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“E non dipendere dalla Cina”. È il comandamento che risuona nel mondo delle merci e del profitto e nelle dichiarazioni dei politici, dei governi, degli economisti. La Cina infatti detiene buona parte dei giacimenti delle materie prime strategiche per realizzare i prodotti tecnologici di alta fascia, necessari a quelli di più largo consumo.
Già nel 2018 l’amministrazione USA aveva stabilito che gli enti statali statunitensi e le aziende americane che con questi collaboravano non avrebbero più potuto usare i dispositivi di una delle prime ditte cinesi produttrici di componenti di rete. L’anno successivo il bando fu esteso a tutte le aziende statunitensi. I principali Stati europei hanno dovuto più o meno piegarsi a questa imposizione, addirittura col disdire contratti stipulati con quell’azienda cinese. L’amministrazione repubblicana di allora, per far meglio capire che aria nuova tirasse sui mercati, instaurò anche una tribolata politica di dazi sulle merci estere, provocando non pochi problemi ai capitalisti europei.
La nuova amministrazione democratica pare aver ammorbidito questa rigida decisione: forse si sono resi conto che oltre il bastone è necessaria la carota per tenere in piedi un’alleanza che, nata per definizione difensiva, è sempre stata nei fatti offensiva: “si vis pacem, para bellum”.
Ma la situazione non è così semplice come la descrivono i resoconti dei congressi internazionali e la stampa borghese asservita al diktat di turno.
Il recente G7 in Cornovaglia ha “sancito” il pericolo cinese e russo e dato ancora una volta vigore all’Alleanza Atlantica, “baluardo dell’alleanza delle democrazie contro i totalitarismi”, un linguaggio nuovamente da guerra fredda. In particolare la Cina sarebbe il nuovo avversario delle “democrazie avanzate”. L’Occidente democratico si era confuso, attirato e ingolosito dai tanti affari a buon mercato con il Dragone e ha abbandonato il suo rigore, ci hanno detto dalla Cornovaglia i Grandi a congresso.
Le borghesie occidentali si erano illuse, una volta sopita e spenta la guerra fredda in quei lontani anni ’90, che la forza vivificatrice del mercato, lasciato evolvere felicemente senza impedimenti, avrebbe garantito il primato occidentale e l’equilibrio sociale e militare tra gli Stati.
Non è andata in questo modo, ora i Grandi, queste miserabili marionette del teatrino borghese, se ne sono resi conto e, ammoniti dal Presidente d’oltre oceano giunto a far sentire la voce del padrone, corrono ai ripari sotto l’ombrello NATO, generosamente aperto dagli USA; alcuni, invero, più riluttanti di altri, recalcitranti ad abbandonare i grandi progetti strategici con la Cina. La Cina è pericolosa, hanno tutti convenuto in Cornovaglia, ciò che offre sono “mele avvelenate”, esserne in affari o avere dipendenze economiche è un rischio terribile.
Qualcosa di propositivo gli Usa dovevano concedere in contropartita: la sospensione dei dazi per le merci europee è stata prorogata di altri cinque anni.
Che poi il sistema finanziario cinese abbia sostenuto, e continui a farlo, l’immane debito federale statunitense, è altra questione, e riguarda solo e soltanto gli Stati Uniti, quindi va bene così e non deve interessare i partners d’Europa, per i quali invero è una buona soluzione, giusto per garantire una sorta di stabilità finanziaria mondiale. Insomma va bene a tutti.
Le cose però non stanno proprio così. Nei fatti la dipendenza dalla Cina delle economie di molti paesi occidentali è un dato acclarato, e la “ferocia” delle espressioni pubbliche fa da contraltare alle cifre dell’interscambio commerciale. Nel 2021 le quote di mercato di prodotti provenienti dalla Repubblica Popolare in Francia, Germania, e negli Stati Uniti sono salite a un livello superiore a quello del pre-pandemia.
Ma i nuovi immensi settori commerciali che si sono aperti in questo decennio, e che “strategicamente” sono il futuro delle merci, e quindi dei profitti del capitale, stanno modificando il quadro. Da un rapporto USA, reso pubblico ad ammonimento del pericolo: «La Cina emerge per l’uso aggressivo di misure – molte delle quali ben fuori dalle pratiche commerciali accettate nel mondo – per catturare quote di mercato globale nelle catene del valore d’importanza critica».
Oggi le “materie prime” sono dette commodities, cambia il nome, nella lingua del business sembra altro rispetto a quello che nel passato ha scatenato guerre, pirateria imperialistica, colonialismo sanguinario, sofferenze indicibili per i proletari impiegati nella loro estrazione e lavorazione. Ma sono sempre la stessa cosa, sempre foriere di rapine e scontri nello sfrenato e anarchico modo di produzione capitalistico: sui mercati e sui rapporti tra gli Stati i cui sistemi industriali le impiegano nella produzione.
Fino ad ieri erano petrolio, ferro, carbone e rame le materie essenziali per i grandi processi industriali. Ora se ne affiancano altre per la produzione di merci di nuove tipologie la cui pervasiva diffusione sostiene, in questa fase pluridecennale di strisciante crisi, le sorti dei profitti su larga scala e delle dinamiche importazione-esportazione.
La Cina controlla completamente, continua il rapporto citato, tutti gli stadi di estrazione, lavorazione e produzione di litio, terre rare, silicio, cobalto, e poi stagno, zinco, e ancora il rame che vive una nuova fase di grande utilizzo. Il dominio cinese è altrettanto vasto fuori dai suoi confini, nelle miniere del Congo e dello Zambia dalle quali si estrae il cobalto.
È invece quasi interamente localizzata a Taiwan, uno Stato non riconosciuto da Pechino e del quale rivendica l’annessione, la produzione di semiconduttori e microprocessori, essenziali in ogni ramo delle moderne tecnologie, batterie ad alta capacità, acciai speciali, turbine e motori automobilistici, fino ai componenti per i sistemi d’arma.
Qui un “fattore produttivo e commerciale strategico”, come dicono loro, si salda al dato geopolitico, anch’esso strategico, e fonte di una criticità nello scontro tra gli imperialismi, un’altra del loro difficile presente. Su materie prime che avevano uno scarso impiego in altri tempi vengono a focalizzarsi, esattamente come nel passato recente e lontano, tensioni di politica economica che poi si riflettono sull’assetto imperialistico mondiale. Fra l’altro l’uso intenso di questi elementi caratterizza tanta parte delle infrastrutture che veicolano informazioni, ormai diventate a loro volta delle merci con un loro specifico e florido mercato di massa.
Le tensioni internazionali tra gli Stati per il controllo sulle località di estrazione, del trasporto su rotte marittime sicure, e tra produttori per accaparrarsi nuovi mercati si riflettono sull’andamento dei prezzi e sulla disponibilità delle nuove materie prime. È riduttivo ricondurre soltanto alla loro scarsità lo scontro in atto.
L’effetto immediato che il capitalismo sta vivendo è un forsennato aumento dei prezzi di queste materie. Tutto concorre all’aumento dei prezzi, dai noli marittimi cresciuti all’incetta della grandi aziende – in Cina ci sono stati enormi acquisti di rame – che nel sistema di just in time non fanno scorte e ne temono la penuria sui cicli di produzione.
La pandemia ha giocato un ruolo non secondario nell’accentuare le difficoltà sui mercati, con il rallentamento delle consegne di componenti essenziali. Questo induce un meccanismo perfettamente naturale nel capitalismo, l’incetta di componenti di base e materie prime. Con l’ovvio aumento dei prezzi e ripresa di un ciclo locale inflazionistico, in controtendenza al ciclo generale che è ancora deflazionistico.
Però qui entrano pesantemente in gioco anche dinamiche finanziarie: le materie prime sono diventate un investimento con ottime prospettive di guadagno. Inoltre, prezzate in dollari, sono anche convenienti per quanti operano in altre divise, euro in primis, finché il cambio resterà favorevole. Questa è una tendenza che può durare ancora a lungo, causata da altre dinamiche imperialistiche.
Un esempio: l’indice di borsa sulle materie prime, il Dow Jones Commodity Index, è quasi raddoppiato in un anno. C’entra anche il prezzo del petrolio, ai massimi da due anni, con i 70 dollari raggiunti dal barile Brent; non male, considerati i crolli di soli tre anni fa. Poi le pressioni speculative sui futures, “scommesse” sui corsi dei prezzi delle merci, che per esempio sul Nasdaq quotano globalmente oltre 13 mila miliardi di dollari, inducono ulteriori violente oscillazioni sui prezzi, anche se di breve periodo.
Ma questa, dicono, può essere soltanto una crisi temporanea, e gli “analisti di mercato” prevedono condizioni di stabilità nelle forniture e una ripresa produttiva per l’anno a venire. Previsioni forse ragionevoli, a breve. Il punto cruciale però non è la produzione e il mercato in sé, ma lo scontro alla radice di questa situazione.
La pace imperialista è, bene o male, durata oltre settanta anni. Un imperialismo, quello russo, che pareva il principale oppositore degli altri vincitori della Seconda Guerra mondiale, si è frantumato fino a diventare un attore di secondo piano nel “grande scontro”, seppure ancora formidabile. Quello cinese, ben più poderoso e minaccioso, sta sorgendo a insidiare il lungo predominio statunitense, mentre gli stanchi Stati europei, arrancano dietro una improbabile federazione, nella quale primeggiano gli interessi particolari di ogni capitalismo nazionale a danno di una fittizia collettività. Gli altri grandi Stati asiatici cercano un loro spazio all’interno del dissidio USA-Cina, senza che ancora siano definiti gli schieramenti. Le condizioni materiali per un altro conflitto mondiale si stanno delineando inesorabili.
Irretito negli interessi delle loro borghesie, ancora sta fermo l’internazionale gigante proletario, la sola forza che può arrestare la corsa alla guerra prossima ventura.
Il 28 ottobre 1922 i fascisti avevano mobilitato per la “Marcia su Roma”.
Il giorno successivo il Partito Comunista, tramite il suo Comitato sindacale lanciava la proposta della ricostituzione dell’Alleanza del Lavoro e la immediata proclamazione dello sciopero generale nazionale. L’appello, indirizzato alla Confederazione Generale del Lavoro, alla Unione Sindacale Italiana, al Sindacato Ferrovieri, alla Unione Italiana del Lavoro, alla Federazione Lavoratori dei Porti, diceva:
«Cari compagni, l’inasprirsi della situazione, già preveduto, coglie, nell’attuale sua fase, il proletariato senza che questo possa essere indirizzato e guidato da un organo centrale. Sfasciata l’Alleanza del Lavoro si è rinunziato a dare alle masse organizzate un organo comune di direzione. In questo momento ci sembra necessario affrettare la ricostituzione del fronte unico, sulla base dell’intesa tra le grandi Organizzazioni sindacali che già si affasciarono intorno all’Alleanza del Lavoro. Noi vi proponiamo di riconvocare urgentemente il Comitato Centrale dell’Alleanza del Lavoro che fu in funzione fino allo sciopero dell’agosto, aggregando a detto Comitato i rappresentanti delle minoranze sindacali e di sostenere e dichiarare, attraverso a questo Comitato, la proclamazione immediata dello sciopero generale nazionale di tutte le categorie.
«Se la nostra proposta di includere i rappresentanti delle minoranze sindacali nel Comitato Centrale dell’Alleanza non fosse da voi accettata, dichiariamo che i comunisti sarebbero, come sempre, disciplinati al Comitato Centrale dell’Intesa proletaria. Noi ci auguriamo che voi comprenderete l’urgenza e la necessità di dare al proletariato un organismo direttivo in questo critico frangente. Con questo augurio noi vi salutiamo fraternamente.
«Comitato Esecutivo Sindacale del Partito Comunista d’Italia»
Abbiamo visto come, con fine intelligenza, Israel Zangwil aveva detto a Malaparte che lo accompagnava per le vie di Prato: «Quel che m’interessa è di conoscere che parte hanno gli operai in questa “rivoluzione”. Il pericolo, per i fascisti, non è il Governo, è lo sciopero generale» (Malaparte, Tecnica del colpo di Stato). Lo stesso Mussolini ammise che «anche uno scioperetto generale purchessia, gettato fra le nostre gambe, ci avrebbe assai entravés» (Cesare Rossi, “Retroscena della marcia su Roma”).
Ma Mussolini aveva degli alleati sicuri, che non lo avrebbero tradito: i socialriformisti ed i bonzi sindacali. Vediamo infatti quale fu la risposta della CGL alla proposta comunista di sciopero generale:
«I giornali comunisti pubblicano un appello del Comitato sindacale del loro partito, col quale si fa esplicito invito alle organizzazioni proletarie che componevano la disciolta Alleanza del lavoro di convocarsi urgentemente per la proclamazione immediata dello sciopero generale nazionale di tutte le categorie. La Confederazione generale del lavoro – mentre affida al buon senso del proletariato il giudizio su quanto vi possa essere di bluffistico, di incosciente, di speculativo e di provocatorio nella mossa comunista – sente il preciso dovere, nel momento in cui la passione politica divampa e due forze estranee ai sindacati operai si contendono estremamente il possesso del potere statale, di mettere in guardia i lavoratori dalle speculazioni e dalle sobillazioni di partiti o di aggruppamenti politici intenzionati di coinvolgere il proletariato in una contesa dalla quale deve assolutamente rimanere appartato per non compromettere la sua indipendenza. Gli operai si mantengano calmi, sereni e fidenti nel proprio immancabile avvenire. Ogni invito che non parta dalle organizzazioni responsabili deve essere respinto. Le organizzazioni considerate, libere come sono da ogni vincolo con partiti politici, hanno l’obbligo di attenersi alle sole discipline sindacali, evitando in modo assoluto di compromettere i sindacati con pronunciamenti o azioni sollecitati da partiti politici e da Comitati irresponsabili. Il Comitato Esecutivo».
Il commento del nostro partito fu, come doveva essere, brutale: «I socialdemocratici non si smentiscono. Nei momenti più gravi per i lavoratori sono sempre volutamente assenti. Aspettano che la reazione scatenatasi sul proletariato segua tranquilla e incontrastata la sua opera di distruzione [...] Piegando la schiena ai colpi di manganello pensano che questi saranno meno violenti [...] Essi poi alla loro vigliaccheria aggiungono l’azione nefasta di sabotaggio a qualunque proposta che tenda a valorizzare la forza del proletariato. Tutte le volte che una di queste proposte è stata lanciata i confederalisti han gridato al bluffismo comunista [...] Si gridò al bluffismo quando noi a Venezia proponemmo lo sciopero generale di tutte le categorie [...] Si gridò al bluffismo quando noi proponemmo l’armamento del proletariato. La esperienza ha dimostrato che là dove i lavoratori avevano delle armi (pur con un armamento inferiore a quello delle camicie nere) la resistenza operaia ha avuto ragione della reazione [...] Ed anche per questa ultima nostra proposta hanno ripetuto la solita idiota cantilena» (“Il Sindacato Rosso”, 4 novembre).
“Battaglie Sindacali”, organo ufficiale della CGL, così commentava l’andata al governo del fascismo: «Le organizzazioni sindacali sono rimaste estranee alle due fazioni in lotta. Il loro intervento in appoggio di una parte, mentre avrebbe compromesso l’indipendenza del movimento operaio, avrebbe ostacolato il processo chiarificatore di una situazione che si rende sempre più insostenibile [...] Soltanto gli scriteriati fanfaroni comunisti hanno potuto pensare alla partecipazione delle forze proletarie ad un conflitto che non le interessava direttamente» (7 novembre).
“La Giustizia”, organo del partito socialdemocratico, riportava quanto deliberato dal CD della CGL; ossia respingere la proposta di sciopero generale avanzata dal Comitato sindacale comunista e richiamare l’attenzione delle organizzazioni sindacali «sull’opera invadente e disgregatrice che vanno svolgendo i comitati alle dipendenze dei partiti politici». Inoltre, con il pretesto che molte camere del lavoro e sezioni, «a causa dei colpi subiti per la violenza avversaria», erano impossibilitate a funzionare, il congresso confederale sarebbe stato rinviato sine die, cosa però che non impediva l’espulsione delle sezioni sindacali comuniste dalle federazioni di mestiere. Venivano inoltre ricordate le «avviate pratiche per l’unità sindacale». Si badi, l’unità a cui questi signori si riferivano era quella con i sindacati fascisti!
Ci dovremmo scandalizzare per questo? Niente affatto se si pensa che già prima della “Marcia su Roma” socialdemocrazia e fascismo procedevano fianco a fianco, non solo sui programmi ma anche organizzativo. A titolo di esempio, su “Il Comunista” del 20 ottobre troviamo un breve articolo con questo significativo titolo: “D’Aragona e Dino Grandi rappresentano gli operai italiani alla Conferenza di Ginevra”. Vediamo di cosa si tratta. Il 18 ottobre si era aperta, a Ginevra, la quarta Conferenza dell’Ufficio Internazionale del Lavoro (annesso alla Società delle Nazioni), organismo che rappresentava la massima espressione della collaborazione di classe. Tutti gli organi di quest’Ufficio erano suddivisi tra componenti governative (che avevano diritto alla metà dei rappresentanti), padronali, e operaie (a ciascuna delle quali era riservato un quarto dei delegati). Ecco, a questa quarta Conferenza nella rappresentanza operaia della delegazione italiana troviamo sia il traditore D’Aragona sia lo schiavista Dino Grandi.
Riguardo l’atteggiamento dei bonzi della CGL, sotto il titolo «Ribalderie confederali», “L‘Ordine Nuovo” scriveva: «Da quando i fascisti hanno soppresso la libertà di stampa, i dirigenti confederali sono divenuti più canagliescamente anti-comunisti. È proprio di tutti i vili far vedere come non esista tra essi e il perseguitato nessun rapporto nei momenti in cui più furibonda si scaglia l’ira del tiranno [...] In quest’ora in cui la borghesia esce dalla legalità per ristabilire i suoi privilegi di classe, i dirigenti confederali non domandano altro che inserire i sindacati nello Stato borghese [...] La classe operaia – essi pensavano – doveva mantenersi estranea al conflitto per non correre il rischio di perdere il suo carattere autonomo e soprattutto perché il conflitto non la interessava, essendo fra due frazioni della borghesia [...] Ciò che i comunisti proponevano non era che la classe operaia si schierasse dall’una o dall’altra parte delle forze contendenti: essi erano anzi persuasi che non esisteva conflitto. I comunisti chiedevano che la Confederazione del lavoro e gli altri organi operai organizzassero una difesa delle posizioni proletarie e si preparassero a fronteggiare le conseguenze del compromesso, col quale era da prevedere sarebbe finita la marcia su Roma» (10 novembre).
Il C.E. del PCd’I, nel suo rapporto all’Internazionale dell’11 dicembre, scriveva: «La situazione sindacale è confusa e difficile; stanno svolgendosi nel suo seno delle vaste manovre di disgregazione basate sul compromesso fra unitari e fascisti. Hanno avuto luogo degli abboccamenti che hanno suscitato grande rumore ed un’infinità di commenti: Mussolini/Baldesi; Mussolini/Zaniboni; Mussolini/Vergnanini; D’Annunzio/Baldesi, Zaniboni; Rossoni/Vergnanini; ecc. Tutto ciò serve ad un assorbimento delle organizzazioni confederali e fasciste in un’unica organizzazione di carattere nazionale. Per facilitare il raggiungimento dei loro piani i riformisti sabotano in ogni modo il funzionamento delle singole organizzazioni impedendo le convocazioni, le riunioni, ecc. Escludono le organizzazioni locali dirette dai comunisti come pochi giorni fa [...] hanno fatto con la sezione metallurgica di Torino, ecc».
Passiamo ora alla lettura de “Il Lavoratore” di Trieste del 7 dicembre: «Dopo l’avvento del fascismo al potere i capi social-democratici non hanno più ritegno. Convinti ormai di perdere la Confederazione del Lavoro, essi cercano nel governo fascista una protezione o almeno una meritevole tolleranza dopo i replicati atti di tradimento della causa della classe operaia [...] L’on. Baldesi, il più fascista fra i social-democratici, si è infatti, com’è noto, recato a parlare con Mussolini. E insieme al fido Zaniboni ha lasciato la capitale per conferire con D’Annunzio [...] Tra la guardia bianca e la social-democrazia si sta così preparando il suicidio dei sindacati e la vittoria incontrastata della borghesia. Un comunicato ufficioso dannunziano comunica i seguenti particolari sulla conversazione avvenuta tra D’Annunzio, Baldesi e Zaniboni: “La lunga, cordialissima conversazione ha avuto per principale argomento il problema dell’organizzazione sindacale [...] di accogliere cioè tutte le forze produttrici della Nazione, al di sopra di ogni divergenza di parte, in un solo corpo, in una sola, grande concorde unità, sotto una sola e santa bandiera: quella della Patria, e con un unico scopo: quello di accordare armonicamente il proprio miglioramento spirituale e materiale con la volontà di contribuire alla grandezza e alla potenza della Nazione”».
Anche se di materiale ce ne sarebbe ancora a volontà, quanto riportato è sufficiente a dimostrare l’azione di aperto e dichiarato tradimento dei socialdemocratici confederali. I massimalisti, gli anarchici, i repubblicani non insultarono i nostri compagni per il semplice fatto che nemmeno risposero all’appello comunista. Anche tutti loro nutrivano qualche speranza di poter partecipare al banchetto del vincitore, chi tramite accordi diretti con il fascismo e chi, come gli anarchici, tramite il “Comandante”.
Vediamo un po’ più in dettaglio l’atteggiamento dei socialdemocratici. Il socialista sindacalista Colombino dichiarava, a nome suo e dei suoi compagni, di essere pienamente disponibile ad accordarsi con il nuovo governo affermando che «la guerra, se non è eterna tra i popoli, non sarà eterna tra i partiti [...] Dieci anni fa si diceva che Giolitti era un “brigante” e quasi quasi un sovversivo si vergognava di parlare con lui. Ma qualche tempo fa si era felicissimi di trattare, magari di governare con lui». Certo, un bell’esempio di coerenza di classe!
E il super bonzo D’Aragona affermava con tutta chiarezza che «se in futuro il governo dovesse chiamare alcuni iscritti alla CGL ad una partecipazione ministeriale, il sindacato non avrebbe da augurarsi altro che costoro non dimenticassero il loro passato e continuassero la loro opera in difesa del proletariato». Il segretario della C.G.L. ancora nel 1924, pochi giorni prima del delitto Matteotti, rilascerà apprezzamenti sulla persona di Mussolini di questo tenore: «Uno psicologo che conosce le masse, l’anima multiforme delle masse. Ho parlato due volte con Mussolini, da quando è al potere: mi ha dato ragione [...] Mussolini, ripeto, conosce le masse perché attui una politica proletaria» (“Il Nuovo Paese”, 20 maggio 1924).
Quando Matteotti sarà assassinato immediatamente la CGL prenderà posizione (e che posizione!) diramando il seguente ordine: «Si decide di invitare alla calma le organizzazioni confederate, i dirigenti, la massa lavoratrice, per non compromettere con iniziative particolari e inconsulte lo svilupparsi degli avvenimenti» (“Battaglie Sindacali”, 19 giugno 1924).
Sempre D’Aragona, parlando al congresso della Confederazione nel dicembre 1924, confesserà: «L’on. Mussolini ci invitò ad assumere la responsabilità del Ministero dell’Economia nazionale e a fonderci con le Corporazioni. Rispondemmo che non potevamo accettare nessuna di queste offerte. [Menzogna, ma la verità non tarderà a venire... - ndr] Dichiarammo però che, come avevamo dato la nostra collaborazione tecnica a tutti i precedenti governi, l’avremmo data anche a quello fascista» (A. Pellicani, Il Filo Nero). Questa affermazione di D’Aragona sarà riportata anche dal nostro “Il Sindacato Rosso” del 13 dicembre 1924.
Dal contesto generale del discorso di D’Aragona si comprende chiaramente che ove il fascismo avesse solo fatto un fischio i socialisti sarebbero accorsi a scodinzolargli sotto. Evidentemente accettavano il ruolo di predicatori della rassegnazione e della non violenza che la borghesia ha sempre affidato alla socialdemocrazia e della quale si sbarazza non appena terminato il suo compito.
Il più indegno opportunismo dei dirigenti della CGL non aveva limiti; D’Aragona in una intervista concessa nell’agosto 1925 a Vittorio Ambrosini (guarda chi si rivede!) per la rivista “Epoca”, affermerà: «L’idea generale della inserzione delle forze del lavoro manuale e intellettuale nello Stato, non può, in linea di massima, che trovarci consenzienti [...] Io non faccio questioni di sincerità: mi riferisco alla situazione come essa è realmente. Abbiamo oggi una situazione tale che manca l’ambiente necessario alla possibilità di un riavvicinamento delle masse proletarie al regime fascista. Esiste anche nelle masse operaie un notevole inacerbimento [...] Quando si credesse, attraverso una lunga e paziente opera di preparazione e una serie di fatti che persuadano il proletariato della possibilità di un avvicinamento, allora sarebbe dato l’ambiente necessario e propizio ad esso [...] noi attendiamo con animo sereno e scevro di pregiudizio l’attuazione di riforme favorevoli alla massa proletaria» (Il Filo Nero).
Solo i comunisti avevano chiaro che alla classe operaia niente avrebbe apportato strisciare ai piedi del fascismo mendicando i loro dirigenti qualche onorificenza o impiego nel nuovo regime. «La situazione sindacale in Italia – affermammo in “Prometeo” del 14 febbraio 1924 – rappresenta la prova evidente della impossibilità di stipulare col governo fascista, strumento direttissimo del capitale nelle varie sue forme, un compromesso che consenta di vivere ad organismi sindacali autonomi nella loro azione economica, anche dichiarando di voler levare su questi una bandiera tricolore ed ispirarsi ad un proposito di conciliazione sociale».
Ma l’attitudine al tradimento dei capi sindacali era più forte di qualsiasi evidenza.
Ancora un anno dopo l’assassinio Matteotti l’altro super bonzo Baldesi, ricordando i suoi approcci nell’ottobre 1922 con Mussolini, affermava: «Sono sempre quello che ebbe il coraggio di avvicinarsi all’on. Mussolini e mettersi a sua disposizione per un programma di riavvicinamento e di pacificazione sociale. Allora avvenne quello che avvenne. Potrebbe presentarsi la stessa occasione e allora io sono sempre pronto. Si possono avvicinare le masse al fascismo, ma ci vuole l’uomo» (“Avanti!”, 25 agosto 1925).
Passarono altri due anni, entrarono in vigore le cosiddette “leggi fascistissime”, ma non passò la vocazione socialdemocratica al tradimento della classe operaia. Il 25 marzo 1927 gli ex segretari generali della CGL Rinaldo Rigola e Ludovico D’Aragona non si vergognavano ad affermare che «il regime fascista è una realtà e la realtà va tenuta in considerazione. Questa realtà è scaturita anche da principi nostri, i quali si sono imposti. La politica sindacale del fascismo, per esempio, si identifica, sotto certi riguardi, con la nostra. Il fascismo ha fatto una legge altamente ardita sulla disciplina dei rapporti collettivi di lavoro. In questa legge vediamo accolti dei principi che sono pure i nostri» (G. Trevisani, Storia del movimento operaio italiano).
Noi comunisti non avemmo da aspettare quella data per dichiarare, con estrema lucidità: «vi è un piano di contatto tra fascismo e riformismo [...] La confluenza col riformismo è chiara [...] Esso finirà inquadrato nella sintesi fascista dei mezzi borghesi di difesa antirivoluzionaria, a cui avrà offerto non pochi motivi ed espedienti» (“Il Lavoratore”, 17 gennaio 1923).
Per finire, fra infinite affermazioni del genere, riportiamo quest’ultima di Rinaldo Rigola: «Il Fascismo è contro il socialismo e non contro le riforme operaie. Il fascismo, anzi, ha fatta sua la parte positiva del programma socialista. L’albero si conosce dai frutti. Quando sull’albero del regime cominciarono ad apparire le gemme delle corporazioni, dovemmo convincerci che ci trovavamo in presenza di un rivolgimento [...] Con quale altro programma potevamo confutare il fascismo se esso, per la parte sindacale e sociale, attuava il nostro? Treves disse alla Camera che “la borghesia non era più capace di tenere il governo, mentre il proletariato non era ancora maturo per governare” [...] Qualcuno che non fosse la vecchia borghesia impotente o il giovane proletariato immaturo, doveva pur tentare di ristabilire l’ordine in Italia. Il qualcuno fu Mussolini, fu il fascismo, fu il partito dell’intervento, qualche cosa che non era né borghesia né proletariato. Di che si lagnavano i socialisti se confessavano essi per primi [e Rigola era tra questi, ndr] di essere incapaci di assumere il potere? La più bella prova che tutti erano stanchi di quella situazione che non presentava via d’uscita sta nel fatto che la Marcia su Roma, non solo non fu ostacolata dalle sinistre, ma fu accolta quasi come una liberazione» (“Rivista Storica del Socialismo”, n.5, gennaio 1959).
Attacco legale e illegale al partito
Ma ora torniamo a parlare di noi.
Immediatamente dopo l’assunzione del governo da parte di Mussolini la campagna armata contro il proletariato, legale e illegale, intensificò. A Torino nel dicembre 1922 furono orribilmente massacrati 11 proletari e una trentina feriti. «I fascisti volevano colpire quegli uomini, solo per il fatto che essi erano organizzatori di operai in grande maggioranza comunisti» (“Il Lavoratore”, 20 dicembre). La repressione si scatenò con arresti in massa di proletari, nella maggior parte comunisti, accusati di complotto contro lo Stato. Al Partito Comunista la borghesia voleva dare il colpo finale.
In un rapporto all’Internazionale dell’8 gennaio 1923 scrivevamo: «Dopo questi fatti [di Torino, ndr] la reazione contro il nostro partito si è intensificata. Organizzare il Partito comunista, scambiare per questo scopo delle lettere, può essere considerato come un crimine. In queste condizioni quasi tutte le organizzazioni locali del partito si trovano nel pericolo di dover cessare di funzionare [...] Malgrado ciò i sentimenti della classe operaia non sono spenti e il nostro Partito esiste come rete organizzativa. La Centrale è in stretto legame con tutto il paese». Veniva aggiunto: «La nostra organizzazione politica funziona illegalmente [e] contro l’organizzazione politica del Partito e la sua attività illegale la polizia fascista riesce appena un po’ più della vecchia polizia».
In un comunicato del C.E. del partito su “Il Lavoratore” del 9 febbraio 1923, tra l’altro, si affermava: «Un Partito rivoluzionario attivo è un terribile nemico per la classe borghese. Noi dimostreremo, coll’aiuto del Governo Mussolini, che i “superstiti del bolscevismo italiano” sono la stragrande maggioranza degli operai, dei contadini e dei soldati. Ai danni portati alla nostra organizzazione dagli arresti in massa di questi giorni, cercheremo di porre riparo subito [...] Per antica abitudine i nostri compagni sanno che il nostro partito non riceve “colpi mortali”».
La situazione per il partito era certamente grave, non lo negavamo, ma non per questo i comunisti italiani si davano sconfitti. In una circolare del C.E. del 1° novembre, indirizzata a tutte le federazioni, si legge: «Cari compagni! Lo sbigottimento che la reazione ha gettato nelle file proletarie non coglie il nostro Partito impreparato [...] Noi vi preghiamo, compagni segretari federali, di dare alle sezioni ed ai compagni tutti la sensazione non artificiale che il Partito Comunista vive, ed agita i suoi principi, ed usa i suoi mezzi di lotta. Il Partito comunista vive! È certo che questa non è l’ora dei vigliacchi. Noi vedremo, forse, allontanarsi da noi taluni e passare al nemico. Noi subiremo forme assai dure di persecuzione. Siamo ben preparati a subire le vicende della lotta. Attendiamo la reazione “legale” con serenità [...] I fedeli si sperimentano oggi. I veri rivoluzionari si vagliano nella lotta, nella serenità e nella fermezza con le quali sanno affrontare i pericoli».
La Marcia su Roma, il governo fascista e quello che ne seguì non sorprese il Partito che fin dalla sua costituzione aveva dato precise disposizioni per il passaggio di tutta l’organizzazione da una situazione legale a quella semi-illegale o totalmente illegale.
