocchi alla ricerca di alleati.
Il 19 agosto il Giappone presentò alla Germania un ultimatum con la richiesta dell’immediato richiamo delle forze tedesche dai mari cinesi e giapponesi e la consegna non oltre il 15 settembre dei territori “affittati” di Kiautschou con il porto di Tsingtao.
Il 23 agosto, visto il rifiuto tedesco, il Giappone dichiarò guerra alla Germania.
Fin dalle prime importanti operazioni militari furono coinvolti eserciti imponenti: l’Intesa schierò 6,2 milioni di uomini su una popolazione complessiva di 238 milioni, ma divisi geograficamente e linguisticamente disponendo di oltre 13.000 bocche da fuoco tra leggere e pesanti. Gli Imperi centrali schierarono subito 3,6 milioni di uomini su una popolazione di 120 milioni, ma uniti territorialmente e che complessivamente parlavano la stessa lingua, disponendo di oltre 13.000 pezzi di artiglieria, senza contare l’artiglieria stanziale delle fortezze. Nel corso della guerra gli schieramenti aumentarono progressivamente e con l’ingresso di altri Stati il numero dei soldati crebbe notevolmente coinvolgendo, secondo alcune statistiche, 65 milioni di uomini provenienti da 30 Paesi di tutto il mondo.
Partì così un conflitto che per le sue dimensioni fu chiamato mondiale. Fu detto “dei sei fronti” perché si sviluppò in altrettante diverse aree, sei differenti conflitti in diversi teatri per diversi fini militari, uniti dall’intreccio delle alleanze militari esistenti.
La prima fu la guerra tra Germania e Francia per la supremazia nell’Europa centrale; la seconda fu tra Germania e Inghilterra per il controllo delle vie marittime oceaniche; la terza tra Austria e Russia per la supremazia nei Balcani; la quarta tra Italia e Austria per il predominio nell’Adriatico; la quinta tra Russia e Turchia per il controllo degli Stretti; la sesta tra Giappone e Germania per la creazione dell’impero nipponico nell’Oceano Pacifico occidentale.
Ma la migliore, più completa e reale definizione della guerra è secondo i suoi scopi, uguali per tutti i contendenti, con Lenin e con tutti i veri socialisti di allora, la decretammo imperialista e controrivoluzionaria.
6. Il fronte occidentale
Il conflitto scoppiò contemporaneamente nel settore occidentale ed orientale europeo e successivamente in quello italiano. Qui li affrontiamo separatamente, pur sapendo che i tre fronti erano legati tra loro oltre che sul piano strettamente militare soprattutto su quello politico.
Sul fronte occidentale le truppe tedesche, 7 armate e 4 corpi di cavalleria, erano schierate su una linea di circa 400 chilometri, dal confine olandese fino a quello svizzero, sotto il comando effettivo di H.J. von Moltke.
Le truppe francesi, guidate dal generale Joffre, erano schierate su un fronte di circa 370 chilometri tra il confine svizzero e il fiume Sambre, una posizione storicamente strategica per aggirare le Ardenne, dove già Giulio Cesare condusse una battaglia sconfiggendo i Nervi nel 57 a.C. Erano composte di 5 armate, alcune divisioni di riserva, la cavalleria strategica, organizzata in due corpi, ed alcune divisioni singole.
L’esercito belga, sotto il comando del re Alberto I era schierato sui fiumi Gette e Dyle. Il corpo di spedizione britannico, composto di 4 divisioni di fanteria ed una e mezzo di cavalleria, agli ordini del generale French, il 20 agosto compì il suo schieramento nella zona di Maubege.
In questo quadrante l’Intesa schierava 75 divisioni francesi, 4 inglesi e 6 belghe, ed avevano contro 86 divisioni di fanteria e 10 divisioni di cavalleria tedesche; nessun fronte disponeva di quella superiorità numerica necessaria per assicurarsi un successo rapido e decisivo.
La figura mostra il quadro complessivo dell’attacco e il consistente sfondamento tedesco, linea tratteggiata, impostato sul piano Schlieffen.
7. Il fronte orientale
La Russia schierò nel suo settore nord due armate per un totale di 17 divisioni di fanteria e 8 divisioni di cavalleria, contrapposte alla VIII armata tedesca composta di 15 divisioni di fanteria e 1 di cavalleria. Sul settore centrale davanti alle 4 armate russe erano 3 armate austriache più un’armata mista di fanteria e cavalleria. Un’armata russa era disposta a protezione di Pietroburgo e del settore baltico, mentre un’altra copriva il settore della Romania e il Mar Nero. Il comando supremo dell’esercito russo inizialmente fu affidato al principe Nikolaevič ed in seguito assunto da Nicola II. Il comando di Stato Maggiore russo fu affidato prima al generale Januškevič e successivamente al generale Alekseev. L’esercito austro-ungarico fu comandato dal capo di Stato Maggiore generale Hötzendorf.
Anche in questo settore non vi era una sostanziale supremazia di uno dei due blocchi su un fronte che si estendeva per circa 1.800 chilometri.
La figura mostra lo sviluppo dei fronti con le linee di avanzamento delle principali offensive.
8. Il fronte italiano
L’apertura del fronte italiano è nel 1915. La Germania aveva spinto l’Austria a maggiori concessioni all’Italia pur di non aprire un altro fronte che avrebbe distolto consistenti truppe austriache dai due principali fronti già attivi. Ma la borghesia italiana già si stava accordando con la triplice Intesa per un intervento militare a suo fianco.
I due “alleati”, Italia e Austria, da tempo avevano rafforzato le difese militari sui confini dell’Isonzo e del Carso, con un netto vantaggio delle postazioni austriache nei punti strategici più importanti contro i quali i mezzi offensivi italiani erano insufficienti, per cui la guerra fin dall’inizio assunse un carattere di logoramento.
Sulla linea di confine tra i due ex alleati, lunga ben 650 chilometri, tra impervia alta montagna, priva di strade efficienti in quota e con fiumi importanti in pianura, le quattro armate italiane dislocarono 1.090.000, uomini, 216.000 quadrupedi, 3.300 automezzi, 930.000 fucili, 620 mitragliatrici e 2.150 pezzi di artiglieria. Gli austriaci misero in campo 221 battaglioni raggruppati in tre gruppi. La parziale inferiorità numerica delle loro forze era compensata da uno schieramento più favorevole su postazioni dominanti e ben protette dall’artiglieria con un’efficiente rete stradale alle spalle.
9. La guerra sul fronte occidentale
La Germania, impegnata su due fronti, intendeva conseguire, secondo il piano Schlieffen, una rapida vittoria su questo versante, ma in un solo mese di veri combattimenti si rivelò l’impraticabilità di quella strategia.
L’invasione del Belgio, iniziata il 4 agosto, fu facile e rapida, vista l’impari, anche se tenace, resistenza che l’esercito belga poté opporre, il quale solo dopo 12 giorni di resistenza ripiegò da Liegi su Anversa. Sette divisioni tedesche furono distaccate dal fronte d’invasione per assediare Anversa, Givet e Maubeuge e mantenerne il controllo, così riducendo la compattezza del fronte d’attacco tedesco.
Il 12 agosto le avanguardie del corpo di spedizione inglese attraversano il canale della Manica scortate da 19 navi da guerra. In 10 giorni furono sbarcati 120.000 uomini senza alcuna perdita poiché la marina da guerra tedesca non ostacolò in alcun modo l’operazione.
Sempre il 12 agosto L’Austria-Ungheria invade la Serbia.
Il 16 agosto i francesi lanciano decise offensive in Lorena, verso le Ardenne, verso Sarrebourg e Morhange, in territorio tedesco, ma vengono fermati, respinti e ripiegano su Nancy.
La tecnica di combattimento sarà sempre improntata in un pesante bombardamento preventivo, in alcuni casi anche di una settimana, allo scopo di eliminare le difese avversarie, le loro trincee e le intricate barriere di filo spinato, seguito dall’assalto delle fanterie che devono avanzare in terreni devastati dalle bombe.
Il 21 agosto i tedeschi prendono Bruxelles senza combattimento; due armate tedesche completano il loro schieramento in un’ampia fascia centrale del Belgio fino al mare nella zona tra i porti di Ostenda e Dunkerque. A contrastarli sono attestati i belgi a Namur, i francesi a Charleroi e gli inglesi a Mons.
Il 22 agosto inizia l’avanzata tedesca nel nord della Francia lungo tutto il fronte; l’armata francese e cacciata da Charleroi; a Mons c’è il battesimo del fuoco per il corpo di spedizione inglese che, nonostante l’accanimento, fu costretto a ripiegare; anche l’esercito belga non resistette alla pressione tedesca e dovette ritirarsi.
Il 26 agosto, nel momento culminante dell’offensiva, il comando tedesco deve distaccare due corpi d’armata e una divisione di cavalleria verso il fronte orientale poiché i russi, su richiesta francese, preparano un attacco nella Prussia orientale.
Il 30 agosto gli anglo-francesi sono respinti prima oltre il fiume poi oltre la Marna.
Il 2 settembre il governo francese si rifugia a Bordeaux. Il comando anglo-francese, appreso che i tedeschi non intendono attaccare Parigi, anche se diverse divisioni tedesche sono a solo 40 chilometri dalla capitale, ma dirigere verso sud-ovest contro i britannici, si attestano sulla Marna facendone saltare tutti i ponti.
Gli ingenti rifornimenti necessari alle 5 armate d’attacco tedesche hanno grosse difficoltà a seguire le linee di fuoco, che avanzano velocemente anche a tappe di 50 e 60 chilometri al giorno; il loro afflusso è rallentato dall’impossibilità di utilizzare al meglio la rete ferroviaria francese e dalla grande congestione di uomini e armamenti e di carriaggi su una ridotta rete stradale. L’allargamento del fronte indusse il comandante in capo Moltke a concedere pieni poteri decisionali ai singoli comandanti delle armate, pur mantenendo il conseguimento degli obiettivi.
Il 5 settembre inizia la prima battaglia della Marna che durò fino al 9, quando i tedeschi, esausti, indeboliti e senza rimpiazzi, sono costretti a retrocedere sotto gli incalzanti contrattacchi anglo-francesi, a nord del fiume Aisne. Con questa sconfitta i tedeschi non solo perdono l’iniziativa dell’offensiva ma soprattutto vedono fallire del piano strategico di Schlieffen.
Dal 13 al 17 settembre la battaglia dell’Aisne: i tedeschi sono costretti a ritirarsi di quasi 100 chilometri dall’inizio della battaglia. Tentano di sganciarsi dal nemico per occupare la costa nord della Francia verso Calais, per rendere difficoltoso ogni ulteriore sbarco di uomini e materiali dell’Intesa. Anche gli anglo-francesi dirigono verso il mare e per ostacolare le manovre tedesche allagano grandi territori. In questa “corsa al mare” entrambi i fronti cercano di aggirarsi con una serie di scontri.
Il 14 settembre Moltke presenta le sue dimissioni e viene sostituito dal generale Falkenhayn.
Dal 18 ottobre al 10 novembre la prima battaglia dell’Yser, dove i tedeschi riuscirono ad evitare il tentativo di aggiramento dell’Intesa.
Dal 23 ottobre al 15 novembre la prima battaglia di Ypres, gli Alleati riescono ad evitare lo sfondamento da parte dei tedeschi, costato 200.000 uomini per parte.
Dopo queste battaglie cessò la guerra di movimento e seguirono circa 3 anni di guerra di posizione e di logoramento condotta in trincea segnata da sortite, offensive che si concludevano in gigantesche carneficine senza significativi avanzamenti militari.
L’imponente sistema di trincee distanti tra di loro dai 200 ai 1.000 metri, ma a Hooge presso Ypres in Belgio solo 50 metri, era completato con la costruzione di camminamenti, casematte e rifugi dalla costa belga fino alla neutrale Svizzera. Quelle tedesche erano di gran lunga le migliori perché realizzate per durare a lungo, alcune erano chiuse e dotate di finestre. Alla fine del conflitto si calcolò che furono scavati nel solo fronte occidentale, circa 25.000 chilometri fra trincee e camminamenti vari negli opposti schieramenti.
Un soldato stava in media il 15% dell’anno in prima linea, per non più di 2 settimane alla volta; fu pure calcolato che la speranza di vita nelle trincee era di 6 settimane, con sottufficiali e barellieri tra i più esposti. Si moriva al ritmo di 6.000 al giorno, uno ogni 15 secondi. Si moriva anche per le pessime condizioni nelle fangose e gelide trincee. Il terribile “piede da trincea”, la grave infezione ai piedi derivata dalla prolungata e continua permanenza al freddo e all’umido, mal protetti da scarpe scadenti, in entrambi i fronti fu la causa di centinaia di migliaia di gravi lesioni ai piedi, che talvolta richiedevano l’amputazione. Anche nella guerra delle Falkland del 1982, il 14% delle truppe britanniche fu colpito dalla stessa sindrome dovuta alla scadente impermeabilizzazione delle calzature d’ordinanza!
Un prossimo capitolo sarà dedicato alle fraternizzazioni tra le opposte trincee, alla “tregua di Natale” del 1914, autoproclamata dai soldati, alla partita di calcio nella terra di nessuno vicino a Ypres tra britannici e tedeschi, fino al caso dei fanti del 18° reggimento della 36 Divisione della fanteria francese, che al canto dell’Internazionale si rifiutarono di salire sui camion che li avrebbero ricondotti in prima linea prima invece che del previsto periodo di riposo.
(continua al prossimo numero)
3. La forma di produzione secondaria - variante antico‑classica - Roma
La tradizione narra che l’Urbe sia nata alla conclusione di una sanguinosa guerra tra indigeni italici e immigrati “troiani” nell’anno 753 a.C. I gemelli Romolo e Remo, lasciata la città d’origine Alba Longa, ebbero la necessità di stanziarsi altrove per dare una terra ai molti servi che s’erano oramai raccolti attorno ad essi e che la città non riusciva più a sfamare. Al di là del mito le necessità materiali che daranno origine a Roma ben appaiono in controluce e testimoniano di comunità in fermento, appena uscite dallo stadio del comunismo primitivo, che devono affrontare con urgenza i problemi derivanti dallo sviluppo delle forze produttive.
La versione più famosa del fratricidio legato alla fondazione di Roma è nell’opera di Tito Livio Ab Urbe Condita. Roma sorge al termine di una guerra fratricida e l’intera sua storia sarà percorsa da una scia ininterrotta di sangue, qualsiasi forma costituzionale assuma: monarchia, repubblica o principato. Non è certo questo il luogo per entrare nei dettagli di un percorso di un millennio, che termina nel 476 d.C. con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente per opera delle tribù barbariche e qui si ricordano solamente alcuni passaggi che hanno impresso a quella storia una via ben precisa.
La leggenda vuole che la monarchia sia terminata con la cacciata dell’ultimo dei Tarquini, detto Superbo, sul finire del VI secolo a.C., che diede inizio al periodo repubblicano. Entrambe le epoche si caratterizzano per il continuo espansionismo della città-stato verso le comunità confinanti. La costruzione del dominio romano sulla penisola italica può dirsi conclusa con la conquista di Sicilia e Sardegna (entrambe strappate all’influenza cartaginese) e fino a questo punto Roma può ancora essere considerata essenzialmente come una città a capo di una confederazione.
Terminata con successo l’opera di annessione dei popoli rivali presenti in Italia, la grandezza dei traffici che fanno capo alla comunità impone di estendere la signoria sulle rotte marittime vitali per rifornire i centri di produzione peninsulari: lo scontro con Cartagine è inevitabile. Le guerre puniche rappresentano il vero campo di prova della grandezza e della forza della macchina statale romana; scampato il pericolo di una devastazione che Annibale riesce a portare direttamente in Italia e ridotta l’antica rivale ad un ammasso di macerie, Roma è finalmente la dominatrice incontrastata dei mari e la politica imperiale può spiccare il volo.
Gli anni della repubblica sono stati caratterizzati da grandi sconvolgimenti politici e sociali per l’Urbe; più volte la plebe inferocita ha trovato nel potere tribunizio una valvola di sfogo e alcuni dei suoi capi, primi fra tutti i Gracchi, hanno provato a lavorare sul terreno delle riforme, anche e soprattutto per impedire una pericolosa alleanza tra i nullatenenti, che già affollavano le vie della capitale, e le masse di schiavi che con il loro lavoro facevano girare gli ingranaggi del sistema di sfruttamento di classe, che mano a mano progrediva in efficienza e ferocia.
Il cancro che minava la stabilità del potere del patriziato era la schiavitù per debiti ed in generale l’indebitamento crescente dei plebei. I tentativi riformisti del generale Mario (uscito vincitore parziale dall’epoca delle guerre civili) non a caso verranno presto cancellati dal restauratore Silla, e lo spettro della congiura di Catilina (con i suoi propositi di remissione dei debiti) e del suo partito popolare aleggerà per molto tempo a disturbare i sonni della nobiltà dominante.
Roma si avvia lentamente, dietro la facciata democratica, verso una restaurazione monarchica con abiti repubblicani. Il vero dominatore della scena politica è diventato il nuovo esercito, nato dalle riforme mariane, ben diverso dalla compagine formata con l’istituto della ferma breve e dell’arruolamento temporaneo di contadini, che per parte dell’anno smettevano il lavoro nei campi per arruolarsi e combattere sotto le insegne romane. Lo spartiacque in questa trasformazione radicale sono state le guerre contro la città di Veio e quelle contro i Sanniti.
In ragione della loro durata si ebbero importanti innovazioni nella organizzazione della macchina bellica: se prima i cittadini romani che avessero un certo patrimonio combattevano a proprie spese, ora divenne necessario istituire un soldo, per permettere ai legionari di sopravvivere senza lavorare la terra, e divenne quindi necessario istituire un tributo pagato da chi era rimasto a casa. Il servizio militare, da compito collettivo e limitato nel tempo (lo scontro bellico si rende necessario a causa degli urti tra tribù confinanti in genere per l’impossibilità di far fronte ad improvvisi aumenti demografici) diventa un mestiere accanto agli altri. La figura del contadino-soldato ha raggiunto l’apice, ma ormai lo sforzo bellico richiede investimenti massicci dell’erario ed ogni campagna può protrarsi per più di una stagione. Al termine della guerra i contadini trovano i campi in totale abbandono; da una parte questo disincentiva la leva; dall’altra le piccole parcelle di terreno in disuso cadono preda dei ricchi patrizi, alimentando la già galoppante concentrazione della proprietà terriera.
Con la fine della repubblica e l’inizio del principato, tra il I sec. a.C. e il I d.C., comincia per l’Urbe un periodo di relativa pace sociale, la pax augustea, di consolidamento dello Stato di classe e di rafforzamento dei confini militari. Per contro il declino del modo di produzione sta procedendo veloce. L’efficienza del sistema schiavistico, della grande villa italica, perde progressivamente vigore; le guerre per approvvigionarsi di masse sempre crescenti di uomini da immettere sul mercato degli schiavi diventano sempre più costose; conseguentemente cala il margine di guadagno. A nulla valgono le continue riforme tributarie e amministrative per meglio controllare la vastità di un impero che appare agli osservatori più attenti come un gigante barcollante; è sufficiente una crisi finanziaria per mettere in dubbio la stabilità dell’intero sistema; è solo questione di tempo; i monarchi anche i più saggi poco possono contro le forze economiche che li dominano; le figure più importanti da questo punto di vista, come Diocleziano, possono solo di poco rallentare la corsa verso il collasso.
L’ultimo periodo dell’impero è un susseguirsi di rivolte di palazzo ad opera dei pretoriani; l’istituzionalizzazione da parte di Costantino della nuova religione di Stato, il cristianesimo, poco può contro l’avanzare del decadimento sociale. I nemici esterni si moltiplicano e premono ai confini: è la nuova forma di produzione, cosiddetta germanica, che col vigore della sua giovinezza lentamente ma inesorabilmente erode la vecchia capitale imperiale. Gli imperatori come Caracalla, militari di professione, cercano di riformare l’esercito da cui provengono, imbarbarendolo e concedendo la cittadinanza romana a tutti i sudditi dell’impero. L’antica potenza è oramai un pallido ricordo. Toccherà al germanico Odoacre, paradossalmente valente militare delle legioni romane, deporre l’ultimo imperatore Romolo Augusto così decretando la fine dell’Impero Romano d’Occidente.
Soggiogamento della proprietà collettiva alla proprietà privata
Al contrario di quanto si possa pensare, la proprietà privata, che nasce dalla dissoluzione della comunità originale, inizialmente non riguarda il mezzo di produzione principale delle forme precapitalistiche, la terra; nella forma arcaica della proprietà fondiaria i frutti divenivano possesso individuale solo dopo essere stati separati dalla terra, ancora collettiva; il possesso individuale riguardava solamente i beni mobili. In seguito si estese dal carro-casa mobile all’edificio d’abitazione dei sedentari e quanto «più il legame diretto fra la tribù e la natura si rompe per effetto del movimento storico e delle migrazioni, quanto più la tribù si allontana dal suo luogo di origine, occupa terre straniere e accede a condizioni di lavoro sostanzialmente nuove, tanto più l’energia dell’individuo singolo si sviluppa mentre il carattere collettivo della tribù tende sempre più a presentarsi come unità negativa, tanto più appaiono date le condizioni affinché l’individuo divenga (dopo un lungo processo a Roma) proprietario di una particella di terra la cui coltivazione incombe unicamente e stabilmente alla sua famiglia o alla sua gens. Nasce così di colpo la organizzazione gentilizia tipica del mondo classico» (Rivoluzioni storiche della specie che vive, opera e conosce, 1960).
La variante antico-classica della forma di produzione secondaria, a differenza dell’asiatica, si caratterizza quasi fin dalle origini per dinamismo; questo deriva essenzialmente dalle diversissime condizioni geofisiche in cui le tribù si vengono a stanziare; a loro volta queste condizioni materiali interagiscono sui rapporti sociali, modificandoli; e viceversa. I rapporti sociali dei popoli migratori erano già il prodotto delle condizioni di produzione dominanti nella terra d’origine, e delle loro forme di produzione; tali rapporti sociali continueranno ad adattarsi alle mutate condizioni materiali nelle terre d’emigrazione.
La piccola proprietà privata del singolo, che contiene in germe la possibilità d’accumulazione, diventa un qualcosa di distinto dalla proprietà comune. Quanto meno il possesso del singolo può essere utilizzato solo per mezzo dei lavori comuni, tanto più la tribù-gens come comunità naturale (comunismo primitivo) si dissolve e si sviluppa l’elemento singolare, che in sé sarà l’elemento disgregante dei legami comunitari e attorno al quale si svilupperà il movimento della proprietà privata.
Con la migrazione l’elemento comunitario assume importanza soprattutto verso l’esterno della tribù (guerra); la comunità non è un qualcosa di presupposto, ma di posto storicamente con un’origine ben precisa (patto gentilizio) e si presenta perciò come relazione tra elementi singoli (famiglie); contemporaneamente – ancora – l’esistenza dei liberi contadini parcellari trova ragion d’essere solo per la presenza della comunità che garantisce sicurezza; il contadino si riferisce alla propria parcella solo in quanto membro della comunità, la possiede solo in quanto cittadino. «Il sistema tribale, in sé, conduce alla distinzione in genti maggiori e minori [...] La proprietà della comunità – come proprietà pubblica, ager publicus – qui è separata dalla proprietà privata. La proprietà del singolo non è qui anche immediatamente proprietà della comunità, come lo è nel primo caso [nella variante asiatica], dove non è proprietà del singolo separato dalla comunità, il quale ne è anzi solamente il possessore» (Marx, Grundrisse).
A differenza della variante asiatica la proprietà collettiva è separata dalla proprietà privata; ora la proprietà del singolo non è più direttamente proprietà comunitaria. La proprietà collettiva rimane il fondamento del rapporto reciproco tra i proprietari privati diventati liberi-separati. La struttura sociale diventa quindi duplice: i membri della comunità sono proprietari fondiari lavoratori, contemporaneamente i loro rapporti reciproci sono determinati dal fatto d’essere membri di una stessa comunità, la cui esistenza è garantita dalla proprietà collettiva. Il presupposto della comunità nella variante antico-classica è ancora la perpetuazione della comunità stessa, ma ora come comunità di liberi contadini parcellari e non più come unità organica.
La comunità da consanguinea diventa politica, perché determinata dalla proprietà privata del suolo, prima parcellare poi concentrata nei grandi possedimenti del patriziato. La base della comunità diventa la città quale sede formale-istituzionale degli agricoltori, la comunità si modifica e non ingloba più i produttori quali individui indifferenziati, sono i secondi che formano la prima. «La seconda forma [...] suppone anch’essa la comunità come primo presupposto ma non, come nel primo caso, [variante asiatica] quale sostanza di cui gli individui siano meri accidenti, o della quale siano elementi puramente naturali, presuppone cioè come base non la campagna, ma la città come sede già creata (centro) degli agricoltori (proprietari fondiari). L’agro si presenta come territorio della città; non il villaggio come mero accessorio della campagna».
Separata dalla comunità organica, la parcella è diventata proprietà privata individuale e la porzione di proprietà rimasta collettiva va rendendosi autonoma nell’ager publicus. La terra nella sua totalità è romana, quindi può appartenere ai singoli contadini solo in quanto cittadini. A differenza della variante asiatica però la proprietà della terra è duplice, da una parte ci sono gli appezzamenti dei contadini parcellari, dall’altra l’ager publicus. Garanzia della prima è però solo l’appartenenza del contadino alla cittadinanza, quindi all’ager publicus; pertanto «la terra [...] occupata dalla comunità è terra romana; una parte rimane alla comunità come tale, distinta dai membri della comunità stessa [...] l’altra parte viene divisa e ogni parcella del territorio in tanto è romana in quanto è proprietà privata, dominio di un romano, sua quota di partecipazione privata al laboratorio; d’altro canto egli è romano solo in quanto possiede questo diritto sovrano su una parte della terra romana» (ivi).
La preminenza statale (la cui espressione è l’ager publicus) permette ai membri della comunità d’essere proprietari perché cittadini. Qui sta la contraddizione fondamentale; la proprietà privata comincia a scavare il solco della differenziazione di classe. Questo dualismo-contrapposizione tra proprietà collettiva e privata deve fin dal suo sorgere condurre allo schiavismo. La proprietà racchiude in sé la propria negazione, la non-proprietà, che si generalizza nel capitalismo con l’estendersi della concentrazione della proprietà stessa. I grandi proprietari sottomettono progressivamente i lavoratori parcellari perché la piccola proprietà si dissolve con lo sviluppo della produzione (processo di concentrazione e centralizzazione), ciò che consentì ai più ricchi d’impadronirsi dello Stato e d’usarlo come arma di difesa dei propri interessi particolari di classe. La sfera politica che si distacca come rapporto di dominio in seguito alla crescente autonomizzazione della comunità crea lo Stato come soprastruttura. A causa di questo il passaggio al modo di produzione successivo impone la distruzione del vecchio Stato che difende gli antichi e superati rapporti produttivi.
«La produzione si svolge sulla base di una proprietà privata individuale cui corrisponde, per strati più o meno larghi della popolazione, la non-proprietà della terra (la plebe in origine, poi i coloni e gli schiavi), e il cui presupposto è l’appartenenza di pieno diritto del singolo allo Stato: espressione della priorità storica di quest’ultimo è e rimane l’ager publicus. È esso, infatti – come proprietà statale – che media il rapporto di proprietà fra il cittadino e la terra; lacerata da contraddizioni interne sul piano della produzione (trasformazione del debitore o del prigioniero di guerra in schiavo) e dei rapporti fra gli uomini (patrizi e plebei prima, cittadini-proprietari e non-cittadini poi, proprietari e schiavi infine), questa società non può comportare se non uno Stato di classe patrizio, schiavista, imperialista e plurinazionale» (Il Programma Comunista, Ardua sistemazione del programma comunista rivoluzionario fra i miasmi della putrefazione borghese e la pestilenza opportunista, 1960).
Separazione del produttore dalle condizioni della produzione
Nella forma secondaria sono i rapporti fondiari a determinare il divenire sociale. A Roma i grandi proprietari s’impadronirono dell’ager publicus, e quindi dell’autorità statale. In questo modo si arriva ad una separazione tra i membri della comunità in quanto semplici proprietari privati (contadini parcellari) ed i membri detentori di una quota dell’ager publicus, che condurrà alla formazione di condizioni atte a far perdere al singolo la sua proprietà e quindi la sua duplice esistenza di proprietario privato e contemporaneamente cittadino statale. Basta che il cittadino perda la piccola proprietà privata perché perda anche la proprietà di sé stesso. «Nel rapporto di schiavitù egli appartiene al proprietario particolare, singolo, di cui è la macchina da lavoro. Come totalità di estrinsecazione di forza, come capacità lavorativa, egli è una cosa che appartiene ad un altro, e perciò non si riferisce come soggetto alla sua particolare estrinsecazione di forza, o all’atto lavorativo vivente (...) Nel rapporto di schiavitù il lavoratore non è altro che una macchina da lavoro vivente, che perciò ha un valore per altri o piuttosto è un valore» (Marx, Grundrisse).
Per non diventare schiavo, e quindi passare tra le condizioni oggettive di produzione (instrumentum mutum), il cittadino rovinato doveva mettersi sotto il protettorato di un cittadino ricco, il quale mediava la sua appartenenza alla comunità, cosicché la cittadinanza evolve verso un rapporto clientelare, annunciatore della forma terziaria (feudalesimo). Se il plebeo non trovava una accomandita vedeva confiscati i propri beni e l’espropriatore accumulava le condizioni sia oggettive (strumenti e mezzi di produzione) sia soggettive (i lavoratori), aumentando il suo potere sullo Stato proporzionalmente al numero degli espropriati, aumentando cioè la sua “quota azionaria”.
Questo processo equivalse ad una spoliazione in quanto i diritti sull’ager publicus derivavano dalla nascita comunitaria e non erano alienabili come qualsiasi prodotto.
Il produttore è separato dalla terra. La dissoluzione del comunismo primitivo porta alla costituzione di due differenti rapporti del produttore con la terra; 1) forma asiatica caratterizzata dalla proprietà statale della terra; 2) forma antico-classica caratterizzata dal dualismo di piccoli produttori possessori di una parcella e di un ager publicus di proprietà della comunità; si ha perciò un diverso riferirsi del produttore agli altri produttori: come comproprietari e come proprietari dotati di autonomia rispetto alle singole parcelle; quindi già in prospettiva è contenuta la possibilità di possedere più parcelle e aumentare la propria quota di ager publicus. «Abbiamo dunque, prima di tutto, il distacco del lavoratore dalla terra quale suo laboratorio naturale, quindi la dissoluzione tanto della piccola proprietà fondiaria libera quanto della proprietà fondiaria collettiva basata sulla comunità orientale» (ivi).
La proprietà privata, oramai autonomizzata e contrapposta alla collettiva, si compera sempre più la seconda. Dove non arriva la legalità, per la sua notoria lentezza, si premura la violenza diretta di assoggettare il pubblico al privato. Oramai la proprietà collettiva è stata soggiogata dalla parcella privata. I riformatori cercano di mitigare gli effetti della concentrazione della proprietà ridistribuendo il terreno demaniale tramite la sua concessione ai coltivatori diretti. Gracco propose una legge agraria, che altro non era che la rinnovazione della legge licinio-sestia dell’anno 387 a.C. Per tale legge tutte le terre di pubblica ragione occupate e usufruite senza compenso dai detentori – meno le appaltate, come ad esempio il territorio di Capua – dovevano essere ufficialmente revocate.
La separazione dell’uomo dalla condizione produttiva fondamentale, la terra, fu necessaria per lo sviluppo ulteriore dell’autonomia della proprietà, essenzialmente fondiaria. Con la parcellizzazione in lotti della terra proporzionalmente ai produttori, ora indifesi di fronte al processo d’accumulazione della proprietà fondiaria, si spianò il terreno per l’assoggettamento del produttore alla grande proprietà.
Economia monetaria ed indebitamento crescente
La concentrazione della proprietà privata ad un polo implica necessariamente la sua assenza all’altro; i patrizi possono acquistare le proprietà in rovina dei produttori, che diventano o plebei nullatenenti, pedine da utilizzare nelle lotte politiche di Roma, o ricadono nella condizione di schiavi. Lo sviluppo dell’economia monetaria assume un ritmo impetuoso; tuttavia il denaro svilupperà tutte le proprie determinazioni soltanto nel capitalismo, quando la separazione tra produttore e condizioni della produzione sarà totale. «Presso i Romani, i Greci ecc, il denaro compare nella sua purezza soltanto nelle sue due prime determinazioni, cioè come misura e come mezzo di circolazione, e in entrambe ad un grado non molto sviluppato. Ma non appena si sviluppa il loro commercio ecc. o, come è accaduto ai Romani, la conquista apporta loro denaro in misura massiccia – in breve, improvvisamente ad un certo livello del loro sviluppo economico, il denaro si presenta necessariamente nella sua terza determinazione [tesoro], e in essa si sviluppa tanto più quanto più [si avvicina] il tramonto della loro comunità» (ivi).
L’odio per l’usura testimonia il fatto che il capitale monetario, non quello industriale, è la forma dominante. L’odio si rivolge alla forma dominante come oggi si odia il capitale finanziario. In una commedia di Plauto, il “Curculio”, si inveiva: «Voialtri usurai siete veramente da me considerati della stessa stoffa dei lenoni; se questi fanno al buio i loro affari, voi altri li fate in piazza; essi nei bordelli, voi dilaniate la gente cogl’interessi. Numerose leggi i cittadini hanno fatto per voi; voi appena fatte, le violate; una scappatoia è tosto trovata. Voi considerate le leggi come l’acqua bollente che si va raffreddando a poco a poco».
Il denaro è materializzazione di tempo di lavoro. Le crisi monetarie diventano un’arma, come lo sono oggi in pieno imperialismo, per aumentare il soggiogamento della classe dominata; nella Roma antica l’estendersi dell’importanza del valore di scambio contribuisce all’espandersi della schiavitù.
Durante il periodo della repubblica l’aumento del prezzo del rame rese i plebei schiavi dei patrizi. «Poiché si era costretti a pagare le somme maggiori in rame, si dovette conservare questo metallo in masse o frammenti informi, che venivano dati e ricevuti a peso. Il rame, in queste condizioni, è aes grave. La moneta metallica viene pesata [...] Dopo che i patrizi ebbero accumulato una massa di questo metallo scuro e rozzo (...) cercarono di liberarsene, sia acquistando dai plebei tutte le terre che costoro acconsentivano a vendere, sia facendo prestiti a lungo termine. Essi dovettero fare un buon affare con un valore che li metteva in imbarazzo e il cui acquisto non era loro costato nulla. La concorrenza di tutti coloro che desideravano ugualmente disfarsene, dovette portare in breve tempo ad uno svilimento considerevole del prezzo del rame a Roma [...] I metalli nobili vennero scambiati a Roma col rame con enormi profitti, e un commercio così lucrativo stimolò continuamente nuove importazioni [...] A poco a poco i patrizi sostituirono con lingotti d’oro e d’argento, aurum infectum, argentum infectum, questi mucchi di vecchio rame che possedevano e che era così scomodo da piazzare e così poco piacevole a vedersi [...] Questa grande rivoluzione nel valore di scambio della materia delle monete, a misura che si compiva, peggiorò terribilmente la sorte degli infelici plebei, i quali avevano ricevuto il rame deprezzato a titolo di prestito, e avendolo speso e impiegato secondo i corsi allora correnti, si trovarono ad essere debitori, in base alla lettera dei contratti stipulati, di una somma cinque volte superiore a quella effettivamente presa in prestito. Essi non avevano alcun mezzo per riscattarsi dalla servitù [...] I plebei chiesero una revisione dei debiti, una nuova stima della somma dovuta, un mutamento del titolo della loro primitiva obbligazione [...] I creditori in verità non pretendevano una restituzione del capitale, ma anche il pagamento degli interessi era insopportabile, perché l’interesse originariamente pattuito, che era del 12%, era diventato, in seguito al rincaro eccessivo della moneta, talmente oneroso da corrispondere al 60% del capitale. In seguito ad un accordo i debitori ottennero una legge che depennava dal capitale gli interessi accumulati [...] I senatori resistettero alla prospettiva di farsi scappare di mano lo strumento con cui mantenevano il popolo nella dipendenza più abietta. Padroni di quasi tutta la proprietà terriera, armati di titoli giuridici che li autorizzavano a mettere ai ferri i loro debitori, a infliggere loro pene corporali, essi domarono la sedizione e infierirono sui più ostinati. L’abitazione di ciascun patrizio si trasformò in una prigione. Infine si fecero scoppiare delle guerre che procurarono al debitore una paga, con una sospensione della detenzione, e aprirono ai creditori nuove fonti di ricchezza e di potere» (Marx, Grundrisse).
È la prevalenza stessa «del privato allodio sul pubblico demanio» che «esige che vi sia il mezzo circolante, e quindi un mercato generale cui accedono i cittadini liberi di tutto il territorio: questo era pienamente raggiunto in Grecia e in Roma. Il tipo di produzione antico classico quindi presenta per la prima volta, a differenza della barbarie coi suoi cerchi immediati di lavoro-consumo, il mercato interno nazionale (ed anche un inizio di mercato internazionale)» (Il Programma Comunista; I fattori di razza e nazione nella teoria marxista).
Come si può ben comprendere, il denaro ha infestato i rapporti sociali, all’ideologia dominante non rimane che il compito di lodare l’accumulazione di ricchezza monetaria. Catone può così sostenere: «Scemi pure la sostanza d’una vedova; l’uomo deve accrescere la propria, e colui è degno di lode e pieno di spirito divino, i cui registri, dopo la sua morte, insegnano che gli acquisti da lui fatti superano i beni aviti». A questa morale mercantile si riferiva persino la legislazione la quale ravvisava uno sperpero in ogni dono fatto senza ricompensa; un plebiscito restrinse in quel tempo l’uso di fare regali e lasciti e l’assunzione di malleverie; le eredità non devolute ai più prossimi parenti erano soggette ad una tassa.
Per il produttore spogliato della proprietà della terra, indebitato, si apre il baratro della schiavitù per debiti. Tito Livio, narrando del periodo monarchico racconta come la città ardesse «del reciproco odio fra patrizi e plebei, soprattutto a motivo della schiavitù per debiti. I plebei mormoravano indignati che, mentre fuori combattevano per la libertà e per l’impero, in patria venivano fatti schiavi ed oppressi dai concittadini: la libertà della plebe era più sicura in guerra che in pace, tra i nemici che tra i cittadini» (Ab Urbe Condita, II, 23).
Alcuni esponenti della classe dominante cercano di correre ai ripari con provvedimenti di remissione dei debiti, ma già attorno al 376 a.C. la questione è palesemente insolubile, anche i tribuni della plebe cessano di esigerne la cancellazione e ne chiedono soltanto la rateizzazione; contemporaneamente al processo di indebitamento l’accumulazione di terreno privato aumenta, con ciò dimostrando come i due fenomeni siano strettamente collegati. «Gaio Licinio e Lucio Sestio eletti tribuni presentarono tre leggi tutte contrarie alla potenza dei patrizi e favorevoli agli interessi della plebe: una sui debiti, la quale prescriveva che, detratti dal capitale gli interessi che erano stati pagati, il rimanente si dovesse pagare in tre rate annuali; la seconda sulla limitazione della proprietà terriera, per cui nessuno poteva possedere più di cinquecento iugeri di terreno» (ivi, VI, 35).
Guerra di conquista e guerra tra modi di produzione
Tra la fine del quinto secolo a.C. e gli inizi del quarto i Romani combatterono una lunga guerra contro una fra le più importanti città etrusche, Veio, il cui territorio era contiguo a quello di Roma. In ragione della sua durata si sarebbero avute importanti innovazioni nella stessa organizzazione dell’impegno bellico: l’introduzione del soldo al soldato contribuisce a rendere il servizio una merce, che come tale abbisogna di un’unità di misura, cioè il tempo di lavoro. Qui forse prima che altrove si ha l’embrione del moderno salariato. «Prima il soldato mal sopportava di dover prestare servizio allo Stato a sue spese; era contento però di poter coltivare la sua terra per una parte dell’anno, e di procacciare così i mezzi di sostentamento a sé e ai suoi in pace e in guerra; ora gode che lo Stato gli offra un guadagno ed è contento di ricevere lo stipendio: dunque sopporti di buon animo di stare lontano un po’ più a lungo dalla casa e dalla cura dei suoi beni, essendo meno grave la spesa. Se la repubblica lo chiamasse a fare i conti, non avrebbe forse ragione di dirgli: “Tu hai uno stipendio per tutto l’anno, presta dunque la tua opera per tutto l’anno; o stimi giusto ricevere lo stipendio intero per un servizio militare di sei mesi?”» (Tito Livio; Ab Urbe Condita, V, 4).
Dopo che la comunità libera di contadini degli inizi della forma secondaria nella variante antico-classica si è trasformata nello Stato dei grandi proprietari fondiari, la sua classe dominante cercò continuamente d’estendere al resto del mondo antico quei rapporti di produzione tramite guerre di colonizzazione, in questo modo assoggettando più saldamente non solo i vinti ma anche i plebei in patria tramite un processo progressivo d’espropriazione. La storia del mondo antico è quindi un continuo tentativo d’espropriazione dei contadini parcellari ed un loro contro-tentativo di riappropriazione. «La ex vigorosa repubblica contadina, che dopo una lunga e feroce lotta contro la rivale Cartagine, aveva dominato tutto il Mediterraneo, ora (nel I secolo della nostra era) versava in piena crisi sociale. Secoli di guerre di conquista avevano portato alla rovina del libero contadino romano e determinato l’accumulazione di vastissime proprietà agricole nelle mani di poche famiglie patrizie (...) Finché i liberi contadini romani rappresentarono una massa molto numerosa, costituirono la base dell’esercito; ma, nella misura in cui la guerra, la grande proprietà e gli usurai li facevano sparire, fu necessaria l’incorporazione di elementi stranieri stipendiati» (Il Partito Comunista; Cristianesimo, da religione di oppressi a Chiesa di Stato e mistificazione della sottomissione di classe, 1995).
La plebe, che aveva perso la proprietà della parcella, costituiva una forma transitoria di dissoluzione: la cittadinanza di cui continuava a beneficiare le garantiva la possibilità di fruire dei mezzi di sussistenza ancora legati alla proprietà fondiaria dei grandi proprietari.
Il plebeo aveva una doppia figura. Da un lato poteva andare a costituire una clientela parassitaria; dall’altro poteva svolgere un ruolo economico con il lavoro della guerra, per il quale gli si fornivano i mezzi di sussistenza. Mentre tra i germani queste prestazioni erano ricevute in quanto membri del seguito del capo, tra i romani il plebeo entrò in concorrenza con i mercenari. Con la guerra i plebei avevano il compito di procurare schiavi al modo di produzione; ma presto entrarono in concorrenza con gli schiavi dal momento che i compiti della produzione immediata erano assolti da questi.
I plebei in tempo di pace, costretti all’inattività, rischiavano d’impoverirsi a tal punto da diventare schiavi per debiti presso i grandi proprietari. A causa di questa oscillazione continua i plebei non avevano un legame fisso con la produzione, pertanto non potevano diventare una classe nel senso pieno del termine.
La decadenza della variante antico-classica sta avvicinandosi: lo schiavo inizia a costare troppo, perciò i latifondisti sono costretti spesso a liberarli; questi liberti si trasformeranno in un ibrido, una forma di transizione verso il nuovo modo di produzione. I plebei, infatti, avevano un’altra possibilità, oltre a decadere al rango di schiavi o clienti: diventare artigiani.
Con la divisione della produzione in agricoltura e artigianato nasce la produzione direttamente per lo scambio, la produzione mercantile, e con essa non solo il commercio all’interno e ai bordi della comunità, ma anche oltremare. Nella forma secondaria, tuttavia, la produzione mercantile non poté espandersi; qui infatti l’artigianato trova dei limiti nel predominio della proprietà fondiaria, che non lascia spazio allo sviluppo di altre attività; l’artigianato si svilupperà ai margini della proprietà fondiaria, mentre assumerà importanza crescente nella forma terziaria quando potrà svilupparsi autonomamente nelle città.
«Alle guerre di conquista, che avevano un tempo provveduto la forza-lavoro degli schiavi a buon mercato e promosso il suo più largo impiego nei latifondi, fecero seguito le guerre di difesa. Era infatti avvenuta la rovina dei produttori liberi (piccoli contadini specialmente ed artigiani) che costituivano il nerbo degli eserciti romani: quindi crisi economica e della potenza militare di Roma, dopo la piccola produzione, anche la grande basata sul lavoro di grandi masse di schiavi, a causa del rincaro di questi ultimi, cessò di essere remuneratrice: la schiavitù non conveniva più. Gli stessi grandi proprietari furono costretti a liberare parte degli schiavi per trasformarli in coloni che divennero una specie di precursori dei servi del Medioevo, qualcosa di mezzo tra gli schiavi e gli uomini liberi. Essi infatti non potevano più essere uccisi ma restavano legati alla terra e potevano essere venduti con essa» (Il Programma Comunista, Il programma comunista quale folgorò a mezzo l’Ottocento, traverso un secolo di rifiuto dell’infetta cultura borghese, illumina ombre del passato, annunzia morte alla viltà dell’oggi, 1962).
Nei modi di produzione classisti la guerra è il più grosso affare per la classe dominante, in particolare per la sua frazione elevata; grazie alle espropriazioni questa cricca riesce a risparmiare il costo derivante dall’acquisto della terra che il comitato d’affari che gestisce il potere per suo conto le elargisce gratuitamente; così gli effetti soprattutto della confisca di enormi territori a molte delle comunità dell’Italia centromeridionale e la loro trasformazione in ager publicus, in larghissima misura lasciato alla libera occupazione dei più ricchi fra i romani, furono alla base dei più rilevanti fra i problemi economici e sociali nel corso del II secolo a.C.
«Sia nella struttura economica sociale che in quella culturale si verificano profonde trasformazioni. La nobiltà con le guerre si era sempre più arricchita di terre e aveva creato il latifondo che, grazie alla manodopera poco costosa degli schiavi, era in grado di battere le piccola proprietà sul piano della concorrenza economica. Si rendevano così inevitabili sia le lotte tra padroni e schiavi (in Sicilia, dove il latifondo era più esteso, una rivolta di schiavi durò cinque anni), sia tra patrizi e piccoli proprietari i quali, anche a causa del servizio militare continuo, erano costretti ad abbandonare le loro terre e a indebitarsi. In mezzo a questi disordini continui si facevano strada le varie tendenze della classe dominante: la conservatrice da un lato e la riformista dei fratelli Gracchi e di Mario dall’altro. Quest’ultima tendeva a risolvere la questione agraria con una riforma fondiaria stabilendo dei limiti alle proprietà acquistate sul demanio pubblico (Ager publicus) e dividendo le terre eccedenti nella speranza di ricostruire la classe dei piccoli contadini che era il nerbo dell’esercito» (Il Programma Comunista, Sorregge il mondo delle forme di proprietà mercato e denaro solo il tradimento organizzato dei movimenti rivoluzionari coi vili inganni di atteggiamenti ed evoluzioni a sinistra, 1962).
Il latifondo da base dell’economia diventa una delle cause della sua decadenza. Roma sarà lacerata continuamente da queste lotte dei plebei che tenderanno a riprendersi il proprio appezzamento di terra finito nelle mani del patrizio a causa dell’indebitamento. Saranno i barbari, alla fine, a soccorrerli.
(continua al prossimo numero)
Riteniamo utile intrecciare qui la trattazione con una sommaria descrizione del parallelo formarsi delle organizzazioni sindacali e politiche della classe operaia nell’isola maggiore, per comprendere gli stessi fenomeni in Irlanda, che necessariamente si influenzavano a vicenda.
1. Utopismo e Cartismo
La comunità di Ralahine, formatasi nel 1831 secondo le concezioni del socialismo utopistico di Owen, affittò la terra da un landlord il quale, benché “simpatizzante”, la cedette ad un canone spropositato; contratti forti debiti di gioco, svendette poi la terra sloggiando tutti i componenti della comunità.
Alla fine degli anni Trenta il movimento cartista stabilì un suo avamposto in Irlanda; nel 1841 vi costituì la Associazione per il Suffragio Universale. In Gran Bretagna c’era una forte presenza irlandese fra i dirigenti del cartismo, notevoli Bronterre O’Brien, avvocato di Dublino, e Feargus O’Connor, entrambi appartenenti all’ala detta “della forza fisica”, che si impegnò nella formazione di un movimento unitario dei contadini irlandesi e degli operai d’industria inglesi. O’Connor, eletto nel 1832 al parlamento per la contea di Cork, cercò di avvicinare Daniel O’Connell, dirigente del movimento per l’emancipazione cattolica, ma ruppe con lui nel 1836 per la sua politica antioperaia. Un gruppo di cartisti c’era ancora a Dublino nel 1841-43, ma furono dispersi dagli attacchi dei seguaci di O’Connell.
2. La Giovane Irlanda all’epoca della Grande Fame
Nel 1845 l’epidemia che colpì in Irlanda la coltivazione della patata, alimento base di contadini ed operai, provocò, come abbiamo descritto nel primo capitolo, una generale carestia, la Grande Fame, che provocò indescrivibili sofferenze al popolo irlandese e il cui ricordo si riverbera fino ad oggi.
Per dare un’idea della incapacità emotiva ed intellettuale dei rappresentati politici e religiosi della borghesia a cercare un qualche sollievo, riparati dietro la impostura della inevitabilità maltusiana, citiamo due figure istituzionali: il vescovo di West Cork, che avrebbe scritto nel 1847: «La carestia si diffonde con terribile rapidità, e in massa si muore di fame e di febbri, ma gli affittuari indomiti continuano a pagare gli affitti», e Daniel O’Connell, figlio di John, deputato al parlamento: «Ringrazio Dio di vivere fra della gente che preferisce morire di fame piuttosto che defraudare il proprietario della rendita!».
Con questo atteggiamento delle classi dominanti, apertamente tracotante nel difendere i superiori interessi dell’aristocrazia agraria nel mezzo di quella immane tragedia, non stupisce che ricevesse slancio il movimento nazionalista. Nel 1846, nel pieno di queste sofferenze, nacque il movimento della Giovane Irlanda, che condusse, spinto dall’onda delle altre rivoluzioni che quell’anno scuotevano il continente, alla sollevazione, poi fallita, del 1848, in realtà ben più di un scaramuccia. La sua ala sinistra avrebbe cercato di trarre le lezioni dalla sconfitta e restò fermamente ancorata ai temi del socialismo, della riforma agraria e del nazionalismo. James Stephens in particolare, che fu ferito ma riuscì a scappare, avrebbe appreso il suo socialismo nella Francia rivoluzionaria, e più tardi divenne capo del movimento feniano, al quale i fondatori del marxismo avrebbero concesso il loro benché critico appoggio.
All’epoca si fece sentire anche la voce proto-socialista del riformatore agrario Fintan Lalor, che denunciò come il nazionalismo astratto della Giovane Irlanda celasse la questione delle classi: «Essi vogliono una alleanza con i proprietari fondiari; li considerano irlandesi, e sognano di poterli indurre ad alzare la verde bandiera; vogliono preservare l’aristocrazia». Lalor aveva tratto lezioni più profonde dalla carestia: «Il raccolto di grano sarebbe stato sufficiente a nutrire l’isola; ma i proprietari esigevano la loro rendita in spregio all’inedia e all’epidemia. Si presero l’intero raccolto e lasciarono nella fame quelli che l’avevano coltivato. Se il popolo di Irlanda fosse stato padrone dell’Irlanda nemmeno una creatura sarebbe morta di fame, né il raccolto mancato delle patate avrebbe avuto alcuna conseguenza». La soluzione, secondo lui, era nella nazionalizzazione della terra, che sarebbe stata controllata dal popolo di Irlanda, definito come separato ed opposto ai landlord.
3. La Associazione Internazionale dei Lavoratori
in Irlanda
Il vero sbarco del socialismo in Irlanda data alla formazione delle sezioni della Associazione Internazionale dei Lavoratori.
Marx originariamente pensava che la “questione irlandese” si sarebbe risolta solo sull’onda di una rivoluzione socialista in Inghilterra, ma nel 1867 cambiò idea: «Precedentemente ritenevo impossibile la separazione dell’Irlanda dall’Inghilterra. Ora penso che sia inevitabile, benché dopo la separazione potrebbe venire una federazione» (Marx ad Engels, 2 novembre 1867). Entrambi dedicavano grande attenzione al movimento feniano, per il suo conclamato anti-clericalismo, per la sua «tendenza socialistica (in senso negativo, diretta contro l’appropriazione del suolo) e per essere un movimento degli ordini inferiori» (Marx ad Engels, 30 novembre 1867).
Dopo l’arresto e i maltrattamenti degli attivisti feniani il Consiglio Generale dell’Associazione Internazionale appoggiò apertamente e fece propaganda a favore degli incarcerati e nel novembre del 1867 organizzò un pubblico dibattito sulla questione irlandese.
Jenny Marx scrisse in una lettera a Kugelman del 21 dicembre 1871: «Gli irlandesi a Londra stanno entrando nell’Internazionale. In diverse zone dell’East-End si stanno formando delle sezioni».
Un nuovo socio era Joseph Patrick McDonnell, già dirigente dei feniani di Dublino, indotto ad aderire all’Associazione dall’entusiasmo per la Comune di Parigi; questo lo allontanava dal movimento feniano, il cui dirigente O’Donovan Rossa aveva condannato la Comune per l’uccisione dell’arcivescovo di Parigi. Pochi giorni dopo averlo conosciuto, il 18 giugno 1871 Marx avrebbe fatto nominare McDonnell membro del Consiglio Generale. Sarebbe diventato uno dei più coerenti sostenitori di Marx e nell’agosto di quell’anno ebbe l’incarico di segretario corrispondente dell’Internazionale per l’Irlanda.
All’inizio del 1872 quattro erano le sezioni dell’Associazione in Irlanda: Dublino, Belfast, Cork e Cootehill. Ma già nel marzo un prete cattolico avrebbe annotato con soddisfazione che «questa gente sciagurata è stata espulsa da Belfast».
In una Dichiarazione del Consiglio Generale intitolato “La politica di terrorismo in Irlanda”, pubblicato in aprile 1872, si legge: «L’antagonismo nazionale tra operai inglesi e irlandesi in Inghilterra è stato sinora uno dei principali ostacoli per ogni tentativo di movimento per l’emancipazione della classe operaia, e quindi uno dei principali strumenti di dominazione di classe sia in Inghilterra sia in Irlanda. La diffusione dell’Internazionale in Irlanda e la formazione di sezioni irlandesi in Inghilterra minaccia di por fine a questa situazione».
Quasi due anni prima, nella lettera circolare del 1° gennaio 1870 inviata al Consiglio Federale della Svizzera Romanza, il Consiglio Generale aveva già chiarito la sua posizione rispondendo alle accuse di Bakunin e dei suoi, fra le quali che la posizione del Consiglio sulla questione irlandese, compresa la richiesta di un’amnistia per i prigionieri feniani, fosse per distogliere l’attenzione dell’organizzazione internazionale dei lavoratori dalla soluzione dei problemi sociali.
L’Associazione Internazionale continuò a crescere in Irlanda nelle sezioni di Dublino e di Cork. Di questa sezione fu eletto segretario J. De Morgan, insegnante di lingue ben conosciuto tra i lavoratori della città. La polizia ovviamente non perse tempo per reprimere le attività della sezione, e a questo rispose la Dichiarazione sopra citata, redatta da una commissione fra cui McDonnell e Marx e successivamente fatta propria dal Consiglio Generale.
Nel 1872 a Cork vi fu uno sciopero dei vetturini per la settimana di 54 ore, sostenuto dalla sezione dell’Internazionale. La Chiesa cattolica, terrorizzata dall’anticlericalismo dei Comunardi a Parigi, presto dimenticati i secoli di oppressione sotto il tallone del potere coloniale britannico, dai pulpiti denunciò l’Internazionale per il sostegno, anche economico, che dava allo sciopero. Il 22 marzo in città fu affisso l’avviso “Ai lavoratori di Cork”: «Gli apologeti dei comunisti di Parigi sono fra di voi. Gli apologeti di coloro che hanno assassinato l’Arcivescovo e i preti di Parigi sono fra di voi!! Attenti a coloro che vi chiedono di legarvi alla Società Internazionale». E per il 24 marzo si chiamava ad una manifestazione contro l’Internazionale. Gli internazionalisti di Cork risposero in forze sotto il palco degli oratori. Ne seguì un tafferuglio ed il contingente dell’Associazione, nonostante in forte minoranza, riuscì a spuntarla. Ma fu una breve vittoria: la propaganda intimidatoria contro i “rossi” sarebbe continuata e, travolta dalle maldicenze, la sezione di Cork fu chiusa.
Nel frattempo l’Internazionale, nella sua originaria forma federale, era in Inghilterra boicottata dai dirigenti sindacali opportunisti e dall’opposizione degli anarchici, che nascondevano la loro sostanziale assenza di principi dietro la parola demagogica dell’”antiautoritarismo”, scontrandosi direttamente con chi si riconosceva nell’indirizzo marxista. Nonostante tutto il loro parlare di “libertà” i bakuninisti erano fortemente avversi al sostegno dato da Marx all’indipendenza irlandese.
Ad un certo punto Marx, piuttosto che lasciar cadere l’Internazionale nelle mani di costoro, propose di trasferire il Consiglio Generale a New York. Qui McDonnell, che alla fine del 1872 aveva scelto gli Stati Uniti, si sarebbe messo in contatto con il Segretario Generale dell’Internazionale Friedrich Sorge e con altri marxisti per lavorare colà alla formazione di un partito di classe.
4. Controrivoluzione
Dopo l’annientamento della Comune di Parigi si ebbe, col trionfo della controrivoluzione a scala internazionale, un rinculo del movimento operaio. L’Associazione Internazionale stessa sarà messa in sonno, per rinascere più tardi, con più vigore ancora nella Seconda Internazionale. In queste condizioni, visto il rapporto delle forze fra Irlanda ed Inghilterra, era diventato molto più difficile battersi per l’indipendenza, pur mantenendo l’obiettivo di uscita dall’Unione, o per lo meno di una larga autonomia.
Aveva scritto Engels in “Le elezioni inglesi”,
del 4 marzo 1874:
«Il ghiaccio è spezzato e due operai siedono
adesso nel club di chiacchiere più alla moda al mondo, insieme a
quelli che si dichiarano i primi gentlemen di Europa. Al loro fianco
seggono almeno 50 irlandesi sostenitori dello Home Rule.
«Dopo che la ribellione dei feniani (i
repubblicani irlandesi) del 1867 è stata repressa ed i loro capi
militari progressivamente catturati, o spinti all’emigrazione in
America, quel che resta dell’organizzazione cospirativa dei feniani
ha rapidamente perduto ogni importanza. Una violenta insurrezione non
ha alcuna possibilità di successo per lunghi anni, almeno fino a che
l’Inghilterra non sia di nuovo implicata in serie difficoltà
all’estero. Questo fa sì che un movimento legale resti la sola
possibilità, e un tale movimento è stato intrapreso sotto la
bandiera degli home ruler, che vogliono che gli irlandesi siano
“padroni in casa propria”. Hanno fatto una esplicita richiesta al
Parlamento Imperiale di Londra di concedere a una sorta di Parlamento
Irlandese il diritto di legiferare su tutte le questioni puramente
irlandesi; molto saggiamente non hanno detto niente su cosa si doveva
intendere con questioni puramente irlandesi.
«Questo movimento, all’inizio dileggiato
dalla stampa inglese, è divenuto così potente che dovettero
aderirvi deputati irlandesi dei partiti più diversi: conservatori e
liberali, protestanti e cattolici (anche Butt, che dirige il
movimento, è un protestante) e financo un nativo inglese delegato di
Galway. Per la prima volta dall’epoca di O’Connell, il cui
movimento per il rifiuto dell’Unione era poco dopo naufragato
insieme al movimento cartista a seguito della reazione generale che
seguì la disfatta del 1848, entra di nuovo in Parlamento un partito
irlandese ben strutturato, ma in circostanze che difficilmente
permetteranno dei compromessi alla O’Connell con i liberali o ai
suoi membri di vendersi al governo liberale, come era divenuto di
moda dopo di lui.
«Così le due forze motrici dello sviluppo
politico inglese sono entrate in Parlamento: da un lato gli operai,
dall’altro gli irlandesi come partito nazionale compatto. Ed anche
se ci si può difficilmente attendere che possano avere un gran ruolo
in questo parlamento – gli operai certamente no – le elezioni del
1874 hanno indiscutibilmente condotto la vita politica inglese in una
nuova fase».
Questa l’analisi che Engels farà della situazione irlandese otto anni dopo, nel 1882, ancora in periodo controrivoluzionario. Ci riferiamo al già citato “A proposito della questione irlandese”, che fa un riassunto storico dei diversi movimenti di resistenza.
«Il pericolo maggiore [per l’Inghilterra] era superato [l’appoggio degli Stati Uniti all’Irlanda, n.d.r.]. La polizia passò allora a regolare i conti con i feniani. Il tradimento, inevitabile in tutte le congiure, anche ci fu, ma non proveniva che dai capi, che divennero in seguito spie a ruolo e falsi testimoni. Alcuni, passati in America, fecero la rivoluzione come si fa nell’emigrazione e si rovinarono, come O’Donovan Rossa. Chi ha conosciuto gli emigrati europei del 1849-1852 lo troverà familiare, benché evidentemente con gli eccessi al modo americano.
«È certo che numerosi feniani sono oggi di
ritorno e che hanno ricostruito la vecchia organizzazione armata.
Essi formano un elemento importante del movimento e costringono i
liberali ad intervenire con maggiore energia. Ma arrivano solo a
spaventare John Bull. Questo, è vero, si è notevolmente indebolito
alla periferia del suo impero, ma là, vicino a casa, è ancora bene
in condizioni di soffocare senza fatica qualsiasi insurrezione
irlandese. In Irlanda sono acquartierati, primo, 14.000
“Constabutary”, gendarmi, armati di fucile e baionette ed
addestrati all’arte militare. Secondo, circa 30.000 di truppa di
linea, che ne possono ricevere in rinforzo altrettanti di truppe di
linea e di milizie inglesi. Senza contare la flotta. E nella
repressione dei sollevamenti John Bull è di una ferocia senza pari.
«A meno che una guerra o un pericolo di guerra
venga dall’esterno, l’insurrezione irlandese non ha la minima
possibilità di successo; e non vi sono che due potenze che
potrebbero diventare pericolose: la Francia e ancor più gli Stati
Uniti. La Francia è fuori causa. In America i partiti adescano gli
elettori irlandesi, promettono loro molto e non fanno niente. Non ci
pensano nemmeno a lasciarsi coinvolgere in una guerra a profitto
dell’Irlanda. Hanno anche interesse che vi siano in questo paese
condizioni che provochino una intensa emigrazione di irlandesi in
America. E si capisce che un paese che sarà entro venti anni il più
popolato, il più ricco e potente del mondo non abbia voglia di
lanciarsi in avventure che potrebbero compromettere il suo gigantesco
sviluppo interno. Fra vent’anni terrà un altro linguaggio.
«Ma in caso di pericolo di guerra con la
Germania, l’Inghilterra accorderebbe volentieri agli irlandesi
tutto quello che chiedono... Tutto, tranne l’indipendenza totale
che, in ragione della situazione geografica, sarebbe del tutto
inaccettabile.
«Non resta agli irlandesi che la via
costituzionale per acquisire posizioni una ad una, e anche l’ombra
misteriosa della congiura armata dei feniani potrebbe rimanere un
elemento assai efficace. Ma i feniani scivolano sempre di più verso
una sorta di bakuninismo; l’assassinio di Burke e di Cavendish non
poteva avere che uno scopo: rendere impossibile un compromesso fra la
Lega Agraria e Gladstone. Ora, questo compromesso sarebbe stato per
l’Irlanda la miglior soluzione del caso.
«I landlord espellono decine di migliaia di
contadini indebitati, e lo fanno spesso con l’aiuto della forza
armata. La prima esigenza del movimento è impedire questo
spopolamento sistematico dell’Irlanda (gli espulsi muoiono di fame
o sono forzati ad emigrare in America). Gladstone è pronto a
sottomettere al Parlamento una legge secondo la quale gli arretrati
sarebbero pagati nel modo in cui si fece nel 1848 in Austria per le
servitù feudali: un terzo versato dal contadino, un terzo dallo
Stato, un terzo perduto dal landlord. È quello che propone la Lega
Agraria.
«Di conseguenza l’”exploit” di
Phoenix-Park sembra solo una sciocchezza, o almeno una “propagande
par le fait” puramente bakuninista, fanfarona, inutile. Se non vi
sono state delle sciocchezze del tipo di quelle di Hoedel e di
Nobiling, è perché l’Irlanda, malgrado tutto, non è la Prussia.
Bisogna lasciare che i bakuninisti ed i rivoluzionari della frase
mettano queste fanciullaggini sulla stesso piano dell’esecuzione di
Alessandro II ed annuncino una “rivoluzione irlandese” che non
viene mai».
Come si vede le possibilità di successo di una rivoluzione irlandese negli anni 1880 erano molto scarse. Le migliori condizioni per la riuscita di una insurrezione erano quelle create da una guerra fra l’Inghilterra ed una potenza straniera come gli Stati Uniti, la Francia, o... la Germania.
Questo vuol dire che rimaneva aperta la questione dell’indipendenza, pur in momentanea assenza di sostegno del movimento operaio.
Restava da definire la via per la quale ci si sarebbe arrivati. La borghesia irlandese cercava con metodi costituzionali di ottenere una vasta autonomia con un parlamento indipendente che potesse gestire gli affari irlandesi, solo lasciando in questo caso a Londra la politica estera sul piano diplomatico e militare. Engels giudica che nelle condizioni di allora era la sola soluzione possibile. Ma questo non vuol dire abbandonare l’obiettivo della piena indipendenza.
Ecco quello che Engels scriveva a Kautsky in una
lettera del 7 febbraio 1882:
«Uno dei compiti reali della Rivoluzione del
1848 (e il compito reale e non illusorio di una rivoluzione è sempre
ottenuto come risultato di questa rivoluzione) era la restaurazione
delle nazionalità disperse ed oppresse dell’Europa centrale, nella
misura in cui erano tutte vitali, ed in particolare mature per
l’indipendenza. Questo compito è stato adempiuto per l’Italia,
l’Ungheria e la Germania, in funzione delle condizioni che
prevalevano, dagli esecutori testamentari della rivoluzione,
Bonaparte, Cavour, Bismarck. Restano l’Irlanda e la Polonia.
L’Irlanda può qui essere messa da parte, perché influisce solo
molto indirettamente sulle condizioni sul continente. Ma la Polonia
si trova nel bel mezzo del continente ed il mantenimento della sua
divisione è precisamente il legame che costantemente tiene insieme
la Santa Alleanza, e per questo la Polonia è di grande importanza
per noi (...)
«Sono quindi dell’avviso che due nazioni in
Europa hanno non solo il diritto ma il dovere di essere nazionaliste
prima di divenire internazionaliste: l’Irlanda e la Polonia. Sono
molto più internazionaliste quando sono autenticamente
nazionaliste».
5. La Guerra per la Terra
Intanto in Irlanda la Guerra per la Terra, o Guerra Popolare, fra il 1878 e il 1882 avrebbe portato al centro della scena politica la Irish National Land League. La parola nazionalizzazione, come rivendicata da Henry George, e meno risolutamente dal dirigente della Lega Michael Davitt, catturò l’interesse in particolare dei contadini senza terra. Marx ritenne il libro di George Progress and Poverty «significativo perché è il primo benché abortito sforzo di emancipazione dalla economia politica ortodossa» (a Sorge il 20 giugno 1881). Ma nella stessa lettera descrive il progetto di nazionalizzazione della terra come «solo un tentativo, abbellito di socialismo, di conservare il dominio capitalistico e di fatto ristabilirlo su basi più vaste di quelle attuali». Un commentatore contemporaneo avrebbe infatti scritto: «certamente nessuno può difendere più strenuamente di Mr. George il diritto della proprietà su qualunque cosa eccetto la terra». George può quindi essere visto come l’ultima espressione della battaglia della borghesia industriale contro gli interessi fondiari, proponendo di abolirli senz’altro, e chiedendo la nazionalizzazione della terra senza compenso (mentre Davitt argomentava che i landlord avrebbero dovuto essere ricompensati nel processo iniziale della nazionalizzazione).
Ma l’appoggio dei nazionalisti irlandesi a questi provvedimenti, naturalmente, dipendeva grandemente dal fatto se il governo che attuasse la nazionalizzazione fosse irlandese ovvero inglese. In generale i piccolo borghesi nazionalisti irlandesi erano ostili alla nazionalizzazione della terra perché appoggiavano il formarsi di una proprietà contadina irlandese.
Le violente azioni intraprese dagli attivisti irlandesi nella Guerra per la Terra, benché per lo più difensive e finalizzate a resistere agli sfratti, sarebbero state affrontate in modo feroce dalle autorità inglesi e nel 1881 il governo avrebbe fatto approvare un repressivo Coercion Bill che consentiva l’internamento senza processo degli attivisti della Land League e la sospensione dell’habeas corpus.
Che fosse stato il governo dei Liberali a far passare questa legge ebbe importanti ripercussioni: fu uno schiaffo in faccia sia allo Irish Party, che aveva appoggiato Gladstone nelle elezioni del 1880 per cacciare Disraeli e i Conservatori, sia alla classe operaia, che aveva visto Gladstone allinearsi nella pratica alla politica dei Tory.
6. La Social Democratic Federation
In Inghilterra due operai appartenenti al London Trade Council lanciarono un giornale, il Labour Standard; a questo, che sollecitava la formazione di un partito operaio indipendente, Engels forniva i principali articoli. In Scozia, Robert Banner, conoscente di Marx e di Engels, avrebbe votato le sue energie alla fondazione dello Scottish Labour Party.
In giugno 1881, in reazione al Coercion Bill, una Democratic Federation indisse il suo convegno di fondazione in Gran Bretagna, all’inizio un’alleanza costituitasi fra radicali e “alcuni operai rappresentativi” al solo fine di opporsi al Bill. Nel luglio una delegazione della Democratic Federation fu invitata in Irlanda a prendere contatti con la Land League e si stabilirono forti legami. Militanti di entrambe le organizzazioni si presentavano davanti a grandi platee: una al Phoenix Park di Dublino richiamò 100.000 ascoltatori. Sezioni della Land League si sarebbero successivamente formate in Inghilterra e in Scozia. Il candidato che Engels avrebbe preferito alla direzione della Democratic Federation sarebbe stato il vecchio cartista e “mezzo-comunista” Joseph Cowen, ma alla fine prevalse Hyndman.
Hyndman appoggiava lo Home Rule, l’autogoverno, ed il movimento per la terra, ma specificava che lo Home Rule irlandese avrebbe dovuto raggiungersi “dolcemente”, “senza distruzione di fatto dell’Impero”. Questa vena di sciovinismo alla base del suo pensiero avrebbe continuato a segnare la politica della Democratic Federation, sia finché Hyndman riuscì a mantenere le leve dell’organizzazione e della stampa, sia con i suoi successori. Più di trenta anni dopo Hyndman avrebbe appoggiato Edward Carson e gli Ulster Volunteers, nonostante l’opposizione dell’Esecutivo del British Socialist Party del quale faceva parte.
Marx scrisse a Sorge, il 18 dicembre 1881: «All’inizio di giugno fu pubblicato da Hyndman (che precedentemente si era infilato in casa mia) un libretto: “England for all” (L’Inghilterra per tutti). Pretendeva di essere scritto a presentazione del programma della “Democratic Federation” – una associazione recentemente formatisi di varie società radicali inglesi e scozzesi, metà borghesi, metà proletarie. I capitoli sul Lavoro e sul Capitale sono citazioni letterali, o circonlocuzioni dal “Capitale”; il tipo non ha mai citato la fonte né il suo autore, ma per proteggersi da brutte figure annota alla fine della sua prefazione: “Per le idee e molto del contenuto dei capitoli II e III sono in debito al lavoro di un grande pensatore e scrittore originale, ecc, ecc”. A me medesimo il tipo scrisse una stupida lettera di scuse, per esempio: “all’inglese non piace imparare dagli stranieri”, “il suo nome è così detestato che, ecc”. Con tutto questo, il suo libretto – nella misura che rubacchia dal “Capitale” – fa buona propaganda, benché l’uomo sia una mela marcia e molto lontano da avere perfino la pazienza – la prima condizione per imparare qualcosa – per studiare un argomento a fondo».
Engels riprese l’argomento in una lettera a Bebel del 30 agosto 1883: «In nessun modo devi farti illusioni pensando che ne venga fuori un movimento proletario reale (...) Gli elementi al momento attivi possono diventare importanti se accetteranno il nostro programma teorico e così darsi un fondamento, ma solo se qui scoppia un movimento spontaneo fra i lavoratori ed essi riusciranno a prenderne il controllo. Fino ad allora rimarranno menti individuali, in un minestrone di sètte, reduci del gran movimento degli anni Quaranta, restando alla loro coda e niente più. A meno dell’imprevedibile – un vero movimento generale degli operai potrà aversi qui solo quando gli operai avranno nei fatti provato che il monopolio mondiale dell’Inghilterra è a pezzi. La partecipazione al dominio del mercato mondiale era ed è la base della nullità politica degli operai inglesi. Alla coda della borghesia nello sfruttamento economico del suo monopolio, ma tuttavia dividendone i vantaggi, essi sono naturalmente in politica al seguito del “grande Partito liberale”, che da parte sua dedica loro poca attenzione, riconosce i sindacati e gli scioperi come fatti legittimi, ha abbandonato la battaglia per la giornata di lavoro illimitata e ha dato il voto alla massa degli operai meglio messi. Ma una volta che l’America e la concorrenza unita degli altri paesi industriali abbia fatto notevole breccia in questo monopolio (e nell’acciaio questo sta avvenendo rapidamente, nel cotone purtroppo non ancora) c’è da vedere qualcosa qui».
La Democratic Federation avrebbe stretto alleanza con la Land League appoggiando uno dei suoi contro il candidato liberale ad una elezione suppletiva nella contea di Tyrone. Questo gli avrebbe fatto perdere l’appoggio dei Club radicali di Londra e fu un chiaro sgarbo verso il Partito Liberale. In marzo Hyndman avrebbe scritto: «I capi delle attuali organizzazioni radicali (...) così come le Trade Unions sono, in gran parte, del tutto nelle mani della classe capitalista, che controlla assai ampiamente le loro azioni». Nel 1882 Hyndman ammise pubblicamente il suo debito nei confronti di Marx come «uno dei più grandi pensatori dei tempi moderni».
Nell’agosto 1883 la Democratic Federation dichiarò di essere arrivata ad aderire al socialismo e l’organizzazione fu ribattezzata come Social Democratic Federation. Alla sua conferenza annuale Eleanor Marx ed Edward Aveling avrebbero assunto un ruolo dirigente fra i venti membri del Consiglio Esecutivo.
Benché accogliesse una varietà di differenti approcci, tutti erano d’accordo sui fini principali della nuova Federation: suffragio universale, otto ore per gli operai di industria, attribuzione di un salario ai deputati per consentire una rappresentanza della classe operaia in parlamento.
In una lettera a Bebel del 30 agosto 1883 Engels scriveva: «Il Manifesto della Democratic Federation di Londra è scaturito da circa venti o trenta piccole società (...) Importante è che ora almeno sono obbligati a proclamare apertamente la nostra teoria, che durante il periodo dell’Internazionale sembrava loro essere dettata dall’esterno, poiché, bisogna dire, essi medesimi, e quella folla di giovani borghesi intellettuali emergenti che, a disdoro degli operai inglesi, comprendono meglio le cose e le prendono con più passione degli operai. Inoltre nella Democratic Federation gli operai per la maggior parte accettano il nuovo programma solo controvoglia e come un fatto formale. Il capo della Democratic Federation, Hyndman, è un arci-conservatore ed un gran sciovinista, ma un carrierista non stupido, che si comportò in modo molto meschino con Marx (...) e per questa ragione lo allontanammo dalle nostre persone».
7. La Socialist League
Quindi la Democratic Federation dal 1883 sarebbe stata conosciuta come Social Democratic Federation.
In questa presto si delinearono un “partito Marx-Aveling” e un “partito Hyndman”. In una lettera a Wilhelm Liebknecht del 1° gennaio 1885 Eleanor avrebbe affermato: «Uno dei nostri principali punti di conflitto con Hyndman è se noi desideriamo farne davvero un movimento internazionale (...) Mr. Hyndman (...) si sforza di mettere gli operai inglesi contro gli “stranieri”. Ora è assolutamente necessario che noi mostriamo al nemico un fronte unito – e per far questo i nostri amici tedeschi ci debbono dare una mano. Se voi volete contribuire ad un partito veramente socialista, e non socialdemocratico-sciovinista-possibilista, ora è il momento di farlo».
Questa lettera fu scritta tre giorni dopo che gli internazionalisti avevano sconfitto la frazione di Hyndman, “sciovinista”, come Eleanor la chiamava; ma a causa dello stretto margine della loro vittoria, il giorno 29 dicembre 1884 decisero di uscirsene e formare un nuovo partito, la Socialist League.
La mattina prima, William Morris ed Edward Aveling erano andati da Engels per avere il suo parere. Engels il giorno stesso scrisse sulla scissione a Bernstein: «Quelli che hanno dato le dimissioni sono stati Aveling, Bax e Morris, gli unici uomini onesti fra gli intellettuali – ma gli uomini meno pratici che si possano trovare (due poeti ed un filosofo). Ma anche il meglio degli operai conosciuti (...) Vogliono agire nelle sezioni di Londra; sperano di ottenere la maggioranza e poi lasciare che Hyndman rimanga con le sue inconsistenti sezioni di provincia. Il loro organo [Commonweal] sarà un piccolo giornale mensile. Infine, lavoreranno a scala modesta, in proporzione delle loro forze, e non più agire come se il proletariato inglese fosse obbligato a seguire subito l’appello di qualche intellettuale convertito al socialismo».
Una bozza di manifesto intitolato “Ai socialisti” – qui riportato in Archivio – uscì il 13 gennaio con dieci firmatari, compresa Eleanor, William Morris ed Edward Aveling. In parte testimonia delle consultazioni con Engels dei giorni precedenti: denuncia la tendenza nella Social Democratic Federation «all’opportunismo politico, che, se sviluppato, ci coinvolgerebbe in alleanze, benché temporanee, con l’una o l’altra delle fazioni politiche, e indebolirebbe la nostra forza di propaganda portandoci all’elettoralismo (...) Fra coloro che appoggiano queste convinzioni di avventurismo politico c’è una tendenza verso la rivendicazione della nazionalità, il nemico di sempre del socialismo: ed è facile vedere quanto pericoloso questo possa diventare in tempi come questi (...) Persistente avversione al socialismo».
Un passaggio interessante dichiarava come la nuova organizzazione si differenziasse dalla Social Democratic Federation riguardo gli intenti e la tattica della propaganda socialista, affermando che un organo socialista «al presente stato delle cose non ha altra funzione che educare il popolo ai principi del socialismo, e di organizzarlo in modo che si trovi al posto giusto quando la crisi verrà a forzarci all’azione».
Il primo numero del Commonweal uscì nel febbraio 1885: verrà via via ad ospitare contributi di Engels, Paul Lafargue, Wilhelm Liebknecht, Karl Kautsky.
Il 28 ottobre 1885 Engels scriverà ancora a Bebel della sua ostilità nei confronti dei dirigenti delle Unions di mestiere, che non erano riuscite a reagire alle sfide che il colossale sviluppo dell’industria presentava al movimento sindacale. Era stata una crescita tale da richiedere l’arrivo nel mercato del lavoro di una enorme massa di manovali, che superarono in numero gli specializzati («e che possono fare tutto quello che fanno gli “specializzati” ed anche di più»). Ma i capi dei sindacati continuavano ad impedir loro l’iscrizione, preferendo invece impuntarsi sulle questioni che interessavano i qualificati, come le restrizioni all’accesso ai vari mestieri. «Questi pazzi vogliono riformare la società come a loro conviene e non riformare sé stessi per adeguarsi allo sviluppo della società. È importante spezzare la Social Democratic Federation prima possibile, i suoi dirigenti essendo nient’altro che carrieristi, avventurieri ed intellettuali. Hyndman, il loro capo, fa del suo meglio in questo senso (...) È una squallida caricatura di Lassalle».
8. La questione parlamentare
Engels, con tutti i comunisti marxisti, in opposizione agli anarchici e al loro rifiuto dello strumento partito e di ogni forma di programma e battaglia politica volta alla dittatura statale di classe, sosteneva che il movimento proletario dell’epoca dovesse utilmente impiegare il suffragio universale ed imporre la sua presenza in parlamento al fianco dei partiti borghesi e fondiari, a dimostrare una maturità ed un orgoglio di classe, ma solo come strumento di propaganda, dandosi per scontata l’impotenza rivoluzionaria dei rappresentanti eletti dagli operai in quella sede e con quei metodi.
Engels aveva affermato nel 1886 che anche Morris non era immune da atteggiamenti anarchici. Questo era dovuto sicuramente alla eccessiva preoccupazione di Morris per gli effetti corruttori che la partecipazione ai parlamenti poteva avere sui rappresentanti dei lavoratori. Per altro Morris preciserà a John Glasse il 23 maggio 1887, poco dopo la terza Conferenza annuale della League: «Credo che certamente i socialisti debbano mandare loro rappresentanti in parlamento quando siano forti abbastanza per farlo: in sé non vedo alcun pericolo in questo, fintanto sia inteso che sono lì come ribelli e non come membri del corpo governativo, pronti a far passare misure palliative per tener in vita “la società”. Ma temo che molti di essi saranno condotti in questo errore dall’influenza corruttrice di un organismo dichiaratamente ostile al socialismo: quindi se vedo una fase parlamentare (chiaramente ancora molto lontana) nella futura crescita del partito, penso che sarà sempre necessario tenere vivo un nucleo di socialisti di principio che rifiutino la responsabilità delle azioni della componente parlamentare del partito».
La Sinistra italiana si proclamava “astensionista” non perché fosse “difficile” al partito trattenere i deputati socialisti dal tradire, in questo d’accordo con Lenin, ma per una ormai evidente incompatibilità pratica, nell’occidente di putrido parlamentarismo, fra preparazione rivoluzionaria e preparazione elettorale, e questo sia nei confronti della classe sia nei ranghi del partito.
Più tardi quell’anno stesso Morris avrebbe formulato la sua tattica astensionista – sul tema si legga, in Archivio di questo stesso numero, “Antiparlamentarismo”, dal Commonweal del 1889 – ma anche iniziato a difendere l’autogestione operaia delle industrie.
A Londra la posizione antiparlamentare della Socialist League attrasse molti anarchici che alla fine degli anni Ottanta ne presero il controllo contestando a William Morris la direzione del Commonweal. Morris, che pur aveva obiettato sulla partecipazione dei socialisti al parlamento, ma su basi diverse di quelle degli anarchici, infine abbandonò l’organizzazione, facendole mancare il suo sostanzioso contributo annuale di 500 sterline.
Presero allora campo gli apostoli della “propaganda del fatto”, e le colonne del Commonweal si dettero a celebrare atti incendiari e ospitare corsi di fabbricazione di bombe, confezionati da un iscritto che si sarebbe poi rivelato una spia. Alla conferenza di novembre 1890 la sola questione decisa fu che non avrebbe dovuto esservi un presidente né «qualsivoglia burocrate para-costituzionale».
9. La Socialist League
In Irlanda fino all’inizio degli anni 1890 il socialismo rimase per lo più confinato a Dublino. La Social Democratic Federation non era riuscita a metter su sezioni né prima né dopo la scissione del 1884. Alla fine si formò una vaga alleanza di radicali e socialisti che, evitando attentamente nel nome ogni riferimento al socialismo, aveva cura di non dispiacere tanto alla Chiesa cattolica quanto ad entrambe le parti della recente scissione della Social Democratic Federation. Fu questa la Dublin Democratic Association che comprendeva i sostenitori della nazionalizzazione della terra, i radicali e i socialisti, questi contando solo un quarto dei membri; fra loro Adam O’Tool, vecchio membro della sezione di Dublino dell’Internazionale, e il marxista tedesco-danese Fritz Schumann, che perorò l’appoggio ai sindacati, «per collegarci ai fratelli operai di Inghilterra e sul continente».
La Dublin Democratic Association si scioglierà nel 1885 e molti dei suoi membri aderiranno alla sezioni di Dublino della Socialist League, formata da un membro inglese arrivato quell’anno a Dublino.
La Socialist League a scala nazionale aveva ovviamente una posizione più risoluta sulla questione nazionale della Social Democratic Federation, e Bax avrebbe insistito sulla necessità di «spezzare quegli odiosi monopoli di razza chiamati imperi, cominciando ognuno in casa propria. Tutto ciò che serve alla dispersione e disintegrazione dell’impero al quale uno appartiene deve essere accolto dal socialista come un alleato». Gli iscritti erano pochi, solo 17 nell’aprile 1886, fra questi tre membri della vecchia Internazionale.
La loro influenza forse stava dietro il coinvolgimento diretto e appassionato della League nella serrata dei bottigliai di Dublino del 1886, che le avrebbe portato molta simpatia fra i lavoratori e i sindacalisti della città. La vertenza prese dimensioni internazionali quando i padroni fecero arrivare crumiri dalla Svezia. A Schumann, che era scandinavo, i bottigliai chiesero di avvicinare i crumiri per informarli dello sciopero, ed ottenne che gli svedesi cessassero il lavoro. Schumann e il Trade Council di Dublino si dettero da fare per aiutare loro e le famiglie, alla fame e senza mezzi, per tornare a casa, a ricevere consulenza legale ed un compenso. Schumann avrebbe ricordato: «Era fortemente sentita qui durante l’ultimo sciopero la necessità di comunicare e di azione internazionale fra i bottigliai; mi fu chiesto di scrivere uno Statuto ecc. per una Società Internazionale della categoria»; in ottobre la League avrebbe concesso la sua sala per il congresso inaugurale della International Union of Glass Bottlemakers. Evidentemente la Socialist League era attenta a mettere in pratica almeno due delle condizioni chiave di un partito politico di classe: l’internazionalismo e la necessità di un legame diretto con i lavoratori nelle loro lotte economiche.
L’8 aprile 1886 Gladstone aveva presentato ai Comuni la Legge sul Governo dell’Irlanda, e sull’isola i nazionalisti si fecero convinti che lo Home Rule fosse imminente. Il Bill però sarebbe stato sconfitto ed il Liberal Party si sarebbe scisso, con 93 parlamentari che se ne andarono per formare il Liberal Unionist Party, sotto Joseph Chamberlain. Le successive elezioni generali furono dominate dalla questione dello Home Rule tanto che Fritz Schumann avrebbe ammesso il fastidio che questo provocò nelle sezioni di Dublino della Socialist League: «È estremamente difficile in questo momento portare la gente a pensare a qualcos’altro che allo Home Rule». Evidentemente la questione di come rapportare la lotta nazionale con le rivendicazioni del movimento internazionale dei lavoratori era ancora non ben risolta e causava disorientamento.
A Dublino la sezione della League avrebbe cessato di esistere intorno al marzo 1887. I suoi componenti ed alcuni della Social Democratic Federation si raggrupparono quindi con altri socialisti locali in una organizzazione chiamata National Labour League, che continuò a convocare comizi e ad organizzare dibattiti localmente molto seguiti. Ma nel dicembre l’organizzazione si era già sciolta e molti dei suoi iscritti andarono a gravitare attorno al Dublin Socialist Club.
Ma i socialisti di Dublino erano ancora molto incerti sull’atteggiamento di fronte alla agitazione per lo Home Rule. O’Gorman, un veterano dell’Internazionale e della Socialist League ed ora membro del Dublin Socialist Club, avrebbe affermato: «Sotto tutte le forme di Home Rule che ho visto finora verrebbero a dominare in Irlanda due delle forze più reazionarie della società umana – la proprietà contadina nullatenente e il pretume ben organizzato». All’epoca la tendenza prevalente era ancora di vedere la lotta per il socialismo in Irlanda ignorando od opponendosi al movimento per l’indipendenza invece che battersi per il suo dialettico necessario compimento e superamento: nella battaglia per una Irlanda indipendente, il proletariato avrebbe infine preso il sopravvento sulla borghesia nazionalista, e armato contro di essa.
A Dublino, il Socialist Club dette vita ad un’altra organizzazione, la Irish Socialist Union, che si dava il fine di attrarre le altre organizzazioni socialiste, raccogliere una biblioteca e propagandare le idee socialiste, far circolare la stampa ed organizzare comizi di piazza.
Due membri di questo gruppo, Adolphus Shields e William Graham, erano anche organizzatori della National Federation of Labour, un sindacato di lavoratori non qualificati; presto spostarono la loro attività nella National Union of Gasworkers and General Labourers di Will Thorne. Questa loro decisione segnò un cambiamento di priorità all’interno del movimento politico operaio: dalle piccole società di propaganda, volte a diffondere nozioni base della dottrina socialista attraverso conferenze pubbliche e discussioni, ci si dava a mettere alla prova quelle teorie nel fuoco dei movimenti economici di massa, insieme ai conseguenti tentativi di formare dei partiti operai ben definiti. E tutto questo sul sottofondo della risorgente lotta per l’indipendenza nazionale.
10. Il grande sciopero dei portuali
Il grande movimento del 1889, centrato sulle rivendicazioni degli operai di bassa forza, impose presto la questione del rapporto fra le organizzazioni economiche dei lavoratori e le loro diverse espressioni politiche.
Scrivendo di questo a Sorge il 17 dicembre dello stesso anno Engels affermava: «Il nuovo movimento sta prendendo il via ed io credo che sia un bene. Ma non è direttamente socialista, e gli inglesi che meglio hanno compreso la nostra teoria se ne tengono fuori: Hyndman perché è incurabilmente geloso ed intrigante, Bax perché è solo un topo di biblioteca. Formalmente il movimento è al momento sindacale, ma profondamente differente da quello delle vecchie Trade Unions, dei lavoratori specializzati, dell’aristocrazia del lavoro.
«La gente vi si getta in un modo del tutto diverso, e vi sono condotte masse molto più vaste, che scuotono la società ben più a fondo, e si danno rivendicazioni assai più avanzate: giornata di otto ore, federazione generale di tutte le organizzazioni, solidarietà totale. Grazie a Tussy [Eleanor Marx] sezioni di donne si sono formate per la prima volta nella Gas Workers and General Labourers’ Union. Inoltre, la gente considera le rivendicazioni immediate come temporanee, benché essi stessi non sappiano ancora a quale fine ultimo stiano lavorando. Ma questa vaga idea è radicata abbastanza fortemente da fargli scegliere come loro dirigenti solo dei socialisti dichiarati. Come tutti, avranno da apprendere tramite le loro esperienze e dalle conseguenze dei loro errori. Ma, a differenza dei vecchi sindacati, vedono ogni proposta di identità di interessi fra capitale e lavoro con disprezzo e la derisione non tarderà molto».
Ma il bilancio di Engels, a metà dell’anno
seguente, sarà questo, in una lettera a Sorge del 19 aprile 1890:
«In un paese con un tale antico movimento
politico ed operaio c’è sempre in eredità un colossale mucchio di
tradizionale spazzatura dalla quale ci si deve liberare a gradi. Ci
sono i pregiudizi degli operai qualificati – meccanici, muratori,
carpentieri, falegnami, tipografi, ecc. – tutti da demolire; le
piccole gelosie in mestieri particolari, che nelle mani e nelle teste
dei dirigenti si accrescono in diretta ostilità e in lotte segrete;
ci sono i veti incrociati per le ambizioni e gli intrighi dei capi:
uno vuole andare in parlamento invece di un altro, c’è chi ambisce
entrare in un consiglio provinciale e chi in un consiglio scolastico,
un altro vuole organizzare una centralizzazione generale di tutti i
lavoratori, un altro uscire con un giornale, un altro aprire un club,
ecc, ecc. In breve un attrito sopra all’altro. E fra tutti questi
la Socialist League, che disprezza tutto ciò che non è direttamente
rivoluzionario (che significa, qui in Inghilterra, come da voi [in
America], tutto ciò che non si limita a costruire delle frasi e a
non far niente), e la [Social Democratic] Federation che ancora si
comporta come se tutti tranne loro fossero asini e cialtroni, benché
abbiano successo nell’ottenere del seguito solo grazie alla nuova
forza del movimento.
«In breve, chiunque guardi appena alla
superficie direbbe che sia solo confusione e battibecco personale. Ma
sotto la superficie il movimento va avanti, afferra settori sempre
più grandi di lavoratori e prevalentemente proprio fra le
precedentemente stagnanti masse inferiori».
Due settimane dopo che questa lettera era stata scritta ebbe luogo a Londra la prima manifestazione internazionale del Primo Maggio. Il fatto che dimostrazioni di massa (un corteo ad Hyde Park di 100.000 partecipanti, ecc.) fossero tenute per la giornata di otto ore, in accordo con la risoluzione approvata al congresso di fondazione della Seconda Internazionale, a Parigi, nel 1889, costituiva un trionfo del “nuovo sindacalismo” sopra le vecchie unioni di mestiere (che chiedevano sì la giornata di otto ore, ma per via di “liberi accordi” e non per legge). Il Trade Council di Londra, cioè la rappresentanza dei “vecchi” sindacati, e la Social Democratic Federation, che aveva boicottato il congresso di Parigi e si era alleata con i possibilisti francesi (ala riformista del socialismo francese che riteneva ci si dovesse battere solo per ciò che era “possibile”), entrambi cercarono di prevenire e di sabotare la dimostrazione, ma furono costretti dalla forza del movimento a prendervi parte, benché su una piattaforma diversa. Nel suo articolo “Il 4 di maggio a Londra”, Engels avrebbe annotato: «Considero questo il maggiore e più importante momento di tutti i festeggiamenti del Primo Maggio 1890, quando il proletariato inglese, di nuovo svegliato dal suo letargo quarantennale, è di nuovo entrato nel movimento della sua classe».
Questa iniziale marea di organizzazione sindacale fra gli operai comuni delle isole inglesi si sarebbe presto ritirata, ma le cose non sarebbero state più le stesse, e in Irlanda il suo ricordo avrebbe accompagnato la seconda ondata di organizzazione culminata nella Grande Serrata di Dublino del 1913. Mentre i padroni stavano organizzando la controffensiva la classe operaia proclamava la crescente urgenza e necessità di una sua organizzazione indipendente atta a difendere le sue richieste in parlamento.
11. I sindacati e la Seconda Internazionale
La Gas Union, che aveva assunto come organizzatore l’irlandese Michael Canty, nel marzo 1890 conseguì un notevole successo con uno sciopero dei muratori, e successivamente iniziò a reclutare tra gli scaricatori di carbone e i portuali. Il sindacato fu particolarmente attivo a Dublino e a Belfast. Nello stesso anno, in linea con la direttiva emessa dalla socialista Seconda Internazionale, il sindacato organizzò per la prima volta il Primo Maggio a Dublino, con migliaia di lavoratori in Phoenix Park a sostegno della campagna per la giornata di otto ore e per l’elezione di lavoratori al parlamento.
A questa manifestazione Shields presentò un programma di azione politica e sindacale che, benché ambiguo in alcune formulazioni, affermava: «In primo luogo è compito degli operai irlandesi impadronirsi dell’apparato politico affinché non venga usato contro i loro fratelli ovunque nel mondo; in secondo luogo affinché ciò possa assicurare la libertà economica: libertà di vivere, libertà di lavorare e libertà di godere dei frutti del proprio lavoro; e infine perché solo con una pressione realmente unitaria è possibile vedere soddisfatta una concessione di Home Rule degna di questo nome». E aggiungeva che «tale unità potrebbe essere assicurata al meglio da un partito per lo Home Rule diretto negli interessi dei produttori della ricchezza».
In una lettera a Sorge dell’11 agosto 1891 Engels scriveva: «I gasisti ora hanno la più forte organizzazione in Irlanda (...) Che Parnell sia ora così amico degli operai lo deve ad incontri con questi stessi gasisti che non si sono riguardati a dirgli la verità. Anche Michael Davitt, che prima aveva voluto delle Trade Unions indipendenti irlandesi, l’ha imparato da loro: la loro costituzione li impegna ad un Home Rule completamente libero. Ad essi il merito di aver dato slancio al movimento operaio in Irlanda. Molte di queste sezioni sono formate da operai agricoli». Nella stessa lettera Engels riporta che i gasisti proponevano loro candidati alle elezioni, ma sembra fosse male informato: i socialisti e gli attivisti operai solo chiedevano ai candidati dei partiti esistenti di difendere gli interessi del lavoro.
Il secondo Congresso di quella che ormai era la National Union of Gasworkers and General Labourers of Great Britain and Ireland si sarebbe tenuto nel maggio di quell’anno a Dublino. Eleanor Marx ne fu eletta segretaria ed Edward Aveling presidente. Il Congresso adottò una risoluzione per la partecipazione della Union all’imminente Congresso Socialista Operaio Internazionale che si sarebbe tenuto a Bruxelles, al quale Eleanor e William Thorne furono eletti delegati.
Nel suo discorso al Congresso di Bruxelles, nell’agosto del 1891, Eleanor sottolineò l’importanza del New Unionism, influenzato dai socialisti, e citò dall’Indirizzo che essa stessa aveva redatto per lo Statuto del sindacato: «Riconosce apertamente che oggi esistono solo due classi, la classe operaia che produce e la classe dei padroni proprietari. Gli interessi di queste due classi sono contrapposti. I padroni l’hanno sempre saputo; gli operai stanno iniziando a rendersene conto (...) Stanno iniziando a capire che la loro sola speranza risiede in loro stessi, e che dai loro padroni, come classe, non possono attendersi alcun aiuto».
Avrebbe poi riferito dei 25.000 iscritti al sindacato in Irlanda, aggiungendo che: «Nessuna parola è mai stata accolta con più entusiasmo (...) ad una grandiosa dimostrazione in Phoenix Park (...) “Che l’Irlanda sia libera, ma che sia un’Irlanda di liberi lavoratori; poco cambia se gli uomini e le donne d’Irlanda sono sfruttati dagli orangisti o dai nazionalisti; il bracciante vede il proprietario terriero come suo nemico tanto quanto l’operaio d’industria vede il capitalista”».
Così riassunse la situazione politica: «Quello che è stato raggiunto in Gran Bretagna e in Irlanda negli ultimi due anni può sembrare poco al confronto di quanto si è fatto in altri Paesi». Infatti, a differenza che in Germania e in Francia, in Gran Bretagna vi era un solo parlamentare socialista e nessun organo di stampa degno di questo nome, «né organi che appartengano ad un partito della classe operaia chiaramente definito. I giornali che abbiamo o sono privati, gestiti in modo più o meno commerciale (...) giornali che forniscono una informazione indubbiamente di buon livello, ma in nessun modo insegnamenti teorici; oppure, come nel caso di Justice, l’organo della Social Democratic Federation, appartengono a sètte e non raggiungono la gran massa degli operai (...) Vi è però, per fortuna, un genuino movimento operaio in Inghilterra, e il suo successo sin dal 1889 è un buon auspicio per la formazione di un Partito del Lavoro, distinto da tutti gli altri partiti. Soprattutto si percepisce che la coscienza della classe operaia e la comprensione della lotta di classe sono aumentate al di là delle migliori attese, e con la consapevolezza dell’importanza della solidarietà del lavoro in tutto il mondo. Ogni paese ha, e deve avere, i suoi propri strumenti e metodi di lavoro. Ma quali questi siano, il fine è uno solo in tutto il mondo: l’emancipazione della classe operaia, l’abolizione di tutti i domini di classe».
La Gasworkers’ Union, un sindacato che nello Statuto affermava chiaramente la prospettiva socialista, si diffuse rapidamente in Irlanda, con quarantacinque sezioni alla fine del 1891, tra le quali quelle di Cork, Belfast e Limerick, e poté vantare la conquista di forti aumenti salariali per i suoi oltre 14.000 iscritti.
Durante questo ciclo montante di organizzazione sindacale in Irlanda un ruolo importante ebbe la National Union of Dock Labourers. Nei primi mesi del 1890, dal suo quartiere generale di Glasgow, organizzava prevalentemente nel porto di Liverpool, ma, una volta consolidata l’organizzazione in città, spostò la sua attenzione su Belfast, dove assunse un organizzatore irlandese. In luglio ebbe inizio lo sciopero al porto di Belfast, ma l’agitazione si estese a Drogheda e Newry, poi a Dublino: le navi che venivano spostate da un porto all’altro erano boicottate. Il sindacato creò sezioni in Limerick, Cork, e Galway; in quest’ultima fu indetto uno sciopero. Le grandi lotte nel Sud dell’Irlanda si fusero con gli scioperi dei marittimi, che in qualche caso suscitarono scioperi di solidarietà dei portuali.
L’inizio degli anni Novanta vide anche l’organizzarsi dei ferrovieri, attivamente sostenuti da Michael Davitt. La conseguenza fu il più grande sciopero ferroviario di sempre in Irlanda. Successivamente una serie di sconfitte avrebbero colpito duramente quel sindacato, che sarebbe però sopravvissuto a Dublino, dove fu creata la Tramway Servants’ Union.
Michael Davitt nel 1891 contribuì anche alla creazione della effimera Irish Democratic Trade and Labour Federation. Questa ebbe il grande merito di tentare di costituire un fronte comune di salariati e contadini, anche perché molti di loro univano nella stessa persona entrambe le figure; non si trattava quindi propriamente di un sindacato operaio e si occupava di questioni quali la retribuzione in natura, gli alloggi, la concessione degli orti a patate, ecc.
Un’altra organizzazione, gli United Labourers, nel frattempo si estendeva nei piccoli centri delle contee di Dublino e Kildare.
Il Trades Council di Belfast si dette ad organizzare le operaie, dando nascita nel 1893 alla Textile Operatives’ Union.
Nel 1891 una serie di sconfitte venne da un’offensiva padronale, resa possibile da un calo delle commesse e da un aumento della disoccupazione.
Dai sindacati, rafforzatisi nei precedenti due anni, scaturì la coscienza della necessità di una loro più generale espressione politica, ma dando forma ad un progetto di “parlamento del lavoro”, e non ancora di un partito, tanto meno su base marxista. Questo, ad un raduno del marzo 1891, si sarebbe consolidato nella Irish Labour League, adottando il nome di un precedente fronte di organizzazioni per la Land League. Messo insieme da Adolphus Shields ed altri membri della Gasworkers Union, fu appoggiata dagli Aveling e da molti socialisti locali.
Parnell, che una campagna di boicottaggio mossa dagli inglesi aveva da poco emarginato dallo Home Rule Party, vi tenne un memorabile discorso. La League fu immediatamente coinvolta nella battaglia fra i suoi seguaci e i suoi oppositori. Nell’ottobre 1891 Parnell moriva, ma le divisioni nel movimento nazionalista sarebbero continuate per il resto del decennio ed i parlamentari nazionalisti irlandesi non si sarebbero unificati in un singolo partito fino al 1900, con John Redmond. L’inquadramento di classe tornò quindi a limitarsi alla organizzazione economica.
La Serrata di Dublino sarà il culmine del montare dell’organizzazione sindacale tra gli operai non specializzati d’Irlanda, che aveva avuto inizio alla fine degli anni Ottanta soprattutto tra i portuali, gli scaricatori di carbone, i lavoratori del gas e i carriolanti, che costituivano la spina dorsale del New Unionism sia in Inghilterra sia in Irlanda. Una novità, in quanto l’organizzazione di questi settori, costituiti da operai non specializzati ed appartenenti a diverse categorie, favoriva scioperi più generali e non di singole fabbriche o mestieri, trascinando nella lotta diversi rami produttivi.
In Irlanda il movimento fra i non qualificati ricevette slancio dall’analogo organizzarsi dei manovali in Inghilterra: in un solo di quegli anni si iscrissero ai sindacati in 200.000. Forte crescita della Amalgamated Society of Railway Servants fra i ferrovieri e della National Amalgamated Sailors’ and Firemen’s Union di marinai e pompieri. La National Union of Gasworkers and General Labourers, fondata nel marzo 1889, conquistò, pur senza scioperare, la giornata di otto ore. I sindacati della costa occidentale dell’isola maggiore formarono la National Union of Dock Labourers, con base a Glasgow.
La pressione per l’organizzazione dei non qualificati dette anche stimolo alla diffusione del socialismo, che attraversava il Canale di San Giorgio per assumere in Irlanda, allora parte del Regno Unito, alcune caratteristiche diverse per la vampiresca rapina dei proprietari fondiari anglo-irlandesi, per la “Protestant ascendancy”, l’egemonia protestante, e per il potere del clero cattolico sulla maggioranza della popolazione.
12. Lo Irish Trade Union Congress
La necessità di un Trade Union Congress per l’Irlanda, dato il rafforzarsi delle prime organizzazioni territoriali nel Paese, si era sentita sin dagli anni Sessanta. Nel 1868, con la formazione del TUC in Gran Bretagna, questa aspirazione apparve realizzabile. Ma fu presto chiaro che il TUC britannico non aveva grande interesse a quanto accadeva in Irlanda, il che divenne evidente quando, nel 1880, il TUC tenne un convegno in Dublino: i delegati inglesi dimostrarono di sapere molto poco dei problemi politici e sindacali dell’Irlanda, e niente della storia e delle tradizioni del sindacalismo locale. Non sapevano, per esempio, che migliaia di irlandesi erano stati pionieri dell’organizzazione sindacale e del socialismo in Gran Bretagna.
Tuttavia Davitt restò colpito dalla sensibilità verso i problemi irlandesi dimostrata dalla Gas Workers Union inglese, che aveva inserito lo Home Rule nei suoi Statuti. Ma poiché niente del genere appariva nelle affermazioni del TUC, si preferì puntare ad un movimento sindacale irlandese indipendente. Fu quindi convocato un incontro di dirigenti sindacali a Dublino, e il primo Trade Union Congress irlandese ebbe luogo nel 1894.
La composizione del Congress avrebbe però riflesso le dure sconfitte subite dagli operai non specializzati e delle costruzioni nei due anni precedenti: dei delegati, 48 rappresentavano gli specializzati dei vari mestieri, 6 gli edili e 4 le associazioni rurali “Land and Labour”. La Gasworkers’ Union di Dublino, disciolta, non c’era, ma vi erano rappresentati gli scaricatori di carbone. La Dockers’ and Tramwaymen’s Union e la United Labourers of Ireland erano sopravvissute, ma ancora per poco. Entro la fine del secolo sarebbero scomparse dagli elenchi del Congresso la National Union of Dock Labourers, la Tramway Servants’ Union, e le quattro Land and Labour Associations.
Michael Davitt aveva sperato che il TUC irlandese si esprimesse chiaramente in favore dell’indipendenza, per la presenza di delegati dal Nord e dal Sud, ma avrebbe continuato a serpeggiare nel sindacato l’ostilità fra lealisti e fautori dello Home Rule, fra protestanti e cattolici.
13. Verso un indipendente partito operaio
In Inghilterra stava intanto montando il disgusto verso le politiche dei cosiddetti Lib-Lab, parlamentari operai sostenuti dal Liberal Party. All’inizio del 1887 fu presentata in parlamento una legge che limitava ad otto ore il lavoro dei bambini nelle miniere di carbone. Molti deputati Lib-Lab si opposero. Una delegazione di minatori, compreso il dirigente della piccola Ayrshire Miners’ Union, Keir Hardie, sarebbe allora scesa sulla capitale a far pressione per l’approvazione della legge, e con l’estensione delle otto ore agli adulti. Anche questo emendamento fu rigettato da molti Lib-Lab. Su quella legge più avanti nell’anno Hardie avrebbe fatto molti interventi al Trade Union Congress. Parlando la prima volta fuori della nativa Scozia occidentale, lo sconosciuto Hardie si impegnò in una epica lotta contro Henry Broadhust, noto Lib-Lab già segretario del TUC.
All’inizio del 1893 a Bradfors ha luogo la conferenza di fondazione dello Independent Labour Party (ILP), alla presenza di 120 delegati, di orientamenti molto diversi. Il nuovo partito fu presto qualificato da Engels come «estremamente indefinito nella sua tattica». Un programma nebuloso mediava fra le troppe correnti di pensiero rappresentate. C’era Tom Mann, primo presidente della Docker Union (e presto segretario del partito, dal 1894 al 1896); Robert Blatchford, autore di “Merrie England”, Inghilterra Felice, che credeva che la soluzione dei problemi dell’inquinamento industriale e della disoccupazione fosse per l’Inghilterra di volgere le spalle al mercato mondiale e divenire un paese agricolo autosufficiente; Bernard Shaw, le cui credenziali come delegato della Fabian Society furono furiosamente contestate. Tre delegati venivano dallo Scottish Labour Party e dalla Social Democratic Federation: questi si opposero all’adozione di “Independent” invece che “Socialist” nel nome del partito.
Keir Hardie aveva una sua personale concezione del socialismo, e dalle pagine del Labour Leader, l’organo del partito di cui dal 1894 era proprietario, raccomandava le parole di Thomas Carlyle, di Ruskin e... di Mazzini come base sufficiente su cui «sviluppare un sistema di pensiero socialista», ed anche di Henry George, l’apostolo della nazionalizzazione della terra. Di Marx ed Engels pure, benché, come abbiamo visto nel caso di Hyndman, la maggior parte dei “socialisti” inglesi del tempo aborrisse dall’ammettere un tale collegamento.
Cionondimeno fu proposto alla conferenza che l’esposizione degli obiettivi del partito iniziasse col «garantire la proprietà collettiva e comunale di tutti i mezzi di produzione distribuzione e scambio». Fu così che una parte significativa del movimento dei lavoratori inglesi fece suo per la prima volta il fine “socialista” della proprietà statale.
Queste ispirate parole saranno codificate nella famosa Clausola 4 della Costituzione del Partito Laburista nel 1918, scritta dal fabiano Webb e sostenuta da Henderson come cosciente strumento di prevenzione della rivoluzione, e fu proprio il terrore del movimento di massa che li spinse a scriverla. Quattro anni più tardi il Manifesto del 1922, con ancora la Clausola 4 nella Costituzione del partito, terminava, sotto il titolo “Contro la rivoluzione”: «Il programma del Partito Laburista è il miglior baluardo contro le sollevazioni violente e le guerre di classe». Il resto, come si dice, è storia: la Clausola 4 sarebbe stata abbandonata, un secolo dopo, solo dal “New Labour” (ma già si parla oggi di rimettercela nel tentativo di rianimare il moribondo laburismo).
Engels, scrivendo a Sorge il 18 gennaio 1893, nei giorni della conferenza, commentò: «La SDF da un lato e i fabiani dall’altro non erano stati capaci, con il loro atteggiamento settario, di rispondere alla spinta per il socialismo delle province, così la fondazione di un terzo partito è stata una buona cosa. Ma la pressione è ora divenuta così grande che, specialmente nei distretti industriali del Nord, il nuovo partito che è venuto fuori già a questo primo congresso è più forte della SDF o dei fabiani, se non più forte di entrambi messi insieme. E poiché la massa degli iscritti è certo molto buona, poiché il centro di gravità si trova nelle province e non a Londra, la sede delle camarille, e poiché il punto principale del programma è il nostro [presumibilmente riferendosi alla Clausola 4] Aveling ha avuto ragione ad aderire e ad accettare il posto nell’esecutivo. Se le piccole ambizioni private e gli intrighi dei grand’uomini di Londra saranno qui tenuti un po’ da parte e la tattica non volge troppo malamente, lo Independent Labour Party può riuscire a staccare le masse dalla Social Democratic Federation e nelle province anche dai fabiani, e così costringere all’unità».
Le successive conferenze del 1896, del 1897 e del 1898 si sarebbero animate dai dibattiti sulla proposta di fusione con la Social Democratic Federation ma non ci fu abbastanza consenso. Importante: sulla questione coloniale lo ILP non avrebbe mai decampato dalla politica di aperta opposizione alla guerra ai boeri, a differenza di alcuni dei fabiani, per esempio, che approvarono la guerra col pretesto che avrebbe accresciuto la forza e le capacità della nazione!
Quindi, se quello che sarà il Labour Party finirà per arruolarsi nella guerra borghese all’epoca della Prima Guerra mondiale, insieme alla maggior parte dei partiti della Seconda Internazionale, nei suoi primi anni fu espressione di una pressante necessità per le classi lavoratrici delle isole inglesi: quella di un loro partito indipendente, forma superiore, politica, rispetto alle loro rivendicazioni economiche. Ma il riconoscimento del marxismo come unica dottrina di classe è ancora lontano.
14. Lo Independent Labour Party in Irlanda
William Walker, un falegname nel cantiere navale Harland e Wolff e delegato della Amalgamated Society of Carpenters and Joiners, era stato eletto al Trade Council di Belfast nel 1893, dove svolse un ruolo chiave nel New Unionism, organizzando manovali dei cantieri ed anche operaie delle industrie del lino. Socio fondatore dello ILP, si dette da fare a Belfast per guadagnare uditorio al socialismo. Nel 1904 fu eletto al Consiglio municipale di Belfast, e nello stesso anno a presidente del TUC irlandese. La schiacciante pressione della reazione protestante in città, però prevalse. Per blandire l’opposizione della Protestant Association di Belfast, e forse per favorire la sua posizione nell’amministrazione cittadina, si oppose allo Home Rule ed assunse atteggiamenti di settarismo religioso: arrivò a dichiarare che i cattolici non avrebbero dovuto ricoprire incarichi nel sindacato perché «protestantesimo significa protestare contro la superstizione, quindi il vero protestantesimo è sinonimo di movimento operaio». Come membro del C.E. del British Labour Party, e suo candidato in numerose occasioni, avrebbe tentato più tardi di contrabbandare come “internazionalismo” la sua dichiarata opposizione a un parlamento irlandese.
Il nuovo partito avrebbe cercato di guadagnarsi l’appoggio degli irlandesi in Inghilterra allontanandoli dal Liberal Party, scontrandosi così con l’opposizione dei fabiani, che credevano possibili infiltrazioni di socialismo negli esistenti partiti politici, ed in particolare nel Liberal Party.
Formatisi nel 1884 i fabiani rappresentarono l’ultimo tentativo dei radicali di impedire l’indipendenza politica della classe operaia e di tenerla sotto l’influenza del Liberal Party. Privi di qualunque programma, la loro idea di introdurre il socialismo pezzo a pezzo, riforma dopo riforma, li portava a dare grande enfasi alle riforme legislative, e ad accettare l’appoggio di politicanti di ogni partito disposti a sostenerli. In Irlanda la loro mancanza di qualsivoglia posizione sullo Home Rule, e il loro talvolta aperto appoggio all’imperialismo, fece sì che ricevessero accoglienza fra gli unionisti del Nord. A Belfast si formò una Fabian Society nel 1891 che fu proclamata come la prima organizzazione socialista della città, ma nel 1892 era già sparita.
Più tardi quell’anno Keir Hardie fu eletto nella circoscrizione scozzese di Mid-Lanark e l’anno successivo 44 sezioni dello ILP erano create in tutta la Gran Bretagna, senza l’appoggio di organizzatori retribuiti. All’epoca della formale conferenza inaugurale l’anno seguente molte sezioni locali erano già in piedi.
Di fronte a questo successo, molti fabiani saltarono sul carrozzone; alcuni perché credevano che avrebbero goduto di maggiori vantaggi in un partito indipendente; altri perché convinti che gli obiettivi fabiani di contenimento della lotte operaie all’interno della democrazia potessero essere conseguiti, e forse ancor meglio, all’interno del nuovo partito. La successiva conversione del Labour Party in una sorta di partito liberale radicale avrebbe confermato questa opinione! Così molti fabiani presto si trasferirono nello ILP, portandosi dietro tutto il loro bagaglio ideale.
Belfast fu la prima città in Irlanda a stabilire una sezione dello ILP. Non era certo facile allora difendere qualsiasi tipo di socialismo a Belfast, che vi trovava forte opposizione. Ma nel settembre 1893 la nuova sezione ebbe un forte impulso quando riuscì ad ospitare a Belfast la annuale conferenza del British Trade Union Congress.
Domenica 3 settembre, il giorno precedente il congresso, lo ILP di Belfast organizzò una conferenza alla quale invitava i soci della Social Democratic Federation, della Fabian Society e di altre organizzazioni del lavoro, compresi molti noti socialisti, Keir Hardie, Ben Tillet ed Edward Aveling. Il fondatore del partito, Keir Hardie, vi avanzò una mozione che di fatto chiedeva al TUC di appoggiare lo ILP: «Nella opinione del Congresso le aspettative del lavoro in parlamento dovrebbero essere difese al di sopra della convenienza dei vari partiti; e per ottenere questo è necessario che i deputati operai nella Camera dei Comuni siano svincolati sia dal Liberal Party sia dai Tory e sedere in opposizione al governo finché non saranno forti abbastanza per formare un gabinetto laburista». La mozione fu sconfitta con 96 voti contro 119 ma il modesto margine sarebbe stato di grande incoraggiamento per il nuovo partito laburista.
Il 9 settembre per celebrare la fine dei lavori del TUC ci fu una dimostrazione in città fino ad Ormeau Park: in migliaia vi accorsero; ma fu turbata da violente proteste lealiste contro i dirigenti laburisti, noti per appoggiare lo Home Rule. La contro-dimostrazione dei lealisti raccolse 5.000 partecipanti. Lo storico Fintan Lane scrive: «L’antisocialismo era una componente significativa dell’indirizzo politico lealista-unionista ed i suoi aderenti conservatori sarebbero stati una fonte continua di problemi per i socialisti di Belfast. Di fatto gli oratori orangisti costituivano una dura sfida fisica, maggiore di quella del conservatorismo cattolico sociale nel resto del paese».
Lane descrive le azioni violente dei lealisti ai convegni nelle settimane seguenti, compreso quando un socialista che cercava di distribuire dei volantini fu salvato solo dall’intervento della polizia.
Nel 1895 lo ILP fece un nuovo tentativo di guadagnare uditorio a Belfast con pubblici comizi alla scalinata della Dogana, talvolta attraendo folle anche di 10.000 uditori. Di nuovo si dovettero scontrare violentemente con le bande di lealisti. In una occasione Walker e i suoi compagni cercando di tenere un comizio furono ributtati giù dalle scale della Dogana «almeno una dozzina di volte, solo per essere riportati su da mani volenterose». I lealisti tirarono giù dal palco Walker e un compagno protestante e cercarono di gettarli nelle acque del porto alle grida “Tre urrah per Re Guglielmo” e “All’inferno il Papa”. Altri comizi furono dispersi agli schiamazzi “Dio salvi la Regina”, “Rule Britannia”, “Via il socialismo!”. Si può solo immaginare quali altri mezzi di intimidazione fossero adottati contro i socialisti nel Nord se le forze della legge e dell’ordine erano disposte a consentire simili pubblici attacchi.
Nel 1896 lo ILP di Belfast tenne altri comizi ma mai realmente fece presa finché fu disperso all’inizio del 1897.
A Dublino la sezione dello ILP non era stata fondata che alla fine del 1894, per l’intervento di James Connolly, allora noto socialista di Edimburgo e membro dello ILP, che aveva incoraggiato Hardie a parlare a Dublino poiché là c’era in movimento un nucleo di lavoratori «che solo necessitano di un aiuto giudizioso». Convenne con Hardie che entrambi i seguaci e gli oppositori di Parnell erano semplicemente «partiti borghesi interessati al progresso dell’Irlanda dal punto di vista borghese».
Nel novembre 1894 Tom Mann scrisse in un articolo sul Labour Leader: «La questione irlandese è anche la questione inglese, scozzese e gallese, cioè come scacciare e di fatto liberarsi dei monopolizzatori delle basi della vita, che il popolo, come popolo, può gestire da solo. Lasciateci sperare che i nostri fratelli irlandesi faranno causa comune con noi, e fare una della loro e della nostra battaglia contro la signoria terriera e il capitalismo».
Una visita di Hardie in Irlanda riuscì a far aprire a novembre una sezione dello ILP a Dublino. Nel suo discorso Hardie accentuò il suo appoggio allo Home Rule ed affermò che la politica dello ILP avrebbe abbracciato questo obiettivo come un principio e non un espediente. Però solo una settimana più tardi, quando sezioni della Irish National League si rifiutarono di sostenere comunque i candidati dello ILP, questo revocò il suo appoggio allo Home Rule e quando venne alla questione della indipendenza irlandese non si mostrò in alternativa al partito borghese dello Home Rule limitandosi ad offrirgli il suo appoggio. Così per gli elettori fu difficile scegliere fra un piccolo partito operaio appena formato, lo Irish Parliamentary Party e il Liberal Party, che lo ILP aveva sperato di influenzare o di poterci avere obiettivi in comune.
L’onnipresente Adolphus Shields, che precedentemente si era unito ai fabiani, sarebbe riapparso come segretario di sezione, della quale lui e il suo seguace fabiano Robert Dorman avrebbero costituito la forza trainante. Parlando ad una conferenza si sarebbe fermato alla demagogia senza andare al cuore politico della questione: «Lo ILP ritiene lo Home Rule desiderabile, ma se non darà all’operaio irlandese migliori condizioni del suo fratello inglese, non sarà il tipo di Home Rule che emanciperà gli schiavi di Irlanda».
Alcuni iscritti alla sezione di Dublino pensavano perfino che la soluzione del dilemma avrebbe potuto essere consentire l’adesione contemporanea allo ILP e allo Irish Parliamentary Party, ma questo sarebbe stato rifiutato dalla maggioranza e la sezione si sarebbe divisa.
Lane commenta: «Lo ILP presto divenne la maggiore organizzazione di Gran Bretagna, ma il suo successo in Irlanda fu fugace, benché all’inizio del ventesimo secolo si desse da fare per stabilirsi a Belfast. La sua immagine di partito inglese fu la causa dei suoi problemi a Dublino e a Waterford, mentre l’appoggio aperto di Hardie allo Home Rule non aiutava a Belfast. Sembra ci fosse poca unità fra la sezione di Belfast e quella di Waterford e Dublino, e le tre sezioni a nessun costo avrebbero coordinato la loro attività in Irlanda. Questa era una grave carenza funzionale che accentuò il loro ridursi a sezioni provinciali irlandesi di una organizzazione inglese. Se avessero operato insieme come ILP irlandese avrebbero fornito al paese gli embrioni di un significativo partito socialista».
15. Lo Irish Socialist Republican Party
All’epoca, la distinzione fra i vari gruppi socialisti, leghe, club, società, federazioni e partiti non era netta, e i socialisti spesso aderivano a quello che aveva la sezione più vicino a casa, o a più di uno.
Alla fine del 1895 la sezione dello ILP si era dissolta e all’inizio del 1896 si formò una Dublin Socialist Society. Questa organizzazione si poneva nella tradizione del Dublin Socialist Club e della Dublin Socialist Union ed era aperta ai socialisti di tutti i tipi. Shields e Gorman vi avrebbero aderito, con Shields segretario.
Fu questo gruppo che offrì a James Connolly, uno scozzese di ascendenti irlandesi, il compito di organizzatore socialista, col compenso di una sterlina a settimana, inviandolo a Dublino nella primavera del 1896. Questo incarico venne fuori quando su Justice, giornale della Social Democratic Federation, il socialista John Leslie, scrittore di un influente pamphlet che esponeva la storia irlandese dal punto di vista della classe operaia, pubblicò un appello a favore di Connolly descrivendolo come «il più abile propagandista, in ogni senso della parola, che la Scozia abbia finora prodotto».
Già segretario della Scottish Socialist Federation, Connolly all’epoca ammirava ed appoggiava Keir Hardie ed era membro dello ILP, ma il suo pensiero era più radicato nel marxismo di quanto si intendeva nella Social Democratic Federation. Nel 1894 e nel 1895 aveva scelto di presentarsi alle elezioni locali ad Edimburgo come socialista, piuttosto che come candidato indipendente dello ILP. Scrisse della sua candidatura: «L’elezione di un candidato socialista non significa la realizzazione immediata del suo programma e nemmeno del programma di palliativi comunemente presentati agli elettori. Non solo, tali programmi sono in sé solo una considerazione secondaria di poco peso (...) L’elezione di un socialista in un organismo pubblico ha valore solo fino a tanto che risulta in un disturbo della pace politica».
Secondo Thomas Lyng, membro della Dublin Socialist Society Society, Connolly, appena arrivato in Irlanda affrontò i suoi dirigenti, «li stracciò nel dibattito, difese apertamente il socialismo, disperse la loro piccola organizzazione e dai suoi frammenti fondò un piccolo Irish Socialist Republican Party». Questo nuovo partito sarebbe sorto simultaneamente socialista ed anti-imperialista, e si sarebbe presentato alle elezioni in opposizione ad entrambe le fazioni pro Home Rule.
La formazione dello ISRP fu salutata entusiasticamente da Edward Aveling, il primo non irlandese a iscriversi, e da Eleanor Marx, che dichiarò: «è certo che la speranza della “Irlanda una nazione” non risiede negli O’Connell della borghesia ma nei suoi generosi e devoti operai e operaie».
Nel 1899 lo ISRP era ormai una forza politica, aveva sezioni a Dublino e a Cork e gruppi di simpatizzanti a Belfast, Limerick, Dundalk, Waterford e Portadown. Aveva un giornale, la Workers’ Republic, la Repubblica degli Operai, e una discreta pubblicistica di opuscoli sulle condizioni e le necessità dell’Irlanda.
16. Il programma del partito
Evidentemente i tempi erano maturi per qualcosa di nuovo, un partito che si dichiarava socialista e che, invece di prendere una posizione tiepida, opportunista o agnostica nei confronti della indipendenza irlandese, o di sostenere solo lo Home Rule, o di addirittura opporsi alla lotta anticoloniale irlandese, aveva finalmente stabilito una precondizione sul ruolo che la classe operaia avrebbe dovuto assumere nel montare della battaglia anticoloniale in Irlanda: la classe operaia doveva affiancarsi alla lotta per l’indipendenza dell’Irlanda dalla Gran Bretagna, ma organizzata separatamente con l’obiettivo di difendere i suoi interessi di classe e nella prospettiva di una “Irlanda socialista”. «La lotta irlandese per la libertà ha due aspetti: è tanto nazionale quanto sociale. La sua idea nazionale non potrà realizzarsi finché l’Irlanda non si presenterà al mondo come una nazione libera e indipendente. Ma è anche sociale ed economica, perché, quale che sia la forma di governo, finché una classe possiede in proprietà privata la terra e gli strumenti di lavoro, dai quali tutto il genere umano trae sussistenza, quella classe avrà sempre il potere di sfruttare e rendere schiavi gli altri suoi simili».
Di più, almeno al momento, non dice, di come si rapportano reciprocamente la lotta nazionale e quella per il socialismo, fra le diverse sottoclassi borghesi e la classe operaia. Era un programma che, come lo storico Desmond Greaves rileva, «mancava dell’acuta analisi dei compiti e della tattica che caratterizzavano la bozza che Lenin redasse, più o meno contemporaneamente, per il Partito Operaio Socialdemocratico Russo».
Il Manifesto inaugurale dello ISRP – anch’esso qui riprodotto in Archivio – fu pubblicato nel settembre 1896. Era chiaramente basato sulla Piattaforma del 1884 della Social Democratic Federation, ma andava molto oltre sull’indipendenza irlandese. Nel 1892 la Justice era arrivata ad invocare la separazione su basi religiose, argomentando che l’Ulster «con tutta la sua storia e tradizioni» non avrebbe dovuto essere «posta sotto il controllo dell’Irlanda cattolica del Sud e dell’Ovest». Era una visione che evidentemente ignorava la presenza di una significativa popolazione cattolica al Nord, ed anche il fatto che “la storia e le tradizioni” della popolazione protestante, a parte pure differenze dottrinarie, consisteva ormai per lo più nell’appoggio al trionfante imperialismo inglese.
L’obiettivo proclamato dal nuovo partito cioè non si fermava alla semplice indipendenza legislativa preconizzata dal partito dello Home Rule e si dichiarava per «la realizzazione di una repubblica socialista irlandese basata sulla proprietà pubblica del popolo irlandese della terra e degli strumenti per la produzione, distribuzione e scambio». Come mezzi per organizzare «le forze della democrazia in preparazione di qualsiasi lotta che possa procedere alla realizzazione del nostro ideale», era avanzata una serie di obiettivi tendenti ad «alleviare i mali dell’attuale sistema sociale», che sarebbero stati da ottenere per vie politiche. Questi includevano la nazionalizzazione delle ferrovie e dei canali, la creazione di una banca statale, la libera istruzione, il suffragio universale, la settimana di 48 ore e un salario minimo.
Per lo ISRP proprietà statale e controllo statale non significano necessariamente socialismo, ma che «sarebbe socialismo solo la proprietà statale di tutta la terra e di tutti i mezzi di produzione, combinati con il controllo cooperativo da parte dei lavoratori di tale terra e tali mezzi di produzione (...) Alla richiesta dei riformatori borghesi “Rendere questo o quello proprietà dello Stato” noi rispondiamo “Sì, nella misura in cui gli operai sono pronti a fare del governo stesso la loro proprietà“».
È certo escluso che le nazionalizzazioni abbiano segno socialista se la classe operaia non dispone del controllo dello Stato. Ma rimaneva spazio ad equivoci: come può la classe operaia strappare dalle mani della borghesia il governo, o meglio, lo Stato? Con le elezioni o con la forza? Queste questioni rimanevano aperte all’interno del movimento operaio del tempo, una tattica ancora indefinita che conferma lo ISRP un partito del tipo Seconda Internazionale.
Nel 1899 l’internazionalismo dello ISRP sarebbe stato messo alla prova nella campagna del partito contro la guerra ai boeri. Connolly subito ravvisò lo scopo della guerra nel «permettere ad una banda di capitalisti senza scrupoli di mettere le mani sulle immense ricchezze delle miniere di diamanti (...) Non vi è migliore dimostrazione della verità marxista secondo la quale lo Stato moderno non è che un comitato di ricchi che gestisce gli affari negli interessi della loro classe (...) Non vi è ragione di prevedere che la guerra porti alcun beneficio al popolo inglese». Poiché le truppe inglesi erano trasferite dall’Irlanda al Transvaal, a Connolly non sfuggì la possibilità che questo offriva alla classe operaia irlandese per far valere i suoi interessi.
Anche ricorrendo a mezzi violenti se necessario, perché «la classe capitalista è un animale rapace, che non si può moralizzare, convertire, convincere». Ma Connolly non ammise di fare della “forza fisica” un principio politico. L’alterno fallimento di “costituzionalismo” e “insurrezionalismo” nella storia irlandese, affermava, nasceva dal fatto che «nessun metodo avrà mai la possibilità di avere successo finché (...) non si raggiunge un accordo perfetto sul fine da raggiungere».
17. Di nuovo l’insidia elettorale
Nel gennaio 1899 vi furono le prime elezioni tenute secondo la nuova legge, la Irish Local Government Act, che prevedeva un sistema più democratico e nuovi Consigli rurali, di contea e di città. «Il nuovo sistema di governo locale (...) puntava a creare un interesse nel legame con l’Inghilterra garantendo una quota del potere alle classi borghesi» (Greaves). La classe operaia vi vide un’opportunità per avere soddisfazione ad alcune delle sue lamentele, e Labour Electoral Associations sorsero di slancio in tutta l’isola. Il successo dell’iniziativa fu notevole un po’ dappertutto, e furono eletti consigli e sindaci “labour”.
La delusione però sopravvenne ben presto. Non molto tempo dopo, commentando la situazione a Dublino, Connolly ebbe a dichiarare: «Dal momento in cui il Labour Party è entrato a far parte del Consiglio Municipale non si sono avuti che dissensi, alterchi e recriminazioni. Non è stata mai affrontata alcuna questione importante negli interessi degli operai, gli impegni più solenni sono stati spudoratamente ignorati e, mentre gli operai attendevano ispirazione e guida, non hanno ricevuto altro che frustrazioni e disgusto (...) Il sindaco di Dublino, del Labour Party, ha dichiarato di non rappresentare alcuna classe o gruppo, confessando che sin dall’esordio i responsabili della sua elezione hanno cercato di utilizzare il nome del Labour come copertura per gli intrighi di una congrega (...) Noi non ci aspettavamo che lo splendido spirito di classe mostrato dai lavoratori di Dublino alle ultime elezioni, a causa dell’arroganza e debolezza di coloro che hanno eletto a rappresentarli, non avrebbe portato loro, come classe, alcun vantaggio pratico».
Alle elezioni successive le Labour Electoral Associations avrebbero subìto una totale sconfitta. Gli effetti furono percepiti anche fuori dell’Irlanda: si fecero vivi gli agitatori fabiani a cercare di ridare una giustificazione teorica alla partecipazione della classe operaia al processo elettorale, sotto la bandiera del “socialismo municipale”.
Mentre Eleanor Marx li aveva descritti al congresso di Bruxelles come «gente della piccola borghesia, troppo onesti per accettare le attuali condizioni della società; troppo colti per buttarsi acriticamente con l’Esercito della Salvezza; troppo superiori per identificarsi con il volgo profano», Connolly vedeva nel programma fabiano scopi peggiori ed impersonali: «Fino all’anno scorso l’Irlanda non ha ricevuto molta attenzione da parte dei signori fabiani. L’operaio irlandese non poteva votare, quindi era inutile prospettargli i progetti dei fabiani sulla distribuzione del gas e dell’acqua. Ma non appena ha ottenuto il voto, e espresso il desiderio di utilizzarlo in un autentico spirito di classe, ecco che sorge il grido di guerra dei missionari fabiani. Per impedire alla classe operaia irlandese di distaccarsi nettamente dai partiti borghesi, e di sviluppare un atteggiamento rivoluzionario, i fabiani hanno inviato il loro conferenziere in Irlanda per convincere la classe operaia a limitarsi alle questioni municipali, e a dissipare le sue energie e la sua passione sulle miserabili discussioni dell’amministrazione locale; nel contempo trascurando il compito essenziale di conquista del potere politico necessario alla ricostruzione sociale».
18. Sul comunismo originario in Irlanda
Altro innovativo elemento nella politica dello ISRP si trova nell’obiettivo, approvato al convegno di fondazione del 29 maggio, del “ripristino della democrazia sociale”. Questo termine un poco ambiguo, che si riferisce ad un tema che Connolly continuerà a sviluppare negli anni successivi, indicava, in sostanza, un ritorno al sistema sociale dominante prima della vittoria del colonialismo, benché integrato con le novità della vita moderna. L’argomento di Connolly, presentato in “Erin’s Hope: the End and the Means” (La speranza di Irlanda: il fine e i mezzi), era che un “comunismo celtico” fosse esistito in Irlanda fino al XVII secolo e disperso solo come effetto diretto dell’oppressione coloniale. Affermava che «l’organizzazione democratica del clan irlandese» anticipava «la più perfetta organizzazione della società libera del futuro».
L’opinione di Connolly sulla sopravvivenza del comunismo primitivo nel XVII secolo si basava sugli studi di P.W. Joyce, autore di una voluminosa Social History of Ancient Ireland (1903) e riconosciuto esperto e traduttore delle antiche Leggi Brehon, un codice legale risalente al V secolo a.C. ed abolito del tutto solo all’inizio del XVII. Joyce afferma che «pare che in origine – in epoca preistorica – la terra fosse di proprietà comune», ma prudentemente rileva che «a quanto risalgono le fonti, alcune terre furono in proprietà privata, il che è pienamente riconosciuto in tutte le Leggi Brehon».
Molto si è discusso se fosse giustificata questa prossimità storica del comunismo primitivo in Irlanda. Lo scopo era, come avevano fatto Marx ed Engels, dimostrare che sono state possibili nel passato società umane senza classi, al quale comunismo è oggi possibile tornare su basi materiali più elevate. Giustamente Connolly opponeva al nazionalismo culturale irlandese della borghesia, che si esprimeva nella Gaelic League, una diversa tradizione, comunista, che è irlandese quanto internazionale, seppure con alcune caratteristiche proprie. È invece da smentire categoricamente la previsione che lo sviluppo della società capitalista nazionale in Irlanda avrebbe potuto far proprio ed esprimere alcun eventuale particolare tratto o retaggio comunistico, quando invece ne avrebbe semmai costituito il definitivo, e progressivo, superamento e negazione.
19. Lo ISRP sulla scena internazionale
Nel brandire la clava contro i fabiani Connolly estendeva la critica al contesto politico internazionale. Mentre gli operai nei paesi a capitalismo sviluppato iniziavano ad assicurarsi dei vantaggi, a detrimento della popolazione lavoratrice delle colonie, una divisione si operò nei partiti socialisti fra coloro che erano pronti ad accettare questa situazione, e a contenere il loro programma all’interno dell’imperialismo, e coloro che ritenevano di dover continuare a combattere per il socialismo, insieme alla popolazione lavoratrice oppressa nelle colonie, lasciando nel loro programma nessun ruolo alle riforme: da qui l’alternativa fra Rivoluzione e Riforme.
Il Congresso Socialista dell’Internazionale si riunì a Parigi nel 1900. Vi parteciparono due delegati dello ISRP, e questo fu il primo consesso internazionale ove si trattasse della questione nazionale irlandese.
In Francia il deputato socialista Millerand era entrato a far parte di un governo che comprendeva anche il generale Galliffet, il “macellaio della Comune”. L’argomento centrale del Congresso fu naturalmente la partecipazione di Millerand ad un governo capitalista. Alla fine, mentre si prospettava la reale possibilità di una scissione nel partito francese, Kautsky redasse una risoluzione centrista: non si pronunciava sulla questione teorica della liceità della partecipazione di socialisti a governi borghesi, ma criticava Millerand soltanto per non aver ottenuto il previo permesso del partito. Solo l’Irlanda e la Bulgaria votarono contro, collocandosi quindi nettamente alla sinistra dello schieramento dell’Internazionale.
Uno degli oppositori più risoluti di Kautsky e di Millerand fu Rosa Luxemburg. Ma la sua richiesta di un atteggiamento di indifferenza nei confronti dell’annessione e spartizione della Polonia tra Russia, Germania e Austria, che riteneva necessaria perché gli internazionalisti potessero “camminare mano nella mano con i loro fratelli di tutti i paesi”, appariva inaccettabile ai socialisti irlandesi, coscienti che non era sufficienti la condanna aprioristica delle lotte di indipendenza nazionale.
20. La nascita del Labour Party
Nel 1871 una legge aveva concesso ai sindacati uno status legale, e favorito la ripresa del reclutamento negli anni successivi. Ma nel 1901 un’offensiva padronale su entrambe le sponde del Mare d’Irlanda riuscì ad inficiare la legge con cavilli legali. In Irlanda il caso Quinn contro Leatham stabilì che «se due o più persone si uniscono, senza un motivo legale, per avversare un’altra e ciò facendo gli recano un danno, possono essere perseguiti per cospirazione». In Inghilterra, nel luglio di quell’anno, il giudice assegnò alla compagnia ferroviaria Taff Vale un rimborso di 40.000 sterline per danni e costi a carico della Amalgamated Society of Railway Servants, che aveva indetto uno sciopero e cercato di impedire che fossero assunti operai non sindacalizzati. Fu una mazzata, i Webb stimarono che la sentenza Taff Vale del luglio 1901 costasse al movimento sindacale, per tutto il periodo di applicazione, circa 200.000 sterline. Il numero degli scioperi si dimezzò, e ne seguì una generale riduzione dei salari.
Nel 1900, ad una speciale conferenza convocata dal TUC inglese, si era formato il Labour Representation Committee proprio allo scopo di portare la sua influenza a livello legislativo. Il Committee era una federazione di Sindacati e Camere del Lavoro, Società cooperative e organizzazioni socialiste. Alla conferenza di fondazione fu eletto un esecutivo che comprendeva rappresentanti dell’ILP, della Social Democratic Federation e della Fabian Society. Ne fu nominato segretario Ramsay McDonald, che di recente era passato dal liberalismo all’ILP. Il Committee alle elezioni generali del 1900 presentò 15 candidati, due dei quali furono eletti.
Lo ILP partecipò alla formazione del Labour Representation Committee quindi con lo specifico intento di «divisare i modi e i mezzi per assicurare un numero crescente di rappresentati del lavoro nel prossimo parlamento».
Il Committe, se non riscosse gran successo alla successive elezioni, nel 1906 avrebbe ottenuto trenta parlamentari, organizzatosi separatamente dai diciassette Lib-Lab che furono eletti. Da questo punto in avanti il Labour Representation committee si sarebbe riferito a sé stesso come Labour Party, benché fosse ancora una coalizione molto permeabile di disparate organizzazioni.
Il principale fra i primi successi del partito fu l’approvazione nel 1906 del Trade Disputes Act. La legge solo ratificò la conquista che il movimento operaio aveva ottenuto fuori del parlamento, e che avrebbe spianato la strada alla successiva ondata di lotte operaie: 1) dando ai sindacati l’immunità nei processi per danni; 2) sancendo che non era reato per i sindacalisti incoraggiare altri operai a rompere il contratto con il padrone. Sidney Webb, il fabiano la cui autorevole “History of Trade unionism” Lenin diligentemente tradusse durante il suo esilio siberiano, si oppose a questa legge, il che sarebbe stato un altro chiodo sulla bara della credibilità fabiana.
La sentenza Taff Vale determinò una forte spinta all’affiliazione al nuovo Labour Party. Questo favorì una strepitosa vittoria dei liberali nel 1906, oltre all’elezione di ben ventinove deputati laburisti al parlamento.
Nel 1906 una nuova legge sulle vertenze sindacali, il Trade Disputes Act, rese ai sindacati le loro precedenti immunità: non potevano più essere perseguiti dai padroni o da altri che avessero subito perdite a seguito di dispute sindacali; definiva inoltre l’ambito delle vertenze di lavoro, e autorizzava il picchettaggio pacifico.
Il momento sembrava propizio per recuperare il terreno perduto, e nel 1907 la National Union of Dock Labourers, il cui quartier generale si trovava adesso a Liverpool, inviò a Belfast un funzionario che si era fatto le ossa come organizzatore sindacale nei porti scozzesi. Era James Larkin, figlio di immigranti irlandesi, il cui nome, insieme a quello di Connolly, sarebbe rimasto indissolubilmente legato alle sovrapposte guerre per l’indipendenza e per il socialismo.
(continua al prossimo numero)
Dall’Archivio della Sinistra
I cinque testi di Archivio qui riportati si riferiscono a due ambiti diversi.
Quattro emanano dalla Socialist League, nata, in Gran Bretagna, da una scissione della precedente Social Democratic Federation: abbiamo i due manifesti della sua fondazione, del 1885, gli altri sono tratti dal suo organo, il Commonweal, del 1888 e del 1890.
Della situazione di quel periodo e della sua evoluzione, nell’isola maggiore ed in Irlanda, tratta ampiamente il rapporto che qui precede e del quale questi documenti sono da intendere parte integrante.
Pochi erano allora i socialisti in Gran Bretagna, e piccola la loro organizzazione. Ciò non impediva ad Engels, dopo la morte di Marx, sia di seguire con attenzione l’atteggiarsi della classe nelle sue lotte immediate e nella sua organizzazione difensiva sia di contribuire, con gli scritti ed i consigli, al progressivo farsi strada dei principi del marxismo fra le sue avanguardie e gli intellettuali.
Questa affermazione del marxismo, nel penultimo decennio del secolo, anche nelle isole inglesi, era tutt’altro che uniforme e totale. Si trovava costretto, da un lato, dal riformismo e il pacifismo sociale emananti da già non trascurabili strati di aristocrazia operaia, che proponeva il metodo delle alleanze con i partiti della sinistra borghese e come ambito il parlamento. dall’altro dalle scorciatoie, ideali e pratiche, di un tenace anarchismo sempre risorgente dal ribellismo della piccola borghesia.
Non sempre facile era la battaglia polemica e programmatica contro questi due fronti, grandemente maggioritari rispetto alle forze dei socialisti marxisti. Con questo in mente bisogna rileggere oggi quanto allora scrivevano. Non ci sfuggono certo alcuni cedimenti all’utopismo, all’educazionismo, all’autogestione, ma, per contro, vi troviamo delle formulazioni che anticipano dei temi che saranno quelli della battaglia delle sinistra all’interno della Seconda Internazionale, ed alcuni anche solo della nostra Sinistra italiana. Non dobbiamo disconoscere questo a dei compagni posti in un ambiente, quello dell’Inghilterra vittoriana, dove la democrazia era ormai vecchia di più di due secoli, e tutti i suoi inganni già ben sperimentati. Ci riferiamo in particolare alla questione parlamentare e alla preoccupazione per le sane modalità di vita interna del partito.
L’ultimo documento che qui riportiamo, di evidente importanza ai fini del nostro studio, è il Manifesto inaugurale e programmatico dello Irish Socialist Republican Party, vergato a Dublino nel 1896. Già nel suo nome è presente la necessità di dover affrontare contemporaneamente i compiti della emancipazione nazionale, cioè borghese, dalla corona inglese e quelli della classe operaia per il socialismo. Il proseguimento dello studio affronterà quel non facile problema.
Manifesto dei componenti il Consiglio della Social Democratic Federation dimissionari per costituire la Socialist League
(gennaio 1885)
Ai socialisti
Noi, componenti del Consiglio della Social Democratic Federation, che, sebbene in maggioranza, abbiamo dato le dimissioni il 27 dicembre, intendiamo spiegare le ragioni di questa nostra uscita, e del nostro formare un organo indipendente dalla Social Democratic Federation.
È riconosciuto sia da chi è rimasto nel Consiglio sia da noi stessi che da qualche tempo v’era una mancanza di armonia nel Consiglio; crediamo che ciò sia dovuto a una reale differenza di posizioni rispetto a quelli che dovrebbero essere gli obbiettivi e la tattica della propaganda socialista.
Il nostro punto di vista è che un tale organo allo stato presente delle cose non ha altra funzione se non educare il popolo ai principii del Socialismo, e di organizzarlo in modo che possa prendere il suoi dovuti posti quando la crisi verrà e ci costringerà all’azione.
Noi crediamo che sia cosa ingannevole e dannosa ostentare come esche delle speranze di miglioramento nelle condizioni dei lavoratori da tirar fuori approfittando delle rivalità fra le frazioni dei privilegiati al potere.
Per portare avanti i nostri obbiettivi di educazione e di organizzazione non è necessario alcun incensato e indispensabile capo, bensì solo una compagine di uomini preparati, ciascuno di essi pronto ad adempiere, quando l’occasione lo richiedesse, alle semplici funzioni di un capo di un partito fatto di principii.
Affermiamo, inoltre, che c’è stata nelle file della Social Democratic Federation una tendenza all’opportunismo politico, che se sviluppata ci avrebbe coinvolto ad alleanze, per quanto temporanee, con una o l’altra delle fazioni politiche, ed avrebbe indebolito la nostra forza di propaganda conducendoci all’elettoralismo, e forse ci avrebbe privato dei dovuti contributi di alcuni dei nostri uomini più energici destinandoli alla farsa parlamentare, lì per annullarsi, o perfino diventare i nostri padroni o forse i nostri traditori.
Noi affermiamo anche che fra coloro che hanno favorito queste prospettive di avventura politica c’era una tendenza verso l’affermazione nazionale, il nemico di sempre del Socialismo: ed è facile vedere quanto pericoloso possa diventare tutto ciò in tempi come qiello presente.
Per di più queste prospettive hanno portato, come non poteva essere diversamente, a tentativi di sopraffazione all’interno della Federation; perché una politica come quella descritta richiede un capo destro e sfuggente, cui tutti gli uomini e le opinioni siano sottomessi, e che necessita di essere sostenuto (all’occorrenza) a spese dell’onestà e dell’apertura fraterna. Così sono stati fatti tentativi per schiacciare le libertà locali negli organi affiliati, o volti ad espellere o rendere impopolari quei membri che hanno difeso la propria indipendenza. L’organo del partito, oltretutto, era lasciato nelle mani di un redattore irresponsabile, che si è dichiarato determinato a dimettersi pur di non permettere alla Federation di avere un qualunque controllo sulla conduzione del giornale.
Tutto ciò lo abbiamo ritenuto intollerabile. Ci si potrebbe chiedere perché non siamo rimasti nell’organizzazione per cercare di affermare il nostro punto di vista con una ferma opposizione al suo interno. Rispondiamo che, finché abbiamo ritenuto possibile una riconciliazione, l’abbiamo fatto; tuttavia le tendenze di cui sopra erano necessariamente aggressive, e almeno due distinti attacchi contro degli individui hanno dimostrato che la scissione non si poteva sanare.
Ci è apparso che da allora v’erano due opposti partiti nella Social Democratic Federation. Non abbiamo ritenuto che un organo di propaganda così diviso potesse fare un utile lavoro, e abbiamo pensato che non era negli interessi del Socialismo continuare lo scontro nella Federation; perché, quale che ne sia l’esito, avrebbe lasciato una minoranza insoddisfatta, governata da una maggioranza, la cui posizione sarebbe stata tanto precaria quanto tirannica.
D’altro canto, la nostra visione sui nostri doveri nei confronti della causa del Socialismo ci vieta di smettere di diffonderne i principii o di intervenire solo come individui. Abbiamo così messo in piedi una organizzazione indipendente, la Socialist League, con nessuna intenzione di agire in ostilità con la Social Democratic Federation, ma determinati a diffondere i principii del Socialismo, nell’unico modo che riteniamo efficace.
13 gennaio 1885
Edward Aveling, Eleanour Marx Aveling, Robert Branner, E. Belfort Bax, J. Cooper, W. W. Clark, Joseph Lane, S. Mainwaring, J. L. Mahon, William Morris
Redatto negli uffici della “Socialist League”, 27, Farringdon Street, Londra, E.C.
Il manifesto della Socialist League
William Morris e Belfort Bax
Seconda edizione
Nota introduttiva
Il diffondersi del Socialismo a partire dalla
prima edizione di questo Manifesto ha reso necessaria una sua nuova
edizione; tanto più che la parola “socialismo” viene liberamente
utilizzata da ministri ed ex-ministri i quali, benché non si può
credere che lo conoscano, si fanno belli con la sfrontatezza nel
difenderlo dinnanzi al vasto pubblico popolare, così che la parola è
finita per essere usata in modo vago e fuorviante.
Si spera che questa nuova edizione possa contrastare le incomprensioni che potrebbero da questo derivare.
Speriamo che le note allegate a questa edizione in ogni caso chiariscano ogni possibile ambiguità nel testo, almeno per quanto noi firmatari riusciamo a fare.
E. Belfort Bax e William Morris, ottobre, 1885
Concittadini,
Ci presentiamo a voi come un organo in difesa
dei principi del Socialismo Rivoluzionario Internazionale; il che
significa che ricerchiamo un cambiamento nei fondamenti della Società
– un cambiamento che venga a distruggere le distinzioni di classe e
di nazionalità.
Per come è attualmente costituito il mondo civilizzato, vi sono due classi della Società – una possidente della ricchezza e degli strumenti della sua produzione, l’altra produttrice della ricchezza per mezzo di quegli strumenti ma soltanto per cederla all’uso delle classi possidenti.
Queste due classi sono necessariamente in antagonismo fra loro. La classe possidente, o dei non-produttori, può vivere come classe solo sul lavoro non pagato dei produttori – tanto più è il lavoro non pagato che riescono ad estorcere, tanto più saranno ricchi; di conseguenza la classe produttiva – i lavoratori – è spinta a lottare per migliorare le sue condizioni a detrimento della classe possidente, e il conflitto fra le due è incessante. Talvolta prende la forma della ribellione aperta, altre volte dello sciopero, altre volte nel mero diffondersi della mendicità e del crimine; ma sussiste sempre in una forma o nell’altra, benché non sia sempre così evidente a chi osserva distratto (vedi Nota A).
Abbiamo parlato di lavoro non pagato: è necessario spiegare cosa significhi.
Il solo possesso della classe produttrice è la forza lavoro connaturata nei loro corpi; ma dal momento che, come abbiamo detto, le classi più ricche posseggono tutti gli strumenti di lavoro, ovvero la terra, il capitale, e i macchinari, i produttori, ossia gli operai, sono costretti a vendere l’unico loro possesso, la forza lavoro, nella misura in cui la classe possidente glielo consente.
Questi termini sono tali che, dopo che hanno prodotto abbastanza per mantenersi in condizione di lavorare, e perché siano in forza di generare figli che prendano i loro posti quando saranno logorati, il sovrappiù dei loro prodotti apparterrà ai possessori della ricchezza, approfittando del fatto che ciascun uomo in una comunità civilizzata può produrre più di quanto occorre per la propria sussistenza (Nota B).
Questa relazione fra la classe possidente e la classe operaia è la base essenziale del sistema per la produzione del profitto, sul quale si basa la nostra Società moderna.
Il modo in cui funziona è il seguente.
L’industriale produce per vendere con profitto al committente o all’intermediario, che a loro volta traggono un profitto nei loro affari con il grossista, che ancora vende con profitto al dettagliante, che deve ricavare il suo profitto dalla gente comune, aiutandosi con vari gradi di frodi ed adulterazioni e con l’ignoranza sul valore e la qualità dei beni a cui il sistema ha ridotto il consumatore.
Il sistema macina-profitto si mantiene con la concorrenza, una guerra mascherata, non solo fra le classi in conflitto, ma anche all’interno delle classi stesse: vi è sempre guerra fra i lavoratori per la pura sopravvivenza, e fra i loro padroni, gli industriali e gli intermediari, per la parte del profitto estorto ai lavoratori; infine, vi è sempre concorrenza, e talvolta guerra aperta, fra le nazioni del mondo civilizzato per la loro fetta di mercato mondiale.
Al momento, a dire il vero, tutte le rivalità delle nazioni si sono ridotte a questa – una indegna lotta per la loro parte delle spoglie dei paesi barbari da utilizzare in patria al fine di accrescere la ricchezza dei ricchi e la povertà dei poveri.
Poiché i beni sono prodotti prima di tutto per la vendita, e solo secondariamente per il consumo, il lavoro è dissipato per ogni dove; poiché la corsa al profitto obbliga l’industriale a competere con i suoi compari a collocare la propria merce nei mercati, abbassando i prezzi, a prescindere dal fatto che vi sia o meno una domanda per questi.
Usando le parole del Manifesto comunista del 1847: «I bassi prezzi delle sue merci sono l’artiglieria pesante con la quale spiana tutte le muraglie cinesi, con la quale costringe alla capitolazione la più tenace xenofobia dei barbari. Costringe tutte le nazioni, se non vogliono andare in rovina, ad adottare il sistema di produzione della borghesia, le costringe ad introdurre in casa loro la cosiddetta civiltà, cioè a diventare borghesi. In una parola: essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza».
Inoltre, tutto il metodo della distribuzione sotto questo sistema è pieno di sprechi; poiché impiega intere armate di commessi, viaggiatori, venditori, pubblicitari e quant’altro meramente al fine di far passare dei soldi da una tasca all’altra; e questo sciupio nella produzione e spreco nella distribuzione, aggiunto al mantenimento delle vite inutili delle classi possidenti e improduttive, deve essere tutto pagato con i prodotti dei lavoratori, e ciò costituisce un incessante carico sulle loro vite.
Dunque gli inevitabili effetti di questa cosiddetta civiltà sono evidenti nella vita dei suoi schiavi, la classe operaia – nell’angosciante desiderio di riposo quando lavorano, nello squallore e nell’abiezione di quelle parti delle nostre grandi città in cui dimorano; nella degradazione dei loro corpi, nella salute compromessa, nella brevità della loro vita; nella terribile brutalità così comune fra di loro, e che altro non è che il riflesso del cinico egoismo corrente nelle classi del bel mondo, una brutalità tanto detestabile quanto l’altra; e, infine, nella folla di delinquenti che sono tanto le imprese del nostro sistema commerciale quanto le merci scadenti e disgustose prodotte per il consumo e l’assoggettamento dei poveri.
Quale rimedio dunque noi proponiamo a questo fallimento della nostra civiltà, che è ormai ammesso da quasi tutte le persone coscienti?
Abbiamo già detto che i lavoratori, benché producano tutta la ricchezza della società, non hanno alcun controllo sulla loro produzione e distribuzione: le persone che costituiscono l’unica parte veramente organica della società sono trattati come mere appendici del capitale – come una parte del suo macchinario.
Questo deve essere cambiato alla radice: la terra, il capitale, le macchine, le fabbriche, le officine, i magazzini, le vie di comunicazione, le miniere, le banche, tutti i mezzi di produzione e di distribuzione della ricchezza, devono essere dichiarati e trattati come proprietà comune di tutti.
Ciascun uomo riceverà tutto il valore del proprio lavoro, senza detrazione per il profitto di un padrone, e poiché tutti dovranno lavorare, e lo sciupio oggi dovuto alla corsa al profitto sarà finito, la quantità di lavoro necessario svolto da ciascun individuo per portare avanti l’attività essenziale del mondo sarà ridotta a qualcosa come due o tre ore al giorno; in modo che ognuno abbia abbastanza tempo libero per coltivare bisogni intellettuali o altre occupazione congeniali alla sua natura (Nota C).
Questo cambiamento nel metodo di produzione e di distribuzione darà a ciascuno la possibilità di vivere decentemente, e libero dalle sordide ansie della vita quotidiana che ad oggi gravano terribilmente sulla grandissima parte dell’umanità (nota D).
Per di più le relazioni morali e sociali fra gli uomini saranno grandemente modificate da questa conquista della libertà economica, e dalla dispersione delle superstizioni, morali e altre, che necessariamente accompagnano lo stato di schiavitù economica: il senso del dovere si limiterà al conseguimento di obblighi chiari e ben definiti nei confronti della comunità invece che per modellare il carattere e le azioni degli individui su schemi predefiniti al di fuori delle responsabilità sociali (Nota E).
Il nostro moderno matrimonio-proprietà borghese, mantenuto così come è dal suo necessario complemento, la generale prostituzione venale, lascerà il posto a rapporti gentili e umani fra i sessi (nota F).
L’educazione, liberata dai vincoli mercantili da un lato e della superstizione dall’altro, diverrà un pieno dispiegarsi delle diverse facoltà degli uomini per prepararli ad una vita di relazioni sociali e di felicità; perché il lavoro in sé non sarà più considerato una limitazione alla vita, bensì una felicità per ciascuno e per tutti.
Soltanto se avranno luogo questi cambiamenti fondamentali nella vita dell’uomo, soltanto con la trasformazione della Civiltà nel Socialismo, potranno essere cancellate le suddette miserie del mondo (nota G).
Passando alle questioni puramente politiche, l’Assolutismo, il Costituzionalismo, la Repubblica, tutto è stato ormai provato dal nostro attuale sistema sociale, e tutto ha ugualmente fallito nell’affrontare i veri mali della vita.
Tanto meno, d’altro lato, potranno risolvere la questione certi incompleti progetti di riforma sociale ora di pubblico dominio.
Le cosiddette cooperative – ovvero, la cooperazione concorrenziale per il profitto – potranno solo aumentare il numero di piccole società per azioni capitaliste, illudendo di creare una aristocrazia del lavoro, mentre intensificherebbero la durezza del lavoro con l’incentivo a lavorare di più (Nota H).
La nazionalizzazione solo della terra, che molti onesti e sinceri oggi invocano, sarebbe inutile finché il lavoro resta soggetto alla sottrazione del plusvalore inevitabile nel sistema capitalista (Nota I).
Né soluzione migliore sarebbe il Socialismo di Stato, comunque possa esser chiamato, il cui scopo sarebbe fare concessioni alla classe operaia mantenendo in funzione il sistema presente del capitale e del salario: nemmeno innumeri cambiamenti solo amministrativi potranno farci avvicinare realmente al socialismo fintantoché i lavoratori non saranno in possesso di tutto il potere politico (Nota J).
La Socialist League quindi punta alla realizzazione del completo Socialismo Rivoluzionario, ed è conscia che ciò non avverrà mai in alcun paese senza l’aiuto dei lavoratori di tutte le civilizzazioni.
Non i confini geografici, la storia politica, la razza, né le religioni ci fanno rivali o nemici; per noi non ci sono nazioni, ma solo diverse masse di lavoratori ed amici, le cui mutue simpatie sono controllate o corrotte da gruppi di padroni e imbroglioni il cui interesse è fomentare rivalità e odio fra gli abitanti di territori diversi.
È chiaro che per tutte queste masse di lavoratori oppressi e ingannati e per i loro padroni si sta preparando un grande cambiamento: le classi dominanti sono inquiete, ansiose, perfino toccate nella coscienza dalla condizione di quelli che governano; per i mercati del mondo ci si combatte aspramente come non mai; tutto indica il fatto che il grande sistema del commercio sta diventando ingestibile, e sta sfuggendo al controllo dei suoi attuali tutori.
L’unico possibile cambiamento a tutto ciò è il Socialismo.
Come dalla schiavitù si è passati alla servitù, e dalla servitù al cosiddetto sistema del lavoro libero, altrettanto certamente questo darà seguito ad un altro ordine sociale.
Alla realizzazione di questo cambiamento la Socialist League si impegna con fervore.
Per questo farà tutto quanto in suo potere per l’educazione del popolo ai principi di questa grande causa, e si impegnerà a organizzare quelli che accettano questa educazione, in modo che quando arriverà la crisi, che gli eventi in marcia stanno già preparando, ci sarà un organismo di uomini pronti ad occupare le loro dovute posizioni e ad occuparsi dell’irresistibile movimento e dirigerlo.
Uno stretto sodalizio l’uno con l’altro, e un fermo orientamento per il progresso della Causa, determinerà in modo naturale l’organizzazione e la disciplina fra di noi, assolutamente necessarie al successo; ma la vedremo senza quelle distinzioni di grado e di distinzione fra di noi che danno spazio alle opportunità di ambizioni egoistiche di egemonia che hanno così spesso danneggiato la causa dei lavoratori.
Noi lavoriamo per l’eguaglianza e la fratellanza in tutto il mondo, ed è soltanto attraverso l’eguaglianza e la fratellanza che riusciremo a rendere utile il nostro lavoro.
Lottiamo quindi tutti per questo fine! per realizzare il cambiamento dell’ordine sociale, l’unica causa degna dell’interesse dei lavoratori fra tutte quelle che si presentano loro: lavoriamo a questa causa pazientemente, ma pieni di speranza, e senza rifuggire dai sacrifici che richiede.
Impegno nell’imparare i suoi principi, impegno nell’insegnarli, questo è quanto di più necessario per il nostro progredire; ma a questo dobbiamo aggiungere, se vogliamo evitare un rapido fallimento, franchezza e fraterna fiducia reciproca, e leale devozione alla religione del Socialismo, l’unica religione che Socialist League professa.
Note al Manifesto
A. La distribuzione dei beni è necessaria in
una comunità quanto la loro produzione; i necessari agenti della
distribuzione quindi appartengono realmente alla classe dei
produttori, fintanto che effettivamente adempiono a questa funzione,
non sono super-pagati, spendono quanto guadagnano per il loro
mantenimento, e non vivono sugli interessi di investimenti di denaro;
la stessa cosa può esser detta di chi esercita una professione come
il medico o l’insegnante. Si potrebbe aggiungere per quanto
riguarda i medici che ai giorni nostri la concorrenza che travolge
tutto e tutti li mantiene per la maggior parte abbastanza poveri –
per la loro posizione nella classe borghese – e alcuni di loro non
guadagnando più di un operaio specializzato. Questi uomini non hanno
nulla da perdere e tutto da guadagnare da una rivoluzione sociale; di
essi, insieme ai più poveri fra i lavoratori della mente, può
esser detto che appartengono al proletariato intellettuale; e, a modo
loro, sono schiavi del Capitale come i meccanici.
Una parola o due su coloro della classe operaia
che, a forza di “sacrifici e industriosità”, si sono elevati
alla posizione di piccoli capitalisti, e hanno, per esempio, denaro
in banca o in società edilizie. Questa “aristocrazia del lavoro”
ha di fatto una doppia qualità, sono tanto schiavi quanto
schiavisti: vivendo relativamente meglio, benché senza speranza di
una vita davvero raffinata, offrono buon materiale per i piani dei
reazionari; approfittando della vasta diffusione di tale sotto-classe
i più preveggenti delle classi dominanti basano le loro speranze per
la perpetuazione del presente sistema, sulle sue necessarie
fondamenta fatte di spaccalegna e di portatori d’acqua.
B. Gli standard di vita variano nel tempo e fra paesi: è stato sempre questo un argomento di aspra contesa fra datori e prenditori di lavoro, talvolta portando ad una vera guerra fra di loro, e continuamente a scioperi ed altri scontri; ma questa contesa ha sempre avuto il risultato di mantenere almeno una infima classe del lavoro che vive appena al di sopra dal morir di fame. D’altra parte non si può propriamente dire che alcun gruppo di lavoratori abbia una paga di sussistenza se le loro condizioni cadono al di sotto di quelle della borghesia benestante: essi vivono, è vero, ma le statistiche della vita media nelle varie classi mostrano che essi non vivono a lungo quanto le meglio nutrite e non lavoratrici (se davvero fossero necessarie delle statistiche per sostenere tale fatto evidente). Muoiono prima del tempo.
C. Il fine che il vero Socialismo ci mette
propone è la realizzazione dell’assoluta eguaglianza di condizioni
sulla base dello sviluppo della varietà di capacità, secondo il
motto, da ciascuno secondo la sua capacità, a ciascuno secondo i
suoi bisogni; ma potrebbe esser necessario, e probabilmente lo sarà,
attraversare un periodo di transizione, durante il quale il denaro
sarà ancora usato come mezzo di scambio, benché naturalmente non
porterà in sé impresso il plusvalore. Varie proposte sono state
fatte come pagare il lavoro in questo periodo. La comunità deve
obbligare ad un certo ammontare di lavoro ogni persona non minorenne,
o fisicamente o mentalmente incapace, tale obbligo è infatti una
necessità di natura, la quale non dà niente per niente.
Primo. Questo lavoro può esser calcolato dal
presupposto che ogni persona presti una quantità di lavoro calcolata
sulla media che una comune persona sana può prestare in un tempo
dato, la base essendo il tempo necessario per la produzione di una
data quantità di alimenti. È chiaro che con questo sistema, secondo
le differenti capacità un uomo può aver da lavorare più a lungo e
un altro uno più breve della media stimata, e così il risultato
farebbe decadere l’idea comunistica della assoluta eguaglianza; ma
è probabile che queste differenze non avrebbero molto effetto
pratico sulla vita sociale; perché i vantaggi guadagnati dai
lavoratori migliori non si potrebbero trasmutare nel potere di
appropriarsi dagli altri di lavoro non pagato, poiché la rendita, i
profitti e l’interesse avrebbero cessato di esistere. Coloro che
ottenessero dei beni in più dovrebbero consumarli essi stessi, e non
potrebbero esser per loro di altra utilità. Deve anche ricordarsi
che tramite le macchine la tendenza della moderna produzione è ad
eguagliare le capacità di lavoro, in modo tale che sono ridotti in
qualche modo ad uguali capacità i non specializzati, i deboli, le
donne ed anche i bambini. Naturalmente deve intendersi che questa è
una situazione tratta dallo stato presente della nostra produzione
industriale, che per suoi motivi impiega donne e bambini a preferenza
degli adulti.
Secondo, il lavoro potrebbe essere così
organizzato in modo che ne sia alla base una stimata media necessaria
di tempo, cosicché nessuno avrebbe da lavorare più di un altro, e
la comunità dovrebbe sopperire alle differenze fra le varie
capacità, e l’inevitabile mancanza di qualcuno sarebbe compensata
dalla superiorità di altri. La borghesia ovviamente griderà che
questo offrirebbe un premio agli oziosi e agli stupidi; ma ancora una
volta non dobbiamo dimenticare che l’uso delle macchine ridurrà di
molto la difficoltà; ed inoltre che, poiché ognuno sarà
incoraggiato a sviluppare la sua speciale capacità, una utile
collocazione potrà essere trovata per tutti; e questo fatto
eliminerà quasi totalmente detta difficoltà. Qualsiasi svantaggio
residuo si risolverebbe nell’etica rivoluzionaria dell’epoca
socialista, che farebbe sentire come primo dovere lo slancio
nell’adempimento delle funzioni sociali: scansare il lavoro sarebbe
sentito come un disonore come oggi per un uomo comune quella di un
ufficiale di un esercito codardo davanti al nemico, e sarebbe
ugualmente ricusata.
Infine, guardiamo avanti al tempo quando ogni
tipo di scambio avrà cessato interamente di esistere; proprio come
non è mai esistito nel Comunismo primitivo che ha preceduto la
Civiltà.
Il nemico dirà: «Questo è regredire e non
progresso»; al quale rispondiamo: Ogni progresso, ogni distinto
ciclo di progresso, comprende un movimento tanto di regresso quanto
di progresso; il nuovo divenire ritorna ad un punto che rappresenta
un più vecchio principio che eleva su un piano più alto; il vecchio
principio riappare trasformato, purificato, reso più forte, e pronto
ad avanzare in una più piena vita che si è fatta strada attraverso
la sua morte apparente. Come esempio (imperfetto come tutti gli
esempi non possono non essere) prendiamo il caso dell’avanzamento
di una spirale – il progresso di ogni vita non è secondo una linea
diritta ma una spirale.
D. La libertà da queste squallide ansietà offre l’unica opportunità di uscita dalla inutilità o dall’amarezza, in una delle quali la vita degli uomini oggi precipita. Allora una reale varietà e un sano entusiasmo penetrerà nella vita degli uomini. Allora avrà fine quell’ “opaco livello di mediocrità” che è una necessaria caratteristica dell’epoca della produzione capitalistica, le cui forze tranne quelle di una piccola minoranza divengono solo delle macchine. L’individualità del carattere sarà il vero prodotto della produzione comune, indifferenti all’arrampicarsi per il guadagno individuale che uniforma tutte le individualità ad un solo livello dando loro come scopo della vita un oggetto sordido in sé, e al quale tutti gli altri obiettivi ed aspirazioni, per quanto nobili, devono prostrarsi ed essere sussidiari.
E. Un nuovo sistema di produzione industriale
deve necessariamente portare con sé una sua propria moralità. La
moralità – che in un dato stato della Società non significava
altro che la responsabilità dell’uomo individuo verso la società
intera della quale egli forma una parte – assunse il significato
del dovere nei confronti di un essere sovrannaturale che
arbitrariamente crea e dirige la sua coscienza e le leggi che la
debbono governare; beninteso gli attributi di questo essere non sono
che il riflesso di alcune fasi passeggere dell’esistenza dell’uomo,
e cambiano più o meno con il cambiare di queste fasi. Una moralità
puramente teologica, quindi, significa semplicemente una
sopravvivenza di una condizione passata della Società; si può
aggiungere che, per quanto sacra possa essere comunemente creduta,
essa è messa da parte con pochi scrupoli quando entra in conflitto
con le necessità (non previste alla sua nascita) proprie del
presente stato di cose.
Il cambiamento economico che noi peroriamo,
quindi, non sarebbe stabile se non accompagnato da una corrispondente
rivoluzione nell’etica, che, comunque, è certo che la accompagna,
poiché le due cose sono elementi inseparabili di un insieme, cioè
dell’evoluzione sociale.
F. In un sistema socialista i contratti fra individui saranno volontari e non imposti dalla comunità. Questo si estende al contratto di matrimonio come agli altri, che diverrà una questione di semplice affinità. La donna, inoltre, condividerà la sicurezza dei mezzi di sostentamento, dei quali ci sarà a sufficienza per tutti; e i bambini saranno trattati dalla nascita come membri della comunità col diritto di goderne di tutti i vantaggi; cosicché la costrizione economica non verrà a pesare sul contratto più di quanto lo poteva la costrizione legale. Nemmeno una pubblica opinione veramente illuminata, liberata dalle rudimentali concezioni teologiche riguardo alla castità, insisterà sulla loro natura sempre vincolante di fronte agli stati di disagio o di sofferenza che ne potrebbero derivare.
G. Il primo stadio scoperto di società umana era fondato su basi comunistiche. Le attività religiose, etiche, politiche, economiche, artistiche non erano sviluppate in ruoli separati, che erano solo latenti. La civiltà, che in realtà significò lo sviluppo del grande antagonismo fra individuo e Società, nel corso della sua evoluzione mise in evidenza questi aspetti assegnati a livelli distinti della vita umana, al prezzo di tutte le miserie che questo antagonismo necessariamente produceva. Il progresso storico (cioè il Periodo Storico della evoluzione umana) semplicemente significa il separarsi di queste varie sfere con gli antagonismi che hanno implicato; “Felice – dice il proverbio – è il popolo che non ha storia”. Il Socialismo chiude l’era degli antagonismi e, sebbene non possiamo accettare il finalismo, in ogni caso al momento non possiamo scorgere nient’altro oltre di esso.
H. Gli enti cosiddetti cooperativi, qualunque possa essere il loro ordinamento interno, devono, per quanto concerne i loro affari esterni, comportarsi come capitalisti al pari degli altri; anche i loro membri individui verso l’esterno sono ciascuno di essi dei capitalisti. E questo vale anche per quelle società cooperative che riescano a conformarsi al loro ideale, e dividano i profitti ugualmente fra i loro operai; ma noi crediamo che nessuna di esse arriva a questo ideale, e che la maggior parte di quelle esistenti sono solo delle società per azioni gestite secondo i più puri principi del business.
I. Oggi, e da quando è stato abolito il sistema feudale, con i conseguenti diritti legali del proprietario fondiario, la terra non è che una forma del capitale. La terra che una fattoria occupa è parte del capitale costante dell’imprenditore, proprio come il suo fabbricato o le sue macchine. La rendita che un fondiario trae dalla sua terra è esattamente analoga all’interesse sul denaro di un prestatore; è una delle molte forme per spremere plusvalore dal lavoro.
J. Con potere politico non intendiamo l’esercizio del diritto di voto, e nemmeno il più perfetto sviluppo del sistema rappresentativo, ma il diretto controllo da parte del popolo su tutta l’amministrazione della comunità, qualunque debba essere il destino finale di questa amministrazione. Azzardiamo suggerire che il primo passo in questo stadio di transizione verso il Comunismo possa probabilmente essere la promulgazione di una legge sul salario minimo ed un massimo dei prezzi applicati a tutti i prodotti industriali, compresa la distribuzione dei beni; ci sembra che questo, insieme alla immediata abolizione delle leggi a difesa dei contratti, distruggerebbe subito la possibilità di far profitti, e ci darebbe l’opportunità di mettere in ordine di lavoro l’organizzazione volontaria e decentralizzata della produzione che noi speriamo veder prendere il posto della attuale Gerarchia della Costrizione.
William Morris
La linea politica della Socialist League
The Policy of the Socialist League
Commonweal, Vol 4, No.126, 9 June 1888, p.180
Dato che è stata fondata la Socialist League per sostenere i principii del Socialismo Rivoluzionario Internazionale, e poiché ci sono state delle differenze di opinione al nostro interno sul significato di queste parole, il Consiglio della League ritiene di dover precisare quello che ne è il significato secondo il proprio punto di vista, come espresso nelle pubblicazioni della League, le quali al tempo della loro diffusione non furono contestate da alcuna delle sue sezioni o iscritti; e nel fare ciò il Consiglio desidera disconoscere qualsiasi ridimensionamento dei principi della League rispetto quanto ritiene sia stato riconosciuto fin dall’inizio come necessario per dargli una ragione di esistere distinta da quella di altri organismi socialisti.
Quindi, scopo della Socialist League è la realizzazione di una società basata sull’eguaglianza delle condizioni per tutte le persone senza distinzioni di razza, sesso o fede; una società che non riconoscerà alcun diritto al privilegio di interferire con detta eguaglianza, sia che questo privilegio riponga la sua base nella nascita, nella ricchezza o nelle capacità individuali.
La League ritiene che un passo necessario per la realizzazione di questa società è l’abolizione del monopolio dei mezzi di produzione, che non devono essere di proprietà di alcun individuo, bensì della comunità intera, in modo che il loro impiego possa essere libero per tutti sulla base delle proprie capacità: ciò riteniamo porterà necessariamente all’eguaglianza delle condizioni di vita suaccennate, e al riconoscimento della massima “da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”.
Occorre qui spiegare che alcuni socialisti credono che questo primo passo, l’abolizione del monopolio sui mezzi di produzione, sia il fine ultimo del socialismo, per cui la società così fondata ammetterebbe una forma di concorrenza per assicurarsi una quota parte maggiore della ricchezza prodotta per il consumo; benché sia ovvio che il successo in questa concorrenza può essere conseguito solo da un vincente a spese di un perdente, e quindi in questo modo nuove classi si costituirebbero prendendo il posto di quelle distrutte proprio dall’abolizione del monopolio.
Su questo punto, quindi, la Socialist League nel suo scopo o ideale di società differisce dagli altri socialisti.
Ancora, la League ritiene, quando parla di Socialismo Internazionale, che la parola internazionalismo è da applicare solo al presente stato di schiavitù, dal momento che i lavoratori non riconoscono le differenze nazionali create dai loro padroni, e che nella società del futuro le nazioni come entità politiche cesseranno di esistere, dando luogo alla federazione di comunità unite assieme per contiguità o convenienza. Anche in questo la League si distingue da alcuni socialisti che non riescono a spingere la vista fino all’abolizione delle nazionalità, e anche questo implica una differenza ideologica.
Quanto ai mezzi per conseguire l’abolizione della proprietà privata sugli strumenti di produzione e, con quella, l’uguaglianza delle condizioni di tutte le persone, la League crede che il primo e indispensabile di questi mezzi debba essere quello di presentare al popolo i propri scopi, ultimi e immediati, chiaramente e onestamente, e ha sempre agito secondo questa convinzione; sicura del fatto che, per quanto inverosimili possano apparire questi scopi alla stragrande maggioranza delle persone, verrà il tempo in cui le circostanze forzeranno i lavoratori a farli propri, e quindi non costituisce alcuna perdita di energie intanto familiarizzarli a questi obbiettivi così sollecitando i loro desideri ed offrendo alla loro intelligenza qualcosa di cui appropriarsi, e alla loro speranza di alimentarsi.
Educare a un preciso obiettivo il vago malcontento che (fortunatamente) è oggi così prevalente fra i lavoratori è il principale compito della Socialist League; e non può ignorare questo lavoro neanche alla vigilia dei primi passi sicuri e aperti verso la rivoluzione.
Per altro ci sono altri socialisti, e sono sufficientemente numerosi, che non si accontentano del lavoro lento e paziente teso a far comprendere ai lavoratori la propria condizione e i rimedi ad essa.
Non riescono a credere che altro possa esser fatto se non tentativi per portare dei socialisti in parlamento, o in altri organi elettivi; anche se è evidente che questi organi sono espressione diretta del potere dei nostri nemici, e che la loro funzione è di sopprimere qualsiasi tentativo volto alla rigenerazione della società; anche se, al più, i socialisti in parlamento possono sperare di fare passare pochi provvedimenti palliativi, fintantoché il popolo non sia abbastanza forte da distruggere il parlamento stesso.
La Socialist League ha dichiarato più e più volte quanto futili siano quei socialisti che perdono il proprio tempo a far passare queste misure palliative, le quali, per quanto sia desiderabile ottenerle perché temporaneamente utili, potrebbero passare molto più prontamente se essi non si gettassero nel giro, e che sono intese dai nostri padroni quanto meno per ostacolare il socialismo e non per farlo avanzare.
Più e più volte ha disapprovato quei socialisti che si sono immischiati in intrighi politici; e ritiene che non ha alcuna utilità il loro inseguire i voti di chi non conosce i principi del socialismo, e che quindi deve essere attratto da promesse che i candidati non possono mantenere, quando per caso arrivassero in parlamento.
Le ultime due Conferenze Annuali della League hanno dichiarato a larga maggioranza dei delegati riuniti che è politica della League astenersi dall’azione parlamentare, e hanno escluso la possibilità di ammettere qualsiasi modifica di questa politica. Quindi, il Consiglio della Socialist League si considera francamente in dovere di rimarcare l’impossibilità di utilmente attuare una propaganda per via elettorale contestualmente ad una propaganda educativa nello stesso organismo.
Coloro che cercano di tenere insieme questi due sistemi ideologici finiscono necessariamente per ostacolare l’uno e l’altro, anche quando i principi base non differiscano di molto; e tanto più quanto i sostenitori della propaganda per via elettorale si renderanno conto di quanto arduo è il compito che si sono dati, e dovranno cominciare prima o poi, una volta assunto, a puntare sulla necessità di spostare tutta la nostra attenzione nel portare, con qualsiasi mezzo possibile, dei socialisti in parlamento.
Il Consiglio della Socialist League crede che persisterà per molto tempo questa differenza di vedute sui metodi di propaganda, e si ritiene legittimata sia a mettere in chiaro i cattivi effetti di una messa in discussione di questo punto all’interno della League stessa, sia a rivolgersi a quei socialisti che si riconoscono nella League, pur appartenendo ancora ad altri organismi, perché vi aderiscano, anziché disperdere le loro forze restando in questi organismi, quando non si sentono in armonia con il loro indirizzo tattico.
Allo stesso tempo, il Consiglio desidera che sia chiaramente compreso che sono state esposte le differenze fra la League e gli altri socialisti non con spirito litigioso, ma soltanto al fine di giustificare il mantenimento dell’esistenza della League come organismo separato, e per deprecare qualsiasi alterazione dei suoi principi e tattica, che, nel caso, la metterebbe in una posizione solo di faziosa opposizione alle altre organizzazioni socialiste.
Il Consiglio desidera inoltre dire che crede essere un dovere della League e dei suoi membri di cooperare nel modo più cordiale con gli altri socialisti in tutte le occasioni in cui può farlo senza nocumento ai principii, e senza pregiudizio alla forma della propaganda che fin dall’inizio ha ritenuto suo dovere portare avanti.
William Morris
Antiparlamentarismo
Anti-Parliamentary
Commonweal, Vol 6, No. 230, 7 June 1890,
p.180-181
La maggioranza di quelli che hanno questo foglio in mano sanno che, essendo organo della Socialist League, il Commonweal sostiene l’astensione dall’azione parlamentare; che la Socialist League non propone candidati, né raccomanda ai propri membri di votare questo o quest’altro candidato; che i lettori di queste colonne troveranno menzionato il parlamento, ma mai con il dovuto rispetto, e per lo più solo per rimarcare la corrotta morale di questi ultimi giorni del capitalismo.
La nostra linea politica è, in breve, per l’astensione da qualsiasi tentativo di impiego della macchina costituzionale governativa, benché ad alcuni socialisti quello appaia l’unico mezzo per portarci fin sul margine della Rivoluzione Sociale.
Questa politica astensionista appare ad alcuni mera follia, e forse ad altri inspiegabile.
Cerchiamo allora di spiegarla, lasciando che altri ci chiamino stupidi, se crederanno, ma dopo aver ascoltato la nostra spiegazione.
Quale è lo scopo della propaganda socialista?
Certamente intende chiarire a tutte le classi lavoratrici che la (cosiddetta) società, così come si presenta oggi, è fondata sul furto delle classi “superiori” a danno delle classi “inferiori”, ovvero dei tanti da parte dei pochi; e sarà sempre così, fintantoché perdurerà il privilegio di questa rapina, coloro che fanno tutto il lavoro utile saranno costantemente deprivati delle migliorie della vita che fanno la differenza fra l’uomo civilizzato e il selvaggio; mentre le loro vite saranno molto più faticose e sgradevoli di quelle della maggioranza dei selvaggi.
In breve, una diffusa insoddisfazione per la loro posizione e il senso della sua ingiustizia sono le prime cose alle quali vogliamo aprire le menti dei lavoratori.
Inoltre, vogliamo chiarire loro che questa posizione di schiavitù, questa iniquità che li rende così miserabili e pieni di rancore, non è una condizione inevitabile per chi vive producendo la ricchezza del paese (ovvero i soli che hanno qualche possibilità di essere onesti in questo paese); che questi lavoratori e lavoratrici potrebbero lavorare, vivere, e essere utili se solo lavorassero gli uni per gli altri, ovvero, per i loro amici e non per i loro padroni privilegiati, cioè per i loro nemici.
Ancora, dobbiamo mettere in chiaro ai lavoratori che questi privilegi per pochi che costringono la maggioranza a una vita miserabile, costituiscono una esplicazione della parola, istituto della proprietà privata; per cui chi dichiara di voler abolire i privilegi intende dire che vuole abolire l’istituto della proprietà privata; e che chi difende l’istituto della proprietà privata difende il privilegio, la madornale diseguaglianza fra ricchi e poveri, la conseguente miseria di tutti i veri lavoratori, e la conseguente degradazione delle genti di tutte le classi.
Sia inteso chiaramente che soltanto due grandi sistemi sociali sono possibili, la Schiavitù e il Comunismo; tutti quelli che conoscono l’ABC del socialismo lo sanno.
Il Comunismo ovvero l’abolizione della proprietà individuale è il nostro scopo, lo scopo di tutti i veri socialisti.
Potrà il Parlamento aiutarci a conseguire questo risultato?
Si risponde a questa domanda con un’altra domanda. Quale è lo scopo del Parlamento?
Il mantenimento del privilegio; della società dei ricchi e dei poveri; della società dell’ineguaglianza, e la conseguente miseria dei lavoratori e la degradazione di tutte le classi. Chiaramente se questo è il suo scopo, il suo motivo di esistere, cambierà il proprio scopo con il nostro soltanto se sarà costretto, o ingannato a farlo.
Può essere forzato?
Beh, il Parlamento è il padrone dell’Esecutivo; in altre parole, della forza bruta che sottomette le classi industriose a una vita miserabile; impiegherà la energia bruta per sottomettere quelle classi finché ne avrà la forza. Quando non ne avrà più la forza, cesserà di esistere.
Ora io, da parte mia, dico come ho sempre detto, che i socialisti potrebbero essere obbligati, come ultimo atto della Rivoluzione, a utilizzare la forma parlamentare, al fine di paralizzare la resistenza dei reazionari, col renderla formalmente illegale, cioè distruggendo il potere degli uomini armati, sui quali in realtà giace il potere del parlamento e dei tribunali. Ma questo potrà avvenire soltanto nell’ultimo atto; quando i socialisti saranno tanto forti da occupare il parlamento, allo scopo di farlo morire, insieme al privilegio la cui protezione è il suo scopo, la rivoluzione sarà già in atto, o quasi.
Nel frattempo, è chiaro che non possiamo obbligare il parlamento a mettere fine alla sua stessa esistenza; o, comunque, a fare qualsiasi cosa che non creda possa condurre alla stabilità del privilegio, o alla schiavitù dei lavoratori.
Bene, possiamo invece manovrare il parlamento verso il Socialismo, verso il Comunismo?
Mi pare una impresa senza speranza.
Potrebbe non risultare difficile, forse, mettergli pressione per fargli approvare delle misure per “il miglioramento della massa delle classi lavoratrici”. Ma con questo come salvare la “reputazione” dei socialisti? – i quali, se non stanno attenti, scopriranno che anziché usare il parlamento, saranno essi ad essere usati da lui.
Ricordiamo, inoltre, che la comprensione del Socialismo si va diffondendo molto rapidamente, e che persino i parlamentari e i loro burattinai presto sapranno cosa significa, e metteranno da parte ogni ingenuità per escludere ogni misura che possa appena sembrare socialista; o alla fine, e forse presto, si irrigidiranno rigettando qualsiasi cosa che appaia socialista.
Il fallimento del tentativo di impossessarsi dello “Stern” per i socialisti parlamentari dovrebbe essere una lezione sufficiente del potere dei reazionari, dei Liberali così come dei Conservatori, e il modo in cui resisteranno ad essere messi nell’angolo.
Bene, allora, se noi non possiamo forzare il parlamento a dichiarare di metter fine alla sua funzione di salvaguardia del privilegio, evidentemente quando è vigorosamente in vita; se non possiamo manovrarlo per portarlo a favorire la cosa che più odia – il socialismo – cosa possiamo noi fare?
“Niente”, dicono i nostri amici parlamentari.
Non mi sembra così.
È niente tenere in vita e far montare lo scontento di fronte alla vile schiavitù odierna?
È niente mostrare agli scontenti che essi stessi possono abbattere questa schiavitù?
È niente indicar loro ciò che li attende oltre la stagione di lotta, e come i lavoratori potranno essere felici quando non siano derubati di tutti i piaceri della vita da parte degli oziosi che vivono sul loro lavoro?
Per di più, gli eventi degli ultimi 12 mesi stanno esprimendo una nuova energia dalla massa dei lavoratori, ed essi stanno iniziando ad apprendere come efficacemente associarsi.
È ora molto più facile che cinque anni fa volgere l’attenzione dal parlamento dei loro padroni alla loro propria organizzazione.
In breve, la vera arma dei lavoratori e contro il parlamento non è la scheda ma il boicottaggio.
Ignorate il parlamento; abbandonatelo, e rafforzate le vostre organizzazioni per volgervi direttamente contro i vostri padroni di oggi, e per apprendere come affrontare i vostri interessi tanto ora quanto nel futuro, e tenete saldamente in mente, e lavorate per il giorno in cui avrete da usare la grande arma che la vostra stessa posizione di strumenti non pagati mette nelle vostre mani, l’arma dello sciopero generale.
Pensate a questo, e lasciate che siano i politicanti ad eleggere i politicanti; lasciate che siano le classi superiori e la borghesia a scegliere i membri di quel loro Comitato per la Continuazione della Schiavitù, che si fa chiamare Camera dei Comuni, e vedrete quale terrore ispirerete nei cuori degli ipocriti affettati che si fanno chiamare statisti.
Un terrore che sarà giustificato dagli eventi; perché tale boicottaggio antiparlamentare mostrerà la vostra determinazione ad essere liberi, e vi darà gli strumenti per raggiungere la vostra libertà.
Manifesto inaugurale dello Irish Socialist Republican Party
(1896)
«I potenti ci appaiono tali solo fintanto che restiamo in ginocchio: solleviamoci»
FINI
Stabilire una repubblica socialista irlandese
basata sulla proprietà pubblica del popolo irlandese della terra e
degli strumenti di produzione, di distribuzione e di scambio.
L’agricoltura deve essere amministrata come una funzione pubblica,
sotto consigli di gestione eletti dalla popolazione agricola e
responsabili nei confronti loro e dell’insieme della nazione. Tutte
le altre forme di lavoro necessarie al benessere della comunità
saranno condotte con gli stessi principi.
PROGRAMMA
Come mezzi per organizzare le forze della
Democrazia in preparazione di qualsiasi lotta che possa precedere la
realizzazione del nostro ideale, per spianare la strada alla sua
realizzazione, per contenere la marea dell’emigrazione fornendo un
impiego in patria, e infine per attenuare i mali del presente regime
sociale, noi lavoriamo con metodi politici per assicurarci i seguenti
provvedimenti:
- Nazionalizzazione delle ferrovie e dei canali.
- Abolizione delle banche private e delle
istituzioni di prestito e stabilimento di banche di Stato, sotto
consigli di direttori eletti dal popolo, che emettano prestiti al
costo.
- Impianto a spesa pubblica di depositi rurali
con i più moderni macchinari agricoli, da noleggiare alla
popolazione agricola ad un prezzo che copra solo i costi e
l’amministrazione.
- Tassazione progressiva su tutti i redditi
superiori a 400 sterline annue al fine di provvedere fondi per le
pensioni ad anziani, infermi, vedove ed orfani.
- Restrizione per legge delle ore di lavoro a 48
la settimana e fissazione di un salario minimo.
- Mantenimento gratuito di tutti i bambini.
- Estensione graduale del principio della
proprietà pubblica per provvedere a tutte le necessità della vita.
- Controllo e direzione pubblica delle scuole
nazionali con consigli eletti con votazione popolare solo a questo
scopo. Educazione gratuita fino agli ultimi gradi universitari.
- Suffragio universale.
LO IRISH SOCIALIST REPUBLICAN PARTY
Che il sistema agricolo ed industriale di un
popolo libero, così come il suo sistema politico, sia il fedele
riflesso del principio democratico tramite il popolo per il popolo,
esclusivamente nell’interesse del popolo.
Che la proprietà privata, di una classe, della terra e degli strumenti di produzione, distribuzione e scambio, è la negazione di questo vitale principio di giustizia, ed è la base fondamentale di ogni oppressione, nazionale, politica e sociale.
Che la soggezione di una nazione ad un’altra, come è per l’Irlanda all’autorità della Corona inglese, è una barriera al libero sviluppo politico ed economico della nazione sottomessa, e può solo servire gli interessi delle classi sfruttatrici di entrambe le nazioni.
Che, quindi, la libertà nazionale ed economica del popolo irlandese deve essere perseguita nella stessa direzione, cioè, lo stabilirsi di una Repubblica Socialista Irlandese, e la conseguente conversione dei mezzi di produzione, distribuzione e scambio in proprietà comune della società, da essere tenuti e controllati da uno Stato democratico nell’interesse dell’intera comunità.
Che la conquista da parte della Social Democrazia del potere politico in parlamento, e in tutti i pubblici organismi in Irlanda, sono i metodi più rapidi ed efficaci tramite i quali le forze rivoluzionarie possono organizzarsi e disciplinarsi per raggiungere questo fine.
Desideriamo sezioni ovunque. Benvenute richieste di informazioni. Tassa di entrata 6 scellini minimo. Quota settimanale 1 scellino.
Sede: 67 Middle Abbey Street, Dublino.