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La riforma costituzionale
Breve
storia parlamentare della ipocrisia ed impotenza di una repubblica borghese
Abbasso la Repubblica borghese - Abbasso la sua Costituzione, con questo titolo in “Prometeo” n. 6, del marzo 1947, il partito commentava dal punto di vista comunista, marxista e rivoluzionario la Costituzione che da lì a pochi mesi la repubblichetta italiana avrebbe varato. Noi, a distanza di 70 anni non abbiano da cambiare una virgola a quei giudizi, che estendiamo ai correnti nuovi sconclusionati progetti di riforma.
Oggi partiti e sindacati di sinistra invitano i proletari a votare No al referendum del 4 dicembre in difesa della “Costituzione nata dalla Resistenza” perché le modifiche della legge Renzi/Boschi ne stravolgerebbero i contenuti e l’aprirebbero a derive totalitarie. Abbiamo invece ripetuto che il proletariato non ha niente di peggio da aspettarsi dalla eventuale riforma costituzionale. Nemmeno ha da rimpiangere la vecchia, che ha egregiamente servito per 70 anni a mascherare la spietata dittatura della borghesia.
Non sono le leggi che cambiano la realtà sociale, ma è la realtà sociale che impone alla legge di adeguarsi alle nuove situazioni oggettive. In più, visto che le leggi sono solo “pezzi di carta”, non ci sarebbe nemmeno bisogno di cambiarle: il fascismo non si sognò di abrogare lo Statuto Albertino che restò in vigore fino al 31 dicembre 1947. E ci dovrebbero spiegare come mai la Costituzione resistenziale e antifascista sia oggi difesa anche dai partiti di destra e dai movimenti filofascisti.
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La storia di come la “bella Costituzione”, sorta sulle ceneri del fascismo, venne allora formulata dai “saggi padri”, e i successivi molteplici tentativi di modifica, praticamente tutti falliti, dimostrano quanto rissosa sia stata e sia la borghesia italiana che, mentre è saldamente unita quando si tratta di colpire il proletariato, combatte al suo interno una accanita battaglia che le impedisce ogni scelta e politica.
Secondo la narrazione ufficiale i “padri costituenti” – tra i quali, dobbiamo ricordare, non pochi elementi si erano compromessi con il fascismo, sia delle origini sia del ventennio – avrebbero, al di là delle proprie idee politiche o filosofiche, alacremente lavorato per dare al popolo italiano una legge costituzionale basata sul massimo di democrazia dopo l’oscura “parentesi” fascista.
Innanzi tutto è da ricordare che i lavori della Costituente non interessarono per niente l’opinione pubblica, e poco gli stessi partiti. Quando il testo degli articoli era sottoposto all’assemblea generale, i presenti di norma oscillavano tra i 300 ed i 350. 556 ne furono i “padri”, ma il progetto della Costituzione fu affidato ad una commissione di 75 e, di fatto, a ristrette sottocommissioni, insomma ad un piccolo gruppo di delegati dei tre grandi partiti DC, PSI, PCI. «Le questioni più importanti – ammise Calamandrei – furono risolte nei corridoi, attraverso i discreti contatti dei più autorevoli portavoce dei tre partiti maggiori della coalizione». Molte asserzioni erano state «redatte in forma volutamente vaga ed ambigua, in modo che ciascun partito che sia domani politicamente in prevalenza possa trovarvi quell’indirizzo conservatore o progressivo che meglio corrisponda al suo programma». E Pietro Nenni: «In fondo, come per tante altre cose, dipenderà da chi avrà il mestolo in mano».
Fino dalle origini da parte dei suoi stessi estensori si parlò di revisione. Piero Calamandrei, uno tra i più autorevoli “padri”, scrisse: «Si ha l’impressione di trovarsi in uno di quei grandi edifici tirati su in fretta durante la crisi degli alloggi, nei quali si va ad abitare per necessità».
La Repubblica Italiana nasceva quindi con pastette e pateracchi, con compromessi, che non ebbero però mai una ampia maggioranza. Anche il celebrato Primo Articolo, che tanto piace ai sinistri, passò a strettissima misura: 8 voti contro 7 in sottocommissione e 239 contro 227 in plenaria.
La Carta costituzionale fu redatta mentre si consumava la rottura della “unità antifascista”, nel pieno dello scontro plateale fra i maggiori partiti: la manovrata scissione del Partito Socialista, la crisi di governo, l’insorgere di una aspra concorrenza tra le congreghe politiche. Sin dal settembre 1946 la commissione dei 75 lavorò mentre infuriava il contenzioso tra i padri costituenti: Togliatti accusava lo stesso Presidente della Costituente, Giuseppe Saragat, di «obiettiva collusione con il fascismo». La scissione socialista determinò anche il cambiamento della presidenza della costituente: Terracini prendeva il posto di Saragat. La “Costituzione più bella del mondo” era partorita mentre i partiti si accusavano reciprocamente di calpestare i principi democratici. I clamori erano acuiti dalla campagna elettorale per le amministrative in importanti città, Roma, Torino, Genova, Firenze, Napoli, Palermo.
Alla natura degli accordi sottobanco ed inconfessabili va aggiunto il fatto che i lavori della Costituente non si svolsero in un regime di libera autonomia nazionale. Così è stato ricordato, sempre da Calamandrei, nel primo commentario della Costituzione redatto nel 1950: «Nei momenti più acuti della crisi il giuoco delle forze politiche non poté mai svolgersi liberamente, perché esse dovettero per legge di guerra accettare la disciplina imposta dal governo militare alleato, la cui volontà deve essere sempre considerata come elemento preminente, anche se non sempre apparente, di tutti i compromessi costituzionali che impedirono o rinviarono soluzioni più nette e più definitive». E ancora: «Apparentemente a deliberarla [la Costituzione] furono chiamati soltanto i deputati della Costituente, in realtà sulle loro deliberazioni poterono operare certe limitazioni e certe ingerenze che provenivano da fonte estranea».
La massima prova di codardia la vile borghesia italiana la dava con l’approvazione del famigerato Articolo 7. Non si scomposero uomini della vecchia tradizione laico-liberale come Vittorio Emanuele Orlando, Meuccio Ruini, Carlo Sforza, Ivanoe Bonomi, Francesco Nitti e votarono per la consacrazione costituzionale dei Patti Lateranensi. Benedetto Croce, che nel 1929, al senato, era stato uno dei pochissimi a votar contro la loro ratifica, nel 1947, alla costituente inveì contro «la sfacciata prepotenza pretesca», ma al momento delle votazioni pensò bene di darsi malato.
E il PCI? Il PCI, vincolato al “patto d’unità d’azione” con il PSI, aveva apertamente dichiarato la propria opposizione alla conferma costituzionale dei Patti del Laterano e Giancarlo Pajetta (anche se con un intervento molto ambiguo) ancora 5 giorni prima del voto dichiarava la contrarietà del Partito all’articolo 5 (che poi divenne 7). Ma in Vaticano si sapeva già che al momento opportuno i “comunisti” italiani si sarebbero adattati e lo stesso giorno il braccio destro del papa mons. Tardini confidava ad un emissario americano di essere certo che i comunisti avrebbero votato sì.
«Se i comunisti avessero votato contro – scrisse Calamandrei – è assai dubbio se l’articolo sarebbe stato approvato; tutt’al più sarebbe passato con una maggioranza computabile sui diti di una mano».
Le ipotesi su perché i “comunisti” votarono a favore dell’articolo 7 furono molteplici. Una che con quel voto il PCI si era comperato il silenzio dei democristiani sulla scomparsa dell’oro di Dongo; secondo altri Togliatti avrebbe ceduto al ricatto democristiano che minacciava un referendum sulla Costituzione e riaperto la questione istituzionale tra repubblica e monarchia; infine secondo Lelio Basso il voto del PCI sarebbe stato dato in cambio dell’assicurazione del suo mantenimento all’interno del governo. In quest’ultimo caso i togliattiani sarebbero stati proprio dei fessi visto che appena due mesi dopo vennero messi alla porta. Ma la vera spiegazione è un’altra, e molto più semplice: un partito controrivoluzionario non può fare a meno di marciare in parallelo con un potente apparato reazionario quale è la Chiesa.
Con l’articolo 7 nella Costituzione “più bella del mondo” fu quindi accolto il principio dello Stato confessionale e della religione di Stato, in aperto contrasto con i gabellati principi di libertà di coscienza e di uguaglianza di tutte le religioni di fronte alla legge, proclamati in altri articoli della stessa Carta (carta in tutti i sensi!).
A mettere alla prova il clima di accordo e di collaborazione tra i padri costituzionali, dopo la pilotata scissione del Partito Socialista si aggiunse la cacciata dal governo dei partiti del “fronte popolare”, PCI e PSI: i lavori della costituente non si arrestarono e a fine anno la Costituzione fu promulgata. “L’Unità” del 28 dicembre dava notizia della solenne promulgazione: «Primo ad arrivare è stato, verso le 17, il compagno Umberto Terracini seguito dall’ufficio di presidenza della costituente. I granatieri che prestavano servizio d’onore davanti alla residenza presidenziale hanno presentato le armi mentre i carabinieri della repubblica di servizio a palazzo Giustiniani levavano alte le sciabole [...] De Nicola, circondato dalle autorità, prendeva posto [...] e [...] procedeva alla firma delle tre copie della Costituzione [...] Il documento veniva firmato anche dal Presidente Terracini. De Gasperi apponeva infine la controfirma».
Di tutt’altro tono fu il nostro commento:
«Non il popolo italiano, ma i suoi cosiddetti rappresentanti, si sono finalmente dati, dopo una gravidanza di diciotto mesi, la Costituzione. Ne ha dato il solenne annuncio un uomo che fu nel ’20-21 un militante rivoluzionario, epperciò antiparlamentare ed antidemocratico, e che ha finito la sua carriera nel 1947 – per usare la definizione di Orlando – homo parlamentaris e presidente perfetto.
«Non analizzeremo un documento di cui le stesse puerpere si sono del resto affrettate, diversamente da quando di solito avviene alle madri, a sottolineare i difetti costituzionali e il rachitismo congenito. Non lo faremo anche perché, francamente, non ne vale la pena. Diremo soltanto che i costituenti hanno sfornato un ennesimo documento di democrazia formale, il più pretenzioso, il più astratto, che parla di indipendenza nazionale in un Paese che vive sotto il giogo diretto dell’imperialismo, dell’obbligo di provvedere lavoro e pane a tutti in un Paese in cui si tratta e si applica lo sblocco dei licenziamenti e il valore reale dei salari è in continua diminuzione, di scuola gratuita a tutti in un Paese dove la scuola non riesce a vivere neppure delle astronomiche tasse che impone non a chi merita di studiare ma a chi ne ha i mezzi, che parla di giustizia eguale per tutti in un regime di diseguaglianza sociale, di decentramento amministrativo in regime di accentramento statale, e di altre favole buone soltanto per i gonzi che credono ancora all’afflato della civiltà liberale o alla virtù redentrice della democrazia progressiva.
«Costa poco, ai costituenti, dichiarare per bocca di Terracini che, fatta la legge, bisognerà esserne i servi più scrupolosi e fedeli. La società borghese è ricca di leggi buone da unger la corda al proletariato e di uomini che hanno tutto l’interesse a servirle. Quanto ai rivoluzionari, essi non hanno mai accettato le Costituzioni sfornate dai parlamenti borghesi, e a maggior ragione non accetteranno questa. La Repubblica Italiana ha il suo Statuto: solo i rivoluzionari che hanno cessato di esserlo, solo i Terracini, possono riconoscerla. Prima di sciogliersi i costituenti hanno già pensato ad assicurarsi un posticino caldo in Senato. Il popolo italiano avrà sul groppone a vita, non solo lo Statuto, ma chi l’ha fatto. Lo stesso giorno in cui lo promulgavano, tre proletari erano uccisi dalla polizia a Canicattì. In nome della Libertà, dell’Uguaglianza e della Fratellanza...” (“Ci hanno dato, bontà loro, la Costituzione”, “Battaglia Comunista”, 31 dicembre 1947).
La nuova Costituzione entrava quindi in vigore il 1° gennaio 1948. Oltre ad impegnarsi ad onorare i patti clerico-fascisti del 1929, il nuovo regime democratico si portava dietro tutta la legislazione ordinaria approvata durante il fascismo e chiaramente... anticostituzionale. Inutilmente il Partito d’Azione aveva chiesto l’abrogazione della legislazione fascista e la reintroduzione, con modifiche, della preesistente. Ma ironizzava Togliatti definendo il P.d’A. «ultimo gruppo dei mohicani ostinati nelle loro posizioni» e commentava: «I dirigenti del Partito d’Azione dimostrano di mancare di quel senso delle cose reali che dovrebbe invece essere ed è la qualità prima di chi vuole impostare e dirigere un’azione politica qualsiasi» (“L’Unità”, 2 aprile 1947).
Come avrebbe potuto la nuova Costituzione eliminare il Codice Rocco se proprio il presidente della Repubblica, De Nicola, aveva fatto parte della Commissione Rocco per la riforma del codice penale? E come avrebbe potuto impedire la Costituzione antifascista che, negli anni ’70, le democratiche maggioranze di unità nazionale approvassero leggi d’emergenza peggiori del famigerato Codice Rocco, concentrando poteri speciali nella figura del Pubblico ministero e altri strumenti straordinari? Si arrivò al punto che non era necessario il processo, anzi era necessario che non avvenisse, perché cinque anni di carcerazione preventiva assicuravano di per sé la condanna.
La Costituzione si portava dietro le peggiori infamie del Codice Rocco: l’articolo 559 riguardante la reclusione fino a due anni della “moglie adultera” (per dichiarare illegittimo questo articolo ci vollero due sentenze della Corte Costituzionale: la n. 126 del 19 dicembre 1968 e la n. 147 del 3 dicembre 1969); l’articolo 587 concernente il delitto d’onore che riduceva la pena per l’uccisione della moglie, della figlia o della sorella «nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale»; l’articolo 544 secondo cui il matrimonio riparatore estingueva la pena dovuta a violenza carnale, un modo semplice per acquistare una schiava a vita con il mezzo dello stupro. Questi due ultimi furono abrogati soltanto nel 1982 con legge 442 del 1981, 33 anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione.
Tema controverso fu sin dall’origine quello della legge elettorale. Già prima dell’approvazione della Carta si era sviluppato un acceso dibattito per la riforma del decreto luogotenenziale n.74 del 10 marzo 1946, che estendeva il diritto di voto alle donne, varato per l’elezione dell’Assemblea Costituente “a suffragio universale con voto diretto, libero e segreto” e con “rappresentanza proporzionale”.
Ma già dopo 14 mesi, il 10 maggio 1947, il ministro degli Interni, Mario Scelba, presentava una legge di modifica, proposta da una commissione presieduta dal piccista Mauro Scoccimarro, in cui si prevedevano circoscrizioni meno ampie e collegi regionali per l’utilizzazione dei resti, il che avrebbe permesso ai grandi partiti di rosicchiare rappresentanze ai partiti minori. Questa legge non passò.
Il dibattito sulla “questione elettorale” si riaccese al termine della prima legislatura nata con le elezioni del 18 aprile 1948. Alla vigilia della tornata elettorale del 1953 venne approvata la cosiddetta “legge truffa”. Il passaggio della legge alla Camera fu lungo e difficoltoso quindi si dovettero forzare i tempi per farla approvare al Senato prima delle elezioni. Non venne rispettato nemmeno il “giorno del Signore”: la votazione fu fatta il 29 marzo, domenica delle Palme.
Giustamente il nostro giornale scriveva: «Se di qualcosa dobbiamo ringraziare maggioranza e minoranza parlamentari nella loro tutt’altro che epica battaglia per i posti nel futuro consesso, è di aver dato al pubblico un’immagine chiara della commedia oscena in cui si risolvono gli eterni principii della democrazia» (“Il Programma Comunista”, n. 7, 1-15 aprile 1953).
Secondo il primitivo progetto, proposto dalle delegazioni di DC, PSDI, PRI, PLI, il premio di maggioranza (65% dei seggi) sarebbe stato attribuito, qualunque fosse stato l’esito, alla coalizione vincente. Senonché, a seguito di forti tensioni all’interno del Partito Socialdemocratico, per scongiurare la scissione della scissione che avrebbe cancellato il partito, Saragat impose l’attribuzione del “premio” solo al superamento della maggioranza assoluta dei voti espressi. Comunque una piccola scissione avvenne e la coalizione di centro si fermò al 49,8%: il premio di maggioranza non scattò per soli 57.000 voti, e la “Legge truffa” fu quindi abrogata.
Poi, negli anni ’50 ebbe successo lo slogan della “Costituzione inattuata” formulato da Achille Battaglia in un suo saggio del 1955. “Costituzione inattuata” fu anche il titolo di uno scritto di Calamandrei apparso sull’ “Avanti!” dello stesso anno. Anche Giovanni Gronchi, presidente della Camera, il 22 aprile, nella celebrazione della Resistenza affermava: «L’aspirazione, la quale fu propria del movimento della Resistenza, verso uno Stato più popolare, cioè basato più largamente sul consenso popolare, verso uno Stato che assicuri maggiore giustizia, e, sulla base di questa maggiore libertà, è tuttora un germe vivo che fermenta anche se non ha dato i suoi frutti».
Si aprì quindi la fase della “attuazione” della Costituzione. Il nuovo Capo dello Stato fu parte attiva nel far approvare gli istituti previsti dalla Costituzione: la Corte Costituzionale nel 1956, il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro nel 1957, il Consiglio Superiore della Magistratura nel 1958 (tutti istituti di massimo interesse per il proletariato!). Questa stagione politica piacque tanto che nel decennio successivo si parlò addirittura di “seconda fase di attuazione della Costituzione”.
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Il problema della riforma costituzionale in Italia non è apparso sulla scena con l’avvento della coppia Renzi-Boschi.
Mentre fino ad allora le richieste di modifiche costituzionali erano etichettate “di destra” o semplicemente “fasciste”, soprattutto quando si sosteneva il presidenzialismo, già agli inizi degli anni ’60 nelle università italiane iniziava il dibattito sulla riforma costituzionale. Ne aveva dato l’avvio la prestigiosa facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” di Firenze che, attraverso numerosi convegni di studio organizzati dal prof. Giuseppe Maranini, coniatore del termine “partitocrazia”, assieme a Sartori, Predieri, Tosi, Spadolini etc., lanciava nuove “idee costituzionali”. Ai fiorentini si affiancarono poi professori delle università di Roma, Bologna e il “Gruppo di Milano” diretto dai professori Miglio, Bognetti e Galeotti.
A proposito del Maranini è bene riportare un suo giudizio espresso nei lontani anni ’50: «Le nuove forze associative scaturenti dalla lotta economica si politicizzano, influendo sulla vita dei partiti in modo così decisivo da rendere ormai anacronistiche e impossibili libere e spontanee correnti di opinione, quali una volta erano in sostanza i partiti. I partiti dell’epoca nuova si presentano come organismi disciplinati, dotati di burocrazia, finanza, stampa, inevitabilmente collegati alle organizzazioni economiche, sindacali, lobbistiche delle quali riflettono le lotte e gli interessi».
Sempre nelle università, alla fine degli anni ’70, attraverso una serie di pubblicazioni, si intensificava la critica alla vecchia Costituzione. Solo per citare alcuni studi possiamo ricordare “Una Repubblica da riformare” di Giuliano Amato; “Crisi dei Partiti e governabilità” di Gianfranco Pasquino; “Anatomia di una Costituzione” di Gianfranco Ciaurro; “L’Inverno della Repubblica” di Alberto Sensini.
Nel 1977 Mario D’Antonio pubblicava, con un titolo non equivoco, un pamphlet da molti considerato il “Manifesto” della riforma costituzionale: “La Costituzione di carta”. Vi si diceva chiaramente che la Carta del 1947 restava in vigore in alcuni suoi precetti marginali (per esempio l’articolo 12, in cui si stabilisce che «la bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde bianco e rosso in tre bande verticali di uguali dimensioni»), per altro «è ormai un pezzo di carta che descrive soltanto sé stesso».
Quindi da oltre mezzo secolo la borghesia italiana sente la necessità di disfarsi di quel vecchio abito ormai lacero e stretto. Necessità diventata pressante dopo l’introduzione del sistema elettorale maggioritario. Il maggioritario, ovvero il fatto che un partito o coalizione con un risultato intorno al 30% possa controllare la maggioranza assoluta dei seggi parlamentari, altera e stravolge la Costituzione. L’architettura costituzionale italiana poggia su basi proporzionali e il rifiuto del maggioritario fu esplicito nella Costituente. Elezione di Presidente della Repubblica, Corte Costituzionale e Consiglio Superiore della Magistratura sono previsti dando per scontato un Parlamento composto con sistema proporzionale.
Si badi bene che questo “stravolgimento” non si è effettuato con il cosiddetto “Porcellum”, poi ribadito con l’ “Italicum”, ma risale al famoso “Mattarellum”, legge che porta il nome dell’attuale presidente della repubblica e che, con sbarramento al 4%, sistema misto tra uninominale e proporzionale, la possibilità di intercettare voti con le cosiddette “liste civetta”, di fatto stroncava le gambe ai piccoli partiti impedendo l’ingresso in parlamento a minoranze scomode.
Ma il bello della democrazia è che attualmente abbiamo un parlamento eletto con una legge che la Corte Costituzionale (sei anni dopo la sua emanazione!) ha dichiarato incostituzionale, quindi illegale. Se un organo viene eletto in modo illegale, a ragione di logica (e di legge) dovrebbero essere considerati illegali, e quindi nulli, tutti i suoi atti: l’elezione dell’attuale presidente della repubblica, degli organi di garanzia, le leggi approvate, etc.
Ma come si vede tutto questo stravolgimento della Costituzione “più bella del mondo” è stato fatto senza colpo ferire, senza cambiargli una virgola, senza un golpe militare. Questo perché, come giustamente metteva in evidenza Mario D’Antonio già nel lontano 1977, si tratta di una “Costituzione di carta”.
Quindi fin dagli anni ’60 si parla di divisione dei compiti tra le due Camere, di sistema elettorale maggioritario, di modifica della forma di governo. Nel 1964 si registrarono proposte di finanziamento pubblico dei partiti. Nel 1966 si discusse la tesi del cosiddetto “governo di legislatura” con elezione contestuale delle Camere e del presidente del consiglio e scioglimento automatico in caso di sfiducia. A ciò si aggiunsero le riflessioni critiche sul bicameralismo con la proposta di trasformare il Senato in Camera delle Regioni o degli interessi di categorie sociali.
Gli opposti grandi partitoni cominciarono allora ad attenuare i reciproci attacchi mettendo in allarme i cosiddetti “partiti taxi”, per il rischio di divenire inutili. Il repubblicano Spadolini dalle colonne del Corriere della Sera dell’11 febbraio 1968 riproponeva l’espressione di La Malfa «che parlò per primo, con immagine efficace ed incisiva, di “Repubblica conciliare” per indicare il rischio di una collusione clerico-comunista [...] Il problema esiste; il pericolo c’è». Proponeva quindi un “Tevere più largo”, ossia «una distinzione netta fra Chiesa e politica italiana; l’opposto, precisamente, della Repubblica conciliare».
I timori repubblicani non erano infondati poiché nel 1969 la DC, per bocca di Ciriaco De Mita, proponeva un “patto costituzionale” aperto anche al PCI per affrontare i gravi problemi del paese e, dall’inizio degli anni ’70, alla formula “delimitazione della maggioranza”, sulla cui base era nato il primo centro-sinistra nel 1964, venne sostituita quella di “arco costituzionale”.
Nel 1974 scoppiava lo scandalo del finanziamento illegale ai partiti (a tutti quanti) soprattutto da parte dell’Unione Petrolifera. La soluzione per “moralizzare” il corrotto sistema politico democratico fu trovata con la Legge Piccoli, ossia con il finanziamento pubblico ai partiti: come dare uno stipendio ai ladri nella speranza che smettano di rubare. Questa legge però ha avuto un merito, quello di smentire le dicerie sulle lungaggini parlamentari: in soli 16 giorni fu approvata da tutti i partiti, ad eccezione del PLI. Il popolo italiano considerò quella legge una ulteriore prova che i partiti borghesi ormai sono solo delle sanguisughe.
Nel 1979 Craxi lanciava l’idea della “Grande riforma istituzionale” per il risanamento e la modernizzazione della macchina statale che, manco a dirlo, prevedeva un maggiore potere dell’esecutivo.
Nel 1982 Spadolini, al governo per la seconda volta, formulava il suo “decalogo” che, ancora una volta, proponeva il rafforzamento dell’esecutivo. Sotto il suo governo, il 10 settembre 1982, per la prima volta, il tema delle riforme costituzionali faceva il suo ingresso in Parlamento. I presidenti di Camera e Senato, Nilde Iotti e Amintore Fanfani, invitarono le commissioni affari costituzionali dei rispettivi rami parlamentari a procedere alla formazione di un apposito “comitato ristretto” per redigere, entro il 31 ottobre, un documento sintetico di proposte: dalla modifica della Costituzione a quella dei regolamenti parlamentari.
L’avvio a settembre 1982 dell’iter per le riforme istituzionali era un impegno concordato al rinnovo della fiducia a Giovanni Spadolini. Ma, a causa delle contese tra i tre partiti maggiori, DC, PCI e PSI, i “lavori” non produssero nessun risultato; le commissioni riuscirono solo a formulare due separate relazioni che rispecchiavano il disaccordo tra le componenti.
Dopo le elezioni del 1983, con Bettino Craxi si ha il primo governo a guida socialista. Il nuovo capo del governo per realizzare il suo progetto di “grande riforma”, istituì una commissione bicamerale, presieduta dal liberale Aldo Bozzi, con il compito di «formulare proposte di riforme costituzionali e legislative [...] su oggetti maturi ed urgenti quali la riforma delle autonomie locali, l’ordinamento della Presidenza del Consiglio, la nuova procedura dei procedimenti d’accusa». L’attenzione della bicamerale si concentrò principalmente sui cinque articoli che riguardavano la forma di governo ed elaborò una complessa proposta di revisione costituzionale. Ma i gruppi politici cui era demandato il compito di tradurre le proposte in progetti legislativi, ancora una volta, non trovarono un accordo. All’interno della bicamerale la DC, che mal accettava la perdita di Palazzo Chigi, era nella necessità di ridimensionare l’alleato minore. Il dibattito veniva quindi impostato dai democristiani come occasione per trovare una convergenza con il PCI sull’ipotesi di superamento del sistema proporzionale a favore del maggioritario per tagliare le gambe ai socialisti e ai cosiddetti “laici”.
Il PCI era stato fino allora per il proporzionale, ma non ignorava i vantaggi che un sistema maggioritario gli avrebbe procurato. Si aprì così un acceso dibattito in seno al partito; per Berlinguer il maggioritario poteva rappresentare «una necessaria aggregazione di forze attorno a due poli», per contrastare, d’intesa con la DC, la politica socialista, che soprattutto negli enti locali era in grado di ricattare i due maggiori partiti con bruschi rovesciamenti di alleanze in cambio della guida delle giunte locali. Berlinguer non si dichiarava nemmeno contrario al monocameralismo. Per il maggioritario era anche Napolitano: «Con il sistema elettorale vigente da 40 anni siamo all’opposizione. Lavoriamo o no per una prospettiva di alternativa?».
Forti erano però le resistenze di chi difendeva la proporzionale, in particolare Nilde Iotti, ora presidente della Camera dei Deputati. Contro il maggioritario erano anche Pajetta, Natta e Cossutta. La posizione del PCI rimase quindi incerta.
Il decreto di “San Valentino” del 1984, con cui il governo Craxi tagliava punti della scala mobile, riaccese lo scontro tra PSI e PCI dando l’occasione alla DC di ritentare col PCI un accordo sulle riforme istituzionali, in funzione antisocialista. Il democristiano Roberto Ruffilli al Consiglio nazionale della DC del settembre propose una “equilibrata riduzione” del numero dei parlamentari, una “specializzazione” del Senato e un potenziamento della presidenza del Consiglio. Centrale era la riforma elettorale che prevedeva un “correttivo” della proporzionale ed «un patto politico tra i partiti in grado di dar vita a un comune programma di governo» con premio di maggioranza.
Alla proposta del “premio” si opposero violentemente i partiti minori, in particolare il PRI, trovando rassicurazioni nel PCI di Natta, che, dopo la morte di Berlinguer, si era orientato a favore della proporzionale. Restava di parere contrario Napolitano: «Siamo rassegnati a restare all’opposizione?».
Come al solito venne trovato un compromesso. Il testo conclusivo elaborato dalla Commissione Bozzi fu approvato da DC, PSI, PLI e PRI, con l’astensione del PCI e del PSDI. Però «l’accordo tacito fra i partiti – commentò Pietro Scoppola – fu quello di non mettere ai voti nessuna proposta concreta». Nel gennaio 1985 la bicamerale Bozzi concludeva i suoi “lavori” affidando alla commissione affari costituzionali della Camera le proposte formulate dai suoi 40 commissari. Ma questa non ne iniziò mai l’esame.
L’anno seguente, 1986, un gruppo di senatori della sinistra indipendente formulava un disegno di riforma elettorale «che consenta un più avanzato equilibrio tra rappresentatività parlamentare ed efficienza governativa». Anche Aldo Bozzi presentò un testo che prevedeva la riduzione dei parlamentari e la differenziazione tra i due rami del Parlamento con alla Camera il compito di fare le leggi ed al Senato il controllo dell’attività di governo (salvo che il governo o un terzo dei senatori chiedessero la seconda lettura di un testo approvato dalla Camera). Il PCI propose l’abolizione del Senato e la riduzione dei parlamentari da 945 a 420, ricordando che la metà dei 123 parlamenti del mondo occidentale sono unicamerali.
Il 13 novembre la “Lega per il collegio uninominale”, promossa da Pannella ed altri 171 parlamentari, proponeva l’adozione del sistema elettorale anglosassone.
Nel 1987, dopo le dimissioni del governo Craxi ci furono le elezioni anticipate. La DC andava al voto con un progetto di riforma del sistema elettorale, un impasto tra proporzionale e maggioritario ispirato ai sistemi francese e tedesco, con l’elettore che esprime due voti: uno per il partito ed uno per la coalizione. Al fine di coinvolgere il PCI, De Mita propose di ripartire il “premio”: la maggior parte dei seggi al primo partito o alla coalizione vincente e la restante quota al primo partito d’opposizione.
Da parte sua il Psi reagì insistendo sull’elezione diretta del Capo dello Stato e a tal fine chiese l’istituzione del referendum propositivo che, in alternativa alle commissioni bicamerali, aprisse la strada a riforme istituzionali, inoltre, alla riforma dello Stato centrale aggiunse quella degli enti locali con il Senato delle Regioni.
Nel 1988 il democristiano Mario Segni lanciava il cosiddetto “Manifesto dei 31” auspicante una riforma elettorale uninominale a doppio turno alla francese (ballottaggio con doppio turno) o inglese (uninominale secco).
Anche con il governo De Mita (aprile 1988) la DC tese ad un rapporto preferenziale con il PCI, sempre con lo scopo di ridimensionare l’ingerenza socialista. La DC ripropose l’ipotesi di legge elettorale con premio di maggioranza. Al C.C. del PCI di novembre era approvata la relazione Ochetto sulle riforme istituzionali avversa al presidenzialismo in quanto «occorre un organo di garanzia della vita democratica», ma si dichiarava disponibile al maggioritario perché «il voto deve dire quale maggioranza deve governare» e quindi, «occorre individuare il meccanismo elettorale più adatto a questo fine». Auspicava una «alternanza programmatica», ma si dichiarava disponibile a governi di larghe intese allo scopo di varare riforme istituzionali.
Anche questa volta il dibattito parlamentare fu infruttuoso, salvo modifiche dei regolamenti parlamentari con una forte limitazione del voto segreto, proprio come aveva auspicato Craxi quando era alla guida del governo.
Ma con il successivo governo Andreotti la DC riprese contatti più stretti con il PSI e si dichiarò disponibile al semipresidenzialismo.
Cadeva il Muro di Berlino, nasceva la Lega Lombarda. Nel 1991 il movimento di Mario Segni presentava tre referendum (definiti “incostituzionalissimi” da Giuliano Amato) volti a portare elementi di maggioritario sulla legge elettorale. Nello stesso anno il PCI cambiava pelle trasformandosi in PDS ed il segretario Ochetto faceva avances alla DC per «concordare una riforma elettorale che favorisca l’alternarsi di due blocchi al governo del Paese». Nilde Iotti, presidente della Camera, che proponeva la trasformazione del Senato in Camera delle Regioni, riceveva appoggio anche dal PSI, ma il PRI vi si opponeva nettamente, quindi Andreotti, presidente del consiglio, doveva ammettere che non esistevano le condizioni per procedere a riforme istituzionali.
Comunque la DC rilanciava un progetto di riforma elettorale con sistema maggioritario e, in contrapposizione al presidenzialismo dei socialisti, proponeva il “cancellierato”. Ochetto invece era per il doppio turno: «una prima tornata dove si vota il partito del cuore, e una seconda dove si vota per la coalizione di governo».
Da parte sua il presidente della repubblica Cossiga, nel suo messaggio alle Camere, spronava i legislatori a procedere all’attuazione della riforma costituzionale, se non volevano l’intervento diretto del Paese. Nella sua apparizione televisiva a reti unificate disse: «Le istituzioni sono smarrite [...] Ai signori del Parlamento dico: basta con rinvii. Ora spetta al Parlamento discutere e deliberare. Domani, a voi, il popolo italiano!». Il presidente sardo con il suo brusco intervento si fece più nemici che amici e Scalfaro, che gli sarebbe poi succeduto, affermò: «Quando il Capo dello Stato fa intendere di preferire la Repubblica presidenziale rispetto a quella parlamentare, si mette in contrasto con le parole e lo spirito della Costituzione. L’appello generico al popolo sovrano può portare a situazioni pericolose».
Ora che la proposta aveva fatto breccia all’interno del PCI, i socialisti affermarono che il maggioritario altro non era che una riedizione della “Legge truffa” e della fascista legge Acerbo, assegnando «la maggioranza per legge a chi non la riceve dal corpo elettorale». Mario Segni, facendo il parallelo fascismo-presidenzialismo, paragonava Craxi a Mussolini. I repubblicani invece si esprimevano contro il maggioritario democristiano e a favore del presidenzialismo socialista.
Anche in questa occasione dal dibattito parlamentare non scaturì alcun risultato.
Nell’undicesima legislatura i lavori della bicamerale istituita dopo le elezioni del 1992 furono interrotti dagli sviluppi delle inchieste giudiziarie; il suo presidente, Ciriaco De Mita, raggiunto da un avviso di garanzia, si dimetteva e veniva sostituito da Nilde Iotti.
L’11 gennaio 1994 la Commissione parlamentare presentava alle Presidenze delle due Camere un progetto di revisione costituzionale riguardante la modifica della parte seconda della Costituzione. Veniva avanzato il progetto di un parlamentarismo di tipo tedesco. Gli altri numerosi avvisi di garanzia che colpivano diversi membri della Commissione e l’anticipata conclusione della legislatura fecero sì che il parlamento nemmeno prendesse in esame il testo.
Di lì a poco in Italia cadevano e si disintegravano quei partiti politici che avevano “combattuto il fascismo”: un fascismo già morto perché, come scrivemmo nel 1946, «il movimento antifascista nelle sue varie sfumature nulla aveva osato dieci minuti prima del crollo, nemmeno quel poco che bastasse per poter tentare la falsificazione storica di averne il merito».
All’inizio degli anni ’90 il famoso pool della Procura della Repubblica di Milano, dando inizio all’operazione “Mani pulite”, scopriva quello che tutti gli italiani (fuorché la Magistratura) sapevano da sempre. Così, grazie al pool, anche la Giustizia fu messa a conoscenza del fatto che tutta la politica democratica si basava su di un sistema di corruzione, concussione, finanziamenti illeciti, etc., etc. Avvenne così che i partiti storici scomparvero, per ripresentarsi poi sotto falso nome.
Nel febbraio 1991 senza colpo ferire si “scioglieva” il PCI, il “grande partito dei lavoratori”. Nel 1994, vittima di una serie di scissioni, anche la DC si estingueva. Nello stesso anno scomparivano pure PSDI, PRI, PLI. Il PSI era scompaginato dagli arresti ed il suo capo Bettino Craxi si rendeva latitante in Tunisia.
Nel momento in cui i partiti “dell’arco costituzionale” erano spazzati via dall’onda giustizialista nasceva il partito/impresa Forza Italia che, solo due mesi dopo la sua fondazione, vinceva le elezioni e si formava il primo governo Berlusconi. Per la prima volta dal 1946 i rappresentanti del popolo non furono eletti in base al sistema proporzionale, ma con il cosiddetto “Mattarellum”, legge elettorale che sta in buona compagnia con le altre due che gli sono succedute.
Morivano i partiti, moriva la prima repubblica, moriva il sistema proporzionale; nascevano la seconda repubblica, i nuovi “soggetti politici”, le nuove leggi elettorali.
E una nuova Costituzione? Il 14 luglio 1994 il nuovo presidente del consiglio Silvio Berlusconi istituiva il cosiddetto “Comitato Speroni”, con il compito di elaborare proposte di riforme istituzionali ed elettorali nonché di revisione costituzionale. Il progetto di revisione costituzionale si compose di 50 articoli, con due diverse ipotesi di modifica della forma di governo: la prima prevedeva una riforma in senso semi-presidenziale, la seconda un premierato con elezione diretta del capo dell’esecutivo. Ma il progetto rimarrà progetto a causa della caduta del governo.
In vista delle elezioni regionali il 23 febbraio 1995 fu approvata un’apposita legge elettorale, il “Tatarellum”, sistema proporzionale con un premio di maggioranza di coalizione ed elezione diretta del presidente della Regione.
Nel gennaio ’96 veniva alla luce la cosiddetta “Bozza dei professori”, o più semplicemente “Fisichellum”, che prevedeva il doppio turno, l’elezione del premier collegato ad una maggioranza e il federalismo. Un tipo di riforma elettorale che sembrava piacere sia a Forza Italia sia al PDS. Ma ancora una volta il progetto non si concretizzò a causa dello scioglimento anticipato delle Camere e delle nuove elezioni.
L’incarico di formare un governo tecnico fu dato ad Antonio Maccanico: non ci riuscì, ma è interessante la sua dichiarazione del 10 febbraio 1996, dopo la consultazione delle “parti sociali”: «È emersa la convinzione quasi generale che [...] sia indispensabile un’opera di revisione che porti ad un deciso rafforzamento delle istituzioni unitarie di vertice e di governo della Repubblica [...] È convinzione quasi unanime che si debba perseguire un consolidamento delle prerogative del Governo rispetto al Parlamento anche attraverso il conferimento di una posizione di netta preminenza del Presidente del Consiglio rispetto ai ministri [...] È largamente condivisa la tendenza al superamento del bicameralismo perfetto, alla riduzione del numero dei parlamentari». E allora, letto questo, perché ce l’hanno oggi tanto con quella povera Boschi?
Si formò il governo Prodi. Il 24 gennaio 1997 venne costituita un’altra bicamerale, la cosiddetta “Commissione D’Alema”, anche questa ebbe il compito di elaborare progetti di revisione della parte seconda della Costituzione (“Ordinamento della Repubblica”), in particolare in materia di forma di Stato, forma di governo, bicameralismo e sistema delle garanzie. Le proposte erano: governo semipresidenziale, riduzione del numero di deputati e senatori, differenziazione del bicameralismo, rafforzamento dei poteri del governo rispetto al Parlamento, differenziazione tra leggi bicamerali paritarie (per le quali le Camere avevano uguale peso), non paritarie (se c’era contrasto tra le Camere spettava a quella dei deputati deliberare in via definitiva) e monocamerali; aumento del numero di firme necessarie per i referendum abrogativi (da 500 mila a 800 mila).
Il 18 giugno 1997 a casa Letta avvenne l’incontro “della crostata” ed a gustarsela furono chiamati PDS, PPI, AN e FI. L’accordo fu trovato: repubblica semipresidenziale e legge elettorale a doppio turno di coalizione. Il progetto di riforma venne presentato al parlamento a gennaio 1998; 42.000 furono gli emendamenti proposti, ma Berlusconi tagliava corto, o cancellierato e legge proporzionale o niente. E niente se ne fece.
Dopo le fallimentari esperienze delle bicamerali fu accantonata quella procedura e dal 1999 al 2015 sono state dieci le leggi di modifica costituzionale approvate dal parlamento. Di queste solo una fu approvata con maggioranza qualificata, col voto di oltre i due terzi di ciascuna camera, mentre tutte le altre sono state approvate con la sola maggioranza relativa. Questo dato è importante perché chiarisce come le modifiche apportate alla Costituzione siano il frutto dei partiti che al momento sono al governo.
Due volte gli elettori sono stati chiamati ad esprimere, tramite referendum, il loro giudizio sulla legge di modifica. La prima volta nel 2001 e la seconda nel 2006. Il disinteresse del popolo italiano nei confronti della sua “bella Costituzione” si evince dai partecipanti al referendum: al primo partecipò solo il 34,1% degli aventi diritto, al secondo il 52,3%. La maggiore adesione al secondo referendum si dovette alla campagna imbastita contro la “deriva autoritaria” e a difesa della democrazia insidiata dalla legge approvata dal centro-destra di Berlusconi.
Il 20 agosto 2003, quattro “saggi” del centro-destra si erano dati convegno in una baita a Lorenzago di Cadore e lì, nel raccoglimento delle Alpi, elaborarono il loro progetto di riforma tendente alla modifica di 50 articoli della Costituzione. La nuova legge che introduceva la “devolution” e il premierato forte (elezione diretta del premier e divieto di ribaltone) apportava modifiche a forma di governo, struttura del parlamento, rapporti fra Stato e Regioni e apportava cambiamenti ai poteri ed alle funzioni degli organi di garanzia. Nel discorso di fine anno il presidente della repubblica, Napolitano, invitava le forze politiche ad un maggior dialogo per procedere alle riforme costituzionali “con realismo e misura”. L’effetto fu tale che il 21 dicembre 2005 fu approvata la legge Calderoli, altrimenti detta “Porcellum”!
Ad ottobre 2007 a Montecitorio iniziava il dibattito sulla bozza Violante concernente il superamento del bicameralismo, la modifica del rapporto governo-Parlamento e di quello fra Parlamento ed enti locali. Ma, ancora una volta, a causa dello scioglimento delle Camere (6 febbraio 2008) la bozza Violante fu archiviata.
Nel messaggio di fine anno 2009 Napolitano riprendeva ancora l’argomento delle riforme istituzionali, che «non possono essere bloccate da un clima di sospetto e da opposte pregiudiziali».
Il 20 aprile 2012 era approvata la legge costituzionale sul pareggio di bilancio: «Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico».
Pochi mesi dopo Francesco Rutelli propose di eleggere una commissione costituente a cui affidare l’incarico di riscrivere la seconda parte della Costituzione. La commissione, formata da 90 componenti, avrebbe avuto il compito di elaborare un testo da passare all’approvazione del Parlamento senza modifiche, che avrebbe potuto solo approvarlo o bocciarlo. La proposta non venne mai presa sul serio tant’è che il 29 novembre i relatori si dimisero.
Il 25 luglio 2012 il senato approvò un progetto di legge su modifiche alla parte seconda della Costituzione concernenti le Camere e la forma di governo, l’elezione diretta del presidente della Repubblica, il semipresidenzialismo, la riduzione di circa il 20% del numero dei parlamentari, la riforma del bicameralismo perfetto e ampliamento dei poteri del Governo nel procedimento legislativo. Ma anche questa riforma si bloccò a causa dello scioglimento delle camere il 22 dicembre 2012.
Dopo le elezioni del 22/23 febbraio 2013, vinte dal centrosinistra, Napolitano nominò 10 “saggi” per «formulare, su essenziali temi di carattere istituzionale e di carattere economico-sociale ed europeo, precise proposte programmatiche che possano divenire in varie forme oggetto di condivisione da parte delle forze politiche». I “saggi” una bozza di riforma la presentarono: fine del bicameralismo perfetto, sistema elettorale misto, etc., etc., insomma, le solite cose.
Nel frattempo il popolo italiano assisteva alla sceneggiata della incapacità da parte dei partiti di eleggere un nuovo presidente della repubblica: Bontà sua Napolitano, facendo di necessità virtù, si accollò l’onere di accettare un secondo mandato.
Si forma il governo Letta. Il 4 giugno 2013 Letta firmava il decreto di nomina di un’altra commissione per le riforme, incaricata di studi preparatori in vista della revisione costituzionale. Il disegno di legge predisposto dal governo Letta fu approvato dal Senato l’11 luglio 2013 e dalla Camera il 10 settembre. Tornava nuovamente in Senato il 23 ottobre 2013 e veniva poi rinviato alla Camera per l’ultima lettura. Ma si bloccava per il semplice motivo che il governo Letta era cannibalizzato dal rampante Matteo Renzi.
Enrico Letta il 14 febbraio rassegnava le dimissioni. Il nuovo esecutivo presentava un’altra, sua, nuova proposta di revisione costituzionale, velocemente formulata ed altrettanto velocemente approvata. Il disegno di legge, presentato al senato l’8 aprile 2014, portava il seguente titolo: “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione”. Percorsi e superati tutti i passaggi di rito la legge era definitivamente approvata il 12 aprile 2016.
Nel frattempo, il 6 maggio 2015, era stata approvata a larghissima maggioranza la nuova legge elettorale: l’”Italicum”: una variante delle altre due precedenti.
Il prof. Stefano Ceccanti, costituzionalista, docente universitario, ex senatore e cattolico, ha fatto la seguente sintesi della legge di riforma costituzionale: la legge prevede «un innalzamento delle firme per le proposte di legge di iniziativa popolare (da 50 mila a 150 mila)»; introduce «il controllo preventivo di costituzionalità per le sole leggi elettorali di Camera e Senato su richiesta di un quarto dei deputati o un terzo dei senatori, che si potrà esercitare anche sulle leggi vigenti al momento dell’entrata in vigore della riforma»; prevede «un differimento dei termini in caso di rinvio presidenziale di una legge di conversione di decreti»; prevede che «nel caso in cui su una proposta di referendum abrogativo ottenga più di 800 mila firme di sottoscrittori, il quorum di validità scenda dalla maggioranza assoluta degli aventi diritto al voto alla maggioranza di coloro che hanno effettivamente votato alle precedenti elezioni politiche»; pone «alcune limitazioni alla decretazione d’urgenza»; «stabilisce nella maggioranza assoluta dei deputati il quorum per la dichiarazione di guerra»; cambia «la procedura per l’elezione del Presidente della Repubblica» e «sopprime l’elenco delle materie a potestà legislativa concorrente».
* * *
Insomma, come previsto da una tendenza che non è solo propria e continua nei 70 anni della borghese repubblica italiana ma di tutto un secolare ciclo storico mondiale, alla concentrazione e alla centralizzazione delle produzioni, dei traffici e delle finanze capitalistiche, e allo irreversibile declino economico e politico di ceti intermedi borghesi piccolo produttori, commercianti e rentier, deve corrispondere una parallela concentrazione dei poteri all’interno degli Stati e un superamento di fatto del sistema democratico e pluri-partitico. Il potere reale si è da lungo tempo spostato dai parlamenti, mono o bicamerali che siano. Il gioco della divisione dei poteri, che utilmente la borghesia rivoluzionaria oppose all’autocrazia feudale, si dimostra solo un impiccio formale a chi è al comando di navi sbattute nella tempesta delle crisi di ogni tipo che attendono il capitalismo.
Sono quindi solo le mezze classi che possono avere da tutti questi rabberci istituzionali nuove conferme della loro impotenza e incapacità a comprendere i fatti. Da qui lo scontro tra partiti e all’interno dei partiti stessi che sembra avere raggiunto punte di estrema tensione con accuse, minacce di scissioni e di espulsioni.
Quindi, che i risultati del prossimo referendum diano vincenti i SI riformatori o i NO conservatori, qualche cosa potrà cambiare solo per la grande legione dei politici nullafacenti. Quello che è certo è che non cambierà assolutamente niente per il proletariato, che non ha da difendere né la vecchia Costituzione né una nuova dello Stato borghese. Compito storico del proletariato è quello di difendere oggi le sue lotte dalla Costituzione borghese, e di stracciare domani ogni tipo di Costituzione dopo avere abbattuto il potere statale che le ha prodotte.
Il nuovo potere proletario non si darà costituzioni che limitino il suo dominio. La sua costituzione sarà di tre sole parole: Dittatura del proletariato.
Parte quarta - L’imperialismo
C.
Verso la Prima Guerra mondiale
I. Geopolitica dell’imperialismo
La lunga e profonda crisi economica durata dal 1873 al 1889, con il suo strascico nella ricaduta tra il 1900 e il 1903, dette un enorme impulso al processo di concentrazione industriale e finanziario, con la formazione dei grandi cartelli, dei monopoli e del dominio assoluto del capitale finanziario su quello industriale, come Lenin ha descritto magistralmente nel suo “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo”.
Nel Regno Unito, il capitalismo più sviluppato e maturo in Europa, tra il 1900 e il 1905 furono investiti nell’economia nazionale annualmente in media 72 milioni di sterline, mentre le esportazioni di capitali furono di 64 milioni di sterline. Nel successivo periodo tra il 1906 e il 1912 la media degli investimenti interni scese a 39 milioni, mentre crebbe a 152 milioni la media delle esportazioni di capitali. Nel 1913 gli investimenti inglesi all’estero, prevalentemente nei paesi dell’Impero, raggiunsero i 4 miliardi di sterline. Mentre le esportazioni di prodotti industriali inglesi all’estero scendevano vistosamente, in compenso i redditi degli investimenti all’estero fruttavano dai 90 ai 100 milioni di sterline all’anno superando di ben cinque volte le entrate del commercio estero. Il centro finanziario londinese della City era il più importante al mondo.
Nello stesso periodo la Germania assume il primato della produzione industriale in Europa, come mostra il grafico seguente relativo all’esportazione di acciaio tra il 1890 e il 1913, preso a simbolo di tutta l’industria: è evidente l’acquisito notevole vantaggio tedesco rispetto al Regno Unito e alla Francia.
Una caratteristica dell’imperialismo, nel suo insieme di interconnessioni tra economia, politica e forze militari – oggi volgarmente chiamato “globalizzazione”, così ridotto alla sola dimensione delle produzioni e degli scambi, come se lo si volesse addomesticare sotto mentite spoglie – è di superare i ristretti ambiti economici nazionali ed estendersi all’intero pianeta, perché ha bisogno di spazi, bacini di materie prime e mercati sempre più ampi. In questo periodo infatti assistiamo alla ultima frenetica spartizione di territori da trasformare in colonie ai quattro angoli del mondo e agli assestamenti territoriali delle economie più forti ed emergenti a scapito delle più deboli.
È l’industria americana, dall’uscita della sua crisi del 1897, a detenere il primato mondiale della produzione industriale. Gli corrisponde l’espandersi a raggiera dei possedimenti statunitensi, dalla guerra ispano americana del 1898 per il controllo di Cuba e Portorico nel Mar dei Carabi, subito dopo alle Filippine, all’isola di Guam, la maggiore delle Marianne nell’oceano Pacifico, tutti avamposti verso la Cina, che si estesero anche a Samoa e nelle Hawaii.
Anche la guerra tra Russia e Giappone del 1904/05, che abbiamo appena descritta, s’inserisce in questa competizione imperialista per il controllo della Corea e della Manciuria, preteso da entrambi i paesi.
Nella vecchia Europa, dalla fine della guerra franco-prussiana furono anni di relativa e apparente calma, senza guerre di una certa rilevanza, di grande sviluppo prodotto dalla seconda rivoluzione industriale, e di euforia alimentata dalle nuove grandi ricchezze, tanto che per i nuovi rentier quella effimera parentesi fu chiamata la “ Belle Époque”, col centro finanziario di Parigi a suo simbolo.
Per le classi lavoratrici, tranne uno strato di aristocrazia, continuò lo sfruttamento di sempre, con milioni di uomini costretti all’emigrazione per vendersi in terre lontane. È anche il periodo dell’affermarsi delle loro grandi organizzazioni, sindacali e politiche: quelle si estesero potentemente, imponendo il loro riconoscimento alla classe padronale e ai loro Stati; queste, nella Seconda Internazionale, avevano ormai riconosciuto il marxismo unica loro dottrina sociale e le correnti di sinistra al suo interno trassero lezioni radicali dalla sconfitta della Comune di Parigi e dall’esempio della rivoluzione russa del 1905.
1. Nuovi schemi militari del mondo
In campo borghese furono considerate con una certa attenzione le teorie esposte in quegli anni da due studiosi che cercavano spiegare le grandi manovre strategiche delle potenze imperialiste del tempo: una è dell’ufficiale di marina americano Alfred Thayer Mahan (1840-1914) poi insegnante al War College, l’altra è del geografo esploratore inglese Halford John Mackinder (1861-1947), insegnante a Oxford e socio fondatore e direttore della prestigiosa London School of Economics and Political Sciences.
Mahan, marinaio, considerato che le vie del mare erano a quel tempo il mezzo più rapido per i grandi traffici commerciali, studiò attentamente la contrapposizione tra le potenze marittime e quelle continentali, ritenute più deboli e vulnerabili. Sostenne la necessità delle prime di assicurarsi il dominio dei mari attraverso la salda tenuta di punti d’appoggio, basi, controllo degli stretti ecc. L’espansione americana nei Caraibi e nel Pacifico corrispondeva a questa teoria. Sosteneva, sulla base dell’esperienza storica, che le potenze marittime tendono a unirsi tra loro, come reciprocamente quelle continentali e che difficilmente una potenza poteva essere egemone contemporaneamente sia in campo terrestre sia navale, come aveva tentato inutilmente la Francia del 1700. Negli ultimi anni dell’800 non si parlava ancora del controllo dei cieli, mentre le nuove linee ferroviarie, che permettevano trasferimenti rapidi e sicuri, entravano in forte concorrenza con quelle marittime, come fu per la Transiberiana nella guerra russo-giapponese che abbiamo descritto. Oggi solo gli Stati Uniti sono contemporaneamente potenza continentale, navale e aerea.
Del Mahan merita riprodurre una affermazione: «Chiunque controlli l’Oceano Indiano domina l’Asia; quest’oceano è la chiave dei Sette Mari; nel XXI secolo il destino del mondo sarà deciso nelle sue acque». La Cina da qualche tempo sembra seguire quel consiglio, con la sua politica della “collana di perle”, una serie di basi e porti che circondano l’Oceano Indiano a protezione dei suoi traffici, a cui l’India cerca di opporre una flotta militare di adeguate dimensioni, tra cui una portaerei e un sottomarino nucleari. Gli Usa da tempo vi si sono insediati in punti strategici e hanno allestito basi su quelle rotte in appoggio alle loro potenti flotte aero-navali.
Mackinder invece presentò nel 1904 il suo studio: “Il perno geografico della storia” con l’intento di consigliare i comandi britannici ad abbandonare lo “splendido isolamento” e di acquisire maggior potenza militare sulla terraferma, prima che dall’Europa continentale giungesse un serio pericolo alla sua supremazia. L’Inghilterra, anche se grande e potente, è un’isola che necessita di adeguati traffici marittimi per esistere e per sviluppare il suo impero. Nel 1909 la superficie complessiva delle colonie, dominion e protettorati sottomessi all’Impero britannico era 94 volte più grande della superficie del Regno Unito con una popolazione di 7,7 volte superiore. Con il 20% della superficie dell’intero pianeta e il 23% della popolazione mondiale quello inglese fu l’impero più vasto e popoloso di tutta la storia dell’umanità.
In breve la teoria del Mackinder si basava anch’essa sulla contrapposizione tra terra e mare e individuava nello Heartland, o cuore della Terra, il cuore pulsante di tutte le civiltà della terra, perché logisticamente inavvicinabile da qualunque potenza navale, o “talassocrazia”. Questo Heartland corrispondeva alla zona centrale dell’Eurasia, delimitato a ovest dal Volga a est dal Fiume Azzurro, a nord dall’Artico e a sud dalle cime occidentali dell’Himalaya, una zona che comprendeva parte ma superava l’intero impero russo del tempo. Sosteneva anche la necessità di creare e controllare Stati cuscinetto allo scopo di evitare fusioni tra potenze continentali, temendo un’imbattibile alleanza tra gli imperi tedesco e russo; in altre parole tra il sistema produttivo industriale più sviluppato e uno sterminato bacino di risorse minerarie. In estrema sintesi: «Chi controlla l’Est Europa comanda l’Heartland, chi controlla l’Heartland comanda l’Isola Mondo, chi controlla l’Isola Mondo comanda il Mondo». L’Isola Mondo, o Eurafrasia, comprende per Mackinder il vasto territorio compreso tra Lisbona, Vladivostok e Capo di Buona Speranza. Il resto del pianeta era suddiviso in aree strategicamente di secondaria importanza: Americhe, Australia, Giappone e Isole Britanniche comprese.
2. Preparativi diplomatici
Prima di esporre l’intreccio diplomatico tra le grandi potenze volto ad assicurarsi lo sfruttamento di nuovi territori e la protezione dei mercati, prima con le ipocrisie e i brindisi, poi con le armi, inquadriamo l’argomento in due assunti per noi essenziali.
Primo assunto. Per Marx i capitalisti, che chiama “falsi fratelli”, sono in continua feroce concorrenza tra loro, ma sempre si accordano e sostengono per combattere le lotte e le organizzazioni proletarie, e questo non solo in situazioni di acuto scontro tra capitale e lavoro. La borghesia, una volta stabilita la sua supremazia sui precedenti modi di produzione, raggiunta sovente con l’aiuto del proletariato, nelle guerre tra gli opposti raggruppamenti statali, nelle quali la classe operaia è armata e costretta a combattere e ad uccidersi per difendere gli interessi borghesi, qualora un reparto proletario insorga, interrompe le operazioni militari per schiacciarlo, dandosi reciproco sostegno.
Fu così durante l’assedio di Parigi nella guerra franco-prussiana, quando Parigi insorse proclamando la Comune, come abbiamo esposto in un dedicato capitolo. Il cancelliere tedesco Bismarck, dopo che l’esercito tedesco aveva sbaragliato quello francese, fatto prigioniero Napoleone III e fattosi incoronare nella reggia di Versailles, permise a Thiers, capo del borghese governo provvisorio francese, di organizzare la repressione della Comune liberando decine di migliaia di soldati e ufficiali prigionieri in Germania, tra cui il generale Mac Mahon, riconsegnando 300 cannoni e consentendo l’arruolamento di truppe nelle province. Si dischiuse l’assedio di Parigi per permettere l’ingresso delle truppe di Thiers, che daranno il colpo finale alla Comune.
Questo capiterà ogni qualvolta si renderà poi necessario alle classi dominanti, dalla Prima Guerra mondiale alla comune di Varsavia fino alla recente guerra di Usa e Kuwait contro l’Iraq di Saddam Hussein, per bloccare una rivolta nel sud del paese.
Secondo assunto del marxismo. Come Lenin scrive, «Nella realtà capitalista (...) le alleanze “inter-imperialiste” o “ultra-imperialiste” non sono altro che un “momento di respiro” tra una guerra e l’altra, qualsiasi forma assumano dette alleanze, sia quella di una coalizione imperialista contro un’altra coalizione imperialista, sia quella di una lega generale tra tutte le potenze imperialiste. Le alleanze di pace preparano le guerre, e a loro volta nascono da queste; le une e le altre forme si determinano reciprocamente e producono, sull’unico e identico terreno dei nessi imperialistici e dei rapporti dell’economia mondiale e della politica mondiale, l’alternarsi della forma pacifica e non pacifica della lotta».
Non è necessario ricordare, a proposito delle “leghe di tutte le nazioni”, che né la Società delle Nazioni, istituita dopo la Prima Guerra mondiale, né l’Onu, dopo la Seconda, ottennero alcun risultato nel mantenimento della pace fra le nazioni e nella risoluzione per via pacifica delle loro controversie.
Per prima la borghesia ne è ben conscia: il primo dei 14 punti della bozza del trattato di pace della Prima Guerra mondiale, presentata dal presidente americano W. Wilson, ha del grottesco, con la “abolizione degli accordi e della diplomazia segreta”. Meno ipocrita il Kaiser tedesco a proposito della neutralità del Belgio, non rispettata dagli eserciti della Germania nel 1914: “I trattati sono pezzi di carta”.
Alla luce di queste considerazioni leggiamo lo sviluppo dei principali accordi diplomatici, pubblici e segreti, in quegli anni.
Il 20 maggio 1882 a Vienna viene stipulata la Triplice Alleanza tra gli imperi di Germania, Austria, che già costituivano la Duplice alleanza, e Regno d’Italia, un patto militare difensivo sostenuto principalmente dal governo italiano allo scopo di rompere il suo isolamento, soprattutto dopo lo Schiaffo di Tunisi quando, nel 1881, la Francia impose con una repentina occupazione militare il suo protettorato sulla Tunisia, ambita anche dall’Italia che aveva già stipulato accordi commerciali e di pesca col Bey di Tunisi e dove già operava una solida comunità italiana.
Il complesso trattato prevedeva il suo rinnovo ogni 5 anni con la possibilità di introdurre in quelle occasioni delle variazioni al testo originale. In seguito, mutata la situazione in Europa, l’Alleanza fu principalmente sostenuta dalla Germania in funzione antifrancese; a questo scopo fece notevoli pressioni sulla sospettosa Austria per tenere agganciata l’Italia proponendo che fosse sempre tenuta in essere ma completata con specifici accordi bilaterali in caso di necessità.
Nel 1884/85 si tiene a Berlino la Conferenza per l’Africa, o Conferenza del Congo, con lo scopo di pianificare la spartizione dell’immensa parte ancora libera dell’Africa ed evitare conflitti coloniali diretti tra i paesi europei, che avrebbero potuto innescare nel precario equilibrio della vecchia Europa dei moti rivoluzionari o indipendentisti. Come abbiamo già descritto nei precedenti capitoli, furono gli anni dello “scramble for Africa”, dell’affannosa conquista da parte delle potenze europee, Italia compresa, del continente, con le sue enormi ricchezze di materie prime e basi strategiche lungo le nuove vie di comunicazione terrestri e navali.
Ma non solo in quella direzione si sviluppava l’imperialismo dal baricentro nel vecchio continente, dove si accentuavano i vecchi contrasti tra le economie già affermate e i nuovi legati all’enorme sviluppo della Germania. Negli anni seguenti l’imperialismo inglese, dopo la vittoria in Egitto, da lì parte per consolidare la difficile conquista del Sudan, e, all’estremità opposta del continente, a sottomettere definitivamente il Sudafrica con la seconda guerra anglo-boera. Francia e Germania tentano di ostacolare il progetto inglese di una lunga continuità territoriale da Città del Capo al Cairo occupando i territori sub sahariani ed equatoriali africani. Anche l’Italia negli anni a finire del secolo si impegna in imprese coloniali con le infelici imprese in Eritrea, ora sostenuta dall’Inghilterra in funzione antifrancese e antitedesca.
L’8 aprile 1904, appena iniziato il conflitto russo-giapponese, Inghilterra e Francia sottoscrivono un accordo per consolidare l’espansione inglese in Egitto e francese in Marocco. Poiché l’Inghilterra cercava un alleato sicuro contro la Germania, Parigi ottiene molto di più di quanto offre: il via libera o l’accettazione dello status quo in Senegal, Nigeria, Madagascar e la spartizione della Thailandia. Segretamente gli stati maggiori dei due paesi avviano accordi militari fino allora ritenuti impossibili, la “Entente cordiale”, come furono chiamati. L’Inghilterra, che nel 1902 aveva stretto un’alleanza politico-militare con il Giappone in funzione antirussa, ora si allea, anche se segretamente, contro la Germania.
Da parte sua l’irruente imperialismo tedesco contava sulla sconfitta della Russia zarista per tre importanti obiettivi: 1) imporre alla Russia sconfitta accordi commerciali che ostacolassero l’esportazione di prodotti alimentari russi in Germania ma favorissero l’esportazione di capitali tedeschi in Russia; 2) far saltare l’alleanza franco-russa ed isolare la Francia nel continente europeo; 3) creare condizioni più favorevoli per la penetrazione dei capitali tedeschi nel Vicino Oriente, utilizzando la concessione per la costruzione della ferrovia di Baghdad, definitivamente approvata nel 1903.
A fine 1904 il giovane Sultano del Marocco, Abd al Aziz, smanioso di modernizzare il paese, chiese prestiti all’estero offrendo alti tassi d’interesse garantiti da un consistente aumento di tutte le imposte, dazi e tasse nazionali. Solo la Francia si sbilanciò nella rischiosa operazione, pretendendo però, a garanzia dei suoi prestiti, di installare ispettori in tutti i porti e dogane, come pure nella polizia e nell’esercito, controllando di fatto tutto l’apparato statale, come era stato per la Società del Canale di Suez. Di fatto quel finanziamento trasformava il Marocco in un protettorato francese.
Così Lenin parla di quel prestito ne “L’imperialismo...”: «Nei prestiti, il paese che li contrae, ordinariamente, non riceve più del 90% della somma totale: il rimanente 10% tocca alle banche e agli altri intermediari. In occasione del prestito russo-cinese, di 400 milioni di franchi, le banche ebbero un profitto dell’8%; nel prestito russo (1904) di 800 milioni, del 10%; nel prestito marocchino (1904) di 62 milioni e mezzo di franchi, del 18,75%. Il capitalismo, che prese le mosse dal capitale usurario minuto, termina la sua evoluzione mettendo capo a un capitale usurario gigantesco».
Al tempo stesso la diplomazia tedesca cercava di agganciare la Russia zarista: una prova è data dalla fornitura di carbone della qualità Cardiff (la migliore) da parte della ditta tedesca Hamburg-Amerika Linie per le caldaie delle navi della flotta del Baltico diretta a Port Arthur. Naturalmente un simile trattato commerciale non poteva che essere favorito e sostenuto dallo stesso governo tedesco.
Del 31 marzo 1905 la prima crisi del Marocco (“di Tangeri”). La visita ufficiale dell’imperatore tedesco Guglielmo II in Marocco aveva lo scopo di concludere importanti accordi per gli investimenti che le banche e i maggiori gruppi industriali tedeschi avevano pianificato per quel paese, ma anche di far saltare le manovre espansionistiche francesi, mettendo alla prova l’accordo franco-inglese dimostrando che la Francia, in caso di bisogno, non avrebbe ricevuto alcun aiuto dall’Inghilterra. A Tangeri pronunciò un discorso provocatorio affermando che la Germania non avrebbe permesso il dominio di alcuno sul Marocco, che vi si sarebbe opposta con ogni mezzo, che non avrebbe mai discusso con il ministro degli esteri francese Delcassé, colpevole di condurre una politica estera ostile alla Germania. Seguirono le proteste ufficiali: l’Inghilterra suggerì di non cedere sulla questione del Marocco, di lasciare il ministro Delcassé al suo posto e fece filtrare la notizia di essere disponibile a inviare un esercito di 100-115.000 uomini se necessario.
Il governo francese, viste le difficoltà del suo alleato principale, la Russia zarista duramente provata dal disastro della guerra col Giappone, ma soprattutto perché l’offerta di aiuto militare inglese non arrivò, cedette alle pressioni tedesche, fece dimettere Delcassé e dichiarò di essere disposta a discutere della questione marocchina in una prossima conferenza internazionale, tenuta poi l’anno successivo ad Algesiras.
Il 24 luglio 1905, mentre la sfortunata flotta russa proseguiva la rotta verso il mar del Giappone, nell’isoletta di Bjōrkō nel golfo di Finlandia l’imperatore tedesco Guglielmo II riuscì ad ottenere dallo zar Nicola II la firma di un’alleanza militare difensiva («Se uno Stato europeo attacca uno dei due imperi, la parte alleata s’impegna ad aiutare l’altra parte contraente con tutte le sue forze militari e navali»). Ma il primo ministro russo Vitte e quello degli esteri Lamsdorf, temendo per gli ingenti e vitali investimenti francesi in Russia, costrinsero lo zar e l’imperatore ad inserire nel testo dell’alleanza l’importante clausola della sua non applicazione in caso di una guerra tra Francia e Germania, che di fatto la svuotava di significato strategico per la Germania. Anche per analoghe forti perplessità tedesche il trattato fu lasciato decadere, ma rimane un valido esempio dell’intraprendenza di Guglielmo II nel tentativo di rompere l’accerchiamento diplomatico in cui si trovava allora la Germania, come pure una certa leggerezza o ingenuità dello zar, che agì proprio da “distratto” monarca assoluto.
Il documento sarà poi pubblicato sulle “Izvestija” il 29 dicembre 1917, subito dopo la Rivoluzione d’ottobre, e due giorni dopo su un giornale parigino.
Del 7 aprile 1906 la Conferenza di Algesiras. Furono tre mesi di trattative tra le maggiori potenze, ora presenti anche gli Stati Uniti e l’Italia, influenzate dalla diplomazia tedesca, divisa tra l’ala che premeva per la rottura della conferenza ed il ricorso alla guerra e l’ala prudente, sostenuta da Guglielmo II, che riteneva non ancora pronta la flotta tedesca a contrastare il dominio inglese sui mari, come pure un certo ritardo anche nelle forze di terra.
Nel 1905 l’Inghilterra possedeva 65 navi da battaglia e di linea tradizionali contro le 26 della Germania. Nel 1906 iniziò il varo di una classe di potenti corazzate di ultima generazione, le “dreadnoughts” (“niente temo”). Queste, con corazze di spessore variabile che a centro nave raggiungevano i 28 cm), azionate dalle prime turbine a vapore, raggiungevano la velocità di 22 nodi con un’autonomia di 5.000 miglia nautiche a 20 nodi; avevano 5 lanciasiluri sommersi e, sfruttando l’esperienza di alcune navi da battaglia giapponesi monocalibro impiegate nella battaglia di Tsushima, erano armate con 10 cannoni di grosso calibro a lunga gittata montati su 5 torri binate. Lunghe 166 metri, avevano un equipaggio di 750 marinai. L’Inghilterra intendeva così consolidare il dominio dei mari, aumentare il distacco sulla Germania e indurla a rinunciare alla corsa degli armamenti navali. La Germania invece iniziò subito anch’essa la costruzione di quel tipo di corazzate e nel 1908 ne aveva 9 contro le 12 dell’Inghilterra.
La Francia ad Algesiras ottenne l’appoggio dall’Inghilterra allo scopo di consolidare la “cordiale intesa” con l’ex nemico storico; anche la Russia, fortemente indebolita dalla recente sconfitta e oltremodo bisognosa dei prestiti francesi, sostenne Parigi, come pure l’Italia, che non appoggiò l’alleato tedesco nella Triplice Alleanza. Il capovolgimento di fronte italiano, uno dei tanti, faceva seguito ad un accordo segreto tra Roma e Parigi, siglato nel 1900, sulla spartizione delle zone di influenza nell’Africa settentrionale dove l’Italia, in cambio del sostegno alla Francia in Marocco, avrebbe avuto via libera in Tripolitania, allora sotto l’Impero Ottomano e confinante con il protettorato francese di Tunisia. Nel 1902 l’Italia ampliò il precedente accordo con la Francia con un trattato di reciproca neutralità, aumentando il distacco dalla Triplice Alleanza.
Ad Algeciras prevalse l’ala prudente del governo tedesco che fece un passo indietro sulla questione: fu quindi un successo diplomatico francese. La conferenza riconobbe l’eguaglianza degli interessi economici di tutte le grandi potenze e assegnava alla Francia il controllo dell’ordine interno del Marocco e quello sulla polizia marocchina: erano così poste le basi per l’espansione francese attorno e nella vasta area sahariana e un riconoscimento di fatto del progettato protettorato francese sul Marocco.
Il 31 agosto 1907 a Pietroburgo, Gran Bretagna e Russia stipularono un accordo riguardante gli equilibri in Europa, vista la vitalità della Germania, e le colonie in Asia. Lo spregiudicato imperialismo britannico aveva sempre manovrato per indebolire la Russia, come aveva fatto nell’appena conclusa guerra col Giappone dove la aveva apertamente ostacolata; ma ora, mutati gli equilibri europei, cercava il suo aiuto in caso di una guerra contro la Germania e un utile alleato nella repressione dei moti di liberazione nazionale in Oriente. A sua volta la Russia zarista, sempre più vincolata ai finanziamenti europei, dopo la recente guerra col Giappone era favorevole a un accordo con la Gran Bretagna contro la Germania.
La Persia fu divisa in tre zone: la parte settentrionale cadde sotto la sfera d’influenza russa, quella meridionale sotto quella inglese, quella centrale divenne un’area cuscinetto disponibile alle mire di entrambi. L’Afghanistan fu riconosciuto come un protettorato inglese di fatto, mentre i due paesi decisero di non intervenire negli affari interni del Tibet. Successivamente vi fu un accordo tra Russia e Giappone per stabilire le reciproche zone di influenza nel nord-est della Cina.
Con quell’accordo si strinse la Triplice Intesa tra Gran Bretagna, Francia e Russia, contrapposta alla Triplice Alleanza tra Germania, Austria-Ungheria e Italia. L’Europa risultò divisa in due grandi blocchi militari.
Ma con un componente alquanto instabile, l’Italia, che tentava sempre ovunque di strappare qualche concessione territoriale, specialmente a danno dell’Austria. In particolare l’accordo bilaterale italo-austriaco, nel rinnovo 1887-1892, all’articolo 1, riguardante lo status quo nei Balcani, recitava: «Nel caso che (...) l’Austria-Ungheria o l’Italia si vedessero nella necessità di modificarlo con un’occupazione temporanea o permanente da parte loro, questa occupazione non avrà luogo che dopo un previo accordo tra le due Potenze suddette, fondate sul principio di un compenso reciproco per ogni vantaggio territoriale o d’altra natura che ciascuna di esse ottenesse in più dallo status quo attuale, e tale da soddisfare gli interessi e le pretese ben fondati delle Parti». E all’articolo 2: «Le Alte Parti contraenti si promettono reciprocamente il segreto sul contenuto del presente trattato».
In caso di espansione austriaca nei Balcani, l’Italia era intenzionata a chiedere come compensazione dei territori subalpini degli Asburgo nel Triveneto, mentre Vienna pensava di accontentare Roma con qualche concessione in Albania, desiderio peraltro vanificato dal successivo matrimonio dell’erede al trono Vittorio Emanale di Savoia nel 1896 con la principessa Elena, figlia del re del Montenegro.
Ma gli accordi bilaterali italo-austriaci erano principalmente improntati all’eventualità di un conflitto fra Italia e Francia, sia per questioni africane sia in Europa.
Nel quarto rinnovo del 1902 l’Italia ottenne di aggiungere alcune clausole che le permettessero l’occupazione della Tripolitania e della Libia: il precedente Articolo 1 sui Balcani divenne il 7°, la cui diversa interpretazione tra i due paesi fu alla base dei contrasti sorti dopo la crisi bosniaca del 1908 e la crisi di luglio 1914 dopo l’attentato di Sarajevo. Il Quinto rinnovo del trattato nel 1912 fu anche l’ultimo.
Del 6 ottobre 1908 la crisi dell’annessione della Bosnia-Erzegovina. Secondo il Trattato di Berlino del 1878, raggiunto a seguito della guerra russo-turca del 1877/78, queste due regioni balcaniche, pur facendo ancora parte dell’Impero Ottomano, furono occupate dall’Austria-Ungheria allo scopo di prevenire e fermare i moti indipendentisti che si sviluppavano in tutti i Balcani. Come abbiamo riferito la repressione austriaca fu molto dura. Secondo il trattato l’occupazione doveva essere temporanea e i diritti del Sultano sulle due regioni non venire intaccati. Rimaneva ancora aperta la questione dell’Alleanza dei Tre Imperatori di Austria, Germania e Russia, siglata nel 1881 e scaduta nel 1887 secondo cui Vienna si riservava il diritto di fronte a Germania e Russia di annettersi la Bosnia-Erzegovina quando lo avesse ritenuto opportuno.
La situazione internazionale cambiò radicalmente dopo la rivoluzione dei Giovani Turchi che in quell’anno ottennero dal Sultano una costituzione democratica e altre importanti concessioni.
L’Austria-Ungheria, temendo l’esplosione dei moti indipendentisti nelle due regioni balcaniche, dopo il successo dei Giovani Turchi e l’entusiasmo che generò ovunque, ma soprattutto per evitare la realizzazione di uno Stato panserbo che unisse tutti gli slavi del sud, decise di agire velocemente per l’annessione delle due regioni al suo già multi-etnico impero. Le necessitava però il via libera delle altre potenze europee. Un aiuto inatteso al ministro degli esteri austriaco von Aehrenthal giunse dal suo omologo russo Izvol’skij che ingenuamente per scritto propose uno scambio di favori tra i due paesi: la Russia in cambio dell’assenso all’annessione austriaca delle due regioni avrebbe avuto l’appoggio di Vienna per il transito delle navi militari russe nei Dardanelli.
Per rafforzare quell’annessione Vienna doveva risolvere anche il problema della Bulgaria, principato autonomo governato dal principe viennese Ferdinando di Sassonia-Coburgo Gotha ma nominalmente appartenente alla Turchia secondo il Trattato di Berlino del 1878. Per evitare l’accusa di un’altra violazione a quel trattato il 5 agosto 1908 Aehrenthal scrisse a Ferdinando incitandolo a proclamare l’indipendenza del suo Paese, che fu annunciata due mesi dopo, il 5 ottobre.
Il giorno seguente, il 6 ottobre, l’imperatore Francesco Giuseppe diresse ai popoli della Bosnia e della Erzegovina un proclama in cui, premesso che aveva deciso di dar loro istituzioni costituzionali, affermava: «Richiamandoci ai legami corsi nella storia fra i nostri gloriosi avi sul trono ungherese, estendiamo i diritti della nostra sovranità sulla Bosnia-Erzegovina». L’annessione era così compiuta in modo repentino anticipando ogni possibile obiezione internazionale.
Il governo turco, che già mal sopportava le limitazioni imposte dal Trattato di Berlino, protestò, ma non era in grado di fare di più. Le prime violente reazioni popolari e istituzionali all’annessione partirono dalla Serbia e dalle comunità serbe negli altri paesi, che consideravano le due provincie parti integranti di un prospettato Stato panserbo. Giorgio Karađorđević, il giovane principe ereditario serbo, si mise alla testa di quelle pilotate manifestazioni: furono poi mobilitati 120.000 uomini, messe su organizzazioni per la difesa degli interessi nazionali serbi nella Bosnia-Erzegovina e partirono diverse ambascerie nelle capitali europee per perorare la causa serba.
Per meglio comprendere quelle tensioni occorre ricordare che la Serbia, da poco uscita da un’economia agricola arretrata per una capitalista più moderna, era alla ricerca di nuovi mercati per le sue esportazioni di derrate agricole e bestiame, ma era schiacciata da accordi commerciali con l’Austria che imponevano particolari vincoli al suo commercio estero a vantaggio dell’Austria: un protezionismo simile a quello imposto a suo tempo nel Lombardo-Veneto, che fu un motivo dell’avversità della borghesia imprenditrice lombarda contro l’Austria.
Il nascente irruente nazionalismo serbo in realtà non poteva aspirare alla riunificazione dei serbi dispersi in altri paesi: 1.900.000 in Bosnia-Erzegovina, 600.000 in Dalmazia, 180.000 in Istria, 3.000.000 in Croazia e Slovenia e 700.000 in Ungheria, perché questo avrebbe significato uno scontro diretto con l’Austria e i suoi alleati, dall’esito sicuramente nefasto. La Serbia da subito si orientò, come piccola potenza regionale, in un’espansione territoriale verso sud nella ricerca di uno sbocco al Mediterraneo, in particolare nel porto di Salonicco sull’Egeo, che le permettesse di sfuggire al blocco austriaco di terra e di mare, essendo impensabile uno sbocco serbo all’Adriatico, bloccato dall’Austria. Ma tra la Serbia e l’Egeo c’era la Macedonia, ancora sotto il dominio turco. Qui nel 1908 una rivolta di giovani ufficiali dette l’avvio alla rivoluzione nell’Impero Ottomano: per la Serbia era ora più agevole una guerra contro la Turchia, costruendo un’alleanza con altri Stati balcanici, soprattutto con la Russia, eterna rivale della Turchia.
Anche il Montenegro sollevò proteste; il Principe Nicola reclamò il territorio adiacente a Spizza (ora Sutomore) detenuto dall’Austria, che dominava l’unico porto del Montenegro, Antivari, e la soppressione dell’articolo 29 del Trattato di Berlino che limitava la sovranità montenegrina sulla costa adriatica.
Tutti ora pretendevano qualche cosa, prevalentemente a spese del Sultano, come “compensazione”.
Il ministro russo Izvol’skij, per arginare le conseguenze della sua infelice concessione all’Austria dell’annessione delle due provincie senza una contropartita per la Russia, fece un grande mercanteggiare in giro nelle capitali europee, per ritornare a mani vuote dal suo zar. La Germania si sarebbe accontentata di non meglio precisate compensazioni, mentre l’Italia promise di sostenere la Russia sulla questione degli Stretti in cambio dell’accordo russo sulla ventilata occupazione italiana della Tripolitania, ancora sotto il dominio ottomano. Parigi, pur alleata della Russia, non fece nulla di concreto per aiutare il ministro russo, mentre Londra fu più dura perché sosteneva che i russi non stavano rispettando l’accordo anglo-russo del 1907 in Persia.
Il cancelliere tedesco von Bülow ostacolò il progetto del ministro russo di discutere la questione in una conferenza internazionale e puntò sulla debolezza economica russa in grave crisi finanziaria e molto verosimilmente impedita a muovere guerra. Dette ampio sostegno all’Austria e all’Italia, unite nella Triplice Alleanza, e nel gennaio 1909 il Capo di stato maggiore tedesco scriveva al suo omologo austriaco, indubbiamente in accordo con Bülow: «Nel preciso momento in cui la Russia mobiliterà, mobiliterà anche la Germania e si tratterà indubbiamente di una mobilitazione generale».
Bülow per aumentare l’isolamento della Russia stipulò un accordo con Parigi nel febbraio 1909 in cui riconosceva la supremazia politica della Francia sul Marocco mentre i francesi si impegnavano a non intralciare nella stessa zona gli interessi economici della Germania.
Il 26 febbraio 1909 Vienna raggiunge un accordo con Costantinopoli sul riconoscimento dell’annessione delle due provincie al suo impero, indennizzato col pagamento di 2,5 milioni di lire turche, ma la Serbia, sostenuta dalla Russia, rifiutò il riconoscimento dell’annessione austriaca in mancanza della convocazione di una conferenza internazionale.
Nei giorni seguenti, causa le forti agitazioni in Serbia e in Austria, aumentò la pressione tedesca sulla Russia invitandola a tenere a freno i serbi, in caso contrario la Germania avrebbe consentito all’Austria di agire contro la Serbia nel modo ritenuto più opportuno.
Il 21 marzo partì da Berlino un telegramma, considerato poi un ultimatum della Germania alla Russia, in cui si chiedeva un immediato intervento pacificatore russo in Serbia. Tre giorni dopo, nonostante le pressioni in senso contrario di Londra tramite il suo ambasciatore a Pietroburgo, giunse il consenso russo all’annessione.
Il 27 marzo 1909 Vienna, sentendosi ora al sicuro, decise la mobilitazione contro la Serbia e il Montenegro, mentre Londra a malincuore accettò le manovre di Vienna. Tre giorni dopo la Serbia, sollecitata dalle grandi potenze, informò Vienna che riconosceva l’annessione della Bosnia e Erzegovina, riportava il suo esercito alla situazione precedente la crisi iniziata nel 1908 e intendeva instaurare buoni rapporti diplomatici. Vienna soddisfatta della nota serba e della vittoria diplomatica austro-tedesca, concluse quindi che non era più necessaria alcuna conferenza internazionale e che la questione era da considerarsi conclusa.
Due settimane dopo fu raggiunto un accordo per il Montenegro che ottenne, tramite i buoni uffici di Italia e Inghilterra, alcuni vantaggi di sovranità sulla costa adriatica, dopo di che Vienna chiese alle potenze firmatarie del Trattato di Berlino la soppressione dell’articolo 25 che stabiliva la semplice amministrazione austriaca delle due provincie, accettata da tutti nella settimana seguente.
Quest’annessione aprì però un serio contenzioso diplomatico con l’Italia per quanto riguardava le compensazioni stabilite dall’originario articolo 1 degli accordi bilaterali italo-austriaci rinnovati per il 1887-1892: negli incontri tra i due ministri degli esteri precedenti l’annessione, quello italiano aveva sostenuto l’operato dell’omologo austriaco proprio contando su quell’intesa. A cose fatte, secondo Aehrenthal e il governo viennese, l’Austria non era tenuta a dare alcuna compensazione all’Italia poiché quelle due provincie non erano una nuova occupazione essendo al momento dell’accordo già sotto il loro controllo da quattro anni.
Le proteste italiane non ebbero esito; per la delusione forti furono le discussioni nel parlamento di Roma che però si conclusero con l’approvazione dell’operato della diplomazia italiana e il riconoscimento del controllo austriaco. Germania e Austria ottennero un grande successo politico, diplomatico e territoriale costituendo un confine invalicabile con la Russia, ma incrinando il sostegno del loro alleato più debole: l’Italia.
Del 24 ottobre 1909 l’Accordo di Racconigi tra Regno d’Italia e Impero russo, patto segreto non firmato a Roma, per evitare possibili attentati allo zar Nicola II, ma in quel castello di casa Savoia, sede delle Reali Villeggiature. Era incentrato sul mantenimento dello status quo nei Balcani e teso ad ostacolarvi ogni ulteriore espansione austriaca. Fu firmato all’insaputa della Triplice Alleanza: da quel momento l’Italia, per inserirsi negli affari balcanici, si mise alla ricerca di nuove alleanze; la sua diplomazia si sviluppava su due direttrici: 1) la politica delle compensazioni perché, nonostante tutto, la Triplice era ancora in essere; 2) la politica imperialista della spartizione coloniale. Giocava quindi su più tavoli: con l’Austria giunse in quell’anno ad un “Accordo d’Interpretazione dell’art.7 della Triplice Alleanza”, ma strinse anche accordi separati con la Francia e l’Inghilterra per ottenere via libera nell’espansione africana a danno dell’Impero Ottomano.
Fu in questa fase che si completò l’accerchiamento da sud degli Imperi Centrali; da nord era già avvenuto con l’Intesa Anglo-russa del 1907.
Del luglio 1911 la Seconda crisi marocchina (“crisi di Agadir”). Nonostante gli accordi stipulati nella conferenza di Algesiras l’imperialismo tedesco non aveva mai rinunciato alle pretese sul Marocco, ambite specialmente dal gruppo industriale Krupp per lo sfruttamento minerario di quel paese. La Francia, dal canto suo, era ben conscia che occorreva una reale occupazione militare per concretizzare il suo protettorato: effettuò quindi uno sbarco di truppe occupando Fez. A questa manovra i tedeschi risposero inviando una moderna cannoniera nel porto di Agadir allo scopo di difendere gli interessi dei cittadini e delle imprese tedesche. L’Inghilterra protestò perché temeva la presenza di una base tedesca in Marocco e l’intralcio alle sue rotte commerciali sulle coste africane; sostenne la Francia, rafforzando la “cordiale intesa” e la crisi si risolse diplomaticamente con compensazioni territoriali che ingrandivano i possedimenti tedeschi nel Camerun, rinunciando a ogni rivendicazione in Marocco, anche per ulteriori favorevoli accordi per l’estrazione mineraria. Anche il sultano del Marocco riconoscerà poi, nel 1912, il protettorato francese sul suo paese.
II. La guerra di Libia
1. Conflitto di interessi coloniali sul Nord Africa
L’apertura del Canale di Suez riportò in primo piano l’importanza geo-strategica del Mediterraneo, che aveva perduto dopo l’apertura delle rotte atlantiche per le Americhe e di quella del Capo di Buona Speranza per l’Estremo Oriente: il collegamento per gli importanti mercati asiatici diventava più semplice, rapido e sicuro permettendo un traffico in continuo aumento.
L’Italia per la sua posizione nel Mediterraneo poteva controllare quelle rotte dalle opposte sponde del Canale di Sicilia che, nel tratto più corto, tra Capo Feto presso Mazara del Vallo e Capo Bon nella penisola tunisina di Kelibia, misura 80 miglia, con quasi al centro l’isola di Pantelleria. Avere basi militari su queste tre posizioni e una adeguata flotta in mare comportava un evidente punto di forza.
L’Inghilterra, la maggiore potenza economica e navale del tempo, aveva il completo controllo sulle rotte mediterranee verso l’Estremo Oriente attraverso le basi di Gibilterra, Malta, Cipro, Alessandria d’Egitto, Suez, Kuwait e Aden, mentre su quelle australi controllava Città del Capo, Mauritius, l’India, Ceylon, Penang, Singapore e Hong Kong. È evidente che l’imperialismo anglosassone non avrebbe mai permesso a nessuna potenza di interporsi nelle rotte mediterranee e di costituire una possibile minaccia ai suoi traffici, tanto meno alla velleitaria Italia.
Nella contesa del 1881 sul protettorato francese sulla Tunisia l’Inghilterra, nonostante avesse stipulato accordi con l’Italia in funzione antifrancese, non fece nulla per sostenere le analoghe manovre italiane, perché non era suo interesse che sulla sponda africana del Canale di Sicilia si installassero basi militari italiane. La questione si risolse poi a vantaggio francese nel cosiddetto Schiaffo di Tunisi, e inglese, perché le opposte sponde dello Stretto di Sicilia, le probabili omeriche Colonne d’Ercole, erano tenute da due Stati in continui attriti.
Dopo le disastrose imprese coloniali in Etiopia, chiuse con la sconfitta di Adua nel 1896, all’Italia fu riconosciuta solo la colonia di Eritrea sul Mar Rosso, comunque valido scalo sulle rotte orientali.
Definitivamente sfumata l’occasione tunisina, lo spregevole imperialismo italiano rivolse le sue attenzioni sulla Tripolitania, ancora parte del traballante Impero Ottomano, per orgoglio nazionale, possibilità di investimenti, ma anche per bloccare l’espansione francese che dalla difficile conquista dell’Algeria e ora della Tunisia dirigeva le sue attenzioni verso il Marocco: si voleva impedire che la quasi totalità della sponda meridionale del Mediterraneo fosse controllata dall’imperialismo francese.
Nel lavorio diplomatico italiano si intrecciavano opposti disegni, non solo in merito alle sorti dell’Impero Ottomano, che specialmente l’Inghilterra non voleva indebolire troppo perché utile a frenare l’espansione russa verso i Dardanelli, ma pure verso la Russia, con la quale sempre l’Inghilterra aveva stipulato accordi per la spartizione della Persia, anche per contrastare l’espansione della Germania di Guglielmo II.
La Francia in seguito ottenne l’appoggio dell’Italia per il protettorato sul Marocco in cambio del nulla osta per la Tripolitania. Nelle due crisi marocchine tra Francia e Germania, l’Italia non sostenne l’alleato tedesco nella Triplice ma la Francia. Allo stesso scopo l’Italia sostenne la causa russa per il transito della sua marina militare attraverso i Dardanelli, e nemmeno protestò con energia sulla diversa interpretazione dell’articolo 7 degli accordi bilaterali con l’Austria-Ungheria sulla questione dei Balcani dopo l’annessione della Bosnia-Erzegovina.
La Germania e l’Austria-Ungheria non erano particolarmente disponibili verso le ambizioni italiane sulla Tripolitania perché cercavano di attirare la Turchia nella Triplice Alleanza, prevedendo a breve un conflitto con la Russia, la quale, dopo la sconfitta in Manciuria col Giappone, tornava ad interessarsi dei Balcani.
Inoltre la Germania nel 1904 aveva dato inizio ai lavori per la ferrovia Berlino-Baghdad e ora pensava ad un ambizioso progetto di una ferrovia transahariana che avrebbe dovuto collegare il Mediterraneo con i suoi possedimenti nel Camerun attraverso i territori coloniali di Francia, Inghilterra, Belgio e Portogallo. Per questo aveva pensato ad un controllo delle coste libiche mediato dall’amica Turchia, se non, in caso estremo, ad una occupazione militare della Tripolitania e della Cirenaica.
In questo intreccio di alleanze dichiarate e di accordi segreti la diplomazia italiana si concesse a tutte le altre potenze europee in cambio di un vago via libera per l’occupazione della Tripolitania, l’ultimo paese rimasto della spartizione del Nord Africa, un “grande scatolone di sabbia”, come fu definito dall’opposizione italiana. La neutralità delle altre potenze avrebbe consentito di dover far fronte al solo esercito ottomano.
2. I piani italiani
L’interesse italiano per la Tripolitania era stato costante e in diversi periodi erano stati redatti dei piani per l’invasione, tenuti aggiornati secondo le mutate situazioni: occorreva soltanto attendere l’occasione migliore.
Il primo risaliva al 1885, subito dopo lo Schiaffo di Tunisi, in concomitanza con lo sbarco di truppe italiane e l’occupazione di Massaua, Beilul e Suakin. Richiesta un’azione rapida, che mettesse le altre potenze di fronte al fatto compiuto, prevedeva un contingente minimo di 30.000 uomini con due sbarchi principali presso Tripoli e Bomba, in Cirenaica. Avanzava però forti dubbi dal punto di vista economico sulla convenienza di una colonizzazione delle due regioni per il loro scarso sviluppo, che avrebbe richiesto forti spese ed investimenti, senza una immediata contropartita.
Il piano fu ripreso e aggiornato nel 1897 dalla Regia Marina, in seguito all’ennesima crisi diplomatica con la Francia. Rilevava che la popolazione arabo-berbera mal si sottometteva agli ottomani e quindi era possibile attirarne le simpatie. Consigliava uno sbarco presso il capo Tajura, prossimo a Tripoli, sostenuto da un bombardamento dei forti a difesa della città, mentre il grosso della flotta turca doveva essere tenuta lontano e quella locale contrastata con adeguate forze. Un successivo aggiornamento del 1910 segnalava l’importanza strategica di Tobruk, prossimo al confine egiziano, e la fertilità dell’area di Derna, sempre in Cirenaica.
Dal 1890 il commercio della Tripolitania iniziò a spostarsi verso l’Italia arrivando nel 1905 ad un tonnellaggio di merci doppio di quello con gli inglesi e quadruplo di quello con i francesi. Ma la rivoluzione dei Giovani Turchi del 1908 rese possibile in Tripolitania e in Cirenaica una ripresa della presenza economica anglo-francese e un significativo contrarsi degli ormai vasti interessi italiani, in particolare del Banco di Roma che aveva fatto ingenti investimenti in attività produttive, in particolare nel periodo della crisi economica tra il 1900 e il 1903.
3. La nuova rapace finanza romana
Il Banco di Roma era nato nel marzo 1880 mediante l’acquisto di quote azionarie in molteplici settori: opere idrauliche e bonifiche, ferrovie e tranvie urbane, opifici.
Il periodo economico era difficile, con una crisi tra il 1882 e il 1883, una ripresa dal 1884 al 1887 e una successiva crisi dal 1888 al 1894, segnata dall’abolizione e dal ripristino del corso forzoso della moneta. Molti i fallimenti, soprattutto nella nobiltà romana, tra cui i vertici della banca, che si era lanciata in spese ed investimenti azzardati. Il Banco, sul punto di fallire, fu salvato con i fondi del Crédit Société Financière ottenuti dall’Amministrazione dei Beni della Santa Sede.
Ma con la ripresa economica il Banco ampliò la sua sfera d’azione oltre il Lazio, crebbero i depositi e gli utili e si recuperarono i finanziamenti, ritenuti ormai persi, erogati per conto del governo per la penetrazione in Somalia. In Italia si dovette affrontare la concorrenza del capitale tedesco che nel 1894 aveva fondato la Banca Commerciale Italiana e contribuito a quella del Credito Italiano.
Tra i nuovi dirigenti Pacelli, proveniente dalla media borghesia, si mostrò il più intraprendente nel curare gli affari e della banca e del papa, di cui divenne il consigliere finanziario personale. Lo indusse a sostenere in prima persona un considerevole aumento di capitale del Banco di Roma le cui nuove azioni furono collocate in mezza Europa. In questo modo si potevano promuovere in Italia iniziative industriali di maggior portata utilizzando capitali stranieri. Pacelli collocava presso la propria clientela la gran parte delle azioni delle nuove società, ma trattenendo per il Banco la quota minima necessaria a mantenerne il controllo.
Il Banco accrebbe gli affari e già nel 1901 apriva filiali a Torino, Genova, poi a Parigi e, nel 1905, ad Alessandria d’Egitto, per sostenere il commercio degli importatori di cotone e degli altri investimenti italiani nel Paese. Superava ogni crisi con un progressivo aumento del capitale sociale e del valore azionario: dai 6 milioni di capitale alla fondazione nel 1880, si giunse ai 200 milioni nel 1912 divenendo la prima banca di credito ordinario in Italia. I settori industriali che controllava erano estremamente diversificati, in Italia e all’estero: sulle coste del Mediterraneo aprì filiali in Spagna, Malta, Il Cairo, Costantinopoli e, sollecitato dal governo italiano, il Banco nel 1907 apriva filiali a Tripoli e Bengasi.
Cospicui furono gli investimenti del Banco in Tripolitania e in Cirenaica. La nomina del direttore della filiale di Tripoli era stata suggerita dal Ministero degli Affari Esteri allo scopo di una “pacifica penetrazione” attraverso ingenti investimenti nella regione, tali che Francia, Gran Bretagna e Russia non avrebbero avuto potuto opporsi ad una conquista italiana della Tripolitania qualora l’Impero Ottomano li avesse contrastati. Il Banco si era impegnato con il ministro a provocare a Tripoli «un incidente un po’ gonfiato» per dare modo al governo italiano di procedere militarmente. Il Banco vi finanziò ogni attività proposta e nuove industrie di ogni genere, anche di dimensioni superiori al reale tessuto economico locale, costituito da piccole entità, e l’acquisto di vaste proprietà fondiarie. Istituì linee di collegamento marittimo costiero e agenzie commerciali in ben 16 località. Il tutto a scapito del commercio inglese. Però la distanza tra i vari centri, collegati da incerte vie carovaniere, rallentava gli scambi.
Venuti a sapere di analoghe iniziative inglesi, tra il 1910 e 1911 si ebbero due missioni di esplorazione sulla natura del suolo e del sottosuolo libico, sotto un’unica direzione, una a carico del Ministero degli esteri l’altra del Banco di Roma.
Accanto ad attività redditizie, dopo solo 4 anni molte imprese lamentarono consistenti perdite. Pacelli minacciò allora il governo italiano di cedere le attività del Banco a gruppi stranieri, il che avrebbe tolto al governo italiano il pretesto delle difesa dei “consistenti interessi”: si affrettarono quindi i tempi dell’invasione.
Le filiali del Banco, chiuse con la guerra, riaprirono solo quando l’esercito italiano si attestò solidamente al di là della linea costiera.
I danni subiti dal Banco in tutte le filiali operanti nel mondo musulmano, dal Cairo fino a Costantinopoli, furono valutati complessivamente in circa 20 milioni di lire, un decimo del suo capitale; nonostante le richieste di Pacelli al Banco non fu assegnato alcun indennizzo. Si accesero in merito infuocate discussioni parlamentari, ma gli avvenimenti che seguirono nello scenario italiano, la crisi delle guerre balcaniche e l’approssimarsi della Prima Guerra mondiale rinviarono ogni decisione.
4. Le prime fasi
La rivoluzione dei Giovani Turchi, con la conseguente instabilità dovuta alle spinte indipendentiste nei Balcani ottomani, sostenute da Austria e Inghilterra, fu l’occasione per attuare i piani predisposti per l’invasione della Tripolitania e della Cirenaica. Il disinteresse o il vago assenso all’invasione italiana delle maggiori potenze europee, che avevano ben sperimentato il valore dell’esercito ottomano, si spiega con la convinzione di un secondo insuccesso italiano in Africa.
Due cause contribuirono alla soluzione positiva dell’intervento. La principale fu, nel luglio 1911, la seconda crisi del Marocco quando, allo sbarco di truppe francesi e all’occupazione di Fez, la Germania rispose inviando nel porto di Agadir la cannoniera Panther a difesa degli interessi dei cittadini e delle imprese tedesche. Il governo italiano temeva che la Germania occupasse una o entrambe le province libiche e bloccasse la sua espansione coloniale nel Magreb. La seconda fu la minaccia di cessione delle attività del Banco di Roma a banche tedesche.
Politici e strateghi italiani erano convinti che la giovane nuova classe dominante turca, impegnata ad arginare le sempre più audaci spinte indipendentiste che agitavano le periferie dell’Impero, non si sarebbe prestata ad un conflitto con l’Italia e che sarebbe bastata una rapida ed incisiva azione militare nei punti chiave per costringerla ad accettare le condizioni italiane.
La quasi totalità della stampa nazionale, compresa quella cattolica, appoggiò l’operazione, descrivendo quella parte dell’Africa mediterranea come un paradiso ricco di materie prime e territori fertili che attendevano solo di essere coltivati, utile sfogo per l’emigrazione italiana; solo i socialisti e il sindacalismo rivoluzionario ne denunciarono il carattere imperialista.
A favorire il rapido intervento venne la chiusura “estiva” del Parlamento, iniziata a luglio e fatta terminare nel febbraio 1912, a cose fatte. Giolitti, a capo del suo IV governo, e re Vittorio Emanuele III, con l’appoggio del ministro degli esteri, il marchese Paternò di San Giuliano, e dei vertici militari, nemmeno ne informarono il Parlamento, tutto fu pianificato in segreto nell’apparente atmosfera vacanziera.
Seguiamo la successione dei principali eventi e le ipocrite manovre diplomatiche che precedettero la guerra:
Agosto 1911. I rapporti italo-turchi si deteriorano su pretesti economici e commerciali; la stampa turca chiede l’espulsione dall’Impero di tutti gli italiani, circa 8.000, prevalentemente stanziati nell’area sul Bosforo, Smirne e Beirut; nelle città libiche si indicono dimostrazioni contro la penetrazione delle imprese italiane, già da tempo sotto controllo e ostacolate dal governo turco. In Italia è fatta circolare la possibilità di un’occupazione della Libia, che poi Giolitti definirà “una fatalità storica”.
17 settembre. L’ordine del giorno finale della direzione nazionale del PSI dichiara l’opposizione a “qualsiasi avventura militaresca in Tripolitania”.
19 settembre. Mobilitato l’esercito italiano e allertata la flotta.
20 settembre. Il consiglio direttivo della Confederazione Generale del Lavoro cerca di coordinare la mobilitazione dei lavoratori per uno sciopero generale di 24 ore per il 27 settembre; emergono subito forti contrasti all’interno del PSI tra l’ala riformista, favorevole alla guerra, e quella contraria dei massimalisti e dei socialisti rivoluzionari; le più efficienti si rivelano le Camere del Lavoro a direzione sindacalista rivoluzionaria.
21 settembre. Tre piroscafi turchi con armi e soldati partono per portare rinforzi; uno, il Derna, salpa verso Tripoli con un carico di fucili Mauser, un secondo nel Mar Rosso è catturato dalla marina italiana, del terzo se ne perde la traccia.
23 settembre. Al comandante della flotta, ammiraglio Aubry, è ordinato di impedire al Derna di giungere a Tripoli, ma il piroscafo, con nome contraffatto ed innalzante bandiera tedesca, non è riconosciuto. Sono richiamati alle armi i militari di prima categoria della classe 1888.
24 settembre. Il governo italiano consegna al governo turco una nota di protesta per i soprusi contro gli italiani in Libia e per i trasporti turchi nell’area. Il governo turco accorda varie concessioni alla comunità italiana, facendo salvo il prestigio del Sultano.
25 settembre. I capi tribù arabi tripolini telegrafano al governo inglese di intervenire per impedire l’occupazione italiana. Il Derna attracca a Tripoli.
26 settembre. Il governo italiano invia alle potenze europee una nota in cui spiega che, a causa dell’espansione francese in Marocco e alle sue pretese ulteriori, si vede costretto a risolvere la questione della Tripolitania, lasciando al governo turco la possibilità di appianare pacificamente la controversia.
27 settembre. Sciopero generale di 24 ore contro la guerra, ma, per i forti contrasti ai vertici delle organizzazioni proletarie e per la mancata adesione dei ferrovieri, fallisce al meridione e nei grandi centri, riesce in quelli minori; per la repressione governativa si riescono a tenere solo 4 comizi in altrettante città, tra cui quello di Benito Mussolini e del giovane Pietro Nenni a Forlì.
28 settembre. A Langhirano, presso Parma, gli scioperanti che cercano di bloccare i tram e i treni coi coscritti sono attaccati dai carabinieri che fanno 4 morti e 7 feriti. L’ambasciatore italiano a Istanbul consegna al governo turco una perentoria nota di protesta per gli avvenuti trasporti militari; dà tempo 24 ore per una risposta conciliatoria e di non ostacolo a tali manovre. La flotta turca lascia Beirut con apparente direzione Tripoli, ma inverte la rotta e si mette al riparo nei Dardanelli. Cacciatorpediniere e incrociatori italiani nell’Adriatico, davanti alle coste albanesi e greche, affondano e danneggiano naviglio militare turco; un breve cannoneggiamento dalle navi italiane, in risposta a fuoco da terra turco, colpisce per errore delle batterie costiere austro-ungariche provocando le forti proteste di Vienna per la presenza della flotta italiana in assetto di guerra sotto le sue coste, in violazione degli accordi bilaterali sulle aree di influenza.
29 settembre. La risposta conciliatoria turca arriva con due ore di ritardo, e ciò è pretesto al governo italiano dichiarare la guerra: lamenta debiti non pagati dallo Stato turco e da membri della famiglia imperiale, un atto di pirateria vecchio di anni, una rapina ai danni di una ditta italiana, concessioni rescisse e non meglio precisati soprusi.
30 settembre. La Turchia, ricevuta la dichiarazione di guerra, invia alle potenze una nota in cui dichiara che il governo italiano rigetta le sue concilianti posizioni e invita i governi a farsi tramite presso quello italiano per “arrestare gli effetti nefasti di una guerra che non ha cause reali”.
2 ottobre. Alla squadra navale dell’Adriatico è ordinato di mantenersi a sud del Canale di Otranto e le è vietato di bombardare le batterie costiere per evitare contrasti con Vienna, dove stanno montando sentimenti di sfiducia verso Roma, al punto che alcuni comandanti militari propongono di minacciare una invasione dell’Italia per costringerla a ridimensionare il suo impegno in Libia.
3 ottobre. Dopo il rifiuto della resa della guarnigione turca, la squadra navale italiana dispiegata di fronte al porto di Tripoli inizia i bombardamenti dei forti, presidiati da pochi cannonieri. Scarsa reazione del presidio turco che man mano abbandona la città ritirandosi nelle oasi.
4 ottobre. Una squadra navale italiana dopo un breve cannoneggiamento sbarca un piccolo contingente e occupa Tobruk, strategicamente importante perché permette il controllo costiero da e per l’Egitto tagliando le linee di collegamento terrestri e navali delle forze ottomane.
5 ottobre. Cessa ogni resistenza turca, 1.700 marinai occupano Tripoli in attesa che le condizioni del mare permettano lo sbarco del contingente italiano di terra.
11-12 ottobre. Sbarcato un primo contingente italiano di 35.000 uomini.
14 ottobre, Mussolini, Nenni e altri attivisti contrari all’impresa tripolina sono arrestati e rinchiusi per alcuni mesi nel carcere di Bologna.
5. Le forze in campo
Lo schema della guerra si basava su due convinzioni che si rivelarono subito errate. La prima che l’occupazione dei più importanti centri costieri della Tripolitania e della Cirenaica avrebbe indotto subito la Sublime Porta a cedere e a chiedere una composizione diplomatica del conflitto. La seconda che la popolazione, ritenuta avversa ai turchi, non avrebbe preso le armi in loro sostegno. La guerra, altezzosamente definita “una passeggiata”, fu quindi impostata con obiettivi e mezzi limitati, inizialmente volti al controllo dei mari per impedire i rifornimenti turchi, e a sbarchi nei punti nevralgici senza penetrare in profondità nel territorio.
Questioni di politica internazionale consigliavano di circoscrivere le operazioni solo alla Tripolitania e alla Cirenaica escludendo altri punti vitali dell’Impero Ottomano.
La guerra prese invece una piega diversa: il teatro delle operazioni si estese al Mediterraneo orientale e al Mar Rosso, necessitando di maggiori forze e più tempo.
Francia e Inghilterra, formalmente neutrali, finsero di ignorare il contrabbando a favore dei turchi attraverso le coste e le piste della Tunisia e dell’Egitto: la guerra si sa è un’ottima occasione per far affari.
Il primo contingente italiano era composto di 34.000 uomini, prelevati dalle classi 1889 e 1890 già sotto le armi, più i richiamati della classe 1888, tra fanteria, artiglieria, bersaglieri, zappatori e telegrafisti, con 1.300 quadrupedi, 1.050 carri e 72 cannoni di vario calibro e utilizzo. In base all’esperienza delle campagne d’Etiopia, quando i reparti erano stati formati con elementi eterogenei, volontari, per sorteggio e da quelli di punizione privi di affiatamento e esperienza, qui si cercò di impiegare reparti tratti dall’organico dei vari corpi d’armata, dotati di servizi propri.
Fu necessario inviare forze ben superiori del previsto per l’errata convinzione circa la non ostilità della popolazione locale, per l’ampliarsi del teatro di guerra fino alle oasi, per contrastare la guerriglia e il consistente contrabbando di materiale bellico per terra e per mare. Tra ottobre e dicembre 1911 arrivarono altri 55.000 uomini con ingente materiale, quadrupedi e carri e tra il gennaio e ottobre 1912 altri uomini per rimpiazzare i caduti e sostituire le classi dell’88 e dell’89 con un movimento complessivo di ben 200.000 uomini. La Regia Marina partecipò con due squadre al gran completo, la divisione del Mar Rosso, una divisione siluranti, navi scuola, navi ospedale, un gran numero di unità minori per circa un centinaio di battelli, tra cui 10 corazzate.
L’esercito ottomano era stato riorganizzato dal maresciallo tedesco von der Goltz il quale tentò di imporre la coscrizione obbligatoria, con scarso successo, migliorare le fortificazioni costiere in Tripolitania dove erano stanziati circa 4.500 uomini e in Cirenaica con circa 2.000, ma con ridotta artiglieria da fortezza e da campo.
A questi si unì un numero imprecisato di forze arabe, in parte regolarizzate, altre organizzate in “mehalla”, ovvero unità tribali al seguito dei loro capi; la composizione di queste unità era determinata dalla dimensione della Cabila di appartenenza, che doveva fornire un determinato contingente e tenerlo a numero. Erano però all’ordine di ufficiali turchi, molti dei quali, tra cui Mustafa Kemal (che sarà Atatürk), erano riusciti a raggiungere la Libia attraverso la Tunisia e l’Egitto.
La marina turca, di circa 50 navi, era dotata di alcune moderne unità veloci e ben armate di costruzione tedesca e altre antiquate o di modesto tonnellaggio. La squadra principale, di base a Beirut, allo scoppio delle ostilità si ritirò nei Dardanelli a rinforzare le difese di Istanbul. Le squadre di Albania e del Mar Rosso erano composte da naviglio minore.
6. Lo sviluppo degli armamenti
I miglioramenti negli armamenti terrestri e navali furono continui e notevoli, in precisione e in potenza, frutto dell’impetuoso sviluppo della tecnica. La capacità produttiva dell’industria tedesca fu al primo posto a rifornire ampiamente l’esercito turco in quantità, qualità, e nell’addestramento. Anche i mezzi navali italiani, prevalentemente dell’Ansaldo di Genova, erano di buon livello, compresi gli equipaggi.
Per la prima volta le truppe italiane furono dotate di automobili e motociclette. Ormai erano ampiamente usate le mitragliatrici Maxim, di fabbricazione inglese, che risultarono le migliori, quelle di fabbricazione italiana si rivelarono poco affidabili.
Un cavo telegrafico sottomarino fra Tripoli e Malta fu tagliato da navi italiane nei primi giorni di guerra. Di particolare importanza fu l’allestimento del primo servizio regolare di radiotelegrafia campale su larga scala, realizzato dal corpo del Genio militare italiano con la collaborazione in loco dello stesso Guglielmo Marconi; le ancora pesanti e delicate attrezzature erano trasportate su cammelli lungo le piste del deserto.
La ricognizione dall’alto era effettuata da palloni frenati e dirigibili. Molto scalpore fece il primo uso di alcuni piccoli aeroplani, trasportati smontati per nave e rimontati in loco, usati solo per la ricognizione aerea.
7. Gli sbarchi e le basi costiere
Dopo aver occupato con relativa facilità Tobruk e Tripoli, distanti tra loro circa 1.350 km, Derna, dopo i primi sbarchi del 16 e 17 ottobre, fu occupata stabilmente solo il 20 contro una vivace reazione turca. Ad Homs, che si credeva abbandonata dalla guarnigione, lo sbarco iniziò il 17 ottobre ma ci vollero ben 10 giorni di combattimenti per occupare stabilmente la città. Lo sbarco a Bengasi, la capitale della Cirenaica, tra il 19 e il 20 ottobre, fu l’operazione più complessa sull’unica spiaggia in mezzo a delle saline, con notevoli perdite italiane per la forte reazione della guarnigione e dei mehalla. Un insediamento di circa 20.000 mehalla ben armati, con artiglieria e ufficiali turchi, bloccò ogni offensiva italiana e solo nella battaglia del 12 marzo 1912 furono definitivamente sconfitti lasciando sul campo migliaia di morti.
Già in quella prima settimana crollò la convinzione dei comandi italiani che si sarebbe potuto vincere senza quasi combattere e ci si rese conto della reazione delle popolazioni indigene. Particolarmente attiva fu la componente tradizionalista senusside, che già mal sopportava il movimento riformatore dei Giovani Turchi, la quale sollevò una sorta di guerra santa contro gli occupanti.
L’esercito turco quasi senza combattere si era ritirato nelle oasi prossime alle città, alienandosi le simpatie della popolazione che lo accusava di viltà per aver ceduto agli italiani, tanto che buona parte della milizia libica disertò. I comandi italiani non approfittarono di questa divisione ed usarono il pugno di ferro contro tutti.
Dopo il primo sbandamento, le forze turche e le milizie libiche si riorganizzarono sotto il comando del colonnello turco Neşet Bey, stimato dai locali, e portarono due attacchi ben coordinati ma infruttuosi, il primo a Sciara Sciat il 23 ottobre 1911 poi a Henni il 27 e 28 ottobre.
Il piano turco-libico comprendeva attacchi diversivi su più punti dall’esterno delle trincee contemporaneamente ad azioni di guerriglia dall’interno della città alle spalle delle linee italiane. Una compagnia di bersaglieri, costretta a ripiegare ed arrendersi, fu subito passata per le armi. Il successivo vigoroso contrattacco turco riprese il controllo della zona lasciando però sul campo 378 morti e 125 feriti. Seguì un immediato rastrellamento e rappresaglia italiana in città e nelle oasi circostanti, fortemente condannata dalla stampa internazionale, con un imprecisato numero di morti e 1.300 prigionieri, poi trasferiti alle isole Tremiti. Ma il controllo della zona non fu mai definitivo e l’aerea controllata fu ristretta abbandonando alcune posizioni avanzate.
Giolitti aveva necessità di dimostrare alle potenze europee che la conquista italiana era definitiva e stabile e, per metterle di fronte al fatto compiuto, pur avendo occupato solo alcune città e pochi tratti separati delle coste libiche, convinse il re a proclamare frettolosamente, il 5 dicembre, l’annessione della Tripolitania e della Cirenaica. Infatti la cittadina portuale di Misurata era saldamente in mani ottomane, e da essa affluivano rifornimenti. Il governo ottomano non accettò mai quel proclama, forte anche delle negative reazioni delle potenze europee, tra cui quella del Kaiser, che la definì un atto da “banditi di strada”.
I comandi ammisero la necessità di cambiare strategia, da una guerra di rapido annientamento ad una di logoramento, anche perché le truppe italiane, equipaggiate all’europea e addestrate alle battaglie campali, erano totalmente inadatte e prive di esperienza nei combattimenti di guerriglia in aree desertiche delle quali non esistevano nemmeno le mappe. Ancora presente il ricordo del disastro di Adua, prudentemente passarono a fortificare la fascia costiera evitando uscite avventate in profondità, nella certezza che il nemico non si sarebbe fatto agganciare.
8. Le battaglie delle oasi
A sud di Tripoli si estendeva una vasta distesa di molte oasi all’interno delle quali si nascondevano consistenti formazioni di truppe turco-libiche che impegnarono costantemente quelle italiane; queste riuscirono ad ampliare l’area controllata solo con un susseguirsi di avanzate, ripiegamenti e riconquiste. Le forze impegnate erano notevoli e con continui rinforzi. La conquista della zona fortificata di Ain Zara, nell’entroterra di Tripoli, fu complessa e con ripetuti combattimenti. Si dovettero neutralizzare le oasi di Zuara e Zanzur, sulla costa presso il confine tunisino, da cui partivano attacchi notturni su Tripoli, ma erano soprattutto centri del contrabbando di armamenti.
Significative le perdite, anche per il colera già presente in città: nell’inverno del 1911 colpì 1.080 militari italiani con 333 morti; non è mai stato comunicato il numero di quelli del campo di Ain Zara dove infettò 242 turchi su poco più di 2.000 uomini.
Nel Mar Rosso tre navi della Regia Marina il 7 gennaio 1912 distrussero 7 cannoniere turche, permettendo il trasferimento in Libia di unità di ascari dall’Eritrea, idonei a operare in quei teatri di guerra. A questi si aggiunsero poi dei volontari libici.
Ma fin dall’inizio fu difficile tenere Tobruk e specialmente Derna per la sua posizione ai piedi di un altopiano che da 200 metri precipita in mare, e furono fino alla fine delle ostilità sempre sotto attacco turco. Nel giugno 1912 fu occupato il porto di Misurata. A fatica e con notevole dispendio di energie lentamente si ampliava la zona sotto il controllo delle forze italiane, senza mai giungere a sbaragliare le forze turco-libiche che si ritiravano nelle oasi dopo ogni attacco italiano per preparare nuove incursioni.
Le due regioni ad occupazione avvenuta saranno indicate con l’antico nome romano di Libia, sostituendo quello turco di Vilayet di Tripolitania. Ma, per la distanza fra Tripoli e Bengasi e la difficoltà dei collegamenti tra loro, Giolitti decise di rendere autonome la Tripolitania e la Cirenaica con due comandi indipendenti. La intermedia costa della Sirte, inospitale e desertica, non fu interessata da alcun progetto.
9. Il fronte dell’Egeo
Fin dai primi mesi del 1912 le potenze europee si attivarono per una soluzione diplomatica, soprattutto dopo la prematura annessione italiana. La Turchia, benché disposta ad accordare una qualche forma di protettorato italiano sulla Libia, mantenendo l’integrità dell’impero, non interrompeva le operazioni né chiedeva la resa.
L’Italia, che non aveva ancora ottenuto una reale significativa vittoria, decise di aprire un secondo fronte. La scelta dell’obbiettivo, non facile per non interessare aree di influenza delle altre potenze, infine ricadde su alcune isole del basso Egeo, anche per creare porti rifugio alle navi impegnate nel blocco delle coste turche.
Le nuove iniziative militari italiane ebbero inizio nella notte tra il 17 e il 18 aprile quando furono tagliati i cavi telegrafici sottomarini tra le isole Imbro, Lemno e il continente. Dieci giorni dopo fu occupata l’isola di Stampalia con l’obbiettivo di occupare tutte le Sporadi meridionali. Lo sbarco più significativo e meglio riuscito, combinando forze di terra e di mare, avvenne nell’isola di Rodi il 4 maggio, occupata il 17 quando tutta la guarnigione turca si arrese, ottenendo l’onore delle armi. Qui la popolazione di origine greca accolse amichevolmente le truppe italiane, mentre quella turca non si rivelò ostile. Furono poi occupate altre isole delle Sporadi con il pretesto di contrastare il contrabbando di armi; l’ultima, la tredicesima, l’isola di Coo il 20 maggio. All’insieme di quei possedimenti fu dato il nome di Dodecaneso.
A scopo dimostrativo, ma anche per saggiare la difesa dei Dardanelli, dove era sempre rifugiata la flotta ottomana, fu organizzata una spedizione di 5 torpediniere veloci con l’incarico di spingersi fin dove possibile all’interno dello stretto. Nella notte del 18 luglio le siluranti giunsero fin sotto il tratto più stretto di Kilid Bahr, difeso da postazioni di artiglieria sulle opposte sponde. Nonostante i tiri le siluranti ritornarono indenni.
10. La pace di Losanna
Nonostante gli ultimi successi militari italiani il governo ottomano non intendeva chiedere l’armistizio né tanto meno la resa, anche se conscio dell’impossibilità di riprendersi Tripoli o almeno altre città minori. Dopo i primi contatti informali nel luglio iniziarono a Losanna quelli ufficiali, che procedevano a stento per una seria crisi politica nel governo ad Istanbul. Furono sospesi e ripresi più volte in quell’estate senza reali progressi, mentre peggiorava la situazione interna all’Impero, con la diserzione di molti reggimenti in Turchia e nella Tracia e per il fermento dei popoli balcanici insofferenti al dominio turco.
Il 3 ottobre Giolitti minacciò di bloccare il trasporto di truppe turche via mare. Ma fu la preoccupazione del governo turco per la situazione sempre più conflittuale negli Stati balcanici – l’8 ottobre il Montenegro dichiarò guerra alla Turchia – a convincerlo a firmare i preliminari di pace il 15 ottobre.
Il 18 ottobre, Serbia, Regno di Montenegro, Regno di Grecia e Regno di Bulgaria, alleati nella Lega Balcanica, attaccarono i possedimenti ottomani in Europa. Nello stesso giorno le delegazioni di Italia e Turchia sottoscrivevano il trattato di pace.
Per la fretta di entrambe le parti di concludere e per le ripetute sostituzioni dei delegati turchi, l’accordo fu un accomodamento poco chiaro, con lacune ed incognite che avrebbero sicuramente creato problemi, se non fosse decaduto per la successiva dichiarazione di guerra alla Turchia nel 1915. Il Sultano, che non si dichiarava sconfitto, concedeva solo l’autonomia alla Tripolitania e alla Cirenaica e non riconosceva la sovranità dell’Italia sulla Libia. Ottenne anche di mantenere la sovranità califfale, ritenuta a torto dai negoziatori italiani di puro carattere religioso, con un suo rappresentante in ognuna delle due provincie.
La restituzione delle isole del Dodecaneso alla Turchia era subordinata al totale ritiro delle truppe ottomane in Libia e alla completa cessazione di ogni attività militare. Ma alcuni reparti turchi, che non riconoscevano il trattato e volevano continuare la guerra, furono lasciati in loco fino al termine delle guerre balcaniche. Inoltre buona parte delle popolazioni arabe della Cirenaica e della Tripolitania non si rassegnarono al fatto compiuto e continuarono per ancora due decenni tenaci azioni di guerriglia; queste cessarono definitivamente solo con la cattura e l’esecuzione del capo dei senussi ribelli, Omar al-Mukhtar, il 15 settembre 1931. Per questi motivi la restituzione del Dodecaneso avverrà solo dopo la Seconda Guerra mondiale.
L’Italia proclamava la sua sovranità sulla Libia e si impegnava a versare alla Turchia annualmente una somma corrispondente alla media dei tributi percepiti dalle due provincie negli ultimi tre anni.
I costi umani furono nell’esercito italiano ufficialmente di 3.431 morti, di cui 1.948 per malattia e di 4.220 feriti, mentre si indicano in 14.000 i caduti turco-libici e in 5.370 i feriti. A questi si aggiungono i 3.053 prigionieri deportati alle Tremiti, Ponza, Favignana, Ustica e Gaeta, dei quali alcune centinaia morirono già durante il trasferimento. Vergognose efferatezze furono ordinate dai comandi militari italiani contro i prigionieri, gli oppositori e contro la popolazione libica in generale.
11. La sinistra italiana e la guerra
La campagna di stampa a sostegno della guerra fece emergere le contraddizioni all’interno delle organizzazioni proletarie, e in particolare del PSI, che da anni aveva ammorbidito le sue posizioni in appoggio ai governi Giolitti. Questo accelerò il processo di chiarificazione e la formazione della corrente rivoluzionaria all’interno del Partito, che poi, dopo il macello della Prima Guerra mondiale, ma quando l’ondata rivoluzionaria si stava esaurendo, nel 1921 a Livorno darà vita al Partito Comunista d’Italia.
Così scrivemmo su “L’Avanguardia” del 21 gennaio 1912 nell’articolo “L’unanimità”, commentando la nostra battaglia contro la guerra di Libia:
«I compagni nostri non hanno potuto o saputo renderla cosciente [la classe lavoratrice] in tempo dei suoi veri interessi; e i proletari sono andati tranquillamente al macello. Noi avremmo dovuto dire alto e forte che l’unanimità era una chimera, che di partiti contrari alla guerra ce ne era uno: il nostro (...) Le divergenze del pensiero borghese non derivano da profonde incompatibilità teoriche, ma da diversi sistemi di interessi, e svaniscono quando si tratta del loro fine comune: il sempre maggiore sfruttamento dei lavoratori. Come potevamo dir questo alle masse, se i nostri dirigenti erano stati fino allora gli alleati, diciamo pure gli ingenui servitori, di un governo borghese?».
Così Lenin poi si esprimerà in merito alla guerra di Libia in una nota di “Imperialismo e socialismo in Italia”, del 1915, dove sottopone a feroce critica la posizione di tutti quei teorici e dirigenti socialisti italiani che, utilizzando subdoli ragionamenti e ipocriti sofismi, si pongono al servizio della borghesia:
«Le origini dell’imperialismo italiano e il passaggio che costituisce l’essenza dell’epoca contemporanea in Italia ha un particolare risvolto, il passaggio cioè dall’epoca delle guerre di liberazione nazionale all’epoca delle guerre di rapina imperialistiche e reazionarie. L’Italia democratica e rivoluzionaria, cioè l’Italia della rivoluzione borghese che si liberava dal giogo austriaco, l’Italia del tempo di Garibaldi, si trasforma definitivamente davanti ai nostri occhi nell’Italia di una borghesia che opprime altri popoli, che depreda la Turchia e l’Austria, nell’Italia di una borghesia brutale, sudicia, reazionaria in modo rivoltante, che all’idea di essere ammessa alla spartizione del bottino si sente venire l’acquolina in bocca (...) Politica coloniale e imperialismo non sono affatto deviazioni morbose e guaribili del capitalismo (come pensano i filistei, Kautsky compreso) ma sono le conseguenze inevitabili dei principi stessi del capitalismo».
Lenin commenta duramente la concessione di Giolitti del suffragio universale maschile, che portava gli elettori da 3,2 a 8,56 milioni, a ricompensa per la docilità e disciplina con cui i proletari mandati in Libia, contrariamente alle previsioni, si erano coraggiosamente battuti, oltre che per accrescere il consenso al suo governo:
«”Chi è capace di sacrificare la vita per un nobile scopo (la guerra contro i turchi) è anche capace di difendere gli interessi della patria in qualità di elettore e merita che lo Stato lo ritenga degno di assumere i pieni diritti politici”. Parlano bene i ministri italiani! Ma ancor meglio parlano i socialdemocratici “radicali” tedeschi, che oggi ripetono questo ragionamento da lacchè: “noi” abbiamo fatto il nostro dovere, “vi” abbiamo aiutato a rapinare altri paesi, e “voi” non volete dare a “noi” il suffragio universale in Prussia».
12. Riassumendo
a) È una guerra di rapina imperialista, e come tale preparata con motivazioni subdole e fasulle. Significativo è il contributo della stampa cattolica, a sostegno degli interessi della finanza vaticana in Libia.
b) I contrasti all’interno del PSI e della CGdL sono di ostacolo alla riuscita degli scioperi contro la guerra, che riescono invece nei pochi luoghi dove le Camere del Lavoro hanno una chiara direzione di sinistra socialista o sindacalista rivoluzionaria.
c) Le forze in campo sono a netto vantaggio italiano, in qualità e quantità di armamento. La moderna marineria italiana svolge un ruolo importante. Lo sviluppo industriale mette a disposizione i primi veicoli a motore e la radiotelegrafia.
d) Il piano di una rapida guerra con il blocco via mare dei rifornimenti turchi si rivela totalmente sbagliato per la forte ostilità della popolazione; si sviluppa una robusta resistenza turco-libica, una incessante guerriglia, organizzata da ufficiali turchi e alimentata dal contrabbando di armi, non ostacolato da Francia e Inghilterra. L’occupazione italiana rimane limitata ad alcuni centri urbani senza penetrare in profondità nelle oasi e nelle aree desertiche. Le forze italiane sono assediate nelle città, con la sola protezione a mare della flotta. La Regia Marina occupa le isole turche del Dodecaneso.
e) Continui rinforzi dall’Italia coinvolgono un totale di 200.000 uomini. Le forze turco-libiche, pur non potendo ricacciare gli italiani, non sono mai definitivamente annientate. Per questo il governo dei Giovani Turchi non chiede mai la resa e non si considera sconfitto.
f) La rapida conclusione della guerra è imposta dai nazionalismi di Serbia, Montenegro, Grecia e Bulgaria uniti nella Lega Balcanica, insorti, visto il successo italiano contro l’Impero Ottomano, per sottrargli i territori europei.
g) Negli ambigui accordi di pace la Turchia dichiara l’autonomia della Libia, ma mantiene la figura califfale per il Sultano e il pagamento annuale dei tributi.
h) Chiara la denuncia del socialismo rivoluzionario italiano contro la dirigenza del movimento di classe proletario, che fu debole se non accondiscendente alla guerra. Feroce il successivo giudizio di Lenin sulla corrotta borghesia italiana.
III. Le due guerre dei Balcani 1912-1913
1. La fine di un mondo
Stavano volgendo al termine gli anni euforici a cavallo del ‘900, senza importanti conflitti nella vecchia Europa, quando le classi dominanti avevano pienamente goduto delle ricchezze prodotte dalla seconda rivoluzione industriale ed estorte con le guerre coloniali. Parte di quella ricchezza aveva corrotto strati delle classi lavoratrici.
La guerra russo-giapponese era stata vissuta come una crisi nell’Oriente lontano, senza conseguenze in Europa. Anche la rivoluzione dei Giovani Turchi del 1908 appariva distante, benché fosse scoppiata fra i vertici militari di stanza a Salonicco, in Grecia, allora parte degli ancora estesi possedimenti europei del decaduto e traballante Impero Ottomano. Tornava all’ordine del giorno la Questione Orientale, non risolta al Congresso di Berlino del 1878 seguito alla guerra russo-turca del 1877, quando, sottraendo territori al Sultano, erano state ridisegnate nuove frontiere di Stati artefatti.
Quell’assetto fu poi parzialmente modificato negli anni seguenti per restituzioni di territori, compensazioni, accordi diplomatici vari, fino a quando la Rumelia orientale diventò Vilayet autonomo dell’Impero ma retto da un governatore bulgaro nominato dalle potenze occidentali. Con la guerra greco-turca del 1897 anche l’isola di Creta assurse a Stato autonomo, de jure parte dell’Impero, de facto indipendente.
Le principali tensioni geo-strategiche consistevano da una parte nella spinta della Russia zarista verso il Mediterraneo, con la Gran Bretagna in testa a contenerla, dall’altra nel cacciare il dominio ottomano dai Balcani, o almeno eroderlo. Le potenze europee, Austria-Ungheria per prima, seguita dalla Russia, tentavano di influire su quanto era inevitabile scaturisse dai movimenti indipendentisti e nazionalisti dei variegati popoli balcanici. A questo scopo, come esposto nei precedenti capitoli, si erano formate mutevoli alleanze tra le potenze europee: si sostiene la Russia per erodere spazi alla Turchia, o, alla bisogna, ci si allea con questa per fermare la Russia.
Questo instabile equilibrio, in balia delle macchinazioni delle diplomazie europee – che dal 1907 si contrapponevano tra i due blocchi della Triplice Alleanza, tra Germania, Austria-Ungheria e Italia, e della Triplice Intesa, tra Gran Bretagna, Francia e Russia – non poteva reggere a lungo, non per una particolare arroganza o cupidigia di qualche testa coronata ma per le vitali necessità dello sviluppo del capitalismo, ormai volto all’imperialismo, che imponeva il superamento di quanto sopravviveva del mondo feudale, la formazione di Stati indipendenti, nonché l’acquisizione di territori, materie prime, forza lavoro a basso prezzo e mercati nei Balcani, area ancora tutta da sistemare e da invadere prima con le armi poi con le merci e i capitali.
La rivoluzione dei Giovani Turchi, generando una profonda crisi all’interno dell’Impero, fornì l’occasione a Vienna di annettersi la Bosnia Erzegovina. Questo anche allo scopo di prevenire moti indipendentisti nelle due regioni, che già amministrava militarmente, e che avrebbero potuto mettere in moto analoghe richieste di tutte le nazionalità dei Balcani, come abbiamo esposto in dettaglio in un recente rapporto.
Lenin scrive in “La guerra dei Balcani e lo sciovinismo borghese” nel marzo 1913:
«La guerra dei Balcani costituisce un anello della catena degli avvenimenti mondiali che caratterizzano il crollo del medioevo in Asia e nell’Europa orientale. Davanti ai popoli balcanici si poneva il compito storico di costituire nei Balcani Stati nazionali unitari, di abbattere l’oppressione dei feudatari locali, di liberare definitivamente i contadini di ogni nazionalità dal giogo dei grandi proprietari fondiari».
In particolare così descrive la situazione della Macedonia in “Il significato sociale delle vittorie serbo-bulgare” del novembre 1912:
«La Macedonia, come tutti i paesi balcanici, è molto arretrata economicamente: ivi sono sopravvissute forti vestigia della servitù della gleba, della dipendenza medioevale dei contadini dai grandi proprietari fondiari feudali (...) I grandi proprietari fondiari in Macedonia (...) sono turchi e maomettani, i contadini sono invece slavi e cristiani. L’antagonismo di classe è quindi inasprito da quello religioso e nazionale».
2. La Lega Balcanica
I forti contrasti tra Francia e Germania, che si erano manifestati nelle due crisi marocchine del 1905 e del 1911, confermarono che si approssimava un loro scontro militare diretto, e tra le rispettive alleanze, constatato anche l’intenso e rapido armamento della Germania, prima potenza industriale in Europa.
Questo nei Balcani si tradusse in movimenti diplomatici delle potenze dei due blocchi allo scopo di procurarsi alleati e sostenitori in una guerra generale, ma soprattutto per impedire conflitti armati locali che li impegnassero nell’area. Ma gli Stati balcanici iniziarono a stringere accordi bilaterali tra loro, indipendentemente dalle pressioni europee: la Serbia fu il più attivo e risoluto, soprattutto per la necessità di procurarsi uno sbocco al Mediterraneo.
In questo modo si giunse nel 1912 ad una informale coalizione, la Lega Balcanica, consistente in un intreccio di accordi bilaterali tra i paesi membri. Il più importante tra questi, che dette l’avvio agli altri, fu concluso tra la Serbia, indipendente, e la Bulgaria, ancora soggetta a tributo alla Sublime Porta: la prima non rinunciava al progetto di uno sbocco sull’Egeo, la seconda a quello di una Grande Bulgaria indipendente, affacciata sul Mar Nero e sull’Egeo. L’accordo conteneva un allegato segreto con precise mappe riguardanti i territori della Turchia europea da spartirsi e stabiliva i contingenti militari da mettere a disposizione in caso di guerra contro l’esercito ottomano, o quello austriaco se fosse intervenuto.
I lavori si protrassero per sei mesi a causa dei forti contrasti per la spartizione della Macedonia. La Bulgaria, che nel 1885 aveva riottenuto buona parte della fertile Rumelia orientale sul mar Nero ed ora rivendicava la Macedonia perché abitata da bulgari, affacciandosi quindi su due mari. Si giunse infine a stralciare una “zona contestata” il cui destino ultimo sarebbe stato affidato all’arbitrato dello zar.
Questa alleanza fu realizzata con i buoni segreti uffici della diplomazia russa, interessata ad un blocco balcanico da utilizzare al momento opportuno contro la Turchia e contro l’Austria-Ungheria. Ma, dopo la sconfitta nella guerra del 1904/5 contro il Giappone, l’esercito russo non era ancora pronto ad un grande conflitto e la Russia non voleva che Serbia e Bulgaria iniziassero una guerra prematura contro la Turchia.
Un’altra alleanza fu conclusa tra Bulgaria e Grecia, che rivendicava anch’essa la Macedonia, col pretesto che era abitata da una modesta minoranza greca, e Salonicco, anche ambita da entrambe. La Grecia, duramente sconfitta nella guerra greco-turca del 1897, ora cercava di acquisire territori in Macedonia, riprendersi Creta, dopo quella guerra Stato indipendente ma desideroso di ricongiungersi con Atene.
Tramite la diplomazia russa, in un accordo verbale la Bulgaria concedeva al Montenegro, in cambio di sostegno militare, il possesso di tutto il territorio che avesse conquistato. Fu anche convenuto che il Montenegro avrebbe attaccato per primo gli ottomani alla fine del settembre 1912.
La difficile intesa tra Serbia e Montenegro, a causa dei forti contrasti tra i due paesi per spartirsi parte dell’Albania e del Sangiaccato, che interessava anche all’Italia, e per uno sbocco serbo in Adriatico, fu stipulata solo il 6 ottobre 1912, due giorni prima dell’inizio delle ostilità.
La Bulgaria aveva dei contrasti territoriali anche con la Romania per i territori della Dobrugia; invece la Romania non aveva motivi di attrito con l’Impero Ottomano.
Quegli accordi bilaterali erano quindi per niente precisi in merito alle annessioni territoriali e non si giunse mai ad un trattato multilaterale condiviso da tutti. L’unico interesse comune era eliminare il dominio ottomano nei Balcani con la soppressione di ogni tributo e legame amministrativo e politico per giungere alla completa autonomia e indipendenza all’interno di quelli che ciascuna nazionalità considerava i propri confini storici, i quali talvolta si sovrapponevano, considerando il complesso mosaico e intreccio etnico, linguistico e religioso nella penisola. Perciò già nel costituirsi della Lega e nei suoi obbiettivi si potevano scorgere i segnali dei futuri contrasti.
Scrive Lenin in “Un nuovo capitolo della storia mondiale”, nell’ottobre 1912: «Per primi gli operai coscienti dei paesi balcanici hanno lanciato la parola d’ordine della soluzione conseguentemente democratica della questione nazionale nei Balcani. Questa parola d’ordine è: repubblica federativa balcanica. La debolezza delle classi democratiche negli odierni Stati balcanici (il proletariato è poco numeroso, i contadini sono abbrutiti, dispersi, analfabeti) ha fatto sì che la necessaria alleanza economica e politica è divenuta un’alleanza delle monarchie balcaniche».
Durante l’estate e l’autunno del 1912 i rapporti tra gli alleati balcanici e il governo del Sultano raggiunsero livelli di minacciosa tensione. I governi di Vienna e di Mosca, pur appartenendo ad alleanze militari opposte, a nome delle potenze europee affermarono congiuntamente che non avrebbero permesso alcun cambiamento dello status quo nei Balcani. Ma la Lega Balcanica, vista la vittoria dell’esercito italiano in Libia e la seguente crisi politica ad Istanbul, decise di non sottostare a quelle intimazioni reazionarie.
Ad agosto alcuni attentati a Kočani del VRMO, un’organizzazione indipendentista macedone, scatenò una dura repressione ottomana con 120 morti tra la popolazione, che provocò in Bulgaria un forte movimento popolare sostenuto dal governo. Si approfittò del casus belli. L’offerta della concessione dell’autonomia agli albanesi, allo scopo di tagliare l’accesso al mare alla Serbia, voluta anche dall’Austria e dall’Italia, peggiorò la situazione e a nulla valsero le pressioni e le proposte di ulteriori piani per stabilizzare i Balcani avanzate dalle potenze europee.
La situazione precipitò alla fine di settembre con il blocco ottomano nel porto di Salonicco di materiale bellico destinato alla Serbia. Nei giorni seguenti tutti gli Stati mobilitarono i riservisti mentre i vertici militari serbo-bulgari si incontravano per definire i piani operativi finali. Ulteriori proposte di mediazione europea e concessioni turche, suggerite dai russi, furono respinte.
Secondo i patti il Montenegro attaccò per primo, l’8 ottobre le sue truppe attraversarono i confini dell’Impero Ottomano; nei giorni seguenti gli altri Stati respinsero tutti gli ultimatum e le ulteriori proposte di mediazione.
3. Le forze in campo
L’esercito bulgaro il più potente, meglio armato e addestrato della Lega. Con una popolazione di 4,3 milioni mobilitò oltre 350.000 uomini regolari. Erano dotati di armamenti di varia provenienza a causa del continuo oscillare di quello Stato tra i due blocchi: dai fucili austroungarici Stey M. 1895, i migliori tra tutti, alle mitragliatrici tedesche MG 08 ai 720 pezzi d’artiglieria francesi Schneider 75/1905. La marina era formata solo da 6 moderne torpediniere per la difesa costiera, che comunque servirono per impegnare la flotta ottomana nel controllo delle rotte e dei rifornimenti sul Mar Nero.
Il piano strategico iniziale prevedeva una decisa offensiva nella Tracia per battere le principali forze ottomane e bloccare la ferrovia Istanbul-Salonicco, vitale linea di rifornimento per i teatri occidentali. Successivamente le truppe bulgare avrebbero marciato verso ovest per dare man forte a serbi e ai greci in Macedonia. Così facendo però avrebbero lasciato indifeso il fianco destro ai contrattacchi dei rinforzi ottomani provenienti dall’Anatolia con il serio rischio di un’invasione. Decisero quindi di annullare quell’azzardata manovra, concentrarsi solo nella Tracia lasciando la Macedonia alle truppe serbe. Questa prudente scelta avrà un pesante prezzo politico nel dopoguerra.
La Serbia, con una popolazione di appena 2,9 milioni mobilitò una forza iniziale di ben 230.000 effettivi, poi saliti a 300.000 subito dopo l’inizio delle ostilità, quasi il 10% della popolazione. Le unità migliori erano dotate del fucile tedesco Mauser mentre il resto della fanteria aveva fucili russi di qualità inferiore; disponevano di mitragliatrici Maxim e di 500 cannoni francesi da 75 mm del 1897.
Dell’esercito serbo una prima armata aveva l’obiettivo di marciare su Üsküb (Skopje), dove prevedeva fosse schierato il grosso delle truppe ottomane; una seconda, sul fianco sinistro del territorio bulgaro, doveva invadere la Macedonia orientale; una terza nella Serbia occidentale doveva invadere il Kosovo; una quarta piccola armata doveva operare nel Sangiaccato con i montenegrini. Una brigata copriva la frontiera tra Serbia e Austria-Ungheria nel timore di un attacco a sorpresa da nord.
I comandi serbo-bulgari attribuivano scarsa importanza al contributo greco, specialmente dopo la pessima prova durante la guerra del 1897. Venne però accolto per la sua efficiente e potente flotta, la sola in grado di controllare il Mar Egeo e porre il blocco ai porti ottomani impedendo il trasporto di mezzi e uomini.
Nel 1911 il miglioramento e l’addestramento dell’esercito greco fu affidato ad una missione militare francese. Da una popolazione di 2,6 milioni di abitanti reclutarono 120.000 forze regolari, 140.000 della Guardia nazionale e forze di riserva. La fanteria era dotata di fucili austroungarici Mannlicher più 160 cannoni francesi da montagna Schneider 76/1909.
L’esercito fu concentrato in Tessaglia e schierato a Larissa, sul confine nord, con il compito di muovere verso Kastoria e Bitola e ad est su Salonicco. L’armata dell’Epiro, una formazione eterogenea di vari reparti residuali più volontari cretesi, e un contingente internazionale di “garibaldini” guidati da Ricciotti Garibaldi erano schierati ad occidente per puntare su Giannina (Yanya), anche se le fortezze a difesa della città erano un obiettivo troppo difficile per quelle poche forze e risorse.
La marina militare greca era una forza relativamente moderna ed efficiente, soprattutto dopo l’operato di una missione britannica nel 1911 e ben superiore a quella ottomana. Il punto forte della flotta era l’Averof, un incrociatore corazzato di 10.000 tonnellate con 4 cannoni da 234 mm e una velocità di 22 nodi costruito in Italia nel 1910. Vi erano poi 6 vecchie corazzate francesi, 8 cacciatorpediniere britannici del 1907, altre 8 fabbricate in Germania e 6 nuovi cacciatorpediniere britannici consegnati pochi giorni prima dello scoppio della guerra, assieme al Delfin, il primo sommergibile greco.
Il piccolo Montenegro, poco popolato e con scarse risorse, riuscì comunque a organizzare 45.000 regolari divisi in 11 piccole brigate di fanteria suddivise in 3 anomale divisioni con differenti obiettivi: partendo da Cettigne, l’allora piccola capitale del Montenegro, la divisione orientale avrebbe dovuto attaccare il Sangiaccato e la città di Yeni Pazar per poi ricongiungersi alle forze serbe nel Kosovo; la seconda, con le truppe migliori, avrebbe puntato a sud lungo la riva orientale del lago di Scutari per attaccare Scutari (Işkodra); la terza sarebbe scesa lungo la sponda occidentale del lago verso Scutari. La fanteria era armata con modesti fucili russi Berdan, l’artiglieria disponeva di 120 pezzi tra mortai e cannoni da montagna; non esisteva un vero e proprio stato maggiore e re Nicola I deteneva il comando in prima persona.
L’Impero Ottomano contava una popolazione di 26 milioni di abitanti ma appartenenti a dozzine di gruppi etnici e religiosi diversi. Era dotato di un esercito di grandi tradizioni, ma cosmopolita, spesso ormai più fonte di problemi che di vantaggi, a cominciare dalle diversità linguistiche e di comunicazione nelle unità miste. La riforma costituzionale del 1909 esentava dalla leva le reclute cristiane, che tendevano alla diserzione. Inoltre le forti disparità etniche e sociali tra ufficiali e truppa minavano la coesione dei reparti; il morale era basso per il forte senso di disincanto e delusione a tutti i livelli e per le troppe promesse di cambiamento non mantenute.
Le forze ottomane dopo la guerra con l’Italia erano in riorganizzazione, il loro addestramento fu affidato ad una missione tedesca, ma ebbe poco tempo per operare.
Anche quello turco, come tutti i grandi eserciti europei del tempo, era diviso in truppe regolari, le migliori e meglio armate con i fucili tedeschi Mauser 1890, più due livelli di riservisti da richiamare alla bisogna dotati però di armi più vecchie e di calibri diversi che ponevano grossi problemi di rifornimento. L’artiglieria da campagna disponeva di 1.200 cannoni tedeschi da 75/1903 mentre i 1.150 cannoni da fortezza erano un miscuglio di pezzi più antiquati.
La marina turca era una forza eterogenea di navi moderne ed altre antiquate appena rimodernate. All’incrociatore greco Averof i turchi potevano opporre due vecchie corazzate rimodernate; disponevano di due incrociatori protetti di costruzione inglese e americana entrati in servizio da alcuni anni, più una dozzina di moderni cacciatorpediniere e 14 torpediniere più vecchie. Con altro naviglio antiquato e adatto a difesa costiera, la flotta copriva inizialmente i quattro settori delle sue acque territoriali.
All’inizio delle ostilità l’esercito ottomano di circa 300.000 uomini, in reparti quasi tutti sotto organico a causa della lentezza delle procedure di mobilitazione, del boicottaggio, delle diserzioni e dei pessimi collegamenti ferroviari, dovette sostenere l’urto di una forza coalizzata di 610.000 uomini, su una linea del fronte lunga oltre mille chilometri con diversi possibili teatri di guerra e senza aver predisposto per tempo un compiuto piano strategico.
Il piano terrestre turco prevedeva di arroccarsi a difesa dell’intera regione balcanica per poi condurre un’offensiva ad oltranza sul fronte della Tracia, nella speranza di cogliere di sorpresa i bulgari, avendo gravemente sottostimato la loro consistenza, nella convinzione che il grosso della coalizione si sarebbe diretto in Macedonia.
Trotski a questo non credeva, come scrive in “A proposito di Kirklareli”, del 19 ottobre 1912: «L’obbiettivo politico della guerra sono la Macedonia e la Vecchia Serbia. Ma il principale teatro delle operazioni militari sarà l’area tra Adrianopoli e Costantinopoli. Di conseguenza il peso principale della guerra dovrà essere sopportato dall’esercito bulgaro. Il compito principale dei Serbi, dei Montenegrini e dei Greci consiste nel tenere impegnato l’esercito turco dislocato a ovest e le singole guarnigioni di stanza in Macedonia e in Albania. Naturalmente non si possono escludere possibili duri scontri anche qui».
4. La prima fase della guerra
Il 15 ottobre 1912 a Losanna si firmavano i frettolosi preliminari di pace tra Italia e Turchia.
Dopo la violenta rottura dei rapporti diplomatici tra Lega Balcanica e Turchia, i combattimenti iniziarono ad opera della Lega attaccando congiuntamente su due fronti secondo i piani predisposti.
a) Fronte della Tracia
Il 18 ottobre 1912 le tre armate bulgare superano le scarse difese al confine; la prima dirige verso le forze ottomane attestate tra Adrianopoli e Kirklareli, la seconda direttamente su Adrianopoli, la terza si sposta più ad est senza un obiettivo immediato; il dislocamento è completato in 3 giorni. Il 20 ottobre un distaccamento bulgaro-macedone invade la Tracia occidentale e occupa l’importante centro di Kărdzali, superando le difese di 16.000 ottomani. Il 22 ottobre la prima armata ottomana lancia un massiccio assalto frontale ma è bloccata da una serie di contrattacchi, e cede dandosi alla fuga. Il 24 ottobre i bulgari della terza armata prendono Kirklareli mentre le truppe ottomane ripiegano in disordine e si trincerano a 150 chilometri da Istanbul.
Il 26 ottobre il distaccamento Rodope occupa Smolyan e tutta la valle della Mesta ed iniziano le incursioni della cavalleria che provocarono l’interruzione della ferrovia Istanbul-Salonicco.
Il 2 novembre Nazim Pascià dà l’ordine alla terza armata di ripiegare su Istanbul in una situazione di completo collasso logistico, su strade fangose per le piogge, intasate da decine di migliaia di profughi turchi in fuga dai bulgari avanzanti; si diffondono le prime epidemie.
In una decina di giorni le forze bulgare si sono assicurate tutta la Tracia orientale; Adrianopoli è assediata; il principale esercito ottomano in rotta. Si organizza una rapida avanzata per prendere Istanbul, ma le piogge costanti, le strade intasate e impercorribili, il diffondersi di epidemie ostacolano la marcia.
Quei rallentamenti permettono agli ottomani di allestire una nuova linea difensiva a soli 30 chilometri da Istanbul nei pressi della cittadina di Çatalca, rinforzata da nuove unità provenienti dalle regioni asiatiche e attestate su posizioni fortificate allestite durante la guerra russo-turca del 1877-78.
Quel settore del fronte rimase in una guerra di posizione fino alla stipula di un primo armistizio il 3 dicembre. Vi parteciparono 177.000 bulgari che ebbero 1.506 morti, 9.127 feriti e 1.391 dispersi contro 140.000 ottomani con perdite complessive valutate tra i 5.000 e i 10.000 uomini.
Il 26 novembre le forze bulgare raggiungono l’Egeo ad Alessandropoli (Dedeaĝaç), il giorno successivo le residue forze ottomane si arrendono nella vicina Feres. Altre truppe bulgare raggiungono la costa del mar di Marmara nei pressi di Sarköy, isolando le forze ottomane asserragliate nella penisola di Gallipoli, che riescono comunque a mantenere le loro posizioni.
b) Fronte della Macedonia
Il 19 ottobre la prima armata serba attraversa la frontiera puntando verso la valle del Vardar, mentre la seconda armata muove dal territorio bulgaro per prendere alle spalle gli ottomani che nel frattempo stanno concentrando le sparse forze tra Üsküb (Skopje) e Ištip. Questi ricevono un inaspettato aiuto da formazioni albanesi irregolari che, da nemici fino al mese prima, si alleano con gli ottomani per difendere dall’invasione serba e greca l’autonomia appena loro concessa a settembre dagli ottomani.
Il 23 ottobre il comandante ottomano lancia un attacco frontale ma la forte resistenza serba mette in rotta le forze ottomane. La battaglia provoca ai serbi 4.400 tra morti e feriti contro i 12.000 ottomani. Le forze ottomane si ritirano in disordine verso sud perdendo gran parte dell’artiglieria e cedendo un vasto territorio.
Il 26 ottobre la prima armata serba occupa Üsküb praticamente senza combattere, mentre il giorno successivo la seconda occupa Ištip e Strumica (Ustrumca), molto più a sud, penetrando anche nella fetta di Macedonia spettante alla Bulgaria secondo la concordata spartizione. Il governo bulgaro autorizza i serbi a procedere all’occupazione e a puntare a sud su Bitola (Monastir), terza città della Macedonia, per impedire ai greci, con cui non c’erano accordi di spartizione, di guadagnare troppo terreno in Macedonia.
Il 16 novembre le due armate serbe si congiungono di fronte a Monastir dove si sono radunate le truppe ottomane in ritirata e gli irregolari albanesi. I serbi lanciano un’offensiva e, dopo duri combattimenti, il comando ottomano dà l’ordine di ripiegare. Il 19 novembre i serbi entrano a Monastir, lasciando liberi gli ottomani di ripiegare verso l’Albania centro-meridionale su cui il governo di Belgrado non aveva interessi. La battaglia decise l’esito della campagna di Macedonia durata appena un mese.
c) Fronte greco
L’incertezza e la confusione dominano in seno ai comandi ellenici. Il principe ereditario Costantino punta su Monastir mentre il primo ministro spinge ad occupare Salonicco prima che vi arrivino i bulgari.
Giunte le notizie delle vittorie serbe e bulgare a Kumanovo e a Kirklareli, il principe Costantino cede alle insistenze del governo e punta decisamente verso Salonicco incontrando però una valida resistenza ottomana. Il 1° novembre i due schieramenti si affrontano nella battaglia di Giannitsa; i greci vincono aprendosi così la strada per Salonicco. Parteciparono alla battaglia 80.000 greci con 120 cannoni contro 25.000 ottomani con solo 30 cannoni, imprecisato e incompleto il numero delle perdite.
Anche un distaccamento bulgaro separato dalla seconda armata sta dirigendo velocemente verso Salonicco, superata una debole resistenza e dopo aver occupato importanti città tra cui Serres. I greci intanto completano l’accerchiamento di Salonicco bloccata dal mare dalla flotta greca che sbarca reparti di fanteria nella penisola Calcidica. Il comandante delle forze ottomane decide infine di trattare la resa, entrano le truppe greche che battono sul tempo quelle bulgare arrivate il giorno dopo.
Nel mentre Costantino invia parte delle sue truppe verso ovest nella speranza di raggiungere Monastir, ma sono fermate e duramente sconfitte presso Soroviç. Dopo l’occupazione di Salonicco invia divisioni di rinforzo, ma arriva a Monastir appena conquistata dai serbi il giorno prima. I greci poi in meno di un mese completano l’occupazione della Macedonia meridionale spingendosi ad ovest fino a Körice in Albania e a est fino al lago Dojran e al monte Pangeo.
d) Teatri secondari
Il 9 ottobre si ha l’invasione del Sangiaccato da parte delle truppe Montenegrine, seguite dieci giorni dopo da quelle serbe.
Più complesse sono le operazioni intorno a Scutari. I montenegrini giungono sotto le sue difese il 24 ottobre, ma non riescono nemmeno ad isolare la città che continua ad essere rifornita dalle popolazioni albanesi dell’entroterra. Solo con l’arrivo delle truppe serbe è completato l’accerchiamento e la città è presa per fame.
La terza armata serba invade il Kosovo il 19 ottobre incontrando scarsa resistenza ottomana ma diffusa ostilità delle popolazioni albanesi. Il 22 ottobre è conquistata Pristina.
Il 9 novembre i serbi congiunti ai montenegrini prendono Prizen concludendo l’occupazione della Macedonia.
Dopo l’occupazione della Macedonia, la terza armata serba è incaricata di occupare l’Albania centrale allo scopo di assicurarsi uno sbocco sull’Adriatico. La manovra è difficile per l’attraversamento di zone montuose, ostacolata dalla guerriglia di irregolari albanesi. Il 17 novembre i serbi giungono sulla costa a Les. Da qui marciano subito verso nord per sostenere i montenegrini a Scutari. Il 27 novembre una seconda colonna serba conquista Tirana e Diraç (Durazzo) completando l’occupazione di tutta la regione: la Serbia ha così conquistato un territorio pari alla sua estensione prebellica, un risultato raggiunto da nessun altro esercito della Lega Balcanica.
Il 28 novembre, per impedire alla Serbia di annetterla, il governo ottomano, sotto pressione di quello viennese, fa concedere dal Sultano l’indipendenza all’Albania, potendo così averla alleata o almeno neutrale.
L’invasione del montuoso Epiro da parte delle truppe greche è lenta a causa della natura del terreno e per la forte resistenza degli sparsi reparti ottomani.
Il 2 novembre i greci conquistano Preveze e ricevono così rifornimenti via mare. Procedono poi verso Giannina.
Avendo raggiunto il controllo dell’Egeo, i greci iniziano ad occupare con alterne fortune una serie di isole. L’ultima posizione ottomana nell’Egeo, Sisam (Samos) nelle Sporadi meridionali è occupata solo il 13 marzo 1913, per evitare tensioni con le truppe italiane stanziate nel Dodecaneso.
5. Tentativi di armistizio
Alla fine di novembre, dopo 40 giorni di duri combattimenti che avevano messo a dura prova gli eserciti e le loro riserve belliche, le ostilità entrarono in una situazione di stallo, eccetto che in alcune zone dell’Albania e nell’area di Çatalca. prossima ad Istanbul, mentre continuavano gli assedi di Adrianopoli, Scutari e Giannina.
Tutti i territori europei dell’Impero Ottomano risultavano occupati dai paesi della Lega Balcanica e i bulgari, sostenuti dalla diplomazia russa, iniziarono contatti per concordare un armistizio, che giunse il 3 dicembre, accettato da tutti i paesi eccetto la Grecia, la quale intendeva continuare la conquista delle isole egee e di Giannina.
L’armistizio stabiliva il consolidamento delle posizioni raggiunte dai vari eserciti, lo sblocco dei porti bulgari sul Mar Nero attuato dalla marina ottomana e quello della ferrovia per Adrianopoli per rifornire le truppe bulgare in Tracia.
Contemporaneamente anche nelle capitali europee iniziarono frenetiche consultazioni avendo ben chiaro che i vecchi accordi di Berlino del 1878 non erano più proponibili. Il 16 dicembre a Londra si aprirono i difficili negoziati di pace. Il punto di maggior contrasto era il destino dell’Albania e dei suoi confini. La Lega reclamava tutti i territori europei ottomani, Creta e tutte le isole dell’Egeo, lasciando agli ottomani solo una sottile striscia di terreno a Nord di Istanbul e la penisola di Gallipoli. Questi richiesero la restituzione di tutto il governatorato di Adrianopoli e le quattro isole di fronte allo stretto dei Dardanelli, mentre la Macedonia e l’Albania sarebbero divenuti principati autonomi.
Parallelamente si aprirono le consultazioni tra gli ambasciatori europei per definire i confini dell’Albania; quello russo, frenando i serbi, propose una frontiera comune tra Albania e Montenegro, isolando così la Serbia dal mare. Vienna rispose audacemente di includere nel nuovo Stato anche Scutari, Giannina e gran parte del Kosovo, scatenando le proteste delle altre potenze e dei diretti interessati.
Del 23 gennaio 1913 il colpo di Stato ad Istanbul guidato dai Giovani Turchi, assolutamente contrari ad accettare ogni accordo e propensi a proseguire la guerra. Il ministro della guerra Nazim Pascià, che aveva assunto direttamente il comando delle operazioni, considerato responsabile del disastro militare, fu fatto dimettere e poco dopo assassinato. Anche gli Stati balcanici, insoddisfatti dei termini della pace, si convinsero a riprendere le ostilità e la settimana seguente i rappresentanti della Lega abbandonarono le trattative di Londra.
6. La seconda fase della guerra
Il 3 febbraio la Lega Balcanica revocava l’armistizio e riprendeva le ostilità.
Il 7 febbraio le truppe ottomane lanciarono un’articolata offensiva contro il fronte davanti a Çatalca mentre il giorno successivo veniva lanciato un massiccio attacco a Bolayir, nel punto più stretto della penisola di Gallipoli. I bulgari respinsero l’attacco a Bolayir e sul fronte di Çatalca riportarono le truppe ottomane sulla linea di partenza.
L’impegno militare più significativo della Lega in questa seconda fase è la risoluzione degli assedi delle tre roccheforti ancora in mano agli ottomani: Giannina, Adrianopoli e Scutari.
Tutto ciò avveniva mentre a Londra gli ambasciatori delle potenze europee erano giunti ad un accordo: l’Austria-Ungheria concedeva il Kosovo alla Serbia in cambio di Scutari alla nuova Albania. La diplomazia russa si attivò affinché i paesi della Lega accettassero la fine delle ostilità sull’intesa che tutta la Rumelia, dalla linea dell’Enez sull’Egeo a Kiyiköy sul Mar Nero, sarebbe stata spartita tra i paesi della Lega mentre i confini albanesi sarebbero stati trattati a parte.
I bulgari accettarono e avviarono trattative di pace con gli ottomani, mentre serbi e greci furono più cauti chiedendo chiarimenti sui confini albanesi, ma, incalzati dai russi, alla fine di aprile firmarono un armistizio con gli ottomani.
Re Nicola del Montenegro respinse ogni proposta e, pretendendo Scutari, dichiarò di proseguire l’assedio. Il 31 marzo una squadra navale europea mista formata da navi inglesi, francesi e austroungariche impose un blocco navale al Montenegro impedendo ogni ulteriore rifornimento dei serbi via mare. Il 9 aprile, su pressione russa, i serbi ritiravano il contingente da Scutari lasciandovi però l’artiglieria che continuò a martellare la città. Il 22 aprile, con la popolazione stremata dalla fame e dalle epidemie, il comandante della guarnigione trattava la resa. Il 24 aprile i montenegrini presero la città, aprendo una grave crisi diplomatica con Vienna che minacciò di guerra il Montenegro se non avesse rinunciato a Scutari mentre i russi minacciarono di non assicurare più il loro appoggio a re Nicola. Il 4 maggio re Nicola si rassegnò a cedere la città, che nei giorni seguenti fu presa in consegna da un contingente internazionale.
Il 14 maggio 1913 a Londra iniziarono le trattative di pace; le potenze europee esercitarono forti pressioni su tutti i belligeranti per giungere velocemente ad un accordo. Il 30 maggio il trattato di pace riprendeva le linee tracciate nella precedente bozza, nasceva il Principato di Albania esteso da Scutari a Valona, affidato al principe tedesco Guglielmo di Wied. Creta e le isole dell’Egeo andavano alla Grecia, che quasi raddoppiò la propria estensione. Il destino delle quattro isole davanti ai Dardanelli veniva demandato alle potenze europee, sentite le parti. Nessuna chiara decisione fu presa in merito alla spartizione degli ex territori ottomani tra i vari paesi della Lega.
Il trattato di Londra poneva fine alla guerra ma non risolveva molte cruciali questioni, in particolare quelle coperte dagli accordi prebellici tra gli alleati della Lega: già nei giorni precedenti la firma si aprirono gravi contenziosi al suo interno.
Il mancato sbocco al mare della Serbia e la perdita dei territori albanesi previsti negli accordi serbo-bulgari, spinse la Serbia a chiedere compensazioni territoriali in Macedonia. Sulla spartizione di territori tra Grecia e Bulgaria non era stato raggiunto nessun accordo preventivo, e in particolar modo su Salonicco, che il governo di Sofia contava di ottenere tramite l’appoggio russo. Questo non venne, anzi il governo russo pensava di sostenere ora le richieste dei greci.
L’intransigenza bulgara spinse serbi e greci a firmare, il 25 maggio, ancor prima di quello della pace di Londra, un trattato di alleanza e mutua difesa. Il primo ministro serbo poi annunciò ufficialmente che al suo paese spettavano compensazioni territoriali in Macedonia e propose un confine serbo-greco sulla linea raggiunta dalle rispettive armate, annullando gli accordi prebellici con la Bulgaria. Entrambi i paesi fecero affluire truppe lungo i contestati confini ed iniziarono piccoli incidenti a fuoco tra le parti.
Il 29 giugno, dopo un mese di inconcludenti incontri e mediazioni russe, il primo ministro bulgaro dette l’ordine alle truppe di attaccare le posizioni dei suoi ex-alleati dando inizio alla seconda guerra balcanica.
7. Le operazioni navali e le prime aeree
Le operazioni navali furono di essenziale sostegno alle manovre di terra. La flotta ottomana fu principalmente dislocata nel Mar Nero a fronteggiare le poche navi bulgare; vi fu solo uno scontro nel quale gli ottomani ebbero i maggiori danni. Lasciarono invece nell’Egeo poche unità a fronteggiare la moderna flotta greca. Per questa, molti mercantili veloci erano stati convertiti in incrociatori ausiliari che formarono una lunga linea di blocco estesa fino a Suez, tagliando le rotte mercantili ottomane e impedendo il trasferimento di rinforzi via mare.
Già impiegati dall’Italia nella campagna di Libia, anche in questa guerra entrambi i fronti erano dotati di aeroplani, circa un centinaio compresi due idrovolanti, prevalentemente di fabbricazione francese. Ancora scarsamente affidabili per l’impiego in operazioni militari, furono usati a scopo di ricognizione. La Grecia sorvolò i Dardanelli con regolarità allo scopo di avvertire in tempo dei movimenti della flotta ottomana.
In questa prima guerra furono coinvolti inizialmente un totale di oltre 1 milione di effettivi così ripartiti: Lega Balcanica 750.000, di cui 350.000 bulgari, 230.000 serbi, 125.000 greci, 45.000 montenegrini, opposti ad un iniziale esercito ottomano di 300.000 a cui poi si aggiunse un numero imprecisato di rinforzi dall’Anatolia. Le perdite furono consistenti: la Lega perse 161.000 uomini di cui 42.000 morti, 100.000 feriti più 19.000 morti per malattie. L’esercito ottomano fu il più colpito con perdite di 340.000 di cui 50.000 morti, 100.000 feriti, 115.000 prigionieri e 75.000 morti per malattie.
A questi si devono aggiungere i morti per rappresaglie ed efferatezze di guerra tra i civili da entrambe le parti. L’odio contro l’occupazione ottomana si trasformò in eccidi, incendi di interi villaggi e violenze di ogni genere, spesso comminate da improvvisati tribunali di gruppi di occupanti della Lega Balcanica che condannarono a morte migliaia di civili. Il numero delle vittime di questi scempi variano da 30.000 a 50.000.
Così scrivemmo in “La guerra balcanica” su “l’Avanguardia” n. 256 del 1° dicembre 1912: «I fiumi di sangue ed incendio che salgono da quei paesi devastati da una delle guerre più micidiali che si ricordino, se possono entusiasmare ancora le anime dei nazionalisti e dei teorici della strage, devono sollevare la nostra esecrazione, e debbono essere di monito per l’avvenire».
Fu una guerra condotta da nazionalità che aspiravano ad una loro indipendenza e a Stati entro confini certi. Gli imperialismi europei osteggiarono questo risultato temendo il cambiamento dello status quo e la compromissione dei loro contrastanti interessi nell’area. La guerra avvenne contro il loro volere e appena possibile intervennero per riprendere il controllo dei Balcani.
8. La seconda guerra balcanica
Il 29 giugno 1913 la Bulgaria, insoddisfatta per le notevoli conquiste serbe in Macedonia e sollecitata da Germania e Austria-Ungheria, che, per loro fini, sostenevano lo zar Nicola I di Bulgaria, e contando sulla sua forza militare superiore agli alleati della Lega, decise di attaccare gli ex alleati.
Al trattato di alleanza e mutua difesa militare anti-bulgara tra Serbia e Grecia, siglato il 25 maggio, si aggiunsero poi Montenegro e Romania che pretendeva zone confinarie nella fertile Dobrugia meridionale. L’estensione del trattato tra i quattro paesi fu mantenuta segreta.
In un primo momento i bulgari avanzarono rapidamente verso occidente nei territori rivendicati. Ma la resistenza dei serbi, dei greci e dei montenegrini prima li bloccò, poi, riorganizzatisi, passarono all’offensiva. Di ciò approfittarono gli ottomani che attaccarono la Bulgaria orientale, riconquistando Adrianopoli. Nei giorni seguenti le truppe rumene attaccano da nord i confini bulgari sul Danubio, che, poco protetti, superarono facilmente, puntando su Sofia.
Il 31 luglio, con fronti aperti su tutti i confini e con il rischio di perdere le conquiste appena ottenute, il governo bulgaro decise di annullare quell’insensata manovra e aprire trattative di pace. Il 10 agosto 1913 a Bucarest fu firmata la pace ottenuta dalla mediazione dei delegati delle sole potenze in causa. La Dobrugia meridionale passò alla Romania, anche se abitata solo dal 4% da romeni, ottenne la città portuale di Silistra sul Danubio e parte della costa bulgara nel Mar Nero, realizzando tutte le sue richieste.
La Macedonia storica fu spartita, comprese le zone abitate da bulgari, tra Serbia, con le città di Skopje e Monastir, e Grecia, che ebbe l’importante porto di Salonicco e l’intera costa della Macedonia meridionale, oltre l’isola di Creta e l’Epiro. Nonostante queste conquiste che quasi raddoppiarono la sua estensione, la Grecia avrebbe voluto ottenere parte dell’Albania meridionale e dall’Italia la restituzione delle isole del Dodecaneso. Al Montenegro fu assegnato qualche lembo dell’Albania e la parte di Novi Pazar nel Sangiaccato, ma la sua insoddisfazione era nella perdita di Scutari e di altri territori in Serbia. La Turchia recuperò il suo avamposto in Europa fino ad Adrianopoli e una parte della Tracia. L’Albania fu proclamata Stato indipendente e neutrale.
9. Considerazioni finali
La Bulgaria dovette cancellare per sempre il sogno egemonico di una Grande Bulgaria. Benché questo nella storia nazionale sia chiamato “la catastrofe”, mantenne gran parte delle conquiste delle sue armate: un accesso alla costa della Tracia sul litorale Egeo e una parte della Macedonia settentrionale prossima al vecchio confine della Rumelia. La Bulgaria dichiarò però di non rinunciare a Salonicco e alla parte della Macedonia passata alla Serbia e alla Grecia, per cui i due paesi stipularono una nuova alleanza in previsione di un attacco bulgaro.
La Serbia non nascondeva l’ambizione di riunire in un unico regno tutti i popoli slavi, sparpagliati in diversi Stati, creando forte attrito con l’Austria-Ungheria.
Si rimodellarono le alleanze tra le potenze europee e i nuovi Stati balcanici. La Russia non era riuscita né ad impedire la guerra, né a condizionare le alleanze balcaniche in funzione dei suoi interessi nell’area.
L’Austria-Ungheria riuscì ad aumentare la sua influenza nei Balcani, impedendo la formazione di altre Leghe contro i suoi interessi. L’Albania indipendente in funzione anti-serba indusse una distensione fra Austria ed Italia.
La Germania riattivò il suo progetto della ferrovia Berlino-Baghdad, non solo una linea di comunicazione ma un tassello dello storico progetto Drang nach Osten di cui i Balcani erano la parte centrale; per questo rinsaldò i suoi legami con Istanbul in funzione anti greca.
Questa pace non risolveva le tensioni nell’area, che, per la loro gravità, fu chiaro a tutti che sarebbero state solo rinviate ad una prossima soluzione militare.
La successione dei modi di produzione nella teoria marxista
3. La forma di produzione secondaria - variante antico‑classica - La Grecia
(continua dal numero scorso)
Capitolo esposto alla riunione generale di Parma nel gennaio 2016
I rapporti tra uomini liberi si trasformano in relazioni di schiavitù
La forma di produzione comunistica primitiva si è dibattuta nel periodo finale in una serie di sanguinose guerre tra comunità. L’unico antagonismo possibile in una struttura organica qual era poteva derivare da contrasti esterni al nucleo comunitario.
Una volta che la forma di produzione successiva ha stabilito il proprio predominio con l’annientamento della precedente essa crea le condizioni di produzione sue proprie, ciò che Marx chiama il passaggio dalla sottomissione formale alla sottomissione reale. Il nuovo modo di produzione deve crearsi un ambiente specifico in cui operare, cioè la costituzione di tutte le impalcature sovrastrutturali adeguate alla riproduzione della formazione sociale.
In un modo di produzione organico i conflitti che possono sorgere sono riassorbiti dal tessuto sociale senza necessità di strumenti coercitivi; viceversa, non appena la stratificazione aumenta, si genera la necessità per la classe dominante di creare appositi strumenti per il governo della macchina sociale, e specificamente per esercitare la propria oppressione nei riguardi degli sfruttati. La polarizzazione delle classi non ha ancora raggiunto i livelli capitalistici, pertanto le soprastrutture non sono ancora totalmente alienate, tuttavia già si possono rintracciare le caratteristiche che poi connoteranno l’intero loro sviluppo sino alla forma attuale.
Può apparire paradossale incominciare la trattazione delle istituzioni del diritto ateniese dal diritto di famiglia; così non è se si pone mente alle considerazioni di Engels nell’Origine secondo le quali le contraddizioni che si stanno generando nella comunità sbocciano già nei legami di sangue, e successivamente investono l’intera rete delle relazioni comunitarie. Il trapasso da una società matrilineare al patriarcato sancisce la sconfitta sociale della donna ed il suo crescente assoggettamento alle figure maschili che la circondano. Evidente è nella istituzione matrimoniale dove, per indicare il passaggio della sposa dalla famiglia d’origine a quella della sposo, si utilizzava un verbo che sembra significhi “consegnare nelle mani di qualcuno” ed il sostantivo l’atto di dare una garanzia: è una transazione fra il padre della sposa e lo sposo con oggetto la sposa stessa.
La sottomissione della donna è sancita anche dal nuovo diritto ereditario, di discendenza maschile. Se un cittadino muore senza figli maschi ma con una figlia costei eredita, ma s’impone una complessa procedura legale pubblica presso un magistrato, detta di assegnazione, per garantire che l’ereditiera vada in sposa ad un parente del padre.
Il matrimonio, lungi da essere un’unione puramente amorosa e disinteressata, è la compera di una merce specifica quale è la donna. All’atto del suo scioglimento in generale è dovuta la restituzione della dote, garantita da norme ed azioni legali, una delle quali riguarda l’interesse, stabilito al tasso del 18%.
Il patrimonio ereditabile di un individuo è in origine il lotto di terra con gli annessi attrezzi agricoli e il bestiame. In età classica, con l’avanzamento della proprietà privata, l’asse ereditario viene ad includere i beni mobili, i crediti e i debiti. L’evoluzione delle soprastrutture giuridiche riflette, con ritardo, il decorso della sottostante struttura. Anche la terra, divenuta proprietà individuale, può essere alienata. Ma la suddivisione del patrimonio in parti uguali tra i figli legittimi, naturali o adottati o di precedenti matrimoni, testimonia del basso grado di sviluppo dell’autonomizzazione del valore di scambio. L’assenza di un sistema di primogenitura e il limitato potere di scelta del padre rendevano difficile evitare la suddivisione del patrimonio o preservarlo se in assenza di discendenti.
Tra le varie merci di cui abbonda l’agorà sono gli uomini ridotti in schiavitù. Un uomo può essere schiavo per nascita, figlio di genitori schiavi, o perché lo è diventato. Nell’Atene presoloniana è abbastanza comune per uomini liberi ricadere nello stato servile: possono essere stati venduti come schiavi dai loro genitori, o possono aver dato la loro persona in garanzia per debiti, o possono essere messi in schiavitù per debiti non pagati. Ad Atene queste procedure saranno vietate espressamente da Solone e a partire dall’inizio del VI secolo un cittadino non potrà essere ridotto in schiavitù. Con due sole eccezioni: se un ateniese paga il riscatto per un concittadino prigioniero di guerra e quest’ultimo non gli restituisce la somma o per certi reati di stranieri o meteci.
Lo Stato è proprietario di gran numero di schiavi “pubblici”, i quali formano una classe di privilegiati, con stato giuridico paragonabile a quello dei meteci.
Con lo sviluppo del valore di scambio e dello Stato si impone di connotare il rapporto fra i cittadini e gli stranieri. Il termine “meteco” indica un individuo che non risiede nella città di origine, oppure che è sottoposto ad uno specifico status legale. La gran parte dei meteci è costituita da stranieri che si sono trasferiti in Attica e formano una classe separata ai fini dell’imposizione fiscale.
Nascita della filosofia come pensiero alienato
La filosofia greca arcaica e classica è nata materialistica e dialettica, questo sempre negato dalla storiografia ufficiale, dal cristianesimo e dall’idealismo, che la dicono ingenua e primitiva. La cultura greca delle origini ha un’impostazione materialistica: per Omero l’anima è aria, un soffio che abbandona il corpo del morente.
Il pensiero filosofico greco è scientifico, l’indagine sulla natura si accompagna all’indagine sull’uomo e la società. I pitagorici (sec. VI-V a.C.), sostenendo che “tutto è numero”, si rappresentano un universo decifrabile e descrivibile in termini matematici. Scoprono, attraverso quanto era loro pervenuto dalla geometria di Anassimandro, che intendere significa misurare. Nella loro rappresentazione del mondo, poiché i solidi sono insiemi di piani, i piani di linee e le linee di punti, l’intelligenza delle cose si riduce a quelle dei punti e della variazione delle loro relazioni spaziali.
Le numerose leggende su Pitagora nascondono l’interesse per i suoi progressi nel campo della matematica. Proveniente da Samo si trasferì in Italia meridionale, dove sorsero numerose comunità pitagoriche, a Crotone, Sibari, Metaponto, caratterizzate da una vita comunitaria (era loro il detto «le cose degli amici sono comuni»). Impegnate nella vita politica, sostenevano in generale programmi aristocratici, ma non mancarono rivolte pitagoriche a carattere democratico, cioè popolare e contadino. Ippaso di Metaponto, seconda metà del VI sec. a.C., della fazione democratica, fece la rivoluzionaria scoperta dei numeri irrazionali. Alcmeone di Crotone, medico, fisiologo e biologo (fine del VI - inizio del V), per primo sostenne che il centro dell’attività senziente e pensante era il cervello e la salute consisteva in un equilibrio tra elementi che si trovano nell’uomo.
Scienziati furono gli esponenti della cosiddetta scuola ionica, sviluppatasi sulle coste dell’Asia Minore. Talete (fine VII - inizio VI sec.), studioso di geometria, elaborò per primo una teoria delle eclissi solari e sostenne che gli astri sono della stessa materia di cui sono composti i corpi che cadono sotto la nostra esperienza. Anassimandro descrisse fenomeni naturali, come i tuoni, le folgori, i turbini, i venti; abbozzò una teoria della storia naturale dell’universo e della terra in cui si inquadrava una teoria dell’evoluzione delle specie viventi, compresa quella umana, dalle inferiori alle superiori. Sostenne l’infinità dei mondi. Anche Anassimene (prima metà del VI sec.) sostenne che la Terra e gli astri sono formati dagli stessi elementi, una materia eterna, infinita, che egli chiamava pneuma, aria o soffio, dotata di movimento proprio, dalla quale si originano tutte le cose.
Nella prima metà del V sec. a.C. Parmenide di Elea, presentato come il fondatore della metafisica occidentale, fu invece studioso della natura: il suo famoso Essere, che ha fatto versare fiumi di inchiostro agli amanti della metafisica, era semplicemente “materia che occupa spazio” in un universo finito ma illimitato perché sferico. Parmenide scoprì che quella della luna è luce del Sole riflessa, e che la prima stella che appare dopo il tramonto del sole e annuncia la sera (Hésperos) è la stessa che vediamo all’alba (Phosphóros, che porta l’aurora). Oltre che astronomo Parmenide fu anche biologo, studiò la determinazione del sesso nell’embrione. Importante la sua concezione materialistica del pensiero dalla “crasi”, la mescolanza degli elementi che compongono il corpo dell’uomo.
Discepolo di Parmenide, Zenone di Elea elaborò una profonda riflessione attorno al problema dell’unicità dell’Essere e della Molteplicità, che oggi chiameremmo teoria atomistica. Ammessa, pitagoricamente, l’esistenza di punti reali costituenti le cose, ne segue che ciascuno di tali punti debba avere una grandezza, anche se minima: se il punto non avesse grandezza come sarebbe possibile che punti senza grandezza diano luogo a grandezze? Il punto, se non avesse grandezza, non esisterebbe. Quindi in un punto vi sarebbero infiniti punti. Allora ogni punto sarebbe infinitamente grande. Ammesso che le cose sono costituite di punti, essi sarebbero ad un tempo in numero finito e infinito, il che è contraddittorio: sono in numero finito, perché in una data cosa non possono essere più o meno di quanto sono; infinito perché tra l’uno e l’altro ve ne è un altro ancora, e tra questo e l’altro un altro ancora all’infinito. Ammessa la molteplicità delle cose reali, bisogna ammettere o che sono continue, onde la molteplicità si annulla nella continuità, o che, essendo divisibili all’infinito, sono costituite di infiniti punti, divisibili all’infinito, sino all’uno, cioè al nulla.
Nello stesso periodo Eraclito di Efeso sostenne l’esistenza di un logos (ragione, discorso, legge) eterno che è al fondo di tutte le cose, e la cui legge è la contrarietà: la realtà è una continua tensione di contrari (che egli chiama pólemos, guerra), una presenza e lotta di elementi contrastanti. Ma questa guerra è anche ciò che costituisce la “armonia nascosta” di tutte le cose e dell’universo intero. Può essere quindi certamente considerato uno dei primi dialettici.
Anche per Empedocle di Agrigento (V sec. a.C.) tutti i fenomeni della realtà, il loro nascere e perire, sono il risultato dell’aggregarsi e del disaggregarsi di quattro elementi originari, eterni, ingenerati ed imperituri, che chiama rizómata (radici), il fuoco, l’aria, l’acqua e la terra. Questa materia eterna è dotata di una forza interna bipolare, che determina il suo trasformarsi, che Empedocle chiama philía e neikos (cioè amicizia e contesa, amore e odio), che costituiscono la forza aggregante e quella disaggregante delle quattro radici. Tutte le cose che noi vediamo sono il risultato del comporsi e dello scomporsi degli elementi originari e sono soggette ad una continua evoluzione: anche la vita, come tutti gli altri fenomeni, è il risultato di questa evoluzione: le specie animali, compresa quella umana, appaiono ad un certo punto di questo processo e si sono trasformate fino ad assumere le caratteristiche che noi oggi conosciamo.
Anassagora di Clazómene (prima metà del V sec.) trasferì in Atene quella cultura filosofica e scientifica che si era sviluppata nelle colonie greche. Già nell’antichità chiamato “il super-fisico”, spiegava i fenomeni con ragioni tutte naturali, segnando così il definitivo distacco tra il sacro-mitologico e la nuova mentalità razionale e scientifica, in senso decisamente materialistico dal momento che affermava che «l’uomo è l’animale più sapiente perché è dotato di mani». Anassagora affrontò tutta una serie di problemi che vanno dalla spiegazione dei terremoti alla geologia, dalla fisiologia alla meteorologia, all’astrologia, alla geometria, ai problemi di prospettiva e di scenografia. La spiegazione razionale della realtà avviene partendo dall’ipotesi dei “semi”, che costituiscono le particelle minime della materia, che ne caratterizzano le qualità e sono soggette ad una legge eterna che egli chiama Intelletto o Mente. Ebbe anche l’importante intuizione del limite delle percezioni sensoriali, oltre il quale non ci si può spingere.
Il suo materialismo, che gli fa affermare l’omogeneità e l’unità del cosmo e bandire ogni spiegazione divina e miracolosa, lo porta a contrasti con gli ambienti del potere e della cultura tradizionale: accusato di empietà è processato; per l’intervento di Pericle riesce ad aver salva la vita, ma deve lasciare Atene.
Nel V sec. si svilupparono molto due scienze. La medicina con Ippocrate di Cos, che apriva al sapere medico un nuovo campo d’indagine ben distinto dalla medicina divina e sacerdotale, unendo l’osservazione sperimentale e la pratica con la interpretazione e la teorizzazione. La matematica, con i pitagorici Filolao di Crotone e Archita di Taranto, diventa lo strumento che dà all’uomo la possibilità di conoscere e di cogliere la profonda armonia dei rapporti fra fenomeni diversi, in contraddittorio divenire.
Tra V e IV secolo Democrito di Abdera spiega la materia come formata di atomi, infiniti corpi materiali primi che entrano nella composizione di ogni cosa, dalle stelle all’uomo, in eterno movimento. È questo movimento che provoca l’aggregarsi e il disaggregarsi degli atomi, e quindi del nascere, del divenire e del perire delle cose.
Anche l’uomo è formato di atomi, e questi sono in rapporto con quelli di tutti gli altri enti. Questo rapporto è ciò che chiamiamo sensazione. Ciò che agisce e ciò che patisce sono la stessa cosa, atomi e composti di atomi. Riprendendo una intuizione empedoclea, Democrito afferma che le cose, pur essendo diverse, agiscono l’una sull’altra in quanto in esse c’è qualcosa di identico. La nostra facoltà di sentire risiede nel fatto che sia noi sia gli altri esseri siamo composti di atomi della stessa specie. Siamo quindi in perenne contatto col mondo che ci circonda. La sensazione non è che questo contatto che si stabilisce tra gli atomi che compongono il nostro corpo e quelli che compongono le altre cose; ogni tipo di sensazione, pur diversa l’una dall’altra, può ridursi a questo contatto.
Accanto a questa facoltà di sentire, l’uomo ha anche la facoltà di accorgersi di sentire, di avere cioè la coscienza delle sue sensazioni: di pensare. Questa facoltà, che Democrito chiama intelletto (nous), o ragione (logos), è una facoltà strettamente legata alla prima e per l’uomo sentire e avere la coscienza di sentire, cioè pensare, sono tutt’uno. Anche se l’uomo non si accorge di sentire tutto ciò con cui entra in contatto.
Ma che cos’è che fa sì che ci accorgiamo di sentire e che ci consente di pensare? Con Democrito entra nella cultura occidentale quella che sarà la protagonista dei dialoghi platonici: l’anima. Gli antichi ritengono che anche l’anima sia materiale, composta di atomi, più sottili e mobili di quelli che compongono il corpo, diffusi in tutto il corpo e suo principio di movimento. Democrito parla di corpo e anima, e attribuisce all’anima non solo le funzioni del percepire le proprie sensazioni, e quindi di pensare e ragionare, ma anche un ruolo fondamentale nell’etica, cioè nella delineazione di una condotta di vita sana e giusta. Per Democrito l’anima è non solo corporea, formata di atomi, ma è compenetrata nel corpo e non si può stabilire una separazione di una unità complessa quale è l’uomo; l’uomo è una unità indissolubile di anima e di corpo.
Degli atomi non si può avere sensazione, perché sono piccolissimi e sfuggono ai nostri sensi. Possiamo avere sensazione soltanto dei loro composti aggregati, riguardo le loro qualità: colori, sapori, odori, gusti, suoni. Queste sensazioni sono “vere” in quanto esprimono reali modificazioni del nostro essere determinate dai mutevoli rapporti tra i nostri organi di senso ed i corpi esterni. Ma esse sono mutevoli perché questi rapporti cambiano continuamente. Così è pure di quel pensiero che su di esse si fonda, quel pensiero che Democrito chiamerà proprio degli “stolti”, la “conoscenza oscura”. V’è invece un’altra forma di conoscenza, molto più sicura, “genuina”, che si fonda non su quei mutevoli rapporti e sulle disposizioni del nostro corpo, ma sulle strutture della realtà che possono cogliersi solo con l’intelletto, con una forma di pensiero che non è più legata immediatamente ai nostri sensi.
Democrito riprese e sviluppò le teorie evoluzionistiche di Anassimandro e di Empedocle, delineando una storia della natura e della nascita della materia organica, della vita, dalla materia inorganica, in un’evoluzione delle specie, dalle più semplici fino alle più complesse, e all’uomo. Ad un certo stadio del suo sviluppo la terra fu in grado di produrre organismi viventi. Subentrò poi quello della generazione sessuale. Il processo evolutivo combina insieme sviluppo quantitativo e salti qualitativi, in un processo dialettico applicato non solo all’origine e allo sviluppo della vita, ma anche della società.
Anche dal punto di vista gnoseologico Democrito è un materialista ed un determinista. Costruire un sistema di conoscenze significava escludere, oltre qualsiasi influsso divino, anche l’intervento del “caso”: tutto è soggetto ad una necessità, che è anche la legge suprema della natura, nulla viene prodotto dal caso, ma esiste una causa determinata per ogni cosa. Il caso non è che una comoda scappatoia degli uomini per nascondere la propria ignoranza, la parola che essi usano quando non sanno spiegarsi un dato fenomeno.
Lo studio dei presocratici è complicato dalla frammentarietà delle opere che ci sono pervenute e dal linguaggio poetico spesso utilizzato. La situazione si modifica radicalmente con Platone. La posteriore filosofia accademica l’ha definito il padre dell’idealismo occidentale e perfino precursore del cristianesimo. Invece per Platone il pensiero è un riflesso della realtà. Ma solo perché le strutture logiche del pensiero sono le stesse della realtà è possibile al pensiero di arrivare alla conoscenza del reale. Il pensiero è la strutturazione del reale al livello conoscitivo. Conoscere la realtà è riprodurre al livello delle forme del pensiero una struttura reale. Quando fa questo, il pensiero coglie la verità, quando ciò non avviene, è nel falso. Quindi non solo non c’è contrapposizione tra pensiero ed essere ma il pensiero è niente altro che una forma dell’essere stesso.
Sicuramente Platone non è materialista nel
senso marxista, tuttavia vi sono dei concetti che possiamo
rivendicare nello stesso spirito con cui rivendichiamo il comunismo
primitivo, o le prime riflessioni materialistiche e socialistiche di
un La Mettrie, di un Babeuf o di un Buonarroti, o tutto il filone del
socialismo utopistico. In particolare:
1) L’uomo è un composto indissolubile di
anima e corpo, per anima intendendo il pensiero, ma anche le
affezioni, gli impulsi, ecc.
2) La democrazia è la peggiore forma di
costituzione per la città, perché produce ricchezza e povertà in
maniera smisurate e dà luogo alle peggiori tendenze dell’uomo,
avidità, desiderio di potere, passioni sfrenate, voglia di
sopraffare.
3) Sono eliminate le due cause di malattia, la
proprietà privata e la famiglia, da cui sorgono i peggiori mali per
la città.
4) Salvo le differenze fisiologiche, maschio e
femmina sono uguali e possono parimenti svolgere tutte le funzioni
pubbliche, quando ne abbiano la capacità: chiaro l’esempio, ne “La
Repubblica”, della donna medico che, in quanto tale, non differisce
in nulla dal medico maschio.
Platone auspica il “governo dei filosofi”, intendendo con essi gli uomini che cercano non il bene personale ma quello della città e che conoscono quale esso sia. Solo loro possono fare della città un’organica unità nella quale tutti concorrono al bene di tutti. Quando i filosofi avranno raggiunto il potere, come faranno a convincere gli altri della bontà di questa costituzione? Ne “La Repubblica” si sostiene recisamente che ciò avverrà “con la persuasione e con la forza”. Vogliamo intenderlo come germe del concetto di dittatura di un partito rivoluzionario, della necessità della sua propaganda e della sua violenza statale?
Per altro l’Accademia platonica, se è un centro di studi, di ricerche, di libera e comune educazione, vuole anche rappresentare una scuola di vita etico-politica, un “partito”. Filosofare significa per Platone, più che astratta e solitaria meditazione, scuola di vita, liberazione, formazione avente per scopo la kalokagathia, bello e buono, una perfezione fisica e morale. Insomma rivendichiamo Platone come uno “dei nostri”, e non dei nostri avversari.
Per Platone la realtà si coglie coi sensi e con la ragione, e i due livelli, pur essendo diversi, sono inseparabili. La conoscenza parte dai sensi, ma non si ferma ad essi: le idee sono le spiegazioni che ci permettono di capire ciò che la sensibilità ci offre; in quanto principi non derivano dai sensi, ma li spiegano: sono forme che sistemano un contenuto, il materiale sensibile. Il fatto che Platone dica che è il pensiero a cogliere le leggi della realtà quando non è coinvolta dai sensi indica semplicemente che quando si pensa non si sente, la sensibilità è alle spalle della razionalità, presente, ma in maniera mediata nei movimenti del pensiero. In questo senso, non si può parlare di “dualismo” platonico: è stato Aristotele che ha interpretato Platone parlando di una “separazione” tra il livello della sensibilità e quello della razionalità.
Anche Aristotele riveste una posizione fondamentale nella storia del pensiero. È la nostra fonte dei filosofi presocratici, ma è spesso deformante. Un rapido sguardo al corpus aristotelico permette di cogliere immediatamente da un lato la sua caratteristica di grande scienziato “totale”, dall’altro il massimo rappresentante del pensiero di una società divisa in classi e con una crescente divisione sociale del lavoro.
Nei suoi scritti, ben distinti per argomento, ci si occupa di logica, di etica, di metafisica, di biologia, di fisica, ecc. Dal grande pensiero presocratico e platonico, che si orientava alla ricerca della “verità”, ovvero alla realtà da abbracciare come un tutto, in Aristotele progressivamente si passa alla descrizione della realtà quale essa appare. Nel Liceo, come su un grande tavolo si andava ad adagiare una grande mole di materiale a scopo meramente classificatorio mentre le essenze diventano indimostrabili e non conoscibili. La conclusione non può che essere il grande formalismo della sua logica. Mentre per Platone la dialettica è scienza delle scienze, perché permette di connettere tra loro le essenze quali strutturazioni del pensiero e nel pensiero della struttura del reale, per Aristotele non lo è più e la logica diventa connessione formale di universali.
Il grande merito della sistemazione dei principi e procedimenti logici, cioè del meccanismo di funzionamento del pensiero, si ribalta nel suo più grande demerito. La ricerca delle strutture logiche a priori lo conduce a teorizzare l’esistenza di principi primi, e come tali indimostrabili, che possano adattarsi a qualsiasi struttura reale, o del discorso nel linguaggio della Grecia classica. Una volta raggiunti questi assiomi è possibile pensare il reale semplicemente combinandoli in forme diverse, in un certo senso uno strutturalismo di epoca classica che perde di vista le connessioni reali tra gli enti, intellegibili solo quali parti della totalità, e in grado solamente di dare le loro relazioni formali.
Aristotele, pertanto, non poté non muovere aspre critiche a Platone, il suo maestro, costruendo l’immagine, che ha viaggiato per due millenni e mezzo fino a noi, di un Platone astratto, metafisico, mistico. La sua filosofia è in buona sostanza una descrizione dell’esistente con un metodo che potremmo definire “empirista”: dall’esperienza, con un metodo induttivo e di astrazione, l’uomo elabora concetti che gli consentono di sistemare entro schemi fissi e determinati tutti gli aspetti della realtà, dalla fisica alla astronomia, alla biologia, alla politica, ecc.
La sua concezione è di una realtà che è come sempre è stata e come sempre sarà; la sua filosofia è una filosofia descrittiva che non prevede alcun mutamento nelle strutture logiche, fisiche, biologiche e politiche. Combatté, e contribuì ad affossare per millenni, gli spunti di una teoria dell’evoluzione che c’erano stati nella cultura precedente (Anassimandro, Senofane, Empedocle, Democrito), concependo tutte le specie animali, compresa l’umana, come fisse e con caratteri immutabili. Combatté Platone specialmente per la sua critica alla proprietà privata e alla famiglia, da lui considerate come facenti parte della stessa natura dell’uomo.
Il ricordo mitico del comunismo
Nell’approccio borghese lo studio della mitologia non è correlato ai rapporti di produzione di cui è emanazione, così relegandola nel campo della fantasia e del sogno. Al contrario il marxismo si sforza di rintracciare in essa lo sfumato ricordo dell’antico modo di produzione comunistico, una narrazione che ha avuto la forza di mantenersi viva nell’animo dell’uomo e di continuare a commuoverlo pur attraverso tutte le successive stratificazione storiche.
Così nel mito pelasgico della creazione non sono presenti né dèi né sacerdoti, ma soltanto una dea universale e le sue sacerdotesse, perché la donna esercitava il ruolo di guida della società naturale. E poiché si pensava che la donna rimanesse incinta per le virtù fecondatrici del vento o di altre determinazioni naturali – come tuttora presso alcuni popoli primitivi in Congo – la paternità non veniva riconosciuta e la successione era matrilineare.
«All’inizio Eurinome, Dea di Tutte le Cose, emerse nuda dal Caos e non trovò nulla di solido per posarvi i piedi: divise allora il mare dal cielo e intrecciò sola una danza sulle onde. Danzando si diresse a sud e il vento che turbinava alle sue spalle le parve qualcosa di nuovo e di distinto; pensò dunque di iniziare con lui l’opera della creazione. Si voltò all’improvviso, afferrò codesto Vento del Nord e lo soffregò tra le mani: ed ecco apparire il gran serpente Ofione. Eurinome danzava per scaldarsi, danzava con ritmo sempre più selvaggio finché Ofione, acceso di desiderio, avvolse nelle sue spire le membra della dea e a lei si accoppiò. Ora il Vento del Nord, detto anche Borea, è un vento fecondatore; spesso infatti le cavalle, accarezzate dal suo soffio, concepiscono puledri senza l’aiuto di uno stallone. E così anche Eurinome rimase incinta.
«Subito essa, volando sul mare, prese la forma di una colomba e, a tempo debito, depose l’Uovo Universale. Per ordine della dea, Ofione si arrotolò sette volte attorno all’uovo, finché questo si schiuse e ne uscirono tutte le cose esistenti, figlie di Eurinome: il sole, la luna, i pianeti, le stelle, la terra con i suoi monti, i suoi fiumi, i suoi alberi e le erbe e le creature viventi». Nella variante orfica dello stesso mito il trapasso da una società matrilineare al patriarcato è simboleggiato dallo scettro della Notte che ad un certo punto passa nelle mani di Urano.
Ancora più chiaro è il tentativo di giustificare a posteriori il nuovo modo di produzione leggendo il mito di Zeus e Meti nel senso della saggezza prerogativa maschile: fino ad allora soltanto la Grande Dea era stata sapiente:
«I sacerdoti di Atena narrano così la storia della sua nascita: Zeus inseguiva voglioso la titanessa Meti che per sfuggirgli assunse diverse forme, ma infine fu raggiunta e fecondata. Un oracolo della Madre Terra disse che sarebbe nata una figlia e che, se Meti avesse concepito una seconda volta, sarebbe nato un figlio destinato a detronizzare Zeus, così come Zeus aveva detronizzato Crono, e come Crono aveva detronizzato Urano. Zeus allora, dopo aver indotto Meti, con melate parole, a giacere accanto a lui, improvvisamente spalancò la bocca e la inghiottì (...) A tempo debito Zeus fu colto da un terribile dolore di capo mentre camminava lungo le rive del lago Tritone (...) Subito accorse Ermete, che indovinò la causa della pena di Zeus. Egli indusse dunque Efesto o, come altri sostengono, Prometeo, a munirsi di ascia e di maglio per aprire una fessura nel cranio di Zeus, ed ecco balzar fuori Atena, tutta armata, con un potente grido».
Si fanno risalire le origini della storiografia ad Erodoto e a Tucidide; ma anche i miti, nei quali la forma poetica è il mezzo adeguato alla loro trasmissione orale, vi debbono contribuire. Le lotte tra gli dèi di cui è piena la tradizione classica nasconde reali guerre tra classi.
Allo stesso modo va interpretata, per esempio, la sostituzione nei santuari delle sacerdotesse con figure maschili. Gli invasori patriarcali, che ad ondate successive invasero l’Attica ed infine sconfissero definitivamente le preesistenti tribù matrilineari, si affrettarono a impadronirsi dei templi dalla Madre Terra, che sola in origine, di grande autorità, pronunciava oracoli; sostituirono sacerdoti alle sacerdotesse, oppure le costrinsero a servire le nuove divinità maschili. Fu così che Apollo si impadronì dei santuari di Delfi e di Argo. Qui alle profetesse fu concessa una completa libertà: a Delfi, un sacerdote fungeva da intermediario tra il supplice e la profetessa, traducendo in esametri l’incoerente balbettio di quest’ultima.
La stessa religione olimpica, emblema dell’antichità greca classica, subì numerosi aggiustamenti ad opera degli invasori patriarcali. La famiglia divina comprendeva, all’inizio, sei dèi e sei dee. Si mantenne un equilibrio instabile di forze finché Atena nacque dalla testa di Zeus e Dioniso, nato dalla sua coscia, prese il posto di Estia al concilio degli dèi; in seguito fu assicurata la preponderanza maschile in ogni concilio degli dèi, una situazione che rifletteva quella sulla terra. La sottomissione della donna, che solo il comunismo farà cessare, era così giustificata anche teologicamente, rivestita di un carattere naturale, sacro ed eterno.
Niente di diverso né peggiore dall’opera dei nostri contemporanei economisti borghesi, che da più di un secolo hanno cessato ogni ricerca scientifica per cadere con entrambi i piedi nella volgare giustificazione del più bestiale modo di produzione mai apparso sulla faccia della Terra.
La classe operaia e il nazionalismo irlandese
Parte prima
IL MARXISMO E LA QUESTIONE IRLANDESE
Capitolo esposto a Genova nel maggio 2014
1. Condizioni naturali e storia antica
dell’Irlanda
2. La conquista inglese
3. La questione irlandese nella Prima Internazionale
[ È qui ]
Dall’Archivio della Sinistra
Dopo la compiuta degenerazione della Terza Internazionale e delle sue sezioni nazionali, accompagnata dalla eliminazione anche fisica dei migliori dirigenti comunisti; dopo le deviazioni in senso democratico (o la dissoluzione) di gruppi organizzati che nacquero, ma senza una solida base teorica, in opposizione alla controrivoluzione staliniana, il partito ha potuto ricostituirsi su di una solida base programmatica e dottrinale solo dopo la fine della seconda guerra imperialista, per la precisione nel 1952.
Ciò non significa che noi rinneghiamo o sottovalutiamo la generosa, eroica milizia di tanti compagni, per la maggior parte semplici proletari, che, fin dalla seconda metà degli anni ‘20, riuscirono a continuare la battaglia della Sinistra comunista italiana.
Molto studio abbiamo dedicato infatti alla Frazione all’estero, ed un numero monografico della nostra rivista al Partito Comunista Internazionalista sorto nel 1943.
La Frazione all’estero pose sempre la massima attenzione al problema della guerra ed alla necessità della riorganizzazione a scala internazionale del movimento rivoluzionario, opponendo al militarismo la preparazione dell’insurrezione rivoluzionaria.
Contro il giganteggiare della controrivoluzione non solo non fu possibile prevenire con moti rivoluzionari lo scoppio del nuovo conflitto interimperialista, e tantomeno fu possibile trasformarlo in guerra civile come nel 1917 era riuscito in Russia ad opera del partito bolscevico.
Il piccolo movimento, che prese il nome di Partito Comunista Internazionalista, riallacciandosi alle posizioni di classe del Partito di Livorno e della Sinistra comunista, non mancò di denunciare il tradimento dell’Unione Sovietica e dei partiti comunisti nazionali, che presentavano la guerra come crociata contro il nazi-fascismo e mobilitavano il proletariato a favore di uno dei due opposti blocchi, non meno controrivoluzionario ed imperialista dell’altro.
La nostra parola d’ordine “contro tutte le guerre” era motivo per gli stalinisti di accusarci di essere al servizio del nazi-fascismo, o, nel migliore dei casi, di una posizione di sterile indifferentismo.
Per ribattere alla prima accusa basta ricordare che furono invece gli stalinisti, nel 1939, a firmare l’infame patto russo-tedesco, ed in Italia era il partito di Togliatti ad inviare ripetuti appelli ai fascisti facendo suo il “programma di San Sepolcro”.
La seconda accusa, di ritenere indifferente, ai fini della futura rivoluzione proletaria, la vittoria dell’uno o dell’altro fronte imperialista era altrettanto falsa quanto la prima. Noi, come Marx Engels e Lenin ci avevano insegnato, sostenevamo che alla soluzione anche di quella guerra avrebbero corrisposto differenti effetti sulle classi sociali e sulla possibilità di sviluppo della loro azione, e che quindi il partito avrebbe dovuto tenerne conto prevedendo quale avrebbe potuto essere più vantaggiosa per il comunismo. Ma anche l’utilizzo ai fini della rivoluzione della situazione più favorevole potrà avvenire solo se il partito non avrà compromesso la sua azione schierandosi a fianco dell’uno o dell’altro fronte, anzi, se avrà da sempre denunziato il tradimento dell’opportunismo e della sua scelta di campo all’interno della guerra imperialista.
Il primo dei documenti che ripubblichiamo è di poco successivo alla caduta di Mussolini, gli altri alla fuga di Vittorio Emanuele e del suo codazzo.
La vigliacca borghesia italiana, degna del suo reuccio, dava Mussolini in pasto al popolo per non essere travolta dalla caduta del fascismo e continuare lo sfruttamento delle classi lavoratrici. Il ripristino delle “libertà costituzionali” doveva servire a trattenere il proletariato da tentativi di azione autonoma. Ma questa manovra poté essere portata a termine solo grazie alla collaborazione del partito stalinista che impegnava il proletariato nella campagna per il fronte nazionale, con i propagandisti nazional-comunisti che nelle piazze e nelle fabbriche che esortavano i proletari alla calma ed alla ripresa del lavoro, ossia ad assoggettarsi pazientemente alla dittatura militare di Badoglio che, è il caso di mettere in evidenza, fu più feroce di quella fascista.
Dopo la firma dell’armistizio l’occupazione tedesca fu presa a pretesto per aggiogare il proletariato alle idealità nazionali. La reazione militare delle forze tedesche in ritirata alle incursioni dei gruppi della resistenza, ispirati e diretti dai partiti democratici e stalinista, servì magnificamente a preparazione psicologica per arruolare le masse operaie e popolari a fianco della cosiddetta democrazia, così imprigionandole nella rete della guerra imperialista. La “guerra di liberazione” venne condotta al servizio degli eserciti alleati.
I compagni del P.C.Internazionalista vedevano chiaro affermando la necessità del partito di classe, il solo in grado di contrastare l’opera controrivoluzionaria dell’opportunismo, contro la mobilitazione a fianco di uno dei due belligeranti, contro la parola d’ordine della concordia nazionale, per la lotta di classe, soggetto unico della presa del potere.
OPERAI, CONTADINI, SOLDATI,
la caduta del fascismo apre una crisi che non può e non deve fermarsi né ad un governo militare che è una seconda copia del regime mussoliniano, né ad un eventuale ripristino delle vecchie forme democratiche. La borghesia, la monarchia, la chiesa – creatori e sostenitori del fascismo – che buttano oggi Mussolini in pasto al popolo per evitare di essere travolti con lui, e che assumono vesti democratiche e popolaresche per poter continuare lo sfruttamento e l’oppressione delle classi lavoratrici non hanno nessun diritto di dire una parola nella crisi attuale: questo diritto spetta esclusivamente alla classe operaia, ai contadini e ai soldati, eterne vittime della piovra imperialistica.
Noi attendiamo la salvezza né dalla monarchia, né da quell’eventuale governo di coalizione democratica di cui si fanno promotori i «cinque partiti antifascisti» – i Kerenski dell’Italia 1943.
Operai, contadini, soldati,
che avete cominciato a spargere il vostro sangue sotto il costituzionalissimo piombo del governo di casa Savoia per aver messo all’occhiello la coccarda rossa, simbolo della vostra fede, la vostra ora è vicina.
Unitevi intorno al partito comunista internazionalista nella lotta degli sfruttati contro gli sfruttatori.
Smascherate gli opportunisti e collaborazionisti di ieri, di oggi e di sempre! Imponete la cessazione di una guerra imperialistica che tutti i governi borghesi hanno voluto e di cui voi siete stati e siete le uniche vittime!
Create nelle fabbriche, nei villaggi e nelle caserme i vostri naturali organi di battaglia, i consigli degli operai, dei contadini e dei soldati come armi di difesa e di offesa contro il vostro nemico di classe! Siate con la vostra lotta di esempio agli operai di tutto il mondo affinché combattano con voi contro lo stesso nemico.
Viva la rivoluzione proletaria. Viva il comunismo !
Il Partito Comunista Internazionalista
IL PROLETARIATO ITALIANO NON DEVE PIÙ LASCIARSI INGANNARE
Nello spazio di poco più di un mese, il proletariato italiano ha rifatto il cammino di tante dolorose esperienze passate.
La manovra borghese del governo Badoglio
L’esperimento Badoglio può essere definito come un tentativo borghese, poggiante sulla base tradizionalmente conservatrice della monarchia, di risolvere il problema del fascismo e di una guerra in sommo grado impopolare, parando nello stesso tempo, col miraggio di un ritorno alle libertà costituzionali, la minaccia di un assalto del proletariato al potere. Si trattava di scindere le responsabilità della borghesia nel suo complesso e nella varietà delle sue istituzioni da quelle di un presunto “governo al disopra delle classi”, di far lo scandalo intorno ad un gruppo ristretto di uomini, affinché lo sdegno delle masse si concentrasse su di essi e soltanto su di essi, e non incidesse sulla maestà inviolabile delle istituzioni borghesi.
Si gettò in pasto alla folla Mussolini, poi, a piccole dosi il partito e i gerarchi maggiori, proprio perché di giorno in giorno, le folle trovassero davanti a se un nuovo piccolo bersaglio da colpire e non avessero mai a trovarsi faccia a faccia con il nemico fondamentale. Con stessa astuzia, si dosarono a poco per volta le rivendicazioni e le promesse, affinché raggiunto di colpo un regime di libertà costituzionali, il proletariato non fosse tentato a scavalcarlo. La grande borghesia cambiava pelo per non perdere il vizio: ripetendo a rovescio l’esperimento del 1922, essa che, impotente a tenere nel quadro delle istituzioni democratiche l’ondata rivoluzionaria sprigionata dalla crisi dell’altro dopoguerra, aveva creato il fascismo, lo liquidava d’accordo ancora una volta con la monarchia, per le stesse ragioni.
La manovra ebbe tanto più l’effetto sperato, in quanto le avevano preparato il terreno fra le masse la degenerazione del massimo partito operaio, il Partito Comunista Italiano, e la sua accesa campagna a favore del fronte nazionale.
La borghesia non aveva che da far sue le parole d’ordine di unione antifascista lanciate dal centrismo e ottenere così alla dittatura militare monarchica un consenso di popolo. È vero che la guerra continuava e l’asse rimaneva intatto, è vero che l’opera di risanamento costituzionale procedeva con estrema lentezza; ma, a giustificazione di questo ritardo nelle decisioni supreme, serviva lo spauracchio dell’invasione tedesca, alla quale non si poneva d’altronde alcun argine serio.
Il collaborazionismo
Così il collaborazionismo, che il centrismo sbandierava come una tattica per battere d’astuzia la borghesia, serviva come sempre al regime borghese per addormentare il proletariato.
E il blocco dei sei partiti – di cui è stato l’ispiratore più acceso il Partito Comunista – si strinse, pur mordendo il freno, intorno al Governo cosidetto antifascista di Badoglio, ne accettò cariche e onori pur negando ogni corresponsabilità politica con esso, come se il fatto di assumere incarichi ufficiali non importasse di per sé al di là di qualunque riserva mentale, una corresponsabilità col mandante. In seno al Comitato antifascista romano l’ardore collaborazionista toccava il vertice con le proposte centriste di un governo di ricostruzione nazionale in funzione antitedesca sotto l’egida monarchica; nelle fabbriche e sulle piazze, gli oratori socialisti e comunisti esortavano alla calma, invitavano gli operai a riprendere il lavoro, accettavano insomma il ruolo di imbonitori del governo perché le masse – impazienti e pronte a combattere – si lasciassero persuadere a non combattere. Il tradimento del fronte popolare si allargava: non più Blum o Daladier si sosteneva, ma Badoglio. E lo si sosteneva anche se, a tratti gli si lanciavano insulti. Che paura potevano ormai incutere un partito comunista che si vergognava di parlare di comunismo e che, già prima della crisi, si era dichiarato disposto a collaborare fraternamente con tutte le varietà della borghesia antifascista, (o divenuta per l’occasione tale) dai monarchici ai cattolici, dai democratici ai socialisti?
La borghesia aveva ben saputo valutare i suoi servi.
Una seconda manovra: l’armistizio
E tuttavia, la situazione rimaneva equivoca, anzi lo diveniva sempre più man mano che si scatenavano le forze liberate dal crollo della facciata fascista. Le masse erano bensì disorientate dall’equivoco e, fiduciose nella vecchia bandiera del partito, le parole d’ordine democratiche soffocavano la voce sicura dell’istinto di classe per accettare le esortazioni di “chi ne sapeva più di loro”. Ma l’equivoco giuocava in un doppio senso: le commissioni interne – burocratizzate sotto gli auspici di Buozzi e Roveda – si rifiutavano di ridursi a puri organi tecnici, la liberazione dei prigionieri politici – pur accompagnata nella più gran parte da professioni di lealismo patriottardo – accendevano speranze pericolose, la fiamma degli scioperi ardeva sotto la cenere. Sopratutto, si voleva la pace. Lo slancio delle masse, contenuto in un primo tempo, non sarebbe riesploso, togliendo di mano ai dirigenti le redini della situazione? Fu allora che l’invasione paventata tedesca e anglosassone divenne per la borghesia conservatrice l’arma provvidenziale per raggiungere lo scopo di stroncare l’ascesa rivoluzionaria delle masse.
Ci si meraviglierà ancora che Badoglio, dal 25 luglio all’8 settembre e sopratutto dalla firma alla pubblicazione dell’armistizio, abbia permesso l’occupazione tedesca dell’Italia settentrionale e centrale? Occorreva, dopo di aver strappato di mano alle masse l’arma della pace facendosene i promotori ed averle così addormentate, abbandonare il paese recalcitrante in balia dei due belligeranti, consegnarlo loro mani e piedi legati, perché cessasse di essere arena di lotte politiche e diventasse campo di battaglie militari. Il tallone tedesco avrebbe soffocato l’idra risorgente della rivoluzione proletaria nei grandi centri industriali, e agli Inglesi sarebbe spettato poi il compito di riassestare su basi più solide il vacillante capitalismo italiano. Ma, prima di una soluzione così arrischiata, bisognava preparare il terreno psicologico e lanciare l’idea tardiva di una guardia nazionale antitedesca, perché nella dura vigilia dell’occupazione germanica, fruttificasse nel proletariato sgomento l’idea della guerra di liberazione a fianco, anzi in coda, agli alleati. Dopo di aver tentato di spingere la massa operaia sulla falsa via della libertà democratica, la si imprigionava così nelle maglie della guerra imperialista. Lanciata l’idea, non c’era che da riparare sull’altra sponda, e gli angloamericani, che non avevano cessato di dir corna di Badoglio, lo accolsero a braccia aperte come capo legittimo del Governo Italiano.
Se ne stupiranno gli ingenui; noi li comprendiamo benissimo: la Monarchia è stata ancora una volta la più superba manovriera, il più solido pilastro del regime capitalista.
Chi ha tradito ?
L’accusa di tradimento che si suol oggi fare al Re o a Badoglio o ad un qualsiasi Adami Rossi non coglie nel segno. Si chiamerà traditore chi serve fedelmente gli interessi delle sua classe? O non piuttosto chi ha spinto il proletariato, contro i suoi interessi di classe, nel vicolo cieco di una collaborazione, contro la quale noi non abbiamo cessato “solo fra tutti” di metterlo in guardia?
Ed è inutile palleggiarsi, a disastro avvenuto, una responsabilità che cade in solido su chiunque aderì al blocco dei sei, sui centristi che hanno almeno avuto la spregiudicatezza di sostenere a spada tratta la politica dei blocchi, come su quel ibrido “Movimento di Unità Proletaria” (ribattezzato poi in Partito Socialista di Unità Proletaria) che contrabbandava un effettivo collaborazionismo e una sfrenata caccia ai posti sotto il coperto di una verbale intemperanza estremista. Con l’unica differenza che la merce contrabbandata ai primi portava, ahimè, l’etichetta gloriosa di un fu leninismo.
Si è soliti affermare, a giustificazione di questo tradimento, che le masse non avrebbero raccolto comunque l’appello a una azione di classe; Il gioco non è di oggi: il Partito spinge le masse riluttanti alla rovina poi si atteggia a vittima dell’impreparazione, dell’apatia, della mancanza di spirito rivoluzionario delle masse. La realtà è stata completamente diversa. In quei giorni di grancassa, gli operai capirono benissimo che li si truffava, e insistettero per manifestare concretamente lo loro volontà di combattere. Si trovarono isolati, privi dell’appoggio pratico e della guida ideologica del Partito.
Partito e masse parlavano un linguaggio diverso e agivano su piani diversi. Non solo, come si sostenne tardivamente, non si poté agire per deficienza di quadri organizzativi; non lo si volle, perché la politica del Partito si muoveva – in perfetto parallelismo con la politica della Russia – sul binario della democrazia e della guerra antitedesca; e temeva l’esplosione delle masse, quanto la temevano Badoglio o il Re.
Necessità e possibilità di una ripresa di classe
La conclusione di questa tragica vicenda sta sotto gli occhi del proletariato. La soluzione del problema italiano, rimasta per qualche giorno nelle mani delle masse, è oggi affidata alla decisione delle armi.
E, poiché su questa decisione è difficile aver dubbi, essa torna a cadere, tra le rovine che il cozzo disperato dei due contendenti lascerà dietro di sé, nelle mani della borghesia anglosassone e, subordinatamente, della sua alleata Russia staliniana. Lungi dall’aver tratto una lezione dall’esperienza, i due vecchi partiti operai (vecchi anche se riverniciati con nuovissime sigle) insistono sulla via presa e, attorno alla bandiera della “Guardia Nazionale”, che è poi uno strumento inglese e, al canto dell’Inno di Garibaldi, preparano un nuovo capestro da gettare al collo del proletariato. Questo capestro il proletariato non deve lasciarselo mettere.
La lezione di questo mese e mezzo di errori è nello stesso tempo la conferma di quanto noi sostenevamo, cioè il problema del fascismo e della guerra è tutt’uno con quello del sistema di produzione capitalistico e che, perciò, l’unica forza capace di risolverlo è la classe antagonista del capitalismo, il proletariato.
Ma perché la classe operaia imponga la sua soluzione, due premesse sono necessarie, premesse intimamente legate l’una all’altra: ch’essa non si lasci sviare sulla via del potere delle molte sirene che, in periodi di crisi, la borghesia mobilita per salvarsi, e che sappia esprimere da sé il partito della rivoluzione. La necessità storica di questo partito – che è inevitabilmente un partito di avanguardia – è messa in luce dai traviamento della politica del compromesso e dal sabotaggio opportunistico della Rivoluzione.
Un nuovo salvataggio del regime borghese a spese del proletariato non deve più essere possibile. Oggi che tutti i partiti si sforzano di mobilitare il proletariato sotto la bandiera di uno dei belligeranti, noi dobbiamo mobilitarlo sotto la bandiera della Rivoluzione, che non ammette né il dominio militare e politico tedesco né il dominio militare e politico anglosassone o russo. Contro la parola d’ordine della concordia nazionale, che per noi si traduce nella formula “che il proletariato si sveni perché l’ordine sia salvo”, noi lanciamo la parola d’ordine della lotta di classe, preludio e strumento della presa rivoluzionaria del potere.
La situazione, per quanto irta di difficoltà è non pregiudicata. La crisi italiana si innesta in una crisi europea, anzi mondiale, che guadagnerà ben presto la Germania, la Francia, i Balcani, e non mancherà di contagiare quegli stessi eserciti di occupazione che Berlino, Londra e Washington manovrano oggi come strumenti di reazione antioperaia, e di provocare nella Russia burocratizzata una salutare ripresa rivoluzionaria. Lungi dall’attenuarli, l’occupazione tedesca e anglosassone approfondisce i contrasti interni di un’Europa orrendamente sconvolta dalla guerra, e affretta ad onta di tutte le manovre borghesi l’ora della rivoluzione internazionale. In questa vigilia di faticosa gestazione, spetta al proletariato italiano una funzione di avanguardia.
Poco dopo il crollo del fascismo, noi affermammo che la crisi non poteva e non doveva fermarsi alla restaurazione delle libertà costituzionali, e che solo il proletariato – non la borghesia né la monarchia né la Chiesa – aveva il diritto di dire in essa una parola decisiva. L’opportunismo, impedendo al proletariato di dirla, ha servito, come ieri e come sempre, gli interessi del suo nemico di classe.
I lavoratori italiani ne prendano atto e ne traggano le necessarie conseguenze.
Viva la rivoluzione proletaria! Viva il comunismo
IL PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALISTA
PROLETARI TORINESI
I movimenti che avete scatenato fanno onore alla vostra classe ed alla massa in generale.
Le rivendicazioni che voi reclamate sono giuste alla condizione, che voi coscienti del vostro ruolo storico, le colleghiate in linea diretta alla terribile situazione in cui si trova il proletariato mondiale.
La vostra lotta potrà prendere una vera fisionomia classista alla sola condizione di legarla all’azione contro la guerra, cioè ad un livello più superiore di ciò che può essere una rivendicazione economica.
Lotta contro la guerra dunque, quella guerra che il nemico della vostra classe ha scatenato per distruggere voi e le vostre famiglie.
W Lo sciopero generale - W Il proletariato
mondiale
W Il proletariato torinese avanguardia
rivoluzionaria
Abbasso i guerraioli di tutti i colori
Lotta contro il fascismo - Lotta contro la
democrazia
Il Partito Comunista Internazionalista
OPERAI MILANESI
Voi avete incrociato le braccia. Soddisfatte o no le vostre richieste di oggi, voi vi muovete fatalmente in un vicolo cieco e sarete, in breve, costretti ad incrociare ancora le braccia.
Perché
Perché i capitalisti e il governo nazi-fascista, responsabili della guerra, sono incapaci non solo di risolvere la tremenda crisi che ha polverizzato l’economia nazionale, ma persino di sfamare voi e le vostre famiglie, costringendovi ancora a fabbricare cannoni per la guerra.
OPERAI
Un solo mezzo avete per uscire dalla crisi: fare della vostra forza di classe una cosciente forza rivoluzionaria.
Solo unendovi compatti contro la guerra, contro il capitalismo, contro gli sfruttatori di ogni colore che si servono delle vostre braccia e della vostra vita per la loro lotta criminale di dominio, solo spostando la vostra azione dal terreno economico a quello politico, riuscirete a spezzate le catene che ancora vi imprigionano.
OPERAI !
Al capitalismo, colpito a morte dalla sua stessa guerra, contrapponete ora la vostra capacità e la vostra forza di nuova classe dirigente.
Contro il fascismo, che vuole la continuazione della guerra tedesca, e contro il Fronte Nazionale dei sei partiti, che vuole la continuazione della guerra democratica, voi organizzatevi sul posto del lavoro, cementato in un FRONTE UNICO PROLETARIO i vostri comuni interessi, il vostro stesso destino di classe che vi indica come già iniziata la lotta decisiva per la conquista del potere.
II Partito Comunista Internazionalista è al vostro fianco.
Abbasso la guerra fascista ! - Abbasso la guerra democratica ! - Viva la rivoluzione proletaria !
Il Partito Comunista Internazionalista
APPELLO DEL PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALISTA PER LA CREAZIONE DI UN FRONTE UNICO PROLETARIO CONTRO LA GUERRA
OPERAI !
Chiusasi appena una fase delle vostre agitazioni di fabbrica, già si pone la ripresa della lotta; non vi vien dato quello che solo in parte vi era stato concesso; ed anche se concesso, esso non poteva, come non potrà domani, soddisfare i bisogni vostri e delle vostre famiglie, poiché le paghe non consentono il lusso degli acquisti sul mercato nero, e con la tessera ne avete appena a sufficienza per non morire di fame.
Il nostro partito vi aveva ammonito che una tale situazione si sarebbe in breve verificata, dato che il vicolo cieco in cui si è cacciata l’economia capitalistica ha gettato in un vicolo cieco tutte le rivendicazioni contingenti economiche e morali della classe operaia.
Perché questo ?
La ragione va ricercata nella guerra che da cinque anni ormai si alimenta esclusivamente del vostro sangue sui vari fronti del conflitto, e dei vostri sudori e del vostro pane sui posti di lavoro.
Vi diciamo anzi che le vostre condizioni continueranno a peggiorare ad onta degli scioperi a cui sarete costretti, perché è mancata fin qui alla vostra lotta la chiara visione politica dei vostri compiti fondamentali e, sopratutto, vi è mancata una guida veramente di classe, animata dallo spirito della rivoluzione, infatti siete andati e continuate ad andare disarmati davanti ai vostri padroni e ai loro sgherri politici, perché la terribile vostra arma di lotta, lo sciopero, non ponendo al centro del vostro movimento il problema della lotta contro la guerra, anzi acconsentendo che forze politiche a voi estranee, quelle dei sei partiti democratici, con a capo il partito comunista centrista, prendessero la guida del vostro movimento per trascinarlo sul piano politico antioperaio e controrivoluzionario della guerra nazionale, è stata praticamente spuntata.
Così, non soltanto siete rimasti scornati da una “vittoria” che vi lascia la pancia vuota come prima, ma, quel che è peggio, vi siete prestati, certo inconsciamente, ad una manovra politica peggiore, nella conseguenza di una sconfitta di classe, perché avvilisce e disonora le ragioni ideali e politiche della lotta del proletariato. La guerra imperialista non è forse la più feroce, la più disumana, la più assassina guerra condotta dalla borghesia contro il proletariato? Porsi perciò su questo piano significa fare l’opera distruttrice della classe nemica a danno della propria classe.
Contro i vostri padroni fascisti che, soddisfacendo in parte a vostre richieste tentano di aggiogarvi una volta di più alla loro guerra; contro coloro che, approfittando delle vostre condizioni economiche e del vostro naturale odio contro il fascismo sanguinario, vi sobillano allo sciopero a ripetizione perché ciò rientra a meraviglia nel loro piano di guerraioli che operano oggi come avanguardia dell’esercito alleato, cosidetto liberatore, e opereranno domani al suo fianco per la continuazione della guerra democratica;
contro coloro che tentano di incanalare la vostra lotta nel fronte della liberazione nazionale fingendo d’ignorare che la “patria” del proletariato, quella del lavoro e della solidarietà senza frontiere, non ha nulla di comune con la “patria” dei borghesi; voi, operai, rispondete con le parole di Lenin; “La guerra è un inevitabile stadio del capitalismo, una forma altrettanto normale della vita capitalistica quanto la pace”. Il rifiuto di prestare servizio militare gli scioperi contro la guerra e simili cose, sono pure stupidità, un pallido e codardo sogno di lotta inerme contro la borghesia armata, un sospiroso desiderio di ottenere l’annientamento del capitalismo senza una disperata guerra civile. Oggi, chiusa in se stessa, la lotta per le rivendicazioni economiche immediate perde significato e valore; a che gioverebbe la parziale soddisfazione delle vostre richieste, se l’immane massacro continuasse succhiando il vostro sangue e il vostro sudore ?
OPERAI !
L’ora presente impone la formazione di un fronte unico operaio, l’unione cioè di tutti coloro che non vogliono la guerra, sia essa fascista o democratica.
Operai di tutte le formazioni politiche proletarie e senza partito! Unitevi ai nostri operai, discutete insieme problemi di classe al lume degli avvenimenti della guerra e formate di comune accordo in ogni fabbrica, in ogni centro, comitati di fronte unico capaci di riportare la lotta del proletariato sul suo vero terreno di classe.
Il fronte unico tra operai sarà una realtà viva e operante alla sola condizione che voi, qualunque sia la vostra posizione politica di partito, siate d’accordo sulle seguenti
Premesse sulla guerra
1) - La guerra imperialista è il tentativo più
vasto, violento e corruttore condotto contro il proletariato per
sbarrargli la strada che conduce alla conquista del potere;
2) - Tra i due poli della guerra, il fascista e
il democratico, il primo sintesi di violenza e il secondo di
corruzione, il proletariato esprime avversione ad entrambi come ad
aspetti apparentemente diversi della stessa realtà capitalistica;
3) - Nessuno sarà più disposto a far credito
alla ormai vecchia e ridevole storiella della “manovra tattica”,
che comporta la lotta al male maggiore (leggi nazifascismo) per
preferire l’alleanza al male minore (leggi dittatura democratica);
4) - Le parole d’ordine dell’insurrezione
armata, cara ai guerriglieri della liberazione nazionale, è soltanto
verbosità rivoluzionaria che nasconde il tradimento della
rivoluzione proletaria e mira a creare ai sei partiti una sufficiente
base elettorale per la scalata al potere politico.
Premesse sulle lotte del lavoro
5) - Nella fase attuale della crisi e
sotto l’imperversare più furioso della guerra, le rivendicazioni
di natura salariale o di contingenza politica, se da un canto esprimono
i bisogni gravi e urgenti delle masse e sono inevitabili, come
inevitabile e insopprimibile è il diritto proletario di valersi
dei mezzi che gli sono propri per la difesa dei suoi interessi,
dall’altro sarebbero praticamente vane e illusorie se nel proletariato
non esistesse la coscienza che solo l’avversione attiva, classista alla
guerra, solo la guerra spietata all’imperialismo comunque camuffato,
solo la lotta rivoluzionaria vittoriosa assicureranno il potere al
proletariato;
6) - È necessario distinguere fra lo sciopero,
espressione organica della lotta operaia e mezzo normale di difesa
della classe, e la scioperomania di coloro che portano nella
direzione del movimento una mentalità da guerrigliero balcanico e da
organizzatore di bande armate. Ciò serve in definitiva a rendere
inefficace l’arma dello sciopero e a screditarlo nella coscienza
delle masse.
Solidali perciò con gli scioperi e con ogni
manifestazione classista di fabbrica, promotori anzi della loro
condotta, gli operai siano sopratutto gli assertori costanti,
instancabili, della suprema necessità della lotta per il potere da
parte del proletariato nel cui clima storico le lotte contingenti,
nella loro stessa parzialità e inutilità, si illuminano e assumono
così colore e sostanza di classe.
In una parola, all’ordine del giorno della
storia oggi per il proletariato è la conquista del potere; tutto il
resto va considerato in funzione di questa necessità fondamentale
Premesse sull’organizzazione del “fronte unico proletario”
7) - Sulla base di queste premesse gli operai
(l’etichetta della loro fede politica non conta) si facciano
divulgatori dell’appello del nostro partito, e, dibattute e
chiarite e accettate le idee che ne sono la giustificazione, si
facciano essi iniziatori dei primi contatti e dei primi
raggruppamenti organici sul posto di lavoro. Del resto, gli operai
hanno dimostrato chiaramente di essere ormai maestri nell’arte di
organizzarsi in barba dei padroni e dei loro servi fascisti.
8) - Il fronte unico operaio raggruppa e cementa
le forze destinate a battersi sulle barricate di classe contro la
guerra e le sue forze politiche di direzione, tanto fasciste quanto
democratiche.
Suo compito maggiore e più urgente è impedire
che gli operai siano appestati dalla propaganda guerraiola; di
smascherare gli agenti camuffati da rivoluzionari ed evitare che lo
spirito di lotta e di sacrificio che anima il proletariato sia
comunque sfruttato ai fini della guerra e della sua continuazione,
sia pure sotto la bandiera della libertà democratica.
Viva il fronte unico operaio per la lotta contro
la guerra
Viva la rivoluzione proletaria!
Il Comitato Centrale del Partito Comunista Internazionalista
LAVORATORI ! LA SINISTRA COMUNISTA VI PARLA
PROLETARI ITALIANI !
Sui vari fronti della guerra il massacro fratricida continua con violenza sempre più terribile, il massacro di popolazioni nei centri agricoli ed industriali italiani non ha sosta. Il capitalismo mondiale sembra non abbia altra via d’uscita che quella di dare al conflitto caratteri sempre più micidiali e distruttori: città intere e villaggi vengono rasi al suolo, donne bambini e vecchi vengono stritolati dal meccanismo inesorabile della guerra, rappresentante la violenza antiproletaria.
Il capitalismo democratico ha regalato alla civiltà quel capolavoro di scienza meccanica che si chiama “fortezza volante” mentre i fautori dell’ordine nazi-fascista si vantano d’aver superato ogni previsione nel campo inventivo, gettando nel conflitto le micidiali “V1”.
Di tutto questo macabro duello di concorrenza scientifica, chi fa le spese sono le masse lavoratrici del mondo intero, e la gioventù proletaria di Germania, d’Italia, d’Inghilterra, d’America, di Russia e di tutti gli altri paesi.
PROLETARI !
Il trionfo politico della vostra classe avrebbe evitato all’umanità di cadere nell’abisso attuale, giacché la vostra vittoria avrebbe gettato le basi iniziali del socialismo, il quale rappresenta la netta antitesi alla guerra, a tutte le guerre. La classe capitalista mondiale, spinta dal suo brutale egoismo, non intende riconoscere la fine del suo dominio, non vuole lasciare il potere alla classe operaia, unica forza sana e capace di marciare verso le più alte mete del progresso.
Al servizio del vostro nemico (il capitalismo) si trovano due partiti i quali, approfittando della loro lontana origine proletaria, osano rivolgersi a voi per chiamarvi alla guerra: Essi vi chiamano al massacro fratricida in nome del comunismo, del socialismo, della democrazia, della libertà, con la stessa spudorata sfacciataggine dei fascisti, ultima edizione per la repubblica sociale.
OPERAI !
Le disfatte subite dalla vostra classe nel lungo periodo di trent’anni, non devono essere vane, devono servire a tracciare le direttive della vostra lotta e della vostra vittoria. Voi non dovete permettere che organismi condannati dalla storia si assumano il diritto di guidarvi ad una nuova e sicura disfatta della battaglia storica contro una classe che, pur di mantenersi al potere è capace delle più basse manovre e dei più bassi crimini. Non è possibile – e voi non potete credere nelle qualità rivoluzionarie del partito socialista e del partito comunista italiano.
Il primo nella guerra 1914-18 vi ha abbandonato; la formula opportunista (non aderire - non sabotare la guerra) da lui allora usata, non poteva essere per voi una indicazione classista, e perciò vi lasciava in balia del vostro nemico di classe, il quale poté stritolarvi sulle pietraie del Carso. E fu questo stesso partito, che vi aveva abbandonato nella guerra, per il suo opportunismo e per le sue incapacità nel periodo rivoluzionario del 1919-20.
L’altro, il partito comunista italiano, il quale era sorto a Livorno nel 1921 in risposta all’opportunismo ed al tradimento socialista, si svuotò completamente del suo contenuto rivoluzionario e cadde nell’abisso del tradimento di tutti i principi rivoluzionari, raggiungendo nella stessa melma patriottarda i socialdemocratici della seconda internazionale.
Ed oggi questi organismi non hanno altra indicazione da darvi che la lotta per la libertà nazionale, la lotta antitedesca, la lotta per la democrazia borghese ecc. ecc. Questi partiti che si dichiarano proletari, sono divenuti partiti di governo, partiti dell’unione sacra per la continuazione della guerra fino in fondo, cioè per il vostro totale massacro, facendo concorrenza nel campo della propaganda interventista e guerriera agli stessi criminali nazi-fascisti.
LAVORATORI !
Nessuna meraviglia se i traditori controrivoluzionari di ieri si incontrino con quelli di oggi. I socialdemocratici del 1914-18 e i centristi 1939-44, stanno bene assieme nel ruolo di avanguardia della guerra per il vostro massacro reciproco.
Se i controrivoluzionari socialisti e centristi,
tradendo i postulati fondamentali del marxismo riuscirono a
trascinarvi nel conflitto attuale, non dovete permettere che vi
impediscano di rompere il cerchio infernale della loro guerra,
espressione della vostra morte, come non dovete permetter loro di
attraversare la strada della rivoluzione, espressione della vostra
vita. Per marciare verso questa meta bisogna seguire queste
direttive:
1) Disertare la guerra in tutte le sue varie
manifestazioni: quella nazi-fascista, quella democratica e quella
partigiana.
2) Non dare uomo né un soldo alla guerra,
neanche se essa si presenta sotto le parvenze ipocrite della
solidarietà, della carità, ecc. ecc.
3) Sabotate la guerra colpendola nella sua fonte
naturale, l’apparato produttivo. La macchina divenuta preda della
guerra, perciò produttrice della morte proletaria, va annientata.
4) La solidarietà proletaria deve manifestarsi
in pieno verso i disertori della guerra; per disertori si intendono
quei proletari che disertando la guerra, si pongono su un terreno
d’attesa difensiva, pronti a partecipare alle prossime grandi
battaglie di classe nei centri proletari. Il proletario disertore
della guerra fascista, se accetta la disciplina della direttiva
partigiana e del Comitato di Liberazione Nazionale, perde la sua
fisionomia rivoluzionaria.
5) Bisogna rigettare la parola d’ordine
nazionalista, perciò antiproletaria, della caccia al soldato
tedesco, inglese, americano, russo; tutti questi soldati sono dei
proletari, i quali, ai primi lampi di riscossa sociale, si uniranno a
voi lottando contro i loro capi e, spogliandosi dell’infame casacca
militarista, marceranno al vostro fianco verso il potere.
6) Bisogna stare in guardia contro certe parole
d’ordine che hanno di per se stesse un contenuto rivoluzionario, ma
perdono la loro forza e servono gli interessi della guerra, se alla
loro applicazione non corrisponde la presenza di condizioni
favorevoli di lotta. Coloro che chiamano il proletariato allo
sciopero insurrezionale, quando lo stato capitalista è ancora in
piena efficienza, si prefiggono il seguente duplice scopo:
Servirsi degli operai ai loro fini bellici
imperialistici – dissanguare e demoralizzare il proletariato per
ridurlo in istato di inferiorità, quando in una situazione
favorevole, suonerà l’ora della corsa alle armi per colpire a
morte il capitalismo.
PROLETARI LAVORATORI E LAVORATRICI !
La guerra prende aspetti sempre più micidiali, il capitalismo stesso, complice diretto dello scatenamento del conflitto, è costretto a confessare la sua incapacità arrestare il moto del rullo compressore che inesorabilmente si propaga in ogni centro proletario. L’esistenza fisica della vostra classe è minacciata di totale distruzione: schiacciare il mortale pericolo che incombe su voi e sulle vostre famiglie, ecco l’immediato dovere.
Nessuna speranza esiste di por fine a questa guerra che divora la vostra carne, senza il vostro intervento, senza la messa in movimento della vostra classe, senza la rivendicazione totale di tutti i vostri diritti.
Sono quasi cinque anni che il massacro continua, per anni ed anni l’ubriacatura è consistita nel farvi credere, martellandovi con una propaganda quotidiana, che la guerra sarebbe finita con la vittoria militare della Germania; oggi lo stesso nemico vostro, sotto altre spoglie, può continuare a farvi accettare la guerra, predicandovi una fine della guerra con la vittoria delle nazioni unite. Tutto questo per impedirvi di prender coscienza della vostra forza e della vostra capacità di lotta sul terreno di classe.
Ricordatevi che cosa avreste potuto realizzare un anno fa, se la preventiva manovra della monarchia e dei cinque partiti non fosse riuscita ad impedirvi di scendere sul terreno dell’azione anticapitalista. Il 25 luglio, invece di risolversi in un puro cambio della guardia governativa, avrebbe segnato una data storica senza pari, se voi proletari aveste potuto evitare la manovra nemica e scatenarvi sul terreno dell’azione rivoluzionaria.
Il proletariato tedesco vi guardava ansioso, nella speranza che la vostra azione desse a lui stesso la possibilità di puntellarsi, per uscire dalla inesorabile morsa della guerra.
Ma il nemico, con l’aiuto dei controrivoluzionari socialisti e centristi, riuscì a riagganciarvi alla guerra, la scintilla che doveva dar fuoco alla polveriera europea si spense, e lo spettro della guerra tornò a dominarvi.
PROLETARI ITALIANI !
Non è escluso che nel giro di poco tempo la situazione vi permetta di portarvi al primo piano della lotta del proletariato mondiale: il vostro dovere deve manifestarsi sin da questo momento, non prestandovi alla manovra capitalistica, sia essa nazi-fascista o democratica. Un unico obiettivo deve esistere per voi; la lotta quotidiana contro la guerra, base della lotta finalista per l’abbattimento del regime capitalista.
PROLETARI !
Sulla bandiera della classe proletaria sta
scritto:
Abbasso la classe dei privilegiati ! - Abbasso gli opportunisti e gli arrivisti !
Evviva la dittatura proletaria ! - Evviva la rivoluzione italiana e mondiale !
Il Comitato Federale Lombardo del Partito Comunista Internazionalista