Riferendosi alla circolare del Presidente Bonomi ai prefetti, a Patto di pacificazione concluso, già “Il Comunista” del 14 agosto 1921 aveva scritto: «Ci troviamo dinanzi ad un provvedimento governativo che tende ad impedire il funzionamento legale del Partito. Diciamo al governo, alla stampa sollecita della borghesia, agli stessi socialisti che noi siamo in grado di funzionare egregiamente anche in condizioni di illegalità».
D’altra parte anche prima dell’avvento del fascismo per quanto il Partito non fosse dichiarato fuori legge era costretto a svolgere clandestina i tre quarti della sua attività. Ora, benché nessuna legge avesse dichiarato sciolto il Partito comunista e soppressa la sua stampa, era necessario rafforzare questo tipo di organizzazione, che diveniva l’unica possibile, con un efficiente servizio di collegamento tra centro e periferia. Al tempo stesso si poneva la necessità del rafforzarsi ed estendersi dell’inquadramento militare.
Il Partito procedette alla costituzione di uno o due comitati segreti di sostituzione per ogni sezione e federazione e per lo stesso C.C. del Partito, i quali sarebbero subentrati automaticamente al posto di quei comitati dirigenti che la reazione avesse reso inattivi. Il 15 dicembre 1922 si informava l’Internazionale che «per quanto concerne l’organizzazione del Partito, buonissimi risultati sono stati ottenuti grazie al nostro sistema dei gruppi interni (Raggruppamento) che ci assicura la possibilità di lavorare malgrado ogni misura poliziesca, e all’inquadramento militare».
Si provvide subito alla preparazione dei mezzi tecnici clandestini per la stampa dei giornali e la loro distribuzione.
«È possibile che nei prossimi mesi, coll’avvento al potere delle correnti reazionarie dichiarate, tutto il Partito debba sprofondarsi nella illegalità venendone sciolta dal governo la organizzazione legale. Per questa evenienza è preordinato lo speciale sistema organizzativo del Raggruppamento il quale abbraccia tutti gli inscritti al partito raggiungendoli nella loro stessa dimora e sul luogo di lavoro e che, realizzato fino da oggi nelle grandi città, permette di esercitare sui compagni del luogo un’opera continua e sicura di controllo. Ma già da parecchio tempo una grande parte del lavoro del partito si svolge illegalmente, e sia nei riguardi dei rapporti e dei collegamenti fra i vari organi direttivi centrali e locali, sia specialmente per le necessità della lotta armata antifascista. È necessario perfezionare il sistema di Raggruppamento già in vigore, allargando il Raggruppamento a tutto il Partito fino alle più piccole sezioni e stabilendo l’obbligo di comunicare per mezzo di cifrario fra gli organi centrali e periferici, abituando questi ultimi all’uso normale, anche fra di loro, di parole e segni convenzionali; bisogna procurare recapiti illegali in ogni città ed in ogni villaggio; ed assicurarsi nel seno stesso delle organizzazioni avversarie punti di osservazione e di spionaggio [Si ponga la dovuta attenzione a quest’ultima frase! ndr].
«Questo compito di preparazione deve però essere svolto dall’Ufficio speciale del Partito, che funziona in maniera autonoma pure essendo in continuo contatto ed in precisa dipendenza del C.E., mentre questo dovrà continuare ad applicarsi direttamente ai compiti generali» (“Programma di azione del PCd’I”, Parte IV, Lavoro illegale e militare, 1922).
«Se “Il Comunista” non esce non è per un divieto del governo, ma perché la tipografia si rifiuta di stamparlo. Lo abbiamo quindi stampato in un’altra tipografia illegale. Le difficoltà di pubblicazione erano di ordine non tecnico ma economico. A Torino è stata occupata la sede de “L’Ordine Nuovo”, e sono state sequestrate le armi che vi si trovavano. Ma il quotidiano è ora pubblicato altrove. A Trieste la polizia ha invaso la tipografia del nostro giornale, ma anche quest’organo appare ora illegalmente, e la nostra situazione non è del tutto tragica» (Rapporto al IV congresso dell’IC).
«Un manifesto al proletariato italiano viene testé lanciato attraverso “Il Sindacato Rosso”, “La Compagna”, “L’Avanguardia”, “L’Ordine Nuovo” (edizione illegale) e vi verrà anche trasmesso per la distribuzione, dato che se ne tirano alcune centinaia di migliaia di copie. In esso è data una parola d’ordine alla massa dei lavoratori» (Circolare n.14, 12 novembre 1922).
Poiché la pubblicazione dei quotidiani del Partito era ormai impossibile, oltre che a causa della repressione per mancanza di denaro, si pensò alla diffusione clandestina di opuscoli. Agli opuscoli, con brevi trattazioni di questioni di attualità, fu data grande importanza dato che, in un regime di organizzazione illegale del Partito, avrebbero costituito un mezzo notevole di propaganda.
In una relazione del 26 novembre 1922 al C.E. dell’Internazionale era scritto: «Organizzazione del Partito - Situazione assai favorevole. Non soltanto il Partito nel suo insieme è rimasto intatto, ma in molti luoghi la sua attività si è intensificata in maniera considerevole sul piano dell’organizzazione politica legale, e su quello dell’organizzazione illegale e militare [...] Si sono pubblicati illegalmente 4 numeri del “Comunista”, e si è smesso per motivi economici. Si pubblica illegalmente la piccola edizione del “L’Ordine Nuovo”, che è enormemente richiesta [...] Sono state prese delle misure tali che ci consentiranno di pubblicare “L’Ordine Nuovo” in ogni eventualità: legalmente, semilegalmente, illegalmente [...] Il processo istruito contro il nostro compagno Fortichiari e altri è finito con una assoluzione generale, senza che alcun elemento del nostro lavoro illegale sia caduto nelle mani della giustizia. Si attraversano le frontiere senza alcun pericolo, legalmente. Tuttavia noi abbiamo organizzato il transito illegale, del tutto sicuro, che si appoggia sulla nostra rappresentanza del Partito a Berlino».
Lo stesso giorno, al C.E. e alla Sezione illegale dell’Internazionale era inviata la seguente comunicazione “strettamente riservata”: «Cari compagni, aggiungiamo al nostro rapporto sull’attività del partito comunista d’Italia alcune note sull’azione illegale [...] Gli avvenimenti non hanno affatto sconvolto la nostra rete illegale. L’ufficio illegale aveva delle informazioni esatte sul piano dei fascisti e ha diffuso delle istruzioni che hanno evitato la sorpresa e il disordine nella nostra organizzazione illegale e militare. Questa è sempre stata in piena attività. La sua organizzazione locale va migliorando a Trieste e in Liguria. Ha curato la diffusione illegale dell’“Ordine Nuovo” dopo l’occupazione della tipografia ed ha anche distribuito con un sistema originale in tutta Italia 150 mila esemplari di un manifesto della Centrale politica. Se il nostro Ufficio illegale non si fosse trovato completamente senza denaro, avrebbe potuto fare ancora di più, come il suo capo ci assicura, dichiarando che la situazione economica era del tutto “avvilente”». Poi l’informazione così continuava: «La nostra Centrale illegale sa che un membro della CEKA russa, trovandosi a Roma, ha dichiarato che durante il movimento fascista i capi comunisti erano spariti. Supponendo che questa affermazione sia stata trasmessa a Mosca, il compagno F. [Fortichiari, Ndr] protesta e ci incarica di dichiarare che nessuno ha abbandonato il suo lavoro né ha perduto per un solo istante il collegamento con gli organi periferici, mentre gli organi centrali sono rimasti pienamente attivi durante tutto il tempo» (Mosca, 26 novembre 1922).
Non mancano certo prove del fatto che il Partito aveva organizzato una efficiente struttura clandestina: oltre agli esempi che abbiamo già riportato nel corso di questi rapporti possiamo citare la protezione dei delegati dell’Internazionale intervenuti clandestinamente al XVIII congresso del PSI a Milano nell’ottobre 1921 e gli stratagemmi usati per sfuggire alle insidie della polizia. «Quando si ebbe a Milano il congresso socialista, la Centrale ebbe contatto con i delegati dei partiti comunisti esteri intervenuti e con quelli del C.E. dell’Internazionale, che furono da noi assistiti in tutti i loro movimenti e nel loro intervento illegale al congresso socialdemocratico [...] Il Partito italiano può registrare con soddisfazione come tutti i compagni esteri che hanno assistito da vicino al nostro lavoro ne abbiano scritto e riferito nei termini più lusinghieri» (Relazione del PCd’I al IV congresso dell’Internazionale).
Anche per il secondo congresso del partito, Roma, marzo 1922, era stato predisposto un suo svolgimento clandestino nel caso in cui non fosse stata data la possibilità di riunirsi in modo palese. «I rappresentanti della stampa borghese non saranno ammessi al congresso, anche se questo, come speriamo, dovesse riunirsi legalmente. Se necessario, il congresso terrà le sue sedute clandestinamente». (“L’Internationale Communiste”, 20 aprile 1922).
Nel 1923 il fascismo tentò di dare un colpo mortale al partito comunista: si scatenò una vasta campagna repressiva; fu scoperta la sede illegale di Roma e si ebbero arresti su vasta scala, compreso Amadeo Bordiga. Ma non fu il “colpo di grazia” al partito. Gli arrestati del famoso processo, dal carcere, comunicavano regolarmente con il Partito all’esterno, inviando e ricevendo messaggi cifrati. Magari il servizio postale di oggi funzionasse altrettanto bene!
Mario Montagnana raccontava: «Incontrai il compagno Ruggero Grieco [...] il quale mi comunicò che dovevo partire subito per Roma, entrare in contatto con Bordiga, per il tramite di una guardia carceraria [...] Un appuntamento ogni tre giorni con la guardia carceraria che mi portava le comunicazioni, cifrate, dal carcere e alla quale io trasmettevo, cifrate, le comunicazioni del Centro del Partito» (Montagnana, “Ricordi di un operaio torinese”). Montagnana, da buon stalinista, nei suoi “ricordi” non nomina l’”Ufficio I”. Quella tale guardia carceraria, e chissà quante altre, faceva parte dell’Ufficio clandestino del partito con funzioni di aiuto e informazione ai comunisti carcerati. Nel PCd’I non era costume fare cose improvvisate, allora, ma agire con metodo e intelligenza. Già prima della scissione risultava chiaro che «il Partito comunista si allena ad agire come uno stato maggiore del proletariato nella guerra rivoluzionaria; esso perciò prepara ed organizza una propria rete di informazioni e di comunicazioni» (Tesi della Frazione comunista astensionista, ne “Il Soviet” del 27 giugno 1920)
La capacità da parte del PCd’I di riuscire a lavorare bene nella clandestinità era riconosciuta perfino dalla polizia. In un appunto della Direzione Generale di Pubblica Sicurezza del 1927 si legge: «In seguito ai provvedimenti di scioglimento, tutti i vecchi partiti manifestano un effettivo sbandamento (...) Dall’insieme delle notizie che provengono dalle autorità pubbliche, questa Direzione Generale ritiene, invece, che solo il Partito Comunista d’Italia, per quanto mutilato dei migliori e più fedeli esponenti che trovansi in carcere in attesa di giudizio od al confino di polizia [...] non ha disarmato» (in A. Scurati, “L’uomo della Provvidenza”).
Ricordiamo pure l’evasione del nostro compagno Armando Silva da Regina Coeli al quale «gli si aperse il portone ossequiosamente ed egli se ne andò» (da “Il Processo ai comunisti italiani”, 1923). Senza una adeguata organizzazione con diramazioni all’interno delle carceri non si esce dall’ingresso principale. Sarebbe da recuperare quello studio, probabilmente redatto proprio da Armando Silva, “Appunti descrittivi su Regina Coeli” che dava una descrizione del servizio di sorveglianza interna ed esterna, la gerarchia del personale, le sue funzioni, la classificazione dei detenuti, i turni di servizio, gli orari delle visite, etc. Un capitolo era dedicato alla psicologia dell’ambiente. «Non sono le mura, i cancelli, le inferriate, le guardie e le sentinelle che formano il carcere [...] I carcerieri sono uomini addormentati dall’abitudine, pieni di pigrizia mentale, col pensiero volto altrove, lontano dal servizio. La diffidenza fra i detenuti, il sospetto: ecco i veri carcerieri, le vere mura i veri cancelli». Seguiva poi un’analisi sulla possibilità di un moto nelle carceri. Quindi era trattato come comunicare clandestinamente tra detenuti e con l’esterno. Vi si trovavano indicazioni sulle pratiche giudiziarie e perfino sui sistemi di evasione.
Il convegno di Como
Nel 1924 a polizia e fascismo giocammo la beffa del convegno di Como. In vista del V congresso dell’Internazionale si rendeva necessaria una consultazione del Partito, ma le difficoltà erano certamente ingenti dato il controllo degli organi di polizia. Nonostante ciò l’”Ufficio I”, ancora diretto da Fortichiari, si era impegnato ad organizzare un congresso nazionale clandestino.
La Centrale (ormai “centrista”) però decise, e non solo per motivi di sicurezza, la convocazione di una semplice conferenza a carattere consultivo limitata ai membri della Centrale, ai segretari interregionali, ai segretari delle federazioni provinciali, un delegato della federazione giovanile, oltre a «il compagno Bordiga, in rappresentanza dei membri dimissionari del C.C., il compagno Gramsci ed il compagno Graziadei».
Anche se non era un congresso si trattava comunque di una rappresentanza composta da circa sessanta persone; un numero considerevole da far passare inosservato. Inoltre il convegno era stato pubblicizzato e il governo fascista aveva impartito precisi ordini ai Prefetti e alle forze dell’ordine di intercettare i “congiurati” e procedere al loro arresto. Uno dei più solleciti prefetti fu quello di Como che assicurava il Ministero dell’Interno che nella sua provincia non c’era traccia di movimenti sospetti. I componenti infatti arrivarono in un alberghetto-rifugio delle montagne comasche. Gramsci racconterà: «Un convegno illegale di partito, tenuto come passeggiata turistica in montagna dei dipendenti di un’azienda di Milano: tutto il giorno discussioni sulle tendenze, sulla tattica e durante il pasto, alla casa di rifugio piena di gitanti, discorsi fascisti, inni a Mussolini, commedia generale per non destare sospetti e non essere disturbati nelle riunioni tenute in bellissime vallette bianche di narcisi». Ottorino Perrone organizzò la scena di addio: «Si fingeva di essere una maestranza di un’officina in ferie per dono del padrone. Al pranzo di chiusura Antonio fu obbligato a recitare la parte: Amadeo rispose come capo del personale e grandi inni si levarono alla collaborazione nell’azienda» (“Il Programma Comunista”, n.21 del 1957).
Anche nel corso del rito più sacro della democrazia, le elezioni, i compagni dell’Ufficio Illegale seppero svolgere la loro funzione. Nell’articolo “Che cosa vale una elezione” scrivevamo: «Chi ha forza di fare imposizioni e truffe elettorali, viola i canoni della democrazia, ma si dimostra attrezzato per lottare su altri terreni, con efficienza che i rivoluzionari dovranno ben calcolare [...] Se potessimo fare “pastette” e fugare elettori avversari dalle urne, sarebbe confortante perché saremmo più vicini a poter spiegare forze mature per l’offensiva». E aggiungevamo: «In parziale rivalsa di quelli che non erano potuti andare alle urne, taluni “squadristi” hanno dieci, cinquanta volte votato falce e martello» (“L’Unità”, 16 aprile 1924) Si ponga attenzione sul: “taluni squadristi”!
Nelle poche righe del “Programma d’Azione del Partito” presentato dalla Sinistra al V Congresso dell’IC, che non vennero pubblicate dal “L’Unità” per “evidenti motivi”, stava scritto: «Il Partito affermerà sempre che è con concorso della grande massa che esso si propone di giungere a questa battaglia rivoluzionaria, ma in pari tempo, non appena la situazione lo permetterà, esso cercherà di prendere nelle sue mani il controllo organizzato dei conflitti armati parziali che sono sempre scoppiati e scoppieranno sempre contro le forze fasciste. Fin d’ora è possibile tecnicamente porre le basi di questo lavoro per ciò che concerne il livello organizzativo e l’armamento» (“Amadeo Bordiga, Scritti 1911/1926”, Vol. VIII).
Nel Programma di azione del PCd’I dell’ottobre 1922 si affermava: «Assicurarsi nel seno stesso delle organizzazioni avversarie punti di osservazione e spionaggio». Nel corso di questi rapporti abbiamo evidenziato la capacità di infiltrare agenti del partito all’interno degli organismi repressivi dello Stato, tanto che “Il Comunista” del 24 luglio 1921 poteva pubblicare una serie di circolari “riservatissime” dello Stato Maggiore dell’esercito, di Comandi di Presidi militari, di Uffici della Regia Questura... Nemmeno l’organizzazione degli “Arditi del popolo” era trascurata dall’attenzione del Partito.
Nei precedenti rapporti abbiamo citato sia la Relazione del C.C. per il congresso di Roma, sia l’organo centrale “Il Comunista” dove, rispettivamente, si accennava a «informazioni riservate assunte con i mezzi di cui si disponeva intorno agli “Arditi del Popolo” e al loro movimento» e «a quelle informazioni che chi sta alla testa di un movimento deve sapersi procurare sui piani degli avversari... e degli alleati». Quello era quanto si poteva scrivere negli organi di stampa e nei documenti divulgati. Ma in rapporti riservati all’Internazionale apertamente si affermava che l’Esecutivo del Partito «non solo fu informato esattamente delle origini e della consistenza degli Arditi del Popolo, ma ebbe anche un suo incaricato alla direzione di essi» (Relazione del 3 settembre 1922 di Gramsci ed Ambrogi al C.E. del PCd’I sull’attività svolta presso il Komintern).
Il congresso di Lione
Lione 1926, 3° congresso del Partito comunista d’Italia. Bruno Fortichiari che, rammentiamo, era il responsabile dell’Ufficio I, ha ricordato: «La federazione di Milano, la cui organizzazione era ancora efficiente e della quale alcuni dirigenti erano elementi dell’Ufficio I del partito, offerse al Centro di assicurare una sede adatta in Milano per una riunione clandestina, garantita e difesa. Il Centro rifiutò l’offerta senza controllarne la serietà. Aveva deciso la sede di Lione anche, o anzi proprio perché, era più facile “filtrare” i delegati che avrebbero dovuto recarvisi clandestinamente. «Rifiutare la convocazione in una metropoli di grande movimento in ogni suo quartiere, con scambio costante di migliaia di persone in transito anche dall’estero, disponendo inoltre di decine di ambienti adatti a riunioni controllabili e di centinaia di compagni allenati e fidati, espressione di una classe operaia non domata dal fascismo, era una prova di sovrana inettitudine o cautela appropriata a un fine evidente» (B. Fortichiari, Comunismo e revisionismo in Italia).
Ammesso che una riunione in Italia fosse poco sicura non era certo meno rischioso far attraversare ai delegati la frontiera clandestinamente, in uscita poi al rientro, tanto più che la polizia era allertata. Se la cosa funzionò bene ancora una volta fu grazie all’efficienza dell’organizzazione clandestina del partito. Non era affatto vero che il congresso in Francia sarebbe stato più sicuro che in Italia tanto che, per sfuggire alla polizia francese, sulle loro tracce, i delegati italiani, oltre a riunirsi clandestinamente, dovettero spostarsi più volte in locali diversi. Perché anche a Lione il congresso fu clandestino, e ancora una volta fu l’Ufficio I a provvedere alla sua organizzazione e difesa.
Infatti il Partito comunista di Francia, come abbiamo ricordato, era totalmente sprovvisto di un apparato illegale. Si ricordi il rapporto del PCd’I all’Internazionale in occasione del congresso del PCF, a Marsiglia, nel dicembre 1921: «La mancanza di organizzazione e l’inesperienza dei compagni francesi per il lavoro illegale ha ostacolato il nostro lavoro dal punto di vista pratico. Abbiamo dovuto fissare noi stessi degli incontri segreti [...] Un inquadramento reale delle masse non esiste, né sul terreno sindacale, né sul terreno militare. Questa forma di azione sembra essere per i compagni francesi assolutamente utopica. Essi ignorano il lavoro illegale e attendono per avviarlo l’impossibilità di lavorare legalmente».
Questi ricordati sono solo alcuni esempi dell’efficienza dell’organizzazione illegale del Partito, pienamente funzionante anche dopo l’avvento del fascismo. Dell’attività militare del partito abbiamo riferito in precedenti rapporti. Qui ci torniamo in relazione agli avvenimenti a cavallo della Marcia su Roma.
Il Partito basava la sua tattica sul concetto che ogni prospettiva che indichi alla classe una via per far prevalere i suoi interessi senza lotta armata produce un effetto controrivoluzionario. Tra le forme di azione dirette alla conquista delle masse doveva essere compresa quella della lotta diretta contro la reazione, anche dove il partito poteva contare solo sulle sue forze. Questo non significava illudersi di poter abbattere il potere borghese o sconfiggere il fascismo in una battaglia campale, ciò nonostante il partito curava la preparazione militare e l’armamento necessari a sostenere la guerriglia contro un avversario di forze nettamente superiori e in posizione di vantaggio.
«In questo campo di attività il partito non si pone limiti di principio se non nel senso che è da respingersi ogni azione che non venga predisposta dagli organi di partito adatti, e quindi ogni iniziativa individuale. Questo non vuol dire che si rinunci alla azione individuale, intesa cioè a colpire dati individui di parte avversa, o condotta da compagni comunisti isolati, su ordine del Partito. Anzi l’azione non potrà avere carattere di impiego di gruppi o formazioni militari che nelle circostanze in cui le grandi masse siano in moto ed in lotta: nel corso ordinario della guerriglia di classe sono le azioni dei singoli o di gruppetti scelti che, ben preordinate per evitare conseguenze sfavorevoli, devono essere organizzate.
«Obiettivo di tale azione saranno non solo le forze armate fasciste, ma in genere le ricchezze, le istituzioni, le persone della classe e di tutti i partiti borghesi [...] Obiettivo della condotta di simili lotte dovrebbe essere quello di rispondere sempre con una rappresaglia ai colpi degli avversari contro istituzioni proletarie [...] Il P.C. deve agire, rispetto alla borghesia, come l’inquadramento fascista rispetto alla massa di tutto il proletariato [...] Un corollario di questa tattica deve essere quello di non prestarsi, nella campagna antifascista, a fare troppo il giuoco del fascismo stesso insistendo sulle atrocità ed implacabilità della sua azione; pur attribuendo ad esso tutte le responsabilità, si deve evitare di prendere un’attitudine pietosa e si deve dare il rilievo massimo agli atti di violenza con cui le nostre forze o il proletariato spontaneamente risponde ai colpi nemici [...] Il partito deve, a costo di ogni sacrificio, superare l’attuale deficienza di armi che pone ovunque il nostro inquadramento in una condizione di schiacciante inferiorità di fronte all’avversario; mentre attualmente l’armamento deve in gran parte essere rilasciato all’iniziativa personale dei singoli squadristi bisogna giungere alla condizione di poter fornire un minimo di mezzi di lotta a tutti coloro che vengono inclusi nell’inquadramento militare» (“Programma di azione del partito comunista d’Italia”, ottobre 1922).
Della consistenza dell’organizzazione militare del Partito comunista dà prova il seguente telegramma-circolare inviato dal Ministero dell’Interno ai prefetti il 6 ottobre 1922: «Si ha sicura notizia che fiduciari Federazione Giovanile Comunista si adoperano per acquistare occultamente armi ed esplosivi, pare in previsione di una mobilitazione generale delle forze comuniste in contrapposto ad azioni fasciste. Occorre che attività dei più accesi elementi del partito sia costantemente e accortamente seguita per essere in grado di sventare energicamente ogni delittuoso proposito e procedere sequestro armi ed esplosivi eventualmente già raccolti, arresto responsabili».
Molto interessante è la seguente circolare, a firma Loris, nella quale vengono prospettate le due situazioni ritenute possibili in occasione delle manovre fasciste in vista della Marcia su Roma e quale avrebbe dovuto essere l’azione dei comunisti al verificarsi dell’una o dell’altra eventualità: a) che avvenisse uno scontro tra esercito e fascisti (si ricordi che era stato presentato al re per la firma il decreto dello stato d’assedio); b) che lo Stato lasciasse campo libero ai fascisti, come avvenne. «Può accadere che le forze dello Stato agiscano contro i fascisti [...] In questo caso intervenire per colpire gravemente i fascisti scatenando contro di loro la collera proletaria». Oppure «può accadere che la tua provincia sia abbandonata dal grosso delle forze fasciste perché vengano concentrate altrove. In tal caso se i nostri mezzi e la nostra preparazione lo permettono dare addosso ai fascisti rimasti e loro sostenitori operando così una diversione che può compromettere il piano fascista. Nella previsione che noi ordinassimo l’offensiva non dovete impegnare tutte le nostre energie per ragioni difensive e diversive [...] È indispensabile il completo affiatamento coi giovani» (Rivista Storica del Socialismo, n.29, settembre 1966).
Anche nel supplemento al rapporto del C.C. al IV congresso dell’IC è rimarcato il fatto che «la Centrale militare del Partito aveva già dato ai suoi fiduciari le seguenti disposizioni: le forze militari del Partito si impegneranno a fondo solo nel caso che, in un conflitto con lo Stato, i fascisti siano sbaragliati e dispersi. Questa probabilità era giustamente ritenuta oltremodo incerta. Nella previsione che non si sarebbe avuto un generale movimento di masse, sarebbe stato evidentemente dannosa ogni altra attività militare comunista e pericoloso il preparare un’offensiva delle nostre limitate forze».
La consegna del potere al fascismo non segnò la fine delle azioni del Partito comunista. La citata relazione al C.E. e alla Sezione illegale dell’Internazionale, del 26 novembre 1922, ricordava i seguenti atti di sabotaggio: «La nostra azione si è fatta sentire. Sono state impedite da parte degli organi centrali alcune azioni in grande stile, che sarebbero state pericolose, che si volevano intraprendere in taluni luoghi da parte delle nostre forze locali. Ma sono state compiute delle azioni di rappresaglia [...] Ecco gli episodi. Dopo l’incendio della Camera del lavoro di Torino è stata lanciata una bomba contro la Camera di commercio. I danni, nonostante le menzogne della stampa borghese, sono considerevoli. Nel porto di Napoli un incendio di nafta galleggiante sull’acqua ha raggiunto alcune navi da guerra: dieci milioni di danni. A Muggia (Trieste) un caposquadra fascista è stato ucciso. A Cornigliano ligure (Genova) un incendio è scoppiato nei depositi del porto: una decina di milioni di danni. Nella provincia di Milano vi sono stati parecchi incendi assai gravi. Tutta l’organizzazione illegale è in piena attività».
Il 15 dicembre successivo l’Internazionale veniva informata che era «stata completata l’organizzazione della succursale della nostra Centrale illegale da Milano a Roma. Questo ufficio, tecnicamente indipendente dall’apparato della Centrale politica, è pronto ad entrare in funzione al posto del centro di Milano appena sarà necessario». Nella medesima relazione si informava l’Internazionale sia che «i fascisti a Torino non hanno tentato l’assalto alla sede de “L’Ordine Nuovo” per la nostra organizzazione militare di difesa, direttamente curata dai tecnici della Centrale illegale», sia di un attentato portato a termine: «Incendio a Monza (Milano) con 400 mila lire di danni».
Rapporto con gli altri partiti operai
Alle elezioni comunali
A confutare la leggenda che responsabile della mancata reazione proletaria al fascismo sia stato il Partito comunista a causa del suo “settarismo” ci basti rileggere il Programma di Azione del PCd’I: «Indipendentemente dal problema della coalizione politica potrà essere considerato quello di una collaborazione tra i partiti proletari a scopo di una più efficace azione militare delle masse in caso di agitazioni generali. Anche in questo caso è giusto avanzare condizioni: come quella che si cessi dalla propaganda disfattista e pacifista fatta pubblicamente dagli organi di quei partiti che propongono poi intese per l’uso della forza delle armi. Raggiungendosi un accordo nazionale, si potrà dare la parola che localmente sorgano – a lato degli organi che localmente rappresentano l’organo di inquadramento generale di tutta la massa sorto nel campo sindacale o analogo – dei comitati “tecnici” dei vari partiti per l’azione armata, ai quali il Partito comunista parteciperà tenendo ben distinto il suo proprio inquadramento militare».
Per contro, nessuno dei cosiddetti “partiti proletari” diede la propria disponibilità ad aderire alle proposte avanzate dal partito comunista; non lo fecero i massimalisti, non lo fecero i repubblicani, e neppure gli anarchici.
Il partito comunista andò anche oltre, invitando gli altri partiti proletari ad una coalizione partitica in vista di elezioni amministrative. Su questo aspetto ci dovremo soffermare un poco perché dimostra ancora l’aperto tradimento dei socialdemocratici e, soprattutto, degli pseudo-rivoluzionari massimalisti.
Intanto diciamo che il Municipio, nel programma del partito comunista, avrebbe dovuto divenire «uno strumento per l’offensiva antiborghese. Esso curerà esclusivamente gli interessi proletari. Si applicherà alla costituzione di una guardia operaia destinata a difendere le sedi proletarie. Darà ai disoccupati ed alle vittime politiche un sussidio pari allo stipendio ultimo da essi percepito, ecc.» (Programma di azione del PCd’I).
Il 10 dicembre 1922 si tennero le elezioni amministrative a Milano. Terracini l’8 dicembre, a nome del C.E. del Partito, aveva scritto al delegato italiano nell’Esecutivo dell’Internazionale:
«Queste elezioni hanno acquistato per il momento del loro verificarsi, per le cause che portarono alla decadenza delle passate amministrazioni, per il programma che vi è agitato dai singoli partiti, un interesse che supera quello delle normali battaglie elettorali: esse sono destinate, nell’intenzione della classe borghese, a segnare l’autenticazione per voto di maggioranza dell’instaurato governo reazionario; devono negli scopi e nelle dichiarazioni dei capi riformisti significare la difesa della libertà e del diritto conculcato; dovevano riuscire nelle intenzioni dei comunisti a valutare le forze restate strette attorno alla bandiera rivoluzionaria ed a cementare per la prima volta, in pubblica arena, le forze comuniste con quelle socialiste [...] È interessante accennare ed osservare gli atteggiamenti assunti in questa occasione dal Partito Socialista Ufficiale, che ha deliberata la sua adesione alla Terza Internazionale, che ha attualmente a Mosca i suoi delegati al Quarto Congresso, che a mezzo di questi sta trattando per procedere alla fusione col Partito Comunista d’Italia.
«Il nostro C.E. fin dall’inizio della lotta, [che era cominciata prima della Marcia su Roma. ndr] aveva poste delle condizioni per costituire un’alleanza con i massimalisti sulla base di una formula sulla difesa armata del Comune che aveva avuta grande ripercussione fra le masse. Dobbiamo esplicitamente dire che al momento dell’enunciazione della nostra formula eravamo convinti che essa sarebbe stata respinta dai massimalisti e che ciò non ci dava eccessiva tristezza perché nutrivamo pochissimo desiderio di scendere in lotta assieme ad essi. Ma dopo la conquista fascista del potere governativo la situazione mutò completamente e noi comprendemmo che era necessario fare qualunque cosa pure di pervenire alla conclusione del blocco con i massimalisti [...] Per alcuni giorni i comunisti milanesi parteciparono a delle riunioni comuni con i massimalisti e con gli unitari [Il 3 ottobre si era avuta la finta scissione socialista, così da dare la possibilità ai destri di partecipare a un governo borghese, ndr] nelle quali questi si sforzarono di porre le basi di un’alleanza elettorale a tre».
Il 17 ottobre i tre quotidiani del partito avevano congiuntamente pubblicato l’appello della Sezione comunista di Milano rivolto al proletariato e ai partiti proletari. L’appello, dopo avere ricordato come la precedente Amministrazione, democraticamente eletta nel 1920 e legalmente in carica, fosse stata dispersa dalla violenza fascista, continuava: «Questo fatto non è privo di insegnamenti per la classe lavoratrice, e corrisponde alle considerazioni partendo dalle quali il Partito comunista, partito di lotta rivoluzionaria, accede alla tattica elettorale. L’uso della scheda non ha valore alcuno, ove non sia un’occasione per dimostrare e passare in rassegna la forza politica che la classe lavoratrice sa crearsi dandosi una organizzazione di battaglia rivoluzionaria capace di difendere i suoi interessi e le sue aspirazioni [...] I lavoratori possono adoperare la scheda quando sappiano impugnare al tempo stesso le armi anche non metaforiche per la propria emancipazione. Questi evidenti concetti ci spingono a sottoporre ai lavoratori di Milano la proposta che indirizziamo agli altri partiti proletarii.»
E segue la proposta comunista: «Si formi una lista proletaria alla quale partecipino tutti quegli organismi che sono pronti ad accettare un programma in testa del quale si scriva: “Costituzione con i mezzi della finanza comunale di una milizia cittadina armata per la difesa del conquistato Comune. Si impegni ogni candidato compreso nella lista a firmare un tale programma”. Su tale base i comunisti sono pronti a dare i loro uomini e le loro forze per la lotta comune».
Alla offerta comunista i socialisti massimalisti risposero con un trafiletto sull’“Avanti!” del 19 ottobre dal titolo: “Una proposta accettabile”. Allora i massimalisti, liberatisi dai destri, avevano ormai tutte le carte in regola per riunirsi ai comunisti, come prospettato dall’Internazionale? Bene, leggiamo cosa scriveva il partito massimalista sotto quel titolo possibilista: «Su tale base potrebbero convenire tutti quanti – anche i più legalitari fra i legalitari – perché la difesa della legge è lecita ad ogni cittadino e gli eletti [...] rappresentano la legge, ovverosia il Diritto. Il malanno si è che [...] mancherebbe agli eletti la possibilità di metterlo in pratica, perché la finanza comunale [...] non è a disposizione del Consiglio per tutto ciò che gli può piacere di deliberare [...] Onde è che tutti possono accettare la terribile proposta comunista, perché tanto non vi è pericolo alcuno che si possa iniziarne neppure la effettuazione». Era vero, non c’era pericolo che i massimalisti avessero intenzione di opporsi con la forza al fascismo, nemmeno in difesa della “legalità” borghese!
Naturalmente era scontato che gli unitari non avrebbero potuto accettare una coalizione con i comunisti, neanche con un programma del tutto legalitario e pacifista. «Cosicché – continuava Terracini nella sua lettera a Mosca – i massimalisti si trovarono messi nella posizione di scegliere fra un’alleanza di sinistra con noi, ed un’alleanza di destra con gli unitari. I massimalisti non esitarono a dichiarare che la scelta era da essi decisa in favore della destra; e quando già gli unitari [...] avevano deciso di scendere da soli in lotta con lista di maggioranza, i massimalisti insistevano ancora per costituire un blocco con essi rifiutando le rinnovate proposte dei comunisti. Il nostro C.E. replicatamente ripresentò per iscritto alla Direzione del Partito Socialista la sua offerta; ma esse restarono senza risposta».
A Bologna le amministrative vennero rimandate al 21 gennaio 1923. Anche per Bologna il Partito avanzò la proposta di una lista comune con i massimalisti. Diamo ancora la parola a Terracini: «Una uguale situazione si sta creando a Bologna dove rifiutata la proposta fatta dalla nostra sezione per un’alleanza elettorale con i massimalisti questi preferirono prendere contatto con gli unitari; ed avendo questi dichiarato di astenersi dalla lotta elettorale anche i massimalisti vennero a questa determinazione. I nostri compagni soli quindi parteciperanno alla battaglia contro il blocco borghese».
A Milano la notte precedente alle elezioni la Sezione comunista diramava il seguente comunicato: «Ieri notte e nella giornata di ieri pattuglie di investigatori e guardie regie hanno invaso numerosissime case arrestando tutti i comunisti che riuscirono a “pescare”. Furono del pari arrestati un gran numero di simpatizzanti e di lavoratori sospetti di essere inscritti al Partito comunista. Fra gli arrestati vi sono alcuni candidati. Altri candidati vi sono attivamente ricercati [...] Il comitato elettorale comunista è stato arrestato quasi al completo. I giovani comunisti più noti sono stati pure arrestati. A ciò si aggiungano le retate di giovani comunisti fatte nelle sere precedenti ai comizi» (“Il Lavoratore”, 12 dicembre). Tra compagni e simpatizzanti si ebbero circa un migliaio di arresti. A questa repressione legale non poteva non aggiungersi quella “illegale” fascista, con minacce di morte, bastonature, perquisizioni alla ricerca delle schede comuniste, requisizione e loro distruzione, stampa e distribuzione di false schede. E infine i brogli elettorali, con voti multipli dei fascisti, annullamento di quelli comunisti, etc., etc. Scriveva “Il Lavoratore” lo stesso giorno: «Lo spirito di sacrificio dimostrato dai nostri giovani e dalle donne comuniste, i pochi sfuggiti al rastrellamento, è sorprendente e i nostri elettori sono stati semplicemente ammirevoli [...] Al sabato sera e domenica mattina, le abitazioni dei nostri compagni più noti furono “assediate” da operai che volevano le schede comuniste, e molti dovettero tornarsene a mani vuote poiché le schede erano state sequestrate o distrutte».
Dobbiamo precisare: la “scheda di Stato”, riportante i simboli dei partiti partecipanti alla competizione elettorale, quale tutt’oggi usata, venne istituita in occasione delle elezioni del 1924, passate alla storia come truffaldine a seguito della legge Acerbo. Anteriormente le organizzazioni politiche provvedevano a stampare in proprio le schede con il simbolo del partito e a distribuirle ai propri elettori. L’elettore nella cabina del seggio introduceva nella busta fornita dallo Stato la scheda che si era portato da casa. Quindi distruggere le schede avversarie equivaleva a ridurne i voti, così come distribuire schede con simbolo solo simile a quello registrato determinava la nullità del voto.
I voti comunisti ufficiali furono 3.291, poco più del 2%. Questo risultato, visto col metro democratico, avrebbe rappresentato una sonora sconfitta del Partito; ma il nostro criterio è diverso: malgrado tutta la repressione e la violenza scatenata contro il partito, 3.291 anonimi proletari, all’interno delle bolge elettorali dove incombeva il terrore fascista, ebbero il coraggio di esprimersi per il comunismo.
Come da noi previsto, il Partito Socialista, corteggiato dall’Internazionale, sempre rifiutò di aderire alle proposte del PCd’I. Mai ci scandalizzammo di ciò perché conoscevamo bene la natura socialdemocratica del massimalismo. Ma, mentre le organizzazioni politiche ed economiche rifiutavano categoricamente di aderire alle proposte di azione pratica dei comunisti, i proletari di ogni tendenza vi si riconoscevano: sul piano sindacale abbiamo evidenziato il caso dell’Alleanza del Lavoro e lo stesso avveniva quando si trattava di opporsi con le armi alla violenza fascista.
Sul già abbondantemente citato “Supplemento al rapporto al IV congresso” si legge ancora: «Gli avvenimenti succedutisi negli ultimi tempi, mentre da un lato non hanno in alcun modo intaccato la struttura organizzativa del PC, ne hanno notevolmente accresciuto il prestigio politico sul proletariato. Tale risultato è stato raggiunto per due ordini di motivi: perché il PC ha dato prove concrete della sua capacità di azione anche nei momenti di maggiore disorientamento delle masse, con la pubblicazione illegale dei suoi giornali, con l’attività delle sue squadre, con l’indire comizi nell’anniversario della Rivoluzione Russa, ecc., mente, all’opposto, tutti gli altri partiti cosiddetti proletari o hanno dato prova evidentissima di viltà e di tradimento (socialdemocratici) o hanno dimostrato la loro assoluta impotenza sul terreno di ogni attività rivoluzionaria (anarchici, sindacalisti e massimalisti). È accaduto dunque che l’attenzione di tutti gli operai si è concentrata sull’atteggiamento e sull’attività del PC. Operai massimalisti ed anarchici si sono spontaneamente uniti ai comunisti per curare la vendita illegale dei giornali comunisti, nelle adunate proletarie organizzate e difese militarmente dal PC [...] Tutta la classe operaia italiana è condotta ad orientarsi ora esclusivamente verso il Partito Comunista, che ha dimostrato la sua vitalità e la sua efficienza reale, malgrado l’assenza dall’Italia di taluni elementi rappresentativi del Partito, dimostrando così la preparazione rivoluzionaria raggiunta con metodi comunisti di organizzazione dell’avanguardia della classe operaia, mentre i rivoluzionari verbali che formano la direzione degli altri partiti si liquidano definitivamente».
Mentre i ministri del Partito Popolare nel governo Facta si rendevano complici coscienti dell’appoggio governativo alle azioni del fascismo, i lavoratori, organizzati nel partito e nei sindacati cattolici, combattevano con le armi in pugno al fianco dei comunisti: basti ricordare gli avvenimenti di Cremona e la battaglia di Parma dove i lavoratori cattolici, anarchici e socialisti diedero assieme il loro attivo contributo ai comunisti. Lo stesso facevano i proletari iscritti al partito repubblicano che si univano ai comunisti nella battaglia contro il fascismo, mentre i loro dirigenti firmavano un patto di pacificazione. Ne “Il Lavoratore” del 2 settembre 1922 leggiamo: «Rendiamo il dovuto onore agli avanguardisti repubblicani che, malgrado la viltà dei loro capi, si sono battuti a fianco degli operai comunisti a Forlì e a Ravenna».
Nella relazione del PCd’I al IV congresso dell’Internazionale il nostro partito poteva così affermare: «Intorno alle nostre squadre si sono polarizzati i lavoratori più coscienti ed audaci. Gli Arditi del popolo non esistono oggi che a Roma ed a Parma: nella prima città in mano ad elementi politicamente equivoci e ridotti a poche pattuglie; nella seconda città prossimi ad entrare nei nostri quadri, mentre il loro capo ha fatto domanda di iscriversi nelle nostre file».
La “conquista delle masse” e la direzione della lotta antifascista si andava realizzando proprio grazie alla presunta tattica di “chiusura” del partito comunista.
Nei prossimi rapporti tratteremo dei più significativi episodi di guerra guerreggiata tra fascismo-Stato e proletariato, e non è eccessivo aggiungere qui, diretto dal Partito comunista: questa è la verità storica. Tanto più che, mentre i comunisti combattevano sotto le bandiere e la disciplina del proprio partito, gli altri proletari (eccezion fatta per gli anarchici) non appena imbracciavano un’arma venivano subito sconfessati dalle loro organizzazioni politiche.
L’errato indirizzo della Internazionale
Come abbiamo documentato, malgrado l’infierire della efficiente attività repressiva del governo Mussolini contro il proletariato in generale e i comunisti in particolare, il PCd’I, essendosi preparato fin dal primo momento a sprofondare nella clandestinità e illegalità, riusciva a mantenere viva e vitale la sua struttura organizzativa: politica, sindacale, militare. Essendo la sola organizzazione proletaria rivoluzionaria in grado di funzionare, divenne l’unico polo di riferimento per il proletariato italiano.
Non è certo piacevole ammetterlo ma la politica imposta dall’Internazionale, ostinandosi cocciutamente a tentare la realizzazione di quell’irrealizzabile partito social-comunista, frutto della fusione con i massimalisti, e screditando al proletariato italiano la vecchia direzione contribuì non poco a sabotarne l’opera.
Anche se con il tono di rispetto dovuto all’organo supremo del proletariato rivoluzionario, non si poteva fare a meno di far rilevare al C.E. dell’I.C. come l’indirizzo politico imposto al partito ne paralizzasse l’azione: «Per meglio resistere sarebbe necessario dare maggiori segni di vita e rivolgere parole chiare al proletariato. Se ciò fosse possibile, il problema tecnico di tenere testa agli sforzi del fascismo poliziesco e massacratore potrebbe trovare ancora per molto tempo una soluzione felice. Bisognerebbe poter contare su quella disciplina assoluta e cieca che la nostra Centrale aveva applicato nel partito. Purtroppo [...] la situazione nella quale è fatta la politica del Partito da qualche mese ci preclude sempre più queste risorse [...] Non potendo seguire la linea sulla quale, secondo tutta la nostra preparazione di due anni, il ruolo del Partito avrebbe dovuto muoversi, noi taciamo, ed il partito perde il suo prestigio. Infine, il senso di disciplina e di fiducia nell’autorità dei capi del Partito, dopo tutto quanto è successo e il nostro silenzio di fronte agli attacchi ai quali siamo sottoposti da ogni parte, tende di giorno in giorno a svanire. Queste ragioni contribuiscono ad accentuare gli effetti che la reazione fascista ha sul movimento del Partito [...] Ci troviamo in una posizione che ci impedisce di fare delle proposte tattiche» (Rapporto dell’8 gennaio 1923).
Riferendosi poi alle inconcludenti pratiche fusioniste il rapporto continuava: «La buona sorte di costruire un Partito di massa in un momento come l’attuale non doveva neanche essere sognata. Tutto ciò che si doveva fare, con la possibilità di creare qualche cosa di buono da questa situazione “schifosa”, era di salvaguardare gelosamente la solidità organizzativa e d’azione del Partito comunista, il solo atto per uscire dalle difficoltà attuali, con un po’ più di sostegno e di fiducia da parte dei capi dell’Internazionale».
Per concludere il presente capitolo riportiamo alcuni punti tratti dallo “Schema di tesi sull’indirizzo e il compito del partito”, presentato dalla Sinistra alla conferenza nazionale di Como:
«17) Prevalso al IV Congresso il criterio della fusione, i dirigenti del partito comunista impegnarono la disciplina di tutta la massa del partito al deliberato della Internazionale, ma dichiararono necessaria la loro sostituzione per la effettuazione del nuovo lavoro politico. Sopravveniva intanto l’ondata reazionaria del febbraio 1923 con l’arresto dei dirigenti del Partito e la scoperta di alcuni Uffici centrali. Forse molte conseguenze di questo colpo potevano essere evitate, se il Partito avesse potuto concentrare le energie nella sua difesa dalla reazione, anziché sul terreno di logoranti polemiche e discussioni colla Internazionale, che distraevano i capi dal loro ufficio e demoralizzavano il partito dinanzi ai molteplici e velenosi suoi avversari. Intanto la reazione anticomunista sollecitava i capeggiatori del massimalismo a scoprire la loro tradizionale pusillanimità e a rinnegare e respingere la fusione, come avvenne al Congresso di Milano, dove la frazione fusionista fu battuta in pieno, confondendo i suoi scarsi voti con quelli di una mozione intermedia e equivoca di Lazzari.
«18) Invece di considerare tale scioglimento come liquidazione della sbagliata tattica fusionista la Internazionale lo attribuì al sabotaggio della sinistra comunista, e insistette nella linea di penetrazione nel P.S.I. alimentandovi la frazione terzinternazionalista, scarsa di forza e di capacità politica e organizzativa. Si è così trascinata per un anno e mezzo una situazione di preludio alla fusione che anche coloro che non respingono ogni fusione in generale dovrebbero sforzarsi di limitare ad un brevissimo periodo preparatorio. Si è avuta così in Italia una doppia organizzazione terzinternazionalista, con doppia ramificazione in tutti i campi di lavoro, il che ha apportato confusione, rilasciatezza e sfiducia nelle stesse file del Partito comunista, nel periodo in cui più si sentiva il bisogno del metodo di direzione unitaria, ferma e compatta.
«In questa situazione il massimalismo ha speculato fino a che ha potuto, dipingendosi come il movimento che Mosca in tutti i modi chiamava a sé, e valorizzandosi dinanzi al proletariato italiano nel periodo in cui ogni altro titolo rivoluzionario gli veniva a mancare. La liquidazione dell’equivoco massimalista è così stata ritardata dalla politica della Internazionale.
«19) Nel periodo successivo il partito ha dimostrato la sua spontanea vitalità e robusta tradizione, provando di essere una forza politica effettiva e non abbisognante di integrazioni per avere una funzione autonoma. Alla periferia le organizzazioni del Partito hanno magnificamente resistito e ripreso. Intanto le continue tergiversazioni sulla tattica da dettare ai terzini, sulla loro entrata nel Partito Comunista e permanenza in quello socialista per la ipotetica conquista, la sostituzione dei vecchi dirigenti, con elementi che stavano in una posizione intermedia tra la loro politica e quella dell’Internazionale, hanno ridotto il funzionamento dell’apparato centrale del Partito ad una pratica quotidiana e banale senza rigore e senza fisionomia, malgrado la buona volontà della più gran parte dei compagni ad esso preposti».
Fin dall’inizio della guerra anche il governo britannico adottò una politica di asservimento dei partiti politici e dei sindacati agli interessi nazionali corrompendone i capi con incarichi ministeriali e facendo loro intonare il ben collaudato ritornello della difesa della patria in pericolo.
Le Trade Unions, sindacati di mestiere, furono inserite nella gestione delle industrie, riservando dei privilegi ai loro iscritti, che da 3.708.000 nel 1914, salirono a 5.324.000 nel 1918. Questo garantì una certa pace sindacale e sociale, l’arruolamento volontario nell’esercito e l’utilizzo di risorse materiali e umane dal vasto Impero.
Ciò non di meno la classe operaia inglese fu duramente asservita al ferreo regime di produzione per la guerra come così rilevò una governativa “Commissione speciale” per comprendere le cause delle continue agitazioni nelle fabbriche: «Da ormai tre anni gli operai lavorano in condizioni mai esistite prima d’ora: la lunga giornata lavorativa, la estrema tensione del lavoro e i rapidi ritmi di produzione non consentono loro il necessario recupero delle energie (...) I nervi degli operai e delle loro famiglie sono scossi dalle dure condizioni del lavoro, dal basso salario, e in alcuni casi ingiusto, dalle cattive condizioni d’alloggio e di vita, dai dolori causati dalla guerra e dalle dure perdite, dai prezzi eccessivamente alti dei generi alimentari».
La classe operaia inglese quindi non fu sempre silente collaboratrice alla guerra dei loro padroni. E dalla primavera del 1917, dopo la prima rivoluzione in Russia, rialzò alta la voce con una nuova ondata di massicci scioperi.
Ad aprile 1917 nel Lancashire, dove si concentrava il grosso dell’industria cotoniera e tessile, iniziò un imponente sciopero che in breve si estese in 48 città impegnando circa 250.000 operai.
Il 3 luglio a Leeds si tenne una conferenza contro la guerra cui parteciparono 1.150 rappresentanti delle organizzazioni delle Trade Unions, laburisti e socialisti. Quasi all’unanimità fu votata una risoluzione che salutava la rivoluzione in Russia, auspicava una pace senza annessioni e invitava i lavoratori a formare i soviet dei delegati degli operai e dei soldati in tutti i distretti del paese. Il programma fu poi boicottato dai dirigenti del Partito Laburista Indipendente.
Il governo inglese promise allora generici miglioramenti, le solite commissioni d’inchiesta e la formazione nelle fabbriche di “Consigli industriali” composti da rappresentanti dei lavoratori e degli industriali per appianare i conflitti, programma che fu attuato dalle Trade Unions alla fine del 1917.
Dal 9 al 15 del settembre 1917 nell’accampamento militare inglese di Eraples, in Francia, si rivoltarono i Labour Corps, reparti di operai militarizzati provenienti dalle colonie dell’Impero impiegati in zona di guerra. Si ebbero scontri con la polizia militare, minacce agli ufficiali, cortei, comizi, sconfinamenti nella vicina cittadina, sistematica violazione della disciplina.
d) In Francia
Anche la classe operaia francese, sottoposta al regime della produzione militare, trasse vigore dall’esperienza russa. Ripresero gli scioperi contro le dure condizioni di lavoro, i bassi salari, la scarsità del vitto e contro la guerra.
Il 1° maggio 1917, nonostante la resistenza dei dirigenti del Partito Socialista e dei sindacati, fu organizzato uno sciopero che da Parigi si estese a quasi tutti i centri industriali del paese, anche con la partecipazione di lavoratori degli stabilimenti militari, sottoposti a ulteriori restrizioni. Da quella giornata gli scioperi si moltiplicarono interessando oltre 1.500 imprese tessili e conciarie, dove le donne, che avevano sostituito gli uomini nella produzione, rivendicavano la riduzione della giornata lavorativa a 8 ore e la parità giuridica e salariale con gli uomini.
I i comizi dove si chiedeva la fine della guerra e la pace immediata finivano in scontri con la polizia che duramente li attaccava, spesso impiegando truppe coloniali. Queste notizie raggiungevano il fronte, o perché vicino alle aree industriali o tramite la catena dei rifornimenti.
I rapporti ufficiali presentano lunghi e dettagliati elenchi degli episodi di ribellione militare, di cui elenchiamo i più significativi.
Il 3 maggio, dopo la catastrofica conclusione dell’insensata offensiva del generale Nivelle, la 2ª divisione si rifiutò di riprendere i combattimenti. 30.000 soldati abbandonarono le trincee. In breve scoppiarono rivolte in tutto l’esercito francese. Il 6 maggio l’offensiva fu sospesa e il generale sostituito.
Il 17 maggio si ribellarono un battaglione di chasseur della 127a divisione e un reggimento della 18ª. Due giorni dopo si muoveva un battaglione della 166ª.
Il 20 maggio il 128° reggimento della 3ª divisione ed il 66° reggimento della 18ª divisione rifiutarono gli ordini e nella 17ª divisione avvennero atti di insubordinazione.
Il 22 maggio due reggimenti della 69ª divisione elessero delegati. In comizi avanzarono la richiesta della pace immediata senza annessioni e di far venire al fronte i deputati, i senatori, i notabili e i giornalisti che incitavano alla guerra fino alla vittoria!
Il 28 maggio si ammutinarono in massa 4 divisioni e nei due giorni successivi altre 8, tra cui 5 delle unità d’elite dei veterani e dei corpi speciali; maledivano gli ordini dissennati di spericolati attacchi e inutili sacrifici. La 5ª divisione di fanteria, considerata anche dai tedeschi di gran valore, che si era distinta nelle battaglie per il Forte Douaumont a Verdun, fu quella con il più alto numero di ammutinati. Il 18° reggimento della 36ª divisione, distintosi nella tremenda battaglia del Chemin des Dames subendo oltre 1.000 tra morti e feriti, si era rifiutato di tornare in prima linea dopo solo sei giorni di riposo e, al canto dell’Internazionale, organizzò una manifestazione. Fu quello che ebbe le maggiori e pesanti condanne di cui 3 fucilazioni.
A Soissons due reggimenti, saputo delle rappresaglie attuate dalle truppe coloniali contro una manifestazione di lavoratrici parigine, si impossessarono di un treno in una stazione e diressero verso la capitale, ma furono dirottati e fermati. Il 29 maggio alcuni reggimenti vicini marciarono verso Parigi in tenuta da combattimento, uno quasi raggiunse la capitale ma fu fermato in uno scontro notturno con reparti di cavalleria.
Sino alla fine di giugno le dimostrazioni dei soldati si propagarono in 21 divisioni coinvolgendo 75 reggimenti di fanteria, 23 battaglioni di fucilieri e 12 reggimenti di artiglieria per un totale del 43% di tutta la fanteria, che aveva sopportato il peso maggiore della guerra. Ciò nonostante l’esercito francese non collassò e poté rimanere in attesa dei rinforzi americani e dei nuovi carri armati.
La repressione attuata dalle 3.400 corti marziali istituite fin dai primi giorni degli ammutinamenti comminò ben 550 condanne a morte; il 90% di esse furono poi trasformate in pene detentive e deportazioni nelle carceri delle colonie d’oltremare.
Queste rivolte furono tenute segrete al pubblico, e ovviamente al nemico, per evitare una generale demoralizzazione o l’esplosione di moti insurrezionali a favore dei soldati e contro il governo. Furono rese note solo nel 1919, dopo la fine della guerra.
e) Il corpo di spedizione russo
L’iniziale richiesta francese nel 1915 di ben 300.000 soldati per pareggiare le grandi forniture di moderno materiale bellico fornito all’esercito zarista fu osteggiata dal comando generale russo, ma appoggiata dallo zar. Si giunse infine nel 1916 a creare una “Brigata speciale russa” composta di 3 battaglioni, ciascuno comandato da propri ufficiali, che avrebbe operato come unità a sé, con un primo contingente di 180 ufficiali e 8.762 tra sottufficiali e truppa. Il comando russo prelevò gli effettivi dalla riserva con limitati gruppi esperti di provenienza urbana e operaia mentre la più parte era di origine rurale e contadina. Secondo gli accordi convenuti, i francesi avrebbero dovuto occuparsi del trasporto della brigata a loro spese e fornirli di tutti gli armamenti necessari.
Il 3 febbraio 1916 il primo contingente lasciò Mosca; in treno lungo la Transiberiana raggiunse il porto cinese di Dalian, presso la ex base navale russa di Port Arthur persa dopo la guerra russo-giapponese del 1904, e passando per Suez sbarcò a Marsiglia il 26 aprile dopo 60 giorni in mare e percorsi 30.000 chilometri.
Nell’agosto del 1916 una seconda brigata fu inviata a sostenere le truppe anglo-francesi a Salonicco cui se ne aggiunse una terza nel novembre seguente sempre a Salonicco. Una quarta brigata speciale russa fu inviata in Francia partendo dalla base di Arcangelo per le rotte del mare del Nord. Le due brigate operanti in Francia contavano anche di 450 soldati estoni che dopo il febbraio 1917 si dotarono di proprie insegne nazionali come prima manifestazione di una futura repubblica estone. Altre brigate erano in formazione in Russia ma dopo la rivoluzione e la caduta dello zarismo non partirono più. In totale i russi inviarono rinforzi di 745 ufficiali e 43.547 tra sottufficiali e soldati.
Dopo l’addestramento la brigata russa in Francia fu accorpata alla 4ª armata e partecipò con onore ai combattimenti nella disastrosa offensiva di Nivelle riportando 5.542 caduti. Quelle pesanti perdite fecero crollare il morale, come nei reparti francesi, per cui iniziarono i primi episodi di insubordinazione.
Dopo la rivoluzione di febbraio nelle unità russe, da quel momento utilizzate con estrema cautela e sospetto, si erano formati dei soviet di delegati per controllare l’operato del loro comando, secondo quanto stabilito nel Decreto n°1 del soviet di Pietrogrado. Quei soldati chiedevano l’immediato rimpatrio, si rifiutavano di combattere in un paese straniero e cercavano di diffondere tra i commilitoni francesi lo spirito della rivoluzione di febbraio.
Il 5 luglio 1917 nella prima brigata russa in Francia scoppiò un esteso ammutinamento con rifiuto di eseguire gli ordini e richiesta di immediato ritorno in Russia. 700 soldati del 298° reggimento organizzarono un campo militare diretto da un comandante da loro eletto. Subito il comando francese isolò i reparti rimasti leali dagli ammutinati, circondati nel campo di La Courtine. Qui più forte era la rivolta di un contingente di 3.000 soldati dotati di artiglieria da campagna da 75mm. Il 16-17 luglio, dopo infruttuosi negoziati, vi fu l’assalto al campo con l’artiglieria che si concluse con una decina di morti, 50 feriti più un imprecisato numero di fucilati sul posto. I superstiti furono frazionati in piccoli gruppi in varie carceri in Francia mentre i capi della rivolta e gli elementi più politicizzati furono inviati in un battaglione penale nel nord Africa. Il resto del corpo che non aveva partecipato alla rivolta, circa 10.000 uomini, fu smobilitato e trasformato in compagnia di lavoro; buona parte fu poi rispedita in Russia nel 1918.
f) In Italia
1) Contro la guerra di Libia
Per meglio valutare le azioni che i proletari in divisa nella situazione italiana misero in atto durante il primo conflitto mondiale per sottrarsi ai pericoli e agli orrori della guerra borghese occorre rifarsi alla guerra italo-turca per la conquista della Libia che per le molteplici implicazioni geostrategiche ne rappresenta un prologo.
L’infame guerra coloniale italiana, durata un anno, dal 29 settembre 1911 al 18 ottobre 1912, si concluse solo nel settembre 1931, per la forte e sistematica guerriglia delle tribù locali, con l’impiccagione di Omar al-Mukhtar, valoroso capo dei ribelli Senussi.
Abbiamo riferito sul numero 81 di questa rivista dello sciopero generale indetto dai sindacati per il 27 settembre 1911, delle manifestazioni indette dal PSI in Romagna e della strage di Langhirano di quanti tentarono di fermare i treni dei coscritti. Qui torniamo sulla propaganda allora dei partiti di ispirazione socialista e anarchica.
L’entrata dell’Italia nella prima guerra mondiale nel 1915 e le pesanti sconfitte subite contro la guerriglia turco-senussa avevano prodotto il forte arretramento delle truppe italiane su alcune città costiere, dove di fatto erano assediate.
Nelle precedenti campagne dell’imperialismo italiano sulle sponde del Mar Rosso, i corpi di spedizione, oltre i pochi volontari, erano stati formati per lo più da soldati estratti a sorte nei reparti regolari, più i prelevati dalle compagnie di disciplina e dalle carceri militari. In queste ci si finiva anche per modeste infrazioni al regolamento: atteggiamenti irrispettosi verso gli ufficiali o per aver diffuso idee antimilitariste. Ciò produsse unità che non avevano esperienza militare comune e solidarietà di corpo e che ritenevano punitivo il loro invio in Africa.
Il comando italiano, per coprire le proprie responsabilità nella frettolosa e deficiente preparazione e gestione delle campagne, attribuì alla truppa la responsabilità della imperfetta esecuzione degli ordini e della tenuta delle posizioni, sia in attacco sia in difesa, e della brutta figura sul piano militare esibita alle altre potenze imperialiste.
Si passò però, ove possibile, a inviare in Libia reparti già formati con i loro ufficiali, permettendo così alle cellule socialiste e anarchiche, che nelle caserme già diffondevano segretamente la propaganda contro la guerra, di continuarla sul fronte africano.
Lo sbarco a Tripoli avvenne il 5 ottobre 1911.
Già la settimana seguente il soldato De Giorgi incitava alla rivolta i commilitoni: “Abbasso il re! Viva l’anarchia”! Fu processato e condannato a 7 anni. Fece più scalpore il gesto di Augusto Masetti, anarchico e antimilitarista, che il 30 ottobre 1911 nella caserma Cialdini di Bologna sparò al colonnello che all’adunata incitava i soldati ad offrirsi per la Libia. Ben più che a queste azioni individuali aveva esortato i coscritti del 1891 la Federazione nazionale giovanile socialista: “Imparate a servirvi per la causa vostra dell’arme che vi mettono nelle mani!”.
Alcuni mesi dopo l’inizio di quella che avrebbe dovuto essere “una passeggiata”, rivelatasi invece uno scombinato insuccesso, in Italia avvennero decine di diversi atti individuali e collettivi di insubordinazione, di rifiuti a partire, sia tra i giovani coscritti sia tra i militari di leva. Anche tra le truppe in Libia le insubordinazioni erano diffuse, specialmente per il mancato rientro di quanti avevano terminato la leva. Nell’autunno 1911 il soldato Marino Bergonzini fu fucilato per essersi rifiutato di giustiziare alcuni prigionieri nemici.
Nelle compagnie di disciplina erano spediti i soldati appartenenti a organizzazioni politiche anticapitaliste e sindacali rivoluzionarie. Allo scopo era stato da poco riaperto nella Rocca di San Leo, presso Pesaro, quello che nel passato era stato il carcere dell’Inquisizione, poi pontificio, poi del Regno d’Italia. Quei soldati erano inoltre impiegati nelle operazioni più esposte al fuoco nemico.
Nonostante ciò la propaganda contro la guerra si sviluppò velocemente, in parallelo a quella negli altri paesi europei. Il Congresso giovanile socialista, tenuto a Bologna nel settembre 1912, aveva aperto una cassa di solidarietà, chiamata “Il soldo al soldato”, per la propaganda antimilitarista nelle caserme e al fronte e per infrangere l’isolamento dalla società civile; l’iniziativa fu appoggiata anche dagli anarchici e dai sindacalisti rivoluzionari.
Le autorità di polizia e militari nel 1913 cercarono di impedire la diffusione dell’omonimo opuscolo “Il soldo al soldato”, redatto nella stesura finale anche dal nostro Amadeo, stampato a Roma in 20.000 copie, ove si diffondevano i principi dell’odio e della lotta di classe. Nell’interessante opuscolo si trova una attenta analisi della società, la denuncia delle condizioni del proletario in divisa e delle menzogne sulla difesa della patria. Ne riproduciamo il “decalogo del coscritto”: «1° Non sparare sui tuoi fratelli lavoratori; 2° Non ti prestare a fare il krumiro; 3° Non odiare né la patria tua, né quella degli altri. Ama la patria dei lavoratori che è il mondo intero».
Il ricordo della fucilata di Masetti era rimasto nella memoria del proletariato tanto che ad Ancona il 7 giugno 1914, durante una contro-manifestazione per la ricorrenza dello Statuto Albertino indetta da repubblicani, anarchici e socialisti, si chiese la soppressione delle compagnie di disciplina e la liberazione di Masetti e di Antonio Moroni, un sindacalista rivoluzionario inviato a una compagnia di disciplina appena arruolato.
Essendo stato il comizio vietato, gli organizzatori, tra cui Benito Mussolini e Pietro Nenni, decisero di tenere la manifestazione in forma privata presso la Villa Rossa. Terminata la riunione la polizia, circondati e aggrediti i partecipanti, ne uccise tre colpiti da arma da fuoco. Dalle finestre dei palazzi vicini si scagliarono allora sulla polizia pietre e mattoni. La notizia dell’eccidio si diffuse in tutta Italia. Fu indetto uno sciopero cittadino nel giorno dei funerali delle vittime, cui parteciparono in decine di migliaia. In altre città si ebbero iniziative locali, fino a sollevazioni con assalti alle armerie, requisizione di derrate alimentari.
Iniziava così la “Settimana Rossa”, che si estese principalmente nelle Marche, in Emilia Romagna e in Toscana; in tutte le grandi città dal nord al sud d’Italia si tennero affollati e infuocati comizi e manifestazioni di protesta dichiaratamente anti-monarchiche e anti-militariste.
In alcune località della Romagna furono proclamate delle estemporanee repubbliche provvisorie con comitati rivoluzionari che cercavano di riorganizzare la vita pubblica con la requisizione e la distribuzione di derrate a prezzi calmierati.
Lo sciopero regionale dei ferrovieri si estese in tutto il paese; fu di tale intensità ed energia da indurre la Confederazione Generale del Lavoro a dichiarare lo sciopero generale nazionale. Iniziato il 10 giugno, divenne una generale e aperta rivolta anti-istituzionale. I dirigenti riformisti della CGdL, temendo il divampare della guerra civile, dopo solo 48 ore dichiararono la sospensione dello sciopero invitando tutti a riprendere il lavoro. Il pretesto della capitolazione era l’arrivo nel porto di Ancona di 6 navi da guerra tra cui 2 incrociatori corazzati, dalle quali si minacciava di prendere a cannonate la città e sbarcare 5.000 militari in appoggio alle forze di terra per riprendere il controllo della Romagna in rivolta. Solo dopo alcuni giorni e 16 morti tra i rivoltosi la situazione ritornava sotto il controllo dello Stato.
Nonostante gli appassionati interventi delle frazioni di sinistra del Partito Socialista la Settimana Rossa fallì per l’assenza di un vero partito rivoluzionario in grado di incanalare e mettersi alla testa delle avanguardie proletarie e contadine, che si sarebbero potute trascinare dietro le eterogenee forze popolari per un programma di rivoluzione politica volta alla emancipazione della classe operaia.
Il successivo 28 giugno 1914 a Sarajevo sarà assassinato l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d’Austria. Con l’entrata in guerra dell’imperialismo italiano il 24 maggio 1915 presto iniziarono le rivolte dei proletari in divisa nelle trincee della Prima guerra mondiale.
2) Alla prima guerra mondiale
Nel novembre 1914 poco danno produsse al partito il prezzolato voltafaccia di Mussolini con la sua adesione alla guerra a fianco dell’Intesa.
Molto peggio fece invece la confusa roboante opposizione, ma solo verbale, di buona parte della dirigenza del PSI, i cui rappresentanti alla conferenza di Zimmerwald del settembre 1915 votarono contro la indicazione di Lenin di trasformare la guerra imperialista in guerra civile.
Solo una parte del Psi, con le sezioni giovanili, degli anarchici e dei sindacalisti rivoluzionari continuarono la propaganda contro la guerra. Intanto il proletariato italiano si esprimeva con vigore in decise manifestazioni antimilitariste. Dai rapporti dei prefetti al governo risulterebbero 524.000 i partecipanti ai comizi contro la guerra. Contribuiva al malcontento l’infruttuoso andamento della campagna in Libia.
I volontari alla prima chiamata alle armi furono 8.171. Quanti tra questi pensavano di arricchirsi con la paga del soldato – intellettuali e futuristi esclusi – scoprirono presto che in zona di guerra era di solo 50 centesimi al giorno, 70 per le truppe d’assalto, 1,10 lire per un carabiniere al fronte. La moglie di un richiamato riceveva 70 centesimi, il costo di un chilo di pane. A un tenente andavano 15 lire. Un ascaro volontario in Libia prendeva 2 lire. E nel 1915 un operaio metallurgico torinese 7,60 lire.
I carabinieri dietro il fronte raggiunsero 20.000 unità; avevano funzione primaria di polizia militare, costituivano i plotoni d’esecuzione e quello, durante gli assalti, di sparare su quanti esitavano a uscire dalle trincee, si arrestavano o indietreggiavano. Sparavano anche ai feriti che cercavano di rientrare. Il generale in capo di stato maggiore Luigi Cadorna aveva emesso la Circolare n°3.525 del 28 settembre 1915, dopo pochi mesi di conflitto: «Ognuno deve sapere che chi tenti ignominiosamente di arrendersi o di retrocedere, sarà raggiunto – prima che si infami – dalla giustizia sommaria dal piombo delle linee retrostanti o da quello dei carabinieri incaricati di vigilare alle spalle delle truppe, sempre quando non sia stato freddato prima da quello dell’ufficiale».
I carabinieri al fronte ebbero complessivamente 1.423 morti e 5.254 feriti, molti dei quali pugnalati dai sopravvissuti alle varie decimazioni e alle violenze. Ovviamente non ne esistono statistiche ufficiali ma sparse raccolte di testimonianze di reduci. Nelle retrovie i carabinieri ebbero il compito di ricercare i renitenti e di affiggere nei paesi di origine i manifesti che riportavano le sentenze di morte dei disertori, a discredito delle famiglie.
Da ricordare il vasto fenomeno della fuga all’estero e della renitenza alla chiamata, singolarmente o a gruppi, che formavano delle bande anche armate alla macchia nelle zone isolate lungo tutta la penisola, nonostante la minacciata pena di morte. Sovente queste ottenevano protezione dalla popolazione, che rischiava pene severe, ricambiata con l’aiuto nei lavori agricoli. Secondo un rapporto dei Reali Carabinieri della Legione territoriale di Palermo in data 30 settembre 1916 si contavano 5.396 disertori e 64.523 renitenti, il 61% dei richiamati!
Nel 1917 gli archivi registrano altre 11 sollevazioni collettive, tutte terminate con fucilazioni e decimazioni.
Il fenomeno si diffuse anche nelle città. A Torino nel giugno 1918 un intero quartiere fu circondato e le abitazioni perquisite una per una portando all’arresto di 98 disertori, 56 renitenti e 6 favoreggiatori.
Tanto era scarso l’amor patrio dei proletari che la propaganda militarista del nostrano imperialismo si dovette dare ad esaltare le gesta di Enrico Toti che, ferroviere, pur privo di una gamba per un incidente sul lavoro, si arruolò bersagliere volontario in quella prima guerra mondiale nella quale il poveretto morì in una trincea rimasta sguarnita durante la sesta battaglia dell’Isonzo il 6 agosto 1916.
– Un preordinato macello
Anche i comandi militari italiani avevano adottato la teoria sulla guerra “statica” elaborata dal generale francese Grandmaison che per lo sfondamento delle linee nemiche prevedeva un iniziale lungo e intenso bombardamento di artiglieria sulle linee di difesa nemiche cui seguivano successive ondate di assalti alla baionetta della fanteria. Secondo i calcoli dello stratega francese era da prevedere la perdita dell’80% degli uomini al primo assalto, del 40% al secondo e del 20% alla terza ondata, che finalmente sarebbe potuta entrare nelle trincee nemiche.
Si poneva quindi il problema di avviare a morte quasi certa una moltitudine di giovani proletari. Si provvide quindi ad adeguare il Codice militare e le sue procedure punitive. L’articolo 114 precedeva che «il reato di rivolta armata era stabilito per coloro che in numero di quattro o più rifiuteranno, essendo sotto le armi, di obbedire alla prima intimazione dei loro superiori, ovvero prenderanno le armi senza esserne autorizzati ed agiranno contro gli ordini dei loro capi». Le pene erano la fucilazione al petto per i promotori e il carcere da 3 a 10 anni per i complici. Il successivo articolo 115 riguardava la rivolta non armata punita con pene fino a 20 anni, l’articolo 116 i casi di ammutinamento, definito come una forma di rifiuto o di protesta più contenuta, anche in forma scritta, punita fino a un massimo di 5 anni.
In alcuni casi fu applicato il “supplizio del reticolato”, adottato a discrezione degli ufficiali col legare il soldato in posizione esposta al tiro nemico. Testimoni e i sopravvissuti riferirono che in diversi casi i soldati austriaci non gli sparavano in una solidarietà tra proletari.
Impressionante la cifra di 870.000 denunce alla giustizia militare: 470.000 per renitenza, di cui 370.000 di emigrati all’estero; 189.425 per diserzione. Furono celebrati 300.000 processi risolti con la condanna di 170.000 soldati, di cui 101.665 per diserzione, e di 37.899 civili, più 220.000 pene detentive di cui 15.000 all’ergastolo e 4.028 a morte, in gran parte in contumacia, di cui 750 eseguite. 130.126 condanne detentive inferiori a 7 anni furono sospese e i colpevoli rinviati al fronte; avrebbero scontato il carcere alla fine della guerra, salvo dimostrazione di valore o encomi.
Queste cifre non tengono conto delle numerose esecuzioni sommarie sul posto a discrezione degli ufficiali contro quanti ritenessero codardi.
La circolare n. 2.910 del 1° novembre 1916 del generale Andrea Graziani, il più efficiente boia di Stato, attribuiva potere di vita e di morte agli ufficiali, esortandoli ad applicare senza remore il metodo della decimazione per sorteggio come punizione durante le gravi insubordinazioni collettive, assicurando loro “incondizionata lode”.
L’odio dei fanti verso i comandanti dopo gli insensati assalti che svuotavano le trincee produsse non solo violente proteste ma anche casi di morte per “fuoco amico” di ufficiali e superiori in fregola di carriera. I soldati si impossessavano, quando possibile, delle rivoltelle degli ufficiali uccisi con le quali farsi giustizia contro i superiori.
I casi di protesta dei proletari in divisa e di ribellione, abbandono del posto, sabotaggio, furti e danneggiamenti furono consistenti, sia individuali sia di gruppi numerosi. Non giunsero però mai a costituire un fronte anche minimamente collegato e organizzato. Mancò il partito rivoluzionario, quindi mancò l’indispensabile appoggio del fronte di classe dalle retrovie.
– La brigata Catanzaro
Ma l’unica vera ed estesa rivolta organizzata fu attuata dalla brigata Catanzaro il 15 luglio 1917 a Santa Maria La Longa, tra Udine e Palmanova. Ne riferiamo anche per sfatare le vili accuse dei comandi italiani che accusarono di codardia le truppe che avevano combattuto con onore.
Costituita da due reggimenti, il 141° e 142°, con soldati per la quasi totalità di provenienza meridionale, si era particolarmente distinta nei combattimenti fin dal suo dispiegamento dal luglio 1915. Durante la terza battaglia dell’Isonzo sul monte San Michele nell’ottobre 1915 perse quasi la metà dei suoi effettivi. Per uno sbandamento in un bosco durante una controffensiva austriaca sotto una violenta grandinata nel maggio 1916, subì la sua prima decimazione, senza processo, con la fucilazione di dodici di loro, compreso un sottotenente.
In seguito fu utilizzata intensamente sul Carso; il 3 giugno 1916, durante la Strafexpedition, il 141° Reggimento perse in un solo giorno il 38% degli effettivi, 333 morti, come riportato dagli archivi storici militari. Gli stessi riferiscono che il solo 141° reggimento nel corso della guerra vide per ben 4 volte il totale annientamento dei suoi effettivi: su un organico base di 2.400 uomini riportò 3.082 tra morti e dispersi e 7.588 feriti.
Il 15 luglio 1917, dopo 40 giorni in prima linea, contro i 10 del normale servizio, sul Carso di fronte alle fortificazioni delle basse alture dell’Ermada, denominato “l’indomabile bestia” per le sue incredibili difese, ultimo baluardo a protezione di Trieste, quella parte della brigata Catanzaro fu inviata per il consueto periodo di riposo nei suoi acquartieramenti di Santa Maria La Longa (UD). Quando quella stessa sera ricevette l’ordine di tornare subito in linea sul monte Ermada scoppiò immediatamente una rivolta armata, anche a causa dell’avvenuto arresto di 9 fanti del 142° reggimento, animatori di una precedente protesta.
Alle 22,30 i soldati in rivolta uscirono dalle baracche, attaccarono quelle degli ufficiali, si impossessarono di tre mitragliatrici, bombe a mano e altro armamento e dettero l’assalto alla sede del comando di brigata, generando la sollevazione di altri reparti nella zona e l’uccisione di alcuni ufficiali. Gli scontri durarono per oltre 6 ore quando, circondati da 2.000 carabinieri con mitragliatrici e cannoni montati su camion più altri reparti di cavalleria, desistettero per evitare una carneficina tra i loro commilitoni. L’incerto e ufficiale bilancio registra la morte di 3 ufficiali e 4 carabinieri più 2 ufficiali e 25 soldati feriti. La mattina, 4 soldati sorpresi con le armi ancora calde, più 24 soldati estratti a sorte in pari numero tra il 141° e il 142° furono fucilati immediatamente. Alle spalle dei soldati designati come plotone d’esecuzione, furono piazzate sezioni di mitragliatrici dei carabinieri pronti a far fuoco sugli indecisi o chi volutamente sbagliava il tiro. I restanti soldati su camion scortati da cavalleggeri furono inviati in una zona paludosa dell’Isonzo. Durante il trasporto numerosi soldati gettarono via i caricatori, venendo puniti con altre 10 fucilazioni sul posto. Tra i restanti rivoltosi, 132 furono inviati alla Corte marziale che stabilì altre 4 pene di morte, eseguite a settembre.
I motivi della rivolta erano la generale carneficina della guerra, le terribili condizioni nelle trincee, la tortura emotiva, la voglia di farla finita con la guerra, l’odio diffuso verso i comandanti che li mandavano a morire senza alcun ritegno e considerazione e in forza di un’esasperata disciplina. Infine contava la volontà di seguire l’esempio di quanto appena avvenuto in Russia, descritto dalla propaganda socialista e dalle notizie diffuse dai giornali.
Ma di fatto, quei fanti si trovarono soli, non potendo contare su organizzazioni precostituite, anche clandestine, e privi di un indirizzo politico. Giocò anche la separazione dai dirigenti e dai militanti antimilitaristi, assegnati alle compagnie di disciplina, la presenza di spie nei reparti più vitali e la loro dispersione nelle montagne alpine.
Ben poco poteva fare la Frazione intransigente rivoluzionaria interna al Partito Socialista, che si era riunita segretamente a convegno a Firenze il 18 novembre 1917, subito dopo Caporetto, per discutere sul passaggio all’azione rivoluzionaria, la rottura del fronte e la diserzione di massa.
– Caporetto
La dura condizione dei proletari in divisa peggiorò durante e dopo la disfatta di Caporetto, nell’ottobre 1917, attribuita dai comandi militari alla loro codardia. Si contarono 50.000 disertori, 300.000 prigionieri, altrettanti sbandati.
Partì la repressione contro i “senza fucile”, quanti vagavano avendo strappato le mostrine o i gradi o che portavano quelle di reparti ritiratisi o che si erano arresi. Il generale Andrea Graziani, per la sua sanguinaria efficienza, nominato “ispettore generale del movimento di sgombero”, durante la rovinosa e caotica rotta dall’Isonzo al Piave si spostava di continuo seguito da un furgone con i carabinieri per le fucilazioni sul posto: quelle dichiarate dal ministero della Guerra furono 107, stime più veritiere dichiarano non meno di 350 o addirittura 5.000 tra cui 36 arditi.
Graziani, superate indenne tutte le inchieste a suo carico, e divenuto generale della Milizia fascista, fu ritrovato cadavere nel febbraio 1931 lungo la linea ferroviaria tra Bologna e Firenze, a Prato, misteriosamente caduto dal treno su cui viaggiava.
Il passaggio dal comando supremo del Regio Esercito dall’odiato generale Cadorna al “benevolo” Diaz il 7 novembre 1917, non segnò un alleggerimento della repressione: le fredde statistiche dicono che sotto Cadorna vi fu un fucilato ogni 800 caduti in battaglia, numero raddoppiato con Diaz.
Con parte degli sbandati di Caporetto si costituirono due improvvisati reggimenti inviati in Libia come misura punitiva. Uno di questi non giunse a destinazione perché l’11 maggio 1918 il piroscafo Verona su cui viaggiava, in convoglio scortato da Messina diretto a Tripoli, fu subito affondato da un siluro di un sommergibile tedesco U 52 provocando la morte o il grave ferimento di circa 2.000 soldati sui 3.086 imbarcati. La situazione è chiarita dal Telegramma del Prefetto di Messina al Ministro: «Ritienesi che siano periti circa un migliaio fra ufficiali, soldati e equipaggio piroscafo Verona. Giunto ora qui S.E. il Comandante del Corpo d’Armata da Palermo che dispose campo di concentramento tutti disertori naufraghi ricoverati a Reggio Calabria. Centocinquanta cadaveri questa Difesa Marittima saranno stanotte trasportati questo cimitero. Permane profonda impressione cittadinanza ma ordine pubblico sempre perfetto».
– La “rivolta del pane” a Torino
Ancor prima dell’entrata ufficiale in guerra dell’Italia, il 24 maggio 1915, si erano svolte in tutta Italia numerose e nutrite manifestazioni sia interventiste sia di opposizione alla guerra, queste duramente represse dalla polizia.
Il 1° maggio a Torino circa in 100.000 avevano manifestato contro la guerra. L’“Avanti!” quel giorno titolava a piena pagina “Viva il Socialismo! Abbasso la guerra!”.
Il 12 maggio circa 15.000 operai lasciarono il lavoro per radunarsi davanti alla Camera del Lavoro a gridare maledizioni alla guerra. Furono presto dispersi dalle cariche della cavalleria sabauda, ma la protesta continuò ad organizzarsi
Il 16 maggio si apriva a Bologna il convegno nazionale del Partito Socialista per discutere di uno sciopero generale nazionale contro la guerra. Una buona parte della dirigenza del partito, che si nascondeva dietro l’ipocrisia del “né aderire, né sabotare”, riuscì ad impedirlo, sostituito con una opposizione in Parlamento contro i crediti di guerra. A Torino, nonostante alcuni pareri contrari, alla Camera del Lavoro si concluse invece di indire lo sciopero senza attendere la decisione di Bologna. Dal 17 al 20 maggio allo sciopero parteciparono 100.000 lavoratori.
A una manifestazione una carica della polizia provocò la morte di un giovane falegname e 14 feriti. Nel pomeriggio un gruppo di operai assalì un negozio di armi e iniziarono degli scontri a fuoco che provocarono alcuni feriti.
Nei giorni successivi la polizia riprese il controllo della piazza, occupò la Camera del Lavoro e arrestò i dirigenti del Partito Socialista. Cessarono gli scioperi e iniziò la repressione degli organizzatori.
Con l’entrata in guerra fu militarizzata la produzione in tutte le fabbriche d’Italia, con gli operai sottoposti a rigidi controlli. Le donne sostituirono gli uomini mandati al fronte. Gli operai che osavano protestare, indire assemblee, manifestazioni o scioperi erano inviati al fronte nelle “centurie lavoratori”, reparti non combattenti adibiti alla logistica, come la manutenzione delle strade militari, pur sottoposti alla disciplina militare. Alcuni di loro furono fucilati per diffusione delle idee antimilitariste.
Nel 1917, dopo due anni di guerra, a Torino la situazione dell’approvvigionamento alimentare e in particolare della farina per il pane peggiora vistosamente. Il prezzo del pane sale e ne è ridotta la razione delle tessere annonarie. Sull’”Avanti!” del 16 marzo 1917 leggiamo che «nel 1914, una famiglia di cinque persone spende per nutrirsi 20 lire e 84 centesimi, tre anni più tardi, per supplire alle stesse necessità, servono 39 lire e 50 centesimi», corrispondenti a 4 ore di lavoro di un operaio. Il 2 agosto si ha un ulteriore rincaro del pane di 10 centesimi e la riduzione a 300 grammi della razione giornaliera pro-capite, mentre gli aumenti dei salari operai non coprono l’inflazione.
Il 21 agosto 1917 la farina è esaurita, i convogli con i rifornimenti sono in forte ritardo e il giorno seguente quasi tutte le panetterie sono senza pane. Senza la guida della Camera del Lavoro e del Partito Socialista sorge spontanea dai quartieri operai la rivolta, che unisce motivazioni economiche e rivendicazioni politiche, prima fra tutte la fine della guerra. Infatti, nonostante già la sera innanzi, come comunicò il Prefetto di Torino Verdinois al Ministro degli interni Orlando a Roma, i forni riforniti di farina siano in piena attività, la protesta si trasforma in rivolta.
Il 22 agosto si distribuisce il pane davanti alle fabbriche di materiale bellico in Barriera di Milano e a quelle ferroviarie in Borgo San Paolo, ai lati opposti della città, nel tentativo di convincere gli operai a tornare al lavoro. Folti gruppi di operaie e madri di famiglia si concentrano davanti al Municipio e, nonostante siano rassicurate dal sindaco sull’arrivo della farina, iniziano a saccheggiare i negozi di alimentari limitrofi.
I tranvieri entrano in sciopero e bloccano la città. Da Borgo San Paolo parte un corteo di 2.000 operai delle officine ferroviarie che si dirige verso il centro città e la Camera del Lavoro, dove è in corso il congresso nazionale dei ferrovieri. In breve tutti i grandi stabilimenti entrano in sciopero. Le direzioni sindacali sono prese alla sprovvista dalla rivolta che spontanea erige alcune barricate in centro e nei vari focolai di rivolta, ma priva di alcun centro organizzatore.
Iniziano i primi scontri con la forza pubblica e arresti indiscriminati.
La sera il consiglio comunale approva il passaggio dei poteri al comando militare.
Il 23 agosto, pur non essendo stato indetto alcuno sciopero dalla CGdL, davanti ai cancelli di molte officine folti gruppi di operai invitano i compagni a uscire. La produzione è bloccata.
Continuano i saccheggi di negozi e caserme e la costruzione di barricate. Esercito e polizia si schierano per impedire il congiungimento dei due principali concentramenti e iniziano a sparare senza esitazione contro le barricate. Queste sono erette tagliando gli alberi dei viali, con le rotaie dei tram e dei treni divelte e con le vetture ferroviarie rovesciate. Irrisorio l’armamento dei rivoltosi. Due chiese che ospitano magazzini viveri sono saccheggiate e incendiate.
Le riformiste dirigenze sindacali e del Partito Socialista, per la insufficiente forza e determinazione delle componenti di sinistra, non danno alcuna direttiva agli operai i quali, mentre istintivamente chiedono il pane, la pace e la rivoluzione, sono in inutile attesa di direttive dai centri nazionali. Questi abbandonano il movimento alla sua spontaneità e si limitano ad incontri con le autorità per il rilascio dei dirigenti sindacali e politici arrestati in via preventiva.
Il 24 agosto è la giornata decisiva. Fin dal mattino gli operai cercano inutilmente di rompere l’accerchiamento e lo sbarramento tra i due maggiori concentramenti e con quello appena sorto in Barriera di Nizza. La rivolta coinvolge diverse periferie operaie della città. Quella di Barriera di Milano è la più attiva per la presenza di organizzazioni anarchiche. In Borgo Vanchiglia sono distribuiti dei volantini che invitano i soldati a fraternizzare. Sono saccheggiate le poche armerie ancora aperte, ma quelle armi ben poco possono contro le autoblindate con mitragliatrici pesanti che scorrazzano sparando su ogni minimo assembramento.
Verso le 19 anche l’ultima barricata di Barriera di Milano viene dispersa e nella notte l’esercito demolisce le restanti già abbandonate.
Il 25 agosto è ultimo giorno della rivolta. Lo sciopero al mattino è praticamente totale in città. Gli industriali non premono per il ritorno degli operai nelle officine perché temono azioni di sabotaggio. Permangono azioni isolate di guerriglia, si attaccano piccoli gruppi di poliziotti o di alpini di scorta a convogli di viveri e si cerca di disarmarli. Rari e controversi i casi spontanei di fraternizzazione tra soldati e rivoltosi.
Il Carcano, in “Cronaca di una Rivolta”, documenta come il suo spontaneo inizio e rapido sviluppo abbia colto impreparate sia le organizzazioni sindacali, sia la direzione cittadina del PSI, sia quella milanese, cui chiesero consigli. I dirigenti in vacanza nemmeno rientrarono in città, confermando di essere dei rivoluzionari solo a parole.
Un improvvisato Comitato Organizzatore, che aveva inizialmente proposto di
continuare lo sciopero astenendosi da ogni azione violenta, nella serata emette
un comunicato a nome della Sezione di Torino del Partito Socialista - Camera del
Lavoro, che invita a tornare al lavoro:
«Lavoratori torinesi!
«L’insipienza del Governo Centrale, l’ignavia dell’Amministrazione cittadina e
le provocazioni indicibili del potere politico locale vi hanno fatto scattare in
un movimento di sciopero generale meraviglioso, forte, ammonitore ed esemplare.
«Scoppiato per la mancanza di pane, esso si è subito tramutato in una decisa
manifestazione contro la guerra che tanti lutti ha seminato e tanto sdegno ha
suscitato in ogni animo in tutti i paesi. La forza brutale dello Stato borghese,
la incoscienza da parte dei proletari vestiti in divisa, la dolorosa
impreparazione della nostra organizzazione ad una azione risolutiva, ci
costringono a consigliarvi di ritornare lunedì al lavoro. Non è consiglio di
viltà quello che vi diamo, ma di saggezza e di forza.
«Noi intendiamo che non solo questo grandioso movimento proletario torinese sia
avvertimento serio e definitivo al Governo monarchico borghese, perché cessi
questa strage inutile e inumana, ma indichi anche a tutti i proletari d’Italia e
dell’Internazionale il dovere di una più intensa e decisiva preparazione.
«Torniamo al lavoro, o compagni, ma con la coscienza di aver compiuto un atto
coraggioso, degno e fecondo.
«È stato sparso sangue proletario ma non invano. Salutiamo le vittime con una
promessa di prossima, preparata rivincita».
Nei due giorni seguenti proseguono limitati scioperi e sporadici scontri mentre si intensifica la repressione poliziesca che effettua un migliaio di arresti di operai e organizzatori sindacali, anarchici e 24 dirigenti del Partito Socialista.
Il 28 agosto il prefetto di Torino telegrafa al ministro Orlando per rassicurarlo che “l’ordine regna a Torino”.
Incerto e controverso è il bilancio delle vittime. Fonti attendibili valutano un massimo di 10 morti tra le forze statali e 50 tra i rivoltosi, oltre a circa 200 feriti.
Il 16 settembre la città di Torino sarà dichiarata “zona di guerra”, come al fronte, col relativo regime giuridico, allo scopo di prevenire altre rivolte. Seguiranno i processi agli 822 arrestati, tra cui 182 “operai ex esonerati”, subito arruolati e affidati ai tribunali militari, a cui si aggiungeranno altri giovani nel frattempo giunti in età di servizio militare per un totale di 300 che costituiranno 3 centurie di lavoratori inviate al fronte.
Nel luglio 1918 sarà celebrato il processo a 12 dirigenti socialisti ed 1 anarchico; anche se emerso dal dibattimento il carattere spontaneo della rivolta e non frutto di “complotto”, 6 di loro, tra cui Giacinto Serrati, trovatosi a Torino per un giorno soltanto, saranno ritenuti “autori morali della sommossa” e condannati a pene tra i 3 e 6 anni.
Per la rigida censura imposta alla stampa, la notizia della rivolta si diffuse solo dopo alcuni giorni. Questo di Torino rimase in Italia un caso significativo ma isolato.
4.1 Prorompere della classe operaia
Il “Movimento del 4 Maggio”, del 1919, a carattere nazionalista, era stato preceduto da una serie di azioni rivendicative della classe operaia che preparavano la sua discesa in campo, potenzialmente già autonoma rispetto alle altre classi. Alla base di questi primi scioperi era il peggioramento della condizione degli operai cinesi alla fine della prima guerra mondiale. Considerata una età d’oro per il capitalismo nazionale cinese, la borghesia allora riuscì ad approfittare della temporanea mancanza della concorrenza occidentale per estendere le sue attività e aumentare i profitti. Al contrario, per la classe operaia questo significò un peggioramento: allungamento della giornata lavorativa e ripetuti tentativi di abbassare i salari. Inoltre, dal 1914 era iniziato un costante aumento dei prezzi, soprattutto di beni alimentari fondamentali: tra la fine del 1918 e l’inizio del 1919 nella Cina del sud il prezzo del riso quasi raddoppiò.
Se scioperi si erano verificati prima degli eventi del 1919, nel 1917 e nel 1918, è dal giugno 1919 che guadagnarono in ampiezza e vigore nelle diverse industrie e nelle varie regioni del paese. A Shanghai furono coinvolti i cotonifici giapponesi e cinesi e le altre industrie tessili giapponesi, ma anche i metallurgici, l’industria di tabacco BAT, i portuali, i filatori di seta, i lavoratori del trasporto urbano e altre categorie. Da luglio 1919 a luglio 1920 la municipalità di Shanghai rilevò 54 scioperi. A Sud entrarono in sciopero i meccanici di Canton e Hong Kong, i ferrovieri del Guangdong, i tipografi a Hong Kong e i telefonici a Canton. Nel Centro e nel Nord gli scioperi coinvolsero i minatori della KMA, i ferrovieri di Nanchino, i metallurgici, i postali, e i tiratori di risciò. Chiedevano l’aumento dei salari o lottavano contro la loro diminuzione, contro i licenziamenti, il carovita e anche per la giornata di 8 ore. Gli scioperi del 1919-21 ottennero significativi risultati con i salari che aumentarono da un minimo del 10% fino al 40%.
Queste azioni erano ancora accompagnate da quella violenza elementare che aveva caratterizzato i primi movimenti operai, scagliata contro la fabbrica e le macchine come nel luddismo classico. La combattività operaia si esprimeva anche in scontri violenti con la polizia. Nonostante fossero azioni per lo più a carattere spontaneo, non mancarono le prime iniziative organizzate. In particolare fu nella regione di Canton, dove era forte la tradizione corporativa, che le lotte operaie furono portate avanti da gruppi costituiti. Dal 1920 al 1922 a Canton si contarono 44 scioperi. Furono accompagnati da un intenso processo di sindacalizzazione: se prima del 1920 esistevano solo una manciata di sindacati di tipo moderno, nel 1922 se ne contavano circa 100.
Alcune lotte furono particolarmente significative. Nell’aprile del 1920 scoppiò lo sciopero dei meccanici di Hong Kong per ottenere un aumento di salari del 40%, e coinvolse le imprese britanniche di riparazione di barche, i trasporti dell’isola, le telecomunicazioni, e le aziende metallurgiche. I meccanici in sciopero, diretti dalla loro organizzazione professionale di Canton, costrinsero le autorità britanniche a concedere aumenti dal 20 al 32,5%. L’anno successivo, spinti dal successo dei loro compagni di Hong Kong e separatisi dagli elementi padronali che facevano parte della stessa associazione, i meccanici di Canton rivendicarono non solo aumenti salariali ma anche la giornata lavorativa di otto ore. Lo sciopero ottenne importanti conquiste: aumenti salariali dal 10 al 40%, giornata lavorativa di nove ore e doppia paga per il lavoro notturno.
La vittoriosa conclusione dello sciopero dei marittimi di Hong Kong, che con la solidarietà di tutto il proletariato della metropoli aveva paralizzato l’intera vita economica della colonia dal 12 gennaio al 5 marzo 1922, diede il via ad un’ondata di scioperi che interessò tutti i principali centri industriali della Cina. Scioperarono i marittimi dello Yangtze; a Shanghai entrarono in sciopero i portalettere e i lavoratori dei cotonifici Rihua; a Canton scioperarono i lavoratori delle saline; a Macao fu proclamato lo sciopero generale di tutti i lavoratori cinesi. Nei mesi successivi in tutta la Cina si diffuse un movimento rivendicativo per gli obiettivi immediati della classe operaia, allargatosi ad altre categorie. I ferrovieri vinsero con uno sciopero a luglio a Changxindian con la conseguente estensione della lotta a tutte le linee ferroviarie sia verso Nord sia verso l’Hunan e l’Hubei sia, a settembre, sulla linea Hankow-Canton e Pechino-Mukden. Scioperarono gli operai delle fucine dello Yangtze e i lavoratori delle miniere di carbone di Anyuan. Difficile fare un elenco completo di tutte le lotte di questo periodo, con quasi tutti i centri industriali coinvolti.
Il movimento raggiunse il picco nell’ottobre del 1922 con lo sciopero dei 50.000 minatori delle cinque miniere di Kailan, dove si estraeva un quinto di tutto il carbone cinese, e fino ai primi mesi del 1923 la classe operaia mantenne alti livelli di mobilitazione.
4.2 Lo sciopero di Hong Kong del 1922
Uno sciopero importante dei marittimi si ebbe ad Hong Kong tra il gennaio e il marzo del 1922, esteso poi ad altri settori operai. Diverse ne erano le cause. Dall’inizio della guerra mondiale anno dopo anno mentre i prezzi aumentavano vertiginosamente, i salari restavano bassi portando molti operai alla rovina. Sebbene svolgessero lo stesso lavoro, le condizioni dei marittimi cinesi erano più dure rispetto a quelle dei bianchi, e con salari più bassi: umiliazioni, multe e maltrattamenti erano continui. Il reclutamento della manodopera avveniva tramite degli intermediari ai quali i lavoratori erano obbligati a versare una tangente. Infine la presenza di un vasto esercito industriale di riserva permetteva qualunque sopruso pena il licenziamento. Quando un marittimo perdeva il lavoro era ridotto alla fame e a dormire per strada.
L’esempio delle lotte dei fratelli di classe indicò la strada. I marittimi potevano entrare in contatto con lavoratori di altri paesi, venendo così a conoscenza dell’ondata rivoluzionaria mondiale, e nella stessa Cina iniziavano lotte operaie vittoriose: lo sciopero dei meccanici nel marzo del 1920 ad Hong Kong e altri scioperi vittoriosi nella vicina Canton, come quelli nel 1921 dei meccanici e degli stampatori.
Lo sciopero fu preparato con cura dal sindacato dei marittimi: fu rafforzata la struttura interna, creata una commissione di propaganda e una sezione per la difesa dello sciopero, fu aperta una sede a Canton in vista di trasferirvi i marittimi dopo l’inizio dello sciopero e fu organizzata una cassa di resistenza. Diverse riunioni furono organizzate dai militanti del sindacato e fu chiesto sostegno ai sindacati di altri paesi.
Nel settembre 1921 il sindacato dei marittimi presentò la sua piattaforma agli armatori, senza ottenere risposta. Dopo un altro inutile tentativo, il 12 gennaio ripresentò le sue richieste con carattere ultimativo. Lo stesso giorno i marittimi scesero in sciopero compatti, bloccando tutte le imbarcazioni che incrociavano nelle acque interne del Guangdong e le navi britanniche, olandesi, francesi, giapponesi e americane all’attracco. Gli scioperanti erano 2.000, ma ben presto lo sciopero si estese perché i picchetti bloccavano le imbarcazioni all’arrivo, l’equipaggio abbandonava le navi e solidarizzava con lo sciopero. Dopo la prima settimana i marittimi in sciopero aumentarono a 6.500.
Il 16 gennaio il governo coloniale reagì con la legge marziale. Nello stesso momento gli armatori presentarono una controproposta di aumenti salariali, presto bocciata dai marittimi. Lo sciopero non colpiva solo gli armatori ma tutta l’economia dell’isola, una grave minaccia per la colonia perché la produzione locale non era sufficiente per le necessità dei suoi abitanti, essendo i generi alimentari importati via mare dall’interno della Cina. Lo sciopero fece salire i prezzi fino del 50%.
A fine gennaio i facchini e gli scaricatori di Hong Kong proclamarono uno sciopero di solidarietà coi marittimi: ogni attività commerciale fu interrotta, le merci rimasero sulle banchine e le navi ferme nel porto. Gli scioperanti arrivarono ad oltre 30 mila.
Con la situazione della colonia sempre più critica furono fatti diversi tentativi per spezzare lo sciopero. Il governo di Hong Kong provò ad usare sia il bastone sia la carota. Fallì la mediazione delle Camere di commercio e delle altre associazioni della borghesia cinese della colonia, con i marittimi fermi e compatti sulle loro posizioni. Il governo coloniale allora mise fuori legge il sindacato dei marittimi e le organizzazioni dei facchini e degli scaricatori, i dirigenti furono arrestati e piazzati i cannoni davanti alla sede sindacale dei marittimi. Poi si cercò di assoldare crumiri nelle Filippine, in India, in altri paesi e in altre località della Cina. Ma anche questo tentativo di reclutare una massa di disoccupati per rimpiazzare gli scioperanti fallì, sia perché questi crumiri non erano marinai esperti e compromettevano la navigazione, ma anche perché centinaia di questi lavoratori furono persuasi dal comitato di sciopero a rinunciare all’ingaggio.
Il blocco di Hong Kong era totale. Picchetti in altri porti cinesi impedivano di rifornire la colonia. Lo sciopero si propagò come un’epidemia. Hong Kong ne era il centro: entrati nel porto i marittimi abbandonavano le navi. Le Compagnie marittime dirottarono su Shanghai, Singapore o le Filippine. Il 26 febbraio il fronte della lotta si allargò ulteriormente a tutti i lavoratori cinesi di Hong Kong, scesi in sciopero di solidarietà con i marittimi: all’inizio di marzo si contavano 120 mila scioperanti.
Il governo coloniale ordinò allora a tutte le navi da guerra britanniche dai porti della Cina di raggiungere Hong Kong. In città regnava un’atmosfera di terrore. A questo punto i lavoratori iniziarono ad organizzare un generale esodo verso Canton. Circa 50 mila tra marittimi, facchini, scaricatori e altri lavoratori si spostarono verso Canton, dove nell’insieme ben controllavano la situazione. Grande fu la solidarietà del proletariato cinese, che fornì cospicui aiuti finanziari alla cassa di resistenza dei marittimi. Anche la piccola borghesia e una parte della stessa borghesia cinese sosteneva gli scioperanti, ad esempio lo stesso governo del Guangdong mise a disposizioni dei fondi.
Il governo coloniale era in un vicolo cieco, le aveva provate tutte ma la resistenza dei lavoratori cinesi non si era spezzata, mentre la situazione alimentare ad Hong Kong si faceva drammatica e l’economia della colonia era paralizzata. In questo contesto favorevole il sindacato dei marittimi convocò per il 7 marzo un’assemblea plenaria dei lavoratori. Un elenco di richieste fu inviato al governo di Hong Kong. Questo le dovette accettare. Il potente imperialismo britannico cedeva alla forza del proletariato cinese.
Lo sciopero era durato 56 giorni. Fu una lotta economica del proletariato per il salario, ma con connotazioni anche anti-coloniali. La sua conclusione vittoriosa diede un vigoroso impulso a tutto il movimento operaio cinese, che si espresse nel primo Congresso nazionale dei sindacati, convocato a Canton per il Primo Maggio del 1922.
Lo sciopero aveva messo in evidenza due aspetti fondamentali riguardanti il corso della lotta di classe in Cina. Prima di tutto la sua conclusione vittoriosa era stata possibile perché la lotta non era rimasta confinata ai marittimi ma in sostegno dello sciopero era sceso in lotta tutto il proletariato di Hong Kong e in solidarietà quello degli altri centri industriali cinesi. Si dimostrò chiaramente che uno sciopero ad oltranza, che travalica i confini dell’azienda e della categoria, può talvolta aver ragione dei padroni, umiliando anche la potenza coloniale dell’imperialismo.
L’altro aspetto che emerge dallo sciopero è la condotta oscillante della borghesia cinese che, seppur interessata a una maggiore autonomia a discapito dei capitalisti stranieri, restava pur sempre legata alle potenze straniere da mille interessi economici. In quanto borghesia osteggiava l’affermazione anche solo difensiva della classe operaia, ma inoltre temeva che il movimento proletario nel suo concrescere, diretto dal suo partito comunista, venisse a travolgere non solo la presa dell’imperialismo sul paese, ma tutto il borghese ordine delle classi. Da qui il suo atteggiamento contraddittorio, di una classe costretta a barcamenarsi tra l’aspirazione a un proprio sviluppo nazionale indipendente e la paura di non poter più controllare quelle forze sociali che, messe in moto da una lotta di liberazione dagli stranieri, avrebbero potuto non fermarsi alla emancipazione nazionale ma puntare alla loro emancipazione come classe.
Potenti insegnamenti questi per un giovane proletariato non disposto a tirarsi indietro di fronte al divampare della guerra fra le classi.
4.3 Prime organizzazioni
Come abbiamo visto, le prime lotte economiche del dopoguerra erano condotte perlopiù da organizzazioni corporative composte da operai ed elementi padronali assieme. Nei primi anni Venti le organizzazioni operaie risentono del tardivo sviluppo del capitale in Cina, ancora legate al passato corporativo e ad altre forme tradizionali.
Le gilde corporative mantenevano le funzioni che le caratterizzavano da secoli: uno stretto controllo sulle tecniche di lavorazione e sui loro segreti, sulle condizioni di esercizio della professione e sui prezzi dei prodotti. Inoltre regolavano il mercato del lavoro, decidendo i salari e la durata della giornata lavorativa. Il controllo sulla manodopera era garantito dall’istituto dell’apprendistato: per praticare un mestiere era obbligatorio un periodo da tre a cinque anni durante il quale il giovane era asservito al maestro e ai regolamenti delle gilde, impregnate di tradizioni confuciane del rispetto dell’ordine stabilito e della gerarchia familiare e sociale. La gilda si configurava quindi come un organismo misto, una comunità di piccoli produttori comprendente maestri e operai. Questi, sebbene membri della gilda, da cui traevano dei benefici, erano sottoposti al potere dei maestri, che nella gilda ricoprivano le cariche dirigenti e ne stabilivano tutta la normativa, fra cui il rispetto della disciplina. Nonostante fossero frequenti dei conflitti, le gilde mantenevano una forte coesione interna.
Alla separazione per mestieri, a complicare ancora più la struttura delle gilde si aggiungeva la distinzione per provenienza regionale e provinciale. In una determinata città alcuni mestieri erano svolti esclusivamente da una comunità proveniente da una certa zona. Oppure all’interno dello stesso mestiere si formavano gilde distinte in base alla provenienza. Da ciò una contrapposizione tra le gilde e tra i lavoratori stessi, che affondava le radici nella suddivisione provinciale della Cina, frutto della storia del paese. Nelle grandi città erano diffuse associazioni sulla base dell’origine geografica, senza distinzione sociale o professionale, composte di ricchi notabili, commercianti, artigiani, qualificati, operai e coolies. Queste associazioni, strettamente controllate dagli elementi borghesi, avevano una forte influenza tra gli operai e i coolies, li aiutavano nel passaggio da una città all’altra, li ospitavano e li assistevano nelle emergenze. Con una forte presa sui lavoratori, svolgevano un ruolo conciliatorio nei conflitti fra operai e padroni.
Infine tra gli operai qualificati e la plebe urbana continuavano ad avere una certa influenza le società segrete tradizionali, da lungo tempo attive e potenti in Cina. Nei decenni precedenti queste società segrete avevano mobilitato anche settori operai, come ad esempio nel 1884 durante la guerra franco-cinese quando la Triade organizzò uno sciopero ad Hong Kong. In alcuni casi avevano un forte seguito tra i lavoratori come ad esempio la Banda Verde, formata proprio dai marinai e dai coolies del Canale Imperiale, che assicurava il trasporto del grano dalle province alla capitale Pechino. Ma ormai, all’inizio degli anni Venti queste società segrete erano al servizio solo delle ambizioni personali dei loro capi e si occupavano di ogni attività illegale e lucrosa possibile nelle grandi metropoli: traffico di armi e droga, prostituzione. Saranno utilizzate dalla controrivoluzione per reprimere la classe operaia.
Sebbene verso l’inizio degli anni Venti tutte queste organizzazioni fossero avviate verso il declino, mantenevano ancora una certa influenza sulla giovane classe operaia la quale, per affermare le proprie organizzazioni classiste, dovrà lottare contro queste tradizionali impalcature.
Se le corporazioni tradizionali esercitavano ancora un’influenza sui lavoratori, in particolare sugli specializzati, accanto a queste iniziarono a sorgere delle organizzazioni moderne, che sostenevano l’aspirazione nazionale allo sviluppo industriale. Le principali attività di questi istituti, che associavano padroni e operai, riguardavano la formazione professionale dei membri per offrire una manodopera qualificata alle imprese cinesi. Questa tendenza assunse enorme slancio dal 1912 con l’instaurazione della Repubblica, che apriva alla borghesia cinese la possibilità di progressi economici e politici, borghesia che cercava di associare la classe operaia al movimento per lo sviluppo industriale del paese. Altro momento d’espansione di queste organizzazioni fu quello della prima guerra mondiale: l’allentamento della pressione occidentale sulla Cina permise una rapida espansione del capitalismo e delle iniziative per associarvi i salariati.
Gli scioperi connessi al Movimento del 4 Maggio avevano mostrato la forza potenziale della classe operaia. Da qui l’interesse del padronato a cercare di canalizzare il movimento operaio verso interessi non di classe ma di collaborazione col capitale nazionale, per una lotta patriottica contro la penetrazione economica e politica degli stranieri e per sostenere il progresso dell’industria moderna e del capitalismo nazionale. A seguito del Movimento del 4 Maggio, a svilupparsi maggiormente furono le associazioni di “promozione industriale”, organizzazioni miste, ma guidate dal padronato e portatrici di un contenuto di classe ambiguo. Il loro principale obiettivo era il sostegno all’industria e alla produzione nazionale, nel quadro della campagna lanciata nelle giornate di maggio 1919 per il boicottaggio delle merci giapponesi. Queste associazioni svolgevano però anche una politica di assistenza agli operai, fondando ad esempio casse di risparmio e fondi di soccorso, chiedendo anche aumenti salariali e riduzioni della giornata lavorativa, e perfino il diritto di sciopero. Ma di fatto restavano ben lontane da una vera attività sindacale e rivendicativa.
Già prima si erano delineati dei cambiamenti nell’organizzazione dei lavoratori. Nelle gilde operai e apprendisti iniziavano a riunirsi separatamente dai padroni, e lo stesso iniziò all’interno del proletariato industriale. Fu prima tra i lavoratori qualificati che si formarono delle organizzazioni puramente operaie. Anche se queste furono protagoniste di alcune lotte rivendicative, si dedicavano soprattutto al mutualismo, all’educazione e al tempo libero. Queste organizzazioni si diffusero dopo gli scioperi seguenti il maggio 1919. Da queste iniziavano a differenziarsi alcune autenticamente proletarie, come ad esempio i meccanici a Shanghai e nel Guangdong, i marittimi ad Hong Kong e i ferrovieri nella Cina centrale. Erano ancora strutturate sulla base del mestiere e non dell’industria, e tra le principali attività figuravano ancora l’educazione e il mutuo aiuto, ma risultavano separate dalla componente padronale, erano dirette da proletari e portavano avanti azioni rivendicative. Da lì a poco, con la grande ondata di scioperi che investirà la Cina a partire dal 1921 ma soprattutto nel 1922, queste organizzazioni diventeranno dei veri e propri sindacati classisti.
4.4 Il primo congresso dei sindacati
La situazione favorevole che si venne a creare dopo gli scioperi vittoriosi dell’inizio del 1922 portò alla convocazione a Canton per il Primo maggio di quell’anno del primo congresso nazionale dei sindacati, aperto a tutte le organizzazioni sindacali, senza preclusioni di partito o di orientamento politico. L’iniziativa fu promossa dal Partito Comunista di Cina, che al congresso di fondazione nel luglio del 1921 tra le sue priorità aveva indicato la necessità di sostenere le lotte economiche della classe operaia e la creazione dei sindacati operai. A tal fine, aveva formato un Segretariato del Lavoro per organizzare i lavoratori in sindacati, prendendo subito la direzione di un certo numero di scioperi.
Gli obiettivi del congresso dei sindacati erano consolidare l’unità di tutti i lavoratori, discutere il miglioramento delle loro condizioni esaminando le diverse proposte dei delegati. Questi erano 160 provenivano da 12 città in rappresentanza di oltre 100 sindacati e circa 300.000 iscritti. Diverse tendenze si contendevano l’influenza sulla classe. Se ne possono individuare almeno quattro: oltre ai comunisti, gli anarchici, che avevano ancora una certa influenza nella regione di Canton, i sostenitori del corporativismo, che esercitavano la loro influenza con i vari tipi di organizzazione di promozione industriale, ed infine il Kuomintang, che a Canton aveva intrecciato legami con settori operai e guidava alcuni importanti sindacati e partecipava al congresso con molti delegati. Il congresso fu caratterizzato dal conflitto fra queste tendenze. Nonostante ciò si arrivò a delle risoluzioni condivise, fra cui la rivendicazione della giornata lavorativa di otto ore.
I comunisti, oltre ad aver preso l’iniziativa della convocazione e dell’organizzazione del congresso tramite il Segretariato del Lavoro, ebbero sicuramente un ruolo primario al suo interno e alcune tra le principali risoluzioni del congresso furono decisamente una vittoria dell’indirizzo sindacale comunista. Prima di tutto, per quanto riguardava i principi dell’organizzazione sindacale, furono condannate le vecchie forme di organizzazione delle gilde e delle società segrete, e il congresso adottò la risoluzione che i sindacati dovevano essere organizzati su base industriale e non del mestiere. Questo principio divenne la regola dell’organizzazione del sindacato di classe cinese.
Un’altra risoluzione molto importate riguardava lo sciopero di solidarietà. Allo scoppio di uno sciopero tutti i sindacati dovevano essere avvisati e a sua volta ogni sindacato doveva diffondere la notizia, spedire telegrammi di solidarietà e sostenerlo finanziariamente; poi, recita la risoluzione: «se il padronato resiste i sindacati devono proclamare lo sciopero di solidarietà, dapprima nelle fabbriche vicine. Se l’azione non ottiene risultati, i sindacati devono dichiarare lo sciopero di solidarietà in tutte le fabbriche della città. Se anche questo passo risulta insufficiente, tutto il paese deve scendere in sciopero generale».
Infine, una risoluzione riguardava le misure da prendere contro gli elementi deviati del movimento, contro chi fiancheggiava l’azione del padronato. Questi sabotatori della lotta di classe venivano chiamati pittorescamente “anime tigre” perché, secondo un’antica leggenda cinese, per essere liberate, le anime degli uomini divorati da una tigre sono costrette ad aiutarla a predare altre vittime umane, tradendo la propria specie.
Questo primo congresso dei sindacati cinesi fu sicuramente importante. Per la prima volta venivano a cadere le barriere fra la classe operaia. La divisione politica del paese, imposta dall’intervento delle potenze straniere e dal dominio dei signori della guerra, determinava anche contrapposizioni regionali nel proletariato. Nel congresso per la prima volta tutte le organizzazioni operaie del paese entravano in contatto tra loro, con parole d’ordine comuni, con comuni principi di organizzazione, inneggiando alla solidarietà, che diffusero su larga scala. Inoltre fu rivendicato l’obbiettivo di una federazione pan-cinese dei sindacati, che troverà la sua attuazione tre anni dopo. Il congresso testimoniava la forza crescente della classe operaia cinese che ben presto conquisterà sul campo della guerra di classe il suo posto nell’esercito proletario internazionale.
Con l’ascesa al trono di Chandra Gupta I nel 319 d.C., in forza della propria ricchezza economica, ha inizio una dinastia che nel momento di massima estensione dominava gran parte dell’India settentrionale, la parte orientale dell’attuale Pakistan e il Bangladesh. Attraverso un’abile alleanza matrimoniale alcuni imperatori Gupta per alcuni decenni riuscirono ad esercitare un patronato sul potente regno dei Vakataka riuscendo a controllare così una vasta area dell’India centrale.
Ma solo durante il lungo regno del figlio, Samudra Gupta (335-380 circa) il potere della dinastia assunse dimensioni imperiali. Dopo numerose e vittoriose campagne militari tutta la vallata gangetica, ad eccezione del Punjab, era sotto il controllo diretto del monarca Gupta, il quale fissò la capitale nell’antica città imperiale dei Maurya: Pataliputra. Diversi Stati vassalli, quali il Rajastan, il Punjab, il Nepal, il Bengala e l’Assam, pagavano un regolare tributo.
Se i traffici tra l’India e l’area mediterranea registrarono un significativo declino, l’accesso ai porti occidentali ed orientali dell’India aumentò i commerci interni fra le regioni settentrionali e quelle centrali.
La dinastia Gupta stabilì un efficace sistema amministrativo basato su un intaccabile potere centrale, con funzionari e ministri strettamente collegati al re, permettendo tuttavia una parziale autonomia locale nei periodi di pace, quando la raccolta delle tasse confluiva regolarmente verso la capitale. Alcune province erano amministrate da principi di sangue reale (marajaputrah), altre da governatori direttamente incaricati dal monarca (uparikha). Le province erano suddivise a loro volta in prefetture (vishaya) rette da prefetti (vishayapathi).
La società Gupta non appare sostanzialmente differente da quella dell’epoca pre-Maurya. Nelle città prosperano gilde d’artigiani e corporazioni di mercanti e banchieri.
In un periodo in cui gli abitanti dell’impero romano gemevano sotto uno spietato regime fiscale e legami di natura servile avevano iniziato a caratterizzare la vita delle campagne, Fa Hsien, pellegrino buddhista cinese che fece tra il 399 e il 414 un lungo viaggio attraverso l’India, notava come le imposte non esistessero nelle città ed erano minime nelle campagne e come non vi fossero restrizioni al movimento dei contadini. «La regione a sud è conosciuta come il regno di mezzo. Il popolo è ricco e contento, libero da qualsiasi tassa o altra restrizione ufficiale. I sovrani governano senza ricorrere alla pena capitale, i trasgressori sono puniti con una pena proporzionata alla natura dei loro crimini».
L’egemonia Gupta non durò a lungo: l’impero, già in difficoltà dopo il 467 – data di inizio di una guerra di successione – cominciò a dissolversi nel 497 dopo la morte di Budha Gupta, l’ultimo della dinastia.
Il periodo compreso tra l’ascesa, lo splendore e la scomparsa dell’impero Gupta è quindi coevo all’ultimo periodo dell’impero romano, da Costantino il Grande alla caduta dell’impero d’occidente. Butha Gupta, dopo la quale vi fu il rapido disintegrarsi dell’impero sotto i colpi degli invasori, muore un anno dopo la conversione dei Franchi al cristianesimo (496 d.C.), evento considerato uno dei momenti finali della prima delle due grandi ondate di barbari che attraversarono l’Europa.
Dinamiche migratorie che si manifestarono in altre parte del mondo. Intorno al 200 d.C. sorse una potente confederazione tribale nella Mongolia esterna, gli Juan-Juan, che estese il proprio potere su tutta la regione della Manciuria fino al grande lago Balkash, nel Kazakistan sud-orientale, costringendo diversi altri popoli a spostarsi. Fu così che i Toba, nomadi turcofoni in fuga dagli Juan-Juan, irruppero nel Nord della Cina e vi fondarono la dinastia Wei. Furono ancora gli Juan-Juan a spingere gli Unni verso l’Europa, e di conseguenza i popoli germanici contro l’impero romano.
I sasanidi, succeduti ai parti (impero arsacide), furono l’ultima dinastia autoctona a governare la Persia prima della conquista islamica. Disponevano allora di un forte esercito. Contro l’impero sasanide, che sbarrava l’accesso all’altopiano iranico e al subcontinente indiano, si erano infranti diversi tentativi d’invasione di popoli dell’Asia centrale.
L’inadeguatezza dei Gupta a far fronte ai popoli nomadi provenienti dall’Asia centrale divenne evidente nel momento in cui la diga protettiva sasanide incominciava a incrinarsi, aprendo la via alle prime scorrerie degli Eftaliti nella pianura gangetica. Verso la metà del V secolo, con le rivolte interne e le incursioni esterne che caratterizzarono il regno di Skanda Gupta, il peso delle monete aumentò da 7,8 a 9,3 grammi ma il contenuto di metallo prezioso diminuì: una crisi economica e le prime disfatte militari segnavano il declino di uno dei maggiori imperi dell’antica India.
Gli Eftaliti, chiamati anche Unni Bianchi, una tribù nomade che viveva tra la Cina e l’Asia centrale, si erano impadroniti dei resti dell’impero Kusana. Premuti dalle scorrerie degli Juan-juan, sconfissero l’esercito persiano nel 484. Dopo essersi impadroniti delle province orientali dell’impero sassanide, sferrarono una serie di attacchi in India contro i Gupta. Nel 510 l’esercito Gupta subì una decisiva e finale disfatta nella battaglia di Eran, nell’attuale Madhya Pradesh.
15. L’induismo
Una delle caratteristiche della sovrastruttura della società Gupta fu il graduale emergere dell’induismo a religione dominante e il declino del buddismo. Questo fu dovuto principalmente al decadere delle classi intermedie, prevalentemente urbane, legate ai commerci di lunga distanza e alle attività economiche connesse.
Come già il re dei Maurya Ashoka, anche i Gupta non facevano mancare un equilibrato sostegno alle diverse religioni indiane, ma presto si identificarono con le religioni indù, e in particolare con il vishnuismo, una delle tre principali correnti devozionali dell’induismo, insieme allo shivaismo e lo shaktismo. Oggi circa 600 milioni di induisti sono visnuiti.
Il declino dei centri urbani nel VI secolo determinò la rovina dei monasteri buddhisti, cui si donavano le monete d’oro delle classi emergenti delle città. Iniziarono invece ai brahmani e ai templi indù le donazioni di terre e di rendite di interi villaggi.
I Gupta si volsero verso l’induismo, potente arma ideologica che, al contrario delle altre maggiori religioni indiane, presentava il monarca come figura divina. Chandra Gupta I fu così solennemente incoronato imperatore e il suo successore assunse il titolo di Chakravartin – “le ruote del cui carro girano senza incontrare ostacoli” – non solo uomo ma dio in terra.
La “natura divina” del monarca, nella tradizione brahmanica, doveva comunque sottostare alle leggi fissate dagli stessi brahamani e da loro descritte nei Dharma Shastra che codificavano i comportamenti degli individui e dei gruppi sociali: una sanzione divina a una società divisa in classi, evidentemente a scopo di conservazione.
16. Il medioevo in Europa e in India
Con il tramonto della dinastia Gupta, all’inizio del VI secolo, inizia una fase nella storia dell’India destinata a durare circa sette secoli, che si concluderà con una egemonia turco-afgana.
Sarà un periodo che presenta delle peculiarità politiche e culturali simili a quelle dell’alto Medioevo in Europa. Sia in Europa sia in gran parte del subcontinente indiano l’economia e la società vedono la drastica contrazione del mondo urbano, la diminuzione dei commerci di lunga distanza (tranne che nell’India meridionale dove rimangono consistenti) e il sopravvivere di un’economia rurale.
La differenza è che mentre i feudi in Europa si rendono spesso indipendenti dal controllo del potere politico centrale, in India i brahamani e chi gode della concessione della terra dispone sì del controllo politico locale sul mondo contadino, ma deve quasi sempre rendere conto al monarca.
Marx ha sottolineato come il sistema feudale del medioevo europeo, nonostante le molte similitudini, non possa essere equiparato a quello indiano. Questo infatti non presenta le caratteristiche del feudalesimo: mancanza di centralizzazione; rapporti di sottomissione personale; separazione e specializzazione dell’artigianato che si trasferisce dalle aree rurali alle città; incremento dei commerci a breve distanza che collegano la città alla campagna, con conseguente penetrazione del flusso di denaro.
Kovalevskij, storico dell’economia e sociologo russo, sosteneva che gli elementi principali del feudalesimo romano-germanico si riscontravano anche in India, che quindi doveva esser considerata anch’essa feudale. Marx, confutando questa tesi, sottolinea come la servitù della gleba, caratteristica del feudalesimo, seppur sporadicamente presente in alcune aree dell’India, non vi aveva una rilevanza effettiva. Inoltre il ruolo dei signori feudali di protezione dei contadini servi e liberi aveva rilevanza solo nei Wakuf, possedimenti gestiti dai Brahmani e destinati a scopi religiosi.
Marx ed Engels considerano la combinazione particolare di feudalesimo agrario e di città medioevale come un fenomeno specifico europeo. Engels ribadisce che «l’assenza della proprietà fondiaria è davvero la chiave per tutto l’oriente: qui risiede la sua storia politica e religiosa. Ma per quale motivo gli orientali non giungono ad avere una proprietà fondaria nemmeno feudale? Io credo che la ragione vada cercata soprattutto nel clima, insieme con le condizioni del suolo e specialmente con le grandi zone desertiche che dal Sahara, attraverso l’Arabia, la Persia, l’India e la Tartaria, si estendono fino ai più elevati altipiani dell’Asia».
Marx riprende e approfondisce le considerazioni del compagno in un articolo per il New York Daily Tribune, dove descrive non solo l’irrigazione ma anche il commercio su lunga distanza come «il portato dell’unità superiore di governi, quello dispotico, che sovrasta le comunità minori», descrivendo inoltre come i contadini indiani non fossero proprietari ma occupanti ereditari. Marx, infine, non esita a scagliarsi contro quella tendenza, largamente diffusa nell’Inghilterra dell’epoca, di classificare tutte le società come “feudali” fino all’arrivo di una successiva salvifica rivoluzione borghese.
17. La variante asiatica della forma secondaria
L’irrigazione artificiale è in queste terre una delle condizioni dell’agricoltura. La produzione è consumata dalla comunità locale, le eccedenze vanno all’unità suprema, l’unica che può assicurare la vitale centralizzazione e di conseguenza le condizioni generali di produzione e di esistenza. Il villaggio deve la sua stabilità dall’unione tra agricoltura e artigianato domestico, che gli consentono l’autosufficienza di un sistema chiuso. Nel Primo Libro del Capitale Marx scrive: «La legge che regola la divisione del lavoro della comunità agisce qui con la inviolabile autorità di una legge fisica, poiché ogni artigiano esegue tutte le operazioni che sono di sua competenza secondo il metodo tradizionale, ma con indipendenza e senza riconoscere autorità alcuna nella sua bottega. La semplicità dell’organismo produttivo di tali comunità sufficienti a se stesse, che si riproducono costantemente nella stessa forma, e quando accidentalmente vengano distrutte si ricostituiscono nella stessa forma e con lo stesso nome, ci spiegano la immutabilità delle società asiatiche, immutabilità che contrasta in modo così strano con la dissoluzione e ricostituzione incessante degli Stati asiatici, e coi violenti cambiamenti delle loro dinastie. La struttura degli elementi economici della società rimane intatta dalle bufere che si scatenano nella regione politica».
Nella forma asiatica si opera quindi, sulla base della distribuzione dei mezzi di produzione nell’agricoltura, una scissione: lo Stato adempie alle opere pubbliche di base, mentre la comunità del villaggio svolge le attività direttamente produttive. Marx ribadisce: «Supponiamo che il produttore diretto possieda qui i propri mezzi immediati di produzione. Egli coltiva il suo campo ed esercita in modo autonomo l’industria rurale domestica connessa. Questa autonomia persiste anche quando i piccoli contadini – come avviene ad esempio in India – costituiscono una comunità di produzione più o meno primitiva, poiché qui si tratta soltanto di indipendenza di fronte al proprietario fondiario nominale. Ora, questi produttori diretti non hanno rapporti con proprietari particolari, ma direttamente con lo Stato, perché in Asia il proprietario è nello stesso tempo il sovrano. La sovranità è qui la concentrazione su scala nazionale della proprietà fondiaria».
La costruzione e il mantenimento delle opere pubbliche, irrigazioni, rete di comunicazione, ecc., richiedono la proprietà fondiaria collettiva, necessaria nella variante asiatica. Non può evolvere autonomamente verso attività artigianali e manifatture, ma sì ripercuote nondimeno sulle forze produttive del contadino e dell’artigiano.
L’autorità di cui il despota gode può essere trasmessa al patriarca delle comunità.
Le città dunque rimangono appendici della campagna, da cui assorbono le eccedenze, e svolgono tutte le funzioni particolari dello Stato. Questa suddivisione del lavoro comporta una specializzazione e una maggiore produttività, e, a un certo grado di sviluppo, le caste e le corporazioni di mestiere. Questa da ereditarie per tradizione e specializzazione lo divengono per legge sociale.
Intatti, quelle tribù che dall’India emigrarono a occidente, trovandovi condizioni climatiche diverse, che non comportarono per l’agricoltura irrigazioni artificiali, instaureranno diversi rapporti di proprietà fondiaria.
Va ribadito quindi che nella variante asiatica la proprietà fondiaria privata è ininfluente; riveste grande importanza in quella germanica; in quella antico classica – specialmente a Roma – assumerà un carattere politico: è cittadino romano solo chi è proprietario di una parcella di terra, della quale può liberamente disporre; perderne la proprietà significa perdere i diritti politico-sociali e, nella peggiore delle situazioni, diventare schiavo per debiti.
18. Declino delle città e dei mercati
Nella sovrastruttura il medioevo sia europeo sia indiano sono caratterizzati dal tramonto della cultura classica, quella greco-latina e quella sanscrita, e dal sorgere delle regionali lingue volgari.
Con la fine dell’impero Gupta si accentuò il declino dei centri urbani e la decadenza di molte antiche città commerciali nell’India del nord, confermato da scoperte archeologiche, con la crisi dei traffici iniziata nel III secolo e accentuata nel VI.
Da quando i bizantini carpirono il segreto per la produzione della seta, ai cinesi e agli indiani era venuto a mancare il fiorente mercato del mediterraneo orientale.
Inoltre il periodo di confusione politica, legato all’ascesa e al declino del potere degli Eftaliti nella Battriana (Asia centrale) e nell’India del nord, sarà un fattore supplementare nella contrazione dei commerci via terra. L’archeologia torna a darne le prove: a parte un certo numero di monete bizantine ritrovate nel sud dell’India, dove i commerci rimasero intensi, monete e manufatti stranieri sono praticamente assenti per tutto il periodo che va dal 400 al 1000. La circolazione monetaria, già in calo durante il periodo Gupta, si riduce ulteriormente nell’alto medioevo e la coniazione di monete d’oro cessa completamente dopo il periodo eftalita.
Parallelamente si estinguono le corporazioni di mercanti, banchieri e le gilde di artigiani, che erano state una delle peculiarità delle ere Maurya e successive. Il termine “nigama” dal significato originale di “mercato” assume quello di “villaggio”.
Al contrarsi e all’immiserirsi del mondo urbano, e alla sostanziale scomparsa dei commerci, si contrappone l’affermarsi di un’economia agraria. Su questa dominano le locali classi rurali, che provano a sfuggire in una certa misura al controllo politico ed economico del monarca.
Dal VI secolo sono assegnate terre a funzionari, a capi militari e a brahamani. Queste donazioni sono da assimilare a benefici feudali: al godimento dei frutti della terra si accompagnano talvolta una certa immunità dai poteri dello Stato, il diritto di amministrare la giustizia, di riscuotere le imposte e di amministrarne i proventi. Tali benefici potevano però essere revocati a piacimento dal monarca, anche per le esigenze collettive e locali della produzione agricola.
19. L’alto medioevo indiano
L’incursione eftalita inaugurò in India un nuovo ciclo di frammentazione politica, destinato a durare fino all’inizio del XII secolo. Le invasioni degli Eftaliti e di altre popolazioni provenienti dall’Asia centrale portarono all’emergere di nuove caste. Le peculiarità di ogni situazione locale provocò una proliferazione di nuovi gruppi castali, tratti culturali regionali e la graduale nascita di lingue volgari.
Nel 510 l’impero eftalita in India si estese fino a comprendere il Punjab, il Eajastan, il Kashmir e probabilmente la parte occidentale dell’odierno Madya Pradesh. Secondo il monaco buddhista Hsuan Tsang, in questo periodo il subcontinente era diviso in settanta regni. In realtà cinque o sei centri di potere maggiori, contornati da una serie di monarchie minori, erano permanentemente in guerra.
I templi indù diventarono sempre più vasti e imponenti, stracolmi di sacre icone e di fedeli. Fino all’epoca Gupta i templi brahmanici erano stati di ridotte dimensioni, ricordavano i templi greco romani per la forma perchè costruiti per ospitare non i fedeli bensì le immagini degli dei o del dio.
L’impero eftalita fu ancora più breve di quello indo greco: già nel 528 Mihirakula, successore di Toramana, venne sconfitto da diverse forze congiunte tra cui un discendente di Budha Gupta.
Alla fine del VIII secolo emersero in India del Nord nuovi Stati di diversa estensione. Vi regnavano famiglie di un nuovo gruppo sociale apparso in India nel VI secolo: i Gurjara. Si crede siano riconducibili o ad aristocrazie di gruppi tribali, allora di recente sanscritizzazione, o a invasori dalle regioni transhimalaiane. I brahmani inventarono per queste nuove case regnanti mitiche discendenze dal Sole o dalla Luna. I sacerdoti gli attribuirono una casta, dei rajput, col rango di kshatriya, dell’ordine dei guerrieri. Il potere politico nell’India del nord passò quindi dalle vecchie famiglie aristocratiche, discendenti da funzionari o vassalli dell’impero Gupta, a guerrieri professionisti.
20. Le prime invasioni musulmane
Con l’alba del secondo millennio i rajput dovettero confrontarsi con un nuovo avversario: il sultano turco Mahmud, signore di Ghazni, in Afganistan, musulmano.
All’epoca gli indiani erano già stati in contatto con i musulmani, arabi e turchi. I primi ad arrivare in India furono con ogni probabilità mercanti che trafficavano fra l’Arabia e la costa occidentale indiana.
Nel 711, 80 anni dopo la morte del Profeta e contemporaneamente all’invasione della Spagna visigota da parte di Tariq, altro condottiero musulmano, l’arabo Muhammad bin Qasim, penetrò nell’attuale Pakistan, completandone la conquista nel 712.
Successivamente i governatori arabi del Sind, conquistata della valle dell’Indo, tentarono con una serie di scorrerie d’invadere il resto dell’India. I principi rajput, tuttavia, si dimostrarono abbastanza forti da sbarrare il passo agli invasori.
Gli sconvolgimenti che avevano scosso il mondo arabo nel VIII e nel IX secolo avevano comportato l’indipendenza degli arabi nella valle dell’Indo (871) e la suddivisione dei loro possedimenti in due principati. Nel frattempo viaggiatori e mercanti arabi, insieme ai rappresentanti di un’altra popolazione che si andava islamizzando in quel periodo, i turchi, avevano esteso il loro raggio di attività in tutto il subcontinente.
I domini islamici a cavallo fra il primo e il secondo millennio erano suddivisi in vari potentati, dei quali quello più orientale era costituito dalla dinastia dei Samanidi, che controllavano una vasta area compresa tra l’Iran orientale e la Giordania, con capitale Buchara, nell’Uzbekistan. Come le altre dinastie islamiche, questi si erano avvalsi di mercenari turchi, i cui capi, come ricompensa, potevano tenersi i territori conquistati. Tra questi vi era l’avo di Mahmud, Alptigin, un ex schiavo che si impadronì di una parte della valle di Kabul, assumendo il titolo di amir – emiro (capo, signore) – facendo di Ghazni la propria capitale.
Da qui il suo successore Sabuktigin lanciò una serie di incursioni contro il Punjab, finendo per impadronirsi di Peshawar, città pakistana della provincia di Khyber Pakhtunkhwa, e delle zone circostanti sconfiggendo nel 991 una confederazione di principi indiani che comprendeva alcuni dei maggiori sovrani rajput dell’epoca. Il successore di Sabuktigin, Mahmud, assunse al posto del titolo di Amir quello più prestigioso di sultano, ovvero monarca, e incorporò nei propri domini gran parte dei territori fra l’Afganistan e il Caspio nonché la maggior parte dell’altopiano iranico.
Tra il 1001 e il 1027 il sultano di Ghazni scatenò numerose scorrerie contro l’India del Nord, durante le quali mise a ferro e fuoco larga parte delle valli dell’Indo e del Gange, annientando diversi eserciti indiani. Ma a partire dal 1019 i principi rajput praticamente non opponevano più una alcuna resistenza. Il principale obiettivo delle scorrerie di Mahmud erano i grandi templi indù, che contenevano immense ricchezze, e spesso imponeva un rapporto di vassallaggio ai principi indiani.
Alla morte del sultano nel 1030 il suo impero si disgregò rapidamente. Per altri centocinquanta anni i principi rajput ebbero modo di dedicarsi alla loro attività principale: guerreggiare gli uni contro gli altri.
21. La conquista turca e crescita economica e commerciale
Dal XI secolo in molte zone del pianeta, India compresa, ha inizio un ciclo di crescita economica.
In India come in Cina il motore di questa crescita, economica e demografica, sembra esser stata la diffusione della coltivazione del riso, in particolar modo in alcune zone come il Gujarat, il Coromandel, la costa del sud est e il Bengala.
Riprese inoltre una attività commerciale fra Europa, India e Cina. Questi flussi avevano i loro centri in una serie di città: in India Delhi, Cambay, Calicut, Quillon e Kanchipuram. Questi traffici utilizzavano un equivalente monetario basato sull’argento in Europa e in India nel Nord, sull’oro in Medio Oriente e nel meridione del subcontinente, sul rame, e in un secondo momento sulla carta moneta, in Cina. Si commerciavano non solo metalli preziosi e oggetti di lusso, ma anche cavalli da guerra, esportati dal Medio Oriente, tessuti di lana prodotti in Europa, tessuti di cotone prodotti in India, rame, seta grezza, tessuti di seta e porcellane prodotte in Cina e, infine, le granaglie che venivano prodotte nel sud est asiatico.
Per l’India l’apice di questo fiorente periodo economico coincise con l’ascesa di un potente Stato imperiale, il sultanato di Delhi.
Imporre uno stabile potere islamico nella vallata gangetica toccò al cadetto di una famiglia di principi turchi, di religione sunnita, Muhammad di Ghur. Attraversato il passo di Gomal e sceso lungo il fiume Gumal, all’estremità sud-occidentale della provincia Khyber Pakhtunkhwa, entrò nella valle dell’Indo e nel 1175 prese la città di Multan, oggi nel Pakistan centrale, presso il fiume Chenab, controllata da una dinastia araba della setta ismailita. Conquista dopo conquista attraversò il deserto meridionale del Rajastan, nell’India settentrionale, nel tentativo di impadonirsi del Gujarat, ma fu sconfitto dal principe rajput Bhimdev II di Anhilwara. Sulla via del ritorno perse la battaglia di Tarain (oggi nello stato dell’Haryana) contro il potente principe rajput di Delhi. A causa dell’inefficenza della cavalleria l’esercito rajput non fu però in grado di inseguire e annientare il turco. L’anno successivo, il 1192, Muhammad ricompariva con un nuovo e più potente esercito negli stessi campi di Tarain, in una delle più importanti battaglie della storia dell’India: l’esercito rajput fu annientato e le immense distese della pianura gangetica si aprirono alla mercè del vincitore.
La superiorità degli eserciti turchi era dovuta prevalentemente all’uso massiccio della cavalleria, armata con l’arco composito. In origine anche i rajput, che almeno in parte provenivano anch’essi dall’asia centrale, avevano avuto una simile organizzazione militare, ma in gran parte dell’India era difficile allevare cavalli di buona razza: con questo si spiega perché gli eserciti rajput col tempo si fossero trasformati in forze prevalentemente di fanteria.
Inoltre la superiorità dei turchi consisteva nella loro eccellenza negli assedi avendo i popoli islamici sviluppato macchine da guerra le più efficienti.
22. La diffusione dell’Islam
Contrariamente a quanto si dice la religione islamica, a differenza della cristiana, non fu quasi mai imposta con la forza, la conversione non coincideva con la conquista, spesso la precedette. Per l’India è da notare che: l’islam vi arrivò prima della conquista militare; la creazione di Stati con dinastie islamiche rappresentò un incentivo notevole nella sua diffusione; comunque la conquista non portò mai alla completa conversione degli abitanti del subcontinente.
La più antica comunità musulmana in India è quella del Kerala, la regione più meridionale, area che non fu mai conquistata dai musulmani: le conversioni ebbero origine nei commerci, intensi anche in epoca medioevale, che legavano quella parte dell’India all’Arabia.
l’Islam inziò a diffondersi nella valle del Gange e nel Gujarat nei decenni centrali dell’XI secolo, regioni allora non ancora sottoposte a monarchi islamici.
Il principale motivo per la conversione di massa all’islam sarà poi la concessione di terre prevista dal piano di colonizzazione interna dei nuovi dominatori musulmani, interessati ad ampliare gli insediamenti agricoli col dissodamento di terre vergini o la rimessa a coltura di terre abbandonate nei secoli precedenti.
L’espansione delle frontiere interne era un fenomeno in corso da epoche precedenti, ma allora le popolazioni indigene erano cacciate o declassate a “fuori casta”; ora invece i monarchi musulmani incoraggiavano le popolazioni autoctone sedentarizzate a convertirsi all’islam.
Come tutti noi sappiamo, alla Prima Internazionale partecipavano indistintamente organizzazioni politiche ed economiche: partiti e sindacati.
Già al suo primo congresso internazionale, a Ginevra nel 1866, riconoscendo il valore dei sindacati per la difesa degli interessi della classe operaia contro «i continui abusi del capitale», era espressa la necessità dell’«unione sotto una bandiera internazionale delle organizzazioni dei diversi paesi». Ossia vi erano due passaggi: innanzi tutto la creazione di federazioni nazionali, collegate poi a livello internazionale.
Lo stesso congresso indicava le finalità del movimento (ovviamente per i paesi capitalistici): «Oltre la lotta contro gli abusi del capitale queste organizzazioni dovranno sostenere con la loro azione ogni movimento rivoluzionario, sociale e politico, che si ponga come scopo ideale la liberazione completa della classe operaia. Esse costituiranno dei centri combattivi capaci di difendere gli interessi dei lavoratori meno favoriti, in special modo degli operai rurali. Tale atteggiamento farà aderire alle sezioni internazionali del proletariato coloro che fin’ora sono rimasti indifferenti agli appelli dei militanti, e inspirerà alle classi lavoratrici la convinzione che l’Internazionale non cerca la soddisfazione di interessi ristretti, ma combatte per la liberazione di milioni di oppressi».
Però solo dopo 25 anni si ebbero i primi tentativi di attuare praticamente quanto auspicato nel 1866. Al secondo congresso della Seconda Internazionale (Bruxelles 1891) venne raccomandata la creazione di segretariati del lavoro in ogni nazione in modo che nei conflitti tra capitale e lavoro gli operai degli altri paesi fossero in grado di adottare utili misure di solidarietà.
Il quarto congresso, Londra 1896, compì un nuovo passo in avanti approvando la deliberazione: «È urgente e necessario creare un C.C. dei sindacati in ogni paese in modo da rendere possibile una attività sindacale uniforme. Questi comitati dovranno informarsi della condizione del mercato del lavoro, opereranno regolarmente uno scambio di informazioni statistiche e prepareranno relazioni su tutti i fatti importanti del movimento operaio nei rispettivi paesi. Provvederanno a che i sindacati di ogni paese ricevano e si sforzino di attrarre nelle loro file gli operai stranieri, in modo da impedire una diminuzione di salari conseguente all’impiego di manodopera straniera. In caso di sciopero, serrata o boicottaggio, dovranno prestare ai comitati locali aiuto materiale secondo i mezzi a loro disposizione».
Il progetto si realizzò nel 1902 quando, a Stoccarda, nasceva L’Ufficio centrale internazionale delle centrali sindacali nazionali e l’anno successivo la Segreteria sindacale internazionale delle confederazioni nazionali, con sede a Berlino.
Nel 1913, con la prima Federazione Sindacale Internazionale, si portava a compimento anche sul piano internazionale la separazione formale tra partiti e sindacati.
Già qualche anno prima, nel 1908, i sindacati di ispirazione cristiana, a Zurigo, avevano dato vita ad un loro Segretariato internazionale.
Il movimento sindacale stava facendo grandi progressi. Le due organizzazioni internazionali (la politica e l’economica) erano ormai in grado di esercitare una efficace influenza sui movimenti operai di tutti i paesi. Allo scoppio della guerra nel mondo più di 9 milioni di proletari erano inquadrati nelle organizzazioni sindacali.
La prova della guerra mondiale
Però il sindacalismo nei vari paesi si andava avvicinando sempre più alla politica borghese e le organizzazioni nate per la lotta di classe si trasformavano in gruppi di pressione, intermediari e regolatori dei conflitti sociali tra proletariato e padronato. Questo fece sì che all’acuirsi dei contrasti tra i capitalismi nazionali per la conquista dei mercati mondiali, allo scoppio della guerra fra gli Stati i sindacati vennero coinvolti, come i partiti, nell’abbraccio interclassista del patriottismo.
I sindacati operai non solo non organizzarono nessuna seria opposizione alla guerra, anzi, la maggior parte dei loro dirigenti si pose a completa disposizione dei governi borghesi. Con il loro totale consenso vennero cancellate le leggi che in qualche modo tutelavano la classe operaia e le pubblicazioni del movimento sindacale non si stancarono di ripetere la menzogna della “difesa della Patria” tentando di inculcare nelle masse operaie l’ideologia borghese.
In Germania, ad esempio, fin dal 2 agosto 1914 tutti gli scioperi furono sospesi. Subito i sindacati strinsero con le organizzazioni padronali un accordo che prevedeva la rinuncia allo sciopero e alla serrata. Ovvio che gli industriali non avevano alcun interesse a fermare la produzione: di fatto non di un accordo bilaterale si trattava ma di una unilaterale rinuncia ad ogni azione di classe allo scopo di favorire lo sforzo bellico. Nel dicembre 1916 la collaborazione sindacale venne istituzionalizzata con la Legge sul servizio ausiliario patriottico (Gesetz über den vaterländischen Hilfsdienst) che prevedeva la militarizzazione del lavoro permettendo alle autorità di mobilitare forzosamente gli operai (dai 17 ai 60 anni) per qualsiasi lavoro. Nel novembre 1918 tra sindacati ed industriali fu siglato un patto di collaborazione denominato Comunità centrale di lavoro (Zentralarbeitsgemeinschaft).
In Inghilterra il 24 agosto 1914 il Trade Union Congress adottò una risoluzione per la cessazione immediata degli scioperi e la concertazione tra sindacati e imprenditori per tutta la durata della guerra. Nel marzo 1915 i sindacati firmarono con il governo un accordo (Shell and Fuces Agreement) che prevedeva la sospensione del diritto di sciopero nelle industrie di guerra. L’accordo il 2 luglio fu trasformato in legge (Munitions of war act).
In Francia la CGT, benché i sindacalisti rivoluzionari fossero in maggioranza, aderì senza esitazioni alla guerra.
Lo stesso fecero in tutti gli altri paesi i dirigenti sindacali subordinando gli interessi dei proletari a quello superiore della nazione. La guerra imperialista richiedeva infatti una stretta collaborazione tra potere statale e cittadini, tra borghesia e proletariato, esercito e popolazione civile. Poteva funzionare solo con un alto grado di coesione sociale, di sforzo produttivo industriale e mistica nazionalista. Partiti e sindacati si assunsero il compito di realizzare questi obiettivi.
La facilità con la quale, scoppiata la guerra, i bonzi internazionali Legien, Jouhaux, Gompers, Henderson etc. misero in frigo la lotta di classe per schierarsi a difesa dei rispettivi interessi nazionali, si spiega con il fatto che questa adesione già da molto tempo era stata preparata, quando ancora le organizzazioni sindacali acconsentivano a dirigere la lotta di classe.
Dobbiamo però mettere in evidenza che malgrado l’aperto tradimento dei dirigenti, questi non riuscirono a immobilizzare la classe operaia che segnò il 1917 di grandi scioperi, in Germania, Gran Bretagna, Francia, Italia.
Vertiginoso afflusso ai sindacati
Terminata la guerra, il proletariato, tanto nelle nazioni vincitrici quanto in quelle vinte, si trovò a subire le conseguenze del conflitto. Le conquiste che aveva con dure lotte acquisito nel corso dello “sviluppo pacifico” del capitalismo erano state di colpo annullate e gli restavano solo miseria, disoccupazione o lavoro sottopagato.
Ne scaturì la ripresa della lotta di classe e l’istintivo bisogno di organizzarsi nelle associazioni sindacali. Nel mondo gli iscritti ai sindacati in brevissimo tempo aumentarono a 40 milioni.
Scrive B. Groppo in “Sindacati e Comunismo”:
«In Francia la CGT, che alla vigilia della guerra aveva circa 600.000 iscritti, nel gennaio 1920 ne contava 1.580.967 secondo le cifre ufficiali fornite dal governo e 2.400.000 secondo il suo Comitato confederale nazionale [...] Nel quadro di questa crescita generale, quella di certe federazioni fu particolarmente impressionante: la Federazione dei ferrovieri, ad esempio, passò nel giro di alcuni mesi da 30.000 a 320.000 iscritti; quella della metallurgia, da appena 7.501 iscritti nel 1912 a 204.280 alla fine del 1918.
«Misurata in valori assoluti, la crescita più forte si verificò in Germania e in Gran Bretagna, dove già prima della guerra il movimento sindacale disponeva di una larga base. In Germania gli iscritti ai sindacati salirono da 3 milioni nel 1913 a 6 milioni e mezzo nel 1919 e a quasi 9 milioni nel 1920. in Gran Bretagna, le trade unions raddoppiarono i loro effettivi, passando da circa 4 milioni alla vigilia della guerra ad oltre 8 milioni nel 1920.
«In Italia la CGL, che nel 1918 aveva appena 249.039 iscritti (120.000 di meno rispetto al 1914), balzò a 1.150.062 nel 1919 e a 2.200.100 nel 1920, mentre l’USI [...] saliva da 100.000 iscritti nel 1913 a 500.000 nel 1919, e ciò malgrado si fosse sbarazzata della sua ala destra, che aveva appoggiato l’entrata in guerra dell’Italia. Impressionante fu anche lo sviluppo dei sindacati cattolici, che da poco più di 100.000 iscritti prima della guerra salirono a un milione e mezzo nel 1921, raggruppati nella Confederazione Italiana del Lavoro».
I sindacati si trovarono a inquadrare le grandi masse operaie che, muovendosi nell’ondata rivoluzionaria che investiva il mondo intero, costringevano le stesse burocrazie opportuniste a mantenersi sul terreno di classe, marcando netta la demarcazione tra sindacalismo giallo e rosso. La parola d’ordine dello sciopero generale aveva conquistato le masse operaie e sempre più spesso i sindacati venivano guadagnate ad una dirigenza rivoluzionaria.
Ritorno alla parvenza di internazionalismo
Ma i capi di quest’esercito di 40 milioni di proletari continuavano ad essere quelli che durante la guerra, rinnegando l’internazionalismo, avevano incitato i lavoratori a combattere per la difesa della patria borghese. Gli stessi, a guerra conclusa, come se niente fosse accaduto, ripresero i contatti internazionali: nell’estate del 1919 ad Amsterdam si ricostituiva la Federazione Sindacale Internazionale, la quale svolse un ruolo centrale nella creazione e nel funzionamento dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, secondo quanto stabilito dagli imperialisti nel trattato di pace di Versailles.
Ma i dirigenti dei sindacati già durante la guerra avevano dato prova del loro “internazionalismo”, preparandosi a svolgere, sotto altre forme, la loro opera di collaborazione di classe.
Scriveva il super bonzo Leon Jouhaux: «Dalla parte delle nazioni alleate, le centrali sindacali furono portate a riunirsi per studiare i loro problemi comuni. È così che ebbero luogo due conferenze operaie interalleate, la prima a Londra nel 1915 e l’altra a Leeds nel luglio 1916. Questa seconda conferenza aveva adottato delle risoluzioni relative alle clausole sul lavoro da inserire nei trattati di pace. Nel preambolo veniva detto: “La Conferenza dichiara che il trattato di pace che metterà fine alla guerra attuale e che assicurerà ai popoli la libertà e l’indipendenza politica ed economica deve assicurare alla classe operaia di tutti i paesi un minimum [sic] di garanzie di ordine morale e materiale relative al diritto al lavoro, al diritto sindacale, alle emigrazioni, alle assistenze sociali, alla durata, all’igiene ed alla sicurezza del lavoro”. Reclamava l’istituzione reciproca, nei diversi paesi, di sicurezza sociale nei riguardi di malattia, invalidità, vecchiaia e disoccupazione: la limitazione degli orari di lavoro, l’interdizione dal lavoro dei giovani al di sotto dei 14 anni, delle donne e dei giovani sotto i 18 anni nei lavori notturni, il riposo settimanale, inclusa la “settimana inglese”» (“L’Organisation Internationale du Travail”).
A guerra finita, però. Intanto i proletari continuassero a marcire nelle trincee e a massacrarsi a vicenda.
Ma anche i compari dell’altro fronte imperialista vollero dimostrare il loro impegno nella difesa dei diritti del proletariato, naturalmente anche loro a guerra finita. «Nella primavera del 1917 a Stoccolma, si tenne una conferenza dei delegati sindacali di Germania e Austria-Ungheria che inviò il seguente dispaccio alla Confederazione Generale del Lavoro, a Parigi: “La Conferenza saluta le decisioni di Leeds del luglio 1916 come una importante iniziativa per gli interessi dei lavoratori di tutti i paesi, e come un felice segnale di buona volontà inteso a rimuovere la divisione dei lavoratori provocata dalla guerra”».
Nello stesso anno, pure l’Unione Sindacale svizzera non mancò di organizzare una Conferenza sindacale internazionale a cui parteciparono i delegati dei paesi neutrali e dei belligeranti dell’Europa centrale. Anche questa si espresse solidale con la dichiarazione di Leeds.
Jouhaux poteva commentare: «Così, durante la guerra stessa e malgrado la frattura che aveva provocato tra il proletariato internazionale, la medesima idea si era imposta alle organizzazioni operaie di tutti quanti i paesi».
La “Dichiarazione sulla questione della tattica”, Punti 36 e 37, approvata al primo Congresso del Profintern, a Mosca nel luglio 1921, afferma: «Dopo il tentativo di creare l’Internazionale sindacale interalleata [Leeds], i dirigenti del movimento sindacale dei paesi dell’Intesa, subito dopo la guerra iniziarono la loro opera di “ripresa” dei rapporti internazionali, partecipando ai lavori di alcune commissioni per l’elaborazione di articoli complementari al trattato di Versailles, continuando così nel campo internazionale l’opera di tradimento già compiuta da loro entro i confini della patria borghese.
«La “vittoria della democrazia” nel macello mondiale, segnò l’annessione alla Lega delle Nazioni di un Ufficio del lavoro, il quale rappresenta la più completa espressione dell’idea dello sviluppo pacifico e della collaborazione tra le classi».
Il borghese Ufficio Internazionale del Lavoro
Scrive L. Jouhaux: «Il 29 novembre 1919, convocata dal governo degli Stati Uniti in virtù dell’art. 424 del Trattato di Versailles, si apriva a Washington la prima sessione della Conferenza Internazionale del Lavoro. Ed è da questa conferenza che occorre datare la realizzazione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro prevista da tutti i trattati di pace intervenuti tra le potenze alleate e le nazioni belligeranti dell’Europa centrale: Germania, Austria, Ungheria, Bulgaria e Turchia».
Alla conferenza presero parte 40 Stati le cui delegazioni erano composte da due rappresentanti dei governi, un rappresentante padronale e uno dei sindacati. Per essere una Conferenza “del Lavoro” non c’è male: un rappresentante del proletariato su 4. E che “rappresentanti”!.
Il Comitato esecutivo dell’I.C. nella lettera indirizzata ai sindacati di tutti i paesi nel maggio 1920 scriveva: «La famosa Società delle Nazioni, che in realtà è una lega di predoni imperialisti, convocò a Washington e poi a Parigi una conferenza farsesca sulla “protezione internazionale del lavoro”, in cui i due terzi dei voti spettavano alla borghesia ed un terzo agli agenti borghesi quali Legien, Jouhaux e c., che si definivano rappresentanti dei lavoratori».
La Conferenza di Washington stabilì che alla guida dell’Ufficio Internazionale del Lavoro sarebbe stato nominato un Consiglio composto da 24 membri: 12 rappresentanti dei governi borghesi, 6 rappresentanti industriali, e 6 sindacalisti venduti. L’Organizzazione internazionale del lavoro (Oit), con il suo segretariato permanente, l’Ufficio internazionale del lavoro (Bit) prese sede a Ginevra.
Prosegue la Dichiarazione del primo congresso del Profintern:
«Il sunnominato Ufficio, si propone non solo di studiare la questione della
lotta sociale, ma anche di ricondurla nelle vie dello sviluppo pacifico e
dell’amichevole soluzione dei conflitti tra lavoro e capitale.
«A Berna (5/9 febbraio 1919) e ad Amsterdam (luglio 1919) fu ufficialmente
restaurata l’Internazionale dei sindacati, che significava la continuazione
della politica nazionale su terreno internazionale. La nuova Internazionale
iniziò i suoi lavori con il dichiararsi favorevole all’Ufficio Internazionale
del Lavoro, unendo così con legame indissolubile i propri capi all’imperialismo
mondiale. Il suo programma è il seguente: pacifico sviluppo, collaborazione di
classe, lento e graduale socialismo, paura mortale e odio verso il movimento
rivoluzionario delle masse.
«Un simile tradimento internazionale perpetrato da coloro che per lunghi anni
avevano venduto all’ingrosso e al minuto gli operai dei propri paesi, era
pienamente logico e naturale, ma contrastava con i vitali interessi del
proletariato dissanguato».
Quindi nel congresso di Amsterdam (luglio-agosto 1919) fu ricostituita la Federazione Sindacale Internazionale, nota anche come Internazionale gialla di Amsterdam.
Nel giugno 1920 a L’Aia si ricostituì pure la Confederazione Internazionale dei Sindacati Cristiani: Cisc.
Però, «contemporaneamente all’edificazione di questo baluardo internazionale a difesa degli interessi della borghesia, vediamo sorgere e propagarsi rapidamente in tutti i paesi la protesta e la opposizione contro tale atteggiamento imperialista. Questa opposizione, rafforzata dal montare della lotta socialista, non possedeva da principio un proprio centro internazionale di organizzazione. Tale centro fu istituito nel luglio 1920, per iniziativa del Consiglio centrale panrusso dei sindacati industriali, sotto la forma del Consiglio Provvisorio Internazionale dei Sindacati» (Dichiarazione del Profintern, Punto 39).
La questione dei sindacati al primo congresso dell’IC
A contrastare l’attività della Internazionale sindacale “gialla” di Amsterdam, nascerà a Mosca la Internazionale Sindacale Rossa, il Profintern.
Vediamo di andare per ordine.
Il 24 gennaio 1919 la “Pravda” pubblicava il testo di un appello per la «convocazione di un congresso internazionale dei partiti proletari rivoluzionari», quello che sarà costitutivo della III Internazionale. L’appello, contemporaneamente trasmesso via radio, era indirizzato a 39 fra partiti, tendenze, organizzazioni politiche e sindacali, tra questi anche gli IWW inglesi, americani, australiani.
Al punto 10 il documento recitava: «È necessario il blocco con quegli elementi del movimento rivoluzionario che, pur non avendo mai fatto parte del movimento socialista, si pongono oggi nel complesso sul terreno della dittatura proletaria nella forma del potere sovietico. Tali sono in primo luogo gli elementi sindacalisti [rivoluzionari] del movimento operaio».
E, al punto 11: «È necessario attirare tutti i gruppi e organizzazioni proletari che, pur non essendosi uniti apertamente alla corrente rivoluzionaria di sinistra, tuttavia manifestino, nella loro evoluzione, una tendenza in questo senso».
Dobbiamo tener presente che all’epoca del primo congresso internazionale si prevedeva il dilagare a breve scadenza della rivoluzione in altri paesi, soprattutto europei, e in modo particolare in Germania.
Il 6 marzo Lenin nel suo discorso di chiusura del congresso affermerà: «La vittoria della rivoluzione proletaria in tutto il mondo è assicurata. Si approssima la fondazione della repubblica sovietica internazionale». Poche settimane dopo era Zinoviev che, nella rivista dell’Internazionale, scriveva: «Il movimento sta progredendo con una rapidità talmente vertiginosa che si può affermare con certezza che entro un anno avremo già cominciato a dimenticare che c’è stata in Europa una lotta per il comunismo, perché fra un anno l’Europa intera sarà comunista. E la lotta si sarà estesa all’America, forse anche all’Asia e agli altri continenti».
Probabilmente fu questa euforia, dovuta alla certezza di una prossima vittoria rivoluzionaria internazionale, a determinare il carattere vago delle formulazioni su quale sarebbe stato il carattere della internazionale rivoluzionaria: una organizzazione esclusivamente politica, e marxista, oppure un raggruppamento più ampio comprendente anche i sindacati ed organizzazioni non marxiste, come era stata la Prima Internazionale? Non c’è dubbio che, inizialmente, si tendesse proprio a questa seconda soluzione.
Nella circolare del C.E. dell’Internazionale del 1° settembre 1919 si dirà: «I gruppi anarco-sindacalisti, e i gruppi talvolta semplicemente detti anarchici, si uniscono così alla corrente generale [...] Da ciò risulta un programma comune, il programma della lotta per la dittatura sovietica». Dopo avere ricordato che molti capi socialdemocratici, che si riempivano la bocca con il nome di Marx, durante i cinque anni di guerra avevano compiuto il più basso tradimento, la circolare continuava: «L’aggregazione delle forze avviene [ora] in base ad una nuova linea divisoria: le une sono per la rivoluzione proletaria, per i soviet, per la dittatura, per le azioni di massa fino alla insurrezione armata, le altre sono contrarie. Questo è il problema di fondo dei giorni nostri. Questo è il criterio fondamentale. I nuovi gruppi si uniranno in base a questo dato di fatto, ed è quanto stanno già facendo».
Naturalmente questo era un criterio che non poteva essere condiviso dalla nostra corrente di Sinistra rivoluzionaria, nemmeno quando la circolare affermava: «tutte queste correnti, che devono essere unificate nel partito comunista ad ogni costo e al più presto possibile, necessitano di una tattica unitaria».
Riguardo alla questione sindacale dobbiamo notare che al congresso di fondazione della III Internazionale non si addivenne a formulare una linea di intervento, anche se discussioni sull’argomento ci furono.
Ad esempio, l’americano Boris Reinstein non mancò di sottolineare l’importanza del problema: «Coloro che impugnano la bandiera dietro la quale marciano le masse del proletariato organizzato [...] capi sindacali come Gompers in America, Karl Legien in Germania ed Henderson in Inghilterra, hanno effettivamente nelle loro mani la chiave della situazione e possono esercitare un’influenza decisiva». Invitava quindi la III Internazionale ad opporsi alla ricostituzione di una internazionale sindacale gialla.
Troppa era però la confusione che regnava nei partecipanti stranieri perché un indirizzo preciso potesse venire condiviso. La “Piattaforma dell’Internazionale”, approvata il 4 marzo 1919, riporta una sola volta la parola “sindacalismo”, ma riferendosi al movimento politico e non all’organizzazione di classe. Il tedesco Hugo Eberlein, che fu correlatore del documento spiegava così: «Abbiamo lavorato a lungo su questo problema. Abbiamo ascoltato i delegati dei diversi paesi a proposito del movimento sindacale e abbiamo dovuto constatare che non era possibile, oggi, prendere su questo problema una posizione internazionale nella Piattaforma perché la situazione del proletariato varia notevolmente da un paese all’altro [...] Cosicché ci appare impossibile dare delle linee direttrici internazionali chiare agli operai» (“Premier congrès de l’Internationale communiste”, 2/6 mars 1919).
Anche il “Manifesto dell’Internazionale comunista al proletariato di tutto il mondo” evita di approfondire il problema della funzione del sindacato limitandosi a dire che «i vecchi sindacati si sono dimostrati, nella persona dei loro capi, incapaci di intendere i compiti posti dalla nuova epoca, e ancora più incapaci di assolverli».
Ribadita necessità dei sindacati
Subito dopo però Lenin riafferma la necessità del lavoro e della conquista dei sindacati alle direttive rivoluzionarie del partito. «Fare tutta l’agitazione e la propaganda dal punto di vista della rivoluzione, in opposizione al riformismo, spiegando sistematicamente alle masse questa opposta posizione, teorica e pratica, ad ogni passo del lavoro parlamentare, sindacale, cooperativistico, ecc. [...] È necessaria una guerra inflessibile e inesorabile per scacciare completamente dal movimento operaio quei capi opportunisti che hanno mostrato il loro vero volto, sia prima della guerra sia, soprattutto, durante la guerra, tanto nella sfera politica quanto, e soprattutto, nei sindacati e nelle cooperative» (Lenin, “I compiti della III Internazionale”, 14 luglio 1919).
Il 1° settembre Zinoviev, a nome del C.E. della I.C., emanava una circolare sul “Parlamentarismo e la lotta per i soviet”. La novità di questa circolare consisteva nelle priorità ritenute fondamentali per la conquista del potere: fondazione del partito, formazione dei gruppi comunisti all’interno dei sindacati e loro conquista, organizzazione dei soviet nel corso della lotta. «È chiaro che scioperi e insurrezioni sono gli unici metodi della lotta decisiva tra i lavoratori e il capitale. Perciò i compagni dovrebbero concentrarsi principalmente sulla mobilitazione delle masse. Fondare il partito, formare i propri gruppi all’interno dei sindacati e impadronirsi dei sindacati, organizzare i soviet nel corso della lotta, guidare le lotte di massa, promuovere agitazioni per la rivoluzione tra le masse. Tutto questo viene per primo».
Certamente la chiusura di questa circolare era abbastanza ambigua in quanto incitava: «tutti coloro che sono per i soviet e per la dittatura del proletariato si uniscano nel più breve tempo possibile e formino un partito comunista unificato». Questa ambiguità era il riflesso dell’incertezza, ancora esistente, sulla natura della III Internazionale: sarebbe stata una organizzazione esclusivamente politica, oppure aperta anche ad altre organizzazioni rivoluzionarie, sindacati compresi?
Sta di fatto che il Comitato Esecutivo della III Internazionale, già in una lettera dell’aprile 1920 indirizzata ai sindacati di tutti i paesi, prospettava la formazione di una Internazionale sindacale rossa.
«L’Internazionale Comunista ritiene giunto il tempo in cui le unioni dei produttori [Vogliamo ricordare qui come Lenin fosse contrario all’uso del termine “produttori”. «In primo luogo nel concetto di “produttori” sono compresi il proletario, il semiproletario, il piccolo produttore di merci; ci si scosta quindi radicalmente dal concetto fondamentale della lotta di classe e dall’esigenza fondamentale di distinguere nettamente le classi» (X congresso del partito comunista bolscevico), ndr], dopo essersi liberate dall’influenza della borghesia e dei socialtraditori, devono accingersi immediatamente alla ricostruzione della propria organizzazione internazionale, sia nei singoli rami di produzione, sia su scala mondiale. Alla “Internazionale” gialla dei sindacati, che gli agenti della borghesia di Amsterdam, di Washington e di Parigi si sforzano di restaurare, dobbiamo opporre una Internazionale rossa dei sindacati, veramente proletaria, operante a fianco della III Internazionale Comunista [...]
«La liberazione della classe operaia esige l’unione di tutte le forze organizzate del proletariato. Noi abbisogniamo di tutte le armi per poter lottare con successo contro il capitale. L’Internazionale Comunista deve servire alla lotta per la libertà del proletariato internazionale in ogni modo possibile, perciò tende all’unione più stretta possibile con i sindacati i quali hanno acquistato una chiara coscienza dei loro compiti nell’epoca odierna. L’Internazionale Comunista vuole unire non soltanto le organizzazioni politiche degli operai, ma tutte le organizzazioni operaie che riconoscono la lotta rivoluzionaria non a parole bensì con l’azione e che mirano alla dittatura della classe operaia. L’Esecutivo dell’Internazionale Comunista è dell’opinione che non soltanto i partiti politici devono prendere parte ai congressi dell’Internazionale stessa. I sindacati rossi devono unirsi su scala internazionale e diventare parte costitutiva (sezione) dell’Internazionale Comunista. Con questa proposta ci rivolgiamo agli operai organizzati sindacalmente di tutto il mondo. La stessa evoluzione che si è verificata nei partiti politici del proletariato è inevitabile anche nel movimento sindacale. Come i maggiori partiti operai hanno abbandonato la Seconda Internazionale gialla così anche tutti i sindacati onesti devono rompere con l’Internazionale gialla dei sindacati di Amsterdam».
Contro l’abbandono dei sindacati diretti dai social‑sciovinisti
Due erano i problemi posti dinanzi al movimento comunista: definire una posizione unitaria in materia sindacale da parte dei partiti aderenti alla nuova Internazionale e formare una organizzazione internazionale da contrapporre ad Amsterdam.
La soluzione del primo problema era obbligata, i comunisti dovevano restare dentro i sindacati nazionali esistenti per conquistarli. Su questo da parte di Lenin non vi erano dubbi e sempre, in maniera puntuale, ribadì che sbagliavano quei comunisti che proponevano l’abbandono dei grandi sindacati diretti dai riformisti. Dei numerosi suoi interventi in questo senso ne citiamo due. Nel “Saluto ai comunisti italiani, francesi e tedeschi”, dell’ottobre 1919, ammoniva: «Sia dal punto di vista della teoria marxista sia dal punto di vista dell’esperienza di tre rivoluzioni (1905, febbraio 1917, ottobre 19179) ritengo assolutamente errato il rifiuto di partecipare [...] ai sindacati reazionari (di Legien, di Gompers, ecc.) [...] Abbiamo partecipato ai sindacati più reazionari, puramente menscevichi, per niente inferiori (quanto a spirito controrivoluzionario) ai sindacati di Legien, i sindacati più infami e più reazionari della Germania».
Scriverà poi in modo cristallino del “L’estremismo”:
«Devono i rivoluzionari lavorare nei sindacati reazionari? I “sinistri” tedeschi
considerano pacifica una risposta assolutamente negativa a questa domanda. A
loro parere le tirate e le esclamazioni di sdegno contro i sindacati
“reazionari” e “controrivoluzionari” sono sufficienti per “dimostrare” come è
inutile e persino inammissibile il lavoro dei rivoluzionari, dei comunisti nei
sindacati gialli, controrivoluzionari, nei sindacati dei socialsciovinisti, dei
conciliatori, dei Legien. Ma, per quanto i “sinistri” tedeschi siano persuasi
che questa tattica è rivoluzionaria, essa è in realtà radicalmente sbagliata e
non contiene altro in sé che frasi vuote (...) In tutti i paesi del mondo il
proletariato si è sviluppato e poteva svilupparsi solo per mezzo dei sindacati,
solo attraverso l’azione reciproca tra i sindacati ed il partito della classe
operaia [...] Non lavorare all’interno dei sindacati reazionari significa
abbandonare le masse operaie arretrate o non abbastanza evolute all’influenza
dei capi reazionari, agli agenti della borghesia».
Nell’autunno del 1919, per decentrare l’attività dell’Esecutivo e assicurare un collegamento stabile con i partiti comunisti di Europa, l’Internazionale comunista aveva creato due uffici periferici: ad Amsterdam e a Berlino. Si trattava anche di rompere l’isolamento in cui si trovava la Centrale russa dell’Internazionale a causa dell’ermetico blocco alleato che rendeva impossibile qualsiasi comunicazione con gli altri paesi.
Questi due uffici però assunsero linee politiche contrastanti. Il Bureau di Amsterdam, per l’influenza che vi esercitava la sinistra comunista olandese e tedesca e per gli stretti rapporti con aree anarco-sindacaliste, nel dicembre 1919 elaborava due brevi documenti: tesi sul parlamentarismo e tesi sul movimento sindacale.
Il primo svolgeva una corretta analisi del parlamentarismo. Solo che per stabilire sulla partecipazione o l’astensione prevedeva che fosse «la classe lavoratrice di ciascun paese a decidere liberamente se, quando e in qual modo vorrà utilizzare nella propria lotta il parlamentarismo», affermando un’autonomia nazionale in campo tattico. Inoltre al posto di “dittatura del proletariato” si parlava di «sistema sovietico che organizza l’autoamministrazione della totalità della classe lavoratrice».
L’altro documento non negava l’opposizione organizzata all’interno dei sindacati gialli, ma affermava una “preferenza” per i «nuovi sindacati, sorti su base industriale, nei quali non esiste una burocrazia conservatrice che impedisca una vigorosa tattica di lotta (...) Tali sindacati, pieni di combattivo spirito rivoluzionario, essendo sorti per scopi politici, possono sostenere un ruolo importante nella rivoluzione proletaria».
Riguardo ai sindacati il Bureau di Berlino invece affermava che «i comunisti hanno il dovere di penetrare in queste organizzazioni di massa del proletariato, quantunque la burocrazia sindacale cerchi di trasformarle da organizzazioni di lotta del proletariato in organi opportunistici o controrivoluzionari di compromesso con il capitale. I comunisti in esse devono [...] cercare di distruggere l’influenza della burocrazia sindacale, diventando nella lotta economica l’elemento di avanguardia e di spinta [...] Soltanto se la classe operaia lotta incessantemente per migliorare la propria condizione, elevare i salari e accorciare il tempo lavorativo, e se in questa lotta i lavoratori si sostengono vicendevolmente, essa si fonde in classe rivoluzionaria che sarà in grado di condurre non soltanto la lotta per migliorare la propria condizione [...] ma per trasformare la società capitalistica in società socialista [...] In questa lotta, i comunisti debbono far comprendere alle masse lavoratrici [...] che è necessario accorrere in aiuto di qualsiasi parte del proletariato in lotta sul fronte comune, che è necessario ampliare la lotta economica basata su singole rivendicazioni trasformandola in lotta per la conquista del potere politico, per l’abbattimento del governo capitalistico.
«Nel corso di questa lotta i comunisti debbono entrare nei sindacati per trasformarli [...] La lotta per trasformare i sindacati opportunistici o controrivoluzionari non può essere tralasciata neppure in quei paesi dove già esistono sindacati rivoluzionari».
I due uffici periferici dell’Internazionale esprimevano quindi posizioni non coincidenti. L’ufficio di Amsterdam fu sciolto e le sue competenze trasferite a quello di Berlino.
La posizione dell’Internazionale nei confronti del lavoro all’interno dei sindacati “ufficiali” era chiara e netta. In una lettera del 2 giugno 1920 indirizzata al neo-costituito Partito Comunista Operaio Tedesco si affermava: «Il congresso di Berlino del KAPD ha ufficialmente confermato la parola d’ordine secondo cui i comunisti tedeschi devono uscire dai sindacati “liberi”» perché «i sindacati “liberi” sarebbero associazioni riformistiche, volontario strumento nelle mani dei capi burocratizzati [...] Il comitato esecutivo dell’Internazionale comunista non può assolutamente dichiararsi d’accordo con questa parola d’ordine [...] Non l’uscita dai sindacati “liberi”, non la sprezzante, aristocratica rinuncia ad operare in essi, bensì un’azione intensa all’interno di queste associazioni, la costituzione di frazioni comuniste nei più minuscoli settori di ciascuna di esse, la lotta instancabile contro la socialdemocrazia al loro interno, un lavoro sistematico, ostinato per strappare dalle mani degli agenti del capitale l’ultimo strumento di asservimento dei lavoratori: questa è la parola d’ordine dell’Internazionale comunista».
La controversa questione della internazionale sindacale
Il secondo problema, formare una organizzazione internazionale da contrapporre ad Amsterdam, invece, era suscettibile di diverse soluzioni. I sindacati “rivoluzionari” sarebbero stati accolti nell’Internazionale comunista? Oppure si dovevano organizzare in una Internazionale solo di sindacati? Erano da stabilirsi forme intermedie di collegamento, coordinamento, collaborazione? Si trattava di decidere se l’Internazionale comunista dovesse raggruppare ogni tipo di organizzazione “rivoluzionaria”, o soltanto i partiti comunisti; e se la Internazionale sindacale fosse una organizzazione indipendente, o collegata, o subordinata a quella politica.
Al terzo congresso sindacale panrusso (6-13 aprile 1920) Zinoviev dichiarò che era giunto il momento di creare «una unione internazionale veramente proletaria dei sindacati rossi favorevoli alla dittatura del proletariato» e formulò l’augurio che questi sindacati partecipassero al prossimo congresso dell’I.C. che avrebbe dovuto riunire «non solo i partiti operai, ma anche i sindacati e tutte le altre organizzazioni economiche del proletariato».
A giugno, il comitato esecutivo dell’I.C. indirizzava la circolare di convocazione del secondo congresso: «A tutti i gruppi e partiti comunisti, a tutti i sindacati rossi, a tutte le organizzazioni femminili comuniste, a tutte le leghe giovanili comuniste, a tutte le organizzazioni operaie che si basano su una piattaforma politica comunista, a tutti i lavoratori onesti». Ed affermava: «Tutti i partiti, i gruppi e i sindacati comunisti, ufficialmente affiliati all’Internazionale comunista e riconosciuti dal comitato esecutivo sono invitati a partecipare al congresso, con diritto di voto. Quei gruppi e quelle organizzazioni che accettano la piattaforma politica dell’Internazionale comunista, ma sono in opposizione con i partiti comunisti ufficialmente affiliati, sono anch’essi invitai a prendere parte al congresso, che deciderà esso stesso a chi tra loro dovrà essere conferito il diritto di voto. L’invito viene anche esteso a tutti i gruppi sindacalisti rivoluzionari, ai sindacati degli IWW, e alle altre organizzazioni con cui il CEIC è entrato in rapporto [...] Se possibile in concomitanza con il congresso si terrà la prima conferenza internazionale dei sindacati rossi».
Nel corso di incontri svolti nel corso del congresso tra rappresentanti sindacali russi e stranieri furono gettate le basi per la costituzione della Internazionale Sindacale Rossa. Il primo risultato fu la nascita del “Soviet (Consiglio) internazionale dei sindacati”. Questi primi incontri se non altro servirono a dare una valutazione di massima sulle convergenze e divergenze tra le posizioni delle varie delegazioni.
La prima riunione si tenne il 16 giugno e vi parteciparono, oltre ai russi, sindacalisti inglesi e italiani. Per i russi erano presenti Alexander Lozovski, Mikhail Tomsky, Grigori Tsyperovic, W. Schmidt (membri del Consiglio centrale dei sindacati russi), Grigori Melniciansky (del Consiglio dei sindacati di Mosca) e Zinoviev presidente del C.E dell’I.C. Per gli inglesi parteciparono Robert Williams (segretario della federazione dei trasporti) e Alfred Purcell (membro del comitato parlamentare del T.U.C.). Per gli italiani, Ludovico D’Aragona, Giuseppe Bianchi, Emilio Colombino (della F.I.O.M.) ed Enrico Dugoni (della Federazione Bracciantile). Va però notato che gli inglesi e gli italiani, tutti inveterati riformisti, partecipavano a titolo personale perché non avevano ricevuto alcun mandato dalle loro organizzazioni.
Zinoviev esponendo la posizione del C.E.I.C. evidenziò il pericolo rappresentato dall’Internazionale gialla di Amsterdam legata alla Società delle Nazioni ed all’Ufficio Internazionale del Lavoro e quindi “strumento politico nelle mani dell’Intesa” della quale costituiva “l’arma più potente rimasta a sua disposizione”.
Tre erano le possibilità per procedere:
- Adottare una politica di adesione all’Internazionale di Amsterdam con
l’obiettivo di impadronirsene dall’interno;
- Creare una Internazionale sindacale indipendente, che avrebbe raggruppato i
sindacati rossi;
- Organizzare in seno all’Internazionale comunista una sezione sindacale, contro
la Federazione Sindacale della Seconda Internazionale, ma sotto la guida del
Comintern.
I dirigenti russi erano per la terza soluzione.
Le prime divergenze si manifestarono subito a proposito della dittatura del proletariato. Lozovski nel resoconto della riunione scrisse che «i delegati dei tre paesi concepivano questa dittatura in modo del tutto diverso sia dal punto di vista teorico sia pratico [...] non la trattavano come un problema per l’avvenire immediato, bensì come una formula astratta, suscettibile di essere applicata in un tempo lontanissimo, e che impegnava poco o nulla l’organizzazione dirigente attuale della classe operaia».
Altre riunioni seguirono alle quali parteciparono un maggior numero di
rappresentanti stranieri, però i problemi che si presentarono rimasero sempre
gli stessi, e soprattutto:
a) dittatura del proletariato, si o no? E se si, diretta dal partito o dai
sindacati?
b) Atteggiamento nei confronti della III Internazionale.
c) Conquista dei vecchi sindacati o scissione?
A luglio il Congresso dell’Internazionale stese e diramò ai proletari di tutto il mondo un manifesto: «Oggi si avvera la fratellanza fra i delegati degli operai di diversi paesi, di quegli operai che furono finora divisi in eserciti avversi creati dai predoni imperialisti» (Dall’“Avanti!” del 25 luglio 1920. Il giornale socialista non riporta la data esatta di questo incontro sindacale). Il manifesto fu firmato da Zinoviev per il Soviet di Pietrogrado, per la delegazione italiana da Serrati, D’Aragona, Graziadei, Dugoni, Bianchi, Paviani, Colombino, Nofri, Bombacci e Vacirca.
Ancora all’epoca del II Congresso era quindi concesso a determinate organizzazioni sindacali con orientamento di sinistra la possibilità di farsi rappresentare mediante una delegazione. Per esempio la CNT spagnola dall’autunno del 1919 aveva dato la sua adesione alla III Intenzionale e nel gennaio 1920 aderirono gli Shop-Stewards inviando i propri delegati. Il rappresentante della nostra Frazione (facevamo ancora parte del Partito Socialista) si espresse allora contro l’ammissione di organizzazioni sindacali ai congressi mondiali dei partiti politici. «Nella preparazione del congresso del 1920 la sinistra italiana ebbe perfino a sostenere che non potessero essere considerate parte del congresso le delegazioni di sindacati estremisti (Scozia, Stati Uniti) perché non si potevano ammettere come sezioni dell’IC che i partiti politici comunisti» (“Struttura economica e sociale della Russia d’oggi”).
Le riunioni sindacali del giugno/luglio 1920, dopo non poche discussioni,
portarono alla elaborazione della dichiarazione che segue, sottoscritta dai
delegati russi, italiani, spagnoli, bulgari, jugoslavi e dalle minoranze
sindacali francese e georgiana, ma non firmata dai sindacalisti anarchici (è
riprodotta sull’“Avanti!” del 26 agosto):
«I sottoscritti rappresentanti delle organizzazioni sindacali di Russia,
Inghilterra, Italia, Spagna e Bulgaria, convocati dal Comitato Esecutivo della
III Internazionale, considerato:
«Che la situazione fatta ai proletari di tutti i paesi in seguito e come
conseguenza della guerra imperialista esige un’azione di giorno in giorno più
netta e più energica sul terreno della lotta di classe per rovesciare il sistema
capitalista e instaurare la società comunista;
«Che questa azione dovrà essere condotta internazionalmente nella più stretta
unione di tutti i lavoratori organizzati non più per categorie professionali, ma
per industria;
«Che le riforme dette sociali – quale l’abbassamento della durata del
giornaliero lavoro, l’elevazione dei salari, la regolamentazione del lavoro,
etc. – per quanto facilitino, in determinate circostanze, la lotta di classe,
sono impotenti a risolvere il problema sociale;
«Che nella maggior parte dei paesi belligeranti la maggior parte dei sindacati
partitante per il neutralismo (apoliticismo) sono divenuti durante i dolorosi
anni della guerra i servi del capitalismo imperialista e hanno giuocato il
nefasto ruolo ritardando la totale emancipazione dei lavoratori;
«Che è dovere della classe operaia di organizzarsi sindacalmente in una forte
associazione rivoluzionaria di classe, che, a lato dell’organizzazione politica
del proletariato comunista internazionale, e in stretto legame con esso, possa
spiegare tutta la sua forza per il trionfo della rivoluzione sociale e della
Repubblica Universale dei Soviets;
«Che le classi possidenti fanno i più grandi sforzi per strangolare con tutti i
mezzi il movimento liberatore degli oppressi;
«Che alla dittatura della borghesia occorre opporre come mezzo decisivo e
transitorio la dittatura del proletariato, sola capace di rompere le resistenze
degli sfruttatori, di assicurare e consolidare la conquista del potere del
proletariato;
«Che la Federazione Internazionale dei Sindacati di Amsterdam è incapace, in
ragione del suo programma e della sua azione di fare trionfare i principi sopra
enunciati, ed assicurare la vittoria delle masse proletarie di tutti i paesi;
«Decidono:
«1° - di condannare tutti i tentativi consistenti a fare uscire gli elementi di
avanguardia dalle organizzazioni sindacali esistenti. Essi devono al contrario
ivi esercitare un’azione energica per eliminare dalla direzione del movimento
sindacale gli opportunisti che hanno collaborato e collaborano accettando la
guerra e che continuano a servire gli interessi dell’imperialismo capitalista
partecipando alla truffa che è la Lega delle Nazioni;
«2° - di portare nel seno delle organizzazioni sindacali del mondo intero, un
ordinato lavoro di propaganda creandovi, entro ciascuna, un nucleo comunista il
cui sforzo incessante arrivi a far prevalere il nostro programma;
«3° - di creare un Comitato d’azione e di lotta internazionale per la
informazione in questo senso del movimento sindacale. Questo Comitato funzionerà
come Soviet provvisorio internazionale dei sindacati operai in accordo col
Comitato Esecutivo della III Internazionale con quelle condizioni che saranno
stabilite dal Congresso. Il Soviet comprenderà i rappresentanti di tutte le
organizzazioni nazionali operaie aderenti. Un rappresentante del Soviet
Internazionale Sindacale sarà ammesso nel Comitato Esecutivo della III
Internazionale e un rappresentante di questa farà parte del Soviet
Internazionale Sindacale».
Così, per iniziativa del Consiglio Centrale panrusso dei sindacati, assieme ai rappresentanti del movimento sindacale di Italia, Francia, Spagna e altri paesi, come anticipazione della futura Internazionale Sindacale Rossa, il 15 luglio 1920 nasceva il Soviet Internazionale dei Sindacati Operai con il proposito di contrapporre la concezione della lotta rivoluzionaria di classe a quella della collaborazione, rappresentata dall’Internazionale di Amsterdam.
A dimostrazione di come l’opportunismo sia capace di camuffarsi notiamo che a firmare per la Confederazione italiana fu il bonzo D’Aragona che, appena tornato in Italia, per non essere scambiato per un rivoluzionario volle mettere subito in chiaro che in italiano «la parola “Soviet” deve essere tradotta nel preciso senso di “Consiglio” e che la parola “Comunista” vuol dire socialista, non esistendo più in Russia, per i socialisti, che il primo nome».
Non aveva tutti i torti l’anarchico Armando Borghi quando notava che «la Confederazione italiana era stata fino allora magna pars di Amsterdam, mentre ora figurava come pezzo forte di Mosca» (A. Borghi, “Mezzo secolo di anarchia”). Però, come vedremo, Armando Borghi non era la persona più adatta per dare lezioni di coerenza ai socialdemocratici.
Nel corso delle sedute fu costituito un Comitato Direttivo (di cui faceva parte anche D’Aragona) che a sua volta nominò un Comitato Esecutivo composto da un compagno russo, uno francese e dal rappresentante della III Internazionale. Il C.E. ebbe l’incarico di convocare il congresso di fondazione della nuova Internazionale sindacale. Lozovski aveva proposto la data dal 15 novembre 1920, ma ritenendola troppo ravvicinata, si pensò al 1° gennaio 1921. Il luogo non venne fissato rimanendo che sarebbe stato scelto tra Italia, Russia, Norvegia.
Se nell’agosto 1920 prese forma soltanto un “Soviet” (o Consiglio) e non una Internazionale sindacale fu perché tra i rappresentanti sindacali presenti non era stato trovato un accordo e si preferì rimandare tutto a un futuro congresso. Infatti le divergenze manifestatesi nel corso degli incontri non erano da poco, riguardavano tutta una serie di questioni fondamentali, quali dittatura del proletariato; necessità del partito; conquista dei sindacati attuali o fondazione di sindacati rivoluzionari; atteggiamento nei confronti della III Internazionale; lo Stato proletario e sistema dei soviet, etc., etc.
Annotava Lozovski: «tutti questi problemi riguardavano la base stessa del movimento operaio e se non erano risolti non c’era modo di procedere alla creazione di una organizzazione internazionale, quale che fosse».
Per rimanere “in casa nostra” vediamo che la CGdL, pur avendo partecipato alla creazione del Soviet sindacale internazionale, continuava tranquillamente a far parte dell’Internazionale gialla di Amsterdam, cioè proprio di quella organizzazione che il nuovo organismo era chiamato a combattere. E dopo la scissione di Livorno fu ancor meno disposta ad uscirne.
Per quanto riguarda gli anarchici può essere sufficiente questa breve dichiarazione del Borghi: «Quanto all’Unione Sindacale Italiana essa era per la creazione ab imis di una internazionale sindacale nuova, che facesse tabula rasa delle passate intolleranze marxiste».
Non c’è dubbio che una parte dei sindacalisti rivoluzionari fosse orientata verso la costituzione di una Internazionale sindacale rossa, mentre un’altra non era disposta ad accettare la funzione del partito e non condivideva la tattica della lotta all’interno dei sindacati diretti dai riformisti. Questi problemi fecero sì che l’attività del Soviet internazionale fosse assai modesta limitandosi quasi esclusivamente alla propaganda delle idee di lotta rivoluzionaria di classe, della rivoluzione e della dittatura del proletariato.
Nel frattempo il congresso dell’Internazionale comunista il 6 agosto approvava i
21 punti, le tesi sulle condizioni di ammissione, che parlano solo di adesione
di partiti. Nei riguardi dell’attività sindacale vi si legge:
– Al punto 9: «Ogni partito che desideri appartenere all’Internazionale
comunista deve svolgere in modo sistematico e tenace un’attività comunista in
seno ai sindacati, ai consigli operai e di fabbrica, alle cooperative di consumo
e ad altre organizzazioni di massa degli operai. All’interno di queste
organizzazioni è necessario organizzare gruppi comunisti che, con lavoro
costante e tenace, guadagnino i sindacati, ecc. alla causa del comunismo. Nel
loro lavoro quotidiano i gruppi sono tenuti a smascherare il tradimento dei
socialpatrioti e l’inconstanza del “centro”. I gruppi comunisti debbono essere
interamente subordinati all’insieme del partito».
– Al punto 10: «Ogni partito appartenente all’Internazionale Comunista è tenuto
a condurre una lotta implacabile contro l’“Internazionale” di Amsterdam delle
associazioni sindacali gialle. Esso deve propagandare vigorosamente fra gli
operai organizzati sindacalmente la necessità di rompere con l’Internazionale
gialla di Amsterdam. Deve inoltre appoggiare con tutti i mezzi la nascente
Federazione internazionale dei sindacati rossi, che aderiscono
all’Internazionale Comunista».
Lo statuto dell’I.C., approvato due giorni prima, il 4 agosto, al punto 14 afferma: «I sindacati che hanno una piattaforma comunista e che sul piano internazionale sono uniti sotto la guida dell’Internazionale Comunista, formano una sezione sindacale dell’Internazionale Comunista. Questi sindacati delegano propri rappresentanti ai congressi mondiali dell’Internazionale Comunista attraverso i partiti comunisti dei rispettivi paesi. La sezione sindacale dell’Internazionale Comunista invia al C.E. un proprio rappresentante con voto deliberativo. Il C.E. dell’Internazionale Comunista ha il diritto di inviare un proprio rappresentante con voto deliberativo alla sezione sindacale dell’Internazionale Comunista».
Al riguardo non sarà male rileggersi, sul nostro “Il Soviet” del 3 ottobre 1920,
la relazione sulla questione sindacale svolta al secondo Congresso dell’I.C.
«Le tesi predisposte da Radek su “il movimento sindacale, i comitati di fabbrica
e la III Internazionale” corrispondevano alle note posizioni polemiche del
Partito Comunista Tedesco contro l’opposizione (K.A.P.D.) ed erano indirizzate
contro quelle tendenze che abbiamo più volte definite neo-sindacaliste.
«A parte certe affermazioni che riserbano ancora ai sindacati un valore
rivoluzionario che ci pare eccessivo, queste tesi ribadiscono il punto di vista
marxista più volte sostenuto su queste colonne. Tanto i sindacati che i comitati
di fabbrica diventano rivoluzionari in quanto sono conquistati e diretti dal
Partito Comunista. I comitati di fabbrica non possono sostituire i sindacati,
che, organizzati per industria, rappresenteranno una parte molto più importante
nella organizzazione economica del comunismo. Si conchiude che la tattica dei
comunisti non deve essere quella di boicottare i sindacati tradizionali, anche
se diretti dai riformisti e dai gialli, ma di penetrarli e conquistarli.
«La recisa condanna della prima tattica è giustificata soprattutto da Radek col
pericolo di allontanarsi dalle masse. Noi siamo stati sempre d’avviso che questa
tattica è da condannare, ma soprattutto per la ragione molto più profonda, che
essa scaturisce dalla erronea concezione generale secondo cui l’azione
proletaria poggerebbe anziché sulla lotta politica del Partito per la dittatura
proletaria, su un’azione economica di organismi sindacali “rivoluzionari” che,
espropriati i capitalisti, assumerebbero direttamente la gestione della
produzione.
«A Mosca questa posizione di principio non fu messa in evidenza, ma s’insistette
nella direttiva pratica di lavorare in qualsiasi sindacato giallo.
«L’opposizione, dal canto suo, si guardò bene dallo sfoderare le sue dottrine
sindacaliste, e si limitò a chiedere qualche eccezione locale, che si dovette
concedere per non sconfessare gli organismi sindacali rivoluzionari formalmente
compresi nell’Internazionale.
«Per l’organizzazione internazionale sindacale si è arrivato a conclusioni su
cui non è difficile equivocare, come ci pare sia capitato al compagno Graziadei
nella sua – d’altronde scrupolosa – relazione sull’“Avanti!” (puntata II)».
L’articolo de “Il Soviet” si riferiva a quanto riportato sull’“Avanti!” del 24 agosto, pagina 2, dove Graziadei aveva scritto: «L’Internazionale sindacale di Amsterdam tende a rimpiazzare la II Internazionale di Bruxelles, ormai completamente fallita. Pur non abbandonandola finché sarà possibile, i comunisti devono tendere a creare anche l’Internazionale sindacale aderente alla sezione sindacale della III Internazionale, e favorire la più grande centralizzazione d’organizzazione e d’azione, non solo in ciascun paese, ma anche nell’Internazionale».
L’articolo de “Il Soviet” continuava: «I comunisti devono entrare anche nei
sindacati diretti dai riformisti ed aderenti al segretariato di Amsterdam. Non
appena però una organizzazione sindacale nazionale è nelle mani dei Comunisti,
questi devono distaccarla da Amsterdam e farla aderire alla Sezione sindacale
dell’Internazionale Comunista.
«Si noti poi che i Sindacati a direttiva sindacalista rivoluzionaria, anche non
diretti dai Partiti Comunisti, anche costituiti sulla base della tattica del
boicottaggio dei Sindacati di Amsterdam, sono accolti come abbiamo detto
nell’Internazionale e nei suoi congressi politici.
«Il nuovo statuto dell’Internazionale prescrive però che nei prossimi congressi
i Sindacati dovranno farsi rappresentare pel tramite dei rispettivi Partiti
Comunisti, dei quali non può esservene che uno in ciascun paese. Sarebbe da
chiedersi se questa disposizione riguardi anche i suaccennati organismi
sindacalisti rivoluzionari».
Quindi anche nelle tesi sindacali del secondo Congresso si trovano espressioni di una certa ambiguità. Ad esempio secondo la 3a e la 4a tesi di Radek la crisi economica del momento avrebbe posto ai proletari il problema del controllo delle aziende spingendoli a costituire i consigli di azienda. Questi, successivamente, si sarebbero resi conto che il controllo per essere efficace doveva superare il limite delle singole aziende per comprendere interi settori d’industria. Poiché la borghesia vi si sarebbe opposta, gli operai si sarebbero trovati di fronte alla necessità di conquistare il potere politico, instaurando la dittatura del proletariato. I nostri compagni obbiettarono che il controllo operaio «non è una conquista rivoluzionaria» e di per sé non inconciliabile con il potere politico borghese: «noi siamo meno caldi entusiasti della lotta per il controllo di alcuni nostri amici comunisti e ci preoccupiamo che questa si svolga prendendo la mano alla ferma direttiva dell’azione politica da parte del partito comunista e preparando una intera fase di collaborazione di classe» (“Il Soviet”, 31 ottobre 1920).
A maggio 1921 l’Esecutivo di Mosca comunicava “a tutte le organizzazioni proletarie appartenenti all’Internazionale Comunista o intenzionate ad aderirvi”, la convocazione del III Congresso che si sarebbe aperto il successivo 1° giugno. «Il III Congresso farà il bilancio di tutto il lavoro compiuto e darà all’Internazionale la sua perfetta organizzazione e le sue regole tattiche».
Per punti venivano elencate le questioni che sarebbero state affrontate:
«I punti 5 e 6 sono dedicati al movimento operaio internazionale: la campagna
contro l’Internazionale gialla di Amsterdam e il Soviet Internazionale dei
sindacati Rossi. Questa sarà una delle questioni più importanti del III
Congresso. La lotta all’interno del movimento operaio si acuisce sempre più. È
questa che deciderà l’esito dello scontro tra la Seconda e la Terza
Internazionale, ossia tra la borghesia ed il proletariato. Oggi i sindacati
associano molte decine di milioni di proletari.
«La tattica dei gruppi comunisti dentro i sindacati, preconizzata dal secondo
Congresso per conquistare tutto il proletariato all’Internazionale Comunista, si
è dimostrata valida. Ha ottenuto seri successi in Germania, Francia, in
Inghilterra e oltre. All’associazione gialla di Amsterdam sono stati portati i
primi duri colpi. I dirigenti gialli di Amsterdam sono combattuti da ogni parte.
Oggi sono disposti a fare delle concessioni, domani cominceranno ad espellere
chi parteggia per l’Internazionale Comunista. È un indubitabile segnale del loro
prossimo completo fallimento. Il III Congresso rimarcherà i risultati della
lotta contro Amsterdam e organizzerà questa lotta per l’avvenire.
«Ma la principale questione che si porrà sarà quella di definire esattamente le
relazioni tra l’Internazionale Comunista ed il Soviet Internazionale dei
Sindacati Rossi: avremo due organizzazioni internazionali parallele sotto la
direzione dell’Internazionale comunista, oppure avremo soltanto una
Internazionale Comunista che non riunisca soltanto i Partiti Comunisti ma tutte
quante le organizzazioni proletarie che si pongono sul terreno
dell’Internazionale Comunista e tra queste i sindacati Rossi? In tal caso il
Soviet Internazionale dei Sindacati Rossi non sarà che una sezione dell’unica
Internazionale.
«Molte sono le ragioni che possono essere portate a favore o contro ognuna di
queste soluzioni. Dall’una o dall’altra dipenderà in gran parte la struttura del
movimento operaio internazionale. Ogni organizzazione appartenente
all’Intenzionale Comunista deve studiare attentamente la questione sotto i suoi
vari aspetti e presentare al III Congresso, formulati in maniera netta, i
risultati raggiunti» (“Bulletin Communiste”, 9 giugno 1921).
Come si vede, malgrado i 21 punti usciti dal secondo Congresso, la questione ancora non era stata chiarita neanche a livello dell’Esecutivo dell’Internaziona
Origine del Partito Comunista di Cina
I documenti qui pubblicati fanno riferimento al biennio 1921-22 che segnò la compiuta entrata in scena della classe operaia cinese, con poderose lotte e la formazione dei primi sindacati classisti.
Per documentare il corso di queste lotte e delle organizzazioni operaie non abbiamo a disposizione gli scritti originali del periodo: difficoltà insormontabili abbiamo incontrato ad accedere alla stampa del Partito Comunista di Cina nei suoi primi anni.
In questo Archivio, l’unico documento che abbiamo reperito nella versione originale cinese è il Manifesto del Segretariato del Lavoro, che ne annunciava l’avvenuta costituzione nel luglio del 1921. Questo avrebbe dovuto essere subito pubblicato nel numero 6 di Gongchandang (The Communist) ma, a causa della sua uscita irregolare, fu stampato solo nella prima metà di settembre, probabilmente tra il 10 e il 17, firmato “Capo del Segretariato operaio cinese, Zhang Teli” (Zhang Guotao). Era stato abbozzato da Mering (Sneevliet), poi tradotto in cinese. Abbiamo verificato sull’originale la traduzione dal cinese all’inglese di Tony Saich (in “The origins of the First united front in China”).
Il Segretariato del Lavoro, della cui attività daremo una migliore esposizione nel prosieguo del lavoro in corso sulle origini del Partito Comunista di Cina, fu un organismo costituito dal giovane partito, composto ai suoi albori quasi esclusivamente da intellettuali, per entrare in contatto con la classe operaia cinese. Tramite il Segretariato del Lavoro, a partire dal biennio 1921-22 il Partito Comunista di Cina si legò al proletariato, partecipando e in alcuni casi dirigendone le lotte e favorendo il processo di organizzazione dei lavoratori in moderni sindacati di classe. La sua influenza crebbe abbastanza rapidamente tanto che proprio al Segretariato si deve l’iniziativa della convocazione del primo congresso dei sindacati cinesi nel maggio 1922.
Gli altri testi qui pubblicati sono tradotti da International Press Correspondence, l’organo dell’Internazionale Comunista che a partire dal 1921 vi pubblicava i suoi documenti ufficiali e articoli sulle principali questioni di interesse per il movimento comunista mondiale. Dall’InPreCor abbiamo tratto due articoli che riguardano la Cina, uno sul movimento di scioperi del 1922, l’altro sul processo di formazione dei sindacati sull’esempio di quello dei metalmeccanici di Canton.
Sul movimento degli scioperi, che segnò soprattutto il 1922, pubblichiamo il rapporto che Voytinsky fece al Quarto Congresso dell’Internazionale Comunista nel novembre del 1922, apparso sull’InPreCor numero 98 del 13 novembre 1922. Si tratta di un resoconto del vasto movimento di scioperi che si diffuse in tutti i principali centri industriali della Cina. In particolare nell’articolo si fa riferimento all’imponente sciopero di Hong Kong dei primi mesi del 1922, considerato uno spartiacque nella storia del movimento operaio cinese in quanto la sua vittoriosa conclusione costituì l’avvio di una ondata di scioperi che percorse tutti i centri industriali e favorì la convocazione del primo congresso dei sindacati cinesi, avvenimento che abbatteva tutte quelle barriere che ostacolavano l’organizzazione della classe operaia.
Sempre sull’InPreCor, numero 77 dell’8 settembre 1922, fu pubblicato l’articolo sulla fondazione del sindacato dei metalmeccanici a Canton.
L’esempio della sua formazione è significativo del processo che attraversò il sindacalismo di classe in Cina, con i primi sindacati moderni che nascevano differenziandosi dalle vecchie forme organizzative, le gilde, le associazioni provinciali, le società segrete, e che, nonostante errori e difetti in questo passaggio, approdò alla formazione di veri sindacati di classe, che saranno i protagonisti della guerra sociale che si scatenerà in Cina negli anni successivi.
La presenza di scritti sulla Cina sull’International Press Correspondence, destinata al movimento comunista di tutto il mondo, ben testimonia dell’importanza che era allora attribuita al proletariato cinese, alle sue lotte e alle sue organizzazioni, come reparto nelle prime linee dell’esercito proletario mondiale nella lotta internazionale per il Comunismo.
La fondazione del movimento comunista dei lavoratori
Dichiarazione del cinese Segretariato del Lavoro Zhang Teli e 26 membri
Luglio 1921
Il capitalismo in tutti i porti commerciali cinesi è in fase di sviluppo, in collegamento con quello in tutto il mondo.
Tutti i giorni le nuove forme di produzione distruggono i vecchi modi. E tutti i giorno i lavoratori vengono concentrati nelle fabbriche diventando appendici delle macchine. Sotto queste nuove forme del sistema produttivo qualsiasi lavoratore manuale, manovale, uomo o donna, è trattato da bestia da soma. Vendono la loro forza lavoro al capitalista espropriatore in cambio di un salario estremamente basso.
Il loro salario, guadagnato con sangue e sudore, per la maggior parte non basta a mantenere il loro sostentamento, ovunque si trovano scheletrici lavoratori affamati. Giorno e notte senza pietà, centinaia di migliaia di fanciulli devono lavorare nelle fabbriche tessili e altre con turni di 12 ore al giorno. Sotto questo sistema di sfruttamento la loro salute è sacrificata e sicuramente non hanno alcuna possibilità di ricevere un minimo di educazione.
Da una età estremamente giovane già posseggono le capacità naturali utili per i capitalisti cinesi e stranieri. È iniziato un nuovo tipo di schiavitù per i capitalisti. Uomini, donne e bambini nel peggiorare di queste dolorose condizioni di lavoro saranno sicuramente sospinti e costretti ad organizzarsi e ad attaccare i loro caporali, gli sfruttatori, per rafforzare la lotta. Questo è assolutamente certo.
Attualmente i lavoratori non hanno organizzazione, o solo inconsistenti o controllate dallo Stato. Naturalmente questo tipo di unità non soddisfa il bisogno di autodifesa o di resistenza. Inoltre è impossibile che i lavoratori vengano separati se del Ningpo, del Guangdong, dello Jiangbei, ecc. Questo è il metodo per dividerli.
Come può stare insieme questo tipo di organizzazione e lottare contro i capitalisti? I lavoratori tutti sono sotto una sola industria. Non sono divisi dalla regione, se maschi o femmine, vecchi o giovani. Tutti saranno organizzati in una sola organizzazione industriale. Noi dobbiamo adottare questa forma organizzativa unica, che sola verrà considerata forte. Solo allora i lavoratori potranno usare la loro forza organizzativa e impegnarsi nella lotta e nel lavoro per cambiare la loro condizione.
Il Segretariato del Lavoro cinese è nato da alcune organizzazioni di lavoratori a Shanghai, che è il centro dell’industria cinese. È una organizzazione generale che cerca di collegarsi con ogni organizzazione sindacale. Il suo compito è sviluppare le organizzazioni dei lavoratori propagandandone la necessità fra i lavoratori, per riunirle e riformare quelle esistenti, realizzare la coscienza di classe e inoltre stabilire buoni rapporti fra lavoratori cinesi e stranieri. Questa assunzione di compiti necessita della partecipazione di ognuno. Perciò noi chiamiamo tutte le organizzazioni esistenti ad aderire a questo Segretariato e ad avanzare insieme a noi.
Compagni del mondo del lavoro! Dalle esperienze all’estero sappiamo che quando iniziamo a impegnarci per i nostri diritti incontreremo molte difficoltà. La più grande è l’assenza di coscienza della nostra classe, il suo disimpegno. Ma il sistema capitalista cresce giorno dopo giorno. Siamo fortemente convinti che le organizzazioni dei lavoratori possono crescere e aumentare la propria forza giorno dopo giorno. Inoltre siamo convinti che il futuro sarà il mondo dei lavoratori.
Lavoratori di Cina! Dobbiamo affrettarci nell’organizzare l’associazione dei lavoratori.
Il movimento operaio in Cina
di G. Voytinsky
The Labor Movement in China
International Press Correspondence, Vol.2 numero 98, 13 novembre 1922
L’inizio del corrente anno in Cina sarà un periodo memorabile per il movimento operaio cinese.
Il 13 gennaio di quest’anno i marinai cinesi di Hong Kong sono entrati in sciopero. Lo sciopero si è esteso ai lavoratori di varie branche della produzione, attirando nella lotta contro gli inglesi e nell’entroterra della capitale più di 100.000 uomini che hanno durato circa due mesi fino alla vittoria finale degli scioperanti.
Lo sciopero di Hong Kong è stato senza alcun dubbio un episodio storico per il movimento operaio in Cina dal quale il proletariato cinese potrà contare nelle tappe successive della sua lotta contro il capitale. L’espressione: “ Prima dello sciopero di Hong Kong” e “dopo lo sciopero di Hongkong” divide le epoche del movimento operaio cinese.
L’effetto della prima rivolta organizzata degli operai cinesi è ancora sentita in tutta la gigantesca Cina.
Immediatamente dopo e anche durante lo sciopero di Hong Kong sono iniziati movimenti di sciopero a Canton e dintorni; poi lo sciopero ha invaso Shanghai, Hankau, la linea ferroviaria Pechino-Hankau, Tianzin e infine ha toccato la colonia portoghese nel sud della Cina e l’isola di Macao. Si è concluso con lo sciopero dei lavoratori postali di Shanghai e con lo sciopero in una azienda della English Tobacco.
Lo sciopero dei marinai cinesi e dei lavoratori portuali merita perciò una accurata attenzione da parte di tutti coloro che desiderano capire correttamente l’ascesa del movimento operaio cinese. Questo movimento sotto le condizioni attuali della Cina diventerà molto rapidamente un gigantesco fattore nella lotta per l’indipendenza nazionale della Cina, per la liberazione dalle catene dell’imperialismo.
Anche gli imperialisti danno a questo evento molta attenzione. La stampa inglese in Cina, che finora si limitava a sogghignare alle richieste operaie di migliori trattamenti e paghe più alte di pochi centesimi per quei poveracci di cinesi e marmaglia simile, questa volta ha trattato la questione seriamente e con inquietudine. La questione è stata anche riportata al parlamento inglese e molti imperialisti hanno minacciato l’invio di truppe nelle città cinesi. In verità l’imperialismo inglese ha ragione di aver paura. Lo sciopero di Hong Kong, iniziato con la richiesta dei marinai di un aumento del loro salario da 30 a 48 centesimi, è divenuto molto rapidamente un’azione anti-imperialista. Letteralmente tutta la popolazione cinese si è stretta attorno agli scioperanti in un’atmosfera di simpatia e sostegno generale. Il governo della Cina del sud ha sostenuto gli scioperanti cercando di utilizzare lo sciopero per il movimento di emancipazione nazionale. Le minacce del governo di Hong Kong non hanno spaventato né gli scioperanti né il Governo cinese del sud.
Apprendiamo dalla stampa inglese del periodo da gennaio a marzo di quest’anno il carattere e l’estensione di questo sciopero.
Quello che segue è un resoconto approssimativo tratto dalle informazioni ricavate dai giornali e dai periodici inglesi apparsi in Cina.
All’inizio solo 10.000 marinai sono scesi in sciopero. Dopo qualche giorno gli scioperanti hanno iniziato a lasciare Hong Kong per andare a Canton, in territorio cinese, dove sapevano che sarebbero stati accolti in una atmosfera di amicizia e dove sarebbero stati liberi dalla repressione da parte degli imperialisti inglesi.
Immediatamente dopo l’arrivo del primo gruppo di scioperanti, la popolazione lavoratrice di Canton, e in particolare le organizzazioni operaie, e ce ne sono 150 a Canton, iniziarono a organizzare attività di sostegno per gli scioperanti, alloggi e provviste di viveri.
Il partito di governo del sud “Gominden” organizzò incontri in favore degli scioperanti, incentrati sulle idee dell’indipendenza nazionale e della lotta contro i militaristi del nord. Anche le organizzazioni comuniste e l’unione dei giovani comunisti utilizzarono la situazione per indire assemblee e incontri.
Mentre il numero degli scioperanti saliva sempre di più le navi lasciavano Hong Kong per dirigersi a Canton. Al 1° febbraio il numero degli scioperanti ammontava già a circa 40.000 e nel porto di Hong Kong stavano alla fonda inattivi 166 piroscafi oceanici per un tonnellaggio sopra le 280,000 t. Intere organizzazioni operaie come La Gilda dei facchini, i portuali, e anche l’Unione dei lavoratori degli alberghi cessarono il lavoro simpatizzando con i marinai in sciopero. È interessante notare che lo sciopero si è esteso ai bassi ufficiali cinesi e agli impiegati di ufficio delle ditte inglesi.
In una parola, in conseguenza delle peculiari condizioni in Cina, divenne non solo una battaglia contro il capitale, ma assunse anche il carattere di lotta nazionale.
Il carattere di classe del combattimento diventava comunque giorno dopo giorno sempre più evidente.
Ciò è stato espresso in primo luogo dal fatto che si sono coinvolti nella lotta principalmente i lavoratori cinesi organizzati in sindacati. Così il sindacato dei meccanici di Hong Kong fin dall’inizio ha appoggiato le rivendicazioni dei marinai e ha minacciato di scioperare in caso di rifiuto. Questo sindacato, insieme al sindacato operaio delle ferrovie, ha convocato una riunione generale dove è stato deciso di appellarsi con una circolare a tutti gli operai delle ferrovie cinesi per chiedere un aumento delle paghe del 30% che sarebbe stato devoluto a sostegno dei marinai in sciopero.
I ferrovieri della linea Canton-Hangkou usarono questa opportunità per avanzare alla loro amministrazione una serie di altre richieste, tra queste una disciplina nelle questioni dell’assunzione e del licenziamento dei lavoratori.
Lo sciopero dei marinai ha trovato una reazione non solo fra le masse lavoratrici della Cina del sud ma anche nelle città industriali del nord e della Cina centrale.
Sulla linea Pechino-Hangkou, i ferrovieri attaccarono manifesti alle locomotive con la scritta: “Noi sosteniamo i marinai di Hong Kong”.
Gli operai tipografici di Hong Kong entrarono in sciopero “per prevenire che gli imperialisti stampassero falsi resoconti riguardo allo sciopero”.
A Shanghai, dove gli inglesi hanno cercato di introdurre i crumiri, i consigli sindacali hanno combattuto con successo contro questo tentativo.
I fatti sopra riportati sono di enorme importanza per il movimento operaio cinese. È cosa generalmente nota che le masse operaie della Cina, come l’intera popolazione cinese in generale, soffre di un patriottismo provinciale nel senso peggiore della parola. Gli stampatori a Shanghai che per esempio sono nativi di Canton si uniscono per la loro appartenenza provinciale ed esprimono una grande ostilità con gli operai della stessa fabbrica che per caso sono nativi di Pechino o di Shanghai. Non è solo l’effetto delle diverse lingue ma di una avversione generale fra nord e sud.
Lo sciopero di Hong Kong ha lanciato per la prima volta slogan di solidarietà di classe a scala nazionale, che si sono rivelati più forti dei pregiudizi e della tradizione del provincialismo. Gli interessi di classe si sono manifestati spontaneamente in questa forma concreta, così che questo sciopero lascerà dietro di sé tracce incancellabili nell’unificazione di tutto il proletariato cinese.
Non meno importante è un altra affermazione del movimento operaio cinese, realizzata per la prima volta nello sciopero di Hongkong, la questione del riconoscimento dei sindacati e della rappresentanza dei lavoratori costituita esclusivamente dai lavoratori stessi. Il governo inglese subito dopo la dichiarazione dello sciopero aveva sciolto il sindacato dei ferrovieri e dichiarato l’organizzazione illegale. I marinai allora compresero tutta l’importanza dell’attacco diretto contro il loro sindacato e dichiararono nelle trattative a Hong Kong con i datori di lavoro di voler chiedere, prima di discutere la questione dell’aumento del salario, il riconoscimento, come base per le trattative. del loro sindacato e che i suoi rappresentanti conducessero le trattative con i capitalisti. I marinai rivendicavano allo stesso tempo l’ingaggio di lavoratori esclusivamente attraverso le norme del contratto collettivo, così come la riassunzione di tutti gli scioperanti senza penalizzazioni.
Più a lungo durava lo sciopero, più chiaramente formulate e di vasta portata diventavano le richieste dei marinai. A quella di incremento della paga fu aggiunto che fosse esteso ai marinai in quel momento in mare e che fosse pagato dal 1° gennaio di quell’anno.
La richiesta per il riconoscimento del sindacato e l’ingaggio degli operai attraverso il sindacato ha portato alla ribalta per la prima volta in Cina la questione dell’unità di classe della classe operaia in tutta la sua portata. Ne è risultato che il sistema del sindacato di mestiere così come quello delle società private di cooperazione fra gli operai (gilde) hanno ricevuto un duro colpo. I marinai di Hong Kong durante lo sciopero si sono resi conto con estrema chiarezza che devono avere la loro propria organizzazione di classe e che è assolutamente necessario creare una organizzazione federativa con tutti i sindacati dei marinai in tutti i porti delle città del sud, del centro e della Cina del nord. Le delegazioni che sono state mandate dai marinai in sciopero in tutti i porti cinesi lo prova.
L’intera esperienza dello sciopero di Hong Kong è stata naturalmente apprezzata non solo dai marinai.
Questo sciopero possiede un enorme importanza rivoluzionaria per l’intero proletariato cinese. Si può presumere che tra le masse lavoratrici della Cina la vittoria dei marinai abbia posto fine completamente e definitivamente all’idea dell’invincibilità del capitale straniero, e principalmente inglese. Di fatto questa vittoria ha dato il via a ulteriori scioperi, di cui abbiamo già riferito, svoltisi dopo quello di Hong Kong.
Lo sciopero di Hong Long indica una limpida strada per la formazione di un movimento operaio attraverso l’organizzazione classista.
Dall’esame degli scioperi sopra citati si può rilevare un certo tratto comune a tutti. È il fatto di cui abbiamo parlato all’inizio: il movimento operaio cinese è allo stesso tempo un movimento per l’emancipazione nazionale.
Le organizzazioni operaie sono attualmente all’avanguardia nella lotta contro l’imperialismo. La borghesia cinese semplicemente si accoda sempre alla lotta degli operai cinesi contro il capitale straniero, ma l’iniziativa non parte più da loro, come avvenne ad esempio nel 1919 quando il boicottaggio delle merci giapponesi organizzato dai giovani rampolli della borghesia cinese, dagli studenti e dal mondo commerciale infuriò come un tornado su tutta la Cina.
Quest’anno, oltre allo sciopero di Hong Kong e in misura ancora maggiore nello sciopero di Macao c’è stato un movimento contro l’imperialismo straniero in Cina, la borghesia cinese si è unita a questo movimento e ha dato aiuto agli scioperanti.
Quando però l’ondata di scioperi si è propagata dai distretti cinesi esterni a quelli interni, ovviamente i rapporti della borghesia con la classe operaia si sono allentati. Lo sciopero degli stampatori di libri a Canton ne serva di esempio, spezzato dalla repressione del governo “rivoluzionario” del sud.
Perciò non sorprende che sia stata rigettata dagli operai la Risoluzione proposta al Congresso dei sindacati di Canton all’inizio di questo anno riguardo il riconoscimento del governo del sud.
Il movimento operaio cinese, come abbiamo visto, oltre alla lotta contro la politica coloniale degli imperialisti per la liberazione nazionale, conduce la lotta contro lo sfruttamento del lavoro da parte del capitale dell’entroterra. Attualmente il fatto che le organizzazioni dei lavoratori costituiscono la forza più attiva nella lotta contro il capitalismo straniero e l’imperialismo in Cina prova la crescita di queste organizzazioni e la loro importanza sempre crescente nella vita politica del popolo cinese.
Le masse operaie cinesi stanno perciò iniziando a prendere coscienza della loro forza, e rivelano la loro forza in forma organizzata. Questo è stato per il recente caso dei ferrovieri della linea Pechino-Hanghaut che hanno dichiarato che avrebbero interrotto il traffico se le truppe del nord fossero state inviate contro la Cina del sud. Si può dare per scontato che il proletariato cinese organizzato chiederà maggiori diritti economici e politici alla borghesia cinese quanto più parteciperà attivamente alla lotta contro il nemico comune del popolo cinese, contro l’imperialismo mondiale.
Il sindacato degli operai metallurgici a Canton
R.I.L.U. (Red International Labour Unions)
International Press Correspondence, numero 77, 8 settembre 1922
Il sindacato più forte e meglio organizzato di tutta la Cina è senza dubbio il Sindacato degli Operai Metalmeccanici a Canton. Specialmente questo sindacato si è impegnato in lotte importanti. Migliaia dei loro appartenenti sono stati colpiti da varie punizioni per la loro partecipazione alle lotte di classe del sindacato. Il sindacato è stato impegnato in molti scioperi e non ha subito sconfitte. Sebbene sia stato fondato solo di recente, e non abbia dirigenti che possano indirizzare il suo lavoro sulla giusta strada, ha tuttavia riconosciuto che l’emancipazione della classe operaia riguarda i lavoratori in prima persona.
Il sindacato venne fondato nel 1909. Ma a quel tempo l’organizzazione degli operai era praticamente impossibile per le difficoltà poste in atto dall’allora ancora esistente governo della dinastia Manciù. Fino al 1917 perciò il sindacato esisteva solo di nome. Quando la Cina diventò una repubblica, gli operai metallurgici di Canton indissero una conferenza generale a Hong Kong per rianimare le attività del sindacato. In uno spazio di tempo veramente breve, i metalmeccanici di Canton riuscirono a raccogliere circa 100.000 dollari. In pochi anni il sindacato divenne il centro del movimento operaio in tutta la Cina, incluso il distretto di Nang-Yuang.
Gli aderenti al sindacato – in tutto 156.000 – comprendevano quelli di Canton (16.900) così come di altre città. Il sindacato è diviso in 10 sotto-sezioni, per progettisti, modellisti, creativi, tornitori, artigiani, operai dell’acciaio, del rame, macchinisti, operai elettricisti e magazzinieri. Le questioni sindacali passano dal comitato esecutivo che consiste in 10 membri, al quale ciascuna delle dieci sezioni elegge tre ulteriori membri. Il comitato esecutivo elegge un presidente e gli aderenti di tutto il sindacato eleggono uno speciale presidente. Le finanze del sindacato derivano dai normali contributi degli affiliati. Al tempo dello sciopero si effettuavano raccolte speciali che servivano a procurare viveri per gli scioperanti. Un grande edificio è attualmente in corso di realizzazione, che conterrà l’intera sede del sindacato, il cui costo di costruzione ammonterà a circa 100.000 dollari.
Il sindacato sta cercando di istruire i propri membri in scienze economiche così da poter fondare delle scuole e organizzare la stampa. Il comitato esecutivo si è posto i seguenti compiti da realizzare nel prossimo futuro: 1. Istituire scuole per meccanici. 2. Pubblicare un giornale mensile per i meccanici. 3. Pubblicare un giornale settimanale. 4. Realizzare un laboratorio di modelli per meccanici. 5. Costruire un ospedale per gli operai. 6. Organizzare una scuola tecnica. 7. Istituire una cassa di risparmio per gli operai. 8. Un sanatorio per operai tubercolotici. 9. Costruire una casa di cura per anziani. 10. Organizzare giardini d’infanzia.
Negli ultimi due anni si sono effettuati tre scioperi nella città di Canton. Il primo sciopero è esploso a maggio in conseguenza della richiesta degli operai di paghe più alte. Lo sciopero si è concluso con un successo; il salario è stato aumentato di circa il 32,5%. Il secondo sciopero è stato nel novembre 1920 per la causa del sostegno alla provincia di Canton nella sua lotta per l’auto-governo. Anche questo sciopero ha raggiunto il suo scopo. Il terzo sciopero è del maggio 1921, quando gli operai hanno rivendicato un ulteriore aumento del salario e la riduzione delle ore di lavoro. Anche qui una completa vittoria dove i lavoratori hanno anche costretto i padroni a pagare le ore di sciopero. In questa maniera il Sindacato degli operai metalmeccanici di Canton conduce la propaganda, non solo con parole e comunicati ma anche nei fatti.
Il Sindacato degli Operai Metalmeccanici di Canton nonostante molti difetti ed errori, costituisce un importante fattore di sviluppo del movimento operaio in Cina. Il sindacato è ancora molto giovane, ed è ancora necessario che introduca una vera coscienza di classe fra i suoi aderenti. Solo allora sarà in grado di dispiegare la bandiera della rivoluzione sociale e portare la lotta a una positiva conclusione con l’abolizione del capitalismo